03 – MALATTIA COME PROVA IN SANT’AMBROGIO – Luca Beato o.h.

Sant'Ambrogio vescovo

 

MALATTIA COME PROVA

IN SANT’AMBROGIO

 

Luca Beato o.h.

 

Fra Luca Beato o.h. teologoSant’Ambrogio paragona sovente la vita umana a una lotta. Bisogna lottare contro i nemici interni e contro i nemici esterni. I nemici interni all’uomo sono la carne e il sangue, cioè le sue passioni, come l’avarizia, la libidine, il timore, l’iracondia e l’ambizione, che tentano di smuovere il cristiano dal proposito del bene.

Nemico esterno all’uomo è il mondo. Il cristiano ha rinunciato ad esso e contro di lui deve lottare. Nostri avversari sono i piaceri di questo mondo con tutti i loro stimoli alla lussuria. Nemico dell’uomo è il principe di questo mondo e i suoi satelliti che hanno perseguitato Gesù Cristo fino alla croce.

 

LA VITA È UNA LOTTA CONTINUA

 

La lotta che il giusto deve sostenere contro l’avversario del genere umano consiste in definitiva nel superare le tentazioni. Ora il diavolo tenta l’uomo in due modi diversi: o mediante l’elargizione dei beni di questo mondo per spingerlo alla superbia, o mediante la sofferenza e la malattia per spingerlo alla ribellione contro Dio. La sopportazione della sofferenza e della malattia è vista da Ambrogio come una lotta in cui il giusto è impegnato contro il diavolo. La malattia, infatti, può essere considerata un assalto che il diavolo opera contro di noi con l’intenzione di rovinarci spiritualmente e di farci perdere la nostra anima.

 

Il pensiero di Sant’Ambrogio a questo riguardo va inquadrato nella spiritualità della “fuga dal mondo, la lotta condotta direttamente contro il diavolo, per riuscire a tornare al paradiso di Adamo”. Dice infatti che i quattro fiumi del Paradiso, che noi dobbiamo attraversare se vogliamo riuscire a ritornare in esso, sono la carne e il sangue, i principati e le potestà, i rettori delle tenebre di questo mondo, gli esseri spirituali e malvagi, che scorrazzano per l’aria, contro i quali noi dobbiamo combattere.

 

L’atleta di Cristo

Il giusto di fronte alla sofferenza deve essere come il soldato che affronta intrepido gli assalti del nemico; o come l’esperto nocchiero che nella tempesta affronta direttamente le onde, perché è il modo migliore per evitare il naufragio; o come il valoroso atleta che impegna nella lotta l’avversario, incurante della sua sofferenza.

 

Il cristiano è un atleta e Dio è il suo manager. È Dio, infatti, che pone i suoi atleti, cioè i giusti, nella lotta contro il diavolo e i demoni; è Lui che regola la difficoltà e il numero degli scontri adattandoli alla loro capacità; è Lui che dirige il combattimento; è Lui che alla fine premia i vincitori. Noi dobbiamo affrontare con fiducia questa lotta, perché anche se da soli siamo più deboli del diavolo, di fatto, dopo la redenzione operata da Gesù Cristo, siamo più forti di lui. Dio mobilita i suoi angeli in nostra difesa e Cristo stesso combatte con noi. L’atleta vibra i colpi, ma chi gli dà la capacità di colpire il bersaglio, che è invisibile, è solo Cristo.

 

La fortezza

L’atleta di Cristo deve mostrarsi forte in qualsiasi genere di afflizione. Nel suo amore totale a Cristo è capace di affrontare la persecuzione e la morte. Certo, ci sono diversi generi di fortezza. C’è la fortezza di carattere militare, del corpo e del braccio, che ha una grande importanza quando è unita alla giustizia: Sansone, Davide, Giuda e Gionata Maccabeo. C’è la fortezza dell’anima, la fortezza di coloro che per la fede affrontarono le fiere, il fuoco e la spada, e trionfarono su di esse. E qui egli cita i fratelli Maccabei e la loro madre, la vergine Agnese e il diacono Lorenzo. Ma accanto alla fortezza dei martiri, alla quale Ambrogio riserva un posto di grandissimo onore, c’è la fortezza di chi sa vincere se stesso; di chi per amore di Cristo raffrena l’ira, non si piega né cede agli allettamenti, non si turba nell’avversità, né si innalza nella prosperità, non è una banderuola che cambia direzione ad ogni soffiar di vento.

 

È la fortezza di chi sopporta le avversità, la sofferenza e la malattia, e non differisce affatto dalla fortezza dei martiri. Se, infatti, si vuole avere l’idea di una gradualità nei vari generi di sofferenza, si pensi a come il diavolo ha tentato Giobbe: prima con la perdita dei beni terreni, poi con la perdita dei figli e infine con la malattia.

 

La vittoria

La vittoria si può ottenere in due modi diversi: o con la guarigione, o con la sopportazione. La mentalità diffusa al tempo di Sant’Ambrogio era che tutte le malattie sono inflitte dal diavolo e dai demoni. Cristo nel Vangelo guarisce un vasto numero di malati. In alcuni si fa riferimento al diavolo espressamente, in altri non se ne parla, ma resta sottinteso. Cristo che con la sua potenza guarisce i malati, compie una vittoria sul diavolo che opprime l’uomo con la malattia.

 

Ma Gesù ha conferito ai suoi discepoli, continuatori della sua opera redentrice sulla terra, la pienezza dei suoi poteri. Così anch’essi possono scacciare i demoni e guarire le infermità mediante l’imposizione delle mani e l’invocazione del nome di Gesù. Questo complesso di poteri che Gesù Cristo ha conferito ai suoi discepoli è ordinato a scacciare il diavolo e i suoi satelliti non solo dall’anima, ma anche dal corpo dell’uomo redento: nel primo caso si tratta della remissione dei peccati mediante il Battesimo o la Penitenza.

 

Nel secondo caso si tratta di liberare il corpo dell’uomo da qualsiasi influsso diabolico: santificarlo con gli esorcismi e, quando è malato, ricorrere alle benedizioni e all’imposizione delle mani, al fine di ottenerne la guarigione. Il fatto che nella Chiesa primitiva si facesse largo uso di esorcismi sui malati, non significa che i cristiani misconoscessero il valore della medicina. Secondo Sant’Ambrogio è Dio stesso che ha dato alle erbe le qualità terapeutiche che posseggono. All’uomo spetta il compito di scoprire queste qualità e di metterle a profitto dell’umanità. Ambrogio stesso era un conoscitore di erbe mediche e le consigliava ai suoi fedeli al punto che qualcuno lo considerava un medico.

 

La vittoria si può riportare anche mediante la sopportazione. Non sempre è concesso al malato il recupero della salute, anche se non trascura alcun mezzo spirituale che la Chiesa gli offre. Dovrà dunque in questo caso ritenersi uno sconfitto dal diavolo? Il giusto, dice Ambrogio, per ottenere la vittoria non è necessario che recuperi la salute; se infatti sopporta la malattia con pazienza, ottiene una vittoria ancor più strepitosa, una vittoria di carattere spirituale. Infatti, il fine per cui il diavolo ci manda le malattie è quello di rovinarci spiritualmente. Perciò una vittoria spirituale sul maligno è molto più importante di una vittoria di carattere fisico. È anche più strepitosa in quanto la si coglie là dove lui meno se l’aspetta.

 

La prova

Dio sottopone il giusto alla prova allo scopo di poterlo approvare. La parola stessa “prova” per Ambrogio ha un senso pregnante, perché include l’approvazione da parte di Dio. Il giusto può sentirsi sicuro nella prova a cui Dio lo sottopone, prima di tutto perché Cristo, con la sua passione-morte e risurrezione ha vinto il diavolo e così ha dimostrato di essere superiore a tutte le forze celesti che potrebbero danneggiare l’uomo. Cristo le ha messe tutte sotto lo sgabello dei suoi piedi. Inoltre perché Dio ha messo a disposizione dell’uomo le schiere degli Angeli. Quindi l’uomo nella lotta si trova da una parte il diavolo e i demoni che lo stimolano a ribellarsi a Dio; e dall’altra parte si trova sorretto dagli angeli di Dio per restare fedele al Signore anche nella tribolazione, sapendo che è una prova che prelude alla premiazione.

 

Qualsiasi genere di tribolazione costituisce per l’uomo una tentazione, perché allora nel suo cuore si scatena la burrasca. In particolare sono tentazioni le persecuzioni, la sofferenza e la malattia. Queste tentazioni però mettono l’uomo nella condizione di diventare meritevole dell’approvazione di Dio. Che merito c’è ad essere fedeli a Dio nella prosperità e nella salute? Nulla di straordinario è lodare Dio quando tutto va bene; cosa veramente mirabile è lodare il Signore nelle avversità e nella malattia. Come è detto negli Atti degli Apostoli, al Regno di Dio si arriva attraverso molte tribolazioni. Stretta, infatti, è la via che conduce al Regno di Dio; larga invece è quella che conduce all’inferno.

 

È attraverso le sofferenze che arriviamo a conseguire il frutto della Redenzione: “Perché attraverso fatiche, tribolazioni e afflizioni si giunge al premio celeste; il pianto delle cose presenti viene compensato dalle cose future”. Ambrogio porta diversi esempi: il grano deve essere liberato dalla pula, l’oro deve essere purificato e liberato dal piombo. Giobbe e il povero Lazzaro che quaggiù hanno sofferto, hanno ricevuto in premio la corona dell’eterna gloria, mentre il ricco epulone è finito all’inferno. Quanto più grandi saranno le tribolazioni che avremo da sopportare quaggiù, tanto più grande sarà la nostra futura consolazione. Viene citata l’Apocalisse (21, 4): “Allora il Signore tergerà ogni lacrima dal volto dei suoi eletti, non ci sarà più morte, né lutto, né pianto, né dolore”.

 

Ambrogio, poi, riassume la dottrina di S. Paolo. Tutta la creazione è ora nel dolore e aspetta di conseguire quella letizia e quella gioia che seguirà alla redenzione dell’uomo (Rom 8, 20s). Anche noi gemiamo in attesa della redenzione del nostro corpo e sappiamo che “le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura”. Anche nel dolore, nella sofferenza e nella malattia, si manifesta la misericordia del Signore: se entriamo nel Regno dei Cieli non lo dobbiamo a noi stessi, ma alla bontà di Dio, il quale ci dà un premio di gran lunga superiore al nostro merito.

 

La speranza del premio

 

Ciò che sostiene l’uomo nella sofferenza e nella malattia è la speranza del premio, la speranza nella felicità eterna che si avrà quando sarà completata la redenzione del nostro corpo, cioè quando, all’avvento della redenzione finale, saremo gloriosi e immortali, e contempleremo Dio a faccia a faccia. Noi infatti attendiamo la vita eterna, il Regno di Dio, il consorzio con gli angeli. “Chi vuole superare le avversità come la persecuzione, il pericolo, la morte, la grave malattia, l’assalto dei ladroni, la confisca delle sue sostanze, tutto ciò che in questo mondo si considera avversità, deve tenere presente che queste cose si superano con facilità se si possiede la speranza che consola”. Se gli uomini si turbano in mezzo ai dolori di questo mondo, è perché le cose future vengono a tedio, quando le presenti fanno soffrire.

 

Chi poi non sa che Dio riserva un premio ai giusti, lungi dal trovare conforto nel dolore, ne rimane come oppresso e schiacciato. La speranza è la sola cosa capace di sollevare il nostro animo. Questa speranza di fatto esiste, ma perché possa operare in noi la consolazione, occorre che noi acquistiamo la sapienza, una conoscenza profonda delle cose sacre e specialmente di ciò che forma l’oggetto della nostra attesa. A questo scopo occorre meditare la legge del Signore.

La pazienza

 

La consapevolezza che esistono dei beni futuri, destinati a formare la nostra eterna consolazione, deve spingerci a portare pazienza nelle tribolazioni. Anche qui è Giobbe che ci viene proposto come esempio da imitare: “Considera ancora il Santo Giobbe, che era coperto di piaghe, era scosso in tutte le membra, era pieno di dolori in tutto il corpo, dissolveva le zolle della terra con il pus e l’umore delle sue piaghe… Egli nella sua malattia non rimase scosso né vacillò incerto nelle sue parole, perché in tutte quelle circostanze, non peccò con le sue labbra; anzi trovò in esse il sostegno della sua sofferenza, in forza della quale fu confermato in Cristo (Gb 2, 10).

 

Lungi da noi il pensiero che la sofferenza e la malattia siano un segno che Dio ci ha abbandonato o che noi ci siamo allontanati da Lui. Né la morte, né la spada, né la tribolazione ci possono separare dell’amore di Cristo (Rom 8, 35). Come Gesù Cristo, quando è venuto sulla terra per essere crocifisso, non ha cessato di essere unito al Padre celeste, così chi soffre non cessa per questo di mantenere la sua amicizia con Dio. Il saggio possiede forza d’animo e costanza, perciò, come non si inorgoglisce nella prosperità, così non si abbatte nelle avversità. Ma rimane perfettamente unito a Cristo, data la sua fermezza nella carità e nella fede. Questo è l’insegnamento di Gesù.

 

Purtroppo però sono pochi sulla terra a seguire l’insegnamento di Giobbe che, nella perdita dei beni e dei figlioli e poi nella grave malattia non si separò dalla carità di Cristo. È chiaro, quindi, che la sofferenza e la malattia hanno la possibilità di separarci dalla carità di Cristo: tutto dipende dal nostro atteggiamento. Dobbiamo dunque armarci di pazienza e pregare il Signore che ci aiuti perché non abbiamo a soccombere miseramente nelle tentazioni, nelle infermità e nelle tempeste che ci assalgono in questa vita, ma anzi abbiamo a uscirne vincitori.

 

L’approvazione

 

La tribolazione non colpisce tutti indistintamente, ma solo coloro che sono ritenuti capaci di sostenerla. Se, quindi, siamo colpiti da sofferenza o malattia, invece di scoraggiarci per il timore di non riuscire a sostenerla, dobbiamo disporre il nostro animo ad abbracciarla volentieri in vista dei grandi benefici che ci può procurare.

 

Riprendendo il pensiero di San Paolo, Ambrogio afferma che la tribolazione costituisce per l’uomo la sorgente di molte virtù. “Dalle tribolazioni deriva la pazienza, la pazienza produce l’approvazione nella quale si trova la speranza, della quale non restiamo confusi (Rom 5, 3-4). Altrove la disposizione progressiva di queste virtù è più minuta: alla tribolazione fa seguito l’umiltà, all’umiltà la pazienza, alla pazienza l’approvazione di Dio e all’approvazione di Dio la nostra consolazione.

 

La beatitudine

 

Poiché la sofferenza e la malattia, sopportate con pazienza, ci ottengono l’approvazione del Signore, il giusto trae motivo di gioia spirituale nella tribolazione che lo fa fisicamente soffrire. San Paolo, al quale Ambrogio attinge per intero il suo insegnamento su questo punto, era contento quando soffriva qualcosa per amore di Cristo (2Cor 12, 10). Imitano davvero San Paolo quelli che hanno scelto Gesù Cristo per la vita e per la morte. I giusti trovano motivo di gioia anche nella sofferenza, perché il loro modo di pensare è conforme a quello di Dio, e secondo il giudizio di Dio la beatitudine comincia là, dove secondo il giudizio degli uomini comuni, comincia l’infelicità. Non è di tutti, ma soltanto dei perfetti, non affliggersi nel dolore: questo è un dono che Gesù Cristo concede ai suoi fedeli. Egli infonde nella nostra anima la pace interiore, che supera ogni umano intendimento (Fil 4, 7), affinché non si turbi il nostro cuore e non si agiti il nostro animo. Perciò la vita del giusto non è mai inquieta come quella del malvagio, ma spiritualmente tranquilla. Egli è suo affectu beatus, cioè felice in forza del suo amore.

 

Secondo la Sacra scrittura, la beatitudine consiste nell’esser puri dal peccato, ripieni di innocenza e di grazia di Dio; consiste ancora nel possesso della sapienza, nel raggiungimento delle vette della virtù, nella gioia che deriva dalla retta coscienza, nella vittoria sulle passioni, nella sopportazione del dolore, e non nella salute fisica. L’uomo virtuoso è sempre felice, in qualunque situazione si venga a trovare. Dal momento che la sua felicità deriva dalla virtù, non aumenta con i beni del corpo e con i beni esterni, né diminuisce nell’avversità. Ma la beatitudine, la gioia dello spirito, fiorisce preferibilmente in mezzo al dolore. Basti pensare alle Beatitudini evangeliche, dove sono detti beati quelli che piangono. In esse è contenuta la parte più sublime della spiritualità del Cristianesimo.

 

Angeli e Demoni

Nella lotta per ottenere la beatitudine eterna, l’uomo ha come nemici il diavolo e i demoni, che fanno di tutto per farlo cadere; ma ha anche tanti amici: sono gli Angeli che Dio gli pone accanto per aiutarlo a superare la prova, ottenere l’approvazione e meritare il premio eterno.

 

Al tempo di Sant’Ambrogio l’angelologia e le demonologia erano molto sviluppate. Partono dalla Sacra Scrittura del Vecchio testamento, sono fortemente radicate nei Vangeli con Gesù che scaccia i demoni oppure è circondato dagli angeli, trovano una celebrazione epica nell’Apocalisse di San Giovanni e dei grandi propugnatori in Clemente Alessandrino e Origene e poi in Basilio, maestro di Ambrogio e via di seguito.

 

Questa pletora di angeli e demoni, all’indomani del Concilio Vaticano II, è stata messa in discussione. Diversi teologi hanno cominciato a parlare di “genere letterario” cioè a dire che questi esseri spirituali esistono solo nella mentalità della gente dei tempi passati. Gesù stesso si sarebbe adeguato alla mentalità popolare… Ma adesso è ora che la nostra mentalità moderna sgombri il terreno da questi esseri inventati dalla fantasia della gente ignorante.

 

Ricordiamo, anche per prendere coscienza che il problema è serio, che il Papa Paolo VI ha sentito il dovere di intervenire per affermare: “Il diavolo esiste”. Ed io stesso quando ho letto da qualche parte che non bisogna più pregare l’angelo custode, mi sono interiormente ribellato. La discussione è però aperta.

 

La Madonna e i Santi

 

Riguardo alla Madonna bisogna riconoscere che la dottrina di Sant’Ambrogio è genuina. Riconosce in Maria quello che le era stato attribuito nel Concilio di Efeso. Essa non solo è la Madre del Cristo (Christotokos), ma Madre del Verbo di Dio e quindi Madre di Dio (Theotokos). In Maria egli esalta la prontezza con cui ha detto sì all’angelo; ammira la sua maternità straordinaria e chiama in rassegna tutti i portenti operati da Dio nell’Antico testamento per dire che era nelle possibilità concrete di Dio realizzare una maternità verginale.

 

I Santi (allora erano solo i martiri) vengono ammirati ed esaltati per il loro eroismo nel versare il sangue per la fede in Cristo. Grandi elogi e lunghi discorsi ha fatto per la vergine e martire Agnese che ha dato la vita per Cristo in tenerissima età. Ma nel problema della sofferenza e malattia non sono mai chiamati in causa. Il malato nella lotta gode dell’aiuto di Dio e dei suoi angeli e basta.

 

Notiamo che diversi Padri Conciliari del Vaticano II e poi tanti teologi ci mettono in guardia dalle esagerazioni nella diffusione della devozione alla Madonna e ai Santi. Alla frase dei fanatici della devozione mariana: “De Maria nunquam satis = di Maria non si dice mai abbastanza” si risponde oggi con quella di un Padre Conciliare: “De Maria nunc est satis = di Maria adesso basta”. La Madonna e i Santi, dicono certi teologi, hanno sostituito nel Cristianesimo le varie divinità del paganesimo, reintroducendo l’Idolatria. Ciò sia detto solo come spunto di riflessione sulla spazzatura di certa religione devozionale. Con tutto il rispetto della dottrina della Chiesa.

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