SAN GIOVANNI DI DIO: NEI FRATELLI VEDEVA GESU’ – Giuseppe Magliozzi o.h.
Posted on novembre 26th, 2009 by Angelo
martedì, 29 maggio 2007
Al compiere quarant’anni di Vita Religiosa
nell’Ordine Ospedaliero dei Fatebenefratelli
offro queste pagine a tutti i nostri ammalati
affinché nelle vicende di San Giovanni di Dio
scoprano la tenerezza di Dio che accorre
a soccorrerci nella sofferenza e nel bisogno
e a dar gioia e significato alla nostra vita.
Fra Giuseppe MAGLIOZZI o.h.
Il mistico incontro con Gesù nel malato
NEI FRATELLI VEDEVA GESU’
Biografia di
San Giovanni di Dio
Fondatore dei Fatebenefratelli
e Patrono Universale dei malati,
degli ospedali e degli infermieri.
Edizione illustrata: SAN GIOVANNI DI DIO – Fra Giuseppe Magliozzi
BIBLIOTECA OSPEDALIERA
Roma – Anno del Rosario 2003 Fascicolo n° 12
NIHIL OBSTAT Roma, 8 settembre 2003
Fra Elia Tripaldi o.h., sac. Censore Delegato
IMPRIMI POTEST – Roma, 12 settembre 2003 Fra Angelico Bellino o.h., sac. Provinciale
IMPRIMATUR Dal Vicariato di Roma, 24 settembre 2003 X Luigi Moretti Segr. Generale
13ª Edizione italiana: Roma 2003
4ª Versione inglese: Manila 1996
1ª Versione tagalog: Manila 1992
CON MARIA ALLA SCOPERTA DI CRISTO
Giovanni Paolo II nella Lettera Apostolica con cui ha indetto uno speciale Anno del Rosario annota che “sarebbe impossibile citare lo stuolo innumerevole di Santi che hanno trovato nel Rosario un’autentica via di santificazione”.
Di sicuro tra tali Santi rientra San Giovanni di Dio, che nella sua lettera al giovane Luigi Bautista scrive con forza:
“Vi dico d’essermi trovato molto bene col Rosario: spero in Dio di recitarlo tutte le volte che potrò e che Dio vorrà”.
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Questo profondo attaccamento di San Giovanni di Dio al Rosario rese la Vergine Maria sempre presente nella sua vita. Crebbe devoto a lei e quando da militare sperimentò un certo sbandamento morale, fu il riaffiorare della devozione mariana a riportarlo sulla retta via. Similmente, quando nel 1538 avvertì la chiamata del Signore a farsi pioniere d’una assistenza sanitaria più umana, è ai piedi di Maria, nel Santuario di Guadalupe, che cercò soccorso e meditandovi sull’amore di Lei per l’Unigenito fattosi Bambino, apprese a riconoscere la mistica presenza di Cristo in ogni nostro fratello. Quando poi, tornato a Granata, esitava ad avviare l’ambizioso progetto assistenziale, fu di nuovo Maria, nella Cappella del Santissimo dell’erigenda Cattedrale, ad ispirargli coraggio nell’affrontare la corona di spine che era chiamato a condividere con Cristo. E in morte fu di nuovo Maria ad apparirgli per confortarlo e guidarlo in Cielo ad incontrarvi il Figlio.
Con la materna protezione di Maria riuscì a raggiungere Cristo attraverso un itinerario umano e spirituale tutt’altro che facile. Giovanni vagò infatti per mezza Europa e sconfinò perfino in Africa, provando mille mestieri, conoscendo gli orrori delle guerre e le sofferenze di una società dalle abissali sperequazioni, mentre nel suo animo s’accumulavano mille domande e nessuna risposta.
Finché un giorno fu ricoverato nell’Ospedale Reale di Granada e, trovandosi gomito a gomito con le più terribili sofferenze, scoprì che l’uomo è fatto per Amare e che la vita ha senso solo se cresciamo e facciamo crescere nell’Amore; scoprì che solo la Passione di Cristo riesce a farci accettare il mistero del dolore umano; scoprì che povertà e malattia, anziché momento negativo della nostra vita, possono divenire occasione d’incontro con Dio sia per unirsi alle sofferenze di Cristo, sia per lenirle nella persona dei fratelli, ed in entrambi i casi per ricambiare amore con amore.
Questa scoperta trasformò la sua vita e gli fece intuire la specifica missione a cui Dio lo chiamava: fondare ospedali dove ogni infermo venga accolto come fratello in Cristo e rispettato come icona vivente di Cristo sofferente in Croce.
Giovanni non solo riuscì ad aprire a Granada e Toledo ospedali secondo i dettami del suo cuore, ma si guadagnò un manipolo di discepoli che, secondo la sua predizione, si sparsero poi in tutto il mondo: conosciuti in Italia col nomignolo di Fatebenefratelli, sono oggi presenti in cinquanta nazioni d’ogni latitudine.
Merita certamente saperne di più su questo Santo, che la Chiesa ci propone quale speciale Patrono di tutto il mondo della sofferenza e che fu pioniere di una riforma sanitaria che nasce dal cuore e che desta consensi anche in chi non ne condivide i moventi di fede.
Il presente volumetto intende offrire ai malati e agli operatori sanitari solamente un primo approccio, aggiornato ma sintetico, alla figura di San Giovanni di Dio e all’Ordine Ospedaliero da lui fondato. Chi volesse saperne di più, trova in appendice un’ampia lista di libri ed articoli, oppure può contattarmi per email nel lontano lembo dell’Estremo Oriente dove vivo da tre lustri.
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Fra Giuseppe Magliozzi o.h.
Manila, 7 ottobre 2003, Festa della Madonna del Rosario
Date fondamentali della vita
di San Giovanni di Dio
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Verso il 1491: Giovanni nasce in data imprecisata nella cittadina portoghese di Montemor-o-Novo (Evora)
Verso il 1499: Ad otto anni lascia casa all’insaputa dei genitori e finisce in Spagna, ad Oropesa, dove viene adottato dalla famiglia del Mayoral e vi lavora da pastore
1523: Soldato sul fronte di Fuenterrabía
Verso il 1528: Ritorna a fare il pastore in Oropesa
Estate 1532: Attendente militare nell’impresa di Vienna
Verso il 1536: Permanenza a Ceuta
1537: Arrivo a Granada all’età di 46 anni
1° agosto 1538: Ascolta predicare San Giovanni d’Avila
21 ottobre 1538: Dimissione dall’Ospedale Reale
Inverno 1538: Pellegrinaggio a Guadalupe
16 maggio 1539: Risoluzione definitiva di darsi a Dio
Autunno 1539: Accoglie i primi discepoli
Primavera 1540: Imposizione dell’abito religioso
Dicembre 1542: Crollo della nuova ala ospedaliera
1548: Permanenza a Valladolid
3 luglio 1549: Incendio nell’Ospedale Reale
8 marzo 1550: Muore in ginocchio al Mattutino del sabato
16 ottobre 1690: Alessandro VIII lo proclama Santo
27 maggio 1886: Eletto Patrono dei malati e degli Ospedali
28 agosto 1930 Eletto Patrono degli infermieri
Dall’amore di Maria per l’Unigenito fattosi Bambino, San Giovanni di Dio apprese l’amore per Cristo, che è presente misticamente in ogni sofferente
1. Il fascino dell’avventura
San Giovanni di Dio nacque verso il 1491 a Montemor o Novo, nella diocesi portoghese di Evora. Figlio unico di Andrea Cidade, che aveva un negozietto di frutta nella via Verde, Giovanni ad appena otto anni sparì misteriosamente di casa, forse per spirito d’avventura.
Montemor o Novo in quei tempi era un centro di discreta importanza. Secondo un censimento del 1527 vi risiedevano 899 famiglie, cioè circa 3.600 abitanti, senza contar gli schiavi, per cui nella regione dell’Alentejo, cioè a sud del fiume Tago, era la sesta città per densità di popolazione.
Il re Emanuele I iniziò a regnare sul Portogallo convocando nel 1495-1496 l’Assemblea Generale delle Cortes proprio a Montemor, dove ricevette il giuramento di fedeltà dei suoi vassalli e dove, tra l’altro, consultò i rappresentanti della nazione sull’opportunità di organizzare una spedizione marittima per scoprire una rotta che permettesse finalmente di raggiungere l’India via mare.
Nel 1492 Colombo, pensando che la rotta più breve andasse trovata traversando l’Atlantico, s’era imbattuto a mezza strada nel continente americano. All’inizio pensò fosse una parte dell’India e battezzò come indiani la popolazione; la denominazione ha curiosamente resistito fino ad oggi, anche se già lo stesso Colombo alla fine si rese conto che la vera India era altrove.
Il re del Portogallo riteneva che la rotta più valida per l’India andasse invece cercata circumnavigando l’Africa ed affidò il comando dell’impresa a Vasco da Gama, che salpò dalla foce del Tago l’8 luglio 1497 e riuscì in effetti a raggiungere la costa del Malabar, entrando nel porto di Calicut, l’odierna Kozhikode nello Stato del Kerala, all’alba del 20 maggio 1498. Il successo dell’impresa non solo trasformò il Portogallo in una delle maggiori potenze commerciali, ma permise di incrementare in modo prima impensabile gli scambi culturali tra Oriente ed Occidente.
La notizia del felice esito della spedizione raggiunse Montemor nell’estate del 1499 e nel Libro delle Spese della città troviamo annotata l’uscita di settanta reali “quando il re nostro signore ordinò che si facessero processioni e festa per la venuta di Vasco da Gama”. Possiamo immaginare l’emotiva partecipazione della gente di Montemor al corteo, alla musica ed ai giochi taurini in onore del nuovo eroe nazionale. Certo ne rimase a lungo il ricordo, non solo per le celebrazioni esteriori, ma molto più per le mirabolanti notizie che rimbalzavano ingigantite da una bocca all’altra. Può darsi che il piccolo Giovanni, che contava già otto anni, se ne sia lasciato suggestionare e questo potrebbe spiegarci perché proprio in quell’anno egli abbandonasse il paese natio.
Castro, autore della sua prima biografia, si limita a dire che il fanciullo “crebbe con i suoi genitori fino all’età di otto anni e da Montemor a loro insaputa fu condotto ad Oropesa da un chierico”. Il verbo che egli usa in spagnolo (“fue llevado”) fa pensare non ad una sottrazione violenta, ma piuttosto ad un abbindolamento, cioè che qualche viaggiatore di passaggio, forse uno di quei “clerici vagantes” che gironzolavano da un’università all’altra senza mai addottorarsi, abbia convinto il bambino ad incamminarsi con lui, magari facendogli balenare il miraggio di raggiungere i favolosi lidi dell’India. Ma mentre Vasco da Gama era partito per l’India dalla foce del Tago, l’infido vagabondo si diresse verso le sorgenti del Tago ed abbandonò il fanciullo nel bel centro della Spagna, ad Oropesa, un borgo spagnolo dell’Estremadura sito lungo l’usuale tragitto da Lisbona a Madrid e distante un trecento chilometri da Montemor.
2. Pastore e soldato
Rimasto solo, il fanciullo fu adottato da Francesco Mayoral, che era un dipendente del Conte di Oropesa, e crebbe facendo il pastore per cui in qualche maniera continuò a macinar strada ogni giorno, dapprima da ragazzotto consumando chilometri su chilometri nell’incessante spoletta tra la casa e il gregge per assicurare i rifornimenti; e poi da adolescente errando col gregge per monti e per valli.
Passarono così 22 anni, finché nell’autunno del 1521 la sua tempra di camminatore e forse l’antico spirito di avventura lo convinsero ad arruolarsi agli ordini del capitano Francesco Herruz quale ausiliare d’un drappello di lancieri mandati a Toledo dal Conte di Oropesa su richiesta del Reggente di Spagna e poi confluiti nel 1523 nell’armata inviata da Carlo V sul fronte dei Pirenei per rintuzzare gli sconfinamenti francesi e liberare la fortezza di Fuenterrabía, caduta fin dal 1521 nelle loro mani.
Come spesso capita alle reclute, quell’esperienza militare fu contrassegnata da un certo sbandamento morale, sicché sarebbe stato piuttosto sconsolante il bilancio della sua vita, se fosse stata stroncata allora. E davvero poco ci mancò, visto che la morte lo sfiorò almeno due volte: dapprima per una rovinosa caduta mentre cavalcava una giumenta imbizzarrita, e poi per una condanna all’impiccagione, inflittagli dal suo capitano per non aver saputo custodire il bottino di guerra e commutatagli all’ultimo momento nell’espulsione dall’esercito, pare per intercessione del giovanissimo futuro Duca d’Alba, che era parente degli Oropesa.
Poiché gli era stato intimato di non farsi più vedere dal suo capitano, Giovanni vagabondò per anni prima di trovare il coraggio di tornare ad Oropesa, dove la famiglia adottiva l’accolse con immutato affetto. Ma i rischi passati non avevano spento la sua sete d’avventura, sicché dopo quattro anni si arruolò nuovamente come attendente del primogenito del Conte di Oropesa, partendo con lui nel 1532 per liberare Vienna dall’assedio dei Turchi. I rinforzi spagnoli si concentrarono a Barcellona, venendo poi trasferiti per mare a Genova, da cui si misero in marcia per il lago di Garda, dove in luglio avvenne il concentramento di tutte le truppe imperiali. Da lì toccarono successivamente Verona, Trento, Bressanone, Innsbruck, navigando poi in battello lungo l’Inn e il Danubio fino a raggiungere Vienna, dove i Turchi, dopo alcune scaramucce, rinunciarono ad uno scontro frontale e preferirono togliere l’assedio, permettendo a Carlo V di entrare pacificamente in città il 24 settembre 1532.
Per Giovanni e per l’erede del Conte il viaggio di ritorno fu ancora più lungo: attraversarono la Germania e le Fiandre, per poi costeggiare in nave la Francia fino a sbarcare in Spagna nel porto di La Coruña, a non troppa distanza dal famoso Santuario di Santiago di Compostella, che custodiva la tomba dell’apostolo San Giacomo e da secoli rappresentava, assieme a Roma e alla Terra Santa, la più comune meta di pellegrinaggio. Sia l’erede del Conte sia Giovanni certamente vi si recarono a pregare e forse fu proprio lì che Giovanni maturò la decisione non solo di lasciare per sempre le armi, ma anche di non tornare più ad Oropesa dalla sua famiglia adottiva.
Forse la parlata galiziana, assai affine alla portoghese, gli aveva ridestato in cuore l’antica nostalgia per la terra natia e considerando che la frontiera portoghese non era poi troppo lontana, volle provare a raggiungere Montemor nella speranza di rintracciarvi i suoi genitori. Quando però vi arrivò, apprese da uno zio che la mamma purtroppo era morta di dolore poco dopo la sua partenza e che il papà si era poi ritirato in un convento di Francescani a Xabregas, una località poco fuori del centro storico di Lisbona, morendovi alcuni anni dopo.
Lo zio gli offrì di restarsene con lui, ma Giovanni gli rispose risolutamente che preferiva imitare suo padre e servire il Signore lontano dal paese natio. Forse era solo mosso dal suo spirito d’irrequietudine, ma la sua fu comunque un’affermazione profetica, poiché davvero il Signore aveva in serbo per lui una missione lontano dalla patria. E se riflettiamo che uno dei santi più popolari, da noi invocato come Sant’Antonio di Padova, era in realtà nato a Lisbona, viene da aggiungere argutamente che è emigrando che i portoghesi diventano grandi santi.
Giovanni, benché ormai già sulla quarantina, prese dunque a vagabondare di nuovo per la Spagna, questa volta a sud, nell’Andalusia, dove per qualche tempo fu pastore nei dintorni di Siviglia, finché gli venne voglia di raggiungere l’Africa, forse entusiasmato dalle gesta di Carlo V, che nell’estate del 1535 aveva conquistato Tunisi, sconfiggendo il pirata Barbarossa.
3. Un bel gesto
Cercando a Gibilterra qualche possibilità d’imbarco, s’imbatté in un nobile portoghese, don Luis de Almeida, condannato per motivi politici ad un temporaneo esilio nella piazzaforte africana di Ceuta, posta sulla sponda marocchina dello stretto di Gibilterra, e s’accordò di seguirlo laggiù come domestico.
A Ceuta don Luis de Almeida, senza impiego, senza più rendite e con moglie e quattro figlie da mantenere, esaurì ben presto il proprio gruzzolo. A quel punto chiunque avrebbe lasciato al suo destino un padrone ridotto ormai alla fame, ma Giovanni invece si impietosì di quelle quattro giovani figliole, che a Ceuta non avevano alcuna possibilità di guadagnarsi da vivere con un lavoro onesto, e decise di divenire lui il sostegno economico di quella sventurata famiglia, offrendosi come manovale negli appena iniziati lavori di rafforzamento delle mura cittadine, eseguiti negli anni 1536-1538 per premunirsi da un ventilato attacco del pirata Barbarossa, voglioso di rifarsi contro i portoghesi dello smacco infertogli a Tunisi dagli spagnoli.
Fu una decisione presa quasi d’impulso. Ma alcuni anni dopo, rievocandola, lo stesso Giovanni non mancava di sottolineare che Dio nella sua grande bontà gli aveva offerto quell’occasione di fare del bene, per dargli modo di meritare almeno un poco le tante grazie che gli avrebbe concesse in seguito.
La prima grazia l’ebbe già a Ceuta, allorché l’inaspettata apostasia di un suo compagno di lavoro, con cui aveva stretto profonda amicizia, sconvolse talmente il suo animo da fargli perfino dubitare della propria fede. Provvidenzialmente un confessore francescano, al quale andò a chiedere umilmente lumi, riuscì a calmare la sua ansia, insistendo però che se ne tornasse subito in Spagna. Giovanni ubbidì e lasciò l’Africa, dandosi ad una nuova occupazione: libraio ambulante in terra andalusa.
Col suo carico di mercanzia, Giovanni prese a percorrere i villaggi, vendendo libri a chi poteva leggerli e proponendo agli altri di acquistare qualche riproduzione sacra da appendere in casa per mantener viva la devozione, oppure le tavolette allora utilizzate per insegnare ai fanciulli i rudimenti di catechismo.
Era tanto il suo impegno nel propagandare la buona stampa che, quando la Chiesa lo proclamò Santo, ci furono associazioni di librai a Roma, a Bologna ed in varie altre città, anche estere, che lo scelsero come loro speciale Protettore; in linea ancor oggi con questa devozione, un noto premio letterario toscano, chiamato “Bancarella” in quanto assegnato dai librai ambulanti di Pontremoli, consiste appunto in una statuina di maiolica raffigurante il Santo come libraio ambulante con tanto di bancarella.
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4. A Granada
Arrivato ai 46 anni, Giovanni cominciò però a stancarsi di quel continuo girovagare con un fardello di mercanzia sempre più pesante. Un giorno vicino Gaucín, un paesino tra Cadice e Malaga, un fanciullo gli offrì una melagrana, misteriosamente soggiungendo che essa sarebbe stata la sua croce. Poiché questo frutto in spagnolo si chiama “granada”, che è anche il nome della famosa città andalusa, Giovanni pensò che forse quello strano fanciullo era il Bambino Gesù, apparsogli per suggerirgli di troncare il suo vagabondare e di stabilirsi a Granada. Vi entrò nel 1537 ed avendo trovato libero un bugigattolo, strategicamente situato appena all’interno della Porta Elvira, che era allora la più trafficata via d’accesso a questa stupenda città andalusa, decise di insediarvisi per sempre con i suoi libri.
Per anni Giovanni era stato uno spirito irrequieto ed abbiamo accennato, solo per sommi capi, alle molteplici vicissitudini, che lo portarono a vagare per mezza Europa, Italia compresa. Ma ora a Granada sembrava che si fosse acquietato, stanco dei sogni di grandezza rimasti sempre tali, e ormai unicamente desideroso di gettare l’ancora nel tranquillo mondo borghese del commercio librario in una città che era stata per secoli faro di cultura.
Ma Dio aveva disposto diversamente: la vera avventura iniziò per Giovanni proprio quando egli credeva d’avervi ormai rinunciato. Granada divenne davvero la sua croce, ma anche la sua gloria! Ancor oggi l’emblema dei Fatebenefratelli consiste per l’appunto in una melagrana sormontata dalla croce e sfolgorante di luce.
Tutto cominciò il primo agosto 1538, quando decise di salire anche lui al Romitorio dei Martiri, davanti l’Alhambra, per la festa annuale di quella che era stata la prima chiesa voluta dai mitici “Re Cattolici” Ferdinando ed Isabella quando riconquistarono Granada nel 1492.
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5. Sconvolto da una predica
Al Romitorio quell’anno i Canonici della Cappella Reale, da cui esso dipendeva, avevano invitato a predicare San Giovanni d’Avila, il famoso apostolo dell’Andalusia che in quel tempo aveva da poco conseguito presso l’Università di Granada il titolo di Maestro in Teologia.
Rievocando il coraggio sia di San Sebastiano, di cui v’era una tela sull’altare, sia dei tanti anonimi cristiani che durante la plurisecolare dominazione araba avevano in quel luogo affrontato la prigione ed il martirio pur di restare coerenti alla propria fede, il Maestro Avila esortò a dimostrare con scelte altrettanto radicali il proprio amore al Signore, uscendo dal pantano della mediocrità e dei mille piccoli tradimenti della nostra vita di ogni giorno.
Le parole dell’Avila provocarono un subbuglio indicibile nell’animo di Giovanni, che d’un tratto avvertì in maniera lacerante la vanità della vita trascorsa ed un disperato desiderio di recuperare quei quattro decenni sprecati ad inseguire effimeri miraggi. E come Cristo aveva dimostrato l’intensità del proprio amore all’uomo, affrontando ogni disprezzo e lasciandosi ignominiosamente inchiodare sulla croce, così Giovanni volle finalmente ricambiare almeno un poco il sacrificio di Cristo, esponendosi per suo amore al ludibrio della folla: con tutta l’esuberanza della sua tempra meridionale prese infatti a battersi platealmente il petto, urlando i propri peccati e invocandone misericordia.
Le aspirazioni borghesi, accarezzate in quegli ultimi mesi, persero di botto ogni minima attrattiva, anzi sentì il bisogno di dare un taglio netto con esse: corse al suo negozietto nella via Elvira, strappò ogni libro profano e regalò quelli d’argomento religioso ed ogni suo bene personale, compresi gli abiti, restandosene giusto con una camicia ed un paio di brache; prese poi a vagare per la città, implorando ad alta voce il perdono del Signore, dandosi dei gran colpi, strappandosi i capelli e perfino rotolandosi nel fango.
La gente rimase esterrefatta e qualcuno decise che era meglio accompagnare Giovanni dal Maestro Avila, perché riequilibrasse quella tempesta suscitata dal suo sermone.
San Giovanni d’Avila era un uomo di non comune levatura, sia dottrinale, come dimostrano i molti libri che ci ha lasciato, sia spirituale, tanto che ai suoi illuminati consigli ricorsero grandi santi della sua epoca, quali Sant’Ignazio di Loyola, San Francesco Borgia, San Pietro d’Alcantara e perfino un Dottore della Chiesa quale Santa Teresa di Gesù. Si fa dunque un po’ fatica a capire come mai l’Avila, invece di moderare le intemperanze di Giovanni, addirittura l’incoraggiasse a continuare ed a non lasciarsi vincere neppure un istante dal rispetto umano.
Forse l’Avila intuì che quello di Giovanni non era uno dei soliti effimeri fuochi di paglia, che conveniva bonariamente spegnere alla svelta, ma un incendio capace di far divampare l’universo intero. O forse, più semplicemente, fu la Provvidenza che andava in quel modo preparando Giovanni ad un incontro decisivo col mondo dei malati mentali, giacché anch’egli, persistendo in quei suoi atteggiamenti, finì rapidamente per essere considerato pazzo, tanto più che, con francescana umiltà, nulla faceva per smentire quel giudizio: e fu così che, dopo essere divenuto per vari giorni il docile zimbello della marmaglia di strada, alla fine qualche anima buona, volendo sottrarlo a quella continua gragnola di scherni e di sassate, lo fece ricoverare nell’Ospedale Reale, che in quel momento aveva un solo Reparto funzionante in permanenza, quello appunto dei malati psichiatrici.
6. L’impatto col mondo ospedaliero
Quell’Ospedale era stato voluto da Ferdinando ed Isabella, i “Re Cattolici” di cui Giovanni aveva potuto venerare il maestoso mausoleo al centro della Cappella Reale di Granada. Costoro nel 1504 avevano munificamente destinato fondi più che sufficienti per creare un complesso ospedaliero che per dimensioni e per qualità di prestazioni risolvesse adeguatamente tutte le esigenze assistenziali della città, ma la realizzazione era stata e rimase sempre deludente, tanto che ai tempi di Giovanni la gestione del mai ultimato Ospedale Reale di Granada era universalmente additata come esempio di inefficienza e corruzione.
Giovanni, specialmente in quell’anno di permanenza a Granada come libraio, aveva avuto modo di ascoltare tali sferzanti critiche e ora poté verificare con i propri occhi le carenze nel vitto e nell’igiene. Quanto alle terapie, a quei tempi la cura della pazzia consisteva in sonore nerbate, che si sperava potessero richiamare al buon senso le menti svanite.
Giovanni, lieto di venir così flagellato come Cristo, accettò volentieri anche quella feroce cura, però sentì il sangue ribollirgli quando la vide applicare agli altri ricoverati, per i quali provava ancor prima che solidarietà per la comune sventura, un sincero affetto per la comune fratellanza in Cristo, che ora avvertiva vivissima per effetto della conversione. La sua prima reazione fu di inveire contro il personale: “È una malvagità ed un tradimento trattare così male e usare tanta crudeltà con questi poveri infelici, fratelli miei e compagni di degenza in questa casa di Dio. Non sarebbe meglio che aveste compassione delle loro sofferenze e li puliste e deste loro da mangiare e ve ne occupaste con più carità ed amore, tenuto conto che i Re Cattolici assegnarono per questo scopo fondi più che sufficienti?”.
Naturalmente le sue rampogne contro l’inumana terapia, ma soprattutto contro la disonesta gestione dell’Ospedale, non ottennero altro risultato che di inasprire maggiormente gli infermieri nei suoi riguardi. Fu allora che gli esplose in cuore quel desiderio che avrebbe poi ispirato la sua futura missione: “Gesù Cristo mi conceda il tempo e mi dia la grazia d’avere io un ospedale, dove possa raccogliere i poveri abbandonati ed i privi di senno e servirli come desidero io”.
Quei giorni vissuti in tumultuosa penitenza erano riusciti a sgombrare il cuore di Giovanni da ogni vano pensiero ed a sintonizzarlo unicamente in Dio, che poté così fargli udire attraverso il linguaggio delle cose la sua chiamata a divenire il pioniere di un nuovo stile assistenziale.
In attesa di poter dare concreta attuazione a quel generoso desiderio di riforma ospedaliera ispiratogli dal Signore, Giovanni per intanto volle cominciare a far qualcosa subito.Per avere un minimo di libertà d’azione, smise con quel suo fare strampalato, disse di sentirsi “rinsavito” e, appena sciolto dai legacci, si offrì di dare una mano nelle pulizie e nell’assistere i compagni di sventura: forse anche per verificarne la guarigione, lo lasciarono fare e Giovanni, pur restando formalmente ricoverato, divenne il più diligente ed il più caritatevole degli infermieri.
Andò avanti così per un paio di mesi ma poi il 21 ottobre 1538, deciso ormai a voler tentare una strada tutta sua per realizzare il frustrato piano assistenziale studiato dai “Re Cattolici” e così spudoratamente tradito dagli amministratori, chiese d’esser dimesso. Era la festa di Sant’Orsola e compagne, che incontrarono il martirio a Colonia, pare durante un pellegrinaggio. Giovanni decise di cominciare anche lui con un pellegrinaggio e, nonostante la stagione fosse ormai inclemente, s’incamminò verso il nord per raggiungere in Estremadura il Santuario Mariano di Guadalupe ed impetrarvi sui suoi progetti l’aiuto della Vergine, della quale aveva sperimentato la materna protezione in ogni passata angustia e specialmente quando da militare, disarcionato da una giumenta imbizzarita, s’era fratturato lo zigomo sinistro ed era rimasto a lungo fuor di sensi a breve distanza dall’accampamento francese.
Come suggello di quel pellegrinaggio mariano, Giovanni divenne fedelissimo alla recita del Santo Rosario, tanto che anni dopo, scrivendo al giovane Luigi Bautista, gli confiderà: “Vi dico d’essermi trovato molto bene col Rosario: spero in Dio di recitarlo tutte le volte che potrò e che Dio vorrà”.
Dopo quell’estenuante pellegrinaggio di circa 400 km, compiuto a piedi nudi e completato in pieno inverno, egli ritornò in Andalusia fermandosi a Baeza da San Giovanni d’Avila, che lo trattenne con sé per vario tempo; fu quasi una specie di noviziato durante il quale l’Avila diede più chiarezza a quei propositi di bene, ancorò su solide basi la spiritualità di Giovanni e l’esortò a ritornare a Granada, affinché il suo desiderio si avverasse nella stessa città dove era sorto, anche se per lui non sarebbe stato affatto facile trovar credito proprio tra una popolazione che l’aveva ormai etichettato per matto.
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7. L’antica cantilena
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Raggiunta Granada, Giovanni cominciò col raccogliere legna nei boschi vicini per distribuirne poi il ricavato tra la gente che viveva abbandonata nelle strade, senza neppure un tetto per la notte. Veramente il primo giorno che fece per entrare a Granada con una fascina di legna sulle spalle, fu preso dal panico all’idea degli sberleffi con cui l’avrebbero accolto nelle strade, in caso avessero giudicato che egli stesse recidivando nelle stramberie dell’agosto precedente. Appena varcata la Porta dei Molini, fu tale il suo timore di confrontarsi con la marmaglia cittadina, che lasciò la fascina alla prima persona che incontrò e se ne riscappò nei boschi.
Il secondo giorno però si fece forza e raggiunse la piazza principale, deciso a sfidare ogni dileggio. Proprio come temeva, al vederlo con tanta legna sulle spalle, tutti presero a chiedergli di quale altra pazzia fosse rimasto vittima.
Deciso a non reagire agli scherni, Giovanni riuscì ad allentare la tensione intima con la geniale trovata di ribattere sì ai dileggi, ma in una forma camuffata, che nessuno riuscisse a comprendere e che tuttavia gli consentisse di proclamare, anche se solo a se stesso, la saviezza del proprio operato e l’insipienza di chi lo giudicava solo dalle apparenze. Egli recuperò a tal fine una vecchia cantilena infantile, rimastagli impressa dai tempi in cui era ancor fanciullo a Montemor, e prese a canticchiarla con voce flautata:
Quest’è il gioco del Berimbone,
tre navigli e un galeone,
ché quanto più tu sbircerai,
tanto men lo scoprirai.
Il gioco del “Berimbone” (in portoghese Berimbau, per far rima con nau, nave) era completamente ignoto in Spagna, per cui nessuno poteva afferrarne l’allusione, ma è tuttora praticato a Montemor, per cui sappiamo che consiste nel mettersi a cavalcioni di un compagno, serrargli con una mano le palpebre e mostrargli con l’altra alcune dita, sfidandolo con la cantilena della sarcastica quartina a indovinarne il numero giacché‚ con gli occhi coperti in quel modo, certo non può mai arrivare a vederle, per quanti sforzi faccia. Proprio come il capannello di sfaccendati della piazza Bibarrambla, che più tempo spendevano attorno a Giovanni, meno divenivano capaci di intuire la svolta interiore maturatasi nell’animo di quel libraio forestiero.
La trovata della cantilena funzionò e con questi ed altri graziosi giochi di parole Giovanni riuscì a sviare i dileggi ed a stabilire poco a poco rapporti normali con tutti.
Il pomeriggio del 16 maggio 1539 Giovanni vide entrare in città il corteo funebre della giovane moglie portoghese dell’imperatore Carlo V, falcidiata da una febbre puerperale. Un’altra testa coronata veniva tumulata nel fastoso mausoleo della Cappella Reale di Granada prima di poter veder compiutamente realizzato l’Ospedale auspicato da Ferdinando ed Isabella, che erano nonni sia della defunta imperatrice che del regnante marito. Giovanni, pensando alla morte che aveva ghermito anzitempo l’imperatrice sua connazionale e che presto avrebbe potuto ghermire anche lui, se ne sentì spronato a consacrarsi senza più indugi alla realizzazione di quel sogno dei “Re Cattolici”.
Dopo aver chiesto ispirazione al Signore pregando per un intero pomeriggio nella Cappella del Santissimo dell’erigenda Cattedrale, giusto al momento d’andar via e nel rimirare su di un altare laterale l’immagine di Cristo in croce con ai lati le figure della Madonna e dell’evangelista Giovanni, ebbe come una visione interiore nella quale la Vergine gli poneva sul capo la corona di spine del Figlio per prepararlo ad affrontare sofferenze inevitabili, ma superabili e preziose se unite a quelle di Cristo. Confortato da quella visione, s’avviò fiducioso verso casa e dopo pochi minuti di strada scoprì che accanto al mercato del pesce, in quella che fu poi denominata via Lucena, esisteva un modesto dormitorio notturno per indigenti. Gli sembrò la risposta del Cielo alle sue preghiere e decise di iniziare tra quelle mura il suo ambizioso progetto.
Con l’approvazione di San Giovanni d’Avila – che era stato invitato a Granada per predicare durante i funerali dell’imperatrice – Giovanni cominciò ad accompagnare in quel dormitorio quanti trovava a giacere sui marciapiedi e ad assumersene il sostentamento.
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8. In ogni uomo, un fratello da aiutare
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Presto il dormitorio diventò insufficiente ma Giovanni, col suo sorriso buono e serenamente gioioso, riuscì a guadagnarsi l’appoggio di alcuni benefattori ed anche dell’arcivescovo di Granada, mons. Gaspare de Avalos, con l’aiuto dei quali poté affittare per proprio conto un edificio più ampio in un vicoletto della stessa via Lucena.
Nella nuova sede l’istituzione cominciò a prendere una fisionomia più nettamente ospedaliera pur restando al contempo un rifugio per qualsiasi miseria, giacché dal giorno della sua conversione Giovanni non volle mai dire un solo no a chiunque gli chiedeva aiuto per amore di Dio. Ed a chi lo giudicava imprevidente, sorridendo obiettava con una parafrasidel salmo 21: “Guarda che Dio dice: da nessuno distoglierai il tuo sguardo”.
Abbiamo a riguardo significativi episodi di questa sensibilità di Giovanni a qualsiasi necessità del prossimo.
Uno degli episodi più noti è quello del viaggio di Giovanni a Valladolid. Trovandosi perennemente indebitato per la sua generosità senza limiti, ebbe da San Giovanni d’Avila il consiglio di chiedere sussidi alla Corte, che allora era a Valladolid, ed in effetti sia il principe reggente Filippo che molti nobili furono assai liberali con lui: ma a Valladolid non v’era meno miseria che a Granada, sicché tutto quello che egli andava ricevendo finiva ben presto distribuito lì stesso. A chi dunque lo rimproverava di rendere in tal modo inutile quel suo lungo viaggio fino a Valladolid, Giovanni con un sorriso disarmante si limitò a rispondere: “Dare qui o dare a Granada, sempre è dare per amore di Dio”.
Oltre che dalla povertà di quanti mendicavano per le strade, Giovanni fu toccato dai grandi disagi dei ricoverati nell’Ospedale Reale di Valladolid, tanto che decise di dedicarvisi a tempo pieno, fermandovisi per vari mesi e tempestando di petizioni il sovrano per ottenere almeno delle agevolazioni daziarie per l’approvvigionamento di tale Ospedale.
Un altro non meno significativo esempio della sensibilità di Giovanni a qualsiasi necessità del prossimo fu il suo incontro a Granada con don Pietro di Toledo, che sarebbe morto a Napoli nel 1571 dopo esserne stato per dodici anni il viceré, ma che allora risiedeva ancora nella natia Siviglia, dove era in quel tempo riverito col titolo di marchese di Tarifa. Il marchese, trovandosi una sera ospite a Granada nel palazzo dei Mondejar, mentre vi giocava a carte con altri invitati vide entrare Giovanni a questuare per il suo Ospedale e racimolarvi ben 25 ducati d’oro. Per comprender quanto rispettabile fosse quella somma, basti pensare che Giovanni in una sua lettera a Gutierre Lasso confida che per sfamare nel suo Ospedale gli oltre cento assistiti, spendeva quotidianamente quattro o massimo cinque ducati.
Quando Giovanni uscì dalla sala, il marchese commentò che se quell’uomo riusciva a raccogliere tanto facilmente molto più di quanto spendeva in ospedale per i suoi assistiti, aveva sicuramente modo di imboscare una buona percentuale di quelle copiose offerte. Ma gli astanti gli replicarono candidamente che per Giovanni era semplicemente impossibile riuscire ad imboscare qualcosa, dato che non usava negare aiuto a chiunque glielo chiedesse.
Il marchese rimase però scettico e decise di metterlo alla prova: lo raggiunse in strada e gli si finse disperato e ormai deciso a togliersi la vita, non avendo alcuna possibilità di pagare un enorme debito di gioco contratto quella sera. E mentre snocciolava con arte la storiella, il marchese rifletteva che Giovanni aveva solo due possibilità: se era davvero di una generosità illimitata, avrebbe calcolato quel che gli serviva per affrontare le spese dell’indomani e quel che gli avanzava glielo avrebbe offerto; se era invece un profittatore, gli avrebbe ipocritamente replicato che non poteva aiutarlo, poiché quanto era riuscito a raccogliere non copriva neppure le spese dell’indomani.
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9. La terza via di Giovanni
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Ma sorprendentemente Giovanni adottò una terza soluzione e senza esitare gli pose in mano tutta la somma appena ricevuta, promettendo che all’indomani avrebbe cercato altro denaro purché lui non commettesse quel gesto inconsulto. Inutile dire che all’indomani fu invece il marchese a restituirgli i ducati, aggiungendovi anzi 150 scudi d’oro e divenendo da allora uno dei suoi maggiori benefattori.
Da che cosa nasceva quell’inaspettata terza soluzione? In altre parole, come mai Giovanni, interpellato da qualche bisogno concreto, pareva dimenticarsi degli impegni che aveva assunto con i suoi malati? Gli era rimasto ancora qualche ramo di stramberia? Decisamente no! Il suo era un atteggiamento perfettamente logico, ma di una logica derivata direttamente dal Vangelo.
La nostra abituale tendenza è di essere noi la misura degli altri, per cui diamo priorità a chi per noi ha maggiore importanza. Ad esempio, se iniziamo un progetto assistenziale, da quel momento le spese di quel progetto avranno per noi assoluta priorità su qualsiasi altro impegno caritativo che ci venga proposto. Ma quando chiesero a Gesù qual è concretamente il prossimo cui dobbiamo mostrare amore, Egli rispose con la parabola del Buon Samaritano (Lc 10, 25-37), insegnando che l’amore va mostrato con priorità a colui che abbiamo fisicamente di fronte, pronti dunque a mettere da parte ogni precedente impegno istituzionale, perfino quello di sacerdoti e leviti nei riguardi del culto divino.
Nella descrizione del Giudizio finale (Mt 25, 31-45), Gesù ci ha spiegato la logica di questa priorità: nei panni di chi ci interpella, si cela Gesù e dunque non possiamo mai dirgli di no. La nostra attuazione non può mai essere condizionata dalla valutazione soggettiva dei legami che abbiamo con la particolare persona che ci sta di fronte, ma deve invece essere guidata dalla valutazione della dignità oggettiva di qualsiasi essere umano, la quale deriva dalla sua identificazione mistica con Cristo. Giovanni l’aveva ben capito e proprio da questa saldissima convinzione nasceva quella sua frase “Dare qui o dare a Granada, sempre è dare per amore di Dio”.
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10. Alla sera della vita
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Come cambierebbe il nostro agire se anche noi, come i santi, ci ricordassimo che alla sera della vita saremo giudicati sul criterio di priorità del nostro amore! Dovremmo rileggerci più spesso il citato brano del vangelo di San Matteo (Mt 25, 31-45), dove Gesù ci descrive la scena del Giudizio Universale, in cui saremo premiati o puniti unicamente in base a quello che avremo donato – o negato! – a coloro nei quali ci siamo imbattuti durante il nostro peregrinare sulla terra, poiché quel che facciamo ad ogni uomo, è a Cristo stesso che lo facciamo: infatti mediante la sua incarnazione, morte e risurrezione Cristo ci ha trasformati in nuove creature e, comunicandoci il suo Spirito, ci ha costituiti suoi fratelli in un solo Mistico Corpo di cui Egli è il Capo; appunto grazie al mistico legame che unisce il Capo alle membra, Cristo considera come diretto a se stesso ogni nostro gesto nei riguardi di qualunque dei suoi fratelli.
Quale esemplificazione concreta di questa sconvolgente identificazione potremmo ricordare quando sulla strada di Damasco Gesù interpella Saulo come persecutore dei cristiani contestandogli “Saulo, perché mi perseguiti?”; o potremmo ricordare Gesù che appare a San Martino mostrandoglisi rivestito della metà del mantello che costui aveva appena donato ad un povero.
E si badi che non è necessario rendersi conto di questa identificazione di Cristo con la persona di ogni nostro fratello, tanto è vero che nel racconto evangelico del Giudizio Finale sia i buoni che i malvagi mostrano di scoprirla solo allora.
Dio infatti, volendo che la nostra risposta sia libera e perciò meritoria, invece di interpellarci direttamente, si limita a sussurrarci nell’intimo del cuore la sua domanda d’Amore, cercando di farci commuovere dinanzi alle sofferenze di un prossimo che ci è totalmente anonimo. Quasi come un innamorato miliardario, che per saggiare la sincerità d’amore della fanciulla che ha scelto, le si presentasse in vesti dimesse.
Quando però cominciamo a rispondere a questi Suoi appelli interiori, capita talora che Egli già sulla terra ci si sveli per un istante. Fu quel che accadde a San Martino e che si ripeté con Giovanni, il quale un giorno mentre nel suo Ospedale era intento a lavare i piedi d’un malato, vide all’improvviso comparirvi i fori della Crocifissione e, con un gran fulgore, il malato trasfigurarsi in Cristo e dirgli: “Giovanni, quando lavi i piedi ai poveri, è a Me stesso che li lavi”.
Credere nel Corpo Mistico non è solo dare materialmente qualcosa al fratello in Cristo che ne ha bisogno, ma è soprattutto credere che ogni uomo è tempio di Dio, aver fiducia in questa Presenza e credere che possa trionfare d’ogni sozzura che parrebbe averla cancellata.
Solo credendo nell’unione mistica d’ogni uomo con Cristo, arriveremo a credere in chiunque come sapeva crederci Giovanni, che con piena sincerità e profonda fede soleva chiamare tutti con l’appellativo di “fratelli in Cristo” e chiamò così perfino il principe Filippo. È credendo nei potenti, che riusciva ad accattivarseli ed a trasformarli in benefattori; è credendo negli assassini, negli sfruttatori, negli usurai, nei maldicenti, che riusciva a convertirli in suoi discepoli; è credendo nelle prostitute, che riusciva a strapparle alla loro umiliante professione.
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11. Difensore della donna
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Il fatto che 1’8 marzo siano venuti a coincidere la “Festa della Donna” e la ricorrenza liturgica di San Giovanni di Dio, può diventare una buona occasione per sottolineare quanto questo straordinario santo ebbe autenticamente a cuore la dignità della donna, specie di quelle che sembravano avervi definitivamente rinunciato.
Ogni venerdì egli soleva infatti recarsi da qualche prostituta e, dopo averle pagato la tariffa, le chiedeva solo d’ascoltarlo rievocare la Passione di Cristo: e la raccontava con tanta devozione che molte finivano per ravvedersi e si lasciavano poi aiutare a cambiar vita, ricevendo da lui la dote e quant’altro occorresse per tornar libere e sistemarsi.
In questo coraggioso apostolato non gli mancarono certo insulti, scherni e pesanti accuse, ma mai riuscirono a scalfire la sua disarmante fiducia nel prossimo. Tra i tanti episodi, merita ricordare almeno quello delle quattro prostitute che vollero un giorno farsi gioco di lui e gli dettero a credere che avrebbero mutato vita se lui le avesse accompagnate a Toledo, dove avevano da regolare un’importante questione.
Senza indugio Giovanni di Dio si procurò delle cavalcature per loro e le seguì a piedi in quel viaggio di oltre trecento km, assieme ad un suo fedele collaboratore soprannominato Angulo. Possiamo immaginare quali salaci commenti destasse il passaggio di quella strana comitiva: commenti che Angulo non riusciva a sopportare con la stessa bontà del Santo.
A poco più di metà cammino, durante una tappa ad Almagro, cominciò a sparire una di loro, ed altre due scomparvero una volta raggiunta Toledo. Angulo a quel punto non seppe più trattenere l’irritazione per quell’assurdo viaggio e cominciò a borbottare contro Giovanni di Dio, dicendogli che era stata una vera pazzia dar retta a simili donne, tanto erano tutte ugualmente perverse e nessuna di loro sarebbe cambiata.
Ma Giovanni di Dio lo rabbonì prendendo esempio dai viaggi che gli faceva fare per rifornire di pesce l’Ospedale: da Motril, sulla Costa del Sole, fino a Granada, c’erano una settantina di chilometri di dura salita e se il pesce non era ben fresco, andava a male lungo la strada. “Supponi – gli disse – che avevi caricato a Motril quattro some di pesce e se ne fossero guastate tre in viaggio: forse per questo avresti buttato via la quarta?”.
Ed in effetti la quarta donna ritornò con loro da Toledo e cambiò davvero vita come aveva promesso.
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12. Fate bene, fratelli!
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Nella mistica identificazione di Cristo col prossimo, specie sofferente, Giovanni aveva ormai trovato la propria ragione di vita, ma non gli bastava: voleva che anche gli altri aprissero gli occhi a questa sconvolgente verità e si convincessero dell’immenso valore di ogni gesto di misericordia.
Alla duchessa di Sessa, sua benefattrice, scriveva perciò “L’elemosina che mi faceste, già gli Angeli l’hanno scritta in Cielo nel libro della Vita”. E più avanti aggiungeva con ancor maggior forza: “Se considerassimo quanto è grande la Misericordia di Dio, mai lasceremmo di fare il bene ogniqualvolta potessimo, poiché dando noi per suo amore ai poveri quel che Lui dà a noi, Egli ci promette nella beatitudine il cento per uno. O felice guadagno e usura! Chi non darà quel che possiede a codesto Mercante benedetto, giacché Egli fa con noi un affare così buono?”.
Ed è per questo motivo che egli quando all’imbrunire, terminato di accudire ai suoi malati, usciva alla questua per le strade di Granada, soleva cantilenare quelle stupende parole: “Fate bene, fratelli, a voi stessi per amor di Dio”, affinché la gente capisse che egli veniva non a chiedere, ma al contrario ad offrire la possibilità d’essere ricompensati a dismisura nella vita eterna per ogni gesto di generosità nei confronti di chi era nel bisogno.
E se talora qualcuno esitava per avarizia, Giovanni senza mezzi termini gli chiariva che quell’invito suadente era in realtà un imperativo morale ineludibile. La volta, ad esempio, che un ricco mercante si rifiutò di regalargli un lenzuolo per seppellirvi un vagabondo trovato morto per strada, Giovanni gli depositò il cadavere davanti al portone, dicendogli: “Tanto sono in obbligo di seppellirlo io, quanto tu!” e fece l’atto di andarsene, sicché l’altro, convintosi, s’affrettò a richiamarlo e a dargli il lenzuolo.
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13. Dall’odio all’amore
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Erano gesti e frasi che lasciavano il segno e scuotevano gli animi enormemente di più che le sue stramberie d’un tempo. In realtà, dopo pochi mesi di vederlo all’opera con i miseri, più nessuno lo giudicava un pazzo da legare, anzi ognuno restava ammirato del gran bene che riusciva a compiere, tanto che già sul finire del 1539 vi furono alcuni che decisero di associarsi a Giovanni nel suo apostolato di carità. Tra codesti discepoli della primissima ora ci furono Giovanni García, Antonio Martín e Pietro Velasco. Questi ultimi due, Giovanni se li guadagnò con un autentico prodigio di grazia, che merita raccontare.
Velasco era in carcere a Granada in attesa di giudizio, avendo ucciso per motivi d’onore il fratello di Martín, il quale s’era anche lui trasferito nella città per seguirvi la causa, giunta ormai all’ultimo appello, e nel frattempo vi sbarcava il lunario dedicandosi all’ignobile mestiere di “protettore”. Giunse infine dal Tribunale della Cancelleria di Granata la sentenza definitiva di condanna a morte ma, secondo il codice dell’epoca, nei delitti d’onore era possibile il condono se l’assassino veniva perdonato dai parenti dell’ucciso: però Antonio Martín, nonostante molti intermediari avessero cercato di indurlo a concedere il perdono, si era sempre sdegnatamente rifiutato di perdonare chi gli aveva ucciso l’unico fratello che aveva.
Giovanni, che nel suo apostolato tra i carcerati aveva conosciuto Pietro Velasco, volle fare un estremo tentativo per salvargli la vita. Si mise in cerca di Antonio Martín e, incontratolo in via della Colcha, si inginocchiò ai suoi piedi e gli additò il Crocifisso: “Se vuoi che Lui ti perdoni i peccati, – gli disse senza mezzi termini – devi perdonare il tuo nemico!”.
Quel monito evangelico, pronunciato da chi su di esso aveva improntato la propria vita (ad ogni offesa Giovanni infatti usava rispondere: “Dato che prima o poi devo perdonarti, tanto vale che ti perdoni subito”), gli entrò dritto nel cuore. Assieme a Giovanni si recò seduta stante al Carcere per ufficializzare il perdono dell’attonito Velasco. I due nemici si abbracciarono commossi e poi, sconvolti da quell’esperienza, capirono entrambi che la loro vita avrebbe avuto senso solo facendosi, con un totale cambiamento di rotta, umili discepoli di quell’infuocato portoghese. Come deduciamo dalla sua primitiva lastra tombale, Antonio Martín aveva allora 39 anni. Da quel momento lui e Velasco si consacrarono totalmente al Signore nel servizio ai malati. A sera uscivano a questuare con Giovanni, anch’essi scalzi, e chiunque li aveva conosciuti, nel vederli in tal modo, restava stupito.
Nella primavera del 1540 Giovanni bussò per aiuto alla porta di mons. Michele Muñoz, da anni Consigliere di Amministrazione e Cappellano dell’Ospedale Reale di Granada ma ormai sul piede di partenza in quanto fin dal gennaio era stato promosso a Vescovo di Tuy ed era in attesa di prender possesso canonico di tale Diocesi spagnola, sita nel versante portoghese della Galizia.
Il prelato non solo gli consegnò un’offerta, ma facendosi interprete del giudizio popolare che ormai vedeva in quell’instancabile portoghese un provvidenziale uomo di Dio, venuto a lenire i gravi problemi sociali della città, gli modificò il nome in “Giovanni di Dio”, sicché tutti a Granada presero a chiamarlo in quel modo. Col nome, il vescovo gli impose anche una specie di divisa assai semplice: un camiciotto, un paio di calzoncini a mezza gamba e una ruvida mantellina.
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14. Abito e nome da religioso
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Nome ed abito ufficializzarono anche esteriormente quella che ormai appariva una definitiva donazione a Dio come religioso. Giovanni di Dio se ne rese perfettamente conto e appena tornato in Ospedale chiese ai suoi discepoli di indossare lo stesso abito e trasformarsi così in Famiglia Religiosa. Assieme all’abito, essi adottarono similmente un nuovo nome, per cui Martín, al pari di Giovanni, si fece chiamare di Dio; e Velasco, consapevole dell’omicidio di cui si era macchiato, scelse di farsi chiamare Pietro Peccatore.
Dio benedisse l’impegno della nuova Comunità Religiosa, animandola quotidianamente con la grazia e talora, pare, anche con interventi prodigiosi. Ad esempio, un giorno che mancava il pane per i malati, un misterioso giovane ne recò in abbondanza. A chi gli chiese chi fosse, rispose che condivideva la stessa missione di Giovanni di Dio e infatti ne indossava lo stesso abito.
Nessuno lo vide mai più e c’è chi si disse convinto che fosse stato l’arcangelo San Raffaele, che nella Bibbia è indicato essere l’angelo specificamente incaricato dal Signore per soccorrere i malati, come ben appare dal suo stesso nome, che significa “medicina di Dio”. In ricordo di quell’episodio, ancor oggi i Fatebenefratelli nutrono particolare devozione per San Raffaele, festeggiandolo il 24 ottobre e raffigurandolo con indosso il loro abito e con il grembo dello scapolare colmo di pane.
In quello che è il più famoso quadro di San Giovanni di Dio, dipinto dal Murillo per una chiesa di Siviglia, viene ricordato un altro intervento prodigioso di San Raffaele, quando una notte avrebbe aiutato il Santo a rialzarsi da terra, dove era scivolato per la violenza della pioggia mentre arrancava sul viscido acciottolato della salita Gomélez, avendo sulle spalle un malato trovato abbandonato sul marciapiede e che stava portando nel suo ospedale.
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15. Nonostante la pioggia
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Con la collaborazione di Martín e Velasco e con l’appoggio di vari benefattori tra cui particolarmente l’arcivescovo di Granada, Giovanni era riuscito a traslocare il suo Ospedale in un fabbricato assai più ampio, acquistato per 400 ducati in cima alla salita Gomélez e nel quale poté predisporre ambienti separati per i vecchi abbandonati, per le persone di transito e per i vari tipi di ammalati: era una vera innovazione per quei tempi, tanto che poi il Lombroso lo avrebbe definito per questo motivo “il creatore dell’Ospedale moderno”.
Ma l’innovazione più autentica di quell’Ospedale era la profonda umanità con cui veniva accolta quella turba di derelitti, che solamente tra quelle mura cominciavano finalmente a capire quanto Dio li amasse. Essi si accorgevano infatti che nel cuore di chi li assisteva palpitava il cuore stesso di Cristo.
In men che non si dica, anche il nuovo edificio risultò angusto e Giovanni di Dio l’ampliò con una nuova ala, la quale purtroppo nel dicembre 1542 smottò sotto le piogge che scendevano torrenziali dalle erte pendici dell’Alhambra. I benefattori che l’avevano finanziata ne rimasero costernati ma non si persero d’animo e, sotto il coordinamento di San Giovanni d’Avila, concordarono di erigere in zona migliore un nuovo e più ampio Ospedale. L’iniziativa fu portata avanti con molto entusiasmo ed in breve furono raccolti fondi molto consistenti che nella primavera del 1543 permisero di avviare i lavori in un terreno messo a disposizione dai Frati di San Girolamo, ma poi subentrò una lunga stasi, tanto che solo tre anni dopo la morte di Giovanni si riuscì infine a completare grosso modo l’edificio ed a trasferire così i malati in quello che è ancor oggi l’Ospedale San Giovanni di Dio.
Giovanni pertanto, finché visse, dovette contentarsi di continuare a ricevere i malati nella salita Gomélez, limitandosi a riparare al meglio i danni dell’edificio e forse commentando in cuor suo che le buone intenzioni di quei generosi benefattori del 1542 stavano facendo la stessa triste fine di quelle dei “Re Cattolici”. Un indizio di questa sua scarsa fiducia nella loro iniziativa è il fatto che a distanza di un sette anni da quel crollo, quando i lavori del nuovo grande edificio presso la Porta San Girolamo erano ormai completamente fermi, Giovanni nello scrivere alla duchessa di Sessa non sollecita minimamente aiuto per quella imponente costruzione ed invece segnala alla sua benefattrice il gran bisogno in cui si ritrova nella vecchia sede di Gomélez “poiché sto rinnovando tutto l’edificio, che era assai malandato e ci pioveva”.
Il Santo firma questa lettera non con il suo nome Giovanni di Dio – che solo raramente e solo in documenti ufficiali usava vergare per esteso – ma con una misteriosa sigla di tre lettere, che egli mai volle spiegare e che probabilmente riproduce le iniziali dei Re Cattolici, quasi a ricordare a se stesso il desiderio di realizzare per proprio conto il sogno benefico dei sovrani Ferdinando e Isabella: in effetti, a dispetto delle piogge e degli indugi dei benefattori del 1542, Giovanni di Dio era ormai riuscito già nella sede di Gomélez ad offrire adeguata soluzione ai bisogni ospedalieri di Granada, nella cui Cappella Reale ormai le salme dei due sovrani potevano perciò finalmente dormire sonni tranquilli.
Ecco come il Santo descrive in una lettera all’amico Gutierre Lasso la ben variegata tipologia del proprio Ospedale: “Siccome questa Casa è generale, si accoglie ogni malattia e tipo di gente, sicché qui ci sono storpi, mutilati, lebbrosi, muti, mentecatti, paralitici, tignosi ed altri molto anziani e numerosi bambini, senza poi contare molti altri pellegrini e viandanti che vengono qui e si offre loro fuoco, acqua, sale e pentole per cucinare il mangiare”.
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16. La fisionomia spirituale
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Le lettere che conserviamo di Giovanni sono appena sei, però grazie alla loro spontaneità ci offrono valide piste per delineare il profilo spirituale del Santo. Egli infatti non meditò a tavolino le sue lettere, pesando i concetti e limando le espressioni, ma le dettò di getto, con uno stile inevitabilmente ingarbugliato, ma di totale trasparenza dei sentimenti interiori. E questa trasparenza diviene ancor maggiore grazie alla peculiare umiltà che contraddistingue ogni autentica santità.
L’umiltà dei Santi nasce dal fatto che mentre noi abbiamo la tendenza di studiare i difetti altrui ed in questo modo insuperbire al ritrovarci migliori di almeno qualcuna delle persone che ci stanno d’intorno, il Santo rifugge dal giudicare gli altri e concentra la sua attenzione su Cristo, che tutti siamo chiamati ad imitare, senza ovviamente poterne mai raggiungere la perfezione. A motivo del differente punto di riferimento, il Santo non si ritiene mai soddisfatto dei risultati conseguiti e fino all’ultimo respiro anela a progredire di più nel cammino intrapreso, per cui proprio le virtù in cui ormai eccelle sono quelle di cui egli, con sincera umiltà, si duole di non possedere ancora.
Se non fosse per questo tipo d’umiltà, davvero non riusciremmo a renderci conto come mai Giovanni nella lettera che abbiamo appena citato, scritta quando mancavano esattamente due mesi alla gloriosa morte e quindi possiamo ritenere avesse ormai praticamente già maturato appieno la propria santità, continui umilmente a chiedere all’amico Gutierre Lasso d’impetrargli dal Signore aiuto a crescere in carità, proprio lui Giovanni che noi veneriamo per antonomasia come il Santo della carità!
Oltre a crescere in tale virtù, ecco quanto concretamente Giovanni chiede all’amico: “Amatissimo fratello in Gesù Cristo, non lasciate di pregare Gesù Cristo per me, affinché mi dia grazia e forza perché possa resistere e vincere il mondo, il diavolo e la carne; e mi dia umiltà, pazienza e carità verso il mio prossimo. E mi permetta di confessare con sincerità tutti i miei peccati, obbedire al mio confessore, disprezzare me stesso e amare solo Gesù Cristo. Parimenti professare e credere tutto quello che professa e crede la santa madre Chiesa”.
Ci basta leggere in positivo questo brano della lettera, dando cioè per eminentemente conseguito quanto appare desiderato, e possiamo ricavarne il più fedele autoritratto interiore del Santo, non affidato a nostre sottili intuizioni, ma inconsapevolmente tracciato con assoluta sincerità dalla viva voce dell’interessato.
In base a questa involontaria autodescrizione il Santo ci appare: vittorioso sul mondo, il diavolo e la carne; caritatevole verso il prossimo; sincero ed obbediente col confessore; senza alcun culto di sé; innamorato unicamente di Dio; propugnando la più completa e filiale adesione all’insegnamento della Chiesa, in quei secoli tristemente lacerata da scismi ed eresie.
Che cosa il Santo intendesse col trinomio mondo, diavolo e carne”, lo sappiamo da un’altra sua lettera alla duchessa di Sessa: per “mondo” egli intendeva l’ansia smodata di accumulare beni terreni e la perniciosa illusione che la nostra fibra umana sia abbastanza solida e duratura da consentire di riprenderci in futuro dagli stravizi di oggi; per “diavolo” lo spingerci del Maligno a impegolarci talmente nella cura dei beni temporali da cancellare completamente dalla nostra agenda ogni momento dedicato alla vita interiore e alle opere di misericordia; per “carne” il pungolo a mangiar bene, bere bene, vestir bene, poltrire, defilarsi nel lavoro, cedere alla sensualità e vanagloriarsi.
Si noti che la lotta contro questi tre nemici gli era stata additata da San Giovanni d’Avila fin dai giorni del famoso ricovero nell’Ospedale Reale di Granata e questo ci conferma come gli obiettivi spirituali che Giovanni elenca all’amico Gutierre Lasso erano gli stessi che si era proposto nei giorni della clamorosa conversione. E troviamo conferma della persistente centralità di tali obiettivi nel cammino ascetico di Giovanni, considerando che la loro lista ricompare, praticamente con le stesse parole, anche in una delle sue lettere alla duchessa di Sessa, segno evidente di un orientamento spirituale ormai più che consolidato perfino nella sua formulazione verbale.
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17. Una nuova Famiglia Religiosa
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Nella salita Gomélez i discepoli di Giovanni vivevano come una nuova Famiglia Religiosa sotto l’obbedienza dell’arcivescovo, che redasse per loro apposite Costituzioni, della cui osservanza era garante un Cappellano esterno di nomina diocesana ed avente la qualifica di Rettore dell’Ospedale.
Ai tre ricordati discepoli iniziali della Comunità andarono unendosi alcuni altri, quali Simone d’Avila e Domenico Piola. Quest’ultimo era italiano e da buon genovese campava prestando denaro. Giovanni, una volta che non sapeva più a chi chiederlo, s’azzardò a domandargli un prestito e quando Domenico sardonicamente gli obiettò che occorreva un garante di tutta fiducia, non trovò di meglio che tirar fuori una immaginetta del Bambino Gesù. Di fronte a tanto candore, Domenico rimase sconvolto. Il Bambino, questa volta senza ricorrere a misteriosi messaggi, gli toccò il cuore e gli fece di colpo intuire che la sua vita sarebbe stata infinitamente meglio spesa accanto a Giovanni che inseguendo i maledetti soldi.
Giovanni fu attentissimo a forgiare nella fede e nell’amore ogni suo discepolo, come ben traspare dalla sua lettera al giovane Luigi Bautista, che appariva intenzionato ad associarsi definitivamente alla nascente Comunità. Giovanni era infatti conscio che l’esiguo gruppo che gli si era affiancato rappresentava solo la prima cellula di un Istituto Religioso che avrebbe sfidato i secoli. Non per nulla, ad una persona con cui usava confidarsi egli espresse la propria convinzione che “vi sarebbero stati molti del suo abito a servizio dei poveri in tutto il mondo”.
Accanto al gruppetto di discepoli che indossavano l’abito religioso v’era un discreto numero di volontari laici, talora sposati, e che al massimo ricevevano il vitto ed in qualche caso l’alloggio. Il più noto di loro è Giovanni d’Avila, soprannominato Angulo, che pur essendo povero e con moglie a carico, si prodigava gratuitamente come Maggiordomo dell’Ospedale ed uomo di fiducia del Santo. Non v’era alcun personale stipendiato e l’Ospedale non aveva rendite fisse ma, come scrive il Santo al suo amico Gutierre Lasso, “a tutto provvede Gesù Cristo”.
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18. Vittima di carità
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A fine mattina del 3 luglio 1549 un furioso incendio divampò nell’Ospedale Reale di Granada, intrappolando nel loro Reparto i malati di mente che nessuno voleva o ardiva soccorrere: Giovanni di Dio, che ben conosceva quegli ambienti, fu l’unico che osò avventurarsi tra le fiamme, guidando tutti in salvo e trattenendosi poi a recuperare le masserizie, che gettava man mano dalle finestre. Si recò poi sul tetto, lavorando d’ascia per bloccare l’avanzata del fuoco, che in effetti non riuscì ad estendersi al versante del Reparto Psichiatrico. Ad un tratto però un’improvvisa fiammata s’abbatté su di lui e la gente lo considerò perduto: ma dopo un bel po’ riapparve libero e senza danni, tranne le ciglia che erano bruciacchiate, a testimoniare in che modo prodigioso il Signore l’aveva salvato da sicura morte.
Quest’episodio veniva così ricordato nell’antica orazione liturgica per la festa del Santo: “Insegnando la carità, mostrò che il fuoco esterno aveva su di lui minor forza del fuoco che lo bruciava interiormente”.
L’inverno seguente un nuovo gesto di generosità gli fu fatale: gettatosi a fine febbraio nelle gelide acque del torrente Genil per salvare un giovane trascinato via dalla corrente, ne riportò una polmonite. Costretto a letto da brividi e febbre, Giovanni intuì per l’esperienza infermieristica la gravità della situazione, contro la quale non v’era allora alcuna valida terapia e che usualmente portava a morte in nona giornata.
Cercò di riguardarsi un poco, ma proprio in quel momento vennero a dirgli che l’arcivescovo, che era allora mons. Pietro Guerrero, voleva vederlo d’urgenza. Giovanni, dissimulando alla meglio la propria malattia, accorse prontamente da lui, che dopo avergli snocciolato con una certa irritazione una serie di critiche che la gente moveva al suo troppo buon cuore nell’accettare chiunque nel proprio Ospedale, anche emeriti imbroglioni che profittavano della sua ingenuità e donne equivoche, che lo disonoravano con la loro condotta, gli intimò d’espellere immediatamente tali pessime persone.
Pacatamente Giovanni tentò le difese dei suoi assistiti, dicendo che era lui solo pessimo e meritevole d’essere scacciato e che in tutti gli altri non trovava nulla di riprovevole, ma a quel punto mons. Guerrero fece un sorrisetto ironico per fargli capire che non intendeva esser preso per il naso e sapeva bene che feccia d’umanità popolava l’Ospedale. A Giovanni non rimase altro che giocare a carte scoperte e senza più negare l’addebito, giustificò il suo operato parafrasando il Vangelo: “Dato che Dio sopporta sia i cattivi che i buoni e su tutti fa sorgere ogni giorno il sole, non ci son ragioni per scacciare gli abbandonati e gli afflitti dalla loro casa”. Quel ragionamento lineare convinse l’arcivescovo che Giovanni non era un ingenuo, ma un’anima di Dio e paternamente gli disse che lo benediva ed autorizzava a proseguire a suo modo.
Giovanni tornò in Ospedale con l’animo più sereno, ma avvertendo nel fisico il progredire inesorabile della polmonite. Temendo di soccombere ad essa, si premurò di far scrivere in ordine i suoi perenni debiti. Chiamò uno scrivano e con lui, nonostante la febbre, fece il giro dei creditori per mettere nero su bianco la situazione debitoria, che in qualche caso apparve perfino dimenticata dall’interessato, ma non dall’animo onesto di Giovanni, che volle venisse riassunta in duplice lista, una da conservare in Ospedale ed una che si pose in petto.
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19. Nella casa dei Pisa
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Esausto da quei giri, Giovanni non riuscì più ad alzarsi dal letto, per cui quando venivano a chiedergli aiuto non ebbe altra risorsa che mandarli con un suo biglietto da qualche benefattore, non avendo più forze per elemosinare personalmente. Quei biglietti fecero conoscere in giro la gravità della sua situazione di salute ed una delle sue maggiori benefattrici, donna Anna Ossorio, moglie del Consigliere Municipale García de Pisa, accorse da lui e vedendolo giacere su un tavolaccio, con la sporta per cuscino e continuamente assediato da una torma di poveri, gli offerse di venire accudito nel suo palazzo signorile. Giovanni ovviamente rifiutò di lasciare i suoi poveri, ma donna Ossorio non si dette per vinta e tornò con un ordine scritto dell’arcivescovo, al quale Giovanni si vide costretto ad ubbidire, anche se l’angoscia dei suoi assistiti a quel distacco gli spezzava il cuore e gli fece perdere i sensi.
Adagiatolo su di una sedia, lo trasportarono al palazzo dei Pisa, dove gli imposero di togliersi il ruvido abito religioso e gli dettero un camicione, ponendolo in un soffice letto e vietando ai poveri d’entrare a importunarlo.
L’arcivescovo si premurò di venirgli a dare l’estremo saluto e Giovanni, che era riuscito a portare con sé la lista dei debiti, lo convinse a saldarglieli ed in più ottenne la promessa che avrebbe vegliato sul futuro dell’Ospedale.
Tra i pochi ammessi nella stanza che gli avevano riservato all’ultimo piano erano ovviamente i suoi Confratelli ed una sera il suo discepolo Antonio Martín l’udì intonare ad alta voce l’inno mariano Alma Redemptoris Mater. Incuriosito, ne chiese a Giovanni il motivo e questi, dopo essersene a lungo schermito, finì col confidargli che gli era appena apparsa la Madonna per assicurargli che in cambio della devozione che egli aveva nutrito sempre per Lei, non gli avrebbe ora negato il suo celeste Patrocinio in punto di morte; e la confidenza del Santo si concluse con un accorato invito perché i suoi discepoli restassero anch’essi sempre devoti alla Vergine per poterne godere in ogni momento l’immancabile aiuto e Patrocinio.
Quella devota consegna sul letto di morte fu in effetti sempre rispettata dai Fatebenefratelli, che hanno tuttora come loro principale festa mariana la solennità della Madonna del Patrocinio, che celebrano liturgicamente il terzo sabato di novembre.
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20. Tra il venerdì e il sabato
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La devozione mariana del Santo era seconda solamente a quella per la Passione di Cristo, riguardo alla quale poteva in tutta sincerità confidare alla duchessa di Sessa: Non trovo miglior rimedio e conforto, quando mi trovo in pena, che rimirare e contemplare Gesù Cristo crocifisso e riflettere sulla sua santissima Passione”.
Giovanni era talmente consapevole che le due note essenziali della propria religiosità erano la sua profonda devozione al mistero della Passione e la sua tenera devozione alla Madre Celeste, che egli più volte aveva manifestato a chi godeva della sua confidenza la propria certezza interiore che sarebbe morto a cavallo tra un venerdì ed un sabato, a cavallo cioè dei due giorni che la pietà popolare usa dedicare in maniera specialissima rispettivamente a ricordo del dramma del Golgota, consumatosi il Venerdì Santo, e a ricordo della materna intercessione di Maria, l’unica salda nella fede durante le desolate ore del Sabato Santo.
In effetti, Giovanni morì all’alba di un sabato ed in quel tempo la cerniera tra un giorno ed il successivo non era la mezzanotte, ma appunto l’alba. Per l’esattezza, Giovanni s’aggravò il 7 marzo 1550, che era un venerdì: gli portarono il Viatico, ma egli era così debole che non poté inghiottire l’Ostia e si limitò a fare atto d’adorazione.
A sera chiamò Antonio Martín, suo primo e più fedele discepolo, e gli raccomandò i malati e la Comunità, designandolo come suo successore, poi chiese di restare solo.
Verso l’alba, coloro che erano restati a vegliarlo nella stanza accanto, avvertirono nel silenzio notturno la consueta squilla d’un vicino convento che invitava la Comunità in Cappella per la recita del Mattutino del sabato. Una mezz’oretta dopo, udirono il Santo esclamare “Gesù, Gesù, m’affido nelle tue mani”.
Seguì un lungo silenzio, per cui decisero d’entrare e s’avvidero che il Santo aveva lasciato il suo letto, aveva indossato l’abito religioso e s’era posto ginocchioni al centro della stanza, stringendo con entrambe le mani un crocefisso e contemplandolo col capo leggermente inclinato, come nell’atto di volerlo baciare.
Proprio come aveva previsto, poco dopo l’inizio della liturgia sabatina la morte gli aveva schiuso le porte dell’ineffabile liturgia celeste. Ed incredibilmente il suo corpo, invece di afflosciarsi al suolo, era rimasto fissato in quel significativo atteggiamento d’amore e di preghiera.
Tutta Granada accorse stupita a rendergli l’estremo omaggio. Quando sopraggiunsero dalla vicina Cancelleria gli Alcaldi del Crimine, Lebrija e Sereño, diedero ordine di distenderne a forza le membra per poterlo collocare nella bara, che venne poi scesa in strada da quattro rappresentanti della più alta nobiltà, primo fra tutti il famoso marchese di Tarifa.
Il funerale fu celebrato nella stessa mattina del sabato 8 marzo e fu un trionfo, come mai s’era visto per altri. Giovanni era stato un fratello per tutti e assolutamente tutti, nobili e popolani, mori e cristiani, ne piansero la morte come davvero di un loro fratello.
La generosa epopea vissuta per una dozzina di anni a Granada da San Giovanni di Dio, non si concluse però con la sua morte, dato che il suo messaggio, come aveva egli stesso profetizzato, si espanse e perpetuò nei secoli tramite la Famiglia Religiosa da lui fondata.
Già durante la sua vita Giovanni di Dio aveva avviato una seconda fondazione ospedaliera a Toledo, affidandola al suo discepolo Fernando. Nel 1552, a brevissima distanza dalla sua morte, il suo successore Antonio Martín apriva un Ospedale a Madrid ed altri ne seguirono in breve, per cui il primo gennaio 1572 venne presentata una richiesta al Papa San Pio V per ottenere l’inquadramento della nuova Famiglia Religiosa nell’ambito del diritto pontificio.
Il Papa aderì alla richiesta e con la Bolla “Licet ex debito” la approvò come Istituto Religioso Regolare, sottoposto alla Regola di Sant’Agostino, per cui i Confratelli cominciarono ad emettere la Professione Religiosa nelle mani del Vescovo locale.
Il 1572 segnò così la nascita canonica dei Frati di San Giovanni di Dio, che presero a diffondersi anche in Italia, dove ebbero il soprannome di Fatebenefratelli perché nel questuare ripetevano lo stesso ritornello del Fondatore, come ci ricordano queste ingenue terzine di una “villanella”,ossia una canzonetta, in voga a Roma nel 1584:
Vanno per Roma con le sporte in collo
certi gridando: Fate Ben Fratelli,
per medicar gl’infermi poverelli.
A questi non v’è donna tanto avara
che non faccia limosina e non sia
verso di loro liberale e pia.
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21. Cittadini del mondo
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Benché animate da un medesimo ideale e vincolate ad un medesimo stile di vita, le singole Comunità dei Fatebenefratelli erano tra loro formalmente autonome, finché nel 1586 Sisto V volle elevarle a costituire un Ordine Religioso, riunendole quindi in un sol corpo, con un unico Superiore Generale residente a Roma nell’Isola Tiberina. Ciò sottrasse le singole Comunità a visioni troppo regionalistiche e rese perciò i Confratelli autentici cittadini del mondo, pronti a salpare per qualunque lembo di terra ove ci siano malati da soccorrere.
Fu così che l’Ordine dei Fatebenefratelli poté programmare la sua diffusione un po’ in tutte le nazioni non solo dell’Europa, ma anche in terra di Missione.
A distanza di un secolo, come rileviamo da una statistica del 1685, i Fatebenefratelli avevano 52 Ospedali in America Latina e 2 nelle Filippine e cominciavano a puntare verso le coste dell’Africa e dell’India, come appare dalla fondazione di un Ospedale nel Mozambico (1681) e di 4 nei porti indiani di Goa (1685), Baçaim (1686), Diu (1687) e Damão (1693), senza contare l’assistenza sanitaria prestata saltuariamente nei porti cinesi di Shangai, Swatow e Lien-Kiang.
Attualmente i Fatebenefratelli risultano presenti in ogni continente, gestendovi circa quattrocento centri, disseminati in una cinquantina di nazioni:
EUROPA: Austria, Francia, Germania, Inghilterra, Irlanda, Italia, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia, Spagna, Ucraina, Ungheria e Vaticano.
ASIA: Cina, Corea, Filippine, Giappone, India, Israele e Vietnam.
AFRICA: Benin, Camerun, Ghana, Kenia, Isola Maurizio, Liberia, Malawi, Mozambico, Senegal, Sierra Leone, Togo e Zambia.
AMERICA: Argentina, Bolivia, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Cuba, Ecuador, Honduras, Messico, Perù, Stati Uniti e Venezuela.
OCEANIA: Australia, Nuova Zelanda e Papua Nuova Guinea.
In perfetta sintonia con questo anelito universale dei Fatebenefratelli sono fiorite al loro fianco in questi ultimi anni già due Associazioni di Cooperazione Internazionale, riconosciute ufficialmente dai rispettivi Governi e che operano in numerose nazioni del Terzo Mondo, comprese anche alcune dove non esistono ancora Ospedali dei Fatebenefratelli: sono l’Associazione italiana “AFMAL (Con i Fatebenefratelli per i malati lontani)” el’Associazionespagnola “Juan Ciudad”.
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22. Nel calendario dei Santi
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La santità del Fondatore dei Fatebenefratelli è stata riconosciuta ufficialmente dalla Chiesa, che fin dal 1630 lo proclamò Beato, fissandone la festa liturgica all’8 marzo, giorno della sua nascita al Cielo.
Nel 1690 Alessandro VIII lo proclamò Santo. Nel 1886 Leone XIII prescelse lui e San Camillo de Lellis quali Patroni degli Ospedali e dei malati e nel 1930 Pio XI li designò anche come Patroni degli infermieri e delle loro associazioni.
Nella schiera dei Fatebenefratelli che da quasi cinque secoli perpetuano la dedizione del Fondatore verso i malati ed i poveri, molti hanno raggiunto le vette della santità e per svariati di loro è stato iniziato il Processo di Beatificazione: si tratta di una procedura giustamente complessa e che richiede perciò tempi assai lunghi, per cui essa è ancora in corso per un tedesco (fra Eustachio Kugler), un canadese (fra Guglielmo Gagnon), due cubani (fra Giuseppe Eulalio Valdés e fra Giacomo Oscar Valdés) e venticinque spagnoli (il Venerabile fra Francesco Camacho, morto in Perù, a Lima; e ventiquattro martiri della Guerra Civile Spagnola), ma ha già avuto il suo felice epilogo per altri settantaquattro Confratelli e solo di questi ultimi faremo brevemente cenno.
Il primo fatebenefratello di cui si iniziò la Causa fu lo spagnolo fra Giovanni Grande, morto vittima di carità il 3 giugno 1600 assistendo gli appestati nella città andalusa di Jerez de la Frontera.
Era nato in provincia di Siviglia, a Carmona, il 6 marzo 1546 ed i genitori l’avviarono al commercio delle stoffe, ma egli vi resistette solo un paio d’anni e preferì poi, appena diciottenne, ritirarsi a vita eremitica: furono due anni di raccoglimento e di riflessione, che gli fecero maturare la decisione di dedicarsi al servizio del prossimo nella popolosa città di Jerez, in cui si insediò nel 1565.
Cominciò con l’assistere i carcerati ma presto localizzò il suo impegno nel settore sanitario e gli venne affidata un’infermeria per i malati rifiutati dagli Ospedali: si trattava cioè di malati, per lo più sifilitici, che per regolamento non venivano accettati in quanto considerati incurabili; oppure di convalescenti, ancora non autosufficienti ma già dimessi per carenza di posti letto e per economizzare sulla gestione.
Ben presto gli si affiancarono dei discepoli e verso il 1574 egli decise di fondere il suo gruppo con quello sorto a Granada per iniziativa di San Giovanni di Dio.
Vestito l’abito dei Fatebenefratelli, egli continuò a prodigarsi a Jerez, dove nel 1589 ebbe anche l’incarico dalle autorità locali di riorganizzare l’intera rete ospedaliera della città.
Il ricordo delle sue capacità e della generosa dedizione ai bisogni di Jerez perdura vivo ancora oggi, tanto che quando nel 1980 Jerez venne eretta Diocesi, subito iniziarono le petizioni perché fra Giovanni Grande, che già dal 1853 era stato proclamato Beato, venisse riconosciuto Patrono della nuova Diocesi, il che fu infine concesso dal Papa nel 1986.
Nel 1996 Giovanni Paolo II lo proclamò Santo. La festa liturgica di San Giovanni Grande ricorre il 3 giugno, cioè nel giorno in cui fu stroncato dalla peste che egli aveva contratto nell’assistere le vittime di una spaventosa epidemia cittadina.
L’urna di San Giovanni Grande è attualmente venerata nella Chiesa del moderno Ospedale che i Fatebenefratelli hanno a Jerez; a motivo della sua Canonizzazione tale Chiesa è stata dichiarata Santuario Diocesano ed è meta di frequenti pellegrinaggi per venerarvi non solo l’urna del Santo, ma anche quella del Beato Emanuele Jiménez, uno dei nostri martiri del Noviziato di Calafell e che finora è l’unica persona nativa di Jerez che sia ascesa agli onori dell’altare.
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23. San Riccardo Pampuri
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Più vicina ai nostri tempi è la figura di San Riccardo Pampuri. Nacque il due agosto 1897 a Trivolzío, un paesino a 12 km da Pavia.
Laureatosi in Medicina nel 1921, lavorò per sei anni come medico condotto a Morimondo, che è in provincia di Milano e dista 8 chilometri da Abbiategrasso.
Nel 1927, desiderando consacrarsi ai malati in maniera più completa e totale, entrò a Brescia nel Noviziato dei Fatebenefratelli e vi emise la Professione Religiosa il 24 ottobre 1928.
Gli venne affidato il Gabinetto Dentistico e la gente accorreva da lui non solo per la competenza professionale, ma per il garbo e l’amore con cui avvicinava i pazienti.
La fama di questo frate dai modi così angelici si diffuse presto in tutta Brescia, tanto che le mamme gli portavano i fanciulli perché li benedicesse: lui, nella sua umiltà, se ne angustiava, giudicando che quel gesto spettasse ai sacerdoti, finché un giorno il p. Provinciale non lo cavò d’impaccio, suggerendogli amabilmente: “Anziché benedirli, puoi invocare su di loro la Vergine oppure il nostro Fondatore San Giovanni di Dio, pregandoli d’intercedere secondo l’intenzione della mamma”.
Purtroppo nella primavera del 1929 la sua salute cominciò a vacillare, minata da una malattia allora inguaribile: la tubercolosi. Dopo un susseguirsi di miglioramenti e di ricadute, il 18 aprile 1930 fu trasferito nell’Ospedale che i Fatebenefratelli hanno a Milano.
Vi morì la sera del primo maggio ed è questo appunto il giorno che ne celebriamo la festa liturgica da quando fu proclamato Beato nel 1981.
La sua salma fu riportata al paese natio ed è venerata nella Chiesa parrocchiale di Trivolzio, la stessa dove era stato battezzato.
Giovanni Paolo II lo proclamò Santo nel 1989. Come ben ebbe a sottolineare il Papa, “la vita breve, ma intensa, di fra Riccardo Pampuri è uno sprone per tutto il popolo di Dio, ma specialmente per i medici. Ai suoi colleghi egli rivolge l’appello che svolgano con impegno la loro delicata arte, animandola con gli ideali cristiani, umani, professionali, perché sia un’autentica missione di servizio sociale, di carità fraterna, di vera promozione umana”.
Fu la sua una vita così breve, che davvero non ci fu tempo né occasione di compiere grandi imprese. Ma fu una vita intensa di significato, giacché egli nel prepararsi alla Professione dei Voti s’era riproposto di “fare anche le cose piccole, minime, con amore grande”.
E fu proprio la tenace quotidiana fedeltà verso questo suo proposito a condurlo alle vette della santità, trasformando la sua ordinaria attività professionale in autentica missione di carità.
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24. I martiri in Spagna
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Se San Riccardo Pampuri fu chiamato alla santità attraverso la quotidianità, un discreto numero di Fatebenefratelli si è invece trovato ad affrontare la prova suprema del martirio prima d’entrare nella gloria dei Cieli. Nell’albo d’oro dell’Ordine sono elencati martiri della Fede in Belgio, Polonia, Colombia, Cile, Brasile, Filippine, ma soprattutto in Spagna, dove durante la Guerra Civile del 1936 ben novantotto Confratelli furono uccisi in odio alla Fede.
Il Processo di Beatificazione è stato iniziato solo per quelli martirizzati in Spagna, nella cui folta schiera sono stati selezionati due gruppi: uno, per il quale il Processo è ancora in corso, comprende ventiquattro martiri tra cui fra Giacomo Oscar Valdés, che era cubano e che potrebbe essere il primo della sua nazione ad ascendere agli onori degli altari; l’altro gruppo comprende settantuno martiri, il cui Processo si è già felicemente concluso, per cui Giovanni Paolo II li ha iscritti tra i Beati il 25 ottobre 1992.
Tra codesti settantuno Beati figurano sette giovani nativi della Colombia, che si trovavano in Spagna per seguire dei corsi di preparazione professionale e che vennero proditoriamente fucilati a Barcellona il 9 agosto 1936, nonostante come stranieri avessero ricevuto un salvacondotto dal Governo. Nella Storia della Chiesa, essi sono stati i primi della loro terra a meritare la gloria degli altari.
Tra questi settantuno Beati ci sono anche i dieci Martiri del Noviziato di Calafell, appartenente alla Provincia Aragonese, e dei quali sono venerate alcune reliquie nel nostro Noviziato di Amadeo, nelle Filippine: esse vi furono consegnate personalmente dal Superiore Generale dei Fatebenefratelli, fra Brian O’Donnel, al vescovo della Diocesi, mons. Emanuele Sobreviñas, quando nell’aprile 1994 costui le collocò sotto l’altare della nostra Cappella al momento di solennemente consacrarlo. Con quel gesto simbolico il Noviziato delle Filippine venne posto sotto la speciale protezione degli eroici Novizi di Calafell e del loro Padre Maestro, fra Braulio Maria Corres. La scena della loro fucilazione, eseguita il pomeriggio del 30 luglio 1936 in una cava di mattoni poco fuori Calafell, è rievocata in un grande quadro collocato a lato dell’altare.
Appunto il 30 luglio è la data scelta dal Papa per la ricorrenza liturgica di tutti i 71 Beati, anche se la maggior parte di loro, appartenendo ad altre sette Comunità della Zona Rossa, incontrarono il martirio in date differenti.
Non potendo qui citarli tutti, ci limitiamo a ricordarne solo ancora un altro, che visse per un decennio nella Provincia Romana, dove ricopri gli incarichi dapprima di maestro dei Novizi e poi di Priore di Frascati: fra Guglielmo Llop.
Fra Guglielmo nacque in Spagna nel 1880 ed a 18 anni prese l’abito dei Fatebenefratelli. Restò nella Provincia Romana dal 1912 al 1922, distinguendosi particolarmente nell’assistenza ai feriti della prima Guerra Mondiale.
Nel 1922 andò con altri Confratelli a far rifiorire l’Ordine in Cile. Nel 1928 tornò in Spagna ed allo scoppio della Guerra Civile era Priore dell’Istituto Psichiatrico di Ciempozuelos: nonostante l’aperta persecuzione contro frati e preti, volle restare con tutta la Comunità ad assistere i degenti fino al giorno che vennero ad arrestare lui e tutti i Confratelli.
Rinchiusi il 9 agosto nel carcere di Madrid, vi attesero a lungo la corona del martirio. Fra Guglielmo si sovvenne che due anni prima, mentre era in Italia per il Capitolo Generale, aveva avuto modo di incontrarsi con San Pio da Pietralcina, che gli aveva predetto il martirio, per cui il ricordo di quella profezia lo spinse a preparare se stesso ed i Confratelli ad affrontare degnamente e serenamente quei mesi di drammatica attesa di una probabile esecuzione. Fu in effetti fucilato il 28 novembre 1936 e le sue ultime parole furono di perdono per i suoi uccisori.
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25. San Benedetto Menni
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Fin dal suo primo inquadramento canonico l’Ordine dei Fatebenefratelli per meglio garantire le finalità ospedaliere ha avuto sempre una fisionomia laica, ma con possibilità di avere in ogni Comunità anche l’eccezione di un Confratello prete che provvedesse, in mancanza di cappellani esterni, al ministero sacerdotale per i malati e per tutta la famiglia ospedaliera.
San Benedetto Menni – nato l’11 marzo 1841 a Milano, dove prese l’abito dei Fatebenefratelli nel 1860 – fu appunto prescelto per questo ruolo sacerdotale e venne ordinato prete a Roma il 14 ottobre 1866.
In quegli anni il ramo spagnolo dei Fatebenefratelli si era andato estinguendo in conseguenza della legislazione massonica emanata nel 1834 in Portogallo e nel 1835 in Spagna: occorreva farlo nuovamente rifiorire e ne fu incaricato Menni, che a tale scopo prese alloggio a Barcellona il 6 aprile 1867.
Dopo lunghe vicissitudini, spesso drammatiche, egli non solo riuscì a reclutare nuove vocazioni, quasi un migliaio fra il 1867 e il 1903, ma fondò tra Spagna, Portogallo e Messico ben 22 Ospedali per ogni specie di infermi, soprattutto però dementi e fanciulli storpi, che erano le categorie allora più trascurate dall’assistenza pubblica.
Accanto alla ricostituita Provincia Spagnola dei Fatebenefratelli, il Santo fece nascere anche un ramo femminile, le Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù, presenti oggi in 26 nazioni con un totale di 118 Comunità, tra cui otto in Italia: due a Roma e le altre a Viterbo, Nettuno, Ascoli Piceno, Albese, Grottaferrata e Roccella Ionica.
La Casa Madre delle sue Suore è a Ciempozuelos, in Spagna, ed è lì che venne nel 1914 trasportata la sua salma dopo la morte avvenuta a Dinan il 24 aprile, giorno scelto come sua festa liturgica da quando fu proclamato Beato nel 1985.
Giovanni Paolo II lo ha proclamato Santo il 21 novembre 1999. In quell’occasione il card. Carlo M. Martini, vescovo dell’arcidiocesi in cui nacque Menni, nella sua prefazione alla biografia ufficiale di questo straordinario cittadino milanese, mise in rilievo un particolare aspetto della poliedrica personalità del Santo, ricavandone uno specifico auspicio: “se il volontariato non ha ancora un patrono, forse si potrebbe trovarlo in san Benedetto Menni”.
Le ragioni fornite dal card. Martini per tale proposta erano sia “l’esperienza di volontariato accanto ai feriti della battaglia di Magenta…che ne portò a maturazione la vocazione religiosa”, sia soprattutto l’esperienza dei tre anni trascorsi sui campi di battaglia della Spagna, inquadrato ufficialmente come volontario della Croce Rossa, tanto che “la dimensione del volontariato diventò la chiave di volta della sua strategia restauratrice e fondatrice”.
Raccogliendo in qualche modo tali motivazioni, lo stesso Papa nel ricevere nell’Aula Paolo VI le migliaia di pellegrini convenuti a Roma per la canonizzazione, non solo sottolineò l’esperienza di Menni come volontario, ma rivolgendosi ai molti volontari presenti, lodò il loro impegno di solidarietà, li incoraggiò a proseguire nella loro generosa e gratuita dedizione ai malati ed ai minorati, ed espressamente li invitò a riconoscere nel nuovo Santo il modello cui ispirarsi, lasciandosi “illuminare dall’esempio di Padre Menni, imitandolo e seguendolo lungo il cammino della misericordia che egli percorse”.
Confidiamo dunque che presto San Benedetto Menni, in qualche luogo già ufficialmente proclamato Patrono Diocesano del Volontariato, lo divenga anche a livello di Chiesa Universale, in risposta alle numerose petizioni che continuano a giungere da tutto il mondo.
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26. I Fatebenefratelli nelle Filippine
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San Benedetto Menni arrivò a veder realizzati quasi tutti i suoi progetti, ma non quello di far rifiorire l’Ordine anche nelle Filippine.
Già nel 1611 due fatebenefratelli spagnoli avevano raggiunto quel lontano Arcipelago, fondando un piccolo Convalescenziario fuori le mura di Manila, nella zona di Bagumbayan, ma si ritirarono nel 1621. Più felice fu un secondo tentativo nel 1641, quando altri due confratelli spagnoli cominciarono ad assistere i malati nel porto militare di Cavite, affacciantesi nella medesima baia di Manila. Nel 1644 riaprirono anche il Convalescenziario di Bagumbayan.
Nel 1656 assunsero la gestione dell’Ospedale della Misericordia, che divenne la sede del Vicario Provinciale delle Filippine e che era sito dentro le mura di Manila, giusto di fronte alla Porta del Parian. L’edificio fu distrutto dal terremoto del 1674 ma i Fatebenefratelli, dopo aver acquistato un contiguo lotto per ampliare l’area, lo riedificarono col nuovo nome di “San Giovanni di Dio”.
Fin dal 1649 il Consigliere Comunale don Pietro Cañete, riconoscente per l’assistenza ricevuta nel Convalescenziario di Bagumbayan, aveva donato loro una sua tenuta a nord di Manila, chiamata “Hacienda Buenavista”. Con l’aiuto di altri benefattori i Confratelli riuscirono ad acquistare vari lotti confinanti, per cui la tenuta raggiunse la dimensione di quasi 40.000 ettari, praticamente l’intera estensione dell’attuale territorio comunale di San Rafael de Bulacan. Grazie ai raccolti ed alle mandrie che vi pascolavano, si riusciva a sostenere sia la gestione dei due Ospedali di Manila, che di quello che venne poi aperto in loco.
Nel Settecento vennero aperti per brevi periodi anche altri due Ospedali nelle città di Cebu e Zamboanga. In tutto nelle Filippine i Fatebenefratelli arrivarono ad avere un massimo di sei Ospedali, ma era tanta la carità che dimostravano che la gente con affettuosa gratitudine prese a chiamarli Juaninos, ossia “Giovannini”, invece della denominazione ufficiale di “Frati Ospedalieri di San Giovanni di Dio”. Ed in sintonia con tale stima popolare, il 24 febbraio 1703 l’arcivescovo di Manila, mons. Diego Camacho y Avila, decretò che in tutta la Diocesi la ricorrenza di San Giovanni di Dio andasse considerata giorno di precetto. L’obbligo perdurò per tutto il tempo spagnolo: ce lo conferma la “Guida per i Forestieri” stampata a Manila nel 1854, nella quale viene ricordato a spagnoli ed europei che l’8 marzo sia nella capitale Manila sia nel porto di Cavite, pur essendo giornata lavorativa, vige per loro l’obbligo di recarsi ad ascoltare la Santa Messa come di domenica.
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27. Vittime cruente
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Non tutto ovviamente fu sempre roseo. Nella tenuta di San Rafael de Bulacan le incursioni di alcune tribù negroidi delle montagne provocarono due vittime tra i Confratelli: il primo fu fra Antonio de Santiago, trafitto da frecce il 14 aprile 1665, durante una razzia di bestiame; il secondo fu fra Giannantonio Guemez, ucciso a colpi di lancia il 13 maggio 1731, durante una nuova razzia.
Particolare eco ebbe il martirio affrontato dal Venerabile Lorenzo Gomez il 7 gennaio 1702, trucidato da una tribù di Tinguianes mentre dalla Comunità di Manila, profittando della stagione asciutta, s’era recato nel nord dell’isola per una missione medica di sei mesi tra la popolazione ilocana di Tagudin e Balaoan. In entrambe le Parrocchie di tali due cittadine una lapide ricorda il generoso olocausto di questo confratello, cui è anche intitolato l’Ambulatorio gratuito aperto nel Palazzo Arcivescovile di Vigan dall’attuale presule, mons. Edmondo M. Abaya.
Ancor più nota è la tragica fine di fra Apollinario de la Cruz, annoverato nelle Filippine tra i martiri della libertà. Egli aveva fondato per i suoi conterranei di stirpe Tagalog una pia Confraternita in onore di San Giuseppe, del quale i Fatebenefratelli di Manila erano particolarmente devoti ed usavano dedicargli solenni celebrazioni liturgiche, specie nel mese di ottobre. Ma nel 1841 il Governatore spagnolo, sospettoso di ogni iniziativa sia pur lontanamente nazionalistica, ordinò la soppressione della Confraternita e chiese ai Fatebenefratelli di dimettere fra Apollinario dalla loro Comunità, dove era stato accolto come oblato fin dal 1830. Fra Apollinario riuscì a fuggirsene e radunò sulle pendici del monte Banahaw oltre tremila aderenti alla Confraternita, decisi a difendere pacificamente, ma ad oltranza, la loro libertà di culto.
Con pugno di ferro, il Governatore mandò un’armata a disperderli. La notte del 31 ottobre 1841 i soldati attaccarono l’accampamento, macchiandosi di un’atroce strage, con centinaia di vittime, praticamente inermi, come è dimostrato dal fatto che le truppe spagnole ebbero appena undici feriti e nessun morto. Fra Apollinario riuscì a sfuggire, ma venne catturato il 4 novembre e, con giudizio sommario, immediatamente giustiziato nella piazza centrale di Sariaya, venendogli concesso giusto il tempo di ricevere l’assoluzione dal parroco di Atimonan.
Oggi fra Apollinario è giustamente ricordato come eroe della Patria e gli sono stati innalzati monumenti sia nel parco di Luneta a Manila, sia altrove ed in particolare nella frazione di Lucban dove nacque.
Nel giro di alcuni anni la situazione andò facendosi difficile per tutti i Confratelli delle Filippine, che per secoli erano canonicamente dipesi da un Superiore Provinciale residente a Città del Messico e da un Superiore Generale residente a Madrid. Ma da un lato le frequenti prassi eversive adottate dai Governanti del Messico dopo il conseguimento dell’autonomia nazionale nel 1821 e dall’altro lato le leggi eversive emanate dal Governo Spagnolo nel 1835 e 1836 per il territorio metropolitano della Spagna, comportarono per le Comunità delle Filippine la scomparsa dei Superiori Maggiori che esse avevano in tali due nazioni e la conseguente disattivazione del Noviziato di Manila, dato che giuridicamente i Superiori Locali non hanno la facoltà di accettare nuovi candidati.
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28. L’estinzione
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Nel 1861 il Papa Pio IX suggerì di risolvere il problema ponendo i Fatebenefratelli delle Filippine sotto la giurisdizione del Superiore Generale residente a Roma, ma per motivi politici ciò non fu possibile e ne conseguì la lenta estinzione della Comunità, mancando il ricambio di nuove leve locali di Religiosi a motivo della chiusura del Noviziato.
Ormai ridotti a poche unità, i Fatebenefratelli furono costretti nel 1866 a lasciare sia l’Ospedale di Manila, sia il Convalescenziario, che già da un secolo era stato trasferito da Bagumbayan alla vicina isoletta di Sant’Andrea nel fiume Pasig, e che oggi è conosciuto come Hospicio de San Jose.
Quando San Benedetto Menni restaurò l’Ordine Ospedaliero in Spagna, cercò di farlo rifiorire anche nelle Filippine, dove viveva ancora un ultimo confratello superstite, fra Emanuele Peña, che risiedeva nell’Ospedale San Giovanni di Dio di Cavite col titolo, ormai solo onorifico a motivo della veneranda età, di Priore.
Il Santo ebbe vari contatti epistolari sia con lui che con le Autorità del posto, tanto che il Governatore di Manila offrì un edificio dove i Fatebenefratelli potessero aprire un Istituto Psichiatrico. Purtroppo tale progetto venne nel 1887 bocciato dal Governo Centrale di Madrid: il vento di ribellione che spirava ormai anche in quest’ultimo lembo coloniale induceva infatti il Governo Spagnolo ad opporsi a qualsiasi nuovo insediamento nelle Filippine, specie nell’area di Manila, e pertanto risultarono vani a Madrid i successivi vari tentativi di Menni per ottenere un ripensamento dal Ministero d’Oltremare.
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29. Invitati dal Cardinal Sin
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Morto verso il 1888 fra Emanuele Peña, l’arcidiocesi ha continuato a gestire fino ad oggi sia l’Ospedale San Giovanni di Dio che l’Ospizio San Jose, ma nel settembre 1985 il cardinal Sin, quale arcivescovo di Manila, inviò richiesta scritta alla Curia Generalizia dei Fatebenefratelli affinché ritornassero nelle Filippine.
Nel 1987 il cardinale si incontrò dapprima in marzo a Manila e poi in ottobre a Roma col Superiore della Provincia Romana dei Fatebenefratelli, che infine accettò l’offerta di insediare a partire dal marzo 1988 una piccola Comunità in un edificio di Quiapo, che è uno dei rioni più poveri del centro storico di Manila.
In tale edificio, concesso dall’arcidiocesi in uso gratuito per vent’anni, i Fatebenefratelli aprirono nel settembre 1988 il Centro Socio-Sanitario San Juan de Dios, nato come Dispensario Antitubercolare, finché l’acquisto di un’area contigua e la costruzione in essa di un’apposita palazzina permisero di trasformarlo in Ambulatorio Polispecialistico, riservando il vecchio edificio ai servizi generali ed alla formazione iniziale dei candidati
Nella nuova palazzina prese inoltre il via nel luglio 1996 la Granada Special School, ossia un Centro per Audiolesi che offre sia Corsi di Scuola per l’Infanzia, dove utilizzando il metodo audio-verbale i bambini sordi vengono messi in grado di comunicare con tutti, in modo da poter poi proseguire gli studi in normali Scuole Elementari; sia corsi di formazione professionale per tecnico di computer, che permettono agli adolescenti sordi di trovare lavoro qualificato.
Nel giugno 1990 i Fatebenefratelli poterono finalmente riaprire per le Filippine un Noviziato ad Amadeo, sulle colline fuori Manila, ed a lato vi fecero sorgere nell’ottobre 1996 il Centro Pedagogico Residenziale Bahay San Rafael, nel quale offrono ai bambini cerebrolesi un programma di riabilitazione introdotto per la prima volta nelle Filippine, che è ispirato alla “Conductive Education” ideata dal medico ungherese Andrea Peto e che permette a molti di loro di apprendere a camminare o quanto meno di acquisire maggiore autonomia fisica e di migliorare la capacità comunicativa.
Sia il Centro di Manila che quello di Amadeo sono giuridicamente inquadrati come Istituti di Beneficenza ed hanno ottenuto entrambi dal Ministero degli Affari Sociali l’accreditamento, ossia il riconoscimento ufficiale della impeccabile qualità dei servizi prestati e della funzionalità dell’organizzazione. Anche la Presidenza della Repubblica ha voluto far giungere nel settembre 2003 una lettera d’encomio per l’alto livello delle prestazioni offerte alle classi meno abbienti.
San Benedetto Menni, che tanto ebbe a cuore le Filippine, certamente dal Cielo ha gioito nel vedervi infine tornare all’opera i Fatebenefratelli ed ha interceduto dal Signore il fiorire di vocazioni locali. A lui è stato intitolato lo Scolasticato di Manila, ossia il Centro Studi San Benedetto Menni, dove i giovani che hanno concluso il Noviziato e sono stati ammessi alla Professione Religiosa, vengono ad intraprendervi gli studi professionali e spirituali di cui necessitano per lo specifico apostolato ospedaliero nel mondo della sofferenza e dell’emarginazione.
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30. I Fatebenefratelli in Italia
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Abbiamo accennato alla crisi del ramo spagnolo dei Fatebenefratelli agli inizi del Novecento, ma anche in Italia, pochi decenni dopo, ci furono momenti non meno difficili.
In Italia il primo Ospedale dei Fatebenefratelli era sorto a Napoli nel 1574; quando nel 1587 fu eletto il primo Superiore Generale e le Comunità vennero ripartite in due Province, una spagnola e l’altra italiana, quest’ultima contava già 5 Ospedali.
Il moltiplicarsi delle fondazioni anche in altre nazioni e le difficoltà create dalle frontiere politiche portarono a scindere le due iniziali Province in numerose altre, a volte di vita effimera. Per quanto riguarda l’Italia, dall’iniziale Provincia unica, che a partire dal 1596 venne chiamata Romana, furono ben presto distaccati quasi tutti gli Ospedali sorti nei domini spagnoli delle Due Sicilie e del Milanese: nacquero così da essa nel 1589 la Provincia Siciliana, nel 1596 la Provincia Napoletana e nel 1608 la Provincia Milanese; dalla Provincia Napoletana andarono enucleandosi lungo il Seicento anche la Provincia Barese, la Provincia Sarda e la Provincia della Calabria-Basilicata.
Nella già citata statistica del 1685 troviamo elencati per l’Italia 66 Ospedali. Un secolo dopo, come rileviamo dagli Atti del Capitolo Generale del 1778, erano saliti a 71, ma di lì a poco la bufera napoleonica pose in crisi tutte le Istituzioni Religiose ed anche i Fatebenefratelli dovettero abbandonare vari Ospedali. Però il colpo più duro venne dopo l’unità d’Italia, quando la legislazione eversiva del 1866, estesa nel 1873 anche nell’antico Stato Pontificio, negò la personalità giuridica a tutti gli Istituti Religiosi e ne confiscò ogni bene.
Fu così che gran parte delle restanti 46 Comunità italiane dei Fatebenefratelli dovettero disperdersi e solo in alcune città ottennero dalle Autorità Municipali, cui era stata trasferita la gestione degli Ospedali confiscati, di potervi restare a lavorare come pubblici dipendenti: questa, ancor oggi, è la situazione dei Fatebenefratelli di Perugia.
Solo con il Concordato del 1929 fu restituita ai Religiosi la personalità giuridica, che nel caso dei Fatebenefratelli fu potuta ottenere dalla Curia Generalizia e dalle uniche due superstiti Province italiane: la Romana, che abbraccia l’Italia centromeridionale e insulare, e la Lombardo-Veneta, che comprende l’Italia settentrionale. Inoltre in terra di Missione la Provincia Romana ha due Comunità, formanti la Delegazione Provinciale delle Filippine, intitolata alla Madonna del Patrocinio; e la Provincia Lombardo-Veneta ne ha una in Terrasanta a Nazareth, intitolata alla Sacra Famiglia.
Il riconoscimento giuridico ha facilitato in Italia la ripresa dell’Ordine Ospedaliero dei Fatebenefratelli, come appare dal seguente prospetto degli attuali Centri nazionali ed esteri dipendenti dai tre citati Enti canonici riconosciuti dal Governo Italiano:
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Curia Generalizia
ROMA: Ospedale San Giovanni Calibita
Isola Tiberina, 39 Cap. 00186 – Tf 06/68.371
Sede della Fondazione Internazionale Fatebenefratelli
ROMA: Centro Internazionale Fatebenefratelli
Via della Nocetta, 263 – Cap. 00164 – Tf 06/660.49.81
Sede della Curia Generalizia dei Fatebenefratelli
ROMA: Farmacia Vaticana
Città del Vaticano – Cap. 00120 – Tf 06/69.88.53.61
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Provincia Romana
ROMA: Ospedale San Pietro
Via Cassia, 600 – Cap. 00189 – Tf 06/33.581
Sede della Curia Provincializia Romana
e del Centro Studi San Giovanni di Dio
PERUGIA: Ospedale San Niccolò
Via Fatebenefratelli, 4 – Cap. 06121 – Tf 075/57.35.483
BENEVENTO: Ospedale Sacro Cuore di Gesù
V.le Principe di Napoli, 14/a – Cap. 82100 – Tf 0824/77.1111
NAPOLI: Ospedale Buon Consiglio
Via A. Manzoni, 220 – Cap. 80123 – Tf 081/598.11.11
GENZANO DI ROMA: Istituto San Giovanni di Dio
Via Fatebenefratelli, 2 – Cap. 00045 – Tf 06/93.73.81
Sede del Noviziato Interprovinciale Italiano
e del Postulantato della Provincia Romana.
PALERMO: Ospedale Buccheri – La Ferla
Via M. Marine, 197 – Cap. 90123 – Tf 091/47.91.11
ALGHERO: Soggiorno San Raffaele
Via Asfodelo, 55/b – Cap. 07041
MANILA (Filippine): San Juan de Dios Center
1126 R. Hidalgo St., Quiapo, 1001 Manila – Tf 00632/736.29.35
Sede dello Scolasticato
AMADEO (Filippine): San Ricardo Pampuri Center
26 Bo. Salaban, Amadeo, 4119 Cavite – Tf 006346/413.17.37
Sede del Postulantato e del Noviziato
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Provincia Lombardo-Veneta
BRESCIA: Ospedale Sant’Orsola
Via V. Emanuele II, 27 – Cap. 25122 – Tf 030/29.711
Sede dello Scolasticato
BRESCIA: Ist. Scient. di Ric. e Cura San Giovanni di Dio
Via Pilastroni, 4 – Cap. 25125 – Tf 030/35.33.511
CERNUSCO sul NAVIGLIO (MI): Istituto Sant’Ambrogio
Via Cavour, 2 – Cap. 20063 – Tf 02/92.761
Sede della Curia Provincializia Lombardo-Veneta
e del Centro Studi e Formazione
ERBA: Ospedale Sacra Famiglia
Via Fatebenefratelli, 20 – Cap. 22036 – Tf 031/638.111
GORIZIA: Casa di Riposo Villa San Giusto
Corso Italia, 244 – Cap. 34170 – Tf 0481/59.69.11
MILANO: Ospedale San Giuseppe
Via San Vittore, 12 – Cap. 20123 – Tf 02/85.991
MONGUZZO (CO): Centro Studi Fatebenefratelli
Cap. 22040 – Tf 031/650.118
ROMANO d’EZZELINO (VI): Casa di Riposo San Pio X
Via Ca’ Cornaro, 5 – Cap. 36060 – Tf 0424/33.705
S. COLOMBANO al LAMBRO (MI): Ist. S. Cuore di Gesù
V.le San Giovanni di Dio, 54 – Cap. 20078 – Tf 0371/20.71
S. MAURIZIO CAN. (TO): Pr. Osp. Riab. B. V. Consolata
Via Fatebenefratelli, 70 – Cap. 10077 – Tf 011/92.63.811
SOLBIATE COMASCO (CO): Res. Sanit. Ass. S. Carlo B.
Via Como, 2 – Cap. 22070 – Tf 031/80.22.11
Sede del Postulantato
TRIVOLZIO (PV): Casa di Riposo San Riccardo Pampuri
Via Sesia, 23 – Cap. 27020 – Tf 0382/93.671
VARAZZE (SV): Casa Rel. di Ospitalità B. V. d. Guardia
Largo Fatebenefratelli – Cap. 17019 – Tf 019/93.511
VENEZIA: Ospedale San Raffaele Arcangelo
Madonna dell’Orto, 3458 – Cap. 30121 – Tf 041/72.01.88
VILLA DALEGNO (BS): Soggiorno Mad. del B. Consiglio
Via Monte Coleazzo, 7 – Cap. 25050 – Tf 0364/911.33
NAZARETH (Israele)): Holy Family Hospital
P.O. Box 8 – Cap. 16100 – Tf 009724/650.89.00
Chi vuol unirsi ai Fatebenefratelli italiani nel loro apostolato ospedaliero e missionario, può chiedere notizie ai seguenti Centri di Formazione:
- in nord Italia: pastvocfbf@virgilio.it
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- in centro e sud Italia: vocazioni@fbfgz.it
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- nelle Filippine: ohmanila@ph.inter.net
1126 R. Hidalgo st., Quiapo, 1001 Manila San Raffaele Arcangelo
PER SAPERNE DI PIU’ SU SAN GIOVANNI DI DIO
Le seguenti indicazioni bibliografiche intendono essere d’aiuto sia nel conoscere meglio il Santo, sia nel comprendere i motivi per i quali la presente biografia si discosta in vari punti da quelle tradizionali
Per le fonti:
Manuel GOMEZ-MORENO, Primicias históricas de San Juan de Dios, Orden Hospitalaria, Madrid 1950.
Gabriele RUSSOTTO, San Giovanni di Dio e il suo Ordine Ospedaliero, Ed. Fatebenefratelli, Roma 1969.
Giuseppe MAGLIOZZI, Impatto e validità della “Vita di Giovanni di Dio” scritta dal Castro e tradotta dal Bordini, in “Ospedali Fatebenefratelli”, 2: 290-296, 1987.
Francisco de CASTRO, Storia della vita e sante opere di Giovanni di Dio, Ed. Fatebenefratelli, Milano 1989.
Giuseppe MAGLIOZZI, La seconda biografia di San Giovanni di Dio, in “Vita Ospedaliera”, 5: 6-7, 1993.
Giuseppe MAGLIOZZI, San Giovanni di Dio narrato dal Celi, Ed. Centro Studi “San Giovanni di Dio“, Roma 1993.
Giuseppe MAGLIOZZI, Un amico a Malaga, Ed. BIOS, Roma 1995.
José SANCHEZ MARTINEZ, “Kenosis-Diakonia” en el itinerario espiritual de San Juan de Dios, Fund. Juan Ciudad, Jerez 1995.
Jorge FONSECA, Montemor-o-Novo na Epoca da Expansão Marítima, Setúbal 1996.
Antonio GOUVEIA, Vida e morte de S. João de Deus, seguida das Cartas e Iconografia do Santo, Lisboa 1996.
José Luis MARTINEZ GIL San Juan de Dios Fundador de la Fraternidad Hospitalaria, Ed. B.A.C., n. 71 della collana Maior, Madrid 2002.
Giuseppe MAGLIOZZI, Cinque petizioni a Sua Maestà, in “Vita Ospedaliera”, 3: 11-14, 2003.
Per la spiritualità:
Gabriele RUSSOTTO, Spiritualità Ospedaliera, Marietti, Torino 1958.
Carlo SALVADERI, Incontri con San Giovanni di Dio, Marietti, Torino 1959.
Igino GIORDANI, Il Santo della carità ospedaliera, Ed. Fatebenefratelli, Milano 1965.
Giuseppe MAGLIOZZI, Francescanesimo di San Giovanni di Dio, Centro Studi “San Giovanni di Dio”, Roma 1976.
Giuseppe MAGLIOZZI, Il Maestro di Giovanni. L’influsso dell’Apostolo dell’Andalusia sulla spiritualità di San Giovanni di Dio, Centro Studi “San Giovanni di Dio”, Roma 1978.
Giuseppe MAGLIOZZI, Tappe spirituali di San Giovanni di Dio, in “Guida Pastorale 1979-1980”, Ed. Fatebenefratelli, Milano 1979, pp. 73-75.
Giuseppe MAGLIOZZI, L’influsso paolino su San Giovanni di Dio, in “Vita Ospedaliera”, 1: 9-15, 1987.
Giuseppe MAGLIOZZI, L’identikit spirituale di San Giovanni di Dio, in “Vita Ospedaliera”, 10: 12-13, 1995.
Aires GAMEIRO, Tempo e originalidade assistencial de S. João de Deus, Editorial Hospitalidade, Lisboa 1997.
Giuseppe MAGLIOZZI, I tre nemici, in “Vita Ospedaliera”, 5: 4, 2000.
Giuseppe MAGLIOZZI, Giovanni di Dio, usuraio col Signore, in “Vita Ospedaliera”, 3: 3, 2001.
Giuseppe MAGLIOZZI, Felice come una Pasqua!, in “Vita Ospedaliera”, 3: 3, 2002.
Valentín A. RIESCO, San Juan de Dios, Profeta del Dios de la Misericordia. Aproximación al Santo en nueve tiempos, Granada 2003.
Giuseppe MAGLIOZZI, Fosse anche la vita!, in “Vita Ospedaliera”, 2: 10, 2003.
Per la stirpe:
Giuseppe MAGLIOZZI, Quale sangue scorreva nelle vene di San Giovanni di Dio?, in “Vita Ospedaliera”, 3: 6-7, 1992.
Giuseppe MAGLIOZZI, La volta che cadde da cavallo Giovanni si fratturò lo zigomo, in “Vita Ospedaliera”, 7-8: 4, 1995.
Jose Maria JAVIERRE, Juan de Dios loco en Granada, Ed. Sigueme, Salamanca 1996.
Giuseppe MAGLIOZZI, Montemor alla fine del Quattrocento, in “Vita Ospedaliera”, 10: 4-5, 1999.
Per la sigla e la firma:
Giuseppe MAGLIOZZI, ”Lo firmo con queste mie tre lettere”, Ed. BIOS, Roma 1996.
José SANCHEZ MARTINEZ, ¿Fue esta la firma de San Juan de Dios en 1542?, in “Juan Ciudad”, 415: 33-35, 1996.
Giuseppe MAGLIOZZI, En torno a una nueva firma de San Juan de Dios, in “Juan Ciudad”, 418: 35-26, 1996.
Giuseppe MAGLIOZZI, Scovata una firma di San Giovanni di Dio, in “Vita Ospedaliera”, 10: 6-7, 1996.
Giuseppe MAGLIOZZI, San Giovanni di Dio e le Carceri di Granada, in “Vita Ospedaliera”, 7-8: 10, 1998.
Per la cronologia:
Giuseppe MAGLIOZZI, Per paura di Barbarossa, in “Vita Ospedaliera”, 4: 63, 1987.
Giuseppe MAGLIOZZI, Dove nacque San Giovanni di Dio?, in “Vita Ospedaliera”, 1: 6-7, 1992.
Giuseppe MAGLIOZZI, Necessidade de novos esquemas na vida de S. João de Deus, in “Hospitalidade”, 230: 9-10, 1995.
Giuseppe MAGLIOZZI, L’ora in cui morì San Giovanni di Dio, in “Vita Ospedaliera”, 4: 6-7, 1992.
Giuseppe MAGLIOZZI, San Giovanni di Dio si convertì d’agosto, in “Vita Ospedaliera”, 7-8: 6-7, 1992.
Giuseppe MAGLIOZZI, Gli anni bui di San Giovanni di Dio, in “Vita Ospedaliera”, 10: 13-14, 1992.
Giuseppe MAGLIOZZI, Quando nacque San Giovanni di Dio, in “Vita Ospedaliera”, 7-8: 6-7, 1994 e 9: 4-5, 1994.
Giuseppe MAGLIOZZI, La zona di calle Lucena a Granada nei tempi di San Giovanni di Dio, in “Vita Ospedaliera”, 6: 9-12, 1995.
José SANCHEZ MARTINEZ, En torno a la construcción del Hospital San Juan de Dios de Granada, estratto da “Monjes y Monasterios Españoles”, Actas del Simposium en San Lorenzo del Escorial 1/5-IX-1995.
Giuseppe MAGLIOZZI, L’Ospedale Reale di Granada, in “Vita Ospedaliera”, 6: 7-10, 1996.
Giuseppe MAGLIOZZI, Ubicazione del primo ospedale di San Giovanni di Dio, in “Vita Ospedaliera”, 5: 6-7, 1997.
Giuseppe MAGLIOZZI, Vertice granadino, in “Vita Ospedaliera”, 6: 4, 1997.
Giuseppe MAGLIOZZI, Le camminate di Giovanni, in “Vita Ospedaliera”, 12: 18-19, 1997.
Giuseppe MAGLIOZZI, Le tappe del riconoscimento canonico, in “Vita Ospedaliera”, 1: 19; 2: 13, 1998
Giuseppe MAGLIOZZI, A che età in guerra?, in “Vita Ospedaliera”, 10: 10, 2000.
Cecilio ESEVERRI CHAVERRI, Juan de Dios el de Granada, Ed. La Vela, Granada 2001.
Giuseppe MAGLIOZZI, Un ignoto discepolo di Giovanni di Dio, in “Vita Ospedaliera”, 4: 15, 2002.
Giuseppe MAGLIOZZI, La testimonianza di donna Leonora, (in corso di stampa, ma nel frattempo consultabile in rete: http://www.ptovinciaromanafbf.it/pubblicazioni).
Per l’iconografia:
Gabriele RUSSOTTO, Lineamenti d’una iconografia, in AA. VV. “Per il IV Centenario della morte di San Giovanni di Dio”, Roma 1950. pp. 16-52.
Clelia ALBERICI, L‘iconografia di San Giovanni di Dio appartenente alla Civica raccolta delle Stampe e dei Disegni Achille Bertarelli di Milano, in “Fatebenefratelli”, 11-12: 505-513, 1966.
Luis ORTEGA LAZARO, Para la Historia de la Orden Hospitalaria de San Juan de Dios en Hispanoamerica y Filipinas, Madrid 1992.
Giuseppe MAGLIOZZI, Pagine Juandediane, Ed. Centro Studi “San Giovanni di Dio”, Roma 1992 (vd. lista a p. 554 nella voce “Dipinti”).
Giuseppe MAGLIOZZI, Pierino in braccio al Santo, in “Vita Ospedaliera”, 10: 13-14, 1993.
Giuseppe MAGLIOZZI, Il vero ritratto di San Giovanni di Dio, in “Vita Ospedaliera”, 12: 13-14, 1993.
AA. VV., Imágenes de San Juan de Dios, Granada 1995.
Raquel JARDIM de CASTRO, São João de Deus, un herói português do século XVI, Ed. Rei dos Livros, Lisboa 1995.
Alfonso MARCO e Francesco GUTIERREZ, San Juan de Dios. Iconografia, Tip. Madero, Mexico 1997.
Giuseppe MAGLIOZZI, Il ciclo pittorico di Atlixco, in “Vita Ospedaliera”, 3: 20-21, 1998.
Giuseppe MAGLIOZZI, Quattro secoli a Napoli, in “Vita Ospedaliera”, 5: 20-21, 1998
Giuseppe MAGLIOZZI, Uno lo prendo io!, in “Vita Ospedaliera”, 3: 11, 1999.
Giuseppe MAGLIOZZI, Il Credo con San Giovanni di Dio, in “Vita Ospedaliera”, 4: 12-13, 1999.
Giuseppe MAGLIOZZI, I Santi del nostro Ordine visti da un pittore filippino, in “Il Melograno”, 1: 2-5, 1999.
Giuseppe MAGLIOZZI, Regina dell’ospitalità, in “Vita Ospedaliera”, 10: 23, 2001.
Ambrogio CHIARI, Cenni di iconografia su San Giovanni di Dio, in “Fatebenefratelli”, 1: 39-43 e 2: 39-42, 2003.
INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI
In copertina:
San Giovanni di Dio in un dettaglio del ciclo pittorico della sua vita dipinto nel sec. XVIII per l’Ospedale messicano di Atlixco, allora appartenente ai Fatebenefratelli.
A pag. 2:
San Giovanni di Dio in una stampa del sec. XVII con la stessa scena del quadro in copertina, cioè con un malato che si trasfigura in Cristo e dice al Santo: “Giovanni, quando lavi i piedi agli infermi, è a Me che li lavi”.
A pag. 8:
Incisione di Hubert Vincent (francese, ma operante a Roma tra il 1680 e il 1730) su disegno di G. Battista Lenardi (1650-1704), ispirato al dipinto centrale della nostra Chiesa dell’Isola Tiberina come appariva prima di venir ritoccato ed ampliato da Corrado Giaquinto. Raffigura la visione che San Giovanni di Dio avrebbe avuto nel Santuario Mariano di Guadalupe, quando la Madonna, porgendogli il Bambinello, l’incoraggiò a prendersene cura con la stessa premura che avrebbe dovuto usare in seguito con i malati.
A pag. 60:
L’attività ospedaliera dei Fatebenefratelli nelle Filippine venne nel 1694 posta sotto la particolare protezione dell’Arcangelo San Raffaele, tradizionalmente raffigurato con lo scapolare e mentre reca pane ai malati. Incisione di Joseph Andrade dal libro “Religiosa Hospitalidad…en su Provincia de S. Raphael de las Islas Filipinas” (Granada 1742) scritto da fra Juan Manuel Maldonado, che era Maestro dei Novizi a Manila.
A pag. 68:
Sigillo della Provincia Romana dei Fatebenefratelli, posta sotto la protezione di San Pietro Apostolo.
Un ultima di copertina:
L’emblema dei Fatebenefratelli in un disegno a penna di un registro del 1794, da loro utilizzato a Perugia per le prescrizioni mediche quando ebbero in gestione l’Ospedale di Santa Maria della Misericordia.
INDICE
Introduzione: Con Maria alla scoperta di Cristo Date fondamentali della vita di San Giovanni di Dio 7
1) Il fascino dell’avventura 9
2) Pastore e soldato 10
3) Un bel gesto 13
4) A Granada 14
5) Sconvolto da una predica 15
6) L’impatto col mondo ospedaliero 17
7) L’antica cantilena 20
8) In ogni uomo, un fratello da aiutare 22
9) La terza via di Giovanni 24
10) Alla sera della vita 25
11) Difensore della donna 27
12) Fate bene, fratelli! 28
13) Dall’odio all’amore 29
14) Abito e nome da Religioso 31
15) Nonostante la pioggia 32
16) La fisionomia spirituale 34
17) Una nuova Famiglia Religiosa 36
18) Vittima di carità 37
19) Nella casa dei Pisa 39
20) Tra il venerdì e il sabato 40
21) Cittadini del mondo 43
22) Nel calendario dei Santi 44
23) San Riccardo Pampuri 46
24) I martiri in Spagna 47
25) San Benedetto Menni 49
26) I Fatebenefratelli nelle Filippine 51
27) Vittime cruente 53
28) L’estinzione 54
29) Invitati dal cardinal Sin 55
30) I Fatebenefratelli in Italia 57
31) Curia Generalizia 58
32) Provincia Romana 59
33) Provincia Lombardo-Veneta 60
Indicazioni bibliografiche: Fonti 62
Spiritualità 63
Stirpe 64
Sigla e firma 64
Cronologia 64
Iconografia 65
Indice 67
Finito di stampare nell’anno 2003
Tipografia - Roma
Filed under: San Giovanni di Dio - Giuseppe Magliozzi o.h.