“LA FEDE E’ UN FUOCO” – A cura di Angelo Nocent
Posted on novembre 25th, 2009 by Angelo
“LA FEDE E’ UN FUOCO”
“La carità
è come l’incendio
che si alimenta
propagandosi”
Sono Parole sue, di Igino Giordani, chiamato “Foco“.
Nessuno ormai ricorda che il suo cuore infuocato ha radici lontane, nessuno sospetta che ad infuocarlo abbia contribuito non solo l’invocato Spirito Santo ma anche il suo inviato speciale San Giovanni di Dio.
Sì, a buon diritto si può sostenere che Igino Giordani, confondatore insieme alla stessa Chiara Lubich, a don Pasquale Foresi ed al vescovo tedesco Klaus Hemmerle del Movimento del Focolare, è un figlio di San Giovanni di Dio e che ai Focolarini come ai Fatebenefratelli – un’unica sua famiglia – abbia trasmesso istintivamente il carisma del Padre, l’apostolo di Granada, lo attestano le suggestive pagine che ha dedicato al Patriarca dell’ hospitalitas.
(Igino Giordani - FOTO da: http://focolare.org/It/igiordani.html)
La sporta delle elemosine di San Giovanni di Dio
Che di tanto padre il Servo di Dio ne sia stato degno erede ed appassionato imitatore, quasi non bastasse la sua vita esemplare, attualmente al settaccio della Congregazione per le Cause dei Santi, lo attesta l’agiografia edita nel 1947 dalla Casa Editrice Salani di Firenze, con il seguente titolo: ”GIOVANNI DI DIO SANTO DEL POPOLO”, scittta proprio da lui, il prof. Igino Giordani.
Il bastone di San Giovanni di Dio
Santo del popolo: epìteto più veritiero non poteva esserci. E che sia stato un popolano, a sua volta, a sollecitarne l’attenzione, a provocarne l’anima, uno di famiglia, lo attesta lui stesso nella premessa all’agiografia:
“Questa biografia di San Giovanni di Dio, si aggiunge per ultima alla serie da me apprestata per i “Vittoriosi”: Paolo, Ignazio, Maria di Nazareth…; ma la vita di questo “vittorioso” fu la prima, tra le agiografie da me avvicinate.
La lessi, ragazzo di prima e seconda ginnasiale, durante la Messa cantata domenicale, quando, non disponendo d’un libro liturgico, mi leggevo e rileggevo, su un volumetto illustrato, che era un dono dei Fatebenefratelli a mio padre, le avventure di questo ragazzo avventuroso, la cui indole eroica attraeva come quella d’un personaggio di poemi cavallereschi. E così la santità mi venne incontro, per la prima volta, come una fuga di ragazzo, messosi per le strade del mondo, a ricercar Dio e arrivato a scoprire la Maestà dell’Eterno sotto gli stracci del povero.
Dalle pareti affrescate della Cattedrale s’affacciano, tra schiere di seviziatori seminudi e al cospetto dei giudici carnosi, le figure assorte dei martiri e delle martiri tiburtine; e a me pareva che si trattasse di un’unica epopea di sacrifici e di sangue, di lotte e di vittorie, intrecciata alle porte di un’unica casa, dal portoghese del secolo XVI con i tiburtini del secolo III, attorno a Gesù di Nazareth.
All’Ospedale di Tivoli serviva una comunità di Fatebenefratelli, e nella città e nel circondario era tra essi famoso un fra’ Sebastiano: noto per la sua grinta severa che spauriva, per il suo cuore di fanciullo che innamorava e per la sua scienza d’infermiere che guariva.
Aveva un fare brusco che metteva in fuga gli oziosi, rassicurava i sofferenti.
E calavano dai paesi, giorno per giorno, mucchi di povera gente, vestiti nei costumi, spesso pittoreschi e più spesso sporchi, delle loro montagne solitarie, d’Abruzzo e dei Prenestini, e si accoccolavano sui gradini dell’ospedale, a decifrare, i più bravi, l’indecifrabile monito iscritto sul travertino: Non te pigeat visitare infirmos, che qualcuno più saputo spiegava: – Non t’impicciare di visitare gl’infermi; – e così attendevano di essere visitati da fra’ Sebastiano per pigliarne rabbuffi e pillole e farsi strappare denti cariati dalle gengive e peccati imbarbariti dalle coscienze: il tutto gratis et amore Dei.
Ragion per cui quando salì al potere comunale l’amministrazione massonica, per fare qualche cosa, nel 1923, mandò via i frati dall’ospedale, nel quale erano stati chiamati nel 1729 dal vescovo Placido Pezzangheri, e, quintuplicando le spese, ottenne la riduzione ad un quinto dei servizi, e troncò quel flusso di soprannaturale, che impedisce all’infermiere di divenire un burocrate e all’infermo di sentirsi un tronco cionco.
La gente seguitò a cercare fra’ Sebastiano a Roma e quando lo seppe morto lo pianse come un padre: il quale aveva tanto servito senza stancarsi e aveva tanto brontolato per non piangere di fronte alle miserie senza numero che gli sfilavano quotidianamente davanti.
(Il suo cognome era Bonomi; ammalatosi fu mandato prima a Nettuno poi a Benevento dove morì il 13 gennaio 1910 a sessantadue anni.)
E questa è la caratteristica della santità e della fondazione di Giovanni di Dio: questa specie di compenetrazione della carità e della scienza con la miseria e l’umiltà della gente povera..
E così tornando, dopo tanti anni e tanta guerra, al santo dell’infanzia, mi pare di aver un po’ ripercorso il ciclo che egli poercorse, quando, dopo anni di vita errabonda, come pastore e come soldato, tornò, mutato e irriconoscibile, al paese dei suoi genitori da cui era fuggito bambino. Un ritorno: ché all’ospedale dei Fatebenefratelli son legate le memorie dei miei genitori e di tante persone care portate là dentro dalla malattia e dalla religione: tante sofferenze lenite, tante lacrime asciugate. Là è morto mio padre: ma non c’erano più i frati; e nella camera mortuaria dove lo rividi danzavano, dentro il buio fitto, i topi.
Nel dare alle stampe questo che in certo qual modo è un tributo di riconoscenza ai benefattori silenziosi e discreti della mia gente, devo ringraziare chi più mi ha incoraggiato e sorretto nella fatica, durata in mezzo a difficoltà e occupazioni esorbitanti:
al Rev.mo P.Generale Efrem Blandeau, che ha messo a mia disposizione l’archivio della Casa Generalizia;
al Padre Provinciale fra Giovanni Berxhmans Merendi, che ha messo a disposizione la sorridente generosità della sua anima di discepolo di San Giovanni di Dio; al P: Gabriele Russotto che, come storico paziente, più era in gradi di aiutarmi nelle ricerche e come sacerdote aveva più risorse per esortarmi; e last but not least a P. Mondrone che per primo mi ha invogliato a trattare questo soggetto.
Non dimentichiamo Mario Salani che subito ha preso fuoco – fuoco d’entusiasmo – al nome di Giovanni di Dio.
Il quale nome, nell’epoca nostra che prende all’insegna il sociale, ci richiama alla socialità cristiana primordiale, più genuina: quella che nutrisce senza far soffrire, che compagina le anime con lo scambio delle ricchezze e il servizio della fraternità.
Per essa, san Giovanni di Dio è il santo proletario che oggi ci abbisogna”.
Urna di San Giovanni di Dio
All’ardore di Igino Giordani, il Padre Gabriele Russotto, fra l’altro, Postulatore delle Cause di Beatificazione di San Riccardo Pampuri e San Benedetto Menni, nonché dei Santi Martiri Spagnoli, ha risposto con altrettanto calore spirituale, quasi uno scambio di doni per alimentare il FOCOLARE DELLA CARITA’ sempre acceso nella santa Chiesa di Dio:
GIOVANNI DI DIO
VIVO E PALPITANTE
Tra un numero e l’altro del suo giornale, il carissimo Giordani ha trovato il tempo di scrivere une altro libro; e questa volta, non un libro polemico di questioni sociali o politico-religiose, ma di agiografia , che è anche sociale ed apologetico: la vita di san Giovanni di Dio.
Presentare agli uomini dei nostri giorni, così terribilmente agitati e disorientati, i grandi santi della Chiesa, specialmente quelli che spesero tutte le loro inesauribili ricchezze di mente e di cuore, in odo più tangibile al bene dell’umanità e a sollievo delle tante sue sofferenze non è davvero un lavoro inutile, ma un contributo reale alla ricostruzione materiaale e morale della grande famiglia umana, divisa e dilaniata dalla cieca furia di una guerra senza precedenti.
L’attuale crisi, che travaglia penosamente la famiglia umana, è crisi di carità. Nei cuori di molti non arde più la carità che Cristo portò sulla terra; ed è questo il danno più grande che ci poteva capitare.
Molti hanno rigettato l’amore di Cristo e perciò sono caduti nella barbarie, sono tornati ad essere lupi gli uni con gli altri, sbranandosi a vicenda con diabolico furore: tremenda vendetta dell’amore rigettato!
Il ritorno tra noi delle grandi figure della carità cristiana perciò non può non fare del bene a tante anime, smarrite tra i pensamenti di un razionalismo arido e gli accorgimenti di un materialismo infecondo.
Benvenute dunque in mezzo a noi queste care figure della santità e della carità cristiana.
San Giovanni di Dio è un santo della carità, ma di una santità e di una carità tutta sua.
Nella scuola della santità Giovanni di Dio si può dire un autodidatta. Non appartiene a una corrente di spiritualità, non crea una scuola speculativa con un suo orientamento personale: si forma da sè, attingendo direttamente alle fonti tradizionali dell’ascetica cristiana, guidato soltanto, o quasi, dalle ispirazioni della grazia che lentamente ma decisamente lo spinge alla santità, in lui tanto austera e pur tanto dolce.
La santità di Giovanni riflette, e non poteva essere altrimenti, il carattere cavalleresco e avventuriero del suo secolo. Ma le sue avventure furono le avventure della carità.
La carità lo avvolse interamente nel raggio del suo calore e della sua luce, lo spinse irresistibilmente nel fortunato solco dell’amore di Dio e del Prossimo, e lo condusse nei bassifondi della sua città di adozione per portarvi cibo e indumenti, cure e medicine, luce e redenzione.
La carità divenne la pasione di questo umile figlio del Portogallo, vivente in terra di Spagna, che portava profondamente scolpiti nella sua grande anima l’ardore e la fantasia della penisola Iberica.
In questa biografia Giordani è riuscito felicemente, come c’era da attendersi, a presentarci quella peculiarità della vita di Giovanni di Dio.
Il suo Giovanni di Dio è il “santo proletario”, come egli stesso dice, “che oggi ci abbisogna”; il santo che “aveva sentito come non pochi, la solidarietà col popolo: con tutto il popolo, ricchi e poveri, ma soprattutto con i poveri, perché più tribolati, e aveva vissuto la loro vita come la propria vita. Aveva gettato la sua anima per loro e l’aveva ritrovata tra loro”.
Qui mi pare che stia tutto giovanni di Dio.
Giordani ci ha dato un Giovanni di Dio vivo e palpitante, con tutta la sua ardente ed amabile umanità, libero da quella cornice di leggende, formatesi intorno a lui, le quali più che ingrandirlo lo diminuivano e lo allontanavano tanto da noi.
Nel santo, in qualunque santo, noi vogliamo vedere l’uomo che brucia delle nostre passioni, che combatte e vince le nostre stesse battaglie.
Le biografie precedenti invece ci hanno presentato Giovanni di Dio circonfuso di prodigi e di miracoli, in modo da metterlo tanto ma tanto al di sopra della nostra povera natura umana.
In questa biografia Giordani non distrugge il santo, ma ci dà la vera statura del santo e ci dice qual’è il suo eroismo..
“In lui” scrive il carissimo autore “l’eroismo non deve ricercarsi con indagine psicologica: balza a ogni passo: è il suo stato d’ogni giorno e d’ogni notte.”
Queste mie parole non vogliono essere una presentazione del libro, si capisce: i libri di Giordani si presentano da sè; ma un vivo ringraziamento, mio personale e di tutti i miei confratelli.
Giordani ha fatto un lavoro utile e prezioso anche atutto l’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio.
P. Gabriele Russotto FBF
La collaborazione con i Fatebenefratelli non si è conclusa con questa biografia. Il Giordani sull’omonima Rivista della Provincia Lombardo-Veneta ha continuato a scrivere per anni. In questa citazione, trovata casualmente in internet, ancora si parla della carità in termini di fuoco, il suo chiodo fisso:
Igino Giordani, Il Santo della Carità ospedaliera, Fatebenefratelli, 1965:
“Tra la fine del Quattrocento e il principio del Cinquecento, i lettori d’Italia, scoperto, come un mondo nuovo, il mondo classico, veleggiavano nei mari della cultura umanistica come nelle acque d’un arcipelago magnifico. Alcuni poi volavano tra i fantasmi della cavalleria come toccassero i margini d’un firmamento malioso. Evadevono gli uni e gli altri dalla realtà d’una politica mediocre e d’una economia che languiva.
Contemporaneamente i navigatori portoghesi, spagnoli e inglesi, con l’aiuto degli ultimi pionieri di Genova, scoprirono terre nuove, veleggiando in mari ignoti alla ricerca di ricchezze spettacolose, smaniosi di evadere dalla povertà…“
-
*Chi assiste i poveri assiste [Cristo]: e non tanto fa [bene] ad essi quanto fa bene a se stesso: chè il Giudice eterno ci giudica in base alle prestazioni a favore dei bisognosi. (p. 126)
-
*La carità è come l’incendio che si alimenta propagandosi [...]. (p. 134)
NB: Le immagini religiose disseminate qua e là sono affreschi del Duomo di Tivoli, le stesse di cui ci parla nella presentazione; santi e gloriosi martiri che nella sua fantasia facevano un tutt’uno con San Giovanni di Dio.
Fatebenefratelli
L’incendio dell’ OSPEDALE REGIO di Granada (di Igino Giordani)
“…Un giorno che Giovanni attendeva alle sue mille e una occupazione per portare avanti la complicata azienda della miseria, un accorrere di gente urlante, spaventata, gli portò la notizia che l’ospedale regio ardeva.Si trattava del grande edificio che avevano fatto costruire i re cattolici Ferdinando e isabella: L’edificio dove Giovanni aveva sofferto e goduto del suo soffrire e dove centinaia di fratelli erano ricoverati.Al pensiero di quelle creature in pericolo, di quelle membra sofferenti esposte alle fiamme, Giovanni non ci vide più; Balzò in piedi e, lasciato a mezzo il suo lavoro, corse, portato a volo dall’amore; e quando sboccò nella spianata, tra la calca che gemeva e urlava, gli si parò innanzi l’edificio avvolto di fumo.Le Fiamme stavano investendo la più gran parte dello stabile e tra gli urli dei ricoverati lassù, e le strida della folla giù, si sentivano crollare i primi tetti. Giovanni vide solo nel suo pensiero quelle creature che dalla corsia invocavano soccorsi, e immaginò gli invalidi nei giacigli, i dementi nei ceppi…; e fattosi largo tra la ressa avanzò arditamente verso il portone, donde fuggivano inservienti e ricoverati che potevano muoversi.La gente lo riconobbe:- Giovanni di Dio! Giovanni di Dio! -E il grido sonò tanto implorazione quanto meraviglia.Nell’andito invaso di fumo Giovanni, che conosceva bene lo stabile, avanzò ardito e salì le scale. Era solo: e solo un pazzo poteva avventurarsi in quella bolgia. Non sentendo nè l’arsura nè la stanchezza, cominciò a entrare e uscire per i dormitori, invasi di fumo, entro cui saettavano laceranti le invocazioni selvagge o fioche degli immobilizzati: e dai giacigli ne sollevò uno e lo portò verso l’uscio; e poi un altro; e poi un terzo…; e così di seguito, senza stramazzare sotto il peso.Da solo salvò quanti malati, uomini e donne, erano restati; dopo di che, sapendo quel che la masserizia valesse per i poveri infermi, si mise con una rapidità e una forza prodigiosa, a radunar e gittar dalla finestra letti, mobilia, e coperte, quanto potè.Ciò fatto accorse a dare una mano ai volenterosi che s’erano accinti a spegnere l’incendio, ma a un certo punto una lingua di fuoco eruppe alle sue spalle, sbarrandogli la ritirata, mentre l’incendio ardeva urlando in faccia a lui. Una nuvola di fumo, tra il croscio delle travi, lo avviluppò, sì che la gente da basso, avendo osservato la scena, emise un urlo di terrore, convinta che egli fosse stato travolto nel vortice delle vampe.La voce della sua eroica morte, con la rapidità del vento che alimentava la fiamma, si sparse tra la folla; e un clamore di lamenti si levò d’ogni parte. Ma a un tratto se lo videro balzar fuori dal groviglio, e discesa rapidamente la scala, vennir via ratto e illeso. Solo le ciglia erano arse. E allora la gente non potè reprimere l’impressione che egli fosse stato salvato con un miracolo, essendo passato visibilmente tra le fiamme; e un miracolo verosimile fu, il quale conferisce un colorito di fiamma alla carità di quest’uomo, offertosi intero agli altri, sì che la liturgia ricorda l’episodio nell’orazione della sua Messa festiva, pregando Dio che per i meriti del suo Giovanni, i vizi nostri siano medicati dal fuoco della carità divina.Ma di consimili episodi, – narra il fido Francesco Castro – se ne potrebbero narrare molti.Il gesto appare più eroico quando, investigando le cause dell’incendio, si comprese che esso era esploso a motivo dei troppi fornelli accesi in cucina per preparare un banchetto pantagruelico, a base di polli, pernici, e altri volatili d’eccezione per ordine e uso dell’amministratore che era un personaggio titolato, e quando faceva le cose le faceva con opulenza sardanapalesca, con i fondi dei poveri.A noi che abbiamo seguìto dall’età di otto anni le vicende avventurose di Giovanni di Dio, il suo sprezzo del pericolo non desta sorpresa; e così non ci sorprendono i suoi atti di coraggio di prima e di poi.” (Pag. 179-182)Quindi andò a dissetarsi. Nel tornare verso l’albero, il bambino gli porse un melograno: un bel melograno aperto da cui sporgeva una croce; e gli disse: - Giovanni di Dio, la tua croce sarà a Granata. – Ciò detto, scomparve.
Miracolo o leggenda, di lì è venuto alla famiglia di Giovanni di Dio il simbolo: un melograno aperto con una croce a sommo…”.
(Igino Giordani, “San Giovanni di Dio – UN SANTO DEL POPOLO”) |
NOTE BIOGRAFICHE
Primo dei sei figli di Mariano e Orsola Antonelli, nel 1900 iniziò le scuole elementari e già da ragazzino, nei giorni liberi e nelle vacanze estive, iniziò a praticare l’attività di muratore, sulle orme del padre.
Dopo aver frequentato il Seminario diocesano a Tivoli, alla vigilia della Prima guerra mondiale conseguì la licenza liceale e iniziò a frequentare la facoltà di lettere e filosofia all’università di Roma.
Partecipò al conflitto 1915 come sottotenente, e nel 1916 fu seriamente ferito e ricoverato in ospedale da dove fu dimesso solo dopo la vittoria.
Laureatosi in Lettere, iniziò a insegnare e nello stesso tempo avviò le prime collaborazioni a riviste e giornali.
Il 2 febbraio 1920 sposò a Tivoli Mya Salvati e si trasferirono a Roma. Dalla moglie ebbe quattro figli: Mario, Sergio, Brando e Bonizza. In autunno conobbe Luigi Sturzo e aderì al Partito Popolare. In ottobre scrisse i primi articoli politici per Il Popolo Nuovo, settimanale del PPI del quale fu il direttore nel 1924.
Dopo un corso di specializzazione in Bibliografia e Biblioteconomia seguito negli Stati Uniti, dal 1928 fu assunto come Bibliotecario della Biblioteca Apostolica Vaticana. A lui si deve la redazione di uno dei primi manuali organici di Catalogazione delle opere a stampa e manoscritte. In quello stesso anno si preoccupò di far assumere Alcide De Gasperi che da poco era uscito dal carcere e doveva subire le persecuzioni di parte fascista.
Il 2 giugno 1946 venne eletto deputato alla Assemblea Costituente per la circoscrizione di Roma, il 1º agosto succedette a Guido Gonella nella direzione de Il Popolo (1946-1947). A novembre dello stesso anno venne eletto consigliere comunale a Roma.
Il 17 settembre 1948 a Montecitorio incontrò Chiara Lubich e da quel momento condivise gli ideali dell’allora nascente Movimento dei Focolari. Fu il primo laico sposato a consacrarsi a Dio facendo parte di un focolare, l’unità basica del Movimento. Per l’apertura verso il mondo laico che seppe dare al movimento ne viene considerato un co-fondatore, insieme alla stessa Chiara Lubich, a don Pasquale Foresi ed al vescovo tedesco Klaus Hemmerle.
Fu uno degli autori del primo disegno di legge sull’obiezione di coscienza, nel 1949. Poi, nel 1953 uscito dalla vita politica, fu collaboratore dell’”Osservatore Romano” e de “Il Popolo“. Fu intensa la sua attività culturale in questo periodo.
Continuò a svolgere un lavoro importante nel movimento dei focolari:
-
Nel 1959 fu nominato direttore della rivista Città Nuova.
-
Nel 1961 venne posto alla guida del Centro Uno, organismo del Movimento che si occupa dell’ecumenismo.
-
Nel 1965 fu nominato presidente dell’istituto internazionale Mystici corporis a Loppiano.
Dopo la morte della moglie e col consenso dei figli, visse gli ultimi sette anni della sua vita in un “focolare”.
La sua opera ed i suoi ideali vengono perpetuati da numerose associazioni che ne portano il nome.
Attualmente, promossa dalla diocesi di Frascati, è in corso la sua causa di beatificazione.
“La crisi del nostro tempo
si deve a tanti motivi,
che si riassumono in uno:
penuria d’amore.”
“Entrato nel nuovo secolo e nelle elementari, precisamente nel 1901, mio padre mi assunse al lavoro, come garzone muratore, nei giorni liberi e nelle vacanze estive. Guadagnavo, mi ricordo, cinque soldi la settimana; pari a una lira ogni quattro settimane. Il mestiere mi piaceva, e ardevo di diventare autonomo. Ci vedevo un lato etico e uno eroico”
Così Igino Giordani (17.9.1894 – 18.4.1980) si racconta all’inizio di un’avventura che visse con intensità di pensiero e ardore d’ideali (sarà chiamato “Foco“). Ebbe un suo personalissimo timbro nel battersi per grandi traguardi umani: libertà, giustizia sociale, pace (al servizio del “bisogno d’amore fra le genti”, scriveva nel 1919). Per essi affrontò precisi impegni culturali e politici nella crisi del vecchio Stato liberale, nel travaglio sotto il regime totalitario, e poi nella rinascente democrazia italiana. Testimoniò con la vita e proclamò con la penna realtà ecclesiali con cui precorreva alcuni contenuti del Concilio Vaticano II.
Grazie all’intervento di un benefattore aveva potuto continuare gli studi. Chiamato alle armi nel 1915, non sparò contro altre persone (“non nemici io ci vidi”), ma operò contro una fortificazione avversaria con impresa rischiosa, che gli guadagnò la medaglia d’argento e gli procurò una invalidità permanente.
Laureato in lettere esercitò diverse attività professionali: fuori dall’insegnamento per le restrizioni politiche, andò in USA per studi da bibliotecario, e come tale si impiegò alla Vaticana. Per sostenere la famiglia – ebbe quattro figli -, ma anche in forza di una incomprimibile vocazione alla penna, fu scrittore e giornalista fecondissimo: migliaia di articoli, qualche centinaio di opuscoli e saggi, oltre cento volumi. Scrisse di patristica, apologetica, ascetica, agiografia, ecclesiologia, politica ed anche narrativa.
La notorietà da lui raggiunta in Italia e all’estero ci viene indicata dalla fortuna di alcuni suoi libri, che ebbero più edizioni e furono tradotti in Belgio, Francia, Stati Uniti, Argentina, Brasile, Spagna, Cecoslovacchia, Serbia, Portogallo, India, Giappone e Cina. Tuttora suoi volumi vengono tradotti, qualcuno anche in arabo.
Conosceva diverse lingue e pubblicò anche versioni dal greco e dal latino e da alcune lingue moderne.
Fu articolista in giornali e riviste italiane ed estere – come il “Commonweal” di New York e il “Novidades” di Lisbona.Tenne la direzione di quotidiani (“Il Quotidiano” 1944-1946, “Il Popolo” 1946-1947) e di periodici (“Il Popolo Nuovo” 1924, “Parte Guelfa” 1925, “Fides” 1930-1962, “La Via” 1949-1953, “Il Campo” 1946, “Città Nuova” 1959-1980).
E’ uno dei casi esemplari di cultura non accademica, ma di ampia incidenza: oggi viene proposto all’attenzione dei docenti da giovani che in università italiane ed estere svolgono tesi di laurea sull’uno o l’altro aspetto della sua multiforme testimonianza di vita e di pensiero.
Come politico visse una prima esperienza negli anni ’20 con don Sturzo, del quale si guadagnò la stima, ricevendo incarichi nel settore della stampa; riprese poi con De Gasperi e dal 1946 al 1953 fu prima tra i costituenti e poi “deputato di pace” (così amò definirsi).
Nel settembre del 1948 incontrava Chiara Lubich. Colpito dalla forte spiritualità del Movimento dei Focolari, vi aderì subito, collaborando a metterne in luce alcuni aspetti sia interiori che di socialità, tanto da essere considerato un confondatore.
“In me era entrato il fuoco”, confesserà. Il suo agire politico saliva di tono: da polemista sferzante, come era stato nel 1924-25, diveniva sostenitore del dialogo, proponeva intese inter-partitiche per la pace, e una politica in cui anche l’avversario sia amato. Insieme con un socialdemocratico, presentò la prima proposta di legge per l’obiezione di coscienza.
Come cristiano potè dichiarare: “prima avevo cercato, ora ho trovato”. Lo diceva specialmente in merito al totale essere Chiesa del fedele laico; e come focolarino apriva vie concrete per una ecclesiologia di comunione col proporre il pieno inserimento dei coniugati nel focolare, in unità di vita con celibi e sacerdoti.
Negli ultimi anni si dedicò in particolare all’attività ecumenica come direttore del Centro “Uno”.
Da http://www.flars.net/iginogiordani/italiano.htm
Foto: Igino Giordani (a dx) con Tommaso Sorgi suo biografo, ritratti a Teramo, 1960 ca. (da wikipedia)
Scrittore assai noto, politico, giornalista, patrologo, autore di opere sociali, Igino Giordani conobbe il Movimento a Roma nel 1948.L’incontro fu per lui determinante.
|
Quando l’incontro avvenne, “alle prime parole avvertii una cosa nuova: il timbro di una convinzione profonda e sicura che nasceva da un sentimento soprannaturale.Era la voce che, senza rendermene conto, avevo atteso. Essa metteva la santità alla portata di tutti; toglieva via i cancelli che separavano il mondo laicale dalla vita mistica.Avvicinava Dio: lo faceva sentire padre, fratello, amico, presente all’umanità…Una cosa avvenne in me: l’idea di Dio aveva ceduto il posto all’amore di Dio, l’immagine ideale al Dio vivo. |
Tutti i miei studi, i miei ideali, le vicende stesse della mia vita mi parevano diretti a questa mèta.
Nulla di nuovo, eppure tutto nuovo: gli elementi della mia formazione culturale e spirituale venivano a disporsi secondo il disegno di Dio…”
Quando nel 53, un gruppo di focolarine e focolarini si consacrava completamente a Dio durante la messa, Giordani era presente. In quanto sposato, non avrebbe potuto seguire questa strada, ma, colpito dalla grazia lodava il Signore per ciò che stava operando.
E fu in quell’occasione che Chiara capì che anche gli sposati che avevano messo Dio sopra ogni cosa, potevano essere consacrati a Lui, se avessero impostato ogni cosa nell’amore; ed essere con ciò puri, obbedienti, poveri.
Giordani fu dunque il primo “ad essere percosso – come scrisse poi – da questa vocazione, al contatto con i primi focolarini.
E chi dirigeva ed animava il Movimento, vedendo un coniugato tra i focolarini, lo ammise a vivere secondo il loro stesso statuto, in quanto la condizione di coniugato, padre di famiglia, lavoratore, glielo consentiva”.
Da quel momento, Giordani non è rimasto solo; altri sposati lo hanno seguito, impegnandosi a vivere tutta la vita nell’amore.
“Egli – afferma Chiara – è stato per noi sempre un simbolo dell’umanità, colui che ci teneva l’anima spalancata su tutta l’umanità, che impediva ogni reclusione, ogni limitazione. Egli, incarnando il “tipo” del laico post-conciliare, è stato si può dire, la ragione dello sviluppo del Movimento, in molti suoi aspetti.
Per esempio la riunificazione delle Chiese, per la quale sin da giovane si era battuto.
Ma soprattutto Giordani è stato come il seme di tutta la parte laica del Movimento dei focolari. Fu per lui che il Movimento sentì la particolare vocazione a permeare le realtà umane dello spirito di Dio”.
Dopo la morte della moglie, e col consenso dei figli, visse in focolare gli ultimi sette anni di vita.
Filed under: Igino Giordani