Nuovo Testamento: rivelazione di Gesù – Di Gianfranco Ravasi

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Nuovo Testamento: rivelazione di Gesù

di Gianfranco Ravasi

Il Nuovo Testamento è costituito da 27 scritti di diversa estensione, composti con poco più di 140.000 parole greche (il più lungo dei vangeli, quello di Luca, contiene 19.404 parole). Se volessimo ordinare questi libri in settori definiti da elementi comuni, potremmo rimandare sostanzialmente a tre aree.

Ci sono innanzitutto i quattro vangeli – che assommano in sé 64.327 parole greche che dalla tradizione sono riferiti a quattro autori con caratteristiche proprie: Matteo, Marco, Luca, Giovanni. Prescindendo da qualche recente tentativo di anticipare la loro data di composizione attorno agli anni 40-50, la collocazione cronologica più certa è quella che va dalla fine degli anni 60 allo scorcio del I secolo. Il più antico è quasi certamente il vangelo di Marco, seguito da Matteo, Luca e Giovanni.

Il «vangelo» costituisce un vero e proprio genere letterario, cioè un modello di composizione che non ha paralleli prima del cristianesimo, e nel valore del termine stesso – in greco euanghelion, «buona novella», «annunzio di bene» – contiene la caratteristica fondamentale che lo definisce. Infatti, i racconti evangelici si preoccupano di riferire gli eventi storici e le parole di Gesù di Nazaret, l’indiscusso protagonista di queste pagine. Ma non lo fanno come se si trattasse di un manuale di storia né tanto meno se fosse un verbale di fatti e di detti o un documento d’archivio. Gli evangelisti illuminano quei dati, che tra l’altro sono stati da loro selezionati, alla luce della fede e, più precisamente, dell’esperienza vissuta dalla Chiesa delle origini, quella della Pasqua di Cristo.

Perciò, se da un lato è possibile compiere una ricerca sul Gesù storico presente nei vangeli, d’altro lato la testimonianza evangelica si propone la finalità di far comprendere ai lettori il mistero di Cristo, Figlio di Dio, e di condurre il lettore all’adesione nella fede: «[Queste cose sono state scritte] perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Giovanni 20,31).

Storia e fede, eventi e interpretazione, «carne» e «parola» (per usare il linguaggio del prologo di Giovanni) si intrecciano in modo stretto, proprio come accade in Cristo che è uomo e Dio. Si può, allora, dire che «il cristianesimo è nato due volte» (Lucien Cerfaux): la prima nascita avviene con la predicazione, l’azione e la storia di Gesù; la seconda con la sua gloriosa risurrezione che diventa il cuore e la chiave di interpretazione dell’intero Nuovo Testamento.

Ogni evangelista, che respira la fede della Chiesa e che si rivolge alla Chiesa (anzi, a una precisa comunità ecclesiale), rivela un suo personale approccio alla figura di Cristo. La lettura dei quattro vangeli lo rivelerà in modo netto e con tutta una serie di puntualizzazioni: ogni testo, infatti, ha una sua struttura, cioè un piano redazionale sul quale l’autore ordina secondo il suo progetto, e una sua visione teologica, cioè un modo specifico per interpretare il volto e l’opera di Gesù.

Così, Matteo sembra privilegiare le parole di Cristo, distribuendo nella sua opera cinque solenni discorsi; ma al tempo stesso rivela un’attenzione particolare a raccordare la figura e l’insegnamento di Gesù all’Antico Testamento. È, questa, una consapevolezza della sua comunità, costituita da cristiani provenienti dall’ebraismo, ma è anche la coscienza di tutta la Chiesa, come testimonia l’apostolo Paolo: «Tutto quanto è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza» (Romani 15,4).

Marco, il primo degli evangelisti in ordine cronologico, si preoccupa invece di avviare il suo lettore su un itinerario che procede dall’oscurità verso la piena rivelazione. Gesù appare innanzitutto come uomo che, però, compie atti sorprendenti di liberazione dal male nei confronti di malati fisici e spirituali. A metà strada è riconosciuto da Pietro come «Cristo», cioè Messia. Una lunga tappa che conduce a Gerusalemme mostra la qualità strana di questo Messia: egli non sarà un trionfatore ma uno sconfitto. Ma è proprio nel momento della sua morte in croce che un centurione romano scopre il segreto ultimo di Gesù, che verrà poi suggellato dalla risurrezione: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!» (15,39).

Un lungo viaggio è anche al centro del vangelo di Luca. Questa volta, però, è un vero e proprio percorso che si distende nello spazio che conduce a Gerusalemme (capitoli 9-19). Alle spalle ci sono le origini di Cristo e la sua prima predicazione nella regione settentrionale della Galilea; davanti vi sono la morte e la gloria che hanno come meta ultima l’ascensione al cielo, cioè il ritorno di Gesù nell’orizzonte divino, dopo essere stato una presenza viva e salvatrice nella storia umana. Nel viaggio verso Gerusalemme, Luca colloca quei temi che più gli sono cari e che ai suoi occhi meglio raffigurano il volto di Cristo: l’amore, la gioia, la povertà, il distacco, la preghiera e la storia trasfigurata dal passaggio del Signore.

Verso la fine del I secolo, tenendo conto di una lunga predicazione della Chiesa e degli altri vangeli, fiorisce l’ultimo scritto, il più alto e originale, quello di Giovanni, aperto da uno stupendo inno che esalta Cristo come Logos, cioè come Parola, Verbo divino, entrato però nella «carne» dell’umanità. L’evangelista modella il linguaggio di Gesù in modo solenne; imposta la sua vicenda terrena immaginando una specie di processo nel quale Cristo è condannato eppure è vincitore; seleziona sette miracoli che presenta come «segni», cioè come espressione di una realtà superiore a cui il Figlio di Dio ci vuole condurre; presenta la fine della vita terrena di Gesù come l’»Ora» per eccellenza della storia della salvezza, e la sua Pasqua come una «esaltazione» nella gloria per attrarre l’intera umanità a Dio.

Profili diversi, quindi, dell’unico Gesù Cristo, proprio perché ciò che gli evangelisti – e prima di loro i predicatori cristiani delle origini della Chiesa – vogliono rivelare non è solo la vicenda storica del Nazareno, ma l’opera di salvezza che egli ha compiuto, deponendo un seme di eternità e di vita divina nell’umanità. Gli atti di Gesù sono spesso miracoli perché contengono in sé una forza trascendente; le sue parabole sono racconti affascinanti, ma rimandano al Regno di Dio; la sua morte approda a un orizzonte trascendente di luce e di vita, nella risurrezione e nella glorificazione, capace di svelare la divinità di Gesù, ma anche di fecondare e trasformare il dolore e la morte dell’umanità.

Da questa radice fondamentale dell’annunzio di «Gesù Cristo, Figlio di Dio» (Marco 1,1), che si cristallizza nelle pagine dei vangeli, si dirama la riflessione di Paolo e della Chiesa. Giungiamo, così, alla seconda area del Nuovo Testamento, quella delle Lettere. Essa è occupata da due generi particolari di scritti che rivelano un aspetto epistolare: si hanno, infatti, indirizzo e saluti iniziali, dichiarazioni rivolte a destinatari e raccomandazioni e saluti vari in finale. Dapprima incontriamo il complesso delle Lettere di Paolo, ordinate secondo una sequenza tradizionale che, però, non corrisponde a quella cronologica. Si tratta di 13 scritti contrassegnati in modo esplicito dal nome dell’Apostolo e di un quattordicesimo che è a sé stante, la Lettera agli Ebrei.

Questa è stata attribuita a Paolo fin dal II secolo, ma in modo esitante, e ora è considerata nettamente distinta dal resto dell’epistolario paolino.
Gli studiosi prevalentemente riconducono a Paolo in modo diretto sette lettere, composte tra gli anni 50-60: 1Tessalonicesi, 1 e 2Corinzi, Calati, Filippesi, Romani, Filemone (questo è il probabile ordine cronologico). Le altre sarebbero da riferire all’orizzonte paolino e forse riflettono la mano di discepoli, che si ispirano al loro maestro sviluppandone il pensiero (2Tessaionicesi, Colossesi, Efesini, 1 e 2Timoteo, Tito; le ultime tre vengono chiamate di solito «Lettere pastorali»). Questa divisione non significa che le seconde non siano ispirate e canoniche: tutte portano in sé il sigillo della Rivelazione divina, che si comunica attraverso uomini differenti, ma tutti segnati dallo Spirito di Dio. La Lettera agli Ebrei è, in realtà, una splendida e complessa omelia della Chiesa delle origini, centrata sulla figura di Cristo sacerdote e sul significato del suo sacerdozio.

Difficile è riassumere in poche battute il sistema di pensiero di Paolo, un uomo che ebbe la vita attraversata dall’irruzione di Cristo (la celebre esperienza sulla via di Damasco narrata da Atti 9). Egli è profondamente ancorato alla matrice ebraica: «circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo quanto alla legge» (Filippesi 3,5). Tuttavia, la sua nascita a Tarso in Cilicia (attuale Turchia meridionale), città romana, e la sua formazione lo rendono aperto anche all’orizzonte greco-romano. Dopo la sua conversione, la sua grande sfida sarà quella di trascrivere e di comunicare il messaggio cristiano per quel nuovo orizzonte sul quale la nuova fede si stava allacciando.

In quest’opera egli ordina ed elabora il messaggio di Cristo in un nuovo progetto che ne conservi l’anima profonda, ma anche ne riveli le potenzialità e l’attualità. Usando un vocabolario greco molto personale, cioè scegliendo termini particolari e imprimendo ad essi nuovi significati, Paolo sviluppa la visione cristiana dell’uomo e della storia, tesa tra l’epifania della grazia divina offerta in Cristo e il peccato dell’umanità.

L’abbraccio di salvezza tra Dio e la creatura avviene attraverso la fede che trasfigura l’uomo conducendolo a partecipare alla stessa vita divina. I credenti divengono figli adottivi di Dio nel Figlio, Gesù Cristo. Ed è proprio la figura di Cristo a dominare gli scritti paolini; il nome ricorre, infatti, più di quattrocento volte. L’Apostolo confessa che per lui «il vivere è Cristo» (Filippesi 1,21). D’altronde tutti gli scritti neotestamentari potrebbero essere posti all’insegna di una frase della Lettera agli Ebrei, che, pur non essendo paolina, ne riflette alcuni elementi: «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre» (13,8).

Il secondo tipo di lettere raccoglie, invece, una serie di sette scritti attribuiti a vari apostoli – Giacomo, Pietro, Giovanni e Giuda e oscillanti tra il testo teologico molto ampio e profondo (pensiamo, ad esempio, alla 1Pietro e alla 1Giovanni), l’omelia (Giacomo, ad esempio) e il biglietto breve ed essenziale (2 e 3Giovanni). La tradizione le ha chiamate «Lettere cattoliche», cioè «universali», considerandole un messaggio destinato a tutta la cristianità del I secolo, anche se in realtà esse sembrano riflettere l’ambito ecclesiale dell’Asia Minore. La celebrazione del Dio amore ha reso famosa soprattutto la 1Giovanni, ma non mancano spunti molto interessanti anche nelle Lettere di Pietro e di Giacomo.

Giungiamo, così, al terzo e ultimo settore degli scritti neotestamentari. Esso comprende due opere profondamente differenti tra loro e originali nella loro qualità. La prima è il libro degli Atti degli Apostoli, un grande affresco della vita missionaria della Chiesa delle origini tratteggiato dall’evangelista Luca. Da Gerusalemme, il vangelo, predicato da Pietro, dagli altri testimoni e soprattutto da Paolo, raggiunge Roma, la capitale dell’impero, attraversando l’intera area del Mediterraneo. L’attenzione è riservata in particolare a Paolo e ai suoi viaggi missionari. Ma sono la parola di Cristo e lo Spirito Santo l’anima profonda che sostiene la storia della Chiesa e il suo slancio missionario.

A sé stante è anche l’Apocalisse attribuita a Giovanni, l’ultimo libro, che suggella non solo il Nuovo Testamento ma anche tutta la Bibbia. Anch’essa è una descrizione della Chiesa – quella dell’Asia Minore è al centro dei primi capitoli -, non solo nel suo itinerario travagliato nelle vicende storiche ma anche nel suo destino glorioso, raffigurato dalla Gerusalemme celeste, la città della speranza e dell’incontro pieno con Cristo, invocato con passione nell’ultima pagina («Vieni, Signore Gesù!»).

L’opera, costellata di simboli gloriosi e terribili, affidata al linguaggio «apocalittico» che era presente già nell’Antico Testamento (Ezechiele e Daniele), si rivela perciò come un grandioso annunzio di fiducia rivolto alla Chiesa in crisi al suo interno e perseguitata all’esterno e come una vigorosa interpretazione della storia. Essa è apparentemente dominata dalle forze mostruose del male, ma la meta che l’attende è luminosa e segnata dalla vita e dal bene.

Abbiamo, così, tracciato la mappa essenziale della Scrittura sacra cristiana: essa, però, non si esaurisce in questi 27 scritti ma si unisce in un ideale abbraccio anche ai 46 libri dell’Antico Testamento e tutti insieme i 73 scritti compongono la Bibbia, il grande libro della Parola di Dio.

I due Testamenti, il Primo o Antico e il Nuovo, costituiscono non solo la Rivelazione del mistero di Dio ma anche la «lampada per i passi» dell’uomo nel cammino della storia (Salmo 119,105). Infatti, «tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2Timoteo 3,16).

Cristo non è venuto per «abolire la legge o i profeti, ma per dare compimento» (Matteo 5,17). È per questo che egli costituisce la chiave d’interpretazione delle Scritture nel loro progetto unitario di salvezza, iniziato con Israele e condotto a sviluppo e a pienezza nel popolo di Dio, a cui tutta l’umanità è invitata a iscriversi e ad aderire attraverso la fede e la giustizia. Cristo, connettendosi ai profeti, continua a interpellare ogni uomo perché accolga e partecipi al Regno di Dio che egli annunzia ed edifica nella storia. La lettura del Nuovo Testamento non è, allora, soltanto la conoscenza della figura di Gesù e della sua realtà profonda e misteriosa né delle testimonianze che su di lui ci hanno lasciato coloro che lo videro e ascoltarono né delle vicende iniziali della cristianità.

Seguire accuratamente e penetrare le pagine neotestamentarie vuol dire anche essere provocati a una risposta personale, a un incontro con la figura di Cristo che ci ripete la domanda rivolta ai discepoli di allora: «Voi, chi dite che io sia?» (Matteo 16,15).

La nostra risposta è possibile dopo averlo seguito nei percorsi di fede che queste pagine ci delineano, invocando la sua vicinanza, ma anche pregandolo di mettersi lui per primo a cercarci, come diceva il filosofo Soeren Kierkegaard: «Gesù, vieni in cerca di me sui sentieri dei miei traviamenti ove io mi nascondo a te e agli uomini». Paolo, infatti, aveva scritto ai Romani: «Isaia arriva a dire: Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato a quelli che non si rivolgevano a me» (10,20).

Gianfranco Ravasi

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