SULLE ROTTE DELL’ HOSPITALITAS – Angelo Nocent
In costruzione
SULLE ROTTE
DELL’ HOSPITALITAS
con il navigatore solitario di Granada
Mentre Cristoforo Colombo scopriva l’America
Giovanni Ciudad scopriva l’ Uomo
In questo contesto, accanto a chi importava ricchezze dal nuovo mondo, c’era chi esporta l’amore fraterno e la carità operosa. Napoli è stata una delle prime città raggiunte dai discepoli del “mendigo de Granada“.
Scrive il Magliozzi: “La generosa epopea vissuta per una dozzina di anni a Granada da San Giovanni di Dio, non si concluse però con la sua morte, dato che il suo messaggio, come aveva egli stesso profetizzato, si espanse e perpetuò nei secoli tramite la Famiglia Religiosa da lui fondata.
Già durante la sua vita Giovanni di Dio aveva avviato una seconda fondazione ospedaliera a Toledo, affidandola al suo discepolo Fernando. Nel 1552, a brevissima distanza dalla sua morte, il suo successore Antonio Martín apriva un Ospedale a Madrid ed altri ne seguirono in breve, per cui il primo gennaio 1572 venne presentata una richiesta al Papa San Pio V per ottenere l’inquadramento della nuova Famiglia Religiosa nell’ambito del diritto pontificio.
Il Papa aderì alla richiesta e con la Bolla “Licet ex debito” la approvò come Istituto Religioso Regolare, sottoposto alla Regola di Sant’Agostino, per cui i Confratelli cominciarono ad emettere la Professione Religiosa nelle mani del Vescovo locale.
Il 1572 segnò così la nascita canonica dei Frati di San Giovanni di Dio, che presero a diffondersi anche in Italia, dove ebbero il soprannome di Fatebenefratelli perché nel questuare ripetevano lo stesso ritornello del Fondatore, come ci ricordano queste ingenue terzine di una “villanella”, ossia una canzonetta, in voga a Roma nel 1584:
Vanno per Roma con le sporte in collo
certi gridando: Fate Ben Fratelli,
per medicar gl’infermi poverelli.
A questi non v’è donna tanto avara
che non faccia limosina e non sia
verso di loro liberale e pia.
Inizi del ‘500: la Spagna è dominatrice
Roberto Procaccini
“Prima dei successivi approfondimenti sulla storia di Napoli è opportuno analizzare qual era lo scenario mondiale all’inizio del Cinquecento.
Nei primi decenni del 1500 la Spagna, come si è visto negli ultimi articoli, è stata una delle grandi protagoniste della scena europea. La lunga stagione delle guerre con la Francia, l’ascesa di Carlo V, la questione dell’ ideologia imperiale e della difesa del Cattolicesimo: questi eventi non riguardano solo l’Europa occidentale, ma per le conseguenze che hanno avuto appartengono alla storia dell’umanità.
E, in questo contesto, va ricordata l’annessione al Regno di Spagna di quello di Napoli che, premesso dal cinquantennio dei re aragonesi, ha legato il Mezzogiorno d’Italia alla penisola iberica per più di duecento anni. Negli stessi anni, parallelamente al fronte europeo, la Spagna era impegnata in un’altra impresa dalla grandissima portata: la conquista dell’America.
Nel 1492, com’è noto, l’ammiraglio genovese Cristoforo Colombo, attraversando per primo l’Atlantico sulla rotta per l’India, approdò ai Caraibi. Sebbene il valore della scoperta non fu immediatamente inteso (Colombo credeva di essere giunto in una delle estreme propaggini orientali dell’Asia), il primo carico d’oro con il quale l’ammiraglio si presentò alla corte spagnola bastò affinchè gli venisse finanziata una nuova spedizione composta da 17 navi e 1500 uomini d’equipaggiamento (a fronte delle appena tre caravelle del primo viaggio).
Anche le altre potenze europee furono sollecitate dalla prospettiva di arricchimento che veniva dall’esplorazione delle nuove terre transatlantiche e, già dai primi anni del XVI secolo, Francia ed Inghilterra avviarono la perlustrazione delle coste del nord America.
Ma, in quel frangente, solo il Portogallo poteva fare una seria concorrenza alla Spagna: il regno lusitano, d’altronde, aveva forti interessi mercantili sull’Atlantico, avendo avviato l’esplorazione delle coste africane già dalla prima metà del XV secolo. Ai suoi ingegneri, inoltre, si doveva l’invenzione della caravella che, potendo affrontare lunghi viaggi (necessitando pochi uomini per essere manovrata e potendo incamerare numerose provviste), si rivelò fondamentale in questa stagione di scoperte.
Ed infatti nel 1500 il Portogallo fondava quella che, col senno di poi, si sarebbe rivelata la sua colonia più grande: il Brasile. Nel primo ventennio del XVI secolo la Spagna, invece, si limitò a governare le isole di Cuba, Giamaica e Portorico, dai cui porti gestiva i traffici commerciali verso la madrepatria. Queste tre postazioni bastarono perchè il regno iberico divenisse il principale importatore di oro e metalli preziosi in Europa.
La situazione cambiò a partire dal 1519, anno in cui Hernàn Cortès, perlustrando le coste dello Yucatan, comprese di essere entrato in contatto con una civiltà ben diversa da tutte quelle con le quali gli spagnoli si erano precedentemente confrontati. Cortès, infatti, aveva incontrato sulla sua strada l’Impero Azteco, una federazione di città-stato guidata dalla capitale Tenochtitlàn (una metropoli da 250.000 abitanti) la cui popolazione era impregna ta di una fiera cultura militarista. Sebbene fosse partito con appena 508 soldati, a Cortès bastarono due anni per annientare l’Impero Azteco e dare il via alla conquista del continente americano.
Nel 1527, invece, Francisco de Montejo guidò l’annessione dell’altra grande civiltà indigena del centro America, ovvero quella dei Maya. Anche in questo caso la conquista fu semplice, ma la popolazione oppose una disperata resistenza per la quale ci vollero altri vent’anni prima che la regione potesse essere definita dagli spagnoli “pacificata”.
Nel 1529 vi fu l’ultima grande impresa di un conquistador spagnolo: Francisco Pizarro partì alla volta del Perù per sottomettere l’Impero Inca, l’unico stato americano basato sulla continuità territoriale, caratterizzato da un’ingegneria civile sviluppatissima e da una rigida organizzazione della società.
La conquista dell’America continentale è stato un momento importante non solo perchè costituì l’atto di nascita del colonialismo europeo, ma anche perchè rappresentò la prima vera occasione di confronto tra la nostra civiltà e “l’altro”, sia inteso come “ignoto” sia come “selvaggio”.
I motivi del rapido e incontrastato successo delle truppe spagnole contro gli eserciti indigeni sono stati oggetto di grandissimo studio. Solitamente si pone in evidenza la schiacciante superiorità tecnologica degli iberici ed il fatto che gli amerindi non conoscessero la guerra a cavallo (per essere più precisi non conoscevano neanche il cavallo), cosa che ha permesso agli spagnoli di non soffrire la minorità numerica. E a questo dato si aggiunge che gli europei portarono con loro diverse malattie sconosciute in America per le quali gli indigeni non avevano difese immunitarie e che alla lunga fecero più vittime della polvere da sparo.
Probabilmente il fattore più rivelante fu la paralisi cognitiva (come viene definita in ambito storiografico) che colse gli amerindi di fronte gli spagnoli: per quanto gli europei fossero sorpresi dal conoscere popolazioni di cui non si sapeva nulla, la stagione delle esplorazioni li aveva predisposti alla scoperta. Gli indigeni, invece, furono battuti innanzitutto dallo stupore del doversi confrontare con uomini così diversi, comparsi dal nulla, ma decisi ad annientarli.”
I gioielli di famiglia
Apri il video: L’ospedale della foresta (Rai Tre)
Giovanni Ciudad, detto di Dio
UN AVVENTURIERO
ILLUMINATO
Questa è la storia per immagini di un avventuriero illuminato che avrebbe avuto bisogno di incontrare un San Giovanni di Dio e lo trovò in se stesso…
San Giovanni di Dio lascia Montemor o Novo a otto anni con uno sconosciuto…
L’esperienza militare di san Giovanni di Dio nell’esercito di Filippo II . Liberato ed espuslo, dopo una sentenza di morte…
San Giovanni di Dio soldato, soccorso dalla Vergine…
San Giovanni di Dio, il viandante senza meta e senza fissa dimora…
San Giovanni di Dio fa lo spacca pietre a Ceuta per mantenere una una nobile famiglia in miseria…
San Giovanni di Dio venditore di libri a Gibilterra e poi a Granada…
” Giovanni, a Granada sarà la tua croce…”
La conversione di Giovanni di Dio per la predicazione del santo Giovanni d’Avila nella festa di San Sebastiano a Granada…Sarà la sua guida spirituale nella grande avventura…
San Giovanni di Dio, dopo la conversione, confessa pubblicamente la sua miseria, invocando la pietà di Dio. Il suo comportamento è considerato pazzesco. Schernito e deriso dalla piazza, alla fine viene compassionevolmente internato…
San Giovanni di Dio internato nell’ospedale Regio di Granada…
San Giovanni di Dio nel suo primo ospedale in locali presi in affitto…
Per San Giovanni di Dio la sofferenza non è soltanto fisica. La sua carità non conosce limiti: farsi tutto a tutti.
Gli appartiene anche il mondo della prostituzione che affronta con la Passione di Cristo nel cuore…
San Giovanni di Dio in nosocomio come pazzo tra i malati mentali…
San Giovanni di Dio un uomo nella prova e nella tentazione…
“Ogni volta che…l’avete fatto a me”. “Mio Signore e mio Dio!”
San Giovanni di Dio porta la croce. Sulla sua schiena il dolore del mondo… “Non sono più io che vivo, Cristo vive in me”.
Per le vie di Granada lancia il suo messaggio che raggiungerà i confini della terra:
”Fatevi del bene, fratelli, per amore di Dio…!”
Anche i sovrani, i nobili, i ricchi…sono oggetto della sua carità: “Non scordatevi della beneficenza e della comunione dei beni, perchè il Signore si compiace di tali sacrifici”.
Anche i Bambini sono oggetto della sua attenzione…
Ricevuto il Santo Viatico, San Giovanni di Dio viene lasciato solo. Lui scende dal letto ed abbraccia il Crocifisso. Lo troveranno morto in ginocchio, come una statua davanti all’Eterno…
Il suo primo discepolo sarà Anton Martin, un uomo in preda al delirio di vendetta, convertito dalle sue parole e dall’esempio…
Il povero di Granada apre la via a una discendenza che si tramanda il suo carisma riconosciuto dalla Chiesa come hospitalitas.
I suoi fratelli in Italia saranno chiamati dalla gente : “Fatebenefratelli”.
La Compagnia dei GLOBULI ROSSI ne è l’ espressione laicale: donne e uomini nella linea della continuità.
San Benedetto Menni, il milanese impiegato di banca che nel volontariato, durante la battaglia di Magenta, trasporta feriti all’Ospedale Fatebenefratelli dove scoprirà la sua vocazione di frate e sacerdote.
A 26 anni Pio IX lo invia in Spagna a restaurare l’Ordine, dopo le soppressioni degli ordini religiosi. Fonderà le Suore del Sacro Cuore.
L’ultimo santo della lunga catena è il giovane medico chirurgo Riccardo Pampuri. Le sue spoglie si trovano nella nativa Chiesa Parrocchiale di Trivolzio. Oggi è meta di pellegrinaggi, luogo di guarigioni e conversioni…
“Qualsiasi cosa avrete fatto a uno di questi…l’avete fatto a me”.
Il Risorto, il Vivente…a partire da Emmaus: “Lo riconobbero allo spezzar del pane”. Lo si può riconoscere con-dividendo…
LE ICONE:
La sporta e il bastone…
Un albero rigoglioso di melograni…
Carità antica, mezzi moderni…
Un poco de historia
VAI A FATEBENEFRATELLI
?
frate…?
frate…?
Gesù
è la mia
gioia !
clicca sulle immagini
Hemos visto al Padre Roquero en la playa, y ahora…
Hambre de lucha
Video de voluntariado – pásalo
escrito por The Bro’ @
Beato Guillermo Llop e i 70 compañeros mártires
CENNI STORICI
IL PRIMO OSPEDALE in Calle Lucena, 34
Vai a: Il primo ospedale
LA RICONQUISTA SPAGNOLA
La vittoria riportata a Calatrava da Alfonso V, re di León, al principio dell’XI sec., aveva dato modo ai cristiani di occupare buona parte della Spagna. La conseguenza fu che il califfato di Cordoba prese a spezzettarsi, intorno al 1031, in piccoli emirati indipendenti, mentre le Asturie, il León e la Galizia formarono un unico regno di Galizia.Viceversa, da parte cristiana si assisteva a una progressiva centralizzazione dei poteri, propagandata come necessaria per poter sconfiggere il nemico islamico e, in cambio dell’impegno militare, si prometteva terra ai contadini e affari per commercianti e artigiani.
I più importanti emirati arabi, spesso in lotta tra loro, divennero quelli di Siviglia, Malaga, Granada, Saragozza e Toledo. Si stava assistendo allo scontro di due realtà feudali, di cui quella arabo-berbera era in fase di declino, in quanto al decentramento dei poteri politici non aveva fatto seguito, a livello locale, una democratizzazione delle condizioni socioeconomiche dei lavoratori. I vari emirati volevano soltanto avere gli stessi poteri del califfato, senza dovergli dipendere.
Sotto il re del León, Alfonso VI (1065-1109), la Castiglia si unì col León e la Galizia. Toledo, quando fu strappata al califfato (1085), divenne subito capitale della Castiglia.
La caduta di Toledo provocò l’intervento del sultano almoravide del Marocco, Yusuf (1086), che impose la sua superiorità militare, sorretta dal fanatismo religioso, su diversi “re” ispano-musulmani, da Siviglia a Valencia, eliminando l’aristocrazia arabo-andalusa, spegnendo quasi del tutto il rigoglio artistico-culturale e rendendo la vita difficile ai sudditi cristiani ed ebrei, molti dei quali si rifugiarono presso i principi cristiani (fatto di rilievo in sede culturale).
Gli Almoravidi erano un movimento fondamentalista islamico, sorto in Africa settentrionale, tra i nomadi e contadini berberi, che mal sopportavano l’oppressione dei feudatari arabi locali. Essi, dopo aver conquistato quasi tutto il Maghreb, portarono la capitale del nuovo Stato in Marocco, a Marrakesh.
Poiché gli emirati in Spagna non erano più in grado di fronteggiare l’avanzata cristiana, si decise di chiedere l’appoggio delle truppe almoravide, le quali, nella battaglia di Zalhaca, nel 1086, infersero una grave sconfitta alle milizie cristiane di Alfonso VI, che fu di nuovo battuto nel 1108 a Uclés.
Tuttavia, siccome i berberi han sempre visto gli arabi come conquistatori, appena ottenuta la vittoria sui cristiani, invece di tornarsene in Marocco, rivolsero le armi contro gli emiri di Spagna, conquistando i loro principati uno dopo l’altro.
La politica interna degli Almoravidi fu molto oppressiva, prevalentemente fiscale e militare, senza che si risparmiassero persecuzioni contro le culture cristiane, ebraiche e laiche.
Questa politica provocò forti risentimenti e ribellioni in Spagna, e anche in Africa si formò un nuovo movimento berbero (gli Almohadi), non meno reazionario dell’altro, che se da un lato riuscì a sconfiggere gli Almoravidi nel 1145, dall’altro non migliorò affatto la situazione in Spagna, anzi qui la riconquista trovò numerosi sostenitori tra i crociati europei, soprattutto francesi, tanto che nel 1212, nella battaglia di Las Navas de Tolosa, si riuscì a conseguire una vittoria molto importante, che fece progredire rapidamente la marcia verso sud. La coalizione spagnola era capeggiata da Alfonso VIII di Castiglia, la cui opera fu continuata dal figlio Ferdinando III e da Giacomo I d’Aragona.
Contro gli Almoravidi combatté il famoso hidalgo castigliano Rodrigo Diaz de Bivar, detto il Cid Campeador, idealizzato in seguito nell’epos popolare spagnolo (1). Le sue truppe riuscirono ad occupare Valencia (1094) e il territorio circostante, anche se dopo la sua morte, avvenuta cinque anni dopo, fu nuovamente rioccupata dai berberi.
Anche i contadini si ribellarono a più riprese (1110, 1117) contro gli Almoravidi, unendosi alla lotta delle truppe castigliane e aragonesi (quest’ultimi, con Alfonso I d’Aragona, presero Saragozza nel 1118, facendone la capitale del secondo regno peninsulare, reso poi più potente dall’unione con la mediterranea Catalogna).
Catalogna e Aragona si unirono nel 1137, suscitando preoccupazioni e rivalità da parte degli altri Stati cattolici, al punto che non si riuscì mai a realizzare una strategia d’intervento comune contro l’invasore musulmano. Infatti l’unione di León e Castiglia, sotto il re Ferdinando III (1217 – 1252), riuscì soltanto nel 1236 a prendere Cordova e Siviglia nel 1248.
Successivamente, nel corso del sec. XIII, il regno d’Aragona conquistò le isole Baleari, Valencia (1238) e Murcia (1266), che in seguito andò alla Castiglia.
Nel 1282, invece di concentrarsi sulla definitiva riunificazione della penisola iberica, gli aragonesi, che volevano sostituire gli arabi nel dominio del Mediterraneo occidentale, occuparono la Sicilia. Viceversa, i castigliani si spingevano fino all’estremo sud del paese, prendendo Jerez e Cadice.
Intanto nella parte occidentale della penisola si formò il regno indipendente del Portogallo (1143), sotto la protezione della chiesa di Roma.
Terminata con la conquista di Cadice (1262) la fase “aurea” della Reconquista, questa entrò in una lunga stasi, dovuta a un complesso di cause. Anzitutto non era affatto escluso il pericolo di un’ennesima invasione musulmana e la Castiglia, priva di una marina propria, dovette tenere sotto controllo lo stretto di Gibilterra, servendosi soprattutto della flotta genovese (né mancarono gli scontri armati, specie all’epoca di Alfonso XI, che respinse l’ultimo tentativo marocchino nella battaglia del Salado, 1340, e quattro anni dopo conquistò Algeciras con l’aiuto navale di Aragonesi e Genovesi).
In secondo luogo, le ambizioni “imperialistiche”, nate dalle vittorie sui Mori, dovevano mettere la Castiglia in urto con gli altri due più importanti regni peninsulari: l’Aragona (forte e ricca per le conquiste e la politica di Giacomo I nel Mediterraneo e l’attività commerciale della marina catalana) e il Portogallo, tenacissimo nel rifiutare la supremazia castigliana e vincitore ad Aljubarrota (1385).
Ma più grave fu la crisi interna: distribuendo le fertili terre meridionali tolte ai Mori fra gli ordini militari (Calatrava, Alcantara, Santiago) e i cavalieri castigliani collaboratori della conquista, i re di Castiglia crearono potenti e indocili feudatari, incapaci d’altra parte di far produrre i loro latifondi, spesso in lotta con i contadini moreschi e facili debitori di denaro nei confronti dei banchieri ebrei (a cui, del resto, gli stessi re ricorrevano continuamente, mancando del tutto di idee in materia finanziaria).
Ne derivarono la decadenza dell’agricoltura andalusa delle comunità contadine e la conseguente potenza della Mesta (cartello dei feudatari produttori di lana, che arrivò a essere un vero Stato entro lo Stato), e infine carestie, sommosse e odio antiebreo. Di qui alle guerre civili non c’era che un passo e infatti, incominciate all’epoca di Alfonso X, continuarono a lungo con momenti ed episodi di vera tragedia, come al tempo di Pietro I il Crudele (1350-1369), assassinato dal fratello bastardo Enrico di Trastamara.
Si aggiungano infine le calamità naturali, come la terribile peste nera del 1348 (con successive ondate nel 1362, 1371, 1375), che devastarono il paese più ancora delle guerre civili. Enrico di Trastamara, il fratricida, e i suoi successori, sempre più deboli e incerti, regnarono per un secolo su un paese sconvolto dalla fame, dai pogrom antiebraici (feroce quello di Siviglia nel 1391), dalle rivolte dei contadini, dei borghesi, dei grandi signori, invano contrastate da qualche raro politico illuminato, come don Álvaro de Luna, finito sul patibolo nel 1453.
L’ultimo dei Trastamara, Enrico IV (1454-1474), tentò di difendere i conversos (ebrei convertiti al cattolicesimo) e di por fine all’insubordinazione della grande nobiltà, ma fu deposto da quest’ultima, che lo sostituì con la sorella di lui, Isabella, maritata nel 1469 al re d’Aragona, Ferdinando.
Tuttavia, nonostante il caos in cui era caduta la Castiglia, già nella seconda metà del XIII sec. quasi tutta la Spagna era in mano ai regni di Castiglia e di Aragona. Agli arabi non restava che un piccolo territorio attorno a Granada, nel regno di Andalusia, in una situazione di vassallaggio, fino al 1492, nei confronti dell’ormai dominante Castiglia.
I REGNI DI SPAGNA
Mappa
Regno di León e Castiglia
Nella prima metà dell’XII sec. le rivolte contadine contro i feudatari laici ed ecclesiastici furono molto forti soprattutto in Galizia. Nel 1117 e nel 1136 i contadini dell’arcivescovado di Compostela si unirono agli strati più poveri della popolazione di Santiago, creando un’alleanza di resistenza, detta hermandad (fratellanza).
Spesso i movimenti contadini si diffondevano su territori molto vasti, come quello p.es. del León. Anche in quelli tolti agli arabi essi dovettero condurre una dura lotta contro i signori feudali. P.es. alla fine del XII sec. riuscirono a impedire in Castiglia la vendita dei servi insieme alla terra e a ottenere che i matrimoni tra servi non avessero bisogno del permesso del signore locale.
Le città castigliane, che facevano di tutto per rendersi autonome dai signori feudali, avevano grandi reparti militari e, se si esclude la parte meridionale, una scarsa produzione artigianale e commerciale. Nella seconda metà del sec. XI ottennero il diritto all’autoamministrazione e quello di istituire propri tribunali.
Alla fine del sec. XII si fusero in un’alleanza la cui potenza era tale che gli statuti proibivano a chiunque, incluso il re, il minimo attentato alle libertà cittadine.
Durante le varie fasi della riconquista i feudatari laici ed ecclesiastici, che praticavano soprattutto l’allevamento ovino, raggiunsero una grande potenza politica ed economica: essi p.es. fruivano di ampie immunità giudiziarie e tributarie. Una grande estensione di terre apparteneva anche agli ordini religioso-cavallereschi, i quali non dipendevano dal papato, ma dall’autorità laica.
Le immense greggi di pecore merinos venivano trasferite in inverno in Estremadura e i loro proprietari, avendo pieno diritto di pascolo su terre statali e collettive, mandavano facilmente in rovina le aziende dei piccoli contadini. D’altra parte tutte le comunità contadine liberi, esistenti in Castiglia, durante la riconquista, dovettero progressivamente accettare, dopo l’unificazione, la loro feudalizzazione. E’ vero che il contadino mantenne sempre il diritto di trasferirsi in un’altra località, ma in tal caso era obbligato a lasciare la terra al feudatario. E la rendita che il contadino doveva versargli era sempre in denaro e in corvées.
La condizione peggiore dei contadini era proprio quella dei regni di Castiglia e di Aragona. Borghi e villaggi andavano in rovina e si spopolavano. I nobili si opponevano strenuamente all’abolizione del servaggio, cosa che invece trovava favorevole la corona. Sotto i regni di Giovanni II (1406-54) e di Enrico IV (1454-74) i grandi feudatari erano così ostili alla corona che devastavano interi villaggi, come mai i mori avevano fatto.
L’ordinamento sociale della Castiglia si esprimeva nell’assemblea rappresentativa (Cortes) degli ordini (o stati) del regno, con funzione meramente consultiva. Questo parlamento sorse in pratica dalle assemblee dei nobili e del clero, che venivano convocate dai re del León già nei secoli X-XI. Alla fine del sec. XII vi partecipavano anche i rappresentanti delle città, sia del León che della Castiglia. Tra la borghesia vi erano anche gli esponenti delle comunità contadine libere. E tutti i parlamentari si riunivano accompagnati dai rispettivi reparti armati.
Nel XIII sec. le Cortes si attribuirono il diritto di petizione da presentare al sovrano e quello di accordare al re la riscossione di nuove imposte. Esse avevano una certa importanza anche per questioni di guerra e pace e per la successione al trono.
Regno d’Aragona-Catalogna
L’Aragona invece era una delle regioni più arretrate della Spagna, mentre la Catalogna, con cui formava un unico regno, era una delle più avanzate, a motivo dei commerci mediterranei. Però nell’ambito del regno unito la prevalenza politica spettava proprio all’Aragona, data la grande potenza dei feudatari latifondisti, i quali dovevano sì partecipare alle spedizioni militari del re, ma potevano anche entrare in rapporto con sovrani esteri se il re non rispettava le loro libertà.
L’alta nobilità aragonese controllava il potere reale attraverso il giudice supremo, che pur era designato dallo stesso re. Egli poteva persino impedire il mandato d’arresto emesso dal tribunale reale.
Il clero, che aveva privilegi non meno illimitati, s’era particolarmente rafforzato, sul piano politico, durante la lotta contro gli Albigesi. (1)
Le continue rivolte contadine in Aragona, a differenza di quelle castigliane, non determinarono sensibili miglioramenti nelle condizioni di vita rurali, anche perché i cintadini aragonesi non disponevano dell’organizzazione e della forza militare di quelli castigliani, mentre i nobili aragonesi-catalani erano più potenti e più uniti di quelli castigliani. Le stesse città aragonesi avevano molta meno importanza di quelle castigliane.
Nelle Cortes del regno unito aragonese gli ordini non erano tre ma quattro, poiché, accanto al clero e alla borghesia urbana, vi erano da un lato l’alta nobiltà e dall’altro quella media e piccola, che non a caso si trovava spesso alleata alle città e alla corona contro i grandi nobili, laici o ecclesiastici che fossero. Da notare che nelle Cortes bastava il veto di un solo deputato per bloccare una proposta di legge.
La Catalogna invece aveva città, come Barcellona, Valencia ecc., che nel XII sec. avevano un notevole sviluppo artigianale e commerciale, che aumentò ancora di più dopo la conquista delle isole Baleari e della Sicilia.
Particolarmente sviluppate erano la metallurgia e la cantieristica navale. Sarà proprio la Catalogna che farà diventare l’Aragona una potenza mediterranea e poi atlantica.
I signori feudali catalani avevano il diritto di tenere per sé la proprietà di un contadino che non avesse figli, e di tenerne una buona parte anche quando esistevano gli eredi. Inoltre percepivano numerose imposte, anche quando una contadina si sposava, e riscuotevano ammende in caso d’incendio delle loro proprietà…
I contadini non avevano libertà di movimento, e potevano essere scambiati, regalati, impegnati e venduti, con o senza terra. Quando fu permesso loro di riscattarsi, il prezzo era talmente alto che non erano mai in grado di pagarlo.
Nel 1462 in Catalogna vi fu una rivolta contadina guidata dal piccolo nobile Verntallat, che si estese anche alla Francia meridionale. Durò dieci anni, finché nel 1472 il re dovette alleggerire gli obblighi più gravosi. Tuttavia nel 1474 tutte le concessioni furono annullate dai feudatari ecclesiastici. La lotta riprese nel 1484, capeggiata questa volta dal contadino Pedro Juan Sala, ma i nobili ebbero la meglio e Sala fu giustiziato. Le proteste continuarono, finché i contadini riuscirono ad ottenere la libertà personale, che però non servì affatto a migliorare la loro situazione, in quanto tutti i tributi vennero mantenuti.
Un’altra famosa rivolta fu quella di Fuente Ovejuna, presso Cordoba, scoppiata nel 1476. Viene descritta dal drammaturgo Lope de Vega.
Ruolo della chiesa spagnola
Alla formazione di una nazione iberica divisa in regni indipendenti, in cui i latifondisti fossero i signori assoluti, giocò un ruolo di primo piano la chiesa cattolica spagnola, che per aumentare il proprio potere fece scatenare, per mezzo degli ordini religiosi (2), continue crociate anti-islamiche.
Attraverso la chiesa s’impose l’uso del latino come lingua scritta, mentre le parlate erano dei dialetti (lingue romanze). Il castigliano prese a diffondersi alla fine dell’XI sec., influenzato dalla lingua dei visigoti e, attraverso i mozarabi, anche dalla lingua araba, che le diede tantissimi vocaboli e calchi espressivi da renderla più chiara e dinamica delle altre lingue, nobili e arcaiche. Nel XII sec. furono redatte in questo dialetto varie opere letterarie (3) e nel sec. XIII fu tradotta dal latino la raccolta delle leggi del León e della Castiglia. Il castigliano divenne lingua predominante proprio per il ruolo decisivo svolto da questo regno ai fini della liberazione nazionale.
Avendo voluto condurre la riconquista secondo i crismi delle crociate medievali, la chiesa pretese nel 1480 l’uso dell’Inquisizione, allo scopo di eliminare arabi, ebrei ed eretici. La stessa opposizione politica al re cominciò ad un certo punto ad essere considerata come una forma di eresia religiosa.
Durante il periodo in cui il domenicano Torquemada era capo del tribunale inquisitorio, più di 8.000 “infedeli” furono mandati al rogo. Inquisitori e delatori ricevevano 1/3 dei beni dei condannati, il resto andava alla corona.
Regno del Portogallo
Parlando di “regni iberici” occorre necessariamente dire qualcosa anche del Portogallo, la cui autonomia dai regni di León e Castiglia ebbe inizio con la vittoria sugli arabi presso Ourique nel 1139, dopodiché il conte Alfonso Enriquez fu proclamato re del Portogallo.
Egli in pratica era un vassallo del papa, con l’obbligo di pagargli annualmente una determinata somma di denaro. Il re del León accettò questa soluzione pontificia solo nel 1143. Inutile dire che ciò contribuì allo straordinario rafforzamento del clero e degli ordini religioso-cavallereschi della penisola lusitana.
Le lotte dei re portoghesi contro le pretese papali, che spesso si servivano di interdetti e scomuniche, durò circa tre secoli (XII-XIV). Dionigi I (1279-1325) riuscì a limitare i poteri giurisdizionali del clero e proibì alla chiesa l’acquisto di nuove terre, finché, all’inizio del XV sec., re Giovanni I (1385-1433) sottomise di fatto il clero all’autorità reale.
Nelle regioni settentrionali del Portogallo, riconquistate agli arabi da molto tempo, i contadini erano completamente asserviti dai feudatari laici ed ecclesiastici. Al sud invece esistevano ancora comunità contadine libere, che gli arabi avevano rispettato, o comunque esistevano contadini che, in cambio di un impegno militare contro i mori, potevano rivendicare condizioni più vantaggiose.
Appena conclusa la riconquista molti piccoli cavalieri, che consideravano inammissibile per il proprio onore qualsiasi altra occupazione che non fosse il servizio militare, decisero di attaccare arabi e berberi anche sulle coste africane. Molti però si trasformarono in navigatori e si dedicarono al commercio o a cercare nuove rotte per l’India. Sicché il Portogallo, da paese prevalentemente agricolo, cominciò a diventare anche molto commerciale, specie sulla costa atlantica, dove le città ricevevano ogni forma di privilegio reale, tanto che verso la metà del XIII sec. i loro rappresentanti comparivano nelle riunione delle Cortes.
Nel 1415 il Portogallo occupò la fortezza africana di Ceuta, punto di partenza fondamentale per la conquista della costa occidentale africana.
L’unione politica della Spagna
L’unione politica della Spagna si compì nel 1479, quando Ferdinando, sposatosi in precedenza con Isabella di Castiglia, divenne re di Aragona. Ciò fu reso possibile anche dal fatto che sul trono di Aragona sedeva, dal “compromesso” dinastico di Caspe (1412), una dinastia di origine castigliana. (4)
Tuttavia, l’unione fu più geografica-territoriale che politico-istituzionale; infatti il matrimonio dei futuri re cattolici (così titolati dal papa dopo la conquista di Granada, 1492) non portò alla fusione dei rispettivi Stati. Al contrario, questi conservarono frontiere, assemblee (Cortes) e governi distinti, anche quando, dopo la morte del genero Filippo di Asburgo, Ferdinando fu reggente del regno di Castiglia (1506-16).
Con l’appoggio dei piccoli nobili e della borghesia si cominciò la lotta contro i grandi feudatari, favorevoli al frazionamento del paese. Essi persero il diritto di battere moneta e di condurre guerre autonome.
Non potendo abolire gli ordini religioso-cavallereschi, re Ferdinando pretese di diventarne “gran maestro”, in tal modo ne ebbe a disposizione gli averi.
Una volta limitato il potere dei grandi feudatari, cominciò gradatamente a ridimensionare i diritti delle città all’autoamministrazione, mirando a controllarle tramite propri funzionari.
Lo spirito di Isabella sarà avvertibile soprattutto nelle vicende interne della Castiglia: ristabilimento forzoso dell’ordine; avvio a una riforma religiosa integralistica; nascita dello “spirito di crociata”, che portò alla conquista dell’ultima roccaforte araba: il regno di Granada, in undici anni di guerra (1481-92), all’introduzione dell’Inquisizione e all’espulsione degli ebrei.
Isabella ridimensionò le pretese della riottosa aristocrazia, ma non le tolse la sua privilegiata posizione politica e territoriale (latifondi, maggioraschi, ecc.) e rispettò anche tutti i privilegi della Mesta (cartello degli allevatori), per cui, in definitiva, la crisi dell’agricoltura castigliana non fece che aumentare.
Senza contare il crollo dei commerci e delle industrie (nonostante provvedimenti protezionistici) e il caos finanziario dopo l’espulsione degli ebrei (1492). E quando la sorte elargì alla Castiglia di Isabella il dono inaspettato dell’America, con la favolosa quantità dei suoi metalli preziosi, questi non risolveranno affatto la crisi economica, ma anzi, paradossalmente, l’aggraveranno.
Spetta invece al “politico” Ferdinando il tentativo di voler fare della Spagna una potenza europea di rango internazionale, con la conquista dell’Italia meridionale e della Navarra, le spedizioni d’Africa (1509-11) e le alleanze con la casa di Borgogna e la casa d’Austria, che, rovesciando la politica filofrancese della Castiglia medievale, avranno gravi ripercussioni sul destino di un paese che non riuscirà mai a scrollarsi di dosso i retaggi di un passato cattolico-feudale.
(1) Seguaci del movimento ereticale sviluppatosi tra XII e XIII secolo nel Mezzogiorno occitanico della Francia (Linguadoca), soprattutto a Tolosa e ad Albi, con addentellati in Spagna. (torna su)
(2) Il più importante degli ordini religiosi fu quello domenicano, nato proprio in Spagna, che ebbe un ruolo centrale nella gestione dell’Inquisizione. I domenicani erano i propagatori militanti della teologia cattolica più reazionaria. Altri ordini erano quelli dei Templari, dei Giovanniti, di S. Giacomo di Compostela, di Alcantara, di Calatrava ecc. (torna su)
(3) La più importante di tutte fu quella del Cid Campeador del 1140, composto probabilmente da un giullare di Medinaceli pochi anni dopo la morte del Cid. La leggenda ce l’ha tramandato come un eroe senza macchia e senza paura, un mito della Riconquista anti-islamica. In realtà Rodrigo Diaz de Bivar era un feudatario senza scrupoli, che non disdegnava alcun mezzo per raggiungere i suoi scopi e che si alleò persino coi mori pur di combattere dei feudatari rivali. Altri testi che meritano d’essere letti sono Il libro del buon amore di Juan Ruiz (1283-1350) e Celestina, di Fernando de Rojas. (torna su)
(4) L’accordo siglato nel piccolo centro di Caspe (Aragona) dai pretendenti al trono dell’Aragona dopo la morte di Martino l’Umano (1410), riconobbe re Ferdinando, infante di Castiglia (28 giugno 1412). I moderni storici giudicano negativamente il compromesso di Caspe che sacrificò il candidato catalano Jaime de Urgel a quello castigliano, impostosi più con la forza che col diritto.
LA DOMINAZIONE ARABA
Dopo la caduta del regno visigoto, la Spagna fu incorporata nel califfato arabo di Damasco e se gli arabi non fossero stati fermati da Carlo Martello a Poitiers nel 732, lo sarebbe stata anche la Gallia.
Qualcosa però gli arabi non riuscirono a conquistare e forse fu l’errore più grave della loro storia di conquista, poiché proprio da qui scattò il movimento di resistenza ispanico dei contadini e montanari della Cordigliera Cantabrica e dei Pirenei, che porterà poi alla riscossa nazionale.
Si tratta del piccolo regno ispano-visigoto presso i monti delle Asturie, guidato dal semi-leggendario Pelagio I (718-737), con capitale Oviedo (inizi sec. IX). Un forte appoggio venne dai Franchi, preoccupati del pericolo musulmano sulla loro frontiera meridionale; per questo Carlo Magno realizzò una spedizione nel 778 che non poté conquistare Saragozza, ma rafforzò un secondo staterello, quello di Pamplona, e portò poi alla creazione della Marca Ispanica, forte caposaldo militare, con una “contea” indigena, quella di Barcellona, a partire da Wifredo il Velloso (874-898).
Altre piccole contee pirenaiche, a cominciare da quella d’Aragona, nacquero per l’appoggio dei Franchi, salvo poi rendersene indipendenti di fatto.
La Spagna non fu conquistata solo dagli arabi e dai siriani, ma anche e soprattutto dai berberi. Gli arabi dovettero sostenere dure lotte contro quest’ultimi in Marocco e alla fine riuscirono a sottometterli proprio promettendo loro la conquista della penisola iberica (che poi, alla resa dei conti, ai berberi spettarono le conquiste meno significative).
Quando entrarono in Spagna i conquistatori arabi e berberi offrirono condizioni migliori ai contadini, tanto che i baschi si allearono coi berberi pur di non avere i franchi nel loro territorio. Gli arabi non pensarono neppure di sottomettere gli indomiti pastori-banditi delle montagne cantabriche e in molti casi vennero a patti con i caudillos locali, limitandosi a riscuoterne tributi e tasse, senza modificare, l’antico “cantonalismo” spagnolo. Col passare del tempo, tuttavia, tornò in auge l’esigenza d’imporre rapporti servili e persino schiavili, che gli iberici già conoscevano dai tempi dei romani e dei visigoti.
Non solo, ma i nobili arabi e berberi, una volta trasformatisi da guerrieri a feudatari, cominciarono a mostrare segni di insofferenza nei confronti del califfato di Damasco, da cui dipendevano specie per le questioni fiscali. E i primi a ribellarsi esplicitamente furono proprio i berberi nel 743.
Nell’ambito del califfato di Damasco la dinastia degli Omayyadi governò il mondo arabo dal 661 al 750. Tale dinastia considerava le questioni politiche non meno importanti di quelle religiose, sicché riuscì a trasformare lo Stato islamico da aggregato di tribù in un efficiente organismo supernazionale, facendogli raggiungere la massima espansione geografica. L’arte e la cultura di questo periodo, sotto i califfi di Cordova, fu di altissimo livello.
Gli scontri religiosi tra sunniti, sciiti e kharigiti e la volontà di riscatto da parte delle popolazioni vinte che, una volta islamizzatesi, non accettavano più di piegarsi ai voleri dell’etnia araba, finirono per produrre, già nell’VIII secolo, la crisi della dinastia, sostituita nel 750 da quella degli Abbasidi, che trasferirono la loro capitale a Baghdad, dove regnarono fino al 1258.
Anche questa dinastia, che pur segnò un primo ridimensionamento dello strapotere arabo a favore dell’elemento persiano, volle realizzare una politica di centralizzazione, ma fece l’errore di sostituire le tribù che fino ad allora erano state il nucleo della compagine amministrativa e militare dell’islam, con milizie regolari nelle quali l’elemento straniero (p.es. turco) finì con l’avere il sopravvento, proprio come strumento del potere personale del sovrano. Le aree provinciali cercarono di rendersi sempre più indipendenti, indebolendo le difese dell’impero, la cui capitale Baghdad fu incendiata dai tatari nel 1258. Da allora la dinastia sopravvisse in una serie di pseudo-califfi fino al 1517, in Egitto, ma ormai era sopraggiunto il momento per l’espansione della potenza turca, che assunse il potere reale dei califfi abbasidi.
In Spagna, dopo il crollo della dinastia Omayyadi, giunse un principe omayyade, scampato alla strage della sua famiglia a Damasco. Egli riuscì a convincere i principi arabi e berberi a formare un emirato indipendente dal centralismo dei califfi di Baghdad. Questo nuovo Stato ibero-islamico sarebbe durato due secoli e mezzo, prima come emirato (756-928), poi come califfato di Cordova (929-1031).
La dominazione ebbe anche degli aspetti positivi, poiché avendo gli arabi molti rapporti coi paesi evoluti dell’Asia anteriore, seppero portare in Spagna nuove colture: riso, palma da datteri, melograno, canna da zucchero; nuove tecniche agricole: irrigazione, sericoltura, viticoltura e diffusero ampiamente l’allevamento degli ovini. Migliorarono di molto anche la lavorazione dei metalli e la tessitura.
Città come Siviglia, Cordova, Valencia, Granada, Toledo si svilupparono enormemente, proprio perché nel mondo arabo erano forti anche i commerci e l’artigianato. La sola Cordova, nel X sec., aveva circa mezzo milione di abitanti ed era forse, in questo periodo, la più colta e fiorente città europea.
La composizione etnica della penisola era diventata assai eterogenea: ispano-romani, visigoti, arabi, berberi, ebrei. Tra le popolazioni autoctone si formarono due gruppi distinti: i muvalladi, che accettarono l’islam conservando la lingua latina, e i mozarabi, che assimilarono la lingua araba conservando il cristianesimo.
La cultura araba non aveva nulla da invidiare a quella latina dello stesso periodo. Nelle scuole superiori di Cordova s’insegnavano non solo teologia e diritto, ma anche filosofia, matematica, astronomia (1), fisica, medicina e vi si recavano a studiare allievi provenienti da molte parti d’Europa e d’Asia. Nella biblioteca del califfo Hakam II (961-976) si traducevano anche opere scientifiche dal greco antico, e nell’XI sec. queste stesse opere furono ritradotte dall’arabo al latino.
Una prima ribellione contro la politica dell’emirato vi fu a Toledo nell’853, ma quella più significativa fu condotta dai contadini, che sotto il segno della libertà di religione, organizzarono una rivolta sulle montagne di Ronda (899-917), guidati da un nobile di origine visigota. Riuscirono a conquistare un notevole territorio, governandolo per 30 anni come Stato indipendente. Altri contadini del centro-sud della penisola tendevano a fuggire al nord, verso le aree dominante dai cristiani.
Nonostante questo, l’emirato di Cordova, che nel 929 era stato proclamato califfato, era in grado di controllare buona parte della penisola, centralizzandone l’amministrazione, anche se non riuscì mai a unificare sotto la bandiera dell’Islam la penisola. La flotta di questo califfato dominava nettamente l’area occidentale del Mediterraneo (nell’846 attaccò Civitavecchia e Roma).
Verso la seconda metà del X sec. si aprì una forte contesa tra i feudatari arabi legati all’apparato statale e quelli delle province, che volevano maggiori poteri, minacciando, in caso contrario, di non fornire più alcuna milizia.
I califfi di Cordova, per non dipendere da questi feudatari locali, si crearono una loro guardia permanente, composta da schiavi (mamelucchi), provenienti dalle tribù dell’Europa orientale e condotti in Spagna dai mercanti di schiavi.
Questo tuttavia non poté impedire l’acutizzarsi delle spinte centrifughe e delle guerre intestine feudali (ivi incluse quelle tra arabi e berberi, mai sopite): il califfato in sostanza finì col suddividersi in decine di emirati e principati, detti “regni di taife” (dall’arabo taifa, banda, fazione o partito), ciascuno con dinastia e vicende proprie (1031-1492).
I piccoli Stati cristiani (il regno delle Asturie e l’ex-marca spagnola) cercarono di approfittare della situazione. Nel sec. X il regno asturiano si era potuto estendere, pressoché indisturbato, verso ovest (Galizia) e a sud-est (con nuova capitale a León, 914), raggiungendo la valle del Duero: in pratica il regno delle Asturie, unendosi con la Galizia e con una parte della futura Castiglia (“regione dei castelli”), assunse il nome di León, anche se all’inizio dell’XI sec. la Castiglia si separò diventando un regno indipendente (fino al fiume Duero).
Oltre a questi regni s’andavano formando quelli di Navarra, di Aragona e di Catalogna, separatisi dalla vecchia marca spagnola.
Alla riconquista partecipavano tutte le classi sociali, con grande maggioranza dei contadini, i quali, man mano che penetravano nel sud della penisola riuscivano a liberarsi di molti obblighi feudali. Nelle città si eleggevano i membri del consiglio cittadino, i funzionari amministrativi e i giudici. La classe dominante restava sempre quella aristocratica latifondistica, sia laica che ecclesiastica, con pari doveri di tipo militare. L’alta aristocrazia poteva condurre guerre anche in maniera autonoma rispetto alla volontà del re, non pagava le tasse e possedeva diritti di immunità.
La prima fase della riconquista terminò con la presa della città di Toledo, sotto il re Alfonso VI di Castiglia, aiutato da “crociati” franchi (uno dei quali fu poi suo genero e primo “conte di Portogallo”). Intorno al 1085 il León e la Castiglia, uniti sotto il dominio di un unico sovrano, ingrandirono di molto il loro territorio.
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Quali sono state le influenze della civiltà araba su quella europea? Come noto la contrapposizione tra mondo islamico e occidente era più tra imperi o Stati che non tra popoli e quando diventava anche tra popoli era a causa di una propaganda faziosa e integralista, strumentale a interessi di potere.
Molte delle nostre abitudini consolidate da generazioni (i colori che prediligiamo per gli abiti in estate o in inverno, le pratiche igieniche e di bellezza come, ad esempio, il taglio corto dei capelli per l’uomo, la depilazione per la donna), dei cibi, delle discipline che studiamo (la chimica, la matematica, l’algebra, la filosofia greca, la medicina, la botanica, l’agronomia, l’astronomia, e così via), sono giunte fino a noi dal Medioevo attraverso la civiltà arabo-islamica.
Le abitudini quotidiane dell’Europa dall’VIII secolo in poi, p. es., furono completamente rivoluzionate da un eclettico artista iracheno trasferitosi nella Spagna musulmana: Ziryab. Egli infatti introdusse l’uso della forchetta, l’ordine delle portate a tavola, creò mode nell’abbigliamento che si diffusero rapidamente divenendo patrimonio di tanti paesi.
Anche gli studi filosofici hanno beneficiato dell’apporto islamico: i commentari in lingua araba di Averroè (Ibn Rushd) alle opere di Aristotele furono tradotti in latino e in ebraico ed esercitarono una grande influsso sul pensiero cristiano nell’Europa medioevale.
Le “influenze arabe” nella Divina Commedia di Dante Alighieri – la traduzione in latino del Libro della Scala di Maometto, cioè il racconto del viaggio ultraterreno del Profeta dell’islam – sono oggi ampiamente riconosciute. L’introduzione delle cifre arabe (notazione posizionale) e la risoluzione delle equazioni di 3° grado, si devono ai viaggi che Leonardo Fibonacci da Pisa, vissuto nel XII secolo, fece nel mondo arabo.
Dalla Spagna islamica, inoltre, arrivarono importanti innovazioni in materia urbanistica, come la creazione del sistema fognario, dei bagni pubblici o la costruzione di vie di comunicazione verso le grandi rotte commerciali; l’introduzione della “noria” in agricoltura, che facilitò l’irrigazione dei campi e la coltivazione di piante fino ad allora sconosciute, come la melanzana, il carciofo, l’asparago, il riso, la canna da zucchero, e così via.
La stessa lingua araba, nel Medioevo, era considerata lo strumento della comunicazione scientifica internazionale e veniva utilizzata sia dai musulmani sia dai cristiani e dagli ebrei che vivevano nei paesi sotto dominio islamico.
www.nigrizia.it/doc.asp?ID=6871&IDCategoria=105
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Nell’analizzare la storia dell’unificazione nazionale spagnola spesso si incontrano degli storici, anche di sinistra, che fanno questo curioso ragionamento: posto che la centralizzazione dei poteri è da preferirsi al decentramento feudale, in quanto tutta la storia dell’Europa moderna, cioè della nascita delle “nazioni”, sarebbe stata impossibile senza gli Stati assolutistici; posto anche che la democrazia in sé non dipende dal centralismo di uno Stato né dalla presenza di un forte decentramento regionale, per cui, dovendo scegliere, è meglio optare per quella soluzione che offre maggiore sicurezza di successo politico, quale conclusione se ne trae riguardo alla realtà musulmana presente in Spagna? Semplicemente si preferisce guardare assai benevolmente al decentramento operato da questa realtà, rispetto alla madre patria di Damasco e di Baghdad, perché proprio in virtù di questa scelta politica i regni cattolici, col loro centralismo, poterono alla fine avere la meglio.
IL REGNO DI GRANADA
L’ultimo stato musulmano dell’Europa occidentale, costituito intorno alla sua capitale, Granada, misurava circa 30.000 kmq (grande come l’odierna Armenia o il Guatemala) e corrispondeva grosso modo alle tre attuali province di Malaga, Granada e Almeria.
La dinastia che lo governò fino al 1492 fu quella Nasride, il cui fondatore, Yusuf ibn Nasr, riuscì a rendersi autonomo dal califfato degli Almohadi, originario del Maghreb.
Quando Ferdinando III (1217-52), re di Castiglia, fu in procinto di conquistare l’ultimo baluardo islamico, Yusuf propose di pagargli un ingente tributo annuale, come fosse un suo vassallo, e Ferdinando, accettando, assicurò la pace per altri 20 anni.
Quella di Yusuf non fu ovviamente una manifestazione di lealtà dettata da motivi ideali. E’ vero che quando si trattò di prendere Siviglia nel 1248 Yusuf aiutò Ferdinando, rinnovando altresì il giuramento di vassallaggio anche nei confronti di Alfonso X il Saggio (1252-84), successore di Ferdinando, ma è pur vero che ciò non impedì a Yusuf di allacciare stretti legami coi sovrani che detenevano il potere nel mondo musulmano. P.es. nel 1239 si proclamò vassallo anche del sovrano Almohade di Marrakech e contemporaneamente nei confronti del principe Hafside di Tunisi.
Yusuf in sostanza era abilissimo nel costruire reti di alleanze e protezioni e, nella fattispecie, non faceva che sfruttare le divisioni interne al mondo cristiano spagnolo. D’altra parte il suo regno, essendo multietnico, plurilingue e interconfessionale, costituiva una vera scuola di diplomazia politica e di tolleranza socioculturale.
La popolazione era tanto più numerosa quanto più i sovrani cattolici sbaragliavano le forze islamiche nelle altre regioni iberiche. Il regno di Granada non ha mai chiuso le frontiere ai profughi economici e politici, anche perché aveva continuamente bisogno di manovalanza da impiegare nell’esercito: tutte le città del regno erano cinte di possenti muraglie.
Inoltre i musulmani ivi residenti, gli arabi-siriani e yemeniti, i berberi, i cristiani mozarabi, gli ebrei… erano molto industriosi. Le zone montagnose p.es. erano famose per la sapiente arboricoltura che vi si praticava. I granadini erano grandi esperti di idraulica, di irrigazioni, di terrazzamenti. I raccolti di cereali, di canna da zucchero, di frutta… erano ottimi ed esportati in tutta Europa.
Il gelso, presente ovunque, permetteva una fiorente industria della seta, principale prodotto per i costosi mercati d’Italia e di Fiandre.
Risorse di tutto rilievo erano gli allevamenti di bovini, ovini e l’apicoltura. Non a caso il regno attirava molti mercanti catalani, valenciani, veneziani, ebrei, toscani e soprattutto genovesi, che fruivano di un regime di favore e che nel XV secolo ottennero il monopolio commerciale della frutta.
Da notare che gli arabi avevano anche il monopolio della fabbricazione e del commercio della carta, in quanto grandi estimatori della cultura scritta.
Ciò che non funzionava nel regno (ma questo era un problema di tutti i territori islamici in Spagna e persino di tutti i territori iberici sotto l’insegna cristiana) era la rivalità interna, soprattutto tra le famiglie aristocratiche, dinastiche, nonché tra queste famiglie, nel loro complesso, e la corona, che cercava in qualche modo di controllarle. Erano i conflitti tipici di un’organizzazione feudale divisa in classi, in cui i ceti proprietari volevano fruire di privilegi assoluti. L’unità politica, temporanea, era determinata dall’esigenza di combattere nemici comuni e sempre in relazione a un interesse da tutelare.
Yussuf ebbe a che fare con famiglie che si alleavano persino coi sovrani castigliani, pur di non veder compromessa la loro autonomia nei rapporti col governo centrale. In tutto il mondo arabo hanno sempre prevalso tipologie di Stato in cui le componenti claniche o tribali costituivano l’aspetto saliente, assolutamente irrinunciabile.
La tendenza a tutelare privilegi acquisiti, se non addirittura ad aumentarli, la si ritrova anche nei rapporti tra i grandi signori feudali di Castiglia e di Aragona, rivali nei loro rispettivi territori e nel rapporto tra le due regioni cattoliche.
Vi sono stati dei momenti in cui alcuni signori feudali castigliani si rifugiarono proprio a Granada per sfuggire al controllo dei loro sovrani. Ma lo fecero anche molti ebrei perseguitati e persino alcuni francescani in odore di eresia. Furono ospitati in tutta tranquillità, perché nel mondo islamico cristiani ed ebrei, pagando uno specifico tributo, venivano tollerati, benché fosse loro interdetta ogni forma di proselitismo.
Tutta la storia dei rapporti politici tra cattolici e islamici, nella Spagna feudale, può essere letta come lo scontro di due civiltà medievali, in cui l’elemento dell’autonomia locale vuole circoscrivere in limiti sempre più ristretti la tendenza centralizzatrice della corona. Sotto questo aspetto le civiltà che si confrontano sono equivalenti. E la vittoria finale sarà appannaggio dei cristiani solo perché in un lasso di tempo sufficientemente ampio il governo centrale riuscì ad avere la meglio sulle tendenze autonomistiche dei propri vassalli.
La guerra d’assedio contro Granada, durata 11 anni, fu vinta dai cristiani non tanto per la superiorità dell’artiglieria, quanto perché i dissidi interni al regno islamico e la mancata soluzione delle contraddizioni feudali non permettevano più alcuna valida difesa.
Se guardiamo il livello di produttività economica del regno di Granada (ma anche degli altri territori islamici che i cristiani avevano già conquistato), dobbiamo dire ch’esso era di molto superiore a quello dei regni cattolici. Pur non avendo mai posto le basi di uno sviluppo sociale in senso capitalistico, la civiltà islamica in Spagna fu sicuramente molto più mercantile di quella ispanica.
Le maggiori ricchezze di questi territori hanno sempre costituito per le forze cattoliche di governo, incapaci anch’esse di risolvere i conflitti causati al loro interno dai rapporti feudali, un oggetto di possibile conquista, nell’illusione di poter risolvere proprio quei conflitti (p.es. si concedevano parte delle terre conquistate ai contadini che avevano collaborato come militari, ma poi i rapporti feudali riportavano gli stessi contadini alla miseria).
Detto altrimenti, l’unificazione nazionale spagnola non avviene come quella italiana di 300 anni dopo, in cui le forze borghesi avevano necessità di costituire un unico mercato nazionale, ma, al contrario, avviene in nome di interessi feudali coi quali eliminare dal paese ogni traccia di cultura borghese, che pur si esprimeva entro i ristretti limiti di due religioni conservatrici: quella islamica e quella ebraica.
La cultura spagnola dei poteri dominanti non si integra mai con le culture “altre”, soprattutto se queste culture rappresentano una forma di diversità dai rapporti feudali tradizionali, quale appunto era lo sviluppo dei commerci (che nella Spagna cattolico-feudale erano presenti solo nelle coste catalane). Nel solo anno 1510 furono bruciati almeno 80.000 libri di inestimabile valore solo perché erano scritti in arabo. La stessa cosa stavano facendo i coloni spagnoli nelle terre americane, coi documenti delle civiltà andine.
Si è in questo senso perduta una grande occasione di incontro e di scambio culturale, che avrebbe potuto essere proficua per tutte le civiltà iberiche.
Pensiamo soprattutto al fatto che a Cordova si formò il cosiddetto “momento andaluso” della filosofia araba, rappresentato dai due grandi pensatori, Averroè (1126-1198) e Maimonide (1135-1204), quest’ultimo autore ebraico della famosa Guida dei perplessi. Prima di loro c’era stato Avicenna (980-1037), altro grande filosofo arabo. Costoro posero le condizioni per la diffusione in Occidente del sapere aristotelico, pressoché dimenticato nel Medioevo latino.
Si può anzi dire che proprio in virtù dei loro commenti e delle loro traduzioni, la riscoperta dell’aristotelismo, nelle università europee, porterà al rinnovamento in senso umanistico della teologia cattolico-romana, che si trasformerà da agostiniana a tomista, e che segnerà un punto di non ritorno verso la trasformazione progressiva della teologia in filosofia.
Forse non tutti sanno che fino al Seicento avere un precettore arabo era cosa scontata per i figli delle famiglie più abbienti (come nel mondo latino classico averne uno di cultura greca). Papa Silvestro (999-1003) studiò da giovane presso diversi maestri arabi a Toledo. E persino il Cid Campeador, eroe anti-islamico, dovette la sua educazione a un maestro arabo di Granada.
Purtroppo – a testimonianza di quanti strappi vadano ricuciti – ancora oggi è raro trovare dei manuali di letteratura italiana che evidenzino il contributo decisivo della poetica araba andalusa su quella trobadorica romanza. Proprio i poeti andalusi idearono la poesia strofica, dove spesso dominava il tema esistenziale della “nostalgia”.
E che dire dei componimenti descrittivi di palazzi e giardini? Qui si raggiunse un vertice ineguagliato nella letteratura occidentale. Gli edifici vengono descritti con metafore riprese dal mondo vegetale, che armonizzano l’opera umana con la forma paradisiaca per eccellenza, quella appunto del giardino.
A Granada addirittura le stesse fontane, le arcate, le alcove vennero materialmente impreziosite da versi poetici, scolpiti in uno stile calligrafico a motivi floreali, che parlano di ciò che decorano: infatti tutto è bello da vedere e da leggere insieme, in un rimando costante al piacere dell’occhio e a quello della poesia, che trasforma con la scrittura la parola in un fiore e il palazzo in un giardino.
LA QUESTIONE EBRAICA
Le persecuzioni antiebraiche ebbero inizio in Spagna durante l’interregno del 1391, allorché 4.000 ebrei furono massacrati dai cattolici a Siviglia.
Il motivo di questa persecuzione è presto detto. Anzitutto bisogna dire che nel rapporto arabi-ebrei le persecuzioni antisemite durarono solo fino al regno di Omar, il califfato elettivo (632-661), che caratterizzò il periodo del grande espansionismo arabo. Quando gli arabi o i berberi perseguitavano gli ebrei non lo facevano perché questi erano “ebrei” ma perché erano “avversari politici”, non meno dei cattolici.
Quando l’invasione in Spagna dei fanatici berberi Almohadi, nel 1146, aveva posto fine alla pace assicurata dai califfi di Cordova, gli ebrei erano semplicemente emigrati nella parte già dominata dai principi cristiani, i quali li avevano accolti favorevolmente, proteggendoli e allo stesso tempo sfruttandoli come fonte di reddito. Essendo loro proibita la proprietà terriera, vivevano solo nelle città, dove esercitavano i commerci e il prestito (agli ebrei p.es. era consentito di tenere aperte le botteghe in occasione delle festività religiose, ma anche di effettuare prestiti a interesse, in un’epoca in cui il denaro non veniva ancora considerato un mezzo per ottenere ricchezza).
L’ASSOLUTISMO DI CARLO V
Alla fine del XV sec. la Spagna era un paese unito e sotto i sovrani cattolici erano state poste anche le isole Baleari, la Sicilia, la Sardegna e nel 1504 il regno di Napoli.
La popolazione era compresa tra i 7,5 e i 10 milioni di abitanti. Nonostante il fiorire di talune città, il paese restava prevalentemente agricolo e tecnicamente arretrato, se si esclude la zona di Granada e di Valenza, dove i moriscos (discendenti degli arabi e dei berberi divenuti cristiani) praticavano vaste irrigazioni, la coltivazione dell’uva, delle olive, della canna da zucchero e dove avevano piantato palme da datteri, gelsi e agrumeti.
I grandi allevatori, che avevano dato una netta prevalenza agli ovini, si erano associati in una sorta di “cartello monopolistico”, chiamato Mesta, e spadroneggiavano per tutta la penisola, impedendo ai contadini di recintare le loro terre per salvarle dalle rovina del passaggio di milioni di capi.
La Mesta smerciava tantissima lana là dove era fiorente l’industria tessile: Fiandre, Francia, alcune città italiane e hanseatiche. La monarchia appoggiava il cartello perché ne ricavava forti entrate erariali, tanto che già nel 1489 le aveva concesso il diritto di utilizzare i pascoli delle comunità, anzi, addirittura di impadronirsene se i proprietari non protestavano.
Gravati dal peso delle imposte, dal giogo degli usurai e impotenti di fronte a questi allevatori, i contadini, nella prima metà del XVI sec., erano alle corde. La produzione agricola non bastava neppure per le esigenze locali. Tutta la Spagna settentrionale doveva fare ricorso al grano d’importazione.
Nell’Aragona, in particolare, s’era conservato un pesante retaggio feudale. Praticamente i giuristi di questa provincia equiparavano i contadini agli schiavi romani e permettevano ai signori di disporre totalmente della loro vita.
In Castiglia la loro situazione era migliore solo sul piano giuridico ma non su quello socioeconomico, per cui anche qui fuggivano in massa dai loro paesi, oppure si trasformavano in mendicanti, vagabondi, peones (braccianti senza terra) e spesso le leggi del paese li obbligavano a ritrasformarsi in operai con salari da fame. Nel 1585 vi fu una grande rivolta, duramente repressa, nella contea di Ribagorza, sul versante meridionale dei Pirenei.
Le poche tracce di protocapitalismo, nella forma della manifattura sparsa o accentrata, focalizzata sulla produzione di panni, seta, porcellane, sapone…, si trovavano soprattutto nella zona di Siviglia, che fruiva del diritto esclusivo di commercio con le colonie americane. Ma anche Toledo non era da meno, con la sua produzione di armi e pelli, mentre nelle Asturie e in Biscaglia le imprese si specializzavano nella cantieristica navale.
E così altre città: Segovia, Granada, Burgos…, che fornivano viveri, vestiario, armi agli hidalgos (piccola nobiltà) conquistatori del Nuovo Mondo appena scoperto, i quali pagavano in oro e argento.
Naturalmente qui si ha a che fare con una produzione mercantile di molto inferiore a quella coeva di paesi come Fiandre, Inghilterra, Francia e Italia, ma la Spagna aveva i presupposti materiali per recuperare molte posizioni.
Le ragioni per cui il paese restasse prevalentemente agricolo e non riuscisse a decollare in modo capitalistico sono molte e complesse.
Anzitutto bisogna dire che il passaggio dal feudalesimo al capitalismo avrebbe potuto non essere considerato necessario se solo si fosse riusciti a trasformare l’economia agraria in un qualcosa di democratico per tutti i contadini. Di fatto, nessuna rivolta contadina è mai riuscita a spezzare l’egemonia del latifondo, il servaggio, il monopolio degli allevatori… Le rivendicazioni al massimo si sono fermate sul terreno giuridico relativo alla libertà personale.
In secondo luogo va detto che con la cacciata degli arabi e degli ebrei la formazione di una mentalità mercantile ha come una battuta d’arresto, che sarà poi irreversibile quando si cacceranno i moriscos nel 1610 e i gesuiti nel 1767.
Persino quando si disponeva di un immenso territorio coloniale, da gestire in tutta tranquillità, l’aspirazione principale restava quella di vivere di rendita, sfruttando il lavoro degli indios nelle miniere, non quello di impiantare attività produttive di trasformazione delle materie prime. P.es. nel campo tessile le città esportavano soprattutto le materie prime e dovevano importare il prodotto finito perché il loro era di bassa qualità.
Nella prima metà del XVI sec. – che è il periodo della massima floridezza economica della Spagna – le importazioni hanno sempre avuto un peso preponderante nella bilancia commerciale, proprio perché le merci capitalistiche iberiche non riuscivano in alcun modo a conquistare i mercati europei.
In terzo luogo va detto che il continuo afflusso di metalli preziosi provenienti dalle colonie, aveva provocato una terribile inflazione in tutto il paese. In Europa si ebbe una vera e propria “rivoluzione dei prezzi”, ma solo in Spagna essi quadruplicarono nel corso del XVI secolo.
Va inoltre detto che le province spagnole, soprattutto le due che avevano contribuito di più all’unificazione nazionale, continuavano a fruire di privilegi ingiustificati per uno Stato “moderno”: p.es. ancora funzionavano i dazi e le dogane interne e non esisteva un parlamento nazionale.
Le città sostenevano il potere regio nella sua politica centralista antinobiliare, ma non si riuscì mai ad aver ragione delle resistenze autonomistiche dei feudatari.
La Spagna aveva realizzato l’unificazione non a favore ma contro i valori borghesi e, nonostante questo, si voleva fruire dei vantaggi economici che la rivoluzione manifatturiera stava portando negli altri paesi europei. L’impero coloniale sembrava essere fatto apposta per alimentare questa convinzione. Vivere come borghesi senza esserlo – ecco l’obiettivo primario degli hidalgos.
Quando poi a queste premesse materiali si aggiunsero improvvisamente anche quelle politiche, la convinzione di poter vivere di rendita per un tempo indeterminato sembrava essere divenuta una realtà incontrovertibile.
Infatti l’elezione al trono imperiale di Carlo V (1516 – 1556) fu determinata da una serie di eventi fortuiti. Nel 1516 era morto il sovrano spagnolo Ferdinando il Cattolico, lasciando in eredità i suoi vasti domini (Spagna, Italia meridionale con Sicilia e Sardegna, Colonie americane) al nipote Carlo d’Asburgo (1500-58), nato a Gand dal matrimonio dell’unica sua figlia, Giovanna la Pazza con Filippo il Bello d’Austria (morto nel 1506): cosa che unirà strettamente gli interessi delle due Case d’Austria e di Spagna.
Contemporaneamente moriva, nel 1519, l’imperatore Massimiliano (del Sacro Romano Impero), lasciando in eredità allo stesso nipote Carlo d’Asburgo tutti i suoi domini (Austria, Boemia, Ungheria, Fiandre, Artois, Franca Contea).
Gli aristocratici tedeschi, che mal sopportavano l’avanzata della borghesia (che presto troverà nella Riforma protestante un valido baluardo ideologico) e la minaccia di guerre contadine (che proprio in Germania scoppieranno furibonde nel XVI secolo), pensarono bene, convinti di non trovare in questa decisione alcun ostacolo da parte dell’aristocrazia spagnola, di affidare le sorti dell’impero, nel 1519, proprio a Carlo d’Asburgo, permettendogli così di possedere un impero vastissimo, quale non s’era mai visto dai tempi di Carlo Magno.
Lo scontro con la Francia di Francesco I, che rivendicava il titolo della corona imperiale e che si sentiva accerchiata, fu inevitabile. Il periodo delle grandi guerre europee, iniziato nel 1521, proseguì praticamente fino alla pace di Cateau-Cambrésis del 1559, che sancì l’egemonia spagnola in Europa (in Italia la Spagna prese anche il Ducato di Milano), almeno fino a quando la borghesia non seppe trovare nella Riforma protestante nuove motivazioni ideali con cui poter affossare definitivamente (soprattutto negli Stati Uniti) l’obsoleta idea dell’universalismo cattolico-romano-germanico, sotto l’egida degli Asburgo e con l’appoggio incondizionato del papato.
Carlo V quindi proveniva dai Paesi Bassi, era stato educato in ambiente borgognone-fiammingo e quando prese il trono spagnolo si circondò di consiglieri fiamminghi che volevano soltanto spadroneggiare nel paese, dimostrando che il sovrano altro non voleva che realizzare una monarchia assolutistica, vincendo le resistenze autonomistiche degli aristocratici. Fatto questo, il sovrano preferì trasferirsi in Germania, lasciando in Spagna un suo luogotenente, il cardinale Adriano di Utrecht.
A livello europeo sembrava tornata in auge una vecchia idea medievale, quella di poter restaurare il dominio assoluto, politico ed economico, dell’aristocrazia fondiaria, rappresentata dall’imperatore, proprio mentre nei paesi più avanzati d’Europa: Olanda (Fiandre), Inghilterra, Francia e Italia centro-settentrionale lo sviluppo della borghesia, appoggiato dalle monarchie nazionali (in Italia dalle Signorie) ne aveva ridimensionato di molto i privilegi economici e le prerogative politiche.
Ora, al rinnovato impero feudale non restavano che due cose da fare, per potersi reggere in piedi con sicurezza: 1. imporre esose tasse a chiunque non fosse nobile; 2. minacciare immediate ritorsioni di tipo militare a chi non volesse piegarsi. Nell’Europa orientale una dittatura analoga si stava formando in Turchia.
In Spagna la politica centralista di Carlo V ebbe la meglio sulle tendenze separatiste nobiliari solo grazie all’appoggio delle città, ma quando l’imperatore cominciò a ridurre l’autonomia alle stesse città, che sopportavano l’onere finanziario maggiore della sua politica imperiale, scoppiò nel 1520 la cosiddetta rivolta dei “comuneros” (città castigliane), appoggiata dall’aristocrazia.
La rivolta, dilagata ben presto in tutta la Castiglia, si trasformò in una “Lega santa” contro Carlo V, arrivando persino a deporre il suo luogotente-cardinale.
Ma poi, nel momento cruciale, emersero gli interessi contrapposti che dividevano le forze della Lega. La borghesia infatti chiedeva nel suo programma non solo che l’imperatore risiedesse nel paese e che le alte cariche statali (da non porre in vendita) fossero assegnate solo a funzionari spagnoli e che le Cortes venissero convocate ogni triennio e che i deputati eletti fossero indipendenti dal potere regio, e che si vietasse l’export di oro e argento, ma chiedeva anche che le terre regie alienate e usurpate dall’aristocrazia dopo la morte della regina Isabella tornassero all’erario, che si abolisse inoltre l’esenzione dei nobili dal pagamento delle imposte e si vietasse a quest’ultimi di occupare d’ufficio le cariche amministrative nelle città.
I nobili più reazionari cominciarono ad allontanarsi dal movimento (che peraltro non fu capace di uscire dai confini della Castiglia) e ad accordarsi con la corona.
Viceversa, gli elementi più radicali delle città volevano prepararsi a uno scontro armato decisivo. Non ebbero però l’appoggio degli strati urbani più ricchi e la mancanza di organizzazione generale ne determinò la sconfitta a Villalar nel 1521. Anche le rivolte di Valenza e dell’isola di Maiorca subirono lo stesso risultato.
Il potere di Carlo V crebbe enormemente e con esso le estorsioni finanziarie sul paese. I grandi proprietari fondiari tuttavia ebbero la peggio sul piano politico, poiché la corona attribuì agli hidalgos il diritto di amministrare le città. E siccome i grandi nobili continuavano a non voler pagare le tasse, il sovrano smise di convocarli nelle sedute parlamentari.
A dir il vero il potere di Carlo V, se aumentò in Spagna, diminuì nettamente in Germania, dove fu sconfitto nella lotta contro i principi protestanti tedeschi, che lo indussero a dividere il suo impero tra il fratello Ferdinando e il figlio Filippo II (1556-98), che ereditò Spagna, Franca Contea, Paesi Bassi, Italia e Colonie americane.
E anche in Italia il suo nome fu assai poco amato, specie dopo l’invio delle truppe lanzichenecche che giunsero fino a saccheggiare Roma nel 1527. (1)
Ritiratosi a vita privata nel monastero di Yuste, in Estremadura, dove visse per circa due anni, Carlo V sino alla fine consigliò il figlio sulla condotta politica che doveva tenere.
Juana (1479 – 1555) y Felipe (1478 -1506)
Después de la muerte de Isabel en 1504, su hija Juana, que padeció esquizofrenia, junto con su marido Felipe, Archiduque de Austria, ascendieron al trono. La pareja había estado viviendo en Bruselas pero después se mudaron a Burgos, una ciudad en el norte de España, en la primavera de 1506.
Felipe se conocía como Felipe el Hermoso y fue famoso por sus
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