GIOVANNI DI DIO: FU VERA FOLLIA? – Angelo Nocent

IL PUNTO DI PARTENZA

A PARTIRE DAL CUORE DELL’UOMO

SAN GIOVANNI DI DIO – FU VERA FOLLIA? – Angelo – Nocent

 

Nella “SINDROME DA MISERERE” il punto di partenza è il cuore dell’uomo

PREMESSA – Questa “ricerca” non è di oggi. Risale a qualche hanno fa. Era pensata per una qualche rivista interessata, alla quale avrei ceduto volentieri diritti, compensi ed esonerata da vincoli editoriali. MA NON L’HO TROVATA. Epperò è qui a disposizione.

Alla vigilia della festa del Santo, anno 2023, ho pensato di diseppellirla e metterla in circolazione. Può darsi che altri sappiano prenderne lo spunto per fare di più e meglio.

A Giovanni di Dio chiedo solo di venirmi a dare una mano nell’ora dei SUDORI FREDDI che non è molto lontana.

 

Di Angelo Nocent

Mentre scrivo, penso agli attuali ragazzi del nuovo Noviziato Europeo Fatebenefratelli di Brescia ed a coloro che si aggregheranno nel tempo. Sono passati ormai 470 anni dalla morte del Fondatore San Giovanni di Dio che tetimoni del suo tempo hanno visto in lui un amico del silenzio, tanto che evitva di pererdersi in chiacchere e non amava parlare se non di caritá e di cura dei malati. Mi domando come faccia a parlare ancora e ad essere tutt’ora capace di trasmettere fascino e suscitare discepoli.

 

La sola spiegazione: pazzo lui allora, pazzi gli scolari di oggi e di domani, incredibilmente ammagliati da un silente Amore Crocifisso, un tempo considerato anche lui fuori di testa perfino dai suoi familiari: “20Gesù tornò in casa, ma si radunò di nuovo tanta folla che lui e i suoi discepoli non riuscivano più nemmeno a mangiare.21Quando i suoi parenti vennero a sapere queste cose si mossero per andare a prenderlo, perché dicevano che era diventato pazzo. (Marco 3,20-21).

 

Fra le tante disavventure in cui è incorso San Giovanni di Dio, c’è anche quella di essere stato diagnosticato post mortem affetto da sindrome schizofrenica, per via di un fatto risalente alla caduta da cavallo durante la vita militare. Picchiando la testa, sarebbe rimasto tramortito per alcune ore, senza che qualcuno o aiutasse. Questo incidente spiegherebbe certi suoi comportamenti che gli procurarono un ricovero coatto nell’Ospedale Regio di Granata, settore…

II bello è che, secondo la tradizione, sarebbe stato soccorso nientemeno che da notra signora la Vergine Maria.

 

LA CADUTA DA CAVALLO

Quando si parla di Giovanni Cidade (San Giovanni di Dio), un laico dalla vita tormentata, che diventa “la meravigli di Granata”, “l’onore del suo secolo”, “santo” per la Chiesa, il punto di riferimento è ed è sempre stato Francesco de Castro, suo primo biografo, considerato come la fonte più autentica. Lui stesso esordisce dicendosi chiamato a “risuscitare la verità che col passare del tempo è stata sepolta e messa in oblio…essendo mancato chi mettesse in scritto le cose essenziali della sua vita, ed essendo egli stato un uomo silenzioso, che poche volte parlava di cose che non riguardassero la carità e il soccorso dei poveri, non abbiamo notizia di molte cose che appartengono a questa storia, di molte cose, cioè, notevoli che gli accaddero dopo la vocazione avuta da Dio… Pertanto, ciò che si riporterà qui è ciò che si è potuto sapere con molta certezza e verità”.

 

Di Francesco de Castro il Padre Gabriele Russotto si sente di scrivere: “Storico e narratore onesto, come e più di tanti storici e narratori moderni, il Castro merita la più assoluta credibilità”.

La premessa mi serve per introdurmi più serenamente nel Cap. VII che narra DELLA CONVERSIONE DI GIOVANNI DI DIO AL SIGNORE, argomento cruciale e delicato.

Questo il fatto narrato dal Castro: “Giunto ad età conveniente, costui (il conte di Oropesa) lo mandò in campagna insieme agli altri suoi servitori che guardavano il gregge. Ivi attendeva a prendere e portare l’approvvigionamento necessario con ogni diligenza, perché, essendogli venuti a mancare i genitori in così tenera età, procurò di compiacere e servire questo brav’uomo nella menzionata e come pastore tutto il tempo che stette in casa sua. Per questo i suoi padroni gli volevano molto bene, ed era amato da tutti.

Essendo ormai giovane di 22 anni, gli venne la volontà di andare in guerra, e si arruolò in una compagnia di fanteria d’un capitano di nome Giovanni Ferruz, che allora il conte di Oropesa inviava al servizio dell’Imperatore per soccorrere Fuenterrabía, che era stata occupata dal re di Francia.

Mosso Giovanni dal desiderio di vedere il mondo e godere di quella libertà che comunemente sogliono prendersi coloro che vanno in guerra correndo a briglia sciolta per il cammino largo (benché faticoso) dei vizi, incontrò in essa molti travagli e si vide in molti pericoli.

Trovandosi, infatti, in quella frontiera, un giorno a lui e ai suoi compagni venne a mancare l’approvvigionamento. Essendo egli giovane e molto volenteroso si offri per andare a cercare da mangiare presso certi casali o fattorie, che si trovavano un po’ distanti da loro. Per potere andare e tornare più presto, montò su una giumenta francese, che era stata presa ai nemici. Arrivato a circa due leghe da dove era partito, la giumenta, riconoscendo i luoghi nei quali di solito andava, cominciò a correre furiosamente per rientrare nella sua terra.

Siccome, però, non aveva per briglia che una cavezza, con la quale Giovanni la guidava, non fu possibile trattenerla, e corse tanto per le falde di un monte che lo scaraventò contro alcune rupi, dove rimase per oltre due ore, senza parola, buttando sangue dalla bocca e dalle narici, completamente privo dei sensi, come un morto, senza che vi fosse alcuno che potesse vederlo ed aiutarlo in tanto pericolo.

Ripresi i sensi, tormentato dal colpo ricevuto per la caduta e visto il rischio di incorrere in altro non minor pericolo di esser fatto, cioè, prigioniero dai nemici, si sollevò da terra come meglio poté, senza quasi poter parlare, si mise in ginocchio e, alzati gli occhi al cielo, invocò il nome di nostra Signora la Vergine Maria, della quale fu sempre devoto, cominciando a dire: «Madre di Dio, venite in mio aiuto e soccorso, pregate il vostro santo figlio che mi liberi dal pericolo in cui mi trovo e non permetta che venga preso dai miei nemici».

Poi, sforzandosi alquanto e preso in mano un palo ivi trovato, col quale si aiutava, si mise in cammino e piano piano giunse dove stavano i suoi compagni ad aspettarlo.

Avendolo visto così mal ridotto e credendo che lo avessero incontrato i nemici, gli chiesero che cosa fosse accaduto. Egli raccontò loro quanto gli era occorso con la giumenta, ed essi lo fecero mettere a letto e sudare, ponendogli molti panni addosso. Così di lì a pochi giorni, guarì e stette bene”.

 

LE VOCI DISCORDANTI

Quel volo contro le pietre del bordo della strada, dove rimase per due, tre, cinque…ore privo di sensi, privo di parola, di conoscenza, come morto, gli procurarono una commozione cerebrale? Una lieve frattura della scatola cranica? Probabilmente sì.

Qualcuno ha insinuato che la “pazzia” di San Giovanni di Dio, ossia le sue “stranezze” manifestate durante la conversione originino da questo infortunio. Nessuno è in grado di provarlo. Jean Caradec Cousson o.h. sostiene che il de Castro ha il pregio di riferire fedelmente i fatti ma l’abitudine a interpretarli a modo suo. Ad esempio, “per lui è evidente che Giovanni Cidade ha recitato la parte del folle. Ora, contro questa opinione illogica, si leva la descrizione così viva dello stesso de Castro che descrive Giovanni Cidade impegnato in atteggiamenti e attività esplosive, incoercibili e non dirette a calcolare come lo sarebbe necessariamente degli atti simulati: inoltre, conviene prendere alla lettera le parole di Giovanni che non mentiva: “Fratello mio, che Nostro Signore vi ricompensi per la carità che mi avete testimoniato in questa casa di Dio, per tutto il tempo che sono stato malato. Ora mi sento bene e in grado di lavorare; per amor di Dio, lasciatemi dunque uscire!”.

Caradec Cousson, autore di “GIOVANNI DI DIO dall’angoscia alla santità” – Città Nova, pag 61) conclude così il ragionamento: “In breve, la Vita di Giovanni di Dio secondo il suo contemporaneo de Castro, letta attentamente ed interpretata secondo i criteri scientifici moderni, come anche le testimonianze concordi dei notabili di Granata, del direttore dell’ospedale regio e del paziente stesso, ci permettono di dedurre molto verosimilmente che: “No, Giovanni di Dio non ha simulato la follia. Egli è stato malato, come lo esprime lui stesso in termini moderni e dignitosi: “He estado enfermo” .

 

Nelle note a piè di pagina si legge: “Per provare che Giovanni Cidade non ha simulato la follia, l’autore invoca la testimonianza dei notabili e del direttore dell’ospedale, ma non condivide affatto il loro punto di vista sullo stato reale del suo eroe.

Alcuni lettori del Capitolo V (apparso sul “Lien Hospitalier” del novembre 1972 sembrano però supporlo, nonostante l’esposizione di un’opinione diversa, forse un po’ diluita nel corso del capitolo. Per togliere ogni equivoco in merito, ecco, in termini concisi la convinzione dell’autore. “Giovanni Cidade, affetto da uno shock nervoso acuto e breve, di forma angosciosa, conserva, nonostante tutto, la propria lucidità, ma diventa preda momentanea di impulsi disordinati, irresistibili, accettati, d’altra parte, con soddisfazione, perché appagano i suoi profondi desideri di espiazione”.

 

Quest’opinione è confermata dai gesti e dalle parole di Giovanni Cidade, riferiti fedelmente da de Castro. Infatti, “dopo alcuni giorni di ospedale, Giovanni dichiara di essere uscito dall’angoscia” (Ya me siento sano y libre…del dolor y angustia…).

 

Sul ricovero di Giovanni di Dio come pazzo nell’ospedale di Granata è intervenuto nel lontano 1951 anche un certo DON GIOVANNI COLOMBO, futuro cardinale arcivescovo di Milano in questi termini: “Su quest’ultima notizia (il ricovero) temo che un sorrisetto malizioso sforerà le labbra degli uomini moderni, saputi e prevenuti.Era da aspettarselo; ecco un soggetto da clinica psichiatrica!”. Non intendo qui rispondere esaurientemente, ma solo indurli a una riflessione che li renda più dubbiosi della loro opinione, più prudenti nel giudicare ciò che forse non è facile capire, insomma, più profondi. Il nemico irriducibilmente feroce dell’amore di Dio è l’egoismo che s’abbarbica nei fondi e sottofondi della natura umana con mille indistricabili radici ripullulanti ad ogni taglio. Solo a prezzo di trivellanti sofferenze lo si può disbarbicare (sradicare).

 

A volte, specialmente quando i disegni di Dio richiedono una bonifica completa, o quasi, della natura, la volontà umana non basta, occorre che intervenga l’azione di Dio con le cosiddette prove passive. Ecco, allora, le tribolazioni straordinarie interne ed esterne, le umiliazioni più cocenti, le malattie fisiche e psichiche. Non è da meravigliarsi se in questo arduo lavoro di purificazione la natura possa risentire scosse che talora ne facciano perdere momentaneamente il normale equilibrio. Anche la santità, come la scienza ed ogni altra grandezza, ha i suoi rischi.

Può darsi che la follia di Giovanni Ciudad sia stata soltanto una simulazione ricercata di proposito, a scopo ascetico.

Può darsi che sia stata un’interpretazione volgare del fervore che lo trasportava ad atteggiamenti inconsueti, ad azioni singolari, giustificabili in quel clima d’esaltazione mistica che non raramente si riscontra nella spiritualità iberica.

E può darsi pure che in parte sia stata anche un reale morbo psichico: contraccolpo nervoso del logorio intenso a cui la grazia purificatrice sottoponeva quell’ardente natura e in pari tempo esperienza preziosa per le imprese che Dio lo chiamava a compiere.

Comunque, fu tale malattia che per troppi aspetti sconcerterà sempre le dotte diagnosi dello psichiatra. Basti pensare all’uomo nuovo e all’opera meravigliosa, che ne uscirono. Poiché fu proprio nella notte di quel morbo che spuntò nello spirito di San Giovanni di Dio la luce riorganizzatrice ed orientatrice delle sue aspirazioni eroiche, fin allora saltuarie e disperse in molteplici direzioni.

 

Uscito dall’ospedale, egli è deciso a seguire un’idea che ormai gli brilla chiara davanti: amare Dio nel prossimo, e il prossimo nella sua carne sofferente. Sarà ancora e sempre l’avventuriero del buon Dio, ma non più ramingo per le strade del mondo esteriore, bensì per le vie del mondo interiore della carità: mondo assai più vasto di quello fisico, più interessante, più irto di rischi e di sorprese, più ricco di tesori.

Cominciano così le nuove avventure del cavaliere innamorato che va a liberare i poveri dalla schiavitù del bisogno, che, abbattendo pareti d’ipocrisia e di vergogna, salva ragazze pericolanti e risolleva donne cadute nella cattiva vita, che esplora con ronde infaticabili di giorno e di notte i vicoli malfamati e la periferia della città per raccogliere e soccorrere bambini e vecchi, orfani e vedove, sventurati e malati.

 

San Giovanni di Dio non è stato uno speculatore teorico, ma un attuatore pratico. Non ci ha lasciato una dottrina sulla carità, ma un esempio affascinante. Egli è uno che sulla terra ha aumentato l’amore, non “con le labbra e le parole” ma “coi fatti e in realtà” (1 Gv 3,18).

Gli bastò un passo del Vangelo: “Qualunque cosa farete anche al più piccolo dei miei fratelli l’avrete fatto a me” (Mt 25,40).

Di questo passo gli è bastato il comandamento dell’Evangelista di cui portava il nome: “Noi sappiamo di essere passati da morte a vita perché amiamo i fratelli…Se uno pretende d’amar Dio e resta freddamente indifferente davanti al suo fratello, sappiamo che è un mentitore. Infatti, non amano il fratello che egli vede, come potrà amare Dio che non ha mai visto?” (1 Gv 3,13; 4, 19-20). Su queste lineari verità della rivelazione divina ha costruito tutto l’edificio della sua santità personale e della sua opera ospedaliera. Si persuase irremovibilmente di due cose.

1. La prima è che uno dei modi di permanenza di Gesù sulla terra sta nella sofferenza degli umili, degli abbandonati, dei poveri e dei malati: ogni corpo umano è carne del corpo mistico di Cristo, ogni piaga e ogni agonia umana è un prolungamento nei secoli delle piaghe e dell’agonia del Figlio di Dio.

2. La seconda è che la via dell’amore vero si trova nella concretezza del sensibile: non si giunge all’amore del Dio invisibile se non attraverso l’amore dell’uomo visibile, non si giunge a guarire le piaghe invisibili dell’anima dell’uomo se non attraverso l’amore alle piaghe visibili del suo corpo sofferente.

Nella luce di queste certezze egli dell’OSPEDALE fece un TEMPIO: il servizio degli ammalati divenne un OPUS DEI, una liturgia d’amore e di dolore con le sue rubriche minuziose indicanti la cura, la dieta, la visita, a ore fisse e a qualsiasi ora”.

Come si vede, anche questo punto di vista ha le sue interessanti suggestioni ma non “s-velano il travaglio interiore di quest’uomo, sconvolto da un panegirico su San Sebastiano, in un freddo inverno (qualcuno parla d’estate), all’Eremo dei Martiri di Granata, mescolato tra una folla amante della tradizione e richiamata dal nome famoso dell’oratore. Sembra che “le frecce divine” scagliate con veemenza abbiano preso di mira proprio lui, nudo come e fragile come il cristiano martire militare romano, sotto l’impero di Diocleziano.

 

La CHEMIOTERAPIA dello spirito è già in atto.

Nelle lunghe pause, Giovanni ha sfogliato i libri ascetici che vende e s’è fatto una modesta cultura. La vita ascetica è farcita di norme: non fare questo, non fare quello…Noi oggi diremmo che la norma morale è un “semaforo”. Epperò, dietro ogni comportamento deviante di chi non rispetta la segnaletica e passa con il “rosso”, c’è un uomo che non sempre ha coscienza del reato e magari neppure ha il senso del peccato.

In Giovanni “ribellione, disarmonia e smarrimento”, entrambi sono presenti e pulsano dentro di lui.

Per occhi attenti, colpisce sempre questa dimensione molto umana, di umana fragilità e spesso di umana inconsistenza, che si cela dietro ogni nostro comportamento deviante. E il “giudice” che gli si troverà davanti, il santo Giovanni d’Avila, ha la consapevolezza della “personalizzazione della colpa”.

Se i suoi sermoni attirano è perché il popolo percepisce che dietro il “giudice” del confessionale c’è l’uomo di Dio che in ogni comportamento deviante sa scorgervi la persona, la sua ribellione o il suo smarrimento. Il suo compito di fondo è di restituire la libertà alla persona che ha di fronte, sottraendola proprio alla ribellione, allo smarrimento, alla disarmonia interiore in cui per tanti e oscuri motivi si è imprigionato con le sue stesse mani.

Il messaggio contenuto nel panegirico è lacerante: Giovanni si sente come sul banco degli imputati, avverte che è giunto il momento, adesso, qui, ora, di uscire dall’ambiguità.

Alla “verità dell’oscuro”, farà seguire la terapia contenuta nel salmo 50: “crea in me”, “rendimi la gioia”. Ed il punto di partenza per comprendere la sindrome da Miserere che colpisce il quarantacinquenne avventuriero è di assimilare il Testo:

3 Pietà di me, o Dio, nel tuo grande amore; /nella tua misericordia cancella il mio errore.

4 Lavami da ogni mia colpa, / purificami dal mio peccato.

5 Sono colpevole e lo riconosco, / il mio peccato è sempre davanti a me.

6 Contro te, e te solo, ho peccato; / ho agito contro la tua volontà.

Quando condanni, tu sei giusto, / le tue sentenze sono limpide.

7 Fin dalla nascita sono nella colpa, / peccatore mi ha concepito mia madre.

8 Ma tu vuoi trovare dentro di me verità, / nel profondo del cuore mi insegni la

sapienza.

9 Purificami dal peccato e sarò puro, / lavami e sarò più bianco della neve.

10 Fa’ che io ritrovi la gioia della festa, / si rallegri quest’uomo che hai schiacciato.

11 Togli lo sguardo dai miei peccati, / cancella ogni mia colpa.

12 Crea in me, o Dio, un cuore puro; / dammi uno spirito rinnovato e saldo.

13 Non respingermi lontano da te, / non privarmi del tuo spirito santo.

14 Ridonami la gioia di chi è salvato, / mi sostenga il tuo spirito generoso.

15 Ai peccatori mostrerò le tue vie / e i malvagi torneranno a te.

16 Liberami dal castigo della morte, mio Dio, / e canterò la tua giustizia, mio Salvatore.

17 Signore, apri le mie labbra / e la mia bocca canterà la tua lode.

18 Se ti offro un sacrificio, tu non lo gradisci; / se ti presento un’offerta, tu non l’accogli.

19 Vero sacrificio è lo spirito pentito: / tu non respingi, o Dio, un cuore abbattuto e umiliato.

20 Dona il tuo amore e il tuo aiuto a Sion, / rialza le mura di Gerusalemme.

21 Allora gradirai i sacrifici prescritti, / le offerte interamente consumate: tori saranno immolati sul tuo altare.

 

A proposito del “Pietà di me o Dio nel tuo amore”, il Martini è illuminante: “La prima parola è racchiusa in un verbo ma, in realtà, è la radice. di un sostantivo. Quello che in italiano traduciamo con: «Pietà di me, o Dio », in ebraico è semplicemente: «Grazia, fammi grazia, riempimi della tua grazia». Si chiede dunque a Dio che sia per noi grazia, che prenda interesse a chi sta male, a chi si trova in difficoltà, che ci dia una mano. È l’esperienza di Maria che canta: «Signore, tu hai guardato alla povertà della tua serva e mi hai fatto grazia, mi hai riempito della tua grazia».

Ed un’altra osservazione ci è preziosa e ci sarà di aiuto: “Dio è dono gratuito, è l’essenza della gratuità. Quando noi diciamo che Dio non può aver alcun interesse a pensare a noi, ad occuparsi di noi, riveliamo di avere un’idea falsa di Dio. Abbiamo di Lui, per dirlo con una parola tecnica, un’idea farisaica, che cerca cioè di capire Dio partendo dalle categorie del calcolo. Dio gode nel poter donare qualcosa a chi ha bisogno di essere sostenuto, a chi non si sente nessuno, a chi si sente in basso. Egli vuole versare il suo valore in noi e non giudica il nostro”.

UNA PAROLA A PROPOSITO DEI SALMI

André Chouraqui fa una considerazione che merita di essere rilevata. Egli scrive che Noi nasciamo con questo libro nelle viscere. Un piccolo libro: centocinquanta canti, centocinquanta gradini eretti tra la morte e la vita; centocinquanta specchi delle nostre rivolte e delle nostre fedeltà, delle nostre agonie e delle nostre resurrezioni. Più che un libro, un essere vivente che parla – che vi parla – che soffre, che geme e che muore, che resuscita e canta, sulla soglia dell’eternità – e vi prende e vi porta con sé, voi e i secoli dei secoli dall’inizio alla fine”.

La sottolineatura è importante perché la vedremo posta in essere in Giovanni Cidade, alle prese con il suo dramma esistenziale. Pur non proferendo parola, il salmo 51 respira con lui, i battiti del cure scandiscono uno ad uno i ventuno stati d’animo che lo compongono. Tanto da assistere ad una reazione liberatoria che si verifica sì nella sua coscienza ma si manifesta anche esteriormente, tanto da essere notata, annotata e trasmessa a noi come un “fatto”, lì per lì irrazionale, ma chiaritosi nel tempo, pur con le diverse e talora opposte interpretazioni.

Dall’Avila, ministro della Parola, Giovanni riceve una chiara indicazione:

  • Non ci può essere riconciliazione di nessun genere senza conversione del cuore.
  • La conversione del cuore comprende delle tappe che non sono ad libitum: non è possibile saltarle o disattenderle.
  • E’ un itinerario che va acquisito e percorso perché è fatto a partire dal cuore dell’uomo.
  • Il cammino penitenziale personale ha ripercussioni sul mondo: Giovanni di Dio accelera in sé la riconciliazione umana e cosmica.

LA CONFESSIONE

Giovanni, prima ancora di recarsi dal confessore d’Avila, fa una confessione pubblica. Ma non è tanto un’autoaccusa: ho fatto questo, ho commesso quest’altro…ho fatto ciò che non dovevo fare, ho sbagliato…Il rischio dell’autocritica è proprio l’autogiustificazione che non necessita del perdono di Dio. Nel nostro caso c’è piuttosto un dialogo intimo, personale, filiale con Colui che lo ha cercato, atteso all’appuntamento, amato: “ho fatto ciò che ai tuoi occhi è male”. Non ho fatto male soltanto contro la tua legge ma quello che è male “ai tuoi occhi”.

Ovviamente Giovanni non procede con questa visione schematica ma sotto l’impulso della Parola (Spirito) che lo ha braccato, amorevolmente ferito come una lancia nella sua parte più vulnerabile: l’orgoglio. In ginocchio, sul pavimento gelido di una chiesa, il 20 gennaio 1539, capisce che è giunto il momento di “decidersi per Dio”. E fa la sua scelta, la sua solenne “professione religiosa”, non prevista, non programmata, con una liturgia non canonica.

La consacrazione è in questi termini: “Dio sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù”. E’ l’anticipazione dei quattro voti che professeranno i suoi discepoli.

Non veste un abito, non professa una regola, non appartiene a una famiglia monastica, non ha un Cardinale protettore. E’ uomo del Vangelo. Nudo, povero, libero obbediente alla Voce del “Maestro interiore” ed al suo “ministro” che gli a posto al fianco come guida: il sacerdote Giovanni d’Avila.

CAMMINO PENITENZIALE

Da questo momento inizia il suo cammino penitenziale.

Il “grazie” per queste riflessioni va detto al mio Arcivescovo, il Cardinale Carlo Maria Martini per il commento al Salmo 50 che fece tra il 1983-84, quando convocò in Duomo i giovani per ascoltare e per pregare con il loro Arcivescovo, dando vita a quella esperienza contagiosa organizzata dall’Azione Cattolica Ambrosiana, che va sotto il nome di SCUOLA DELLA PAROLA. Ricordo benissimo quei tempi perché si è trattato di uno dei momenti più forti e significativi della sua esperienza episcopale insieme ai giovani, che ha lasciato un segno duraturo. Non più giovane, – allora avevo 41 anni – necessitavo anch’io proprio di questa riconciliazione con me stesso e le sue riflessioni mi hanno segnato profondamente.

Da quelle sue meditazioni ho tratto due insegnamenti fondamentali:

1. La chiave di lettura della “conversione” di Giovanni di Dio, risultata “eccessiva” per i suoi contemporanei, tanto da farlo internare nel manicomio dell’Ospedale Regio di Granada.

  1. La linfa che potrà alimentare anche le generazioni future, paragonabili in ogni epoca a Davide, il peccatore pentito.

L’unico a vederci chiaro, sarà proprio San Giovanni d’Avila, con il quale Dio aveva predisposto l’incontro che avrebbe modificato definitivamente l’itinerario del suo penitente. Perché l’iniziativa, il punto di partenza di ogni cammino di conversione del cuore è sempre un’iniziativa divina: Dio, il leale, l’affidabile, il fedele, il buono, il tenero, il costante nell’attenzione e nell’amore, espressioni riassumibili in una: il Misericordioso è sempre il primo a dare la mano; “il piatto della bilancia pende sempre dalla parte della Sua bontà”.

Le parole che c’introducono, sono semplici e brevi: “Pietà di me…”. La parola forte, il pugno nello stomaco è il termine “peccato”. Nel testo ebraico il significato è più precisato, usa tre parole che andrebbero lette così:

cancella la mia ribellione,

lavami da ogni disarmonia,

mondami (tirami fuori da ogni mio smarrimento”.

Senza bisogno di scomodare psichiatri e psicologi, la vera risonanza magnetica che non mente è la Parola di Dio. Essa che ci dice per filo e per segno cos’è accaduto a Giovanni di Dio all’Eremo dei Martiri in quel lontano 1539.

Di suo egli ha messo solo quell’eccesso di esteriorizzazione mal interpretato che solo degli innamorati come lui, folgorati da una luce interiore accecante sarebbero stati in grado di comprendere. Tant’è che l’unico a non meravigliarsi sarà proprio il “provocatore” della situazione Giovanni d’Avila. Un miracolo della Grazia che ha dato vita non solo a una personale conversione ma ad una nuova famiglia religiosa e fatto di lui un “vir misericordiae” additato alla Chiesa universale. Da un evento personale, a un progressivo mutamento di mentalità ecclesiale che perdura.

Giovani di Dio all’Eremo non ha da presentare a Dio la sua fragilità: egli si percepisce come uomo peccatore. Epperò avverte che Dio è attivo su di lui: lo sta lavando, lo monda, sente che è in corso una purificazione, una dialisi potremmo dire; egli sta sperimentando una cosa inedita: che il Dio della sua vita è buono, è verità, è misericordia.

Anche se non trova le parole giuste come Davide, le sue sillabe, le lettere dell’alfabeto che farfuglia, vengono trasformate dallo Spirito che prega in lui: «Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, perché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (Romani 8, 26-27).

Bello! Nella Lettera a Proba, Agostino scrive: «Il pregare consiste nel bussare alla porta di Dio e invocarlo con insistente e devoto ardore del cuore. Il dovere della preghiera si adempie meglio con i gemiti che con le parole, più con le lacrime che con i discorsi. Dio infatti “pone davanti al suo cospetto le nostre lacrime”(Salmo 55, 9), e il nostro gemito non rimane nascosto (cf. Salmo 37,10) a lui che tutto ha creato per mezzo del suo Verbo, e non cerca le parole degli uomini» (2).

Risuona il monito di Gesù. Quando pregate, non pensate di ottenere attraverso il vostro molto pregare, perché il Padre sa benissimo ciò di cui avete bisogno. Tuttavia Gesù stesso ci insegna a esprimere i nostri bisogni. Non tanto però – dice Agostino – con la moltiplicazione delle parole in quanto tale, bensì con una moltiplicazione che esprima il gemito del credente. Viene così introdotta la nozione di «gemito» che ritroviamo nella pagina di san Paolo.

In Giovanni di Dio accade proprio questo: la preghiera di richiesta di vita nuova parte dal cuore, non è superficiale, più che di parole, assomiglia a un gemito, un desiderio profondo. Gemere, infatti, significa anelare a qualcosa di cui si ha estremo bisogno; anche fisicamente il gemito è l’espressione di chi, mancando di aria, cerca di aspirarla.

Egli si appropria, per così dire, della sua povertà e miseria; riconosce il suo stato di uomo peccatore, ammette la sua incapacità ad armonizzare la sua vita morale, di dichiara bisognoso di perdono. Questo quarantacinquenne avverte che Dio vuole sincerità nel cuore e non esita ad accettare il poco, il niente che è.

Questa confessio vitae è corrispondente ai vv. 5-8 del salmo 50 ma sfugge, non è capita dalle persone che gli stanno attorno. Solo Giovanni d’Avila si rende conto del miracolo della Grazia che è in atto e non esita a riconoscerlo. Per gli altri è uno che merita solo commiserazione: un poverino uscito di senno. Ma egli, dopo l’elettrochoc provocato dalla Parola di Dio, a poco a poco, avverte che Dio è capace di fare in lui qualcosa di nuovo. Lui che ha sperimentato la sua insufficienza morale, non esita a riconoscere l’azione dello Spirito in atto e accetta di fare pace con se stesso: è la confessio fidei : “Lavami, e sarò più bianco della neve”.

La gioia, la letizia, non arrivano subito. Il “Ridonami la gioia di chi è salvato; mi sostenga il tuo spirito generoso.”(v.14), verrà. Ma lui ormai è stato collocato sul binario giusto e la potenza di Dio non tarderà a manifestarsi.

IL PASSATO E’ PASSATO

Dio, che gli ha fatto grazia di guardare in avanti, ora gli mette in cuore la confessio laudis. Ha sperimentato il soffio di vita, la forza di Dio? Qui riceve l’investitura: vai e annuncia quanto Dio ha fatto per te, sìì testimone della salvezza che hai ricevuto: “Ai peccatori mostrerò le tue vie e i malvagi torneranno a te”(v. 15).

D’ora innanzi dovrà essere un predicatore del Dio che salva: “Dona il tuo amore e il tuo aiuto a Sion, rialza le mura di Gerusalemme”.(v.20) E’ la missione che avrà nella Chiesa. A cominciare da Granada. La sua croce sarà la sua gioia, ora che è stato reso capace di annunziare le grandi opere di Dio. Il suo motto sarà “Dio sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù”.

E’ evidente che questo percorso di ri-conversione del cuore non si è esaurito nell’arco di una giornata. Sono state necessarie delle tappe che il nuovo Giovanni non ha potuto disattendere o saltare. Quanto più cercheremo di ripercorrere quel processo che abbiamo chiamato sindrome da Miserere, tanto più ci convinceremo che si è trattato sì di vera follia ma di quella contagiosa del Signore Crocifisso-Risorto. Non lo ha scritto proprio l’apostolo Paolo che “la parola della croce sembra una pazzia a quelli che vanno verso la perdizione”, mentre “per noi che Dio salva, è la potenza di Dio?” Paolo sa bene di non dire una cosa nuova e cita le Scritture dei padri: “Sta scritto infatti: ”Distruggerò la sapienza dei sapienti e squalificherò l‟intelligenza degli intelligenti” (1Cor 1, 18-19).

E poi aggiunge di suo: Dio ha deciso di salvare quelli che credono, mediante questo annuncio di salvezza che sembra una pazzia. Gli Ebrei infatti vorrebbero miracoli, e i non Ebrei si fidano solo della ragione.

Noi invece annunziamo Cristo crocifisso, e per gli Ebrei questo messaggio è offensivo, mentre per gli altri è assurdo.

Ma per quelli che Dio ha chiamati, siano essi Ebrei o no, Cristo è potenza e sapienza di Dio. Perché la pazzia di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini, e la debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini.

Guardate tra voi, fratelli. Chi sono quelli che Dio ha chiamati? Vi sono forse tra voi, dal punto di vista umano, molti sapienti o molti potenti o molti personaggi importanti? No!

Dio ha scelto quelli che gli uomini considerano ignoranti, per coprire di vergogna i sapienti; ha scelto quelli che gli uomini considerano deboli, per distruggere quelli che si credono forti.

Dio ha scelto quelli che, nel mondo, non hanno importanza e sono disprezzati o considerati come se non esistessero, per distruggere quelli che pensano di valere qualcosa.

Così, nessuno potrà vantarsi davanti a Dio.

Dio però ha unito voi a Gesù Cristo: egli è per noi la sapienza che viene da Dio. E Gesù Cristo ci rende graditi a Dio, ci dà la possibilità di vivere per lui e ci libera dal peccato. Si compie così quel che dice la Bibbia: Chi vuol vantarsi si vanti per quel che ha fatto il Signore (idem 21-31).

La riflessione potrebbe estendersi ulteriormente ma ci porterebbe molto lontano, perché la Bibbia è un pozzo senza fondo. Vorrà dire che sarà per un’altra volta.

Si noti l’antica iconografia: Giovanni di Dio è ripetutamente riprodotto con il simbolo della somma follia: la Croce.

San Giovanni di Dio affascina non per le cose dette o scritte, che sono poche, ma per la la testimonianza. La sua esistenza, del resto come quella di ogni altro uomo, in qualunque sistema sociale ed economico si inquadri, è un evento attraversato, segnato dalla croce: dal dolore, dall’affanno, dalla sofferenza e dalla morte. Oggi come ieri, come domani.

FATEBENEFRATELLI”: E’ SOGNO AD OCCHI APERTI CHE PERDURA – Angelo Nocent

Granada sarà la tua croce”. La leggenda del Gaucín” – Nonostante la mancanza di fonti storiche, una delle storie più significative ed evocative che cercano di spiegare l’arrivo di San Giovanni di Dio a Granada è la celebre leggenda del Gaucín.

Si tratta di questo: “il santo ebbe un incontro con un umile trovatello, mentre passeggiava presso il piccolo comune di Gaucín, in Spagna.

Deciso a non abbandonarlo, Giovanni prese il bambino con sé sulle spalle e proseguì il cammino.

Fermatosi per bere ad una fonte, Giovanni adagiò il bambino sotto un albero, il quale mostrò al santo un melograno spaccato, dal quale fuoriusciva una croce, e gli disse: “Granada sarà la tua croce”.

  • L’emblematica assonanza tra il nome della città e la leggenda del frutto costituisce ancora oggi per i Fatebenefratelli un lascito importante per la cultura dell’Ordine.”

Dunque: LEGGENDA o LASCITO ?

Mi rifiuto di sottoscrivere che quella di Gaucín sia leggenda, perché ritengo l’interpretazione fuorviante: non è VERO solo tutto ciò che è dimostrabile e documentabile.

Mi chiedo: ci si può innamorare di una leggenda a tal punto da farla sbarcare sui cinque continenti e moltiplicare esponenzialmente gli “illusi” o “infatuati” durante i successivi cinque secoli fino ad oggi?

Nessuno è autorizzato a definire “LEGGENDA” quella che vede per protagonista lo sbandato Giovanni di Dio. Perché c’è di mezzo il Maestro interiore, lo Spirito di Gesù che lo ha preso per mano e lo sta conducendo perché si realizzi il progetto che l’Eterno ha su quest’uomo, sbandato ma credente e pensante.

L’annunciazione dell’Angelo a Maria è leggenda? Nessuno osa pensarlo. Per noi è un “fatto”. Ed è anche sconvolgente. Noi testimoni solo degli effetti che ha provocato non riusciamo a credere che l’ effetto si ha senza causa.

Perciò, senza cadere nel miracolistico, mi sento di dire che tutta la nostra vita, compresa quella di Giovanni di Dio, è fatta di appelli, vocazioni, annunciazioni, che Dio rivolge in tutti i tempi, ad ogni ora del giorno ma anche della notte. Se in principio era il Verbo, ora Egli è un CONTEMPORANEO che abita fra noi. Ma se di messaggi, vocazioni, annunciazioni, sollecitazioni, inviti… è piena la nostra vita, senza l’illuminazione del Vangelo, il rischio è di non accorgercene.

Mi viene in mente Francesco d’Assisi. Nessuno definisce leggenda la sua esperienza: “In preghiera, davanti al Crocifisso di San Damiano, scoprì in modo più chiaro la via da seguire: il “Cristo povero e crocifisso”. Da lui ricevette un ordine ben preciso che si accinse a seguire con tutto se stesso: «Francesco, va’ ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina» (2 Cel. 3).

Francesco ebbe, per tutta la vita, la persuasione di essersi mosso sotto l’azione dello Spirito Santo fin dall’inizio della sua conversione. Tutto è dono e iniziativa del Signore:

«Il Signore concesse a me, frate Francesco»,

«Il Signore mi condusse tra i lebbrosi»,

«Il Signore mi dette tanta fede»,

«Il Signore mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo»

A fare attenzione, non è difficile avvertire che la nostra vita è piena di angeli, di messaggeri, di apparizioni. Ma è solo l’esperienza religiosa dei primi testimoni che può aiutarci a identificarli.

Il modo migliore di leggere il Vangelo è proprio quello di pensare che tutto quanto vi si trova, capita anche nella nostra vita. Ciò che è accaduto ai primi testimoni, succede anche ai nostri giorni.

Il modello ideale di lettura del Vangelo è Maria.

Da che cosa ha riconosciuto l’angelo?

Come è giunta alla certezza che quel messaggio veniva da Dio?

Ognuno ha il diritto di chiedersi:

da che cosa potrei riconoscere un angelo?

Da che cosa riconoscere che un pensiero, un incontro, un avvenimento vengono da Dio?

E’ un problema vitale, lo stesso che dovette risolvere Maria. Lei come ha fatto?

Anzitutto, non si è lasciata indurre a credere immediatamente.

Ha riflettuto, si è interrogata, ha messo in questione questa vocazione straordinaria.

In presenza di una Parola di Dio, ci sono due attitudini pericolose:

quella di rifiuto, del lasciar perdere perché non ci si vede chiaro;

l’altra, di capirci tutto, dell’evidenza, della non meraviglia, dello scontato.

Ma il solo modo ragionevole è quello assunto da Maria: “Ella non capiva ciò che egli diceva, ma conservava tutte quelle cose e se le ripeteva nel cuore” (Luca 2,51).

Tutto avviene nel tempo, col tempo, mettendovi del tempo, perché il discernimento dello Spirito non funzione come il caffè liofilizzato istantaneo.

Poi Maria ha consultato le scritture. Tutti i testi di Luca come anche di Matteo, sono citazioni di profeti ed il Magnificat ci dice come Maria vedeva la sua vocazione: nella linea di tutti quei poveri, di tutte quelle fecondità che l’avevano preceduta.

Come si dirà più avanti, si diventa FATEBENEFRATELLI non tanto per scelta ma per ACCETTAZIONE di una chiamata dall’alto, nel consenso quotidiano di un destino che oltrepassa la nostra previsione e immaginazione. Anche Giovanni di Dio si è trovato coinvolto in un progetto talmente più grande di lui da sembrare folle il progetto e più folle il consenziente.

A chi accetta di inoltrarsi in questa avventura umana e divina è richiesto di muoversi nella logica della fede:

ricettività e riflessione,

gioia e timore,

senso di Dio e buon senso umano.

Le grazie di Dio talvolta giungono come tegole sulla testa. Lasciarsi sconvolgere e pregare, leggere e riflettere le Scritture, conservare e ruminare dentro l’anima gli avvenimenti, è il solo modo ragionevole di procedere.

Perché Dio interpella proprio me?

Perché mi fa rivivere tutte le angosce dei poveri, dei perseguitati, delle sterili, degli esseri duramente abbandonati da Dio nel quale hanno messo la loro fiducia?

Degli innocenti calpestati, accusati, respinti?

Dei sofferenti senza via d’uscita, degli angosciati dalla vita?

Maria scopre che dietro c’è la fedeltà di Dio, il suo stare ai patti, il suo mantenere le promesse:

– “Ha accolto Israele, suo servo…

la sua misericordia di generazione in generazione verso coloro che si fidano di Lui”.

L’angelo in carne ed ossa che Maria ha incontrato è Elisabetta, una donna anziana che aveva sofferto come lei e che l’ha incoraggiata a credere, lei così giovane è già così coinvolta nei destini di Dio.

Anche Giovanni di Dio quando riconosce la sua annunciazione canta il Magnifica a modo suo. Gli altri ridono, prendono le distanze dall’impazzito. Lui invece vede realizzarsi le promesse di Dio proprio là dove non aveva sperimentato che i suoi tormenti e disagi assieme a quelli di sventurati suoi simili internati e incatenati nel manicomio.

Come Maria e Giovanni di Dio, i discepoli, consacrati o laici, accettano di associarsi alle follie di Dio, ai suoi progetti grandiosi. Presi singolarmente, essi sono piccola cosa. Messi insieme, diventano trasportatori di ossigeno nel tessuto umano in preda all’anemia, a rischio di cancrena.

La loro determinazione al “servizio trasporto ossigeno” la imparano dalla MATER HOSPITALITATIS, nel senso del suo Magnificat:

1. “Cerco nel cuore le più belle parole per il mio Dio,

2. l’anima mia canta per il mio amato” (Lc 1,46).

3. “Perché ha fatto della mia vita un luogo di prodigi,

4. ha fatto dei miei giorni un tempo di stupore” (Lc 1,47)

5. “Ha guardato me che non sono niente:

6. sperate con me, siate felici con me,

7. tutti che mi udite.

8. Cose più grandi di me stanno accadendo.

9. E’ Lui che può tutto, Lui solo, il santo!” (Lc 1, 48-49)

10. “ E’ lui che ha guardato, è lui che solleva,

11. è Lui che colma di beni, è lui…”

12. “Santo e misericordioso, santo e dolce,

13. con cuore di madre verso tutti, verso chiunque”

(Lc 1,50).

14. “Ha liberato la sua forza,

15. ha imprigionato i progetti dei forti” (Lc 1,51).

16. “Coloro che si fidano della forza sono senza troni.

17. Coloro che non contano nulla hanno il nido nella sua mano” ( Lc 1,52)

18. “Ha saziato la fame degli affamati di vita,

  1. ha lasciato a se stessi i ricchi:
  2. le loro mani sono vuote,
  3. i loro tesori sono aria” (Lc 1,53)

DISTRIBUTORI DI OSSIGENO

Essere FATEBENEFRATELLI vuol dire CANTARE IL MAGNIFICAT CON LA VITA, ossia portare e TRASFONDERE Vangelo, le gioiose notizie che tutti devono venir a sapere, ossia:

1. Che Dio ha attraversato i cieli,

2. Che l’emoglobina, ossia l’amore, scende dal cielo verso

la terra e non viceversa,

3. Che Lui ci conosce così bene che sarebbe capace di dirci

quanti capelli abbiamo in testa,

4. Che Dio ci conosce uno per uno, si ricorda il nostro

nome,

5. Che ci incoraggia a respirare meglio con il Suo respiro,

6. Che a sognare con Lui i sogni si avverano,

7. Che a vivere la Sua vita, non c’è nulla da perdere, anzi!

  1. Che Dio è totalmente a disposizione dell’uomo,
  2. Che Egli prova più gioia nel dare che nel ricevere.

Se i FATEBENEFRATELLI si fanno guidare da Maria percepiscono ciò che Lei per prima ha intuito dalle confidenze dello Spirito: che, rispetto al decalogo della Antica Alleanza, che era al centro della Tôrah, il Nuovo Decalogo non è più PRESCRITTIVO di comportamenti dell’uomo verso Dio e i fratelli, ma NARRATIVO, DESCRITTIVO di un Dio che è per l’uomo.

Decalogo che Luca illustra con meticolosità nella parabola del buon samaritano, dove in quella catena di verbi è evidente che il contare di Dio non si ferma a dieci ma sconfina alla grande quando s’impegna con l’uomo che incontra sulla Gerusalemme-Gerico del mondo (Lc 1o,25-37):

“…Invece un uomo della Samaria, che

1. era in viaggio,

2. gli passò accanto,

3. lo vide,

4. ne ebbe compassione

5. Gli andò vicino,

6. versò olio e vino sulle sue ferite

7. e gliele fasciò.

8. Poi lo caricò sul suo asino,

9. lo portò a una locanda

10. e fece tutto il possibile per aiutarlo.

11. Il giorno dopo tirò fuori due monete

12. le diede al padrone dell’albergo

13. e gli disse:”Abbi cura di lui

14. e se spenderai di più

15. pagherò io quando ritorno “

FATENBENEFRATELLI significa sottoscrivere il decalogo che è di ogni credente, anzi, riguarda ogni uomo che sogni il sogno di Dio: UNA TERRA FATTA DI PROSSIMI (di tanti globuli rossi TRASPORTATORI DI OSSIGENO).

Con gli occhi di Maria, già vedo germinare i glomeruli dal midollo osseo della Cina. Donne e uomini, dalle campagne alle città, dagli ospedali alle trascurate periferie, muoversi in direzione delle persone più “anemiche”. Ci confermano che i “pionieri o.h.” sono già in avanscoperta a trattare con le Autorità Cinesi. Ma, per un Paese così sterminato, dovranno seguire consistenti rinforzi, tutti ancora in incubazione. E con la Cina, la sterminata Africa…il Mondo…

La fortuna è che tutto il mondo (O  stupore immenso!) può contare sulla stessa Messa, sull’EUCARISTIA, SACRAMENTUM HOSPITALITATIS !

Chi incappa in un’annunciazione, trovi il coraggio di rispondere come Maria: “Fai di me ciò che tu vuoi”. Il dopo si sa a priori come finirà: non può essere che un GIOVANNI DI DIO CONTEMPORANEO con in testa la medesima profezia:

ha fatto della mia vita un luogo di prodigi,

ha fatto dei miei giorni un tempo di stupore” (Lc 1,47).

 

 

Leave a Reply

You must be logged in to post a comment.