HOSPITALITAS: casa circuito aperto… – A. Nocent
HOSPITALITAS:
casa circuito aperto
liturgia dei volti
dialetti del cuore…
Di Angelo Nocent
La filosofia scopre l’hospitalitas
I Fatebenefratelli nella Chiesa hanno l’arditissimo compito profetico che è sulle labbra di Gesù in sinagoga:
“Gli diedero il libro del profeta Isaia ed egli, aprendolo, trovò questa profezia:
18Il Signore ha mandato
il suo Spirito su di me.
Egli mi ha scelto
per portare il lieto messaggio ai poveri.
Mi ha mandato per proclamare
la liberazione ai prigionieri
e il dono della vista ai ciechi,
per liberare gli oppressi,
19per annunziare il tempo
nel quale il Signore sarà favorevole.
20Quando ebbe finito di leggere, Gesù chiuse il libro, lo restituì all’inserviente e si sedette. La gente che era nella sinagoga teneva gli occhi fissi su Gesù. 21Allora egli coDivenuto nel ‘32 cittadino francese, il retaggio
ebraico gli ha permesso di sviluppare
un modo nuovo di filosofare, elaborando
differenti apporti della tradizione
filosofica occidentale arricchiti e corretti
criticamente. Da qui il suo intervallare di
elementi fenomenologici ed esistenzialistici,
impreziositi di istanze dialogiche e
spunti biblici. Egli possiede una consapevolezza
che lo contraddistingue: la tradizione
del pensiero non può essere che aperta,
sempre disponibile a nuove letture e trascrizioni,
sempre oltre, nell’infinita complessità
della subtilitas applicandi. Non a
caso nell’introduzione all’edizione francese
del suo celebre Totalità e infinito, ha
scritto: “tutto il mio sforzo teoretico è
consistito nel tentativo di pensare la soggettività
ospitale”.
Mentre riporto queste considerazioni,
mi sovviene la fondamentale prima biografia
di San Giovanni di Dio, scritta dal
Castro. I santi vanno continuamente riletti,
sempre pronti a nuove interpretazioni.
Ma torniamo al Lévinas almeno solo
per accennare:
• L’Infinito-in-me di Cartesio diventa
nella sua riflessione l’infinito Altro che è
nel contempo sia l’altro uomo, il prossimo,
sia il totalmente Altro, Dio.
• L’Infinito della trascendenza può rivolgersi
a me solo attraverso il Volto di Altri.
• Questo Volto nella sua nudità, fin dall’inizio
mi rivolge una parola che mi accusa,
mi sospetta e mi turba, e insieme
già mi interroga e mi inserisce in una relazione
etica.
• Io non posso nascondermi al Volto
d’Altri, che esige aiuto e mi convoca come
responsabile.minciò a dire: “Oggi per voi che mi ascoltate si realizza questa profezia”. (Lc 4, 17-20).
Forse i Fratelli di San Giovanni di Dio, il cantautore nelle vie di Granada di “fratello uomo” e “sorella donna”, (Fate bene a voi stessi, fratelli…), chiamati a dare continuità alla Sua azione guarendo e liberando le persone più deboli della terra, non si rendono conto a sufficienza di possedere il più grande trattato di ospitalità che mai sia stato scritto: la Bibbia. Questo tesoro immenso non è sfuggito a Emmanuel Lévinas (1905-1995), un fecondo pensatore contemporaneo, nato in Lituania da una famiglia di origine ebraica ricca di valori religiosi e culturali che lo hanno segnato.
Divenuto nel ‘32 cittadino francese, il retaggio ebraico gli ha permesso di sviluppare un modo nuovo di filosofare, elaborando differenti apporti della tradizione filosofica occidentale arricchiti e corretti criticamente.
Da qui il suo intervallare di elementi fenomenologici ed esistenzialistici, impreziositi di istanze dialogiche e spunti biblici.
Egli possiede una consapevolezza che lo contraddistingue: la tradizione del pensiero non può essere che aperta, sempre disponibile a nuove letture e trascrizioni, sempre oltre, nell’infinita complessità della subtilitas applicandi.
Non a caso nell’introduzione all’edizione francese del suo celebre Totalità e infinito, ha scritto: “tutto il mio sforzo teoretico è consistito nel tentativo di pensare la soggettività ospitale”.
Mentre riporto queste considerazioni, mi sovviene la fondamentale prima biografia di San Giovanni di Dio, scritta dal Castro. I santi vanno continuamente ri-letti, sempre pronti a nuove interpretazioni.
Ma torniamo al Lévinas almeno solo per accennare:
- L’Infinito-in-me di Cartesio diventa nella sua riflessione l’infinito Altro che è nel contempo sia l’altro uomo, il prossimo, sia il totalmente Altro, Dio.
- L’Infinito della trascendenza può rivolgersi a me solo attraverso il Volto di Altri.
- Questo Volto nella sua nudità, fin dall’inizio mi rivolge una parola che mi accusa, mi sospetta e mi turba, e insieme già mi interroga e mi inserisce in una relazione etica.
- Io non posso nascondermi al Volto d’Altri, che esige aiuto e mi convoca come responsabile.
- Andare verso Dio non significa seguire la traccia del Volto, ma andare verso gli Altri Volti, che si iscrivono nella traccia.
- «Il fatto che il rapporto col divino – scriveva nel 1957 – si incroci col rapporto verso gli uomini e coincida con la giustizia sociale, ecco lo spirito totale della Bibbia giudaica. Mosé e i profeti non si danno pena dell’immortalità dell’anima, ma del povero, della vedova, dell’orfano, dello straniero. Il rapporto con l’uomo in cui si realizza il contatto col divino non è una sorta di amicizia spirituale, ma quella che si manifesta, si sperimenta e si realizza in un’economia giusta e di cui ogni uomo è pienamente responsabile… La responsabilià personale dell’uomo verso l’uomo è tale che Dio non può annullarla».
- “Essere io significa non potersi sottrarre alla responsabilità. Quell’eccesso di essere, quell’esagerazione che si chiama essere io….si compie come una turgescènza nella responsabilità. La mia messa in questione ad opera dell’Altro mi rende solidale con Altri in modo incomparabile e unico. L’unicità dell’io è il fatto che nessuno può rispondere al mio posto…”.
- “l monoteismo è impossibile, dice Lévinas, se non si è giunti all’età del dubbio, della solitudine e della rivolta: esso rompe l’incantesimo del mondo, libera l’uomo dalla malìa del mito; l’ebraismo che l’annunzia al mondo è “una religione di adulti”. La parola divina incontra l’intelletto nell’esistenza umana, è inseparabile dall’esercizio dell’intelligenza. È gloria di Dio aver creato un essere capace di cercarlo partendo dalla separazione, partendo anche dall’ateismo”.
- La fede in Dio è il desiderio mai appagato di infinito. Il divino non si mostra, è silente anche davanti alla tragedia (Levinas ha vissuto l’epoca dell’olocausto), tuttavia vi è una traccia del divino nel desiderio di Dio, il desiderio dell’infinito, dell’assolutamente Altro inaccessibile all’essere individuale dell’uomo.
- Dunque Dio è il Desiderabile, pur non mostrandosi all’uomo Egli è l’oggetto del suo desiderio. Ma questo desiderio non si fonda su una vana volontà di desiderare, il desiderio viene suscitato dal Desiderabile, ovvero il moto dell’animo che porta l’uomo a desiderare l’infinito altro da sé è suscitato al fondo dalla presenza del divino, che è assolutamente altro rispetto all’uomo. Dio esiste, ma non si mostra, e pur non mostrandosi suscita il desiderio di Sé negli uomini (la fede).
- «Quando un uomo risponde al volto altrui che lo cerca, quando risponde “Eccomi” alla richiesta dell’altro, allora in quell’istante Dio “viene” in mente, dice Lévinas. “Venire” è quello che conta, poiché è un avvenimento, una discesa. Il cammino verso Dio non prescinde mai da questa riposta all’altro».
Lascio agli appassionati lettori di approfondire il suo originale pensiero. Dal momento che continuiamo a parlare di hospitalitas, mi sembrava obbligatorio citarlo, giacché egli ha elaborato un linguaggio dell’accoglienza che poggia su tre pilastri fondamentali: fraternità, umanità, ospitalità. Costretto a sorvolare, mi premeva almeno insinuare il sospetto che sotto questo pensiero si celi una miniera di intuizioni tutta da esplorare. Ai discepoli di san Giovanni di Dio, religiosi e laici che hanno la grazia di vivere l’inizio del terzo millennio non è lecito tenersi a distanza dalla filosofia.
Estranei chiamati a a co-ospirtarsi
Per quanto impegnativa e non esaustiva, tale premessa era necessaria. Il Lévinas ci ha posti sulla traccia di Dio che pone sulla traccia a servizio dell’altro. La Bibbia è il grande codice che rende possibile pensare il rapporto tra gli umani al di là del classico modello della conquista e del possesso. Il Levitico sancisce e fissa, per bocca di Adonai, il Dio di Israele, un grande principio che i potenti di ogni tempo non hanno mai digerito: “la terra è Mia e voi siete residenti e ospiti presso di me” (Lv 25, 23). Se così è, in essa gli uomini possono starci solo da “stranieri e inquilini”, cioè da ospiti nel duplice senso di ospitati e ospitanti. Secondo questo modello antropologico che Israele si è dato come fondativo, l’uomo, ospitato da Dio, è chiamato a sua volta a farsi ospitante come Dio. Ne deriva che, nella sua duplice dimensione di ospitato e ospitante, l’ospite è sempre traccia o luogo del divino.
Il congegno dell’hospitalitas rotea su questo perno: “Schiavi noi fummo di Faraone in Egitto donde ci fece uscire il Signore nostro Dio con mano forte e con braccio disteso. Se il Santo, Benedetto Egli sia, non avesse fatto uscire i nostri padri dall’Egitto, noi, i nostri figli e i figli dei nostri figli saremmo ancora soggetti a Faraone in Egitto…” (Es 12,1-28). Israele straniero rappresenta la condizione umana. Prendiamo l’immagine del mendicante: in essa posso vedere la mia fotografia, la mia precarietà. Come potrei superarla? Da solo mai. Ma nell’unica prospettiva possibile: la solidarietà reciproca. Io schiavo, straniero, povero, mendicante, inquilino…I nostri schemi culturali inorridiscono.
San Giovanni di Dio, un portoghese, quindi uno straniero, davanti alla sua fotografia, si compiace della sua debolezza. Lui, bisognoso di ospitalità, si fa casa aperta, ospitale. Con gli affetti del cuore, mette in circolazione legna, fuoco, pentole, pane, galline, coperte, tisane…Detto per inciso, è lì che nasce la prima “Compagnia delle opere”, un po’ diversa da quella attualmente in circolazione. Lui fa girare le merci, i soldi, le persone…a modo suo: debiti su debiti, per Cristo. Gambe, spalle, sporta, bastone e fuoco di carità nel cuore. Un sovvertimento delle leggi economiche di ogni tempo.
Ho ripescato un’intervista che Gian Luca Sacco ha fatto al teologo Carmine Di Sante, studioso del tema. La domanda:
- Ma dobbiamo quindi identificare lo straniero con il mendicante?“Questo è certamente il primo significato, ma direi che nella Bibbia se ne danno almeno altri due.
- C’è innanzitutto quello dello straniero come alterità, metafora dell’alterità dell’altro in quanto altro. Anche mio figlio è straniero a me, anche mia moglie è straniera a me, anche il mio vicino è straniero a me. L’ alterità – di cui lo straniero è il paradigma – per la Bibbia è il tratto costitutivo dell’umano, al di là della sua desiderabilità.”
- “Poi c’è un aspetto più profondo: lo straniero come paradigma dell’umano ospitale. “
Il Levitico è molto esplicito: “Quando un gher [uno straniero] dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto. Il gher dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato tra di voi. Tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati gherim nel paese d’Egitto. Io sono il Signore vostro Dio” (Lev 19,33-34). Come si può constatare, la dichiarazione finale significa che questa non è una esortazione etica ma una volontà rivelata.
Il gher, lo straniero, è un caso concreto e molto ben definibile. Epperò il concetto va esteso. L’amore del prossimo riguarda ovviamente anche i connazionali e diventa più difficile man mano che il cerchio del prossimo si stringe intorno a me. Se il Levitico 19,18 afferma un concetto che ormai noi abbiamo acquisito e radicato nel cuore, ossia l‘ “amerai il tuo prossimo come te stesso”, il midrash (un metodo di interpretazione della Scrittura) ci fornisce un’altra lettura possibile: “amerai il tuo prossimo perché è te stesso”. A guardar bene, la parabola del Samaritano è la vicenda di due lontani che diventano vicini a tal punto che ognuno ritrova nell’altro il senso del suo esistere.
In base a versetto del Levitico, si può dire del prossimo, e a maggior ragione dello straniero, del gher, quello che i maestri dicono di Dio. Dio è lontano e vicino. Anche il prossimo è lontano e vicino. La mia identità riposa proprio su questo rapporto del lontano col vicino. Non dimenticando che, se il prossimo è il lontano che diventa vicino, anch’ io sono un lontano che deve diventare vicino. Per dirla con il Lévinas, nella considerazione del prossimo non basta dire: “Ci sono io, e intorno a me c’è il prossimo”; io sono un IO e un TU, ma anche tu sei un TU e un IO.”
Israele, a differenza degl’altri popoli che tendono a rimuovere le negatività e le oppressioni subite nella storia, non solo non occulta il suo passato di straniero e di oppresso ma ne fa memoria annualmente: “schiavi noi fummo in Egitto.” Sostiene il Di Sante che “questa memoria rappresenta nella storia umana una vera rivoluzione culturale perché con essa viene decostruita l’idea della forza o potenza come principio dell’umano, come invece emerge nei racconti fondatori della maggior parte delle altre culture umane. Qui va colta la novità assoluta di Israele: nell’aver collocato al centro del suo racconto fondativo non sé come eroe ma sé come straniero. L’eroe chi è ? Chi si afferma con un di più di forza e di potenza e così istituisce un ordine che, per definizione, è sempre l’ordine della forza e della potenza (si pensi ad esempio al racconto fondatore di Roma con Romolo e Remo)”.
Anche questa premessa biblica, pur solo accennata, è fondamentale. Da un lato ci è stato detto da dove veniamo e dall’altro ci è stata indicata la rotta da seguire se non vogliamo smarrirci nel deserto delle contraddizioni. Ciò presuppone una rivoluzione culturale personale ed istituzionale, una metànoia che è cambiamento di mentalità.
Proviamo ora a calarci nella realtà di “Religiosi Fatebenefratelli e laici del terzo millennio che si sentono interpellati a condividere nella Chiesa il loro peculiare carisma”. Entrambi si vedono coinvolti in un processo di ripensamenti che li spinge a mettere a fuoco il teleobiettivo per carpire il segreto – se così si può dire – della spiritualità Juandediana o Giovandiana, ossia il Vangelo della compassione viscerale, espresso tradizionalmente col termine hospitalitas. Il vocabolo, se non viene recepito e recuperato nei suoi originari significati biblici, rischia di essere interpretato in modo riduttivo. Infatti, chi traduce a orecchio il vocabolo latino è portato ad abbinarlo al concetto di ospedale ed al parente stretto che è la sanitas. Dove “salute”, a sua volta, non andrebbe intesa come il semplice contrario di malattia ma un ben-essere che abbraccia tutto l’uomo, nelle sue componenti inscindibili, fisica, psichica, spirituale e nel complessivo arco temporale..
Dunque, ciò che il termine sottintende è complesso e senza l’aiuto dello Spirito, finisce per diventare minestra riscaldata, sistematicamente propinata ai commensali i quali, a lungo andare, già con l’ olfatto percepiscono subito se mancano i profumi genuini dell’orto fresco di giornata. Invocarlo è doveroso, crederci è determinante. Diversamente, non è possibile penetrare, in qualche modo, nel cuore del Padre, nel cuore di Dio che il Maestro ci rivela.
Gesù, il dimorante nella Trinità, ci apre la sua abitazione, c’invita, ci ospita, ci mette a nostro agio: “Fai come se fossi a casa tua. Ciò che è Mio è tu”. Il Suo modo di presentarsi è genuino:“Venite e vedrete”. Tutti noi siamo vittime di un pregiudizio che affonda le sue radici nel marcionismo, l’eresia del secondo secolo dopo Cristo e che consiste nell’aver pensato e tramandato fino ai nostri giorni che il Dio ebraico è il dio cattivo, della legge e della severità. Invece no, il Dio di Israele è il Dio che asciuga le lacrime (cfr Esodo 2 e 3) e ascolta il gemito del suo popolo. Ciò è così vero che il Dio degli ebrei, benevolente e accogliente, si è “visibilizzato” definitivamente, ossia “si è incarnato”, come diciamo noi cristiani, nell’ebreo Gesù di Nazareth, attraverso il suo “sì “ al Padre e all’uomo sulla croce. Questa è la specificità del cristianesimo. Ma il Dio di Gesù è il Dio dell’esodo, sia chiaro! Basti pensare al salmo 56, dove si dice che Dio raccoglie nel suo otre tutte le lacrime e poi temendo che se ne dimentichi le iscrive tutte nel suo libro! E’ quanto poi è venuto a fare Gesù con le sue opere taumaturgiche, guarendo malati, ciechi e storpi, e con la sua morte in croce, amore estremo donato a chi lo uccideva!
Se ospitalità e umanizzazione sono i temi a lungo dibattuti in questi anni, mai i problemi connessi hanno trovato soddisfacente soluzione, giacché le difficoltà non sono organizzative ma culturali. Con un occhio fisso sulle radici e l’altro sulla contemporaneità, anche per ricollegarmi alle riflessioni precedenti, riprendo l’intervista che Luigi Dall’Aglio qualche tempo fa ha posto all’accademico tedesco Dietrich von Engelhardt:
…Lei si propone di “umanizzare” la medicina. Ma è possibile oggi attuare quel modello ideale di medico?
“A Lubecca si tiene un corso teorico di medical umanities e poi un corso pratico, durante il quale i giovani medici stabiliscono un rapporto psicologico con i pazienti degli ospedali. Oggi il malato cerca nel medico anche un consigliere, un amico, una guida, una persona di cui fidarsi. Bisogna ridare centralità al rapporto medico-paziente. Nel Medioevo questo rapporto era più ricco che mai: dietro ogni dottore c’era la figura del Christus Medicus e dietro ogni malato c’era la Passione di Cristo. Ora questo rapporto deve recuperare i suoi significati antropologici e metafisici”. I chirurghi dicono: stamane ho operato due ulcere. Non dicono: stamane ho operato due malati di ulcera.
Il tecnicismo può portare alla sistematica indifferenza?
“La storia della medicina ci insegna molte cose. Il medico ideale ha doveri, diritti e virtù. Da Ippocrate a Victor von Weizsacker, il dottore è un uomo che soccorre un altro uomo in una situazione di emergenza. Aristotele contrappone al “medico degli schiavi”, che tratta male il paziente, il “medico degli uomini liberi” che col paziente dialoga, gli spiega la terapia e lo coinvolge. Il teologo e filosofo Origene un medico che “soffre con chi soffre, piange con chi piange”, insomma condivide la stessa condizione del malato. Paracelso sostiene che il medico deve amare il paziente più di se stesso e sacrificarsi per lui. E’ il “medico-agnello” che Paracelso distingue dal “medico-lupo” e dal “medico delle erbacce”, la cui scienza è solo libresca”.
Ma basta inserire le “medical umanities” nelle facoltà universitarie per rendere più umana la medicina?
Certamente no. Questo è solo il primo passo. Per ridare alla medicina quella dimensione più ampia che ha perduto nel tempo, bisogna cambiare una mentalità. Cominciando da alcuni concetti generali. Che cos’è la malattia? E che cos’è la salute? Per l’Organizzazione mondiale della sanità, salute è “lo stato di completo benessere, fisico, psichico e sociale, e non soltanto la mancanza di malattia”. Eppure anche questa definizione è inadeguata. In realtà, la salute è molto di più: è anche capacità di sopportare le ferite della vita, le malattie, l’handicap, l’avvicinarsi della morte. In ultima analisi, salute è saper fare fronte alla morte”.
Circuito aperto
Dopo le considerazioni suggerite dai Libri dell’Esodo e del Levitico e dagli interrogativi che pone l’accademico tedesco e dalle sue conclusioni, deduco che l’hospitalitas non può avere il significato di ruolo umanizzante, demandato agli operatori sanitari, ma di porta comunicante con lo Spiritum hospitalitatis. Dunque: circuito aperto, casa, liturgia di volti, dialetti del cuore, attenzione, coinvolgimento, Chiesa, preparativi alle Nozze…
Parole vuote, astratte? No, non c’è motivo di demoralizzarsi. Mi sovvengono le parole della tenerezza che Isaia mette in bocca a Dio quando parla di noi come persona, sposa: “Mia cercata, mia desiderata, mio tesoro, mio orgoglio”. I votati all’ospitalità, con o senza voti, sono inviati a sussurrare a coloro che sono nella sofferenza parole di consolazione che andrebbero conosciute a memoria:
” 1Per amore tuo, Gerusalemme, non tacerò finché non sarai liberata
e non risplenderai come luce.
Per amore tuo, Sion, non mi darò pace finché non sarai salvata
e non brillerai come una fiaccola accesa.
2 Allora le nazioni vedranno che il Signore ti ha liberata,
tutti i re ammireranno la tua gloria.
Avrai un nome nuovo che il Signore stesso ti darà.
3Nelle mani del Signore diventerai una corona splendida,
un diadema regale.
4Il tuo nome non sarà più “Città abbandonata”,
il tuo paese non si chiamerà più “Terra desolata”.
Invece il tuo nome sarà “Gioia del Signore”
e la tua terra si chiamerà “Sposa felice”.
Infatti sarai veramente la delizia del Signore,
e la tua terra avrà in lui uno sposo.
5Come un giovane sposa una ragazza, così il tuo creatore sposerà te.
Come l’uomo gioisce per la sua sposa, così il tuo Dio esulterà per te. (Is 62, 1-5)
Lasciatemelo dire: non vi sembra di avvertire in queste parole le palpitazioni del Crocifisso-Risorto? Non avvertite profumo di pane caldo che esce dal forno? Che cosa deduco? Due immagini suggestive: che lo Spiritum hospitalitatis si propone di “divinizzare” l’uomo: formare con la “sposa felice” una sola Carne. Ma ne parleremo un’altra volta;e che lo Spiritum hospitalitatis intende “metter sù casa”, celebrare nozze, legami…E ne parleremo la prossima volta.
( 2 parte )
Laici o religiosi, coloro che pensano di progettarsi il futuro in solitudine, si troveranno soli anche a realizzarlo. Coloro che condividono il progetto di Dio, avranno sempre alle loro spalle il Sostenitore. Laico o religioso, colui che non fa l’esperienza di essere accolto, ospitato nelle mani di un Padre, trascinerà dietro di sé questa segreta nostalgia di un padre che non c’è perché rifiutato, respinto. Quando non desidero il Padre, allora cerco, voglio, pretendo, strappo l’eredità, pretendo la mia parte….
Cominciamo subito col dire che non c’è ospitalità senza una tenda, un luogo, un tetto, una casa, un ospedale, una Chiesa, un cuore….
In principio è la Trinità. Gesù è l’inviato per introdurci nella Casa del Padre: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo.” (Gv 10,9)
Abramo. E’ il primo credente nel Dio unico. Non c’è lo spazio per approfondire e mi limito al fatto. Mentre soggiorna con la sua tenda di nomade presso le Querce di Mamre,succede che “Il Signore, JHWH, apparve ad Abramo” (cfr. Gen 18,1). Ciò che è strano è che Abramo in realtà incontra tre uomini stranieri che lui guarda con occhi ignari e sorpresi. Si fa incontro a loro per fermarli al passaggio e mostra una pressante deferenza perché accettino di essere ospitati e ristorati (cnf. Gen.18,1ss).
Sconvolgente: egli crede di accoglie i tre stranieri e si ritrova visitato da Dio (il Volto nei Volti). Così scopre le Sue intenzioni che sono tutte rivolte a operare la salvezza dell’umanità (Is 53) e si ritrova padre di una moltitudine di credenti, più numerosa dell’arena del mare.
Maria. Per capirla bisogna prendere in mano il testo evangelico (Lc 1,26-38) e sottolineare verbi e aggettivi. Fraternità, di una Compagnia. Guai a perdere di vista il “sogno” di Maria che è il sogno di Dio. Esso va ricordato tre volte al giorno con la preghiera dell’”Angelus”. A quell’ Evento che determina, incide, conta davvero sulla mia esistenza, devo ostinatamente riferirmi.
Dunque, in principio è la casa:
- Dio ha una casa
- Dio è la Casa
- Abramo ha una tenda
- Abramo è una tenda (Gen 18, 1ss)
- Maria ha una casa
- Maria è una casa
- Io ho una casa
- Io sono una casa
Tutti modi per evidenziare il dare e l’avere dell’ admirabile commercium. Ma ecco i paradossi:
- Gesù non ha dove posare il capo: “Le volpi hanno una tana e gli uccelli hanno un nido, ma il Figlio dell’uomo non ha un posto dove poter riposare.” (Mt 8,20)
- E’ venuto ma…” È venuto nel mondo che è suo ma i suoi non l’hanno accolto.
- Alcuni però hanno creduto in lui. A questi Dio ha fatto il dono di diventare figli di Dio. Non sono diventati figli di Dio per nascita naturale, per volontà di un uomo: è Dio che ha dato loro la nuova vita.” (Gv 1, 11-13)
E sua Madre, mentre era in casa, una casa “aperta” all’invisibile, ha aperto al Misericordioso che chiedeva ospitalità nel suo utero. “Vergine madre, figlia del tuo Figlio…”(Dante), “Et Verbum caro factum est”.
Ha ragione il servita Ermes Ronchi quando dice che noi tutti viviamo di ospitalità. Nel pane che spezziamo e che ci nutre c’è la storia di infinite mani… Un tessuto di debiti è la nostra vita. Esistere non è un diritto, prima ancora è un debito. Siamo in debito verso Dio, verso la storia e il lavoro di tanti, e dal momento che iniziamo ad esistere, esistiamo in alleanza. Viviamo dentro l’avere e il dare di eterne alleanze, di eterne comunioni. Da altri a noi, da noi ad altri: tutto è circuito aperto. Il debito di esistere si paga solo restituendo alleanza.
Allora, se in principio vi era una casa, se ci vuole una casa per l’alleanza, religiosi e laici non possono optare che per un condiviso ideale di costituire una casa comune, la Fraternità.
Quale Fraternità?
- La Fraternità (composta da religiosi e laici collaboratori del Vangelo) sarà edificata e vissuta come polifonia dell’esistenza, degli affetti, degl’interessi, nella misura in cui si fonda sul modello e si muove sulle orme di Maria.
- La Fraternità (un sogno, per il momento, ma non utopia) avrà consistenza nella misura in cui si rivelerà un crescendo nella polifonia delle relazioni e degli affetti.
- La Fraternità aperta, nella misura in cui avrà capacità di accogliere, si dilaterà fino agli estremi confini della terra, per via della promessa:
”1Dopo questi fatti il Signore parlò in visione ad Abramo: – Non temere, – gli disse, – io ti proteggo come uno scudo. La tua ricompensa sarà grandissima.
2Ma Abram rispose: – Signore, mio Dio, cosa mai potrai darmi, dal momento che non ho figli? Ormai sto per andarmene e l’erede in casa mia sarà Eliezer di Damasco. 3Ecco, tu non mi hai dato nemmeno un figlio, – continuò a dire Abram, – e così un servo della mia famiglia sarà mio erede! 4Il Signore rispose: – No! Non il tuo servo, ma uno che nascerà da te sarà il tuo erede. 5Poi lo condusse all’aperto e gli disse: “Contempla il cielo e conta le stelle, se le puoi contare!”. E aggiunse: “I tuoi discendenti saranno altrettanto numerosi”. 6Abram ebbe fiducia nel Signore e per questo il Signore lo considerò giusto.” (Gen 15, 1-6)
La crisi di vocazioni affligge un po’ tutti. Ma le parole sono consolanti: “No! Non il tuo servo, ma uno che nascerà da te sarà il tuo erede”. Mi vengono in mente i “laici collaboratori”. Saranno eredi nella misura in cui ri-nasceranno. Non ci sono fughe in avanti per nessuno. Dunque:
La Fraternità, come eredi di Abramo, secondo le promesse del Misericordioso: “27Con il battesimo infatti siete stati uniti a Cristo, e siete stati rivestiti di lui come di un abito nuovo. 28Non ha più alcuna importanza l’essere Ebreo o pagano, schiavo o libero, uomo o donna, perché uniti a Gesù Cristo tutti voi siete diventati una cosa sola. 29E se appartenete a Cristo, siete discendenti di Abramo: ricevete l’eredità che Dio ha promesso.” (Gal 3,29)
Fraternità di donne e uomini per essere, come il suo capostipite, costruttori di futuro: “nascerà…avrai…sarà…farò…”.
Quella di Maria è un’esistenza fatta di quotidiano. I suoi gesti, le sue parole, i suoi sentimenti, sono quelli ordinari di ogni famiglia: convive con il mistero di un discorso di salvezza che sente fare in Sinagoga, si misura con le situazioni di ogni giorno, dilata le relazioni, ama un uomo di nome Giuseppe, lo sposa, vive di stupore…
Nulla di straordinario mai, tutto si appoggia sul feriale e sul carnale:
- attingere acqua,lavare, pulire, accendere il fuoco, cucinare, rammendare…
- un figlio da crescere e che uscirà di casa sui trent’anni,
- accudire un marito artigiano che pialla, prega, pensa…,che accetta di essere “solo” per Dio.
Papa Ratzingher è venuto a dirci che “in quella casa e in quell’ atmosfera sono le radici nascoste della Chiesa”.
- Allora la casa come luogo primario della vita. Se non ho casa, sono uno “sbandato”.
- Anche la Chiesa è casa. Ora e per sempre, casa del Misericordioso per gli uomini.
- La mia casa, la tua casa, la Chiesa, la Fraternità…Che, se ogni realtà conosce i giorni della festa, fa l’esperienza anche delle lacrime e delle notti insonni: ha figli prodighi che sbattono la porta, conosce le trepidazioni dell’attesa di chi tarda a tornare, supplica il Misericordioso per quelli che non hanno nessuna intenzione di rincasare, conosce il patire di separazioni, la perdita di salute e di senno di qualche componente…
- Ma, se la casa è costruita sulla roccia della PAROLA DI DIO, regge agli scossoni, resiste ai terremoti.
Maria riceve nel salotto di casa
L’abbiamo detto altre volte: l’hospitalitas è termine astratto: se non è casa, non è nulla.
La Fraternità è chiamata a un progetto edilizio: dare casa a chi non ha casa, costruire case accoglienti dove si può fare l’esperienza dello Spiritum Hospitalitatis, di Colui che introduce nella Trinità. Perché è lo Spirito che trasforma un’abitazione, una stanza, un luogo, una dimora, un ospedale, una Chiesa… in momento di condivisione e sala di rianimazione, facendo respirare il Signore della vita.
Perché non ha senso una casa in astratto se non nei libri di architettura. E le case “sfitte”, sono strutture inanimate, natura morta.
La casa edificata sul modello di Nazareth deve avere l’inquilino: uno che apre le finestre, arieggia, guarda fuori, accende il fuoco, mette sù la pentola, prepara la tavola, avvia la lavatrice… Il suo orecchio è sempre attento al campanello, al telefono…e, se bussano, apre, non riceve fuori dall’uscio, sul pianerottolo, ma fa accomodare, offre un bicchiere, ascolta, invita a condividere il “boccone”, si fa in quattro per esaudire un favore, una richiesta, ha un letto per l’ospite…
La Fraternità inizia così: da un progetto edilizio di ri-strutturazione. Il Battista direbbe: di ri-conversione. Lascio alla fantasia di ognuno le applicazioni e le implicazioni.
E’ un punto di vista. Ma, proprio perché discutibile, non andrebbe scartato a priori. A chi trova pretesti “spirituali” per non sporcarsi le mani, il mistico solitario dell’Hoggar dichiara: “C’è un caso in cui bisogna resistere al male con la forza… è quando si tratta non più di difendere se stessi ma di proteggere gli altri… Occorre forza per difendere i deboli, gli innocenti oppressi contro i loro oppressori… Lo spirito di pace non è uno spirito di debolezza ma uno spirito di forza”.
Di quale forza sta parlando fratel Carlo di Gesù? Della violenza militare? Della guerra giusta? No, parla di quella descritta da Geremia:” Ed ecco io oggi faccio di te come una fortezza, come un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i sacerdoti e i possidenti: ti combatteranno ma non prevarranno” (Ger 1,18-19).
La vista dei nostri limiti, l’indifferenza generale in cui viviamo, spaventano. Ma non bisogna temere: possediamo l’arma vincente che è lo Spirito Santo, la potenza che viene dall’Alto. Guai a fidarci di un dio prodotto della nostra fantasia. Non si può vivere a lungo di maschere e di idoli. Fatebenefratelli vuol dire “misurarsi con l’Oltre, su quel Mistero assoluto che intimorisce ed attrae, di cui dolore e morte sono come sentinelle” (Carlo Maria Martini). Hospitalitas: fraternizzare per trasfigurare. Cosa? La medicina, la sofferenza. Le cose penultime e quotidiane con lo sguardo sull’ultimo orizzonte e sull’ultima Patria ci permettono di realizzare la promessa. “ In verità vi dico: anche chi crede in me , compirà le opere (tà érga) che io compio e ne farà di più grandi (meízona), poiché io vado al Padre” Gv 14, 12).
Annota Enrico Ghezzi che “Gesù non è per i discepoli soltanto un modello delle opere da lui compiute e che anche loro faranno: “ma egli stesso sarà l’autore delle opere che essi compiranno” (Leon Dufour). Se infatti si legge con attenzione il testo ci si accorge che il credente farà non le opere che ha fatto Gesù, ma quelle che Gesù sta per fare (tà érga egð poið, al presente) e che farà (poiēsei, al futuro): il Glorificato continua ad agire presso il Padre (cfr.v.12 d) a favore del mondo; la missione di Gesù, nel tempo e nello spazio, continuerà attraverso i credenti. Esiste una sinergia: come l’agire del Padre passava in quella di Gesù, così l’agire del Figlio passa nel “fare” dei discepoli” (in “Come abbiamo ascoltato Giovanni”, pag. 904).
Aggiungo io: religiosi e laici, “collaboratori della Vertità”
Mentre sto per inoltrare l’elaborato alla Redazione, ho appena terminato di leggere con appassionato interesse l’ultima fatica di Don Luigi Verzé, il fondatore del S. Raffele, Ospedale di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico e dell’Università Vita-Salute. “Io e Cristo”, Ed. Bompiani è il libro che mancava per cogliere le motivazioni fondazionali dell’Opera Monte Taborm, sfatare l’idea abusata del prete-manager, sostituita da una più forte: “Qui sta il fondamento che mi fa dire e sentire socio di Gesù Cristo. Io socio di minoranza perché sono rerale e vivo il Lui come Lui in me”. Una voce profetica destinata a risvegliare religiosi e laici, credenti e non, per ritrovare il senso di un cammino indicato da Gesù, sperimentato nella Chiesa Apostolica, ripetutamente attualizzato dai Santi della Carità, tutte donne e uomini innamorati di Cristo che si sono fidati della menzionata promessa. La tesi di fondo del Verzé, da mezzo secolo sulla breccia, è che l’amore fa miracoli. Sentitelo: “Fatevi conquistare da Dio e sarete perennemente creativi, come Lui”. “Guarite i malati” e “Se avete fede, spostate le montagne”. (cfv Mt 21,21) “Noi siamo Gesù il Cristo di questo millennio: questa è la vocazione alla santità, questa è la impostazione, o tesi, che nasce dall’ andate, insegnate e guarite (cnf.Mt 10, 5-8), e prima ancora dall’evento dell’Incarnazione” (p.628).
Come non essere d’accordo con questa voce profetica? La sua è una provocazione culturale destinata ad oltrepassare i confini del mondo sanitario. “Andate, insegnate e guarite” (cfr. Mt 10, 5-8) è il mandato per la Chiesa intera: “Voi siete il sale della terra…Voi siete la luce del mondo” (Mt 5, 13-14). I Fatebenefratelli, religiosi e laici, hanno una sola risposta condivisa: eccoci!
Da “FATEBENEFRATELLI” Ago/Sett n. 3- Ott/dic – 4 – anno 2007
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