RICCARDO PAMPURI IL SANTO FRAGILE – Angelo Nocent

RICCARDO PAMPURI IL SANTO FRAGILE – Angelo Nocent
Pubblicato il 3 novembre 2019 da angelonocent

LA FORZA DELLA FRAGILITA’
Chi si è occupato di San Riccardo Pampuri in questi anni lo ha definito in tanti modi ma con una percezone comune. Vale per tutte il “SANTO SEMPLICE” di Laura Cioni. Nella prefazione di Luigi Giussani si legge che “la figura di san Riccardo Pampuri, recentemente riscoperta dalla devozione popolare, offre un esempio di santità nell’epoca contemporanea. Vissuto nella prima metà del 1900, il Dottor Erminio Pampuri si dedicò interamente ai propri pazienti, si interessò all’evangelizzazione nelle forme dell’apostolato laicale, compì la sua vocazione con il nome di fra Riccardo, come religioso tra i Fatebenefratelli, voluti da san Giovanni di Dio quattro secoli prima. Personalità tenace e mite, egli maturò il senso della sua esistenza nell’obbedienza alle circostanze che gli furono date da vivere, servendo il proprio popolo nella vita civile e coltivando la pietà nei modi della sua epoca. La sua esistenza, priva di ogni evento che possa essere giudicato eccezionale, mostra in modo luminoso quanto la presenza di Cristo agisca sugli uomini di ogni tempo. L’eroismo semplice della sua vita quotidiana, se da un lato lo accomuna a tanti grandi santi della tradizione cattolica, dall’altro lo rende adatto a indicare una forma di vita cristiana praticabile oggi”.
Recentemente anche il vescovo di Pavia Corrado Sanguineti nell’omelia per la festa del santo si è riferito a questa biografia. Tutto vero. Ma a forza di tornarci sopra, oggi mi sentirei di riassumere Fra Riccardo in due parole: il SANTO FRAGILE. Anche se mi rendo conti che la santità sfuggono alle semplificazioni. Riccardo è un UOMO DI VETRO che ha mostrato la sua fragilità a tutti coloro che lo hanno incontrato. Già i suoi paesani riferendosi al loro medico condotto, lo definivano “il dottorino santo“, dove il fiuto popolare in quel “dottorino” faceva emerge la sua identificazione: una fragilità ammirevole, un pregio come fosse un cristallo di Boemia, la forza che lo ha aiutato a vivere.
Quanto segue vorrebbe spiegarne il motivo di questa sua FRAGILITA’ sulla quale i biografi non hanno mai dato molta rilevanza. Epperò, vorrei evidenziare che non siamo in presenza di un nano ma di un gigante che potrebbe, anzi, ha fatto sua l’esperienza di San Paolo: “Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10)

A dar man forte mi viene in aiuto il noto psichiatra italiano Vittorino Andreoli che ha riportato al centro della scena e della riflessione collettiva il tema della fragilità, una parola che era diventata desueta. La sua tesi è che se la debolezza è da curare, la fragilità è da interpretare come caratteristica principe della condizione umana, che nulla ha a che fare con la patologia. La fragilità, infatti, non è un sintomo ma una dote, perché contiene in sé il bisogno che l’uomo ha dell’altro. La persona fragile tende a unirsi a un’altra persona fragile, e due fragilità insieme aiutano a vivere, perché costituiscono l’origine dell’amore. L’uomo fragile, sostiene Andreoli, è l’uomo per eccellenza, perché fa dei propri limiti una ricchezza. Infatti, laddove la forza impone, respinge e reprime, la fragilità accoglie, incoraggia e comprende. E mette in circolo quanto di più umano abbiamo da offrire. Bene: fra i tanti che gli hanno voluto bene e si sono presi cura di lui orfano di enrtrambi i genitori, a cominciare dagli zii, l’altra Persona che ha incontrato ERMINIO PAMPURI ha un nome divino: GESU’.
La filologia ci dice che Gesù è l’adattamento italiano del nome aramaico יֵשׁוּעַ (Yeshu’a), passato in greco biblico come Ἰησοῦς (Iēsoûs) e in latino biblico come Iesus; si tratta di una tarda traduzione aramaica del nome ebraico יְהוֹשֻׁעַ (Yehoshu’a), ovvero Giosuè, che ha il significato di “YHWH è salvezza”, “YHWH salva”. Dunque ha scelto di mettersi in buone mani.
CIMITERO

La parola « cimitero » deriva dal greco κοιμητήριον (koimetérion, « luogo di riposo »: il verbo κοιμιν (« koimân ») significa « fare addormentare »), attraverso il tardo latino cimiterium.

Non conosco il cimitero dove riposano i genitori di Erminio, ma, in fondo in fondo, – non dico quelli monumentali delle città – i cimiteri dei nostri paesi si assomigliano tutti: un’entrata scarna: un cancello, un arco, una scritta del tipo In pace Christi requiescant, oppure Resurrecturis, sui muri una tintura bianca o paglierina, un lungo viale di ghiaia bianca, ombreggiato da altissimi cipressi, stradine trasversali, lapidi di ogni età e ceto, cappelle di famiglia, una Croce dominante, un silenzio di tomba, rotto di tanto in tanto dagli scavatori di nuove fosse o dal salmodiare per nuova sepoltura.

Quando hanno seppellito mia madre, ottantaduenne, io alla vigilia dei sessanta, nei giorni successivi, girovagando inosservato lungo i perimetri della muraglia, in cerca sulle lapidi di visi noti e cari alla memoria, mi son messo a raccogliere sassi, quelli più grossi, usciti di fresco dagli scavi e, man mano, uno, due alla volta li portavo sulla sua tomba e li collocavo intorno al cumulo di terra, perimetrando le quattro spanne che il Comune concede in usufrutto ad ogni deceduto.

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Canposanto
La tomba provvisoria, fatta con le mie mani, in attesa dell’assestamento del terreno, sembrava tenuta insieme da una corona del rosario.

I grani di sasso partivano dalla Croce di legno posta al centro, proprio sopra il capo di lei che la Croce l’ ha sempre avuta in testa, e facevano un giro rettangolare lungo quanto una persona avvolta nel sonno della morte, per ricongiungersi alla Croce.

Piccolo gesto di pietà filiale il mio che ha provocato un breve suo risveglio per sussurrarmi, da là sotto, parole arcane venute presto in superficie.

Sì, un brusio lieve ed accorato che solo io potevo percepire, per ricordarmi che in Dio si nasce e, per tornare a Lui, si muore. Dopo, silenzio muto.

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Un attimo per metabolizzare quel messaggio di presenza viva di cui le sono grato e subito dal cuore uno sgorgare fluido di versi e di preghiera che ho scritto sulla nuda terra e che riporto qua con commozione:

“Di te giacconi qui, sotto le pietre,

Madre, solo le stanche spoglie.

Ma la tua vita è ormai

eternamente in Dio

Arrivederci, mamma.

che finalmente vedi.

E, nell’attesa dell’evento,

di quel prodigio di risurrezione

di questa nostra carne deperita,

prega per noi ed intercedi. Amen”.

Ho riportato la mia esperienza di uomo adulto semplicemente per dire che certe vicende, dolorose anche per gli adulti, se si fanno da bambini, non si possono cancellare dalla memoria come un brutto sogno da dimenticare in fretta. Perché un segno lo lasciano. E duraturo.

Non so se ed in quale Camposanto esiste traccia della tomba dei genitori di Erminio Filippo, papà Innocente Pampuri e mamma Angela Camparidi. Non posso credere però che da quel 25 Marzo 1900, festa dell’Annunciazione, e per tanti anni ancora, mamma Angelina dal Cielo non abbia parlato al cuore dei suoi bambini, per un miracolo che Dio è lieto di concedere ai papà e alle mamme di tutto il mondo. Diversamente, cosa ci si andrebbe a fare al cimitero, per parlare con un « cinere muto » o per rimestar nelle ferite?

Immagino le tante volte che il piccolo Erminio, a piedi con zia Maria o con la domestica Carolina e in calesse quando veniva anche lo zio Carlo, un bel mazzo di fiori freschi appena colti, avrà fatto il tratto di strada che da Torrino, dove abitavano, conduce al cimitero.

E lo vedo andarci da solo, ormai più grande, quando il cuore si rassegna ma non dimentica ed ha bisogno di starsene lì, in solitudine, inosservato, a dialogare.

Scorgo i cipressi che svettano da lontano e sembrano toccare il cielo. Odo il rumore dei passi del piccolo Erminio che affondano nella ghiaia del viale, mano nella mano, quasi trascinato verso la tomba di famiglia dove riposano, lei per prima, madre di undici figli, morta di tisi quando Emilio aveva solo tre anni, e poi lui, morto in un incidente stradale quando il bambino ne aveva dieci.

Quegl’occhi belli d’ innocenza, attenti e spalancati più del solito, straziano il cuore dei visitatori che lo conoscono e penano per lui che posa di tomba in tomba il mesto sguardo, fin che dei suoi non trova il lungo del riposo e dell’attesa e incroci i loro sguardi nelle foto. Un bacio, una carezza, un Requiem intonato ad alta voce, mentre tutti si segnano.

Tre anni appena, la zia Maria gli prende la docile manina e gliela porta sulla fronte. Con voce tremula lo segna, prima di dare inizio al rito che si ripete in ogni cimitero: erbacce da strappare, andare a prender acqua alla fontana, rimuovere i fiori appassiti e ricomporre il mazzo floreale di taglio fresco di giardino.

E lui, piccino, attratto più dalla fiammella del lume ad olio, ricaricato e acceso per durare un giorno.

E loro che lo lascian fare, sperando di evitare le domande imbarazzanti. Che vengono lo stesso dopo le preghiere e i tanti baci impressi sulle foto:

“ Zia, perché?…Perché?…E dove sono? “, le chiede il bambino ingenuo dalle pure labbra. Scava senza pietà su quei destini, interroga, rovista nella mente della sua tutrice…Come potrebbe il cuore darsi pace senza una ragione?

Poi le risposte imbarazzate degl’accompagnatori, dure a venir fuori senza strozzarsi in gola e inumidire gl’occhi.

La zia Maria per prender tempo, cerca nella borsetta il fazzoletto bianco merlettato; si asciuga il naso, gl’occhi e poi si fa coraggio: “Nanin, sono andati in Paradiso…Gesù li ha presi e li ha portati via con sé…”
– E perché? E fino a quando? E dopo…?

CAMPOSANTO O DEL DOLORE INNOCENTE

Non si tratta di un luogo di terra ma di una dimensione dello spirito che ci si porta dietro ovunque. Ecco: è qui che avviene, di volta in volta, il grande impatto col dolore. Le scarpe non s’impolverano nella ghiaia perché le lapidi, come icone, riaffiorano nella mente che va in processione tra i filari di dormienti, li passa in rassegna, per poi fermarsi e sostare davanti alla zolla che più coinvolge il cuore e che racchiude un prodigio che è già ma non ancora:

« Se il seme di frumento non finisce sottoterra e non muore, non porta frutto. Se muore, invece, porta molto frutto. Ve l’assicuro. 25Chi ama la propria vita la perderà. Chi è pronto a perdere la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. 26Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io ci saranno anche quelli che mi servono. E chi serve me sarà onorato dal Padre ». (Gv 12, 24-26)

E’ da questo luogo geografico che Erminio entra in confidenza con l’altra dimensione. E’ qui che inizia la presa di coscienza del miracolo della Grazia che lo accompagnerà per tutti gl’anni, fino al giorno del ricongiungimento in Paradiso.

Voce del Maestro interiore, dello Spirito, dapprima confusa, indefinita e poi sempre più chiara col passar degl’anni, che gli sussurra le sole parole convincenti : Gesù non è quel “cattivo” che ruba i genitori ai bambini proprio quando hanno più bisogno di carezze che di pane.

Poveretti i grandi; si perdono davanti al dolore innocente, balbettano e non convincono nessuno, men che meno se stessi.

Ho voluto soffermarmi perché le biografie sorvolano sul fatto, come se non si trattasse di un tragico evento ma di una semplice disgrazia, punto e basta.

Mi piacerebbe chiederlo a Giovanni Paolo II che ha fatto la medesima dolorosa esperienza, se per caso quei ripetuti lutti in famiglia non gli abbiano segnato per sempre la vita.

Mi è più facile interrogare un ragazzo di nove anni più grande del Pampuri: il poeta Giuseppe Ungaretti (1888), combattente anche lui sul Carso, quando a Villavicentina e dintorni anche il nostro prestava servizio militare in sanità.

Quando Erminio era liceale, Ungaretti non era ancora entrato nei libri di letteratura. Lui che non ha potuto trovare sollievo nelle liriche del poeta, ha però trovato conforto e sostegno nelle pagine più robuste delle Divine Scritture.

A noi fa bene accostare entrambi i personaggi che esprimono sensibilità diverse in un comune destino di marcata sofferenza.

I lutti di due guerre, la seconda appena conclusa, hanno influito enormemente sullo spirito del poeta, che s’è fatto sempre più cupo e addolorato. E’ utile sentire questa voce che distoglie l’attenzione dalla ricerca della dimensione metafisica e si cala nuovamente nella tragica realtà della vita di tutti i giorni, angosciato dalla perdita del fratello e successivamente anche del figlio.

Egli assiste impotente allo sfascio e alla distruzione dello Stato Fascista nel cui grembo per molti anni si è sentito al sicuro, ed è costretto a prendere atto dell’orrore della sistematica deportazione in Germania di connazionali ebrei e dissidenti. Questi eventi lo sconvolgono. Perso il ruolo di poeta “ufficiale” all’interno delle istituzioni e sospeso dalla cattedra universitaria, Ungaretti viene colpito da un primo infarto. Come già era successo durante il precedente conflitto mondiale, il poeta si cala nel dramma – quello suo personale per la perdita del figlio e quello del popolo italiano – e riversa nel terzo libro di poesie tutto il dolore che percepisce dentro e intorno a sé.

Egli, come pochi, sa interpretare la tragedia della vita, anche per la sua sua indole: «Le mie poesie sono ciò che saranno tutte le mie poesie che verranno dopo, cioè poesie che hanno un fondamento in uno stato psicologico strettamente dipendente dalla mia biografia; non conosco sognare poetico che non sia fondato sulla mia esperienza diretta» (Da Vita di un uomo p. 511). E come afferma in un’intervista televisiva: Il Dolore fu scritto piangendo. «Il dolore è il libro che di più amo, il libro che ho scritto negli anni orribili, stretto alla gola. Se ne parlassi mi parrebbe d’essere impudico. Quel dolore non finirà più di straziarmi» (Vita di un uomo p. 543). Pubblicata nel 1947, la terza raccolta di Giuseppe Ungaretti, attraverso questa serie di liriche strazianti, ci è dato di cogliere il vero dolore del poeta.

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Pubblicata nel 1947, la terza raccolta di Giuseppe Ungaretti, attraverso questa serie di liriche strazianti, ci è dato di cogliere il vero dolore del poeta.

Da Giorno per giorno

Da Roma occupata.

È stato scritto che questa è la poesia più accorta e più religiosa, nella quale al dolore personale Ungaretti trasfonde l’angoscia del popolo romano per l’umiliante ferita delle deportazioni, dove si fa più drammatica e tesa la sua confessione di fede. Ecco i bellissimi versi di questa tensione sacrale:

Che si rafforza ulteriormente nella terza parte della lirica:

Il giudizio critico di Attilio Cannella:

Da I ricordi

La poesia più paradossale ed ermetica è Non Gridate più, in cui il poeta invoca di rispettare i morti e di cessare la guerra.

« La forza degli imperativi non è quella del comando », ha scritto Guido Baldi.E’ invece un pregare vibrante e dolente che appartiene anche a Fra Riccardo. Egli non va in convento a battere in ritirata ma trascinandosi dietro il carro delle immagini della guerra, della miseria contadina della sua gente, dei valori della solidarietà e della pietà dei suoi di casa e della comunità ecclesiale.

Egli non ha la voce possente e persuasiva di poeta per gridare al mondo di superare odi e divisioni di parte di cui è insanguinata la vita politica e civile dell’Italia, indirizzata verso un secondo conflitto mondiale, senza aver appreso la precedente. Suo fratello è uno dei tanti, tantissimi caduti, cui è stato chiesto un sacrificio davvero inutile.

Ma la vita continua e va difesa, salvata. E Fra Riccardo lo fa raccogliendosi nel silenzio di un Convento-Ospedale. Tra un letto di corsia e l’altro o nella penombra della chiesa, ascolta le voci di ieri ed i nuovi lamenti. Epperò il suo orecchio ormai è sempre più teso a cogliere “l’impercettibile sussurro”, quel lieve mormorio come di vento, che è la voce dello Spirito. E si fa condurre per mano e sostenere nella faticosa salita di agnello mansueto, candidato all’immolazione amorosa, per un misterioso disegno di Dio.

Angelo Montonati, nell’ammettere che quella di Erminio è stata un’adolescenza difficile per la successione dei lutti in famiglia, scrive che non serve scomodare Freud. Benissimo. Allora, poiché il Dr. Pampuri non è stato chiamato a scrivere la teologia del dolore innocente, ma a viverla nella sua carne, non certo nella forma di motuleso ma in quella non certo meno atroce di corpo straziato dalla tisi e, prima ancora di cuore trafitto dalla spada dei lutti, perché non scomodare un altro coetaneo del Pampuri, di soli cinque anni più giovane di lui?

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Intendo dire Don CARLO GNOCCHI (25/10/1902-28/02/1956).

Parlando di lui, Antonio Sicari scrive: “Nessuno può pretendere di spiegare a un bambino innocente perché soffre, ma è triste che nessuno gli spieghi per Chi soffrire e con Chi soffrire”.

E Don Gnocchi, che ha fatto la guerra in prima linea con gli alpini e che sul fronte insanguinato e popolato di infiniti lutti ha maturato l’idea di dedicare la vita al dolore innocente, ha passato i suoi giorni a spiegarlo. Ora, chi meglio di lui può aiutarci a districare questa ingarbugliata matassa ?

Egli in questo campo è stato precursore e maestro: “La pedagogia del dolore tende innanzitutto a insegnare ai bimbi che il dolore non si deve tenerlo per sé, ma bisogna farne dono agli altri e il dolore ha un grande potere sul cuore di Dio, di cui bisogna avvalersi a vantaggio di molti”.

Lui chiedeva ai mutilatini di offrire il dolore per la conversione del babbo, per un missionario lontano, per la fine di una guerra, per un delinquente, per le intenzioni del Papa.

Era dell’idea che nella Messa le nostre sofferenze vanno presentate a Gesù e mescolate con le Sue come le gocce d’acqua nel vino.

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Fra Riccardo che potrà dire sul letto di morte: “L’ho amato tanto e tanto lo amo“, è un’anticipata conferma delle tesi di Don Gnocchi. Con la perdita di mamma e babbo, egli ha ricevuto la visita-adozione del “Dulcis hospes animae, dulce refrigerium”, di quell’ ”Ospite dolce dell’anima, dolcissimo sollievo” che lo è per chi non vi frappone il rancore.

Egli non ha esitato ad aprire a Colui che sta alla porta e bussa ed è iniziata la Cena che ormai s’è fatta dimora stabile nell’Ottavo giorno senza tramonto: « Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta io verrò da lui cenerò con lui ed egli con me » (Ap. ,20-22).

Va dato merito alla sua famiglia adottiva ed anche alla sorella, suor Maria Longina, che le ha fatto anche da mamma prima di partire per la missione al Cairo e ancor da là, con la corrispondenza, se Erminio ne è uscito senza grossi traumi. Non ci è dato disapere come ha sublimato questo suo dolore segreto, ma è indubbio che ha saputo valorizzarlo.

Indubbiamente non ha capito subito perché si deve soffrire ma il « per Chi soffrire e con Chi soffrire » lo ha imparato molto presto, per un dono che viene dall’alto. In fondo questa era l’inaspettata sua vera vocazione.

Se si pone ben attenzione a questo ragazzo, si scopre che, come Teresa , è il frate della debolezza, accolto in convento nonostante la nota sua gracile salute. Chi lo ha ammesso, ha profeticamente intuìto che egli aveva qualcosa d’importante da dire e da dare ai suoi fratelli e al mondo intero.

Proviamo a fissarlo ora in questa foto da religioso postulante:

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Il dolore è scritto sul suo viso scarno, emaciato. Una pleurite presa sul fronte del Piave, lentamente lo consuma come una candela, fino ad annientarlo.

Cos’ha da dire al mondo un ragazzo « stroncato« , riuscito a metà, seppur con una laurea di successo in medicina e chirurgia (110 e lode) ?

Cos’ha da dire un serio professionista, medico condotto, ma che si ritrova, di fatto, impotente e crocifisso da una pleurite buscata per un’impresa di generosità al fronte, che poi degenera e non gli darà tregua, fino a schiantarlo a 33 anni?

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Gli è che Fra Riccardo, quest’arancia matura e succosa, pronta per essere spremuta, ha posto la sua vita sotto il segno della Croce e per questo è diventato sapiente. Di una sapienza che non ha finito di sprigionarsi ancora, là, sulla sua tomba a Trivolzio di Pavia.

Nei primi giorni della nuova vita scriveva: «Mi appoggerò al Suo SS. Cuore, mi metterò sotto la sicura protezione delle ali del suo infinito amore ed Egli mi prenderà per mano… e mi condurrà sicuro oltre ogni scoglio nel porto della salute» (23 agosto 1927).

Il Camposanto, con il suo simbolico linguaggio, fin da bambino lo ha instradato sulla Gerusalemme-Gerico, a fare l’esperienza di entrambi i ruoli: di samaritano e dello sventurato che misteriosi ladroni lo hanno reso per anni « un morto che cammina ».

IL PROVOCATORE

Quella del Pampuri è una morte annunciata che risuona come una provocazione profetica per il suo ed il nostro tempo. Sul Catechismo dei Giovani (CEI) si legge: « Non è infatti il patire, che Gesù ha cercato camminando incontro alla sua morte, ma l’obbedienza a Dio, la verità e l’amore per l’uomo. Se questa ricerca lo ha condotto al Calvario, non è in esso che egli riconosce il termine del suo cammino. La croce per Gesù è soltanto il prezzo della fedeltà e dell’amore » (p.149).

Il Card. Martini commenta: « Se poi l’obbedienza è il nome che assume la propria risposta alla vocazione del Padre, come la croce nella luce della Pasqua ci chiama alla comunione dell’obbedienza di Cristo, così la sofferenza può presentarsi – lo dico con tremore – come una vocazione, cui Egli chiama ».

Nel caso del Pampuri, non è più il caso di tremare: la chiamata c’è stata e la risposta immediata e generosa: eccomi!

Alle lacrime degli innocenti nessuno di noi sa dare consolazione. Fra Riccardo è stato chiamato a parlare con la vita per i sofferenti di questo mondo che si era scrupolosamente preparato a servire al meglio. Il suo quarto voto di ospitalità ha trovato il suo pieno significato, fino a tramutarsi in carisma, proprio prendendo parte alle sofferenze che intendeva combattere e debellare, diventando così un annunciatore credibile della compassione divina. Ciò gli permette di esortarci anche oggi alla compassione umana.

Chi ha lacrime da versare, trova in lui un contenitore. Oggi, il suo ruolo di frate dell’ hospitalitas è di presentarle al trono di Dio.

Elevato agli onori degli altari, posto al centro, ci fa capire che il centro non è la sua persona, ma CRISTO, che egli solo rappresenta. Viene a dirci, come lo stesso Papa Giovanni Paolo II che lo ha proclamato santo, « mi glorio della mia debolezza« . (2 Cor 12,10)

Nessuno di noi è chiamato a costruire qualcosa per se stesso, non siamo noi a costruire la Chiesa universale: la forza viene da un’altra parte. A noi, l’esortazione dell’Apostolo che fra Riccardo ha preso alla lettera: « Per conto mio mi prodigherò volentieri, anzi consumerò me stesso per le vostre anime. » (2 Cor 12,14)

Se fosse andata diversamente, l’astio verso Dio avrebbe potuto cambiargli l’esistenza e, forse, non saremmo qui a parlarne.

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Da quelle ripetute visite di Erminio al Camposanto, come per incanto, è maturato un Santo per il Campo di Dio-la Chiesa: Fra Riccardo Pampuri.

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