GIOCARE O GIOCARSI ? – Carlo Maria Martini
LA SCELTA
La scelta, qualsiasi scelta, è di per sè sempre un poco drammatica: è aprire una porta.. è un chiuderne altre. Senza la scelta però il pericolo incombente è l’eterno procrastinare, il continuo svolazzare di esperienza in esperienza, il non afferrare la vita: un GIOCARE anzichè …GIOCARSI.
Al riguardo, una profonda riflessione del cardinal Martini.
L’icona che può rimanere come sfondo della nostra riflessione sul giocarsi è quella di Gesù che «si gioca» nell’Eucaristia e nella Croce, amando i suoi fino alla fine, eis to télos. Troviamo espressa bene questa immagine nel vangelo secondo Giovanni: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta l’ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1).
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Nel verbo giocarsi c’è anzitutto il tema della definitività: saprò pronunciare un «sì» definitivo al Signore? Adempirò le mie promesse? Vivrò correttamente la castità? Sarò in grado di affrontare il compito e le responsabilità che mi vengono affidate?
Perché ‘giocarsi’ è, di fatto, molto diverso dal ‘giocare’. Quando gioco, niente mi proibisce, a un certo punto, di ritirarmi, mentre se mi gioco taglio i ponti, mi comprometto definitivamente, non mi è più possibile tornare indietro.
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E c’è anche l’aspetto del rischio, dal momento che ‘giocarsi’ non significa semplicemente calcolare, valutare accuratamente, bensì mettere in conto l’imprevedibile. Addirittura, nel ‘giocarsi’ c’è, come ingrediente, un pizzico di irresponsabilità; devo andare al di là di ciò che è garantito, che rientra sicuramente in tasca. Un pizzico di follia, dunque, un gusto dell’avventura.Paolo si gioca (At 20,22-24)
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Volendo cercare, nella Sacra Scrittura, qualche testo che ci aiuti a riflettere sul tema del giocarsi, comincio ricordando alcune parole di Gesù in Marco: «Chi perderà la propria vita, la troverà» (Mc 8,35). E ancora: «Entrate per la porta stretta» (Mt 7,13).
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Che cosa è la porta stretta? Istintivamente pensiamo che stretta è la porta della rinuncia, del sacrificio, per la quale ci si sforza a passare vincendo se stessi, ponendo qualche gesto significativo di austerità. Al contrario, larga è la porta che tutti preferiscono, la porta della facilità e della comodità. C’è del vero in tutto questo, perché in realtà il Signore ci chiama alla vigilanza, al sacrificio. Credo tuttavia che è stretta la porta di chi si accetta povero, inadeguato, fragile, senza però temere il giudizio misericordioso di Dio; di chi non ha paura di fronte agli altri né di fronte al futuro, sentendosi amato, accolto, valorizzato, riabilitato dal Signore, ed è così che uno può giocarsi. Larga è la porta di chi non vuole aver bisogno della divina misericordia, di chi si erede autosufficiente e non si scopre, non chiede, si nasconde.
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Mi sembra tuttavia più utile ricorrere a un altro brano del Nuovo Testamento, che descrive l’esperienza concreta vissuta da un uomo che si è giocato e che a un dato momento della sua vita, ha compreso che si stava giocando l’avvenire. Parlo dell‘apostolo Paolo e del suo famoso discorso a Mileto, dove tra l’altro dice:
«Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito santo, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà. So soltanto che lo Spirito santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni. Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio» (At 20,22-24).
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E’ un testo che possiamo dividere in tre parti:
1) giocarsi la vita;
2) giocarsi la vita avvinto dallo Spirito (è la condizione senza la quale non ci si può giocare);
3) la motivazione del giocarsi: «purché porti a termine il servizio che mi è stato affidato».
Consideriamo le singole parti.
1). Il giocarsi la vita
Il giocarsi la vita è al centro del discorso: «Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla», quindi mi butto, mi lascio andare. La nota della Bibbia di Gerusalemme suggerisce un altro modo di tradurre questa parola – chiave: «Ma che cosa valga la vita ai miei occhi, non vale la pena di parlarne». Ancora più efficace, a mio avviso, è la traduzione della Bibbia interconfessionale: «Quel che mi importa non è la mia vita, ma portare a termine la corsa». E Jean Dupont, commentando il discorso di Mileto, sintetizza ulteriormente il significato della frase:
«La mia vita non vale nulla di fronte a ciò che mi sta davanti».
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La versione greca è indubbiamente difficile da tradurre, perché è densa, probabilmente frutto di due espressioni:
— «non faccio conto della mia vita» e «non ritengo la mia vita preziosa» — fuse insieme. In ogni caso, chi legge non può non avvertire la forte emozione con cui Paolo ha pronunciato queste parole nelle quali si gioca totalmente.
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Che cosa vuol dire, per l’Apostolo, ‘giocarsi’?
a) Una prima risposta la troviamo nella lettera del Concilio di Gerusalemme che, presentando Paolo e Barnaba, li descrive così: « I carissimi Barnaba e Paolo, uomini che hanno votato la loro vita al nome del Signore Gesù Cristo» (At 15,26). Paolo non fa conto della sua vita perché l’ha votata al nome del Signore Gesù. Il testo greco di At 15,26 è più pregnante: «Hanno abbandonato la loro vita al nome del Signore Gesù Cristo», l’hanno dedicata in perpetuo.
Paolo si gioca la vita non per disprezzo, per stanchezza, bensì in conseguenza del fatto che l’ha votata al suo Signore.
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L’impeto che lo muove irresistibilmente appare pure dal seguito del racconto, quando tutti lo supplicano di non andare a Gerusalemme, perché si sa che lo aspettano catene e prigione. Egli però risponde: «Perché fate così, continuando a piangere e a spezzarmi il cuore? Io sono pronto non soltanto a essere legato, ma a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù» (At 21,13).
b) Un secondo sentimento vive Paolo, e appare, per esempio, nella prima Lettera ai Tessalonicesi: «Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il Vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari» (1 Ts 2,8). Ciò che gli permette di giocarsi è anche l’affetto profondo per coloro che ha generato in Cristo e che, per questo, gli sono diventati carissimi. Essendosi lasciato, per primo, perdonare e amare dal Signore, avendo capito di essere amato da Dio nella sua povertà, è divenuto capace di dare perfino la vita per gli altri. Torna qui l’immagine della porta stretta nella quale si entra con la vera misura di noi stessi, misura di poveri peccatori, misura di persone che, avendo perso la propria dignità e avendola ricevuta da Dio in pienezza e in totalità, non solo si sentono spinte ad annunciare con gioia il Vangelo della grazia, ma a sacrificare la vita pur di annunciarlo.
Dunque Paolo è pronto a morire per Cristo e per coloro che ha generato in lui.
2. Giocarsi la vita «avvinto dallo Spirito».
Per comprendere meglio l’espressione, occorre leggerla insieme ad altre due: «Io vado a Gerusalemme», «senza sapere che cosa là mi accadrà».
* “Avvinto dallo Spirito” non vuol dire semplicemente: ‘legato nello Spirito’, cioè, non posso fare altro, avverto che è l’unica scelta possibile; significa piuttosto essere legato dallo Spirito. E lo Spirito Santo che gli ha impresso nel cuore quella decisione irrevocabile, è lo Spirito che lo muove. Nella Lettera a Filemone, scriverà: «Sono prigioniero di Cristo» (Fm 1,9), in catene materiali e insieme avvinto da Gesù. Siamo di fronte a una condizione spirituale in qualche modo mistica; il Signore agisce in lui al punto che Paolo vede il giocarsi come la realizzazione piena della sua vita.
* Avvinto dallo Spirito, dichiara: «Io vado a Gerusalemme». Quella dell’andata nella Città santa è una metafora ricchissima; indica infatti il termine del cammino umano, dove ci si identifica con Gesù proprio nel luogo dove il Figlio del Padre si è consegnato per noi, dove l’umanità è stata raggiunta e salvata dalla dedizione di Dio.
Gerusalemme è il termine reale e simbolico del cammino in cui si è legati e mossi dallo Spirito, e si sperimenta che questo è il proprio destino e quello della umanità. Non dipende da noi la decisione di andare a Gerusalemme, bensì dall’impulso che il Signore mette nel nostro cuore.
* «Senza sapere ciò che là mi accadrà»: meglio, sapendo che non mi attendono gloria, successo, trionfi. Tuttavia non ho alcuna incertezza, mi affido completamente.
Viene alla mente un versetto della Lettera agli Ebrei:
«Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì, partendo da un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava» (Eb 11,8).
Non si può calcolare ciò che accadrà, anzi si sa che potranno capitare incidenti gravi, fatti spiacevoli, incomprensioni e sofferenze, ma ci si gioca, ci si butta quando si è avvinti dallo Spirito di Dio. Abramo partì sapendo quello che lasciava, ed era molto, e non quello che avrebbe trovato. Paolo si avvia a Gerusalemme prevedendo addirittura eventi negativi e drammatici, però nella certezza che deve andare per giocarsi così come si è giocato il suo Signore nella passione e nella morte.
Ci accorgiamo come l’icona di Paolo che sale a Gerusalemme sia molto importante per definire il cammino del cristiano.
3. Purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù
«Purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio», cioè la buona notizia che Dio ama gli uomini. Ogni parola di questo versetto 24 andrebbe medita a lungo.* «Purché conduca a termine la mia corsa»: Paolo paragona il suo cammino a una gara sportiva bella, coraggiosa, nella quale si butta con entusiasmo, una corsa da vincere, non un peso da portare. Egli vuole giocarsi in maniera definitiva, giungendo al traguardo della corsa.
* «E il servizio che mi fu affidato dal Signore», il ministero. Ministero o servizio o diaconia che, come sappiamo, non consiste soltanto nella colletta che deve portare a Gerusalemme (pur se essa è significativa della Chiesa primitiva e dell’importanza delle relazioni fraterne tra le Chiese). È il suo impegno pastorale che condurrà a termine solo giocandosi in quel modo.
* Il servizio pastorale affidatogli dal Signore è, in realtà, di «rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio», dell’amore di Dio per l’umanità. Ciò che dunque Paolo vuole a ogni costo e che gli permette di giocarsi è l’assolutezza del ministero; la vuole a ogni costo perché è il dono supremo del Padre all’uomo, è l’annuncio definitivo che può testimoniare, annuncio per cui vale la pena di giocare la vita.
Paolo si gioca sul suo legame con Gesù «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»: (Gal 2,20), sull’importanza dell’annuncio del Vangelo per noi; si gioca per tutti i credenti del suo tempo, per i suoi fratelli ebrei, per coloro che in futuro crederanno all’amore di Dio, all’amore di Cristo Gesù.
Vi suggerisco di riflettere più ampiamente e più attentamente sul brano del discorso a Mileto, in modo da penetrare nel cuore di Paolo. Noi siamo chiamati allo stesso fuoco che ardeva in lui, che lo animava, e lo Spirito vuole avvincere anche noi, vuole che ci giochiamo per il nome del Signore Gesù e per un ministero da portare a termine a tutti i costi, pur non sapendo chiaramente che cosa tale ministero comporterà.
Quattro tesi per la meditazione
Vorrei esprimere alcune tesi che riassumano, in forma propositiva, il giocarsi di Paolo.
1. Se lo consideriamo nella sua natura, condizioni e motivazioni, ci accorgiamo che il giocarsi dell’Apostolo non è affatto un’operazione irresponsabile, anche se audace e rischiosa. E’ un’operazione compiuta nella luce dello Spirito Santo e nella grande motivazione del ministero, che non ha nulla a che vedere con il volontarismo, con la ricerca del brivido. Si è lasciato invadere dalla forza di Dio e l’ha sentita in maniera talmente prepotente da mettere al primo posto l’annuncio che il Padre ama gli uomini, quindi l’amore per Gesù a cui si è donata la vita e l’amore per i fratelli. Questo duplice amore è salvezza e rende vero il giocarsi: chi si perde così, si salva.
Giocarsi allora è un atto supremo di saggezza, è comprendere che l’uomo non sarà mai se stesso se non si decide ad andare al di là di sé, se non accetta l’invito a buttarsi oltre se stesso; però con le condizioni di pienezza dello Spirito, di amore per Cristo, di percezione della sublimità del ministero, superiore a qualunque altro servizio all’umanità: proclamare che Dio ama gli uomini.
2. La seconda tesi è che il giocarsi è frutto di tre realtà: è frutto dello Spirito santo, quindi dono che possiamo umilmente chiedere, riconoscendo di non averlo e confessando di desiderarlo (frutto dunque dell’accettazione della nostra creaturalità, fragilità, povertà). È frutto di legame intenso e unico con Gesù, instaurato in totalità di dono. E’ frutto di legame con la gente, già vissuto nel ministero o come anticipazione (voglio donarmi per il bene degli altri).3. Nel giocarsi, così come l’abbiamo inteso, è implicita la perseveranza. Paolo non vuole fare semplicemente un gesto eroico, di un momento, bensì vuole condurre a termine la sua corsa. Il giocarsi implica una dedicazione definitiva, fino alla fine, ed è quindi qualcosa di molto grande.
4. Nel giocarsi è inoltre implicita la scioltezza e il gusto del rischio. Per questo è profondamente umano e ha un certo rapporto con l’arte, con la musica, con la fantasia, con l’estetica, con il gioco. Mentre Paolo risponde agli amici che lo pregano insistentemente di non andare a Gerusalemme, ci appare sciolto e ben consapevole che il suo giocarsi è un rischio.
Domande per la preghiera personale
Le quattro tesi che ho voluto offrirvi, a modo di sintesi, ci introducono a quattro domande per la preghiera e per la vostra personale riflessione.
A) Sono avvinto dallo Spirito di Cristo? Naturalmente non dobbiamo cercare in noi dei segni esteriori o una coscienza sperimentale dell’essere avvinti dallo Spirito. Invece, dobbiamo pensare alle tante difficoltà che abbiamo superato fino a questo momento, e riconoscere che non ci saremmo riusciti se non fossimo stati avvinti dallo Spirito.
Chiediamo con umiltà la presenza dello Spirito che ci ha già donato di perseverare in un cammino irto di difficoltà interne, esterne, di ambiente, di mentalità, di costume, di cultura, in una società che rende improbabili le scelte da noi compiute o che stiamo per compiere.
Essere avvinti dallo Spirito significa, in altre parole, riconoscere la grazia che ci muove giorno dopo giorno.
B) Sono prigioniero di Cristo Gesù? Lo ritengo davvero necessario per me?
Siamo prigionieri di Cristo se avvertiamo che senza di lui la vita non ha alcun senso, che Gesù solo dà significato a ciò che viviamo, che è lui il nostro essere più profondo.
C) Come anticipo la mia responsabilità per gli altri? In quale modo sento che gli altri mi sono cari e li porto nella mia offerta, nella mia ricerca, nel dono di me stesso?
D) Come vedo la perseveranza futura con il suo quotidiano giocarsi? E’ una domanda sull’implicazione ovvia del giocarsi che è la perseveranza. La considero un peso di cui ho paura, oppure l’unico modo di essere autentico? Autenticità è un insieme di attenzione, intelligenza, riflessione e amore, Non è sfuggendo a un peso, bensì giocandomi in esso che cresco nella verità di me stesso di fronte a Dio e di fronte ai fratelli.
Come dunque immagino e sento la mia perseveranza?
Conclusione
«Ti ringraziamo, Signore Dio fedele, perché continuamente ci dimostri la fedeltà al tuo progetto fondamentale che è Cristo Gesù in noi. Tu non rinneghi tale progetto e non rinneghi nessuno di noi; ci dai, invece, la certezza di poter risponderti con analoga fedeltà, pur se siamo deboli, fragili, inadeguati. Rafforza in noi questa certezza, nella contemplazione del Mistero eucaristico che attualizza il sacrificio di tuo Figlio, e nella frequentazione assidua della tua Parola. Fa’ che, sonetti da tale certezza, riusciamo davvero a seguire Gesù, a conformarci alla sua condizione filiale con animo sicuro e pacificato. Amen».
Filed under: CARLO MARIA MARTINI Arcivescovo di Milano, VOCAZIONE