SAN RICCARDO PAMPURI – (1) Nelle lettere la ricerca di un volto umano e l’esperienza del TU – Angelo Nocent
Di Angelo Nocent
L’epistolario di un santo, normalmente, scoraggia anche il lettore più paziente, perché i pensieri spirituali che normalmente sono il principale interesse, si trovano sparpagliati in un mare di notizie che non interessano più di tanto ma che assorbono la mente e fanno anche perdere tempo.
Per evitare al lettore di accantonare il libro delle lettere di San Riccardo Pampuri solo dopo qualche pagina, ho pensato non solo di selezionare tutto ciò che permette di cogliere la sua spiritualità ma anche di farlo parlare con Dio, trasformando le sue conversazioni epistolari in forma di preghiera. Ne è risultata una confessio laudis che rispecchia fedelmente la struttura mentale del santo e lo coglie nella segretezza del suo rapporto con Dio che non poteva essere diversa dal modo con cui esterna la sua anima alla sorella e a qualche amico .
I testi non sono mai stati forzati ma semplicemente adattati all’esigenza dell’artificio letterario costruito sul rapporto io-Tu.
Il primo a sorprendersi del prezioso risultato sono stato proprio io che su quelle pagine mi ero più volte attardato per attingere a questo favo quel miele che nelle biografie viene fatto assaporare solo attraverso qualche citazione. Il testo che ne è risultato, sfrondato dai convenevoli, dalle notizie di cronaca e dai luoghi comuni del quotidiano si presenta ora come una grande tela, un arazzo carico di colori e sfumature che molto più si presta alla riflessione, alla meditazione o come sussidio per la scuola di preghiera di chi vuol misurarsi col metodo che ha portato questo giovane medico alla gloria degli altari a soli 33 anni.
Lo spessore di questo epistolario deriva dal fatto che esso è la cronaca del vissuto quotidiano e lo specchio dei sentimenti e pensieri di Erminio Pampuri, studente, soldato, medico condotto e del religioso Fra Riccardo dei Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio, i Fatebenefratelli.
Le missive oscillano fra due poli: la spiritualità e le cose concrete . Le numerose lettere alla sorella Suor Longina Maria, missionaria in Egitto, sono anche una preziosa autobiografia dello spirito. Senza di esse non avremmo che le sole testimonianze di chi lo ha conosciuto, giacché non si conoscono altri scritti.
La sua spiritualità tocca i temi classici dell’ascetica cristiana che vengono espressi con il linguaggio del suo tempo. Volendola in qualche modo definire, io la chiamerei la Spiritualità del Desiderio e della Convivenza che non è una dimensione statica, ma un dinamismo interiore che si vede circolare in ogni suo percorso umano, un’attività senza sosta, un muoversi-con, in casa, a scuola, sul fronte, all’università, nella condotta medica, in convento e nella corsia d’ospedale. Soprattutto un Dio visto in ogni uomo proprio perché abitato da Dio. Un vivere comune, all’insegna della quotidianità, ma dal carattere divino, segnato dalla presenza divina percepita nell’ordinarietà, in una costante tensione escatologica. Divino inteso come luogo che circonda la vita dai due lati e così enunciabile: Cristo è risorto, dunque, Cristo è presente, Cristo ritornerà.
Una certa coscienza sacrale e rituale del suo tempo, ma non solo, più che un amore per l’Eucaristia, di cui tanti sapevano abbastanza poco, alimentava il fascino del sacro. Cosi che ogni trasgressione veniva sentita come malefica, da confessare, capace di provocare l’ostilità di Dio. Per Riccardo è la vita, è piuttosto un ringraziare senza sosta che origina e culmina nella Messa nella quale tutto si congiunge e dalla quale prende avvio ogni azione: “culmen et fons” come dirà della Liturgia il Concilio Vaticano II.
Riccardo impara a stare davanti a Dio come a Colui che si ama. Sono significative le parole pronunciate sul letto di morte. Rivolgendosi al Padre Innocente Monculli che gli aveva conferito L’Unzione e il Viatico, ha chiesto: “Padre, come mi accoglierà Iddio?” E, prima ancora che rispondesse, alzando gli occhi al cielo, ha soggiunto: “L’ho amato tanto e tanto l’amo”.
Il divino è un peso invadente non facile da sopportare dalla debolezza umana. Dalle lettere par di cogliere questo stato di sofferenza che viene espresso col linguaggio della inadeguatezza, del limite personale che ha nomi diversi: peccato, pigrizia, accidia, vanità, tiepidezza, superbia, ribellione…
Dalle lettere non si può ricavare una sua biografia perché i fatti sono ridottissimi, quasi assenti. Più che il suo essere, disegnano invece il volto divino: disegnano la tenerezza, l’umanità, la quotidianità di Dio, quale il Pampuri la recepisce. Dio gli parla. Ma non gli parla mai come persona “sola”. Parla a lui e al mondo come se fossero una cosa sola. Quando Paolo dice che siamo “Corpo di Cristo”, è perché per Dio l’umanità è come il suo corpo, lo vede come uno e come una cosa sola con sé. Anche se la nostra autocoscienza ci fa sentire frammenti, separati l’uno dall’altro, dal punto di vista divino è improprio . Riccardo fa l’esperienza del Tu che gli sta innanzi. Conosce Dio proprio perché si cala in lui, assume la sua vita, le cambia direzione, la fa sua. Un amore esclusivo, ossia l’esclusività dell’Amore nel quale Riccardo contempla il mondo, il mondo visto come interno a Dio.
Quando esterna questa esperienza alla sorella questo “progetto” divino che matura in lui, non ha a disposizione che le parole inadeguate della sua cultura, della sua storia che per noi possono risentire del tempo. Il linguaggio ha dei confini. La differenza tra le formule e la realtà è abissale. Ma ciò che sta dietro, il lettore lo avverte. Avverte un Dio che deborda da se stesso, che costituisce nell’uomo la sua pienezza, la sua beatitudine, il suo fine. Dietro c’è un Dio che ama interamente, con tutto se stesso.
Ma Riccardo avverte che lo fa in un modo così diverso da come lui lo ricambia, che non riesce a darsi pace per la sua incapacità di corrispondenza. Più entra in relazione con Dio, più si sente una nullità. Ma immensamente amata. E’ l’esperienza dell’Indicibile.
Tutte le energie ed i desideri del giovane Pampuri, si trovi esso nel contesto parrocchiale o in quello universitario, portano l’impronta di una fides intrepida ed hanno un centro: la vita eterna. Questa è più evidente, luminosa, interessante dell’esperienza temporale. Per tutta a vita il suo epicentro è lì.
Nelle turbolenze degli anni ‘30
Credo si possa tranquillamente affermare che in quegl’anni, se c’era una condizione felice, compatta, era la cultura cattolica. Il pensiero cattolico si ergeva come un’immensa cattedrale in cui veniva chiusa e protetta la storia. Fuori restavano le tenebre esteriori della violenza, del terrore, del peccato. Tenebre che erano anche quelle della cattiva logica, della ragione distorta. Ogni peccato era sempre fondato su un errore logico. La religione che usciva dalle labbra degli uomini di chiesa fluiva come la perfetta ragione.
Nelle lettere il Pampuri ricalca queste certezze che davano a tutti sicurezza perché la religione era la vera risposta a tutti i problemi dell’uomo. L’Italia, l’amore di patria erano cose abbastanza sentite, ma per il cattolico il punto d’identità non poteva essere che la Chiesa, massima espressione della civiltà. E quindi il Papa, custode , garante, vicario, dolce Cristo in terra. Il papato quindi, visto come centro della civiltà, il papato recepito quale intrepido difensore della civiltà umana perché difensore della verità divina. Da questa angolazione, la spiritualità di Riccardo non si discosta affatto da quella di Teresa di Lisieux.
E’ risaputo che il Pampuri voleva farsi prete e che per ragioni di salute è stato respinto proprio dai Padri Gesuiti. E’ legittimo chiedersi se quell’idea la sentiva, in senso proprio, come una vocazione o come scelta di uno stato sociale. Verrebbe da credere alla prima ipotesi, in quanto l’essere medico era già un appartenere ad uno stato sociale di prim’ordine. E’ indubbio che agl’occhi del Dr. Pampuri la Chiesa emana un fascino particolare. A differenza della politica che si muove sotto il peso di errori antichi e nuovi. La professione di medico, in quanto professione, nonostante tutto, non appaga la sua anima. Ad un certo punto, essere prete, esserlo a tempo pieno nella schiera dei gesuiti per questa Chiesa che portava il peso e il senso della storia del mondo, la sola che si ergeva come fortezza nella storia, è per lui di una radicale evidenza. Non riesce ad immaginate di essere altro che prete, cioè uno che impegna la sua vita come espressione di un significato.
Dalle sue lettere trapela la sua educazione. Egli è stato educato a una religione interiore del “solo con il Solo”. Lo zelo parrocchiale, l’impegno nell’Azione Cattolica, nel Circolo Universitario “Severino Boezio”, nella San Vincenzo, ecc. non hanno mai il sopravvento. Ne sono invece la conseguenza. Epperò a me pare di cogliere una certa insoddisfazione nel Riccardo laureato e professionista. Da cosa gli deriva? Sono propenso a credere che gli derivi da un mancato appagamento culturale. Il liceo classico prima e l’università in seguito, gli avevano iniettato il virus della metafisica. Gli elementi basilari della filosofia che aveva acquisito, una filosofia vista come il linguaggio della religione, cioè apologeticamente, ad un certo momento cominciarono a fermentare in lui e gli fecero sentire il fascino del trascendente. Avrebbe voluto assaporare la teologia a pieni polmoni, nella speranza di avvicinarsi ancor più a Dio e placare la sua inquietudine interiore. La sua religione personale si era via via culturalmente arricchita ma ne avvertiva il limite proprio per la mancanza di una cultura teologica sistematica. Abbonato a diverse riviste cattoliche, da lì attingeva nuova linfa e nuovi stimoli. Se inizialmente la sua spiritialità poteva essere stata prevalentemente mariana (chi meglio di Maria poteva prendere posto nel suo cuore di orfano?), proprio attraverso Maria, col tempo si fece prevalentemente eucaristica: per Maria ad Jesum. Più che di domande, la sua è una preghiera adorante, dalle lunghe soste in chiesa. Pregare non credo gli costasse fatica: era per lui ormai una dimensione del vivere dalla quale riusciva a ricavare anche gioie e consolazione.
Non so dire quando avvertì in lui una Presenza intesa come Presenza che guida. Nell’epistolario la si percepisce già dal…
Riccardo è un mistico come Teresa di Lisieux al quale però nessuno ha chiesto di scrivere la storia della sua anima. I misteri della Grazia sono curiosi. Ad un certo momento nella sua anima entra qualcuno, nasce qualcosa di vivo, palpitante: il desiderio. Da allora comincia a “desiderare”. Ma che cosa? Un “non so che”. E quel “non so che” lo ha accompagnato ed è sceso con lui nella tomba. Chi possiede anche superficialmente confidenza con la poesia di San Giovanni della Croce, capisce che questo è il modo classico di manifestarsi della mistica: desidero un oggetto che assolutamente non conosco, ma che in qualche modo già possiedo. Il Desiderio, ospite segreto, inizialmente vivo e ardente, una volta stabilitosi, si fa assenza e presenza, dolore e gioia al medesimo tempo, Dio del cuore e Dio della storia. Mentre Riccardo sperimenta la persona divina, apprende una sua qualità molto umana: la compassione-misericordia-ospitalità, sinonimi che esprimono l’umanità di Dio.
Il Desiderio, Voce interiore che lo ha abitato per tutta la giovinezza, nel complesso delle esperienze, emozioni, speranze, era il segno inconfondibile, anche se discreto, inconscio, di una Presenza, il tocco dello Spirito. Una Presenza più intima del proprio io, che non parlava nel registro della legge e del comando, ma con le categorie del desiderio, della passione amorosa. Nasce e a poco a poco, si sviluppa la “cultura dell’esperienza” che provava. Nulla di razionale. Egli è costantemente attratto da quei saperi che riecheggiavano nel suo oscuro sapere, che davano esteriorità a una potenza interiore che cercava la sua via d’uscita, d’espressione: Terz’ordine Francescano, Azione Cattolica, Confraternita di S. Vincenzo, Missioni, Gesuiti. Stranamente, la Condotta Medica, nella quale già esprime il suo carisma che in seguito diverrà voto di ospitalità, ossia disponibilità totale al malato, fino a dare la vita, se necessario, gli va stretta.
Le categorie temporali dell’umano, dell’appartenenza, già subito dopo la morte e, forse, ancora oggi, sono lì a contenderselo: appartiene all’Ordine Religioso ma lo rivendicano l’Azione Cattolica, la Parrocchia…
Per compiacere i familiari, la salma è stata sottratta da subito ai Fatebenefratelli. Al momento della riesumazione, essa è finita nella Chiesa Parrocchiale che si sentiva in diritto di pretendere un suo figlio che in convento era giuridicamente vissuto solo tre anni ma, tra malattia e convalescenze, molto meno. Per la forzata rinuncia dei suoi resti mortali San Riccardo ha ripagato i suoi Confratellii operando negli ospedali di Gorizia “San Giusto” e Milano ”San Giuseppe” della Provincia Lombardo Veneta ben due miracoli.
Ormai l’urna del santo appartiene alla Parrocchia di Trivulzio, Diocesi di Pavia, che lo venera nella sua chiesa, meta di pellegrinaggi non solo nazionali.
In tutto questo, più che un sapore di legittimo orgoglio e di paesano campanilismo (“il dottorino è nostro”, a me sembra di poter cogliere la profezia. Riccardo è un segno profetico che, nelle fasi della sua triplice esperienza di laico impegnato, medico condotto e religioso, anticipa in qualche modo quell’ideale che, sessant’anni dopo, troverà una formulazione verbale del Magistero nella Christifideles laici di Giovanni Paolo II.
Il Pampuri, letto con le categorie del nostro tempo, proprio perché ha ben assimilato la lezione evangelica, senza rendersene conto s’è fatto anticipatore, figura concreta di una chiesa locale, la Parrocchia, di una struttura pubblica, la Condotta Medica e di una Comunità Religiosa sanante, i Fatebenefratelli, tutti chiamati ad aprirsi alla cooperazione. Il messaggio è forte per il nostro tempo: “insieme” per fare medicina con l’obiettivo unico di farsi carico della persona malata. Laici e religiosi sono sollecitati a condividere e parteciparsi i diversi carismi suscitati dal medesimo Spirito che opera tutto in tutti, a mettere insieme il proprio sapere, il patrimonio culturale ed ideale, gli interessi diversi, le strutture, per il bene comune di una società in trasformazione.
Una stranezza: quando la sua famiglia religiosa registra il minimo storico di votati all’ospitalità nell’Ordine Ospedaliero dei Fatebenefratelli, il termometro della santità riconosciuta dal Sommo Pontefice, quindi per Chiesa Universale, raggiunge la punta massima. Il ‘900 che abbiamo appena lasciato alle spalle è il momento più fulgido della storia dei discepoli di San Giovanni di Dio: : 60 martiri spagnoli, San Giovanni Grande, San Riccardo Pampuri, San Benedetto Menni, più alcuni in lista d’attesa di beatificazione.
I Fatebenefratelli sono una di quelle forme di aggregazione religiosa che va sotto il nome di Ordini Mendicanti. In cinque secoli di presenza, essi sono espressione del ministero sanante di Cristo, mai venuto meno in seno alla Chiesa. Apparentemente in declino e perfino in estinzione in alcune aree geografiche, potrebbero invece trovarsi ad incarnare la profezia che viene da San Riccardo e che lui, nel suo contesto storico ha potuto esprimere in tre momenti separati ma interiormente convergenti. Talvolta mi sono chiesto in che cosa consista la santità del Pampuri visto che non ha fatto niente di straordinario e solo vissuto bene l’ordinario, come si è soliti leggere. Con gli onori degli altari, egli è posto all’attenzione della Chiesa Universale. Il Papa ne ha dato una motivazione, non necessariamente l’unica. Queste sono le impressioni di Giovanni Paolo II espresse nel messaggio rivolto Al Priore Generale Dell’ordine Ospedaliero di San Giovanni Di Dio:
“ Al Reverendissimo Fra’ Pascual Piles Ferrando Priore Generale dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio
1. Nel centenario della nascita di San Riccardo Pampuri, desidero rendere grazie al Signore per questo Santo che onora codesta Famiglia religiosa. La presenza delle sue Reliquie nell’ospedale dei Fatebenefratelli all’Isola Tiberina, costituisce l’occasione opportuna per riproporre, a quanti operano nell’ambito di tale struttura ospedaliera, la testimonianza eloquente della sua vita, tutta permeata dal programma ascetico dell’”ama nesciri et pro nihilo reputari”. Ho avuto la gioia di proclamare beato nel 1981 e santo nel 1989 questa limpida figura di uomo del nostro tempo. In lui rifulgono i tratti della spiritualità laicale delineata dal Concilio ecumenico Vaticano II. La sua esistenza terrena, racchiusa nell’arco di appena 33 anni, mostra come in breve tempo questo giovane religioso abbia saputo raggiungere le vette della santità. Nei primi anni di vita a Trivolzio e Torrino, durante gli studi medi ed universitari a Milano e Pavia, sul fronte italo-austriaco nel corso della prima guerra mondiale, e poi a Morimondo, come medico condotto, lasciò ovunque tracce di pietà e di amore per i poveri. Sorretto dall’esempio dei suoi cari e dalla frequentazione di pii e zelanti sacerdoti, egli si impegnò in molteplici campi di apostolato: fu socio assiduo e generoso del Circolo Universitario e delle Conferenze di San Vincenzo de’ Paoli, presidente dell’Associazione giovanile di Azione Cattolica, Terziario francescano e animatore instancabile di iniziative di formazione spirituale e di carità. All’età di 30 anni, entrò nell’ordine dei Fatebenefratelli del cui carisma divenne uno degli interpreti più significativi.
2. “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?” (Mc 10,17). Sembra questa la domanda che attraversa i pensieri di questo giovane, sempre alla ricerca della perfezione cristiana. “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri ed avrai un tesoro in cielo, poi vieni e seguimi” (Mc 10, 21). All’invito del Signore egli, dotato di fede e carità profonda, rispose con gioia, donandosi completamente a Cristo povero, umile e casto ed entrando nell’Ordine dei Fatebenefratelli. Sofferente egli stesso di una malattia contratta in zona di guerra, nell’abbracciare il carisma di San Giovanni di Dio, riuscì a dare pienezza al suo desiderio di annunciare e testimoniare agli ammalati il Vangelo di Cristo crocifisso e risorto.
Come il divino Maestro, sentì l’urgenza del “deserto” e della preghiera (cfr Mc 1,35) per poter poi servire i fratelli, specialmente gli ammalati e i sofferenti. “Ho bisogno di raccogliermi un po’ in me stesso alla presenza del Signore, perché l’anima mia non si inaridisca e perda in sterili e dannose preoccupazioni esterne“, scriveva in una sua lettera. Tale bisogno lo portava a vivere costantemente unito al Signore, a sostare lungamente davanti al tabernacolo ed a nutrire una tenera devozione per la Vergine. Alla scuola del Vangelo, divenne per quanti lo conobbero e, soprattutto, per i suoi assistiti un segno vivente della misericordia di Dio, sempre disponibile a vedere negli ammalati il Cristo sofferente, ad inginocchiarsi sul limitare delle case dove regnava il dolore ed a partire frettoloso senza attendere alcuna ricompensa. Avendo scelto di compiere sino in fondo la volontà del Padre, ad imitazione del suo Signore, visse come atto supremo di obbedienza e di amore anche la malattia e la morte.
3. Come non accogliere il messaggio contenuto nel meraviglioso cammino di santità di San Riccardo Pampuri, che le celebrazioni centenarie ripropongono in modo eloquente? Ai Confratelli dell’Ordine cui appartenne, chiamati a servire Cristo negli ammalati, la testimonianza di questo giovane medico-chirurgo indica che l’unione con Dio deve alimentare costantemente la vita religiosa e l’attività apostolica. Ai laici che operano nelle strutture ospedaliere, San Riccardo Pampuri, medico innamorato della sua missione tra gli ammalati, propone di amare la propria professione e di viverla come vocazione. Egli, che nella cura dei sofferenti non separò mai scienza e fede, impegno civile e spirito apostolico, invita ogni operatore sanitario a tener sempre conto della dignità della persona umana, per esercitare il “dovere quotidiano” con lo spirito del buon Samaritano.
La testimonianza che rese nella malattia, che lo condusse alla morte, incoraggia quanti soffrono a non perdere la fiducia in Dio; li esorta piuttosto ad accogliere anche nella prova il progetto d’amore del Signore. Mentre invoco la speciale protezione di San Riccardo Pampuri, prego perché le celebrazioni giubilari della sua nascita e l’intero programma spirituale e culturale preparato per tale ricorrenza costituiscano per ciascuno un’occasione di rinnovato impegno nella vita cristiana, nei rapporti interpersonali e nel servizio ai malati.
Possano coloro che visitano le Reliquie di San Riccardo Pampuri, con la radicalità e la generosità da lui testimoniata sino alla morte seguire l’esempio di San Giovanni di Dio, Fondatore di codesto Ordine Ospedaliero. Con tali auspici, imparto a Lei, ai Confratelli, alle Religiose collaboratrici, agli Operatori sanitari ed agli ammalati una speciale Benedizione Apostolica. Dal Vaticano, 22 Ottobre 1997 IOANNES PAULUS II
( Santa Sede del 22/10/1997 )
…
Anche Don Luigi Giussani dal fiuto raffinatissimo in materia di giovani, ha detto la sua su questo sul nostro santo:
“Ma sentite queste testimonianze (prese tra quelle contenute nella causa di canonizzazione) su san Riccardo Pampuri, vissuto 1800 anni dopo san Paolo. «Io lo conobbi proprio in università. Per me fu un vero compagno di studi. Pur estraniandosi dalle varie congreghe era sempre con e per noi. (…)
Ho in mente un fatto preciso. Lo rivedo, durante una sollevazione studentesca, accostarsi ai cadaveri di due studenti uccisi, unico ad osare di farlo. Pregò su di loro, ritirandosi poi indisturbato. I dimostranti che erano ad una vicina finestra lo rispettarono, mentre spararono immediatamente ad un altro che tentò di avvicinarsi. Non fu solo una prova di coraggio». «Già. Che anni! In quel paesino sperduto nelle campagne della Bassa milanese.
Non aveva un attimo di sosta, anzi non si dava un attimo di sosta. Potevano chiamarlo in qualsiasi ora del giorno o della notte. Era l’uomo della carità. (…) Aveva istituito una mutua per la quale gli iscritti pagavano due lire all’anno ed egli scalzando questo misero compenso li visitava in qualsiasi momento. Siccome poi la mutua non forniva le specialità, le forniva e pagava di sua tasca. Quando poi non pagava i conti dei suoi ammalati dal panettiere, dal macellaio… Col risultato che a metà del mese non avevamo più soldi e doveva chiederli in prestito»11.
Epperò io comincio a credere che si vadano evidenziando davanti ai nostri occhi altri nuovi aspetti non del tutto o non ancora recepiti della sua santità: potrebbe proprio essere nei disegni di Dio che un giovane medico condotto, proveniente dall’Azione Cattolica, che aspira al sacerdozio senza coronare il sogno, desideroso di santità, nella mentalità del suo tempo raggiungibile attraverso un progetto di vita religiosa (diventare santi vuol dire lasciare il mondo), diventi il faro indicatore per un ripensamento della vita religiosa ospedaliera chiamata ad aggregare le tre esperienze che Riccardo ha vissuto separatamente. Se così fosse, la sua attualità è considerevole perché sollecita alcuni ripensamenti sia a livello ecclesiale che sociale:
- un modo diverso di vivere la fraternità ed il carisma delle comunità religiose ospedaliere maschili e femminili,
- un modo diverso di essere presenti sul territorio per una cultura di umanizzazione preventiva della persona;
- la necessità di stabilire legami più audaci con la Chiesa locale;
- un impegno di coinvolgimento dei cristiani nelle Istituzioni socio-assistenziali;
- la promozione di una Medicina olistica ed evangelica, finalizzata alla Persona che prende coscienza di essere chiamata a un’esperienza di fede proprio nel momento in cui è coinvolta in un processo di malattia e di sofferenza.
Io sono convinto che la Divinità si vada facendo strada per nuove e misteriose manifestazioni dell’Umanità di Dio. Riccardo ne è un anticipatore perché ha reso evidente
- che il medico professionista, colto, qualificato, coscienzioso, disponibile, non è tutto;
- che il credente non è un collo torto che, diffidando della scienza, si rifugia nelle novene;
- che il medico e il credente, medicina e fede, non soffrono di idiosincrasia. Al contrario sono compatibili, possiedono lo stesso gruppo sanguigno e possono essere un binomio vincente per obiettivi che il farmaco da solo non può raggiungere.
Scrive Ernesto Balducci: “Noi portiamo in noi qualcosa che è Altro da noi ma questa alterità non è soltanto l’ombra ma è la luce, è la potenzialità obiettiva di forme umane più alte in cui le culture si comprendono l’una con l’altra, in cui le alterità non si annullano né si assimilano ma restano tali nel gioco dello scambio reciproco in vista di intese sempre più alte. L’alterità è il veicolo della nostra dilatazione, perché comprendendo l’Altro che è in me ed è fuori di me io dilato me stesso, rimanendo altro dall’Altro che ho compreso”.
A questo sono chiamati tutti: i votati all’ospitalità e coloro che a diverso titolo operano sia nel mondo della sanità che in ogni altro settore dei disagi umani. Riccardo, comprendendo l’Altro che era in lui ed era fuori di lui, ha dilatato se stesso a dismisura. A tal punto che tale processo è tutt’ora in corso. Perché chi appartiene alla Comunione dei Santi, abitando nell’Altro, non esaurisce la sua carica espansiva.
Il dilatare noi stessi a partire dall’Altro che è in noi ed è fuori di noi, rimanendo altro dall’Altro, genera solidarietà, compartecipazione, condivisione…sfaccettature che la tradizione ha sintetizzato nell’ Hospitalitas. A questa Sorgente salutare l’ospedale moderno ha sempre attinto. Quello post moderno è tentato di battere i percorsi alternativi della tecnologia esasperata e dell’autonomia razionale. Coloro che si riconoscono nell’Hospitalitas sono vere “sentinelle del mattino” che vigilano sui destini della sofferenza umana.
In quest’alba di millennio, ai Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio, in particolare ai giovani che sanno scorgere in San Riccardo Pampuri uno di loro, è chiesto di scrutare il disegno di Dio sulla nostra società per il futuro e per interpretare i segni del mondo giovanile per farsi propositivi. Bisogna porsi in una fase di ascolto: cogliere i desideri e le aspettative dei giovani delle parrocchie e dei gruppi, ma anche giovani di realtà non ecclesiali, in particolare del pianeta sanità.
Poi si passerà a ‘tirare le fila’ del lavoro svolto. Il discernimento permetterà di individuareare scelte e strumenti idonei ad affrontare la sfida contemporanea.
Se dovessi titolare al santo medico una Fondazione, la chiamerei A-dol nel significato di Amore-dolore, dove la A che precede il dolore starebbe a indicare che ogni sofferenza deve essere messa in relazione, posta sotto le ali, collegata, con la A maiuscola dell’Amore-Carità, ossia Dio. Infatti. Tutta l’esistenza del Pampuri che altro è se non l’affermazione del primato di Dio, testimoniato fino al sacrificio della sua giovane vita? Tutta la sua esistenza, il suo agire, sono contrassegnati da questa A che carica di senso il suo vivere, il soffrire, il morire: per amore, solo per amore.
Nelle parole pronunciate da Giovanni Paolo II, all’Angelus del 17 novembre 1989 sul Cuore di Gesù mi sembra di poter individuare l’atteggiamento di fondo che ha caratterizzato l’esistenza del giovane Erminio Riccardo Pampuri e permette di cogliere l’essenza di questa spiritualità:
- · “gioia di tutti i santi”.
- · già visione di paradiso;
- · notazione veloce sulla vita del Cielo;
- · parola breve che dischiude spazi infiniti di beatitudine eterna.
Su questa terra
- · il discepolo di Gesù vive nell’attesa di raggiungere il suo Maestro,
- · nel desiderio di contemplare il suo volto,
- · nell’aspirazione struggente di vivere sempre con lui.
Nel Cielo invece,
- · compiuta l’attesa, il discepolo è già entrato nella gioia del suo Signore (cfr. Mt 25,21-23);
- · contempla il volto del Maestro, non più trasfigurato per un solo istante (cfr. Mt 17,2; Mc 9,2; Lc 9,28), ma splendente in eterno del fulgore dell’eterna Luce (cfr. Eb 1, 2);
- · vive con Gesù e della stessa vita di Gesù.
- · La vita del cielo non è altro che la fruizione perfetta, indefettibile, intensa dell’amore di Dio – Padre, Figlio, Spirito
- · non altro che la rivelazione totale dell’essere intimo di Cristo, e la comunicazione piena alla vita e all’amore, che sgorgano dal suo Cuore.
- · Nel Cielo i beati vedono appagato ogni desiderio,
- · avverata ogni profezia,
- · placata ogni sete di felicità,
- · colmata ogni aspirazione.
Perciò il cuore di Cristo è la sorgente della vita di amore dei santi:
- · in Cristo e per mezzo di Cristo e i beati del Cielo sono amati dal Padre, che li unisce a Sé col vincolo dello Spirito, divino Amore;
- · in Cristo per mezzo di Cristo essi amano il Padre e gli uomini, loro fratelli, con l’amore dello Spirito.
- · Il Cuore di Cristo è lo spazio vitale dei beati: il luogo dove essi rimangano nell’amore (cfr. Gv 15, 9), traendone gioia perenne e senza limite.
- · La sete infinita di amore, misteriosa sete che Dio ha posto nel cuore umano si placa nel Cuore divino di Cristo.
- · Lì si manifesta in pienezza d’amore del Redentore verso gli uomini, bisognosi di salvezza;
- · del Maestro verso i discepoli, assetati di verità;
- . dell’Amico che annulla le distanze ed eleva i servi alla condizione di amici, per sempre, in tutto.
L’intenso desiderio, che sulla terra si esprimeva nel sospiro: “Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20), ora, nel Cielo, si tramuta in visione faccia a faccia, in possesso tranquillo, in fusione di vita: di Cristo nei beati, dei beati, insieme alla loro Regina, in Cristo!
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