Carissimi confratelli, con questo documento, dal titolo «L’ospitalità dei Fatebenefratelli verso il 2000», intendo continuare il cammino iniziato con le precedenti riflessioni: «Le basi del rinnovamento» e «L’umanizzazione».
PRESENTAZIONE
Rinnovamento, fonte di consolazione
l. La prima riflessione nasceva dal profondo bisogno di cambiamento interiore avvertito da tutti come urgente per mantenere profeticamente orientata la nostra vita spirituale. In quel documento era chiaramente espressa la finalità di rinnovarsi continuamente in modo da non perdere i contatti con Dio, la Chiesa e San Giovanni di Dio. Il nostro rinnovamento è così diventato qualcosa di tangibile, fonte di autentica consolazione.
2. Nel secondo documento, con l’apporto prezioso del Consiglio Generale, ho cercato di richiamare l’attenzione di tutto l’Ordine e dei collaboratori laici sullo scopo ultimo della nostra azione: il rapporto, umano e umanizzante, con il malato; rapporto basato sulla consapevolezza che la testimonianza del nostro carisma non si realizza se si perde di vista la figura centrale del nostro operare quotidiano, cioè il bisognoso, l’uomo che soffre, il povero: il nostro «essere» e «fare» per lui, il nostro rapporto con lui personale, oltre che professionale, rappresentano infatti un fattore terapeutico e allo stesso tempo una testimonianza di amore misericordioso, una riedizione vivente dell’amore di Cristo nel nostro tempo e della sua passione per i più bisognosi.
3. Il presente documento, che trae ispirazione dai fermenti che le Province dell’Ordine esprimono, si colloca dunque idealmente a metà strada tra i primi due in quanto cerca di colmare lo spazio esistente tra la nostra dimensione interiore di persone e di religiosi e l’atteggiamento di umanità che il malato oggi si aspetta da noi con sempre maggiore insistenza.
Porre mano al nostro futuro non per paura, ma per amore
4. Sono pagine, queste, scritte guardando al 2000, con quel senso del futuro che noi dobbiamo coltivare per offrire ai bisognosi di oggi e di domani l’essenza del nostro carisma specifico: l’Ospitalità. Si tratta allora di rafforzare la nostra identità di uomini, di religiosi, di operatori nel mondo della salute non solo per mantenere viva la nostra istituzione, ma soprattutto per proiettarla nel futuro, in modo da rispondere adeguatamente alle esigenze della società in cui siamo e saremo chiamati ad operare, avendo di mira il bene supremo della vita umana, alla quale sempre meno ci si riferisce secondo principi di rispetto, di attenzione, di premura e di conforto. Inoltre, queste pagine contengono più di una provocazione affinché, con il supporto delle nuove Costituzioni, ognuno di noi si senta spinto ad assumere con coraggio ruoli e compiti più congeniali alla nostra peculiare caratteristica di religiosi «ospitanti».
5. Nel continuare il dialogo con i confratelli, non pretendo di fissare tali ruoli, piuttosto miro a stimolare (ove occorra, in maniera radicale) l’analisi critica dei nostri comportamenti, delle nostre collocazioni professionali, del nostro rapporto con la comunità in cui l’obbedienza ci ha destinati, con le comunità delle singole province e con il Governo centrale dell’Ordine; senza ovviamente trascurare il rapporto con i collaboratori laici e con le complesse realtà in cui siamo immersi. E ciò con spirito di fiducia, in una prospettiva di creatività dettata dall’amore del prossimo, non dalla paura del futuro.
6. Ho cercato di dialogare con voi come chi ha bisogno di reciprocità nel confronto delle opinioni, in un’atmosfera di confidenza. Con tale animo vorrei ci preparassimo ad affrontare, sinceramente e gioiosamente la ricerca, mai esaurita in noi stessi, del modo migliore di essere e di agire; ricerca non fine a se stessa, ma orientata alla valorizzazione ottimale di quel voto di Ospitalità che ci costringe a pensare, sperimentare, comunicare fra di noi tutto ciò che serve per realizzarlo nel modo più completo. In altre parole, ad ad ammalarci della malattia dell’uomo, nostro fratello.
7. La domanda di fondo è questa: come il Fatebenefratello può prepararsi a svolgere, in vista del 2000, la missione misteriosa e storica di accogliere l’uomo ‑in particolare l’uomo bisognoso– di questa società?
Qui chiamiamo in causa i nostri «giacimenti» interiori, le nostre Costituzioni, le nostre abitudini professionali e religiose e la nostra fantasia per inventare, attingendo al tesoro delle nostre tradizioni, le soluzioni adatte ai tempi, per riscoprire quei compiti di «servizio» (non di potere, di prestigio o di pura e semplice realizzazione personale) che soli ci consentono di chiamarci Fatebenefratelli, ovvero fratelli che si preoccupano di fare del bene al prossimo.
8. Il buon esito della ricerca dipende da noi, dall’impegno che porremo nel guardare avanti senza negare il presente o il passato, accettando il gravoso ma esaltante compito di interrogarci in modo schietto e sincero su ciò che stiamo facendo e dovremo fare per essere coerenti con la nostra identità di uomini e di religiosi.
Sono fermamente convinto che il raggiungimento del nostro fine specifico (testimoniare l’amore misericordioso) richieda una serie di impegni che sono sovente gravosi e scomodi, ma che d’altra parte ci danno la misura dello spazio che si apre ai Fatebenefratelli nel mondo contemporaneo, soprattutto in quello industrializzato e tecnologizzato. Un campo smisurato ‑contrariamente a quanto alcuni pensano‑ che, se addirittura a volte ci spaventa, ci fa però toccare con mano l’attualità, anzi l’urgenza del nostro carisma e della nostra Istituzione.
9. Cari confratelli, come vostro Generale avverto in certi momenti le incognite del presente: non perché ci sia poco da fare, ma perché non siamo sempre adeguatamente preparati a dare le risposte che la Chiesa si aspetta da noi. Mi preoccupa il nostro star fermi, il nostro ripiegarci talvolta su posizioni di comodo, di sicurezza o di malintesa rassegnazione. Eppure sappiamo che il messaggio evangelico mantiene intatta la sua forza suscitatrice, la sua capacità di infiammare anime generose. E mai come oggi l’uomo ci interpella, chiedendoci di occuparci della sua persona, di stare al suo fianco per testimoniargli qualcosa che è tipico del nostro essere religiosi, cioè la capacità di «ammalarci della sua malattia», di identificarci non solo coi suoi bisogni, ma soprattutto con le sue motivazioni esistenziali, col suo desiderio inappagato di felicità (e quindi di Dio). Oltre al tetto di un ospedale e alla nostra professionalità ‑che non devono mancare ai livelli più dignitosi‑ questo dobbiamo saper dare al malato: se non lo faremo, lo deluderemo definitivamente e irrimediabilmente.
I nostri ruoli, i nostri compiti, la nostra passione verso l’uomo, le nostre tentazioni
10. Nel tentativo di mettere in luce i ruoli e i compiti mediante i quali realizzare nel prossimo futuro l’Ospitalità dei Fatebenefratelli, possiamo individuare due tentazioni ricorrenti. La prima è quella di ritagliarci un posto, una nicchia, nella quale svolgere un mestiere o una professione, magari in competizione con i confratelli o (soprattutto) con i laici. La seconda, più sottile e maligna, ci spinge a delegare al numeroso esercito dei nostri preziosi collaboratori laici i compiti di assistenza al malato, a prendere cioè le distanze dalle vicissitudini del nostro assistito. Questa tentazione è molto più evidente là dove i progressi delle scienze e delle tecniche hanno raggiunto livelli elevati, oppure dove, per ragioni di buon funzionamento del complesso sistema delle nostre opere, il processo di delega e di razionalizzazione dei ruoli è indispensabile. Ma ove delegare significasse abbandonare le strutture a se stesse o addirittura abbandonare il malato, allora dovremmo rivedere con estrema chiarezza i nostri modelli di comportamento, per impedire che i mutamenti organizzativi e tecnologici si trasformino per il malato nella trappola dell’anonimato, della efficienza pura e semplice, condannandolo all’isolamento-abbandono in ambienti certamente razionali, ma freddi e scostati dal punto di vista umano.
11. Non è certo questo che ci proponemmo di realizzare nel giorno della nostra solenne professione, emettendo il voto della Ospitalità. Nessuna garanzia ci fu sottoscritta allora circa la sicurezza del posto di lavoro né circa il controllo a distanza del malato e dei nostri collaboratori. Abbiamo promesso fedeltà al nostro carisma che ci obbliga a mutare gli atti, i ruoli, gli atteggiamenti, le strutture, ma non a rinunciare alla passione verso i nostri assistiti, verso i familiari del malato, verso i collaboratori, nonché all’impegno per le iniziative culturali, formative, religiose e sociali atte a favorire la crescita personale, religiosa, professionale in noi, nei nostri collaboratori e nel mondo della sanità.
Come Padre Generale –lo ripeto– non ho la ricetta per definire i ruoli presenti e futuri, anche perché questi si possono precisare solo mediante un attento esame di noi stessi, alla luce dei fini ultimi del carisma ospedaliero. Ma tutti noi dobbiamo dedicare tempo e impegno per una verifica dei nostri attuali comportamenti.
12. Ho parlato di due principali tentazioni. Ma ce ne sono altre. Quella, ad esempio di mantenere o di desiderare incarichi per i quali non possediamo la competenza; o quella di puntare ad un alto livello organizzativo e tecnologico dei nostri ospedali non avendo sempre ben chiari i nostri fini specifici. La gente ci guarda con occhio attento, ci scruta, vuol capire per quale motivo ci siamo fatti religiosi. Non sempre riusciamo a dar loro una risposta convincente. Talvolta non siamo esemplari perché eseguiamo male i nostri compiti, facciamo solo le cose che ci piacciono, blocchiamo la crescita dei collaboratori, oppure restiamo lontani dal malato, ci chiudiamo in ruoli rigidi e ripetitivi, cerchiamo «fuori» spazi che, dovremmo trovare «dentro» o evitiamo l’arduo ma necessario lavoro di ricerca di ruoli più utili al malato. Siamo più spesso capaci di cogliere il male del mondo (a volte lo troviamo anche nel progresso, in cose di per sé neutre o buone) che di individuarlo dentro di noi, non già per deprimerci o per colpevolizzarci, ma per risollevarci dal torpore e dalle abitudini dannose.
13. Nessuno ovviamente nasce santo. Il cammino della perfezione spirituale è esaltante ma lungo, faticoso, costellato di deviazioni che toccano la nostra realizzazione umana, professionale e religiosa. Occorre correggere tali deviazioni e riconoscere i propri errori, da uomini forti, coraggiosi, autenticamente aperti al mistero. Questo atteggiamento di sana autocritica ci spinge da un lato ad attingere alle nostre risorse, dall’altro a chiedere aiuto a tutti, a Dio e agli uomini che ci sono vicini, per riequilibrare il rapporto col mondo che noi vogliamo e dobbiamo servire, per crescere nella nostra vera identità.
I. IL CAMBIAMENTO DEL MONDO E LA NOSTRA CECITÀ
Un paradosso: non fare niente
14. Cito da un noto volume di padre Bartolomeo Sorge «Il futuro della vita religiosa»: «La crisi attuale della vita religiosa ‑come del resto la crisi più generale che la Chiesa attraversa‑ non è nata dall’interno, come era avvenuto altre volte, ma è stata indotta dall’esterno, dal trapasso di cultura e di civiltà che il mondo sta vivendo…
La crisi è arrivata all’improvviso da una rapida trasformazione sociale e culturale… La nostra quindi non è una crisi da infermità, ma di sviluppo e di crescenza… In questi ultimi anni è finita una civiltà, un certo tipo di ideologia, sono cambiati totalmente i rapporti di autorità, si sono trasformati ruoli e strutture consolidati da decenni, modi di comunicazione e di esercizio del potere. L’uomo stesso ha un diverso atteggiamento verso il mondo, la storia, i propri simili, l’organizzazione del sapere, verso la vita stessa. Noi siamo stati travolti da questi mutamenti, il mondo sta diventando sempre più piccolo, più dinamico, più socializzato».
La diagnosi è fedele. E noi ci troviamo sovente costretti a decidere in un clima di delusione perché non siamo riusciti a collegare il vecchio col nuovo, coi bisogni emergenti, con la sete di libertà, di conoscenza e di solidarietà di molti strati della nostra popolazione.
15. Il mondo odierno non è né migliore né peggiore di quello di ieri: è solo cambiato, persino sconvolto. Se lo vogliamo servire, è questo mondo che dobbiamo assumere e conoscere. In fondo la crisi è salutare poiché ci permette di salvare ciò che va salvato e di gettar via ciò che va scartato. Ma abbandonare vecchi ruoli è tanto più difficile quanto più essi hanno preso posto nel nostro essere, impoverendo la nostra personalità e la nostra dimensione di religiosi, cioè le sue radici dei nostri modi d’agire.
16. Gettare il vecchio però non significa correr dietro alle mode. Occorrono discernimento ed equilibrio, perché può nascere una situazione di incertezza: ci si chiede infatti se dobbiamo andar tutti in missione, intraprendere iniziative che facciano colpo sulla società, o divenire tutti animatori magari senza sapere di che cosa, di chi, come e perché. Spesso non troviamo la risposta ai nostri interrogativi. La prima cosa da fare, quando ci troviamo in questa condizione di smarrimento, o peggio ancora di rassegnazione o di apatia, paradossalmente è proprio quella di «rinunciare a fare ». Ovvero sia: prima di agire e di assumere nuovi ruoli, dobbiamo fermarci per riflettere a lungo sulle nostre paure, sui nostri desideri, sulle nostre possibilità, sui motivi per i quali ci siamo fatti religiosi, sugli insegnamenti del nostro Fondatore e della Chiesa, sulle esperienze dei credenti laici. Fermarci per interiorizzare, per «rientrare in noi stessi» secondo l’indicazione di S. Agostino.
Abbattere i campanili o comprenderne meglio il senso?
17. Il documento sulla «Umanizzazione» incoraggiava a recuperare la «personalizzazione» del rapporto con l’assistito in un contesto sociale profondamente mutato.
La storia del nostro Ordine si identifica con l’immagine di S. Giovanni di Dio e dei suoi seguaci che si prendono sulle spalle il malato, il derelitto, il bisognoso. Per secoli i nostri predecessori hanno assistito, e in prima persona, chi si trovava nella sofferenza. Allora non esistevano altre strutture di soccorso: l’Ospedale religioso era una «sicurezza», perché vi si ottenevano un tetto, cibo, cure e assistenza. Oggi ci troviamo di fronte a una situazione profondamente cambiata, che si caratterizza ‑come accennavo prima‑ per l’affievolirsi del rapporto diretto ed esclusivo col malato. Se pensiamo a come era un nostro Ospedale appena 40 anni fa, vengono subito alla memoria i malati (tanti e riconoscenti) quasi timorosi di chiedere il nostro intervento; comunità di religiosi dal numero oggi impensabile, con i confratelli impegnati nelle mansioni più varie: farmacista, cuoco, infermiere giardiniere. Somigliavano, le nostre opere, ai villaggi di un tempo, autosufficienti grazie ai ruoli ben distribuiti. I medici erano scarsi, ma la gente si fidava di noi: interi reparti erano gestiti da noi o da religiose. Il mondo dell’Ospedale, diciamolo, era nelle nostre mani. Il personale esterno aveva sì un proprio ruolo, ma subalterno e non interferiva nella nostra attività. Il mondo della sofferenza e della miseria era quasi completamente staccato dalla comunità civile; e in questo mondo molti di noi si sono formati da giovani, lavorando duramente, in condizioni di estrema precarietà di mezzi, ma con la grande soddisfazione di toccare, «odorare», sentire ogni giorno il malato, dal quale nessuna barriera li separava.
18. Così accadeva per altre categorie professionali. Pensiamo al medico di quegli anni. Era un professionista di prestigio, dotato di un ascendente sulle famiglie impensabile al giorno d’oggi; tant’è vero che c’è della nostalgia per quel tipo di medico, che esercitava il suo ruolo senza filtri, con l’aiuto semmai di qualche specialista. La gioia e la sofferenza della famiglia assistita erano le sue, in un clima di profonda fiducia e di reciproca comunicazione. Così era anche per il parroco, la cui autorità era indiscussa: deteneva il sapere religioso, spesso la cultura più avanzata, e non era quasi mai messo in discussione nel suo ambito di apostolato. Il campanile, a fianco della chiesa, chiamava i fedeli alle sacre funzioni, ritmava gli eventi gioiosi e tristi del villaggio… fungeva da parafulmine, da osservatorio, era in ogni caso un sicuro punto di riferimento.
19. I tempi oggi sono cambiati. Dovremo allora abbattere i campanili perché oggi la gente ha l’orologio al polso? Oppure dobbiamo toglierci gli orologi per permettere al campanile di continuare a svolgere le antiche funzioni?
Non è questa la domanda che dobbiamo porci. Chiediamoci piuttosto quale sia il ruolo autentico del campanile, quello per il quale l’uomo di fede l’ha eretto accanto alla chiesa: farsi vedere da lontano, più che farsi sentire. Il campanile esprime il desiderio dell’uomo di unire la terra al cielo, l’uomo a Dio, la natura al Creatore. È per l’uomo il più originale richiamo, alla sua origine, al suo destino, a Colui che è nei cieli. Anche se non è più l’edificio più alto, sorpassato com’è spesso da orgogliosi grattacieli, esso rimane e rimarrà sempre simbolo di un annuncio, di una presenza che rimanda alla «Presenza».
Stare in ascolto dell’uomo
20. Per tornare a noi, cari confratelli, è vero che abbiamo seguito in parallelo il destino del medico, del prete e del campanile, perdendo numerose funzioni che qualche anno fa ci sembravano indispensabili, ma ciò non significa che dobbiamo scomparire. Noi possiamo, anzi dobbiamo vivere e testimoniare il nostro carisma, con modalità diverse rispetto al passato. Il medico, il prete, il campanile hanno ancora molto da dire e da fare, purché esprimano qualcosa di perenne e di fondamentale per l’umanità, cioè il valore della sacralità dell’uomo. Dice Giovanni Paolo II: «È la disponibilità a servire l’uomo che ci apre verso Dio e verso gli uomini, verso il Creatore e verso le creature. Il Concilio ci insegna proprio questo, nello spirito del Vangelo e insieme nella dimensione dei tempi in cui viviamo» (21 ottobre 1985).
21. Nel nostro tempo, e ancor più nel futuro, i nostri compiti saranno sottoposti a verifiche e a mutamenti anche radicali. Ma resterà l’essenza del carisma. Il compito più congeniale a noi e più gratificante è quello di stare vicino al malato e di assisterlo, con una vigilanza intensa e diretta. Ciò va ancora oggi assicurato al malato, nello spirito del nostro Fondatore: solo che questa assistenza, che noi chiamiamo integrata, non può più essere svolta compiutamente da singole persone, mediante il ricorso a singole professioni. Il concetto stesso di assistenza integrale ed integrata richiama una pluralità di funzioni perché, col passare dei secoli, dai bisogni elementari dell’uomo si è passati a bisogni molto più articolati, esigenti uno stragrande numero di risposte, e quindi di figure professionali. Il risultato è che noi non abbiamo più l’esclusiva del malato, né il diritto di imporgli dall’esterno la nostra concezione religiosa della vita. Ma c’è di più: il malato di oggi ha a sua disposizione una gamma di risposte terapeutiche ed assistenziali impensabili fino qualche decennio fa. In alcuni Fatebenefratelli questo progresso ha generato delle frustrazioni, addirittura la sensazione di sentirsi inutili. È doloroso constatare come alcuni di noi reputino non più interessante lavorare con l’uomo di oggi, come se quest’uomo fosse meno angosciato, meno solo, meno bisognoso, meno meritevole del nostro impegno che quello di ieri. Al contrario, arrivo a dire che anche se il Fatebenefratello dovesse abdicare a tutti i suoi compiti professionali, egli svolgerebbe ugualmente con la sua presenza, la sua bontà e letizia e con il suo stile di vita la propria missione, testimoniando la sacralità dell’uomo e l’amore di Dio per l’uomo, secondo il suo carisma specifico, nelle forme adeguate ai tempi.
22. Ha detto recentemente Giovanni Paolo II: «San Tommaso, commentando il trattato aristotelico sull’anima afferma nettamente: l’uomo è totalità dell’essere (De Anima, III, Lez. 13), racchiude in sé un’infinita profondità dell’essere, immagine dell’Infinito per essenza che è Dio stesso. Vorrei imprimere profondamente nell’anima e nel cuore di tutti questa grandiosa concezione dell’uomo, pensando alla quale fin dal primo giorno del mio ministero pontificale ho esclamato: con quale venerazione dobbiamo pronunciare questa parola: uomo».
E non è, il nostro, il tempo dell’attenzione, dell’ascolto, del rispetto, della promozione della libertà degli uomini, della loro identità, delle loro motivazioni?
23. Star vicino al malato di oggi richiede comportamenti tecnici, morali, umani, sociali, religiosi che nessuno di noi può svolgere da solo. Ciò implica una nostra crescita, vorrei dire una dilatazione, nel nostro modo di vivere, di operare, di servire il mondo: è l’uomo che si rivolge a noi, per chiederci qualcosa di più, quel qualcosa che ha modificato totalmente non solo i nostri ospedali, ma anche la quantità e la qualità dei collaboratori laici. Questo stesso uomo ci costringe a delegare compiti, a lavorare in gruppo, a studiare, ad approfondire, a uscire dalla routine, dai nostri schemi mentali. Egli non ci chiede di essere più bravi come infermieri, come amministratori, ma ci chiede di essere attenti totalmente disponibili ad «ospitare» la sua intera umanità, la persona nel suo insieme, a capire e saziare la sua sete di premura, perché mai come oggi l’uomo ‑ricco di soldi‑ è povero di rapporti umani, sinceri, disinteressati.
Trasmettere il profumo della sacralità dell’uomo
24. Miei cari confratelli, quando sento alcuni di noi lamentarsi a causa della perdita del rapporto diretto ed esclusivo col malato mi domando cosa penserebbe il nostro Fondatore nel vedere il nostro malato seguito da più persone, fornito di medicine, di spazi decorosi, di strutture accoglienti… Certamente sarebbe soddisfatto constatando la presenza di tutto ciò che, in fondo, egli stesso già cercava secoli fa, quando bussava alle porte dei ricchi e dei potenti per ottenere aiuto da distribuire ai malati di allora bisognosi di tutto. Giovanni di Dio ci stimolerebbe però a identificare i diseredati di oggi negli handicappati, negli anziani, nei tossicodipendenti e nei poveri. Ed eventualmente ci rimprovererebbe non per il nostro essere meno vicini al malato, ma perché accanto ad una «vicinanza tecnica» talvolta non esiste in noi e nei nostri collaboratori che ruotano intorno al malato la «vicinanza umana». S. Giovanni di Dio ci ha lasciato in eredità la passione per il bisognoso, che si esprime non solo standogli vicino fisicamente, ma ispirando, sorreggendo, illuminando quanti (collaboratori laici, familiari ecc.) operano attorno a lui, perché a loro volta, con l’intelligenza del cuore oltre che della mente, sappiano testimoniare la speranza, la fiducia, l’amore verso il prossimo.
25. L’ospitalità del futuro potrà cambiare ancora molto, nelle sue forme esteriori, ma non dovrà mai venir meno la nostra capacità di testimoniare il messaggio evangelico dell’amore, definito nuovo dal Signore Gesù (cf. Gv 13, 34). La prima sua novità è l’unione dei due comandamenti. «La carità affonda le sue radici in una dedizione senza riserve a Dio: tutta la persona con le sue doti, i suoi progetti, le sue capacità operative deve affidarsi alla volontà di Dio, al progetto di amore che Dio ha sugli uomini. La manifestazione visibile e dinamica di questo affidamento è la dedizione a ogni uomo, considerato come un fratello, un prossimo, un altro se stesso» (Card. C.M. Martini).
Non si possono separare o ridurre i diversi aspetti di quell’atto unitario che è la carità. Se dovessimo privilegiare qualche nostra prospettiva ristretta, perderemmo di vista gli immensi orizzonti dischiusi dallo sguardo di Gesù.
26. La seconda novità del messaggio è la sorprendente e rivoluzionaria concezione del prossimo (cf. Lc 10,29‑37). Per Gesù Cristo il prossimo non è colui che ha già con noi rapporti di sangue, di affinità psicologica o di bisogni che noi possiamo soddisfare. Prossimo diventiamo noi stessi nell’atto in cui, davanti a un uomo ‑anche davanti al malato o al bisognoso che non si conosce‑ decidiamo di fare un passo che ci avvicina, ci «approssima» a Lui.
Perciò tutto consiste nel «farsi prossimo», come afferma il Cardinal Martini nella sua bella lettera pastorale (1985-1986). Il nostro Riccardo Pampuri non è ricordato perché strappava denti piuttosto che curare handicappati, ma perché ‑pur svolgendo lavori semplici ed umili‑ la sua persona emanava il profumo di Dio. Profumo che egli aveva saputo coltivare dentro di sé con lo studio, con la preghiera, la capacità di ascolto dell’uomo del suo tempo, nel luogo in cui viveva, mai dimenticandosi di essere prima di tutto un testimone, un portatore di luce, oltre che un operatore e un tecnico.
27. Miei cari confratelli, dal Pampuri impariamo la lezione che il primo e autentico nostro ruolo è quello di puntare alla nostra santificazione personale, indipendentemente dal fatto di esercitare questa o quella professione. Il ruolo professionale, se ci sarà, manifesterà e darà pienezza all’umanità della nostra persona. Se coltiveremo in noi ‑attraverso un lungo lavoro di elaborazione interiore‑ questa dimensione del divino e la diffonderemo intorno a noi per la salute dei nostri malati, riuscendo a «contagiare» dello stesso spirito i nostri collaboratori, i familiari e la gente che vive intorno alle nostre opere, allora avremo assolto il compito che ci spetta, quello di testimoni e quello di guide morali prima ancora che tecniche.
II. APRIRSI ALLO SPIRITO SANTO
28. «La nostra apertura allo Spirito, ai segni dei tempi e alle necessità degli uomini ci indicherà come dobbiamo incarnarlo creativamente in ogni momento e situazione».
La citazione tratta dalle nuove Costituzioni ci aiuta non solo a comprendere su quali basi compiere le nostre scelte di ruolo, ma anche a delinearne le conseguenze «pratiche» per essere aperti al Tempo, all’Uomo.
Aprirsi all’energia dello Spirito
29. Durante una meditazione, mi ha colpito il pensiero di uno psicanalista che annota: «Io sono sempre stato toccato, nella lettura della Bibbia, dalla figura dello Spirito Santo». Questo slancio, questa forza vitale ‑se vogliamo definirla così‑ è l’eredità lasciata da Cristo agli apostoli, è la vita trasmessa agli uomini dalla Vita stessa. Prima di riceverla, i discepoli hanno dovuto percorrere numerose tappe: una lunga dipendenza dal Maestro, accompagnata da tutta la gamma dei sentimenti umani (ammirazione, risentimento, gelosia, ecc … ); la caduta delle illusioni narcisistiche lungo il cammino, unita alla perdita della sicurezza del potere; la separazione finale, vissuta nei suoi aspetti dolorosi (la morte di Cristo) come in quelli esaltanti (la resurrezione e l’ascensione).
E solo alla fine di un simile percorso ‑mi preme sottolinearlo‑ che l’uomo si appropria di se stesso, diventa davvero persona, e riconosce la divinità «dentro» di sé sviluppando senza timore tutti i suoi talenti. «Tutti furono pieni di Spirito Santo e cominciarono ad esprimersi in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi»(At 2, 4).
30. Se dall’interessante approccio psicologico passiamo a quello biblico e teologico, la meditazione sullo Spirito si arricchisce a dismisura. Piace qui riportare un brano dell’eminente teologo Y.M.J. Corgar che, ormai al termine della sua vita, sembrò lasciarci in eredità per i nostri tempi la contemplazione dello Spirito.
«Oggi abbondano le testimonianze dei Padri, dei teologi, dei mistici, del concilio Vaticano II, che riconoscono una presenza attiva dello spirito nel mondo e nelle ricerche che lo travagliano. Questo non significa che tutto, in questa storia, venga dallo Spirito Santo. Il male vi ritaglia la sua parte. L’uomo resta “incurvatus in se”, incessantemente tentato di ripiegarsi su se stesso, di ricercarsi e farsi autosufficiente nella dimenticanza e nel disprezzo di Dio. Lo Spirito Santo, avvocato di Gesù e dei discepoli, è anche colui che “convince il mondo di peccato” (Gv 16, 9) e che anima la lotta contro la “carne “».
31. L’azione dello Spirito nella storia del nostro mondo mira a costituire un corpo di figli di Dio e un tempio di adorazione «in spirito e verità» che non può essere soltanto il corpo di Cristo (cf. Gv 2, 21).
Gli uomini, come i giudei e Salomone, e come i costruttori delle nostre cattedrali, hanno voluto esprimere simbolicamente tutto il cosmo materiale e umano nei loro templi. Il Corpo della comunione con Cristo ha certamente una sua forma visibile e designabile, la Chiesa; ma, come dice Paolo Evdokimov, se si può dire dove la Chiesa è, non si può dire dove essa non è. I limiti e i modi dell’Azione dello Spirito nel mondo ci sfuggono.
32. Cercando di precisare le ragioni che chiamano la Chiesa all’attività missionaria, il decreto conciliare «Ad Gentes» afferma che «finalmente si compie il disegno del Creatore, nell’aver fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza, quando tutti coloro che partecipano della natura umana, dopo essere stati rigenerati in Cristo mediante lo Spirito Santo, riflettendo insieme la gloria di Dio (cf. 2 Cor 3, 18) potranno dire: “Padre Nostro (n. 7‑3)”».
E il concetto viene documentato con molte citazioni dei Padri della Chiesa, tra i quali la seguente di sant’Ippolito: «Egli non rifiuta nessuno dei suoi servitori… volendo e desiderando salvare tutti, volendo rendere tutti dei figli di Dio, e chiamando tutti i santi a costituire un solo uomo perfetto. C’è infatti un solo Figlio (Servo) di Dio: per mezzo suo noi otteniamo pure la rigenerazione (la nuova nascita) mediante lo Spirito Santo, aspirando a formare insieme un unico uomo celeste e perfetto».
È uno solo, in definitiva, colui che dice “Padre Nostro”. E noi, sua Chiesa, formiamo, in seno alla vastità del mondo, ciò che san Paolo chiama “le primizie”.
33. Noi conosciamo e invochiamo Cristo e lo Spirito. Abbiamo la Parola ispirata, i sacramenti, i ministeri istituiti. Se lo Spirito agisce al di là dei limiti visibili della Chiesa, questa è, per il mondo, il sacramento di Cristo e del suo Spirito.
Noi assumiamo questo vasto mondo nella nostra preghiera, rendendo gloria per lui al Padre mediante Cristo nello Spirito.
34. Lo Spirito, infatti, è colui che segretamente raccoglie e annota tutto ciò che, nel mondo, cerca di balbettare “Padre Nostro”. Questo è il senso che personalmente, diamo ogni giorno alla dossologia che termina l’Anafora e introduce il “Padre Nostro!”. Solo per mezzo suo noi gridiamo, e lui grida per noi, Abbà, Padre (Rm 8, 15; Gal 4, 6)». (Cit. da La parola e il soffio, Borla, Roma 1985, pp. 157-159).
35. Questi rapidi richiami all’azione dello Spirito del Signore approdano a una conclusione che mi sta a cuore: dobbiamo aprirci allo Spirito. Incessantemente e con urgenza. Essere spirituali non è una scelta facoltativa tra altre, ma è il nostro dover essere, il nostro destino.
Per una cultura dell’attenzione
36. Solo nello Spirito Santo siamo in grado di comprendere e assimilare il Vangelo –fondamento perenne del Cristianesimo– e il suo messaggio.
Ricorro ancora una volta a una citazione per chiarire il senso delle mie parole. G. Prezzolini, scettico, ma tormentato in pari tempo dalla ricerca di Dio tanto da essere indotto a una preziosa corrispondenza con Paolo VI, scrive: «Il Vangelo non contiene un messaggio sociale o politico… Il cristianesimo ricerca la trasformazione dell’uomo in nuovo Adamo: è, quello evangelico, un messaggio puramente interiore… Questi cristiani, questi viaggiatori passeggeri per il mondo, ma non appartenenti a questo mondo, devono occuparsi delle cose di questo mondo in modo da essere indifferenti alle loro forme. Ciò che temo oggi nei cambiamenti che la Chiesa giustamente si propone è che essa segua una linea politica… ossia la tendenza a seguire i più forti … ».
E ancora: «Ma un campo è rimasto alla Chiesa. Né la scienza né lo Stato hanno mai potuto toccarlo: il cuore umano che è inquieto… In questo campo, il quale non guarda ricchi o poveri, giovani o vecchi, maschi o femmine, schiavi o padroni, bianchi o neri, destri o sinistri, la Chiesa ha un potere assoluto sulle coscienze di tutti coloro che sentono la insoddisfazione dei beni terreni e non hanno il coraggio disperato di accettare il mondo arido, indifferente alla sorte dell’uomo, puro urto di forze senza alcun scopo… La Chiesa dovrebbe… ricordarsi… che vive per difendere valori contrari all’onore, alla ricchezza, alla potenza, al fasto, al piacere dei sensi, all’apatia, alla conquista… Ma nessun Stato e nessun partito mai si propose e ha la possibilità di scegliere e di fare degli uomini buoni: ecco il campo per la Chiesa… Un santo, un religioso caritatevole, un poeta ispirato dalla coscienza religiosa sono più importanti di molte affermazioni, riduzioni, modificazioni del culto, dell’abito, della dottrina ecclesiastica» (dall’«Ombra di Dio»).
37. Cari confratelli, la nostra apertura allo Spirito è cominciata quando noi, inquieti, abbiamo sentito insoddisfazione dei beni terreni e giudicato l’aridità del mondo e l’indifferenza verso il male come situazioni da modificare prima di tutto dentro di noi; così, toccati dal soffio dello Spirito, noi abbiamo incontrato S. Giovanni di Dio che ci ha invitati ad occuparci del cuore umano col nostro cuore aperto a Lui. Noi siamo in linea col Vangelo quando testimoniamo il valore-carità: non ci spinge altro che l’interesse per quanti, poveri nella carne e negli affetti, si rivolgono a noi. Noi, quando siamo aperti allo Spirito, siamo portatori più che della prestazione tecnica, di una cultura dell’attenzione verso l’animo umano, verso l’Io essenziale ed immortale, mediante l’accoglimento della persona nella sua interezza. Ma per mantenere questa apertura integrale all’uomo, dobbiamo ricercare la nostra continua trasformazione interiore. Questa è, del resto, la condizione necessaria di altre trasformazioni, riguardanti le nostre Comunità, le Province, le nostre opere, i rapporti con i collaboratori laici e i nostri stessi malati.
Il suono della Parola si fa eco nello Spirito
38. Questa dunque è la prima rivoluzione che noi dobbiamo fare. Essa ci eviterà di imbalsamare il Vangelo, il nostro Carisma, l’Uomo che soffre, il Tempo e il Mondo in cui viviamo. Ma essa richiede un impegno non ordinario, che ha il suo punto focale nell’ascolto della Parola unito alla totale contemplazione nello Spirito. Nel congiungere tra loro la Parola e lo Spirito, troveremo anche il senso unitario da dare alla nostra vita. Quando siamo disturbati nelle nostre abitudini e nella nostra sicurezza operativa, ci chiediamo quali sono le cose pratiche da fare dimenticando il primum movens di tutte le nostre azioni: lo Spirito, il soffio vitale che deve ispirarle.
39. Miei cari confratelli: ciò che noi realizzeremo in futuro, in termini di opere, di ruoli, di indirizzi, sarà esattamente in rapporto al posto e alla dimensione che daremo allo Spirito, cioè in definitiva alla nostra crescita personale, alla cura con cui sapremo evitare di perderci in attività poco produttive e non collegate rispetto al senso che noi vogliamo dare alla vita.
Noi abbiamo scelto di stare dalla parte di chi ama di amore non misurato, e accoglie il debole, l’indifeso, il trascurato; abbiamo scelto di vivere lunghi momenti di abbandono, di deserto, di meditazione, di preghiera non «routinizzata», per acquisire tale capacità di amore incondizionato. Il segreto della Parola attende di essere da noi scoperto: «Essa è la perla preziosa, il tesoro nascosto, per la cui conquista è necessario vendere tutto. Nell’ascoltazione silenziosa, la parola… affiora alla coscienza e vi accende l’irresistibile desiderio di ordinare sul suo ritmo, percepito come l’armonia del destino personale, la propria realtà. Senza il risveglio di questo desiderio, l’uomo è privo del suo passo, della sua qualità essenziale, e viene a perdersi negli smarrimenti dell’ambiente in cui vive. La preghiera evangelica è l’incontro, nel silenzio, del nostro mistero personale con quello divino, il ritrovamento della nostra verità in Dio…
La critica che la gente ci rivolge è una sola: ci occupiamo troppo del tempo, del mondo, e poco dello spirito, e perciò non siamo più distinguibili da qualsiasi collaboratore laico, quando non lo teniamo stretto col nostro guinzaglio. Noi che serviamo la vita, la creazione (cercando di liberarla dalle deformazioni della povertà, della malattia, dello scetticismo e della solitudine) dobbiamo possederla, la vita. Una vita completa che pulsa, corporea e spirituale, ricca e disponibile, capace di prestazioni umane e religiose utili all’altro, e non solo a noi stessi. Lo ripeterò fino all’esaurimento: la vita pratica, attiva, il nostro ruolo sono importanti ma non salveranno l’anima nostra e l’Ordine, se noi non impegneremo molto del nostro tempo per arricchire la vita interiore, per coltivare le nostre capacità di amore, nella ricerca dell’unione personale col principio della vita» (P.G. Vannucci O.S.M.)
40. Il nostro Ordine ha avuto in eredità una grande e preziosa cultura del lavoro: conosciamo tutti il valore e l’utilità del lavoro per il nostro equilibrio biopersonale. Oggi, la nostra attività ci sta spostando verso funzioni più manageriali, di guida: ci mette, se siamo capaci, nella condizioni di stabilire rapporti umani, oltre che professionali, che sono di grande aiuto alla nostra psiche e a quella dei malati. A volte in noi sono carenti il lavoro intellettuale e quello spirituale: se li trascuriamo, finiremo per svuotare di significato le nostre attività manuali e professionali.
Non mentire, non tradire
41. La mia vi sembrerà una provocazione; ma dobbiamo centrare di più la nostra giornata sulla coltivazione dello spirito e della persona, rivedendo in modo spregiudicato le nostre attuali mansioni, in modo da garantire attraverso di esse la realizzazione del nostro carisma. Infatti, come uomini è attraverso il lavoro che noi doniamo al mondo la nostra umanità e dimostriamo la nostra capacità di amore. Come religiosi dobbiamo esprimere al mondo indicazioni e anche critiche, se necessario; ma per far questo dobbiamo conoscere «gli impulsi della umanità attuale, per affermarli e per purificarli ». E dobbiamo ravvivare in noi la preghiera, portandola a un livello di maturità. Ciò è possibile se alla cultura del lavoro manuale e professionale sapremo affiancare quella dell’uomo e della nostra civiltà, oltre a quella fondamentale dello Spirito.
Solo a questa condizione le nostre comunità si animeranno e ciascun religioso, secondo le proprie esperienze ed attitudini, potrà capire il mondo nella sua autenticità, interpretare il profondo anelito dell’uomo a dare un senso alla vita, rifiutando ogni modello, secondo il famoso detto: imparare da tutti, ma non imitare nessuno. Anche noi dunque, in spirito di ricerca, di verità e amore, di autenticità e libertà, dobbiamo reinventare i nostri modelli di vita religiosa, operativa, comunitaria, sociale. Facciamo insieme questo lavoro evitando le tentazioni di ripetere moduli ormai sorpassati (che è mentire) o di imitare questo o quell’Ordine (che è tradire la coerenza con le nostre origini).
L’apertura allo Spirito nelle nostre comunità
42. Il nostro aprirsi allo Spirito –si è detto– presuppone un lavoro individuale di crescita umana, intellettuale, religiosa e una azione coerente nella realtà specifica delle nostre opere. La nostra crescita comincia dagli anni di noviziato assieme ai nostri confratelli, ai nostri collaboratori e ai malati, coi quali noi siamo (o dovremmo essere) in perenne comunione.
Comincia dunque nella comunità religiosa, che oggi ci dà forse più angustie che soddisfazioni. Questo era meno vero un tempo quando la comunità, come un grande grembo materno, ci proteggeva, ci dava sicurezza, pur mostrandosi molto severa in termini di prescrizioni, divieti, e persino di ostacoli alla nostra personale realizzazione. Oggi qualcosa è cambiato: la comunità dei religiosi non è più una entità totalizzante, c’è più spazio per le libertà personali, il ruolo gerarchico è vissuto in modo meno oppressivo. Tuttavia, persiste una certa delusione in tutti noi; ogni tanto ci aspettiamo che la comunità debba corrispondere meglio ai nostri bisogni, forse coltiviamo l’infantile desiderio di essere amati dagli altri, magari senza meritarlo, forse la nostra idea della comunità religiosa è rimasta bloccata a metà strada tra la nostalgia del passato (o il suo totale rifiuto) e la spinta ad aprirla allo Spirito oltre che a ciascuno dei nostri confratelli.
43. Credo che a noi tocchi reinventare le nostre comunità, che non ci vengono regalate da questa o quella Casa. Noi siamo rimasti vittime di un errore: quello di pretendere che l’amore sia un dono e non una conquista. È ben vero che nei primi anni della nostra vita, in famiglia e in convento, i nostri genitori, come i nostri superiori, ci hanno mostrato spesso un volto sorridente, benevolo, accogliente: in fondo ogni bambino deve ricevere l’amore gratuito degli adulti. Ma con il passare degli anni noi abbiamo sperimentato che amare ed essere amati è una cosa incredibilmente complessa, impegnativa, sempre meno spontanea, sempre in bilico, ricca di esperienze contraddittorie, quando non portatrice di vere e proprie sofferenze. La comunità si è trasformata prima o poi per ognuno di noi, in qualche modo, fonte di sofferenza. Possiamo sentirci imbarazzati ad ammettere la pesantezza, la quasi impossibilità di creare una comunità ricca di comprensione, di azione di fiducia. Ma abbiamo il dovere di cercare delle soluzioni. Nella comunità di oggi sono più evidenti i segni di logorio, di sfiducia, di incomprensione, anche perché è possibile più che in passato la fuga dalla comunità-comunione, in svariate forme: lavorando di più, frequentando gli studi, intraprendendo attività sociali, viaggiando, riunendosi a discutere, ecc…
44. In termini umani, la comunità potrebbe essere paragonata ad un gruppo che si costituisce per raggiungere una certa meta. Tipica è l’équipe professionale che ‑una volta realizzato l’obiettivo‑ si scioglie ed ognuno torna alle sue occupazioni. Noi siamo un gruppo anche in questo senso, ma non soltanto in questo. Anche noi ci mettiamo insieme per pregare, per lavorare, per studiare; ma ciò non fa ancora comunità-comunione: spesso, infatti, noi desideriamo la comunità ma allo stesso tempo la fuggiamo, forse per evitare dei rischi. Credo che ciò avvenga non per cattiveria, paura o scarso senso della religiosità, bensì per volontà di impedire lo schiacciamento dell’Io personale nella vita comunitaria, di evitare lo sfruttamento affettivo da parte di alcuni confratelli non sufficientemente maturi come persone e come religiosi; in altre parole, si è convinti che in comunità non sia possibile sviluppare se stessi, crescere come persone e come religiosi, e che in comunità avvenga soltanto l’impoverimento dell’Io e il suo sfruttamento.
45. Cari confratelli, tutto questo in parte è vero; quando in comunità non si ha la sensazione di essere rispettati, di camminare insieme pur nella diversità delle persone, allora si ritiene inutile parteciparvi.
Ma la comunità religiosa è qualcosa di più di un gruppo, in quanto i suoi membri stanno insieme nel nome di Qualcuno che li ha fatti incontrare per realizzare l’ideale di testimoniare il loro amore verso il prossimo. Questo ideale unisce persone con una forte identità personale e religiosa, interessate non ad elemosinare adulazioni e riconoscimenti, ma ad offrire la loro persona al dialogo reale con l’altro. Noi ‑come uomini, come cristiani e come religiosi‑ siamo chiamati alla comunione. Come afferma il Vaticano II, «la ragione più alta della dignità dell’uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio » (GS. 19). Non si tratta di una semplice attitudine umana al dialogo e alla disponibilità, bensì di un dono che ci è svelato e comunicato nella parola di Dio. La comunione è mistero, la cui partecipazione è offerta all’uomo; è «il progetto di Dio che si attua nella storia con l’annuncio della fede, fondato sulla comunione trinitaria» (CEI, Comunione e comunità, documento 1981 n. 16) ne segue che tanto la Chiesa nel suo essere comunità, quanto le comunità di Chiesa ‑come è la nostra comunità religiosa‑ sono sempre un’icona della Santissima Trinità, una manifestazione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. La comunione testimonia l’amore stesso di Dio, un amore puro ed esigente.
46. Cari confratelli, dobbiamo riconoscerci per quel che siamo, con le nostre luci e le nostre ombre, per ciò che vogliamo ottenere attraverso la nostra vita, e poi interrogarci se siamo «autentici», oltre che con noi stessi, anche con i nostri confratelli. Diversamente, la comunità non diventa comunione, luogo di crescita e di scambio, dove si incontrano persone vive, in carne e ossa, unite nella varietà dei caratteri, dei carismi e della formazione, per dialogare rispettandosi sempre, camminando insieme, sia pure con mansioni e compiti differenziati. La comunità non è il paradiso terrestre, ma un luogo necessario per la crescita di tutti attraverso l’incontro realmente fraterno nelle intenzioni e nelle forme, non accecato dalle illusioni o dai nostri desideri narcisistici.
47. L’incomprensione e il conflitto nelle comunità molto spesso manifestano il desiderio di uscire dalla immaturità, dal conformismo, dalla ipocrisia di certe riunioni celebrate solo per dovere e non perché funzionali alla nostra vita. Ma come possiamo parlare di amore se non possediamo la consapevolezza dei nostri e degli altrui limiti, se non ci rispettiamo e se non rispettiamo l’altro?
Siamo esseri umani, viviamo in comunità non per ripiegarci su noi stessi, ma per crescere con quanti tendono ai nostri stessi obiettivi.
48. La nostra principale preoccupazione deve quindi essere rivolta a questa non più eludibile situazione di malessere della comunità religiosa; situazione che va affrontata non rinforzando meccanismi illusori, bensì riscoprendo la passione originaria ed originale del crescere insieme mediante l’amore con cui ci ha amato Cristo (Gv 12, 14).
Noi possiamo dare in cambio il nostro impegno per crescere cristiani e religiosi sempre più autentici, indipendentemente dalle deviazioni e dagli errori inevitabili; con l’occhio dunque a noi stessi, e senza giudicare gli altri. Dice un poeta: «Giudicare una persona per la sua azione più meschina è come calcolare la potenza dell’oceano dalla sua leggera schiuma». Ben più autorevoli il Vangelo e San Paolo, di cui vi invito a leggere i toccanti richiami (cfr. Lc 6, 37-38; Gal 5, 13-15).
49. Da quanto ho detto, emerge l’importanza che assume per l’identità e l’efficacia del nostro carisma la formazione di comunità in cui operino persone autentiche, coscienti del fatto che tali comunità si costruiscono giorno per giorno entrandovi con le proprie energie e con le proprie debolezze, con la propria esperienza e col desiderio di restare uniti nel nome di Gesù, perché in tal caso Lui è presente (Matteo, 18, 20).
La nostra ospitalità potrà cambiare, nuove opere sorgeranno, altre potranno e dovranno estinguersi. Non è questo che preoccupa, bensì il fatto che protagoniste del futuro siano delle comunità davvero rinnovate.
III. APRIRSI AL TEMPO E ALL’UOMO
50. Se dovessi esprimervi compiutamente il mio pensiero su questo tema, ci vorrebbe bel altro spazio. I cambiamenti avvenuti in questi ultimi decenni nel campo della salute e, più in generale, in quelli dei bisogni e dei disagi dell’umanità, con innegabili progressi ma anche con imprevedibili arresti e cambi di rotta, sono talmente numerosi e sconvolgenti che richiederebbero una riflessione a sé. Qui possono bastare alcuni richiami, uniti a qualche proposta, che ci stimolino alle necessarie aperture al Tempo e all’Uomo senza mai abbandonare l’apertura (centrale) allo Spirito.
Un Tempo diverso, un Uomo diverso.
51. Una prima riflessione riguarda l’umanità di oggi: siamo tutti consapevoli che essa è stata colta di sorpresa dalla rapidità delle trasformazioni e dalle sollecitazioni che hanno interessato le ideologie, l’economia e la politica, provocando delle vere e proprie «rivoluzioni» all’interno dell’animo umano.
«Un mondo diverso invade il mondo conosciuto, e questo mondo è tanto imprevedibile da rendere le previsioni della vita ordinaria del tutto insignificanti. In questo mondo diverso c’è il mistero di tutti i fondamenti della vita». (B. Kristensen).
In questo mondo diverso nasce l’uomo diverso del nostro tempo, ancora una volta combattuto tra le esigenze divine e quelle del male, come ci insegna la storia. In questo mondo diverso noi dobbiamo-vogliamo vivere, noi dobbiamo-possiamo operare. Ma la nostra azione risulterà efficace solo se possederemo la forza interiore e la consapevolezza che l’umanità ha bisogno di testimoni della verità, di guide morali oltre che operative, dotate di coscienza critica, di anticipatori coraggiosi. Ce lo ricorda Paolo VI con ineguagliabile forza: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono testimoni. S. Pietro esprimeva bene ciò quando descriveva (1Pt 3,1) lo spettacolo di una vita rispettosa che conquistava senza bisogno di parole coloro che si rifiutano di credere alla Parola» (Evangelii nuntiandi, n. 41).
52. Questo impegno personale che fa progredire l’umanità, pone l’uomo del nostro tempo in una condizione nuova, forse la più nuova e sconvolgente dal suo apparire sulla faccia della terra: la solitudine, il trovarsi quotidianamente a confronto con realtà che lo manipolano e lo allontanano dal «centro» vitale dello spirito, da quel Dio di cui egli è stato creato «a immagine e somiglianza». Chi non riesce a raccogliere la sfida di questa solitudine, diventa preda delle mode del tempo, si immerge in attività frenetiche, si contorce, si disperde, offuscando la sua identità, perdendo definitiva la sua libertà.
Custodi e artefici del benessere della gente.
53. Oggi più di ieri sono dunque necessarie all’uomo la libertà di pensiero personale, la ricchezza del cuore ed una nuova e più coerente operatività.
E tutto questo che rapporto ha con la nostra vita di religiosi ospedalieri? Un rapporto strettissimo in quanto anche noi dobbiamo attingere molto maggiormente al nostro Io interiore, alla nostra libertà, alla forza dei nostri sentimenti se vogliamo operare in modo coerente a favore della umanità del nostro tempo.
In noi si è sovente alimentato un vizio mentale, anticristiano: l’abitudine a vivere con la malattia, il disagio, la sofferenza dei nostri pazienti ci ha fatto dimenticare il vero obiettivo che è quello di garantire loro, anche attraverso l’attività sanitaria in senso stretto, il massimo di benessere possibile. Noi non siamo solo distributori di farmaci, o riparatori di corpi, ma anche e soprattutto custodi e, per la nostra parte, artefici in molti casi del benessere della gente che si rivolge a noi carica di bisogni e motivazioni nuovi e persino sconvolgenti per noi, abituati ad una visione schematica e riduttiva nella nostra azione.
54. La nostra apertura al Tempo e all’Uomo ci deve coinvolgere non solo professionalmente, ma anche personalmente e culturalmente alla ricerca di questo Uomo di oggi, diverso da quello di ieri. È proprio da questo Uomo che noi vogliamo fuggire quando diciamo che nella ricca società capitalistica non c’è più spazio per i Fatebenefratelli. Come se essere ricchi equivalga ad avere la chiave della felicità, della salute, del benessere. Il benessere non va confuso con il ben-avere. Avvertiamo la grande tentazione di abbandonare a se stesso questo uomo occidentale che con grande sforzo cerca di emanciparsi dalla povertà, dalla superstizione, dalle tradizioni assurdamente vincolanti per trovare un suo nuovo equilibrio da proporre al resto dell’Umanità; e di abbandonarlo proprio mentre vive la vulnerabilità della sua condizione di ricercatore di nuove strade. Non è forse anch’egli figlio di Dio, chiamato alla salvezza, e spesso coinvolto nel dare aiuto ai fratelli che soffrono per mancanza di cibo, medicine, abitazioni?
55. L’odierno uomo tecnologico non ha certo risolto del tutto i suoi problemi: è più libero, più responsabile, più attivo, ma paga tutto questo con una maggiore fragilità dei legami affettivi, mentre la stessa innovazione tecnologica lo espone maggiormente ai rischi della disoccupazione, della mobilità lavorativa, della perdita del rango sociale, della solitudine e dell’anonimato soprattutto all’interno dei grandi agglomerati urbani. Paga in definitiva questo progresso con un diffuso malessere della persona che si manifesta nella ricerca frenetica di divertimento, di evasione, di psicofarmaci, per ritrovare un minimo di serenità.
56. Una delle aspirazioni prevalenti dell’uomo, almeno nella cultura occidentale ed industriale, è l’aspirazione alla autonomia, cioè ad una condizione in cui sempre meno condizionato dalla tradizione, egli possa fare esperienza di se stesso, vivere in pienezza le sue dimensioni, essere sempre più libero. Questa sete di autonomia, di verità su se stesso e sugli altri, in altre parole di autenticità, rappresenta, soprattutto per noi religiosi, l’aspetto più traumaticamente più duro da accettare. Siamo infatti portati a condannarlo anche perché il suo comportamento è accompagnato a volte da spinte amorali, da sete di piacere, da negazione del trascendente, da sconvolgimenti nei rapporti familiari e sociali. Tuttavia la spinta alla emancipazione, alla ricerca e alla assunzione di responsabilità personali da parte dell’uomo del nostro tempo non è solo espressione di ribellione, ma anche di autenticità, di impegno. Dopo secoli in cui pochi uomini potenti hanno dominato le coscienze e le espressioni delle masse, l’umanità cerca di configurarsi il proprio destino secondo modelli interni più che esterni: è ciò di per sé è un bene, non un male. L’uomo che vuole diventare libero, autentico, responsabile, cerca dentro di sé, oltre che fuori, le risorse principali per realizzarsi in queste direzioni. E non tollera molto facilmente le imposizioni, i codici morali astratti e non sufficientemente motivati, i ceppi della consuetudine e della tradizione.
Nello stesso tempo, l’esercizio della propria autonomia lo espone inevitabilmente ad errori e deviazioni, a momenti di angoscia nonostante le conquiste ottenute sul piano materiale. E questo perché l’uomo non è solo ciò che ha ma è soprattutto ciò che è.
57. Dice un proverbio cinese: «l’uomo ricco ha sempre paura». E ne ha soprattutto quando si ammala. Forse l’uomo maggiormente in crisi oggi è quello che entra nei nostri ospedali. Da questa crisi egli può risorgere, col nostro aiuto e quello di Dio, a una vita nuova, più integrata, più orientata al bene della famiglia e dei fratelli, più cristiana ed umana.
Mi viene in mente il pensiero di un noto sacerdote-scrittore, don Pronzato, a proposito della parabola del seminatore: «Il seminatore non sceglie il terreno, non decide quale è il terreno buono e quello sfavorevole, quello adatto e quello meno adatto, quello da cui ci si può aspettare qualcosa e quello per cui non vale la pena di darsi da fare. Il terreno si rivela per quello che è dopo la semina, non prima. Se tutti gli annunciatori della Parola ricordassero questo… Il nostro compito non sta nel classificare i vari tipi di terreno, nel tracciare la mappa delle possibilità (una tentazione sempre presente). Noi dobbiamo mettere alla prova tutti i terreni. Dobbiamo rischiare la parola dovunque. Vorrei dire che dobbiamo imparare a sprecare la semente. Imparare a compiere numerosi gesti inutili». Senza dimenticare che il seme può trasformare il terreno.
Entrare nel tempio del Tempo e dell’Uomo contemporaneo.
58. Dedicarsi ai nostri fratelli e all’Uomo contemporaneo non è perder tempo se abbiamo la cultura e la forza necessarie.
Aiutare gli affamati e vestire gli ignudi, sono opere meritevoli, come assistere chi ‑chiuso nel suo egoismo‑ è incapace di mettere in comunione con gli altri i beni materiali e morali. Povero è ogni uomo che ha perso l’equilibrio psico-fisico e la speranza in una vita più ricca in ogni senso; chi si avvicina al mistero della morte, o anche solo temporaneamente è costretto a separarsi dagli affetti familiari, dai compiti lavorativi, dai rapporti sociali. Se è nobile la scelta missionaria, non lo è meno quella di chi decide di stare con l’Uomo del «progresso» e con le sue opere, in queste realtà «Avanzate» dove più diffuse sono l’indifferenza e la insensibilità, umana e spirituale, verso l’uomo. Un affamato, un ignudo, un handicappato è molto più visibile di chi, benestante, non ha bisogno tanto di cibo, di vestiti o di custodia, quanto di speranza, di attenzione, di rispetto, di identificazione. Il pane psichico e spirituale è un pane meno visibile, ma ugualmente utile al malato, anche se è più difficile da somministrare.
59. Cari confratelli, guardiamoci dai complessi di superiorità o di inferiorità indotti in noi dal colore della pelle o dalla grandezza del portafoglio dei nostri assistiti. Guardiamoci dal pregiudizio secondo il quale le necessità dell’uomo sono solamente di carattere economico-materiale-scientifico, da affrontare in modo tecnicistico e basta.
Così non si rende giustizia alla complessità e alla ricchezza dell’Uomo contemporaneo, né alla sostanza della nostra vocazione; può anzi essere un pretesto per sottrarci alla assunzione di nuovi, impegnativi atteggiamenti orientati non alle nostre necessità (di potere, di prestigio, di rapida risposta del malato ai nostri interventi materiali) ma a quelle della persona affidateci. A tale persona, più libera, più emancipata, più attenta e più sola deve essere rivolta un’attenzione diversa, se vogliamo realmente rispondere ai suoi bisogni e rispettare i significati più profondi del suo stile di vita. Il nostro carisma, che ha una ricchezza incredibile, non soffre e non soffrirà mai di mancanza di utenti: può essere esercitato in ogni luogo abitato dall’uomo, il quale avrà sempre nell’animo il desiderio di un alimento non solo biologico. Il nostro Carisma ci invita dunque ad entrare nel tempio dell’Uomo concreto di oggi. Ci avverte anche che dobbiamo mutare a seconda del Tempo e dell’Uomo, senza garantirci che tale mutamento sia indolore. Forse è più facile affrontare i rischi della savana o del deserto che annunciare il nostro Carisma a gente istruita, con facoltà critiche notevoli, ma con bisogni nuovi da soddisfare.
60. «Nell’ambiente tecnicizzato e consumista della società moderna nella quale si scoprono ogni giorno nuove forme di emarginazione e di sofferenza, il nostro apostolato ospedaliero è pienamente attuale». Lo leggiamo nelle nostre Costituzioni.
Siamo noi, cari confratelli, che rischiamo di non essere attuali se non fissiamo lo sguardo sulle emarginazioni e sulle sofferenze dell’Uomo contemporaneo. Alleiamoci dunque con quanti ‑anche collaboratori laici‑ vogliono crescere accanto a noi e spesso camminano davanti a noi. Insieme risponderemo meglio alla nostra chiamata, alla nuova cultura dell’Uomo, del Tempo e della Vita, uno sforzo di ricerca e di sperimentazione che mai forse il nostro Ordine ha dovuto così urgentemente affrontare.
Questa visione dell’Uomo può sembrare troppo spirituale e poco tecnicistica, ma è sicuramente in linea con le Costituzioni e con lo Spirito che le anima. Vi troviamo, infatti, la spinta a realizzare il nostro apostolato da religiosi «nuovi», attuali, veri, a favore dell’uomo al quale sempre dobbiamo guardare. «L’Himalaia è ovunque, il nostro vero maestro è ogni uomo e ogni donna che soffre» (Gandhi).
IV. IL NOSTRO RUOLO NELL’ORDINE
61. Ciò che ho detto a proposito del religioso singolo e della comunità, si può applicare anche al nostro Ordine. La ricerca dei bisogni dell’uomo contemporaneo, la collocazione delle nostre Opere, la capacità di progettare attività sempre più rispondenti alle esigenze della società interessano il tessuto connettivo della istituzione. Anch’essa deve cambiare per vivere nella attualità e nel futuro. E deve cambiare ‑come sta in parte già avvenendo‑ in direzione di una sempre maggiore colleganza tra case e Province, tra Province e Governo Centrale, tra quest’ultimo e la periferia.
Unità nell’autonomia.
62. Spesso, a livello singolo e di comunità, viviamo con un certo fastidio i richiami del Consiglio Generalizio che, ormai da tempo, sollecitano ad una connessione sempre più stretta fra le varie componenti della nostra Istituzione. La mancanza o l’insufficienza di tale connessione, controproducente per noi e per i rapporti coi collaboratori laici, non dipende dalla distanza geografica fra le singole case e la Provincia, o tra questa e il Centro, ma piuttosto da una scarsa percezione della complessità e della ricchezza della nostra stessa Istituzione.
Sembra strano come in un’epoca in cui si viaggia con estrema facilità da un continente all’altro e si dispone di informazioni in tempi molto rapidi, facciamo ancora fatica a comportarci come un corpo unico, ben articolato nelle sue strutture.
Non possiamo, non dobbiamo accogliere con sospetto le iniziative che mirano a favorire la nostra colleganza. È anzi assurdo pensare di risolvere i nostri problemi di governo, di vita interiore, di risposta ai bisogni del malato, di gestione economica e di progettazione senza un forte spirito di comunanza sia a livello orizzontale che verticale.
63. In questi ultimi anni, l’Ordine ha prodotto uno sforzo notevole in tale direzione: ma ciò ancora non basta, non siamo ancora ad un punto soddisfacente. Tutti noi dobbiamo sentirci obbligati a pensare a soluzioni nuove al problema in un clima di maggiore fiducia reciproca e di collaborazione da parte di tutti. La distanza e le differenze sociali e culturali che ci caratterizzano non debbono diventare un alibi al nostro disinteresse, come se il Centro non facesse parte dell’Ordine!
Cari confratelli, quando il Priore Generale vi invita a vivere intensamente il vostro ruolo, quando insiste sulla necessità della sintonia tra ognuno di voi e la Provincia, tra le singole Province nonché fra voi e il Centro, non mira a sottrarvi autonomia, tempo, risorse, bensì a realizzare quello scambio, fra l’altro previsto dalle Nuove Costituzioni, che permette di crescere a tutti i livelli, di favorire decisioni più sagge. L’autonomia non deve diventare autarchia, per nessun motivo; l’unità nella autonomia è quindi un progetto che non può essere trascurato. Il compito più sgradevole per un Superiore Generale è quello di dover obbligare uno dei suoi confratelli a fare ciò che va fatto. È veramente doloroso constatare la pigrizia di certe Province non solo di fronte alle indicazioni del Governo Centrale, ma anche di fronte a risoluzioni prese in casa propria: a parole ci dichiariamo disponibili e poi nei fatti, o non operiamo, oppure operiamo disuniti, quando non addirittura in antagonismo. Al Priore Generale non reca disturbo la diversità delle opinioni: una inestimabile ricchezza scaturisce dal considerare in modo diverso un problema.
Quello che impoverisce è invece la mancanza di dibattito, la falsa obbedienza, lo spirito di prevaricazione, la paura di perdere autonomia.
64. Se vogliamo prepararci al 2000 in piena coerenza col nostro carisma dell’Ospitalità, non possiamo rinunciare ad un maggiore avvicinamento, umano e spirituale, fra di noi, fra Periferia e Centro, fra vicini e lontani. Nessuno di noi può ritenersi superiore ad un altro, nessuno può sentirsi più a posto di un altro. Nell’esercizio delle nostre funzioni tutti siamo importanti, tutti siamo utili, indipendentemente dal ruolo odierno, dall’età, dalla nazionalità di provenienza o da quella in cui operiamo.
E saremo ancora più utili, più testimoni, più coscienza critica, più guida, più innovatori se le nostre risorse, i nostri cuori, le nostre intelligenze, la nostra spiritualità confluiranno verso progetti di vita condivisi, trasparenti, partecipati.
65. Il nostro Ordine deve caratterizzarsi per una visione veramente comunitaria, per legami più franchi e schietti, per programmi ispirati da un genuino senso di appartenenza. Il mondo si stupisce quando vede confratelli disuniti, bloccati nella reale comunione da gelosie ed invidie infantili, perché si attende da noi, oltre che la testimonianza autentica dell’amore cristiano, una attitudine al perdono, alla tolleranza, alla alleanza fra di noi. Una delle grandi paure del nostro tempo, la paura atomica, è generata dalla furbizia, dalla prepotenza, dalla convinzione di essere dalla parte giusta, dalla discordia alimentata in continuazione e mai risolta di uno spirito di dialogo. Noi dobbiamo trovare al nostro interno, tutti insieme, il modo per testimoniare al Mondo la capacità di trovare l’intesa, di sopportare le differenze, di mettere una pietra sopra le offese ricevute. Saper perdonare è indispensabile per costruire l’unità, per dare spazio alla critica non distruttiva, nel rispetto nell’amore reciproco. Come Vostro Priore Generale vi chiedo di essere generosi, verso le inevitabili debolezze umane, per contribuire alla costruzione di un Ordine più unito e più aperto.
Testimoni e guide morali per i nostri collaboratori.
66. Su questo aspetto della nostra vita religiosa ho già detto molto in questi ultimi anni. Tuttavia preferisco ripetermi, perché il nostro futuro dipenderà molto da quello che noi riusciremo a fare nei confronti dei nostri sempre più numerosi collaboratori. Il nostro ruolo ha subito e subirà ulteriori cambiamenti radicali: sta a noi anticiparli, inventarli alla luce del nostro carisma e dei segni dei tempi.
Su un punto voglio essere subito chiaro: chi entra nei Fatebenefratelli non lo fa per una scelta professionale, ma per una vocazione interiore. E anche se le nostre Opere prevedono, all’interno della scelta spirituale, una collocazione professionale, per i nostri futuri religiosi la destinazione manageriale è secondaria: essi non sono entrati nell’Ordine per dirigere. Anche se la conoscenza dell’arte direttiva va acquisita, la preparazione culturale, religiosa, professionale non deve essere quella di chi occuperà posti di comando, perché abbiamo la fortuna di avere collaboratori laici specializzati in questi compiti specifici, cui hanno dedicato un investimento maggiore di tempo e di intelligenza. Qualche religioso, in particolari luoghi e momenti, potrà anche assumere ruoli direttivi-gestionali, ma questa non è la nostra meta finale, è una fase transitoria e contingente. Abbiamo perso troppo tempo nel contrastare la crescita e l’inserimento in funzioni direttive dei nostri collaboratori laici: è giunto il momento di cambiare.
67. Sono convinto che S. Giovanni di Dio, oggi non creerebbe nuovi Ospedali, né si metterebbe a dirigerli, ma dedicherebbe il suo impegno a formare uomini, a creare nel laicato menti e cuori in grado di assicurare alle nostre Opere quel clima professionale, umano e gestionale che spesso fa difetto. Lo ripeto: noi non diventiamo frati, priori, Provinciali, Generali per essere dei managers, bensì per testimoniare, per orientare, per formare i nostri collaboratori alla missione di assistere in modo integrale il malato, il bisognoso. Già in alcune Province dell’Ordine il ruolo di coordinatore della comunità è stato separato da quello di direttore amministrativo dell’Ospedale. Su questa strada dobbiamo continuare, cambiando innanzitutto il nostro animo. È certo più gratificante, in un’ottica puramente umana, gestire il potere per il potere, che non dirigere un servizio in una posizione di guida morale, lasciando la guida tecnica a collaboratori laici ‑che quasi sempre sanno fare meglio– opportunamente scelti e permanentemente formati. Il grande compito che ci attende nel prossimo futuro è proprio questo: essere all’interno delle nostre, Opere guida morale, cioè coscienza vigile e, se necessario, critica, affinché i nostri collaboratori si alleino a noi nel servizio al malato. È una scelta decisiva non più rimandabile che ci costerà notevole fatica, forse anche la perdita di prestigio in qualche caso, ma permetterà alle nostre Opere di funzionare meglio anche sotto il profilo gestionale. Più concretamente, il nostro collaboratore deve diventare oggetto-soggetto delle nostre attenzioni, così come lo è il malato; dobbiamo individuarne e capirne i bisogni e i disagi, magari provocati da noi. In tale modo creeremo nell’Ospedale quella «ecclesia» che a parole tutti vogliamo, ma che nella realtà temiamo.
68. Il ruolo di guida morale non si improvvisa. Esso va progettato, programmato ed attuato secondo criteri di onestà e in armonia con le caratteristiche delle nostre Opere. Per comunicare la nostra umanità e la nostra passione verso il malato ai collaboratori, dobbiamo possedere tale passione, non quella per le poltrone di comando. Assumere un ruolo di guida comporta una crisi di identità per molti di noi, abituati soprattutto al «fare» in prima persona. Il tempo dei «fac-totum» è finito, occorre concentrarsi sui compiti primari che la nostra scelta vocazionale ci impone. Da qui la necessità di uno studio e di una ricerca continui per tradurre in indicazioni concrete gli ambiti di comportamento in cui esplicare le funzioni di guida morale, di animazione e di coscienza critica nei confronti di noi stessi, dei collaboratori e del mondo. Questo ci consentirà di valorizzare meglio il nostro rapporto con gli altri, di arrivare ad una alleanza autentica, di eliminare ogni ombra di contrapposizione, di sospetto, di sfiducia.
69. I nostri collaboratori sono in grande maggioranza dei laici. Dal Vaticano II ad oggi è stato riscoperto e valorizzato il singolare ruolo dei laici nella Chiesa e lo «specifico» che li contraddistingue: la secolarità.
Dal documento preparatorio al Sinodo dei Vescovi del 1987 sul tema: Identità e missione dei laici nella Chiesa, proporrei qualche sottolineatura particolarmente utile per un nostro corretto rapporto con i collaboratori.
Secondo il concilio Vaticano II, il ruolo ecclesiale dei laici è inscindibilmente legato alla loro vocazione battesimale e alla loro condizione secolare.
In quanto battezzati, essi sono a pieno titolo fedeli incorporati a Cristo e alla Chiesa. E il loro inserimento nelle realtà temporali e terrene, ossia la loro «secolarità», è un dato teologico, è la modalità caratteristica secondo la quale essi vivono la vocazione cristiana.
70. I laici posseggono un’unica ed indivisa «identità», in quanto insieme sono membri della Chiesa e membri della società. Dalla loro peculiare condizione, essi derivano coerentemente la loro partecipazione alla missione salvifica della Chiesa; in quanto battezzati, possono e devono vivere la loro responsabilità apostolica non solo nelle realtà temporali e terrene, ma anche in quelle propriamente ecclesiali; in forza della loro specifica condizione secolare, sono abilitati e impegnati come cristiani non solo nell’ambito della chiesa, ma anche e propriamente in quello del mondo e delle sue strutture e realtà.
Il Concilio Vaticano II lo afferma chiaramente nella «Apostolicam Actuositatem»: «L’opera della Redenzione di Cristo, mentre per natura sua ha come fine la salvezza degli uomini, abbraccia pure l’instaurazione di tutto l’ordine temporale. Per cui la missione della chiesa non è soltanto portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli uomini, ma anche animare e perfezionare l’ordine temporale con lo spirito evangelico. I laici dunque, svolgendo la missione della chiesa, esercitano il loro apostolato nella chiesa e nel mondo, nell’ordine spirituale e in quello temporale: questi ordini, sebbene siano distinti, tuttavia nell’unico disegno divino sono così legati, che Dio stesso intende ricapitolare in Cristo tutto il mondo per formare una creazione novella, in modo iniziale sulla terra, in modo perfetto nell’ultimo giorno.
Nell’uno e nell’altro ordine laico, che è simultaneamente fedele e cittadino, deve continuamente farsi guidare dalla sua unica coscienza cristiana» (AA, 5).
71. Nella missione salvifica che la chiesa ha nei riguardi delle realtà temporali e terrene ‑missione che è di tutta la chiesa e quindi anche dei pastori‑ i laici, in forza della loro tipica secolarità, hanno un posto originale e insostituibile: «Ai laici tocca assumere la instaurazione dell’ordine temporale come compito proprio e, in esso, guidati dalla luce del Vangelo e dal pensiero della chiesa e mossi dalla carità cristiana, operare direttamente e in modo concreto; come cittadini cooperare con gli altri cittadini secondo la specifica competenza e sotto la propria responsabilità; cercare dappertutto e in ogni cosa la giustizia del regno di Dio».
Paolo VI nell’esortazione apostolica «Evangelii nuntiandi» scrive dei laici: «Il campo proprio della loro attività evangelizzatrice è il mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale, dell’economia, così pure della cultura, delle scienze e delle arti, della vita internazionale, degli strumenti della comunicazione sociale; ed anche di altre realtà particolarmente aperte all’evangelizzazione, quali l’amore, la famiglia, l’educazione dei bambini e degli adolescenti, il lavoro professionale, la sofferenza. Più ci saranno laici penetrati di spirito evangelico, responsabili di queste realtà ed esplicitamente impegnati in esse, competenti, nel promuoverle e consapevoli di dover sviluppare tutta la loro capacità cristiana spesso tenuta nascosta e soffocata, tanto più queste realtà, senza nulla perdere né sacrificare del loro coefficiente umano, ma manifestando una dimensione trascendente spesso sconosciuta, si troveranno al servizio dell’edificazione del regno di Dio, e quindi della salvezza in Gesù Cristo» (EN,70).
72. La presenza dei laici cristiani nel mondo deve essere coraggiosa e profetica e potrà assumere varie forme di testimonianza accompagnata sempre dal discernimento evangelico. Infatti, come avvertono S. Giovanni e S. Paolo, il mondo è una realtà in cui coesistono il bene e il male, e che richiede un’opera di discernimento e di libera scelta.
Dev’essere allora riconosciuta e promossa dentro e per il popolo di Dio la responsabilità di tutti e di ciascuno, quindi anche quella dei fedeli laici.
Per definire in modo preciso sia la legittimità, sia la determinazione concreta dei ministeri affidati ai laici, Paolo VI invitava a rileggere la storia della Chiesa e ad essere attenti alle necessità presenti: « Uno sguardo alle origini della chiesa è molto illuminante e permette di usufruire di un’antica esperienza in materia di ministeri, esperienza tanto più valida in quanto ha permesso alla chiesa di consolidarsi, di crescere e di espandersi. Ma questa attenzione alle fonti dev’essere completata da quella dovuta alle necessità presenti nell’umanità e della chiesa. Dissetarsi a queste sorgenti sempre ispiratrici, nulla sacrificare di questi valori e sapersi adattare alle esigenze e ai bisogni attuali: queste sono le linee maestre che permetteranno di ricercare con saggezza e di valorizzare i ministeri, di cui la chiesa ha bisogno e che molti suoi membri saranno lieti di abbracciare per la maggior vitalità della comunità ecclesiale» (EN, 73).
73. Ognuna di queste espressioni meriterebbe un commento e una puntualizzazione, in relazione al nostro ruolo di lavoro» di guida morale e di compagni di lavoro nell’edificare la Chiesa e, in essa, il regno di Dio.
È subito evidente che i laici, con i quali abbiamo un rapporto di collaborazione, non solo sono professionalmente caratterizzati, ma portano con sé una valenza apostolica: anch’essi sono, «edificatori della Chiesa», nel senso che la Chiesa cresce ogni giorno anche grazie al nostro carisma di religiosi e grazie ai doni-ministeri propri dei laici.
L’ideale traguardo per noi sarebbe vedere i nostri 40.000 collaboratori sintonizzati sulla nostra lunghezza d’onda, pur nella diversità del compito professionale. I nostri Ospedali cambierebbero d’incanto: non ci sarebbero più ruoli o poltrone da difendere a denti stretti, né sarebbero più necessari certi controlli faticosi e pedanti, sostituiti dall’autocontrollo. Dobbiamo anche riconoscere che, in molte Opere, i nostri collaboratori sono molto più avanti di noi, e non solo professionalmente. Pertanto, ad essi dobbiamo aprire il nostro cuore, prospettare le nostre difficoltà, i nostri problemi e le nostre speranze. Con loro noi possiamo-dobbiamo collegarci: molti di essi aspettano solo un cenno da parte nostra per darci una mano, per aiutarci, per allearsi con noi e non per interesse personale o per ottenere favori, ma perché si rendono conto che assieme si può fare molto di più e meglio.
74. Impariamo dunque dai collaboratori più vicini al nostro carisma, dialoghiamo con loro, scambiamo con essi l’esperienza delle vicende professionali e personali: solo così insieme potremo lavorare nell’esclusivo interesse dei malati. Nell’impegno di formazione a questo nuovo ruolo di sostegno e di guida, saranno di sostegno e lume il Consiglio Generalizio e i Provinciali; ma lasciamoci anche ispirare e aiutare dai collaboratori laici «puri di cuore», interessati alla creazione dell’Hospitium pietatis di cui si è parlato.
Miei cari confratelli, so che ad alcuni di voi sto chiedendo un grosso sacrificio. Non essendo dei contemplativi, noi siamo in un certo senso costretti a dividerci nello stesso giorno in ruoli attivi e in ruoli contemplativi. Se vogliamo non soltanto rimanere negli ospedali, ma portare la luce del divino al malato, dobbiamo preoccuparci di far accendere altre luci, quelle che i nostri collaboratori possiedono, magari offuscate da un velo di pigrizia, di assuefazione, di fatalismo. Saper togliere questi veli, con discrezione ma con fiducia nei collaboratori ed in noi stessi, rientra in quel ruolo di guida morale che noi dobbiamo assumere per restare in linea con la nostra scelta di vita.
Questione etica e ruolo di coscienza critica dei Fatebenefratelli
75. La fine del sec. XX ci sorprende con una richiesta responsabilità di etica che proviene proprio dagli ambienti culturali che sembravano ormai irrimediabilmente sganciati dal riferimento a valori e norme. Si fa strada l’acuta consapevolezza che la tecnica non basta. Proprio il successo di quest’ultima, mettendo in mano all’uomo potenzialità prima impensate (divisione dell’atomo e intervento sulla struttura genetica della cellula vivente), ha aperto il nuovo fronte di domanda.
La struttura intima della richiesta contemporanea di etica è familiare al credente, perché ha un ritmo identico a quello della morale, che deriva dalla Parola rivelata. Quest’ultima converge strutturalmente sui due poli della fedeltà e della responsabilità. Il cristiano, nel suo agire morale, vuol essere essenzialmente fedele al Cristo, in quanto nella sua persona riconosce il Figlio di Dio e il Fratello universale, e responsabile nei confronti delle richieste concrete che la storia rivolge alla sua vocazione. Anche l’etica, di cui si sente oggi una diffusa nostalgia, nasce intorno alla fedeltà e alla responsabilità. Ci si domanda, infatti, a quali condizioni l’uomo resta ancora uomo. Gli interrogativi antropologici sono particolarmente forti nel campo bio-medico; nel prolungamento artificiale della vita, nelle tecnologie applicate alla riproduzione, nella manipolazione farmacologica del comportamento e nella prassi psichiatrica, nell’uso degli individui per la ricerca e la sperimentazione, nelle manipolazioni genetiche. Si avverte un senso del limite, oltre il quale si tradisce l’uomo.
76. Sul fronte della responsabilità, la questione etica esige che ci si interroghi sulla qualità morale dell’azione, riferendola non solo al modello dell’uomo a cui si vuol restare fedeli, ma anche alla progettazione di un futuro. La prima esigenza è ovviamente che, per quanto sta nell’uomo, ci sia futuro. Il filosofo Hans Jonas ha riformulato l’imperativo kantiano per l’agire morale in questi termini: «Agisci in modo tale che le conseguenze del tuo agire siano componibili con la sopravvivenza di una vita veramente umana sulla terra». Oggi siamo in grado di distruggere sia la vita, sia la qualità umana della vita. La richiesta etica si identifica con l’assunzione della propria responsabilità, rinunciando alle deleghe e al ruolo di spettatori marginali del processo storico. Essere soggetto ed essere protagonista sono due esigenze equivalenti.
La duplice esigenze di fedeltà e di responsabilità rende la ricerca etica dell’uomo contemporaneo affine, pur nella diversità, a quella di chi nel proprio agire morale si ispira alla fede in Gesù di Nazareth.
77. La fede non fornisce al cristiano o al religioso un territorio privilegiato o protetto, al riparo dalle aggressioni che tutti gli uomini subiscono per il fatto di vivere nel tempo e nello spazio. Lo sperimentiamo nel campo della sanità nel quale si svolge in modo privilegiato il nostro impegno evangelico e umanitario. Ci rallegriamo certamente per la domanda di etica, che mette in crisi il modello di medicina «scientifica», cioè positivistica, che si pretendeva dispensata dal compito di porsi problemi di ordine antropologico ed etico. Soprattutto là dove è in gioco la salute, come coagulo di valori che investono l’uomo nella sua totalità, il semplice rispetto delle regole di procedimento non basta (si potrebbe, riprendere l’esempio fornito da Kant, del medico e dell’avvelenatore: le prescrizioni per il medico, al fine di guarire il paziente, e per l’avvelenatore, al fine di uccidere un uomo, sono le stesse… Il saper come fare ‑to know how‑ non risponde alla domanda dell’etica, che ha a che fare con il «regno dei fini».
78. Mentre i nostri contemporanei rivalutano l’etica nell’ambito delle scienze della vita e della salute, ci rendiamo conto che noi, in quanto credenti e religiosi, non siamo in grado di fornire «la» risposta. Siamo fieramente consapevoli che la fede in Cristo a cui aderiamo ci fornisce uno stimolo creativo per cercare, insieme agli altri uomini, credenti e no, regole di condotta fedele e responsabile. Ma, proprio per la trascendenza della fede, non abbiamo un modello storico concreto da proporre (tanto meno da imporre).
Il passato può essersi deposto su di noi come polvere, o magari anche come una crosta. Per il Vaticano II, i credenti hanno una certa responsabilità per l’ateismo, causato da una presentazione fallace della dottrina o dai difetti della propria vita religiosa, morale e sociale (cfr. Gaudium et spes, 19). Qualcosa di analogo può essersi verificato per quanto riguarda la «controtestimonianza» sul piano dell’etica (mancanza di rispetto per la coscienza dell’altro, strumentalizzazione delle cure del corpo in vista delle preoccupazioni spirituali, preferenza data alla “legge del sabato” ‑regole morali‑ piuttosto che all’uomo concreto).
Una nuova situazione di dialogo si è creata nel campo dell’etica: l’umanista è chiamato a parteciparvi con la sua «fede» (che è quanto meno fede nell’uomo; fede che l’uomo è la medicina per l’uomo … ); il religioso è chiamato a parteciparvi con la «buona volontà». Questa inversione dei ruoli tradizionalmente attribuiti all’uno e all’altro è indice del rivoluzionamento avvenuto nell’etica, ma anche del cammino all’interno della coscienza cristiana, soprattutto a seguito della riflessione conciliare sulla teologia della Chiesa e della Storia.
79. Ho già accennato nelle parti iniziali del documento che oltre ad essere testimoni e guide morali, noi dobbiamo anche intervenire criticamente nel mondo della Sanità. Non basta infatti lavorare duramente nei nostri Ospedali, occorre dedicare tempo allo studio dei fenomeni legati al progresso sanitario, per orientarli verso il massimo benessere della persona. Nel precedente documento sulla Umanizzazione ho cercato di esprimere alcuni concetti al riguardo. Qui vorrei insistere piuttosto sul fatto che oggi si tende ad avere una eccessiva fiducia nelle risorse tecniche che (e non sempre per motivi umanitari) vengono messe a disposizione del mondo sanitario. Ciò spiega anche la facilità con la quale da parte di alcuni governi e parlamenti, sono state varate leggi in materia di aborto, di eutanasia, di interventi manipolatori sulle strutture genetiche. Tali tendenze vanno contrastate. Ma per farlo in maniera efficace occorre essere al passo, conoscere a fondo i vari problemi, evitando sterili accuse o posizioni astrattamente rigide di difesa.
Per svolgere seriamente un ruolo non solo critico, ma anche propositivo, dobbiamo collegarci maggiormente con i nostri collaboratori laici, col mondo della Chiesa, con la scienza. Spesso, mancandoci tale consapevolezza, ci limitiamo a constatare, senza intervenire, mentre dovremmo essere in grado di offrire al mondo sanitario idee e progetti, aperti a quanto di positivo ci viene dalla scienza e dalla tecnica.
80. E soprattutto, quando vediamo minacciata la sacralità dell’uomo, da qualsiasi parte venga la minaccia, dobbiamo avere il coraggio umano e religioso di intervenire.
Non possiamo tacere di fronte a ingiustizie, tradimenti, pigrizie, a soluzioni difformi da ciò che umanità e fede ci suggeriscono. Ne va di mezzo la nostra vocazione, il nostro impegno di alleati dell’umanità che soffre. Tacere in simili casi equivale ad acconsentire. Ma ancora una volta per parlare, per indicare strade nuove e giuste, dobbiamo possedere una preparazione adeguata, essere all’altezza del compito. Purtroppo, non è sempre così. E torniamo alla indispensabile collaborazione dei laici. Per raccogliere vittoriosamente le sfide del tempo, ci serve un collegamento, uno scambio assiduo con esperti delle varie materie: professionisti delle scienze mediche, biologiche, umane, in grado di garantirci quella preparazione di cui oggi non si può fare a meno.
Come vostro Priore Generale ha sempre, praticato questo scambio, ricevendone spesso critiche, quasi che il Carisma dell’Ordine venisse contaminato o snaturato per il fatto stesso che collaboratori laici, interni ed esterni all’Ordine, erano stati da me interpellati. Sono più che mai convinto del contrario: il nostro carisma sprigionerà tutta la sua forza allorché ci saremo aperti al carisma, umano e scientifico, dei collaboratori laici.
81. Nessuno detiene tutto il sapere sanitario, come non dei laici esiste quasi mai un approccio esclusivo verso il malato. Sono perciò necessari i contributi di persone che operano nel mondo della salute; molti di essi hanno un grande rispetto, a volte ammirazione per il nostro Ordine. Esso non potrà che trarne vantaggio se, con determinazione, noi saremo capaci di costruire rapporti di stima, di amicizia, di mutuo sostegno con i nostri collaboratori e con quanti, all’esterno dell’Ordine, possono offrirci il loro contributo. Ne guadagneranno in efficacia e in incisività la nostra azione e il nostro ruolo di coscienza critica verso i misfatti compiuti, magari in nome della scienza, contro il debole, il malato, il bisognoso.
Il nostro ruolo di anticipatori
82. Oltre al compito di testimoni, di guide morali e di coscienza critica, ci attende quello di anticipatori, di innovatori. Primo grande anticipatore è stato il nostro Santo Fondatore, e dopo di Lui quanti, nonostante l’indifferenza, il disprezzo e l’ostilità dei più hanno saputo percorrere, nel campo del nostro Carisma, nuove strade. Altre ne restano da scoprire, miei cari confratelli! Non è vero che tutto ormai sia stato scoperto e realizzato: i bisogni materiali e spirituali dell’uomo sono minacciati anche nelle nostre Opere, quando certi bisogni vengono ignorati, sottovalutati, o addirittura manipolati a nostro uso.
Per convincersi che esistono molte necessità non soddisfatte nel campo della assistenza al malato del nostro tempo, basta scorrere l’elenco delle Associazioni di Volontari che pullulano in tutto il mondo. Esse si occupano degli handicappati, dei cardiopatici, dei drogati, degli alcolizzati, dei malati di cancro, degli spastici, dei diabetici, dei laringectomizzati, degli psicotici, degli epilettici e così via. È impressionante notare l’ingente numero di persone che si dedicano con passione e in modo gratuito alla soddisfazione di bisogni materiali, sanitari, psicologici che il nostro trionfante mondo della Sanità non riesce spesso neppure a sfiorare.
83. Alle volte noi crediamo di avere esaurito il nostro compito, convinti che non esistano più necessità da cogliere e da soddisfare! Quanta supponenza e ingenuità in questo nostro atteggiamento! Il mondo del volontariato, splendida realtà del nostro tempo che testimonia quante persone generose operino al di fuori degli ordini religiosi, è lì a dimostrarci che nella nostra società cosiddetta avanzata c’è tanto da fare per noi nei prossimi anni al di là del nostro mondo ospedaliero. A fondare queste associazioni di Volontariato sono di frequente persone che hanno vissuto la malattia in prima persona o nei loro familiari; e dopo aver compreso che le strutture sociali e sanitarie non sono in grado di sostenere patologie così vistose e così poco gratificanti dal punto di vista del prestigio professionale, hanno deciso di far da sé, realizzando una catena di solidarietà da far arrossire di vergogna qualcuno di noi, quanto a spirito di dedizione, di sacrificio, di gratuità. Miei cari confratelli, queste persone svolgono un ruolo di primissimo ordine, sono esemplari anche per noi e soprattutto stanno anticipando nella società del benessere, a prezzo di enormi sforzi, le nuove frontiere della salute.
84. L’uomo del prossimo futuro non potrà affrontare da solo le sfide e i disagi che comporterà, paradossalmente, il progresso scientifico. Tale progresso ha allungato la durata della nostra vita e ciò è molto positivo; ma non ha fatto molto per la qualità della vita dell’anziano, del malato cronico, del disabile. Ed è facile prevedere che aumenteranno sempre più le forme delle patologie croniche e il disagio dei giovani che, di fronte alle seduzioni della società dei consumi e del benessere, cercano vie traverse ‑droga, violenza, indifferenza‑ per affermarsi o per dare in qualche modo un senso alla loro esistenza. Dunque noi dobbiamo cercarlo, quest’uomo del nostro tempo, studiarlo, amarlo, sforzarci di comprenderne i bisogni e i disagi, e soprattutto le motivazioni vitali. Noi che abbiamo il compito di restituire la salute, non possiamo limitarci ed essere dei semplici riparatori di corpi. Dobbiamo seguire quest’uomo che, lasciato l’ospedale, si trova a volte senza lavoro, senza un sostegno con molti problemi anche di ordine psichico. Dobbiamo avere per lui una autentica capacità di comprensione, utilizzando non solo la cartella clinica, ma anche la scheda invisibile del disagio emotivo del nostro paziente ospedalizzato. La paura che il malato avverte (di morire, di perdere il lavoro, affetti e vita di relazione) è tremenda in molti casi, e non va mai ignorata. Diversamente noi restituiamo al mondo un uomo ferito e incompreso, e ciò offende Dio, l’uomo, la nostra fede, la carità. Il nostro ruolo di anticipazione passa attraverso il riconoscimento di questi bisogni: queste iniziative nuove e meritorie possono nascere, col risultato di eliminare l’antica scissione fra anima e corpo, fra natura e cultura, fra bisogno corporale e bisogno spirituale; una scissione per comodità operata da noi, dalla medicina cosiddetta scientifica, dall’ospedale trasformato in officina di riparazione, se, parando ciò che è, intimamente unito nella persona umana.
85. Nell’ospedale dunque si apre un campo inedito al nostro futuro operare, che richiede il coinvolgimento di molte persone, compreso lo stesso malato; un operare che coinvolge in misura molto maggiore la nostra professionalità la nostra umanità. Ho già avuto occasione di dirlo, ma lo ripeto ancora qui con una profonda convinzione che vorrei partecipare a tutti voi: il malato è la nostra Università, il nostro datore di lavoro, colui che ci guida nelle nostre scelte professionali. Dobbiamo captarne e interpretarne i messaggi, le proteste, i drammi, le esigenze. Ascoltando il malato, noi potremo modificare radicalmente il nostro modo di essere uomini e religiosi, le nostre strutture, i nostri organigrammi. Chi di noi fosse tentato di lasciare le nostre Opere per testimoniare altrove la buona novella, è invitato a restare anche solo mezz’ora al giorno accanto ad un malato: cambierà presto idea. Anche l’ospedale è terra di missione, forse anche più che il Terzo Mondo, dove c’è miseria ma ancora tanta umanità!
86. Questo esercizio di ascoltare un malato al giorno lo raccomando ad ognuno di voi. Dopo un po’ di tempo scoprirete che essere anticipatori, oggi, nelle nostre Opere significa saper ascoltare il malato e agire di conseguenza.
Dall’ascolto scaturiranno progetti di studio, di ricerca, di sperimentazione, di cambiamento delle nostre abitudini vecchie e improduttive.
All’inizio questo potrà essere particolarmente faticoso per chi ha perduto la capacità di sintonizzarsi con la lunghezza d’onda degli altri o ha eretto barriere protettive che impediscono al malato di aprirsi a noi. Ma se avremo la forza di continuare, i risultati non si faranno attendere. Intanto, prepariamoci a sconvolgere il nostro Io interiore: se «sapremo ammalarci» col malato, il nostro Ordine non solo si rinnoverà ma andrà ben oltre il 2000.
Il nostro rapporto con la Chiesa
87. La Chiesa, finalmente, ha affermato in modo concreto il suo interesse verso le Opere ospedaliere dei religiosi, attraverso l’istituzione della Commissione Pontificia per i problemi della Sanità. È un riconoscimento importante che colloca la nostra vocazione e la nostra azione al posto giusto. Per quanto ci riguarda, dobbiamo sentirci orgogliosi per questo evento e insieme stimolati a condividere sempre più la missione della Chiesa, cioè l’evangelizzazione che è sempre connessa con la promozione umana.
88. Dobbiamo trarne motivi di impulso per la crescita della nostra fede, per la pratica evangelica nella nostra vita quotidiana, e per una più incisiva presenza nel mondo ecclesiale. Si tratta cioè non solo di saper fare, ma anche di far sapere alla Chiesa ciò che noi stiamo compiendo e intendiamo compiere per il benessere dell’uomo e per la sua anima. Forse, talvolta ci accompagna ancora un antico sentimento di inferiorità, un atteggiamento di modestia che tuttavia non ha senso: noi siamo, a pieno titolo, testimoni e operatori concreti di quel messaggio evangelico che la parabola del buon Samaritano riassume in modo cosi significativo. La nostra ricerca, il nostro aggiornarci, i nostri progetti per il futuro non possono rimanere nel solo ambito delle nostre case, ma debbono arrivare, anche per ottenerne risposte e conferme, a tutti gli uomini di Chiesa, clero e comunità ecclesiali.
89. La Chiesa ha bisogno di noi come noi abbiamo bisogno di Lei, e ciò sarà sempre più vero nei prossimi anni. È indispensabile comunicare all’interno della Chiesa. La nostra vocazione e il carisma del nostro Ordine nella loro identità e nei loro programmi, debbono essere ben presenti al mondo dei credenti, per diventare per essi uno stimolo e che un modello, una strada per realizzare la comune vocazione battesimale alla santità. Le beatificazioni di Fra Riccardo Pampuri (1981) e di Padre Benedetto Menni (1984) ci confermano tutto questo: anche il nostro carisma fa parte del patrimonio della Chiesa.
Contribuiamo dunque a creare una vera Comunità ecclesiale, manifestando il significato profondo delle nostre attività e facendoci conoscere per quello che siamo. I credenti, i giovani soprattutto, devono capire che il nostro operare è meritevole non solo agli occhi del mondo, ma anche e soprattutto agli occhi di Dio; questo può far sì che uomini coraggiosi scelgano di unirsi a noi e al nostro Ordine per continuare a testimoniare la sacralità dell’uomo bisognoso.
90. In questi ultimi anni si è notato un confortante risveglio di vocazioni; ciò deve impegnarci ancor più e responsabilizzarci verso una maggiore e migliore divulgazione, nel mondo della Chiesa e dei credenti, della nostra immagine e del nostro operare. Spalanchiamo le porte di casa nostra, utilizzando i mezzi di comunicazione più congeniali, perché l’Ordine di S. Giovanni di Dio mostri al mondo tutta la carica attuale e moderna di amore per il prossimo.
V. LA COMPRENSIONE DELLE NUOVE CATEGORIE DI BISOGNOSI
Nello spirito delle nuove Costituzioni
91. In questa parte cercherò di illustrare, rifacendomi alla tradizione di S. Giovanni di Dio, ai segni del Tempo e alle Nuove Costituzioni, le categorie dei nuovi bisognosi per una ricerca che impegni le Comunità e le Province ad una costante revisione del nostro operato, confrontato con l’evoluzione delle problematiche e delle situazioni particolari, come ci invitano a fare le Nuovissime Costituzioni. Certo, non possiamo esaurire le risposte nell’indicare la pur ardua strada della rottura delle abitudini e del cambio dei ruoli professionali. Occorre proporre l’alternativa di una autentica esperienza religiosa a salvaguardia dei valori umani come modello e indirizzo delle nostre Opere. Ancora, è opportuno ampliare il nostro concetto di bisognoso proiettandoci nel nostro tempo e nelle sue problematiche.
Già nei capitoli precedenti, questo concetto è stato ridefinito per evitare i pericoli di appiattimento; l’animo nel bisogno ‑si è detto‑ si trova dovunque, anche nell’uomo all’apparenza potente e ricco di mezzi materiali.
L’umanità è offesa in varie forme. Incredibilmente, come mostro invincibile, il male si trasforma con sembianze diverse, si presenta nelle più svariate situazioni anche quando sembra quasi debellato. Sta a noi individuare i nuovi bisogni del malato e, soprattutto, le nuove categorie di bisognosi.
92. In certe regioni della terra ancora troviamo, come ai tempi di S. Giovanni di Dio, malati e poveri inermi, esposti crudamente alle intemperie, senza cura, per le vie della città; ma in altre aree queste situazioni di dolore sono quasi del tutto scomparse: nei paesi economicamente progrediti il male non si manifesta in modo così evidente; è più subdolo, legato talora alle ideologie e alle mode culturali. V’è dunque la necessità di un accorto giudizio e di un’attenta revisione di atteggiamenti che non si risolvino in imitazione pura e semplice, ma siano costantemente riferiti ai valori morali. È compito delle nostre comunità affrontare seriamente questi problemi; le nostre Province devono individuare, nel loro territorio, le nuove situazioni di bisogno e diversificare gli interventi, con gli opportuni mezzi terapeutici. Nelle pagine successive toccheremo alcuni argomenti fondamentali dell’esperienza terrena dell’uomo: in particolare la vecchiaia e la morte, momenti dell’esistenza che oggi vanno assumendo valenze diverse e sono stati ridefiniti culturalmente e socialmente. Cercheremo anche di esemplificare maggiormente il tema delle «nuove categorie» di bisognosi, intendendo con questo termine non solo il povero, il malato. Ma chiunque lotta per riacquistare la sua identità di persona.
Il pianeta giovani
93. Una casistica quanto mai varia e abbondante, che conferma ancora una volta una realtà: l’uomo bisognoso, senza assistenza, esiste tuttora e si presenta, sotto vari aspetti, in tutte le società contemporanee. Nella sua vasta gamma notiamo oggi la triste, sempre più massiccia presenza dei giovani. Non possiamo restare indifferenti davanti ai moltissimi tossicodipendenti, malati nell’anima, colpiti nell’età più vulnerabile più ingenua. Di fronte ad essi diventa imperativa una nostra risposta che raccolga la sfida del male, anche superando la normale struttura dei nostri centri di cura organizzando presidi terapeutici di nuova concezione in grado di affrontare e di contrastare con interventi efficaci, riducendola, la progressività del fenomeno.
Se osserviamo più attentamente, li potremo vedere, questi nuovi bisognosi, come S. Giovanni di Dio li vedeva per le vie di Granada: sono oggi gli anziani, i tossicodipendenti, gli uomini spiritualmente fragili.
San Giovanni di Dio diede l’esempio, indicò la via da seguire quando ancora in pochi capivano: confortò i poveri, gli emarginati di ogni specie, recò sollievo ai malati senza nessuna distinzione. Il suo esempio, oggi come ieri, ovunque è denso di frutti: la sua intuizione si è tradotta in realtà concreta, in una reale conquista civile.
Spetta a noi imitarlo, ricchi del suo insegnamento, non solo percorrendo il cammino già noto, ma soprattutto interpretandone la perenne novità: cercare il bisognoso dovunque si trovi anche nei palazzi della grande città, confortarlo, aiutarlo, rispettarlo, nel contesto dei nostri tempi. In questo senso intendiamo oggi il compito fondamentale, nella continuità della nostra tradizione carismatica, sapendo discernere tra gli aspetti contingenti e i valori immutabili.
94. Ho parlato di continuità: ma essa non risiede nel mantenimento di ruoli, bensì nell’esercitare veramente il nostro carisma, nell’individuare i nuovi campi nei quali intervenire con rinnovato slancio.
La diversità dei nostri tempi, se da un lato ci consiglia di adeguarci alle nuove metodologie e all’uso di quegli strumenti che l’intelligenza umana ha saputo offrire per riscattare dalle miserie e dai mali della vita l’uomo, dall’altro soprattutto ci impone di riscoprire nella sua freschezza il messaggio imperituro del Vangelo e di S. Giovanni dì Dio, che ha saputo essere un interprete formidabile dei bisogni della sua epoca. Continuità non conservazione dello «status quo». E ancora: una continuità che non è conservazione dello «status quo», ma attenzione alla sostanza oltre le mode effimere e i luoghi comuni, che si propone come valore innovatore, realmente rivoluzionario in una società che gratifica la massificazione, il consumo, il successo, l’efficienza produttivistica, la potenza, trascurando l’uomo nella sua irriducibile individualità e solitudine, quale si manifesta problematicamente nella dimensione della malattia.
95. Dobbiamo infine ricordare che un’autentica missione di guida spirituale non si esaurisce nell’ambito delle nostre strutture, ma si espande in un più vasto raggio alimentata dall’eco che le nostre azioni suscitano, presentandosi. come modelli d’intervento autenticamente umani, innovativi, espressione di una cultura «dell’uomo» e «per l’uomo». Non diversamente a suo tempo San Giovanni di Dio, con il suo umile magistero, richiamò l’attenzione del sovrano, il quale fu talmente convinto del suo esempio che finanziò la costruzione di nuovi ospizi per i poveri in una dimensione completamente diversa dal passato.
VI. LA RICERCA COME MOMENTO DI RINNOVAMENTO DELLA NOSTRA OSPITALITA’
L’esempio del Fondatore
96. Correva l’anno 1495. Da poco Cristoforo Colombo aveva visitato alcune isole dei continente americano. Ancora non si potevano prevedere le grandiose conseguenze culturali ed umane di queste scoperte, anche perché Colombo non sapeva, quando intraprese il suo viaggio, che non avrebbe raggiunto l’Oriente, ma avrebbe incontrato sulla sua rotta, inaspettatamente, ignote terre, uno sconosciuto e grandioso continente. Egli però desiderava allargare le conoscenze, provare nuove strade, da sostituire o da affiancare a quelle vecchie. Colombo, partecipe di quello spirito di ricerca e di avventura tanto frequente negli ingegni della civiltà umanistica, i quali credevano fermamente nella centralità dell’uomo e intendevano l’intelligenza come dono divino per conoscere, comprendere, governare la natura circostante, si lasciò guidare da questo spirito di ricerca e affidandosi alla protezione di Dio osò sfidare l’ignoto Oceano. Ma non fu un temerario irresponsabile. Prima di affrontare i pericoli della navigazione in alto mare aveva studiato, analizzato, discusso e sofferto il suo progetto.
97. Ebbene, in quell’anno 1495 mentre l’Europa ancora stupiva per i meravigliosi racconti dei navigatori, Giovanni Ciudade nasceva nella provincia di Evora, in Portogallo, in una località non molto distante dal porto da cui aveva salpato Colombo. Giovanni, spinto da inquietudine interiore e da sete di avventura, girò varie terre, finché vedendo come venivano trattati i malati, soprattutto quelli mentali e i poveri infermi abbandonati lungo i portici delle vie cittadine, intuì la via da seguire e osò dedicarsi con tutte le sue forze alla costruzione di un ospizio per aiutarli, ma con ben altri metodi e spirito rispetto a quelli comuni ai suoi tempi.
E quando, uscendo dalla Cattedrale di Granada, vide nella Calle Lucena un edificio adatto alle sue esigenze, non esitò a seguire la voce del cuore attuando il piano a lungo meditato, pur consapevole dei limitati mezzi di cui disponeva. Era l’anno 1537. Egli in quel momento, non sapeva né forse pensava, che il suo gesto ‑di carità, di dedizione alla causa dell’umanità dolente‑ un gesto che in, quel momento poteva apparire temerario, isolato, economicamente insostenibile ‑ avrebbe spinto gli animi più generosi ad aiutarlo nelle fatiche quotidiane e a condividere la sua passione di carità; egli nemmeno sapeva che il suo esempio sarebbe stato ripreso e perpetuato da tanti generosi che avrebbero speso la vita per mantenere vivo lo stesso spirito di carità cristiana.
98. Giovanni di Dio osò pensare e progettare. Inventò dal nulla ‑se ci riferiamo ai criteri di assistenza ai malati in uso a quei tempi‑ il suo modello, suddividendo in modo razionale i locali, distinguendo gruppi di malattie per reparti, diversificando le terapie, trasformando anche e soprattutto spiritualmente l’approccio con gli infermi. San Giovanni di Dio, però, non improvvisava senza logica: traduceva in pratica la lezione del Vangelo, le sue esperienze interiori di conversione, la sua meditazione religiosa, che gli faceva intuire la rotta, illuminante da indicare agli altri. Così il nostro Ordine ha portato quel modello di spiritualità in tanti paesi del mondo.
Viaggio di ricerca
99. Se ho accostato Giovanni di Dio a Colombo, è stato non per metterli a paragone, bensì per presentarli sotto metafora. Le metafore spesso sono più utili del microscopio per vedere l’infinitamente piccolo e più potenti del telescopio per osservare gli astri. Esse, più che i ragionamenti razionali, possono stimolare la nostra fantasia e il nostro spirito, aiutandoci a vedere in modo diverso ciò che magari è già di fronte a noi, ma che noi non riusciamo a mettere a fuoco. Perciò, vorrei approfondire alcuni concetti. Il viaggio di ricerca non è un motivo nuovo per noi cristiani. È anzi una esigenza vitale. Non possiamo continuare a percorrere strade già abusate, talora insoddisfacenti, tortuose; strade che, se nel passato hanno avuto il pregio di intuizioni pionieristiche, oggi appaiono univoche e limitanti.
L’inerzia è nemica della fede. Cristo si è incarnato per rivelarci la via del Regno dei Cieli, sulla quale ha voluto precederci col Suo esempio e la Sua morte redentrice. Possiamo noi religiosi restare ancorati nei nostri tranquilli porti, timorosi di intraprendere un nuovo viaggio verso l’uomo, quando la nostra stessa esistenza è un viaggio, tormentato e faticoso, verso la salvezza? Il nostro dovere è di ricercare l’uomo, il bisognoso.
100. Non incontreremo sulla nostra rotta continenti ignoti; San Giovanni di Dio ha già indicato alla coscienza individuale e sociale l’universo dei poveri e la loro umanità offesa. Durante la nostra navigazione scopriremo quasi certamente altre anime tormentate da nuove forme di bisogno.
Oggi gli Stati civili riconoscono il diritto insopprimibile di ogni individuo alla salute; la malattia non è solo un malessere personale, ma un fatto sociale collettivo di cui lo Stato si fa carico garantendo anche ai poveri la necessaria assistenza.
Quando San Giovanni di Dio iniziò la sua impresa con la temerarietà dei giusti, le cose non andavano in questo modo. Ma egli aveva assimilato bene la lezione evangelica, e da essa prese l’avvio il progetto di riscatto del sofferente emarginato. Un progetto che avrebbe trovato, nei secoli, solidale tutta la Chiesa.
101. Il nostro Santo Padre, Giovanni Paolo II, nel discorso di chiusura del Sinodo, ha ricordato infatti che la Chiesa desidera con tutte le sue forze servire l’umanità affinché la vita dell’uomo sia sempre più degna, e desidera anche difendere i diritti inalienabili della persona, fedele allo Spirito Santo generatore di vita e all’insegnamento di Gesù Cristo, che si è sacrificato per noi, per persuaderci a cercare nel bene, nell’amore, la vera vita, rivoluzionando la gerarchia dei valori.
Dobbiamo raccogliere questo pressante invito ‑ lavorare al servizio dell’umanità, lottando per affermare il rispetto dell’uomo e rifiutando e rivoluzionando, dove possibile certi modelli culturali che non tengono conto dell’autentica dignità umana.
102. Ogni cristiano, ogni religioso dove essere come un pioniere in cammino verso la Terra Promessa. Dobbiamo dunque comportarci come intrepidi naviganti che credono sia possibile giungere alla comunicazione con le anime, e per questo non si stancano di indagare l’animo umano, di rivelarne la grandezza, di conoscerne i bisogni per portargli sollievo. Queste sono le nostre mete.
Nella prima parte del documento sono stati individuati alcuni particolari ruoli del nostro ministero. In primo luogo quello di testimoni, poi quelli di guida morale, e di coscienza critica, infine il ruolo di anticipatori. Successivamente, ho richiamato alla vostra attenzione la necessità di comprendere nuove categorie di bisognosi, mentre nell’appendice indicherò alcune di tali categorie, che fanno parte di quell’Oceano che è l’«uomo che soffre». Ma per dare chiarezza di motivazioni ed efficacia concreta ai nostri interventi, è necessario che ci incamminiamo verso una autentica ricerca religiosa, professionale, umana, individuale e collettiva. Proprio questo spirito di ricerca, da realizzare e da potenziare in tutte le comunità, mi sono sforzato di infondervi e di alimentare attraverso questo documento, aiutato soprattutto dalle Nuove Costituzioni.
Al passo coi tempi
103. Mi sia concesso insistere sull’argomento, non rimaniamo insensibili ai progressi della conoscenza medica; e per quanto siano esemplari l’impegno e lo spirito di solidarietà dei nostri confratelli, corriamo il rischio di trovarci impreparati culturalmente, professionalmente e spiritualmente di fronte alle domande dell’Uomo e della Chiesa dal nostro tempo, alle istanze della tecnologia avanzata che toccano da vicino la possibilità di sopravvivenza e di sviluppo del nostro Ordine.
104. Noi siamo chiamati a lavorare su questa terra per la salute-salvezza nostra e del malato. La nostra fede e la nostra coscienza di religiosi devono spingerci ad intervenire in tutte quelle situazioni in cui, a causa di pigrizie, abitudini, incoltura e scarsi collegamenti, la salute e la salvezza del malato, (e quindi anche nostra) sono in pericolo.
Tutto questo ci obbliga ad ascoltare, a capire, a cercare di imparare, a coordinare, a prevenire, a riflettere in ultima analisi, sempre aperti e pronti a mettere in discussione i nostri atteggiamenti. Senza lasciarci prendere dallo scoramento se ‑ad esempio‑ in alcune Province i confratelli sono in diminuzione o se i collaboratori sono più preparati di noi. Dalla nostra crisi possiamo trarre un frutto più grande perché i nostri sforzi, invece di esaurirsi in interventi particolari e limitati avranno un respiro maggiore inserendosi in un programma di lavoro ben più ampio e costruttivo.
105. Occorrono sicuramente energia e sacrificio, ma noi, cari confratelli, abbiamo scelto proprio di servire Dio e l’uomo, con pazienza e devozione, allorché abbiamo deciso di entrare nell’Ordine.
La chiusa dimensione specialistica non è per noi, anche se potrebbe apparire gratificante a prima vista e immediatamente valida e operante; finirebbe per chiuderci in una gabbia, impedendoci la visione dei fatti nella loro dimensione spirituale e universale, inaridendoci con una tecnica spinta all’esasperazione. Del resto, se decidessimo di seguire questa strada, disperderemmo energie, ruberemmo tempo prezioso al nostro lavoro perdendoci nel labirinto di conoscenze tecniche particolarmente sofisticate. Noi non possiamo limitarci al ruolo di tecnici addetti a macchine e a monitors, non è per questo che abbiamo emesso i voti. In questi ruoli ‑lo ripeto ancora una volta‑ meglio di noi e con maggiore efficacia possono agire i nostri collaboratori laici. Non priviamoci dunque di tempo prezioso da dedicare alla salvezza delle anime e alla salute dell’uomo. Il nostro bagaglio di conoscenze va orientato in un ambito molto più vasto, per finalizzare la nostra azione ad un disegno complessivo in cui prevalga una cultura a dimensione umana, volta alla salvezza spirituale, al recupero dell’armonia psicofisica e del benessere, come testimonianza attiva e militante e la carità, dell’amore, del servizio umile e disinteressato verso il bisognoso.
106. In tal modo, aperti al mondo, curiosi intellettualmente, attenti alle trasformazioni, forti nella fede e generosi nell’impegno, come singoli religiosi e come comunità continueremo il carisma della nostra tradizione adeguando la nostra azione ai nuovi bisogni umani.
APPENDICE
Introduzione
Nella parte che segue ho pensato di scendere al concreto, individuando tre categorie di bisognosi del nostro tempo tra i quali noi possiamo mettere alla prova la nostra «stoffa» di religiosi nei ruoli di testimoni, di guide morali, di coscienza critica e di anticipatori. Avrei potuto ampliare il ventaglio delle situazioni, ma ho tralasciato di farlo mantenendolo aperto ad ogni suggerimento o integrazione, al contributo di esperienze nuove e singolari che ciascuna Provincia o singola Comunità può già avere affrontato in questa stessa ottica. Ciò che mi interessava era comunicarvi lo spirito che ha dettato queste pagine, e che si rifà alle nuove Costituzioni, cioè il testo sul quale ho lungamente riflettuto e pregato prima di mettermi al lavoro.
L’anziano, il moribondo, il drogato: tre gruppi di persone umane che più di altre risentono della emarginazione, della solitudine e dell’abbandono. In un mondo dove conta soltanto produrre e consumare, chi non è giovane e sano perde totalmente di rilievo sociale. Ecco dunque un campo in cui ‑nell’indifferenza e nell’abbandono di cui spesso sono responsabili anche le istante politiche ‑ il messaggio e la testimonianza dei moderni samaritani (e noi siamo e vogliamo essere tra quelli, come autentici seguaci di Cristo e di Giovanni di Dio) possono veramente «salvare» l’uomo e ridargli serenità e fiducia. Sono le nuove frontiere del nostro apostolato, i «segni dei tempi» che devono guidare l’Ordine ospedaliero nella costruzione del proprio futuro stabile.
I) LA VECCHIAIA
Un fenomeno in esplosione
Una delle realtà nuove del nostro tempo è rappresentata dall’invecchiamento della popolazione, tanto più accentuato quanto più l’uomo partecipa agli enormi benefici del progresso economico, sociale, culturale, sanitario. Il fenomeno non si manifesta solo nell’aumento della durata media della vita, ma anche nella percentuale assoluta di anziani nella società: la contrazione delle nascite, modificando i rapporti, determina infatti un aumento relativo degli anziani.
Nel recente convegno di Milano Medicina sono state ipotizzate alcune cifre per il Duemila: in Italia ‑ad esempio‑ avremo 131 anziani ogni 100 bambini. Ci troviamo dunque di fronte ad una vera esplosione demografica della «terza età» se si pensa che all’inizio del secolo in Italia vi erano appena 28 ultrasessantenni ogni 100 bambini. La situazione si ripresenta identica in tutti gli Stati tecnologicamente sviluppati.
La scienza, che si era proposta il grande compito di aiutare l’umanità a vivere di più, ora si è prefissa il traguardo di vivere meglio la stagione della vecchiaia.
Il problema dell’anziano, dunque, di fronte a queste cifre, assume nella società attuale, un’evidenza anche quantitativa. Finora le società occidentali si erano interrogate soprattutto sul peso economico di milioni di pensionati, il che ha provocato ripensamenti e dubbi sul concetto di stato assistenziale. Sembra ora che, all’improvviso, i progressi scientifici e l’«esplosione demografica» abbiano suscitato una maggiore attenzione verso questo problema, cogliendo quasi di sorpresa gli interessati e i responsabili.
La cultura del giovanilismo
La cultura del nostro tempo non è molto preparata per affrontare questo fenomeno. Infatti, se osserviamo i comportamenti degli stati nazionali, noi riscontriamo un investimento elevato in asili, scuole, università, cioè rivolto ai giovani, mentre si verifica un brusco calo di attenzione pubblica verso la stessa persona quanto arriva ad una certa età. Ciò, naturalmente, è vero entro certi limiti, in quanto i politici dei nostri paesi si sono dati da fare per organizzare qualcosa per gli anziani, soprattutto per quelli che si ritrovano emarginati nella solitudine. Questo qualcosa si muove secondo due direzioni: assistendo i più poveri tra essi in centri specializzati, che spesso sono l’anticamera del cimitero, cercando di coinvolgerli in qualche attività che li mantenga in contatto coi giovani.
Tuttavia non possiamo ignorare, con occhio critico verso i modelli culturali della nostra epoca, che molto spesso questi interventi sono parziali o risentono della mentalità dominante, alla cosiddetta «Young culture», centrata sul giovanilismo, sull’efficienza fisica e sull’edonismo, a spese di altri valori.
Il modello paradigmatico è costituito dall’individuo giovane: e gioventù significa bellezza, salute, vitalità, efficienza. Queste sembrano essere le categorie per giudicare la vita degna o non degna dell’uomo, i parametri della vivibilità dell’esistenza. L’uomo giovane, quindi, nel pieno della possibilità psicofisica e produttiva rappresenta l’uomo «tout court».
Questo modello spiega tante cose. Ad esempio quella moda per cui tanti volonterosi animatori sociali inducono molti ultrassessantenni a sgambettare in feste da ballo o a praticare jogging, e footing con la sicurezza di compiere un’opera apprezzabile e nobile. Ma questa è solo una parziale risposta e per giunta con aspetti insidiosi, in quanto l’anziano posto in questa dimensione è spinto a rifiutare la sua età e recuperare la giovanilità perduta nella speranza di essere accettato.
La società può anche accettare il vecchio, ma a patto che faccia il giovane, che scimmiotti un’età che non ha più. Quale tristezza di fronte a queste situazioni, che costituiscono una barbarie bella e buona, non giustificabile nemmeno da un presunto amore per la gioventù. È una barbarie perché si limita ancora una volta la vita nella sua interezza, la si scinde in epoche, riducendola, forzando chi non ha più la «fortuna» di essere giovane ad assumere atteggiamenti incoerenti con la propria età psico-fisica, che rendono incongruente e perciò ridicola la persona stessa.
Questo tipo di atteggiamento può generare processi patologici di rifiuto della propria età, del proprio aspetto e del proprio ruolo, nonché di sofferenza psichica, poiché si spezza l’unità corpo-spirito il tempo cronologico e il tempo psicofisico del nostro Io più profondo. Questo processo collettivo di rimozione culturale della vecchiaia richiama quello analogo della morte.
Sulla donna, sull’uomo, sul bambino, sull’adolescente esiste un’abbondante letteratura, sulla vecchiaia no. Siamo di fronte ad un altro tabù della società civile odierna, secondo cui la vecchiaia coincide col preludio della morte, con l’età grigia, con l’affanno e il dolore, il crollo fisico, l’emancipazione dalle gioie della vita. Quanti giovani dicono superficialmente che non desiderano diventare vecchi. E questo perché si immaginano la vecchiaia come paralisi fisica, sofferenza, angosce, limiti, arteriosclerosi, artrosi ecc.
Il linguaggio riflette queste resistenze psichiche: «i meno giovani», la «terza età», la «quarta età», sono termini che quasi sempre sostituiscono «vecchio», «vecchiaia», «anziani». Come se questo nominalismo come se le parole potessero cambiare la sostanza delle cose. «La vecchiaia non esiste, è solo psichica» esclamano gli assertori del giovanilismo.
La società, dunque di fronte a questo problema si comporta da ipocrita. Gli economisti discutono sul peso sociale dei «non attivi» (ancora il nominalismo, con connotazioni economico-produttive). Ma ci domandiamo: e gli «attivi», mantenendo i «non attivi» non assicurano anche per sé una «terza età» migliore?
Enfatizzare l’età giovanile può anche essere operazione facile quando giovani non si è più: tale enfasi nasconde la volontà di non ricordare che anche la gioventù ha i suoi problemi. La visione dell’età dell’oro contrapposta all’età grigia manifesta pienamente la sua infedeltà alla realtà, i suoi limiti. L’uomo, ancora una volta, angosciato dalla morte, per la mancanza di una cultura globale della vita, e quindi della morte, cerca di superarla, di esorcizzarla, di allontanarla, facendo ricorso alla favola della meravigliosa età giovanile, in una sorta di collettiva e fantastica evasione dalla realtà, ricreando il mito di una moderna Arcadia. Questa dimensione culturale carica di ingiuste ed esasperate attese, che inevitabilmente conducono a drammatiche delusioni la vita dei giovani, rendendola ancora più ingiusta verso l’anziano, perché lo mortifica, non gli permette di invecchiare.
Dimensione della vecchiaia
Come tutte le situazioni umane, la vecchiaia ha una dimensione esistenziale: modifica il rapporto dell’individuo col tempo, e quindi il rapporto col suo mondo e con la propria storia: ma se questa situazione viene colpevolizzata, negata socialmente, accade che il rapporto si spezzi producendo effetti perversi fino alla negazione di sé. In altre parole: se la vecchiaia biologica è un fattore che non può essere condizionato, né dalla storia né dalla società, il destino e la situazione individuale del vecchio sono invece un fatto sociale e storico, quindi determinato dalla cultura umana. E ancora, i dati fisiologici e psicologici si possono influenzare reciprocamente determinando fenomeni psicosomatici.
L’anziano è oggetto di manipolazione sociale anche con la suggestione pubblicitaria, che mantenendolo all’interno del circuito produzione-consumo, lo modella come consumatore di illusioni giovanilistiche ed estetiche.
Qualche studioso ha voluto assimilare la vecchiaia ad una malattia e, orre individuare il bisogno del malato, risalire alle partendo da questa ipotesi, ha creato una geriatria fisico-ricostruttiva. Ma ecco, sempre e comunque ci troviamo davanti ad un errore: vecchiaia non è malattia, cioè fatto accidentale, ma norma dell’evoluzione fisica, così come ricostruzione del fisico richiama l’illusione della gioventù. Certo, il miglioramento del tono fisico dell’anziano agisce positivamente sulla sua psiche, crea un benessere maggiore e ritarda la comparsa di alcuni processi degenerativi ossei. Ma ciò a cui dobbiamo opporci non è la terapia fisica, sono i modelli sottostanti di tipo estetico, non morale.
È stato Ippocrate il primo a paragonare le tappe della vita umana al susseguirsi delle stagioni della natura.
Questo riferimento ci fa meglio comprendere il tipo di negazione e di rimozione operata dal modello culturale che abbiamo analizzato: è come se un albero dovesse far finta di non entrare nella spoliazione invernale, coprendosi di finte foglie, prese a prestito… Ci si illude di inibire il «processo di crescita», di evoluzione biologica, in modo artificioso e indecoroso, mettendo in moto un meccanismo di rifiuto che finisce col produrre maggior sofferenze e mutilazioni, strutturando una personalità patologia, in crisi di valori, e senza coscienza di sé.
Una volta il vecchio era saggio. Conosceva cose che spesso risultavano indispensabili per la vita e per la sopravvivenza; deteneva un sapere che veniva tramandato alle successive generazioni. In Africa, ancora oggi, quando muore un vecchio, i sopravvissuti esclamano: «Oggi un libro si è chiuso!». Un tempo il vecchio godeva di grande rispetto e c’era addirittura chi, per questo, come nota lo storico P. Laslett, «esagerava la propria età».
Ma era un contesto sociale diverso. Come nota lo storico Cipolla. «Una società industriale è caratterizzata dal continuo e rapido progresso tecnologico. In tale società gli impianti divengono rapidamente obsoleti e gli uomini non sfuggono alla regola. L’agricoltore poteva vivere beneficiando di poche nozioni apprese nell’adolescenza.
L’uomo dell’era industriale è sottoposto ad un continuo sforzo di aggiornamento e tuttavia viene inesorabilmente superato. Il vecchio nella società agricola è il saggio: nella società industriale è un relitto».
Si capisce allora perché oggi molti vecchi finiscono la vita senza ruolo e paradossalmente, come se si fosse realizzata una nemesi, vi è la vendetta dell’antico sul nuovo: perde il ruolo nella società chi ha goduto del privilegio di produrre e di vivere nella società industriale, mentre chi, come gli artigiani e gli agricoltori, ha vissuto in attività autonome, conserva a vari livelli (mentale, familiare e sociale) una migliore capacità di avere un ruolo anche nella vecchiaia.
È un altro fatto paradossale della nostra società tecnologica: «peso» sociale e percentuale più alta di anziani creano contraddizioni, a cui si aggiunge l’incertezza sull’identità e sui ruoli.
Vi sembra, cari confratelli che in questa tanto decantata età tecnologica non sia tutto oro ciò che riluce? Che abbia ragione non chi sa utilizzare i ritrovati tecnici, ma chi comprende la cultura dell’uomo integrale, per l’intero arco dell’umana esistenza, con i suoi bisogni materiali, culturali e spirituali?
Cultura umanistica e fede religiosa
La cultura dominante permette l’emargínazione perché è una cultura incompleta, parziale, riduttiva. Per uscire indenni dalla trappola del mito tecnologico ci sono di aiuto una cultura umanistica e la fede religiosa. La prima, con l’appoggio di tutte le scienze, denuncia quanto sia illusorio pensare di poter salvare l’universo uomo. La seconda. la fede in Dio, ci richiama alla dignità dell’uomo, alla sua sacralità in ogni tempo, in ogni luogo. Sacralità che viene sancita dalla speranza della resurrezione; infatti «Il Risorto ha liberato l’uomo dalle tre forze antidivine: il peccato, la legge, la morte… credere nella Resurrezione di Cristo è affermazione della vita sulla morte, dello Spirito sulla legge, della Grazia che è verità, bellezza, amore, sul peccato che è chiusura, immeschinimento, bruttura… viviamo senza paura» (Vannucci).
La cultura umanista e la fede assegnano all’uomo un ruolo in ogni momento, ritenendolo capace di essere se stesso: in ogni epoca o tappa dell’esistenza, anche dopo la morte fisica. Come possiamo noi, religiosi ospedalieri, rispondere in modo concreto a questi problemi, dopo aver indagato le ragioni di questa nuova forma di emarginazione?
Certamente non possiamo pensare di cambiare integralmente la società. La risposta, molto semplice, è già implicita nelle precedenti considerazioni. La vecchiaia propone tre aspetti distinti e collegati tra loro: aspetti biologici, psicologici e sociali.
In campo biologico vi sono interessanti interventi da operare: dalla ginnastica educativa, preventiva e rieducativa, alla cura specialistica delle malattie e dei fenomeni tipici dell’età; interventi che richiedono collaborazione e aiuto di esperti qualificati in vari settori. Tuttavia, sappiamo che nemmeno essi sono in grado di ridare completamente la salute, perché non esiste la possibilità di alterare l’evento biologico e quindi il destino dell’individuo verso la vecchiaia.
Un campo d’azione certo meno spettacolare rispetto al conclamato trionfo della medicina o dei ritrovati terapeutici, ma che permette una cura più efficace dell’anziano, è quello psicologico e sociale, centrato sulla disassuefazione ai modelli introiettati dalla cultura dominante.
In altre parole noi tutti insieme, Fatebenefratelli e laici, dobbiamo cercare risposte adeguate, soluzioni idonee a ridare un senso alla vecchiaia, un’identità e un ruolo all’anziano.
Se questo è il fine a cui mirare, dobbiamo concentrare l’attenzione sui modi e sui mezzi per raggiungerlo.
Innanzitutto, occcause e trovare le terapie adeguate, che garantiscano un’assistenza integrale, secondo il sistema di valori ispirato al Cristianesimo. Non possiamo permettere che i nostri centri diventino parcheggi per anziani disadattati.
Essere all’altezza del compito
Per essere all’altezza del compito, necessitano due elementi fondamentali.
In primo luogo il Fatebenefratello deve assimilare una cultura della vita, riaffermare in modo deciso la propria visione religiosa dell’esistenza. In secondo luogo, deve preoccuparsi di ascoltare pazientemente l’anziano, di entrare in contatto con lui, giorno per giorno, senza preconcetti.
Lo scambio reciproco di informazioni, favorito da questa quotidiana esperienza con il malato, renderà più costruttivo il rapporto con gli esperti laici delle varie discipline. Non dobbiamo inoltre temere di affrontare nuove conoscenze, anche mediante la lettura, per poter meglio comprendere delicati e complessi meccanismi psicologici dell’anziano.
Liberiamoci, a questo proposito, del complesso dell’umile Fatebenefratello che si cimenta in un impari, scontro con la cultura contemporanea. Un nostro religioso armato di carità, di fede, di umiltà, svolge un prezioso servizio di amore, lasciandosi guidare dal cuore e dalla sua cultura religiosa. In questo viaggio verso nuove terre, è vero, egli non conosce con certezza le acque in cui gli toccherà navigare, né gli ostacoli che incontrerà. Tuttavia dispone delle strumentazioni per non perdere l’orientamento. Sa che, se non può combattere la vecchiaia nel suo processo fisico, biologico, egli può agire efficacemente sul terreno psichico, mediante quelle piccole attenzioni al soggetto che lo mettono a suo agio, favorendo in lui la serena accettazione del suo stato. Dipende molto da noi se i nostri ospiti vivranno la loro condizione in pace con se stessi e con gli altri, e non come una larvata prigionia.
Un autentico benessere, che può perfino far passare in secondo piano i frequenti disturbi fisici della vecchiaia, passa attraverso il recupero del senso della propria età.
Negli anziani il calo del morale può provocare un brusco declino. È anche questo un fenomeno psico-somatico.
Nonostante la maturità raggiunta, la psiche degli anziani si rivela molto fragile; può bastare una delusione, un cambiamento di abitudini, un abbassamento di certe funzioni per provocare un trauma che origina il declino fisico. A volte, e conviene ricordarsene sempre, il trauma ha origine proprio dal passaggio alla vita in ospedale, nell’ospizio, nella casa di cura: sono momenti vissuti spesso dagli anziani come l’effettivo chiudersi della loro vitalità, come la scomparsa della dimensione sociale, cioè come l’inizio del declino definitivo, preludio di imminente morte. Queste cadute di morale creano una indifferenza e una apatia che vanno contrastate.
Se noi, esseri mortali, non possiamo alterare la fisiologia umana, né illuderci che esistano ricette miracolistiche, possiamo però ricorrere alle discipline psicologiche per interpretare le debolezze e le richieste degli anziani, per dare loro risposte soddisfacenti e stimolanti
Non si tratta certo di ridonare loro gli anni perduti, bensì di collaborare per una migliore qualità della loro vita, rispettandone il «background» socio-culturale, tenendo presente però che la sindrome che abbiamo descritta colpisce indifferentemente le persone agiate e quelle povere. Piuttosto, se una distinzione può avere un valore, è quella legata al sesso dell’anziano.
La donna infatti, finché sta in famiglia, mantiene certi suoi ruoli legati alla precedente condizione di madre, mantiene il rapporto affettivo con i figli e nipoti, si rende utile e sovente è responsabile dell’andamento domestico.
Per l’uomo, invece, l’età della pensione è un gravissimo trauma: egli perde il ruolo di supporto attivo della famiglia senza acquisire quello tipico del passato, allorché il vecchio era riconosciuto come il saggio, il patriarca, la guida autorevole. Egli si sente inutile, colui che non produce, la bocca in più da sfamare: siamo di fronte ad un fenomeno culturale e sociale,e su questo piano dobbiamo intervenire.
A questi fattori di carattere psicologico si aggiungono gli effetti delle malattie croniche più diffuse: ipertensione, diabete, artrite e altre. E qui sono chiamate in causa le necessarie terapie suggerite dalla geriatria. Ma il grosso problema sul quale noi ci dobbiamo concentrare con attenzione è quello psicologico.
Restituire un ruolo all’anziano
Il compito del Fatebenefratelli è quello di restituire il ruolo al vecchio. Occorre esserne consapevoli innanzitutto in prima persona, poiché molti di noi sono anziani o sul punto di diventarlo. E allora dobbiamo chiederci: come viviamo la nostra terza stagione? Sappiamo invecchiare?
Dalla auscultazione di noi stessi dobbiamo trarre conseguenze importanti e conoscenze da trasmettere. All’anziano dobbiamo partecipare le nostre consapevolezze, in modo che impari ad accettare il suo stato. Ciò può dargli serenità e fiducia: spesso l’anziano ha paura di non essere amato e ascoltato; teme perfino che si scambino certe sue idee come degenerazioni psichiche dovute all’invecchiamento. Può subentrare in lui la tristezza di vedere che nella propria vita non c’è più spazio per i progetti e per i sogni, ma solo per i rimpianti, per il fardello dei ricordi che pesa come un macigno nella sua progressiva lontananza e mitizzazione. Sta a noi convincerlo che la vecchiaia è anche la stagione nella quale vengono esaltati valori come l’amicizia, l’amore e la saggezza.
L’anziano ha molto tempo libero, non essendo più gravato dalle occupazioni della routine produttiva; egli può dunque dare molto, proprio nel momento in cui crede di valere poco. L’età della vecchiaia potrebbe veramente essere l’età dei valori umani, più che dei bisogni materiali. Ma a condizione che lo spirito si mantenga giovane, accettando la vita per quella che è. Senza fughe all’indietro o in avanti.
Diceva a questo proposito Papa Giovanni XXIII: «A volte vedo affacciarsi la tentazione di considerarmi vecchio. Bisogna reagire: ad onta delle apparenze esteriori, bisogna conservare vivida la giovinezza dello spirito».
Noi possiamo aiutare l’anziano, anche nel recuperare i ruoli giusti, se siamo capaci di vivere la nostra età, se siamo in grado di convivere con la nostra vecchiaia.
A chi chiedesse «Cosa debbo fare per aiutare il vecchio emarginato, fragile, indebolito, impoverito? », io risponderei: dimmi come vivi o come pensi di vivere la tua futura vecchiaia e ti dirò se e come sarai in grado di aiutare il tuo prossimo anziano.
In concreto la prima cosa da fare è avere un rapporto adulto, maturo, verso la nostra stagione. L’Ordine vive dei doni spirituali e umani dei suoi componenti: senza giovani esso non avrebbe futuro, senza anziani non avrebbe guide esperte. Per questo è auspicabile che tra le diverse generazioni non venga mai meno lo scambio di idee, esperienze, di progetti, in altre parole, non venga meno la creatività.
Uno studio sulle persone centenarie ha messo a fuoco interessanti situazioni di vitalità psichica. La maggior parte di esse fanno piani precisi per il futuro, si dedicano ai passatempi preferiti, hanno resistenza fisica; riempiono bene le loro giornate con, ticcupazioni e attività e non dimostrano, almeno all’apparenza, paura della morte.
Un’altra interessante testimonianza è quella del gerontologo inglese, Alex Confort, che ha detto: «Probabilmente è la nostra prospettiva culturale, non il numero delle cellule cerebrali, che c’induce, in vecchiaia, alla rigidità o, al contrario, alla disponibilità, al mutamento ».
Dunque l’attività intellettuale, la progettualità, l’espressione della creatività personale, gli interessi in occupazioni realizzanti, impediscono un precoce e brusco declino mentale. E le conseguenze di ciò si riflettono nell’umore, nel gusto di vivere, in un rapporto con se stessi e con la propria età sicuramente positivo.
L’anziano ha tempo libero per riappropriarsi dei suoi interessi e per scoprirne di nuovi. Ma ancora una volta occorrerà valutare queste riflessioni e queste esperienze in modo non riduttivo, cioè in una visione integralmente umana, che non prescinda dall’insieme di valori e di comportamenti necessari per risolvere il nodo dell’identità e del ruolo degli anziani. In altri termini, le attività creative e ricreative, pur importanti e necessarie, non possono essere pretesto per una evasione, una fuga dalla noia, dalla crisi esistenziale. Chi volesse propinare questi modelli solo per riempire i vuoti del tempo non coglierebbe il nocciolo del problema. Proprio l’anziano sarebbe il primo ad accorgersi del sotterfugio e proverebbe un’intima insoddisfazione.
Non dobbiamo poi nemmeno tentare impossibili ritorni al passato, a quando l’anziano manteneva salde posizioni sociali; né pensare che sia proponibile come soluzione per tutti un reinserimento dell’anziano nella società produttiva. Tuttavia, non trascuriamo di «usare» la sua esperienza chiamandolo a collaborare con noi allorché servono interventi, analisi, giudizi.
Egli può sicuramente essere utile nel rapporto con altri anziani, magari più bisognosi di assistenza di lui.
Ogni anziano è un microcosmo, una persona, un insieme anche di abitudini, di piccoli personali riti quotidiani che si sono sedimentati durante un’intera esistenza. Ove sia possibile dobbiamo garantire queste forme personali che allontanano la penosa immagine di chi si sente in casa d’altri, privato dei propri oggetti con cui ha a lungo convissuto, propenso a ripensare con nostalgia a tutte quelle cose che gli mancano. E ciò possiamo fare ascoltandoli, colloquiando con loro, scoprendoli poco a poco, evitando di colpevolizzare i loro gusti e i loro atteggiamenti (spesso si pretende che siano seri, saggi, composti; ma anch’essi provano la stessa nostra gamma di sentimenti e di situazioni), costringendoli forse ad assumere identità di «copertura» per venire accettati.
Il recupero del ruolo avverrà innanzitutto a partire dal rispetto per loro: non possiamo certo essere noi ad imporre, a sovrapporre le nostre idee. E anche prima che l’obiettivo sia raggiunto, essi quanto meno ritroveranno la coscienza della propria età, la vivranno senza colpe o rimorsi, senza sentirsi emarginati. Forse quelle situazioni penose di anziani perennemente seduti, depressi, che hanno poche cose da comunicare se non l’esposizione reciproca degli « acciacchi » o conversazioni acidule e pettegole, forse potranno essere definitivamente evitate.
Le famiglie devono collaborare
Ma l’intento di recuperare l’anziano al suo ruolo, vincendone la solitudine non si ottiene completamente se le famiglie non sono coinvolte in questo sforzo collettivo. La famiglia deve essere disponibile al colloquio, anche per rivelarci abitudini, interessi, piccoli fatti, che ci possono aiutare nel nostro operare; deve essere disponibile alla collaborazione, all’incontro, per non estraneare l’anziano dai suoi affetti che gli restano ben presenti nella memoria. Quale armonia potremo ricreare se in lui prevarrà la malinconia? Se si sentirà emarginato, abbandonato come un «relitto» inutile?
Quindi nei nostri compiti rientra anche la sensibilizzazione.dei parenti, coi quali dobbiamo tenere aperto un dialogo sia di ascolto interessato, sia di consiglio.
Ancora una volta si manifesta qui la ricchezza del nostro carisma. Si tratta di sfruttarla in maniera adeguata, con le necessarie aperture ai tempi, non insistendo sui vecchi metodi che a volte sanno tanto di mero paternalismo assistenziale ma scegliendo di rapportarsi al vecchio, di inseguirlo, nei suoi timori, nelle sue difese, nei suoi fallimenti, nelle sue speranze, nelle sue possibilità: solo così il nostro ruolo sarà dì qualche valore.
Come amerei vedere i nostri Fatebenefratelli, vecchi e giovani, discutere non sui casi clinici, ma sui casi umani (e quindi anche clinici), all’interno di un gruppo di costante riferimento nel quale le opinioni di tutti vengano confrontate per dare al religioso che segue l’anziano tutti i suggerimenti che la scienza e il cuore possono mettere a disposizione. Mi piacerebbe vedere i religiosi intrattenersi con i parenti dei loro ospiti anziani, a lungo, non per dare ordini né per redarguire, ma per acquisire informazioni e conoscenze utili ad una migliore assistenza. E infine mi piacerebbe vedere il Fatebenefratelli in colloquio costante con l’anziano, nella reciproca scoperta della propria umanità. Le nostre opere per anziani non sarebbero case di riposo, ma luoghi di attività, di studio, di ricerca, di riflessione, di rivelazione dell’animo umano e, fin dove possibile, di attivazione di tutte le risorse disponibili.
Vorrei, insomma, che il vecchio sul letto di morte potesse dire a noi: «Avete fatto tutto il possibile, spesso più del necessario, a volte avete sbagliato, non avete capito, ma sempre avete avuto l’orecchio attento e il cuore aperto verso di me».
Ho fondate speranze che ciò possa avvenire.
II. IL MALATO TERMINALE
Un pietoso eufemismo
Abbiamo osservato precedentemente quanto sia sconvolgente il problema della perdita del rapporto diretto col malato, e come il lavoro di umanizzazione all’interno delle nostre strutture debba cominciare proprio dal recupero non tanto di un rapporto di natura clinica ‑tra paziente e infermiere‑ quanto piuttosto di un rapporto con l’anima del nostro malato: dobbiamo recuperare quel complesso nucleo di affetti, di emotività, di atteggiamenti dello spirito che interagiscono positivamente nell’incontro tra due persone molto più che il rapporto tra un anonimo degente «numerato» e un asettico professionista addetto alle sue cure. Sappiamo anche che questo incontro sollecita, stimola un reciproco accrescimento spirituale. Il discorso si fa più arduo di fronte ad un particolare tipo di malato, il morente, che con pietoso, quasi esorcizzante eufemismo viene definito «malato terminale». Restiamo pensosi, non solo per lo svanire della vita terrena nel mistero della morte nella speranza della resurrezione futura, ma anche per la constatazione amara di quanto il nostro operare sia impotente, non riuscendo ad intervenire in modo positivo in quel momento, il più importante dell’esistenza umana.
Come cristiani sappiamo quanto sia decisivo questo trapasso per ogni uomo, per ogni anima; sappiamo quali travagli psichici, quanta pena provi il moribondo e in che modo dolce e disperato si manifesti in lui l’amore per la luce, per la vita, per il mondo che sta per lasciare.
Sappiamo pure che prepararsi alla morte è condizione fondamentale per affrontare senza timori, senza rimpianti o peccaminosi furori di rifiuto, la prova di questo ultimo attimo fuggente. Davanti alla realtà della morte, mistero sovrumano, non possiamo che imporci un grande, un devoto silenzio, e innalzare i nostri suffragi per l’anima del defunto, inchinandoci alla volontà divina.
Ma prima, che cosa possiamo fare? Oggi morire in ospedale è un fatto comunissimo e diffuso; incontriamo sempre più spesso la morte nelle corsie, nei vari reparti in ogni momento del nostro operare. P, un fenomeno a cui dobbiamo fare fronte, fedeli alla nostra cultura dell’ospitalità; il nostro ospite soffre interiormente davanti a noi: ci limitiamo a pregare per lui o dobbiamo in qualche modo aiutarlo a compiere serenamente il grande passo? Anche in questo caso dobbiamo fissare l’attenzione sugli inconsapevoli, ma non per questo meno erronei e pericolosi, comportamenti che offuscano la dignità umana.
Un «tabù» da rimuovere
Per un cristiano il problema della morte deve essere un argomento fondamentale. Aiutare l’uomo morente a mantenere la sua dignità, il suo valore e accompagnarlo in quegli ultimi momenti, spesso lunghi, deve essere un nostro preciso dovere di assistenza e di buona ospitalità. Anche perché, oggi la morte viene vista con ottiche falsate. Esisto no nella società contemporanea due tendenze opposte: da una parte si rifiuta la morte come dato oggettivo dell’esistenza umana, la si rimuove con un senso di terrore misto a disgusto; dall’altra, si riscopre la morte come evento ineluttabile.
Sì, cari fratelli, si riscopre la morte, come se essa non fosse stata sempre presente nel pensiero, negli atti, nella storia e nella civiltà dell’uomo.
Ma soffermiamoci su alcuni fenomeni che evidenziano la prima tendenza. L’uomo oggi rifiuta la morte: sa che esiste, ma si comporta come se essa non dovesse mai sopraggiungere, evita di considerarla come evento certo e con questo pretende di allontanarla, quasi come in un rituale esorcistico. In sostanza, ne rimuove il pensiero. Eppure, la morte è diventata un fenomeno abituale quotidiano. Pensiamo ai notiziari televisivi che spesso manifestamente offrono la «morte a tavola», in diretta, fino al punto da farci dubitare sulla liceità etica di simili spettacoli, giustificati con il «dovere di informare». Se prendiamo in esame i comportamenti più consueti, ai quali nessuno dedica attenzione, ci accorgiamo che la stessa cultura della vita è basata sulla certezza della morte.
Ipotizziamo un paradosso: l’immortalità della vita terrena. Se dovesse avverarsi, l’uomo non avrebbe più gli stessi comportamenti, cambierebbe nei costumi, nella filosofia esistenziale: l’età dell’apprendimento sarebbe costante e non relegata al periodo dell’infanzia ‑ adolescenza ‑ gioventù; l’angoscia dello scorrere del tempo non esisterebbe; il tempo e la voglia di ricostruire, di cambiare attività, il coraggio delle scelte e dei mutamenti, sarebbero prevalenti sulla tendenza all’accettazione, alla professionalità definitiva e conservativa. La vita sarebbe vista in una prospettiva totalmente diversa, si~ creerebbero nuove abitudini, nuove teorie e nuovi modi di pensare.
Eppure, proprio perché è un paradosso, ci accorgiamo della flagrante contraddizione insita nel rifiuto della morte. È solo il terrore che fa negare la morte, oggi? Forse che prima l’uomo non ne provava paura? Forse una spiegazione sta nel fatto che l’immagine della morte è in netto contrasto con l’edonismo, con la vitalità giovanilistica, con la stilizzazione della bellezza, cioè con i modelli di consumo culturale ed economico oggi tanto in voga. Essa è vista come qualcosa di sconveniente, come gli atti fisiologici: il moribondo, nel suo immiserimento fisico, viene associato a fenomeni dichiarati inammissibili dalla civiltà dei deodoranti. Non è più sublimata od eroica, come accadeva ai personaggi letterari che amavano una morte bella, virile, patriottica, degna. L’antieroe letterario contemporaneo è il borghese, che si adatta alle pieghe della vita, mentre teme e sfugge la morte.
Dunque, anche la cultura più nobile ha revisionato i modelli precedenti e li ha dichiarati inammissibili nella realtà.
La fiducia nella scienza medica porta le famiglie a ricoverare il malato grave in ospedale; talvolta esse, pur di fronte a certezze negative, senza speranza, restano ancorate al miraggio del «miracolo scientifico». Ma più spesso certi comportamenti celano l’incapacità di sapere accudire, soffrire, assistere, vivere nella promiscuità con la morte. In alcuni casi il malato grave diventa un peso non più sopportabile, scomodo per i cinici, e così viene scaricato su altri, nell’intento-alibi di offrirgli un’assistenza specialistica che, nella maggior parte dei casi, si rivela modesta ed inutile.
Cambiata l’immagine tradizionale del morente
Una caratteristica del nostro tempo è che si muore sempre più raramente nel proprio letto; si preferisce l’ospedale, sia per necessità di cure specializzate che spesso esigono attrezzature non trasportabili a domicilio, sia per una disassuefazione al rapporto diretto con la morte (quella vera, non quella televisiva, che può essere guardata con distacco per la bravura degli attori che la fingono).
L’evoluzione subita dalla famiglia rende praticamente impossibili certi compiti di assistenza. Nel passato, le famiglie numerose erano in grado di suddividere meglio ‑rendendolo sopportabile‑ il peso di una lunga presenza quotidiana a fianco del degente; c’era anche in tutti i suoi componenti una preparazione psicologica ad una tale evenienza.
16 cambiata poi l’immagine tradizionale del morente: spesso è una specie di «mostro» prigioniero in un groviglio di tubi di plastica, di flebo, di elettrodi, di cateteri, di sondini. P‑ l’immagine di questa civiltà, la rappresentazione iconografica di un’epoca che esprime una realtà di totale emarginazione e solitudine interiore. È passato il tempo in cui il moribondo parlava alla famiglia dolente e compunta, ma attenta a quella voce grave che raccomandava e spesso benediceva.
La morte era un rito di dolore che aveva la cornice di una solida speranza. Oggi, tale cornice è quasi del tutto scomparsa nella nostra cultura. Vale la pena di interrogarsi al riguardo.
Nel libro delle «Meditazioni cristiane» di Giovanni Vannucci, al capitolo «La Resurrezione» trovo questa interessante citazione: «Scelgo per queste considerazioni (sulla morte dell’uomo) due diverse correnti di esperienza di pensiero. Comincerò con un testo indù della Katha Upannishad (1000 a.c.). Nachiketas interroga Yama, il re dei morti, perché gli riveli il mistero della morte, dell’immortalità. Yama; riluttante a rispondere, sottopone l’interrogante ad alcune prove; trovato il giovane maturo, gli rivela il segreto dell’« Io » profondo ed immortale dell’uomo.
Rispondendo alla domanda, afferma che gli uomini si dividono in due categorie: quelli che si identificano con la parte fisica e vitale del loro essere, e quelli che sono invece in costante comunione con il loro «Io» profondo ed immortale.
Per i primi la morte è una cessazione, una amara e indesiderata vicenda; per gli altri, è avanzamento e ascesa verso una vita più vasta e più libera.
«Il bene supremo è una cosa, il piacevole un’altra, ciascuno trascina l’uomo a una fine differente. Chi aderisce al bene, giunge a un buon fine; chi sceglie il piacevole, fallisce lo scopo. Tanto il bene che il piacevole si presentano all’uomo, il saggio li esamina e li discrimina».
Il saggio sceglie il bene, non il piacevole, lo stolto, essendo avido e possessivo, preferisce il piacevole. Il mondo spirituale non si manifesta all’immaturo e allo sciocco; illuso dal fascino della ricchezza, egli afferma che solo questo mondo esiste e non ve n’è un altro…
L’uomo che si concentra su ciò che è oltre l’udito, oltre il tatto, oltre la vista, oltre il gusto e l’olfatto, sull’indefettibile ed eterno, senza principio
né fine, più grande delle cose grandi, permanente, si salva dalle fauci della
e morte».
Per l’altra corrente, quella ebraica,, scelgo due brani tratti rispettivamente dall’antico Testamento e da un racconto midrascico.
«Un cane vivo vale più di un leone morto: i vivi sanno che morranno, ma i morti non sanno più nulla: per essi non esiste più salario, poiché il loro ricordo è dimenticato. Il loro amore come il loro odio e la loro bramosia sono da tempo periti. Non avranno più parte a ciò che avviene sotto il sole». (Kohelet, 9, 4‑6).
Hillel disse al giovane discepolo Jacob: «Mi sento vecchio e ho paura della morte. Quando sarò in agonia, prega l’angelo della morte di essere pietoso con me».
Jacob rispose: «Accettò, a patto che una volta raggiunta l’altra sponda tu mi venga a dire in sogno come sono le cose dell’aldilà». Un mese dopo la morte, Hillel apparve a Jacob per dirgli: «Grazie, fratello, l’angelo, della morte è stato gentile con me, mi ha sfiorato con la lievità di un’ala di farfalla. Se tu sapessi quanto è buono Dio, Jacob! Mi potrebbe domandare qualunque cosa, tuttavia se esigesse da me il ritorno sulla Terra, mi rifiuterei».
Jacob si stupì. «L’angelo della morte non è stato gentile con te? Non hai adesso la prova che la morte è dolce?». «Ne ho la certezza, ma non vorrei tornare a vivere sulla Terra». «Perché?» «A motivo dell’angoscia della morte ».
Le due tradizioni sono il segno di due culture differenti. Per l’induismo, l’angoscia della morte è frutto dell’ignoranza: il saggio ne è immune, avendo realizzato la natura immortale del proprio Sé. Invece, nell’Ebraismo, la morte, presente dalle prime pagine della Genesi fino agli scritti sapienzali, è il sommo dei mali…
Questa nota caratteristica della religiosità ebraica penso derivi dal suo mito centrale: la «Giustizia». L’ebreo è sulla terra per creare un popolo di giusti, che attui nel suo ambito la grande giustizia divina; il popolo dei giusti sarà la guida di tutte le altre genti che si orienteranno verso la città giusta, Gerusalemme.
Da questa spinta per la creazione di un popolo di giusti deriva la grande importanza data alla famiglia, alla terra, alla vita, alla rivelazione ebraica. In una simile ottica, la morte non poteva apparire che una punizione, un’ammenda per le colpe commesse e insieme come un angoscioso fallimento, per chi non poteva vedere i figli dei figli né godere il compimento di tutte le attese della giustizia.
L’annuncio della Resurrezione non poteva che avvenire nell’Ebraismo, come suo capovolgimento risolutivo: «Chi crede in me, ha la Vita eterna. Chi mangia della mia carne, ha la Vita eterna. Io sono la Resurrezione e la Vita». (Gv 6, 53; 11, 26)».
Eppure queste parole sono rimaste sovente inerti nella vita della cristianità. Qualche raro santo ha sorriso alla morte, chiamandola «sorella» o «il più grande sacramento». Ordinariamente ha prevalso l’orrore della morte…
Oggi, invece, nella stessa cultura laica, tra i pensatori più avveduti, si nota una ritrovata attenzione per il problema della morte, dopo anni di disinteresse.
Riscoprire la morte
La riscoperta della morte è importante non solo nella prospettiva dell’aldilà, ma anche in quella del presente. Si dice: se vuoi la vita, prepara la morte. Oppure: si muore come si è vissuti. Ma non secondo la logica dell’orrore e nemmeno seguendo il meccanismo del rifiuto, che fanno presentire e sperimentare in modo drammatico e angoscioso il momento del distacco. La medicalizzazione della morte, dove il malato diventa dominio della medicina, è una forma di rifiuto del grande passo. Per questo oggi la morte migliore è da molti ritenuta quella «repentina e improvvisa», che invece era così temuta nel Medio Evo. E nemmeno «dopo» il defunto deve sembrare tale: nelle « funeral homes » (obitori) americane lo si imbelletta per farlo apparire un quasi vivente: «The patient looks lovely now» (ora ha di nuovo un bell’aspetto).
Anche il lutto è rifiutato, venendo spesso meno un autentico dolore interiore e quindi non avendo senso il segno esterno: anzi, chi si lascia andare ad una forte commozione è guardato addirittura con sospetto.
Ma questi sono palliativi che non cambiano la sostanza. È ora che la morte ‑la quale è una cosa sola con la vita‑ esca dalla clandestinità e che l’uomo ritrovi il cammino, per un certo tempo smarrito, verso una cultura della morte e, quindi, della vita. E ciò è possibile seguendo la strada dell’uomo.
Da quanto si è detto, infatti, vediamo emergere un nuovo tipo di bisognoso, di emarginato: il malato terminale. Anche a lui dobbiamo garantire attenzione e assistenza.
Certo, di fronte ad una persona che non ha speranze di sopravvivenza sorgono numerosi interrogativi. Innanzitutto, fino a che punto si deve prolungare il trattamento terapeutico? Si deve permettere che si tramuti in vero e proprio accanimento? Chi decide durata e modalità di questa lotta contro la morte? Quali gli interventi legittimi e quali no? Che atteggiamento deve tenere l’operatore sanitario verso il morente? Chi collabora con lui in questa fase?
In sostanza, che fare per mantenere il morente in una situazione di massima dignità e di minima sofferenza salvaguardandone il diritto di vivere senza accanirsi in cure inutilmente dolorose, né senza abbandonarlo a se stesso? E ancora: come, se e quando avvertire il morente del suo stato? E chi lo deve fare?
Interrogativi drammatici
Siamo di fronte a problemi drammatici.
Molti medici, molti operatori, e ahimè talvolta anche qualche Fatebenefratello, non sanno che fare e finiscono per abbandonare alla solitudine colui che sta affrontando il passo più importante della vita. È la nefasta conseguenza di un’idea di assistenza finalizzata solo al recupero dell’integrità e della efficienza fisica, è un lasciar via libera in noi al rifiuto della morte.
Un primo fondamentale motivo di riflessione riguarda determinati atteggiamenti in costante diffusione che minacciano l’uomo proprio in nome dell’umanità. Tra questi, il più subdolo è l’eutanasia, la cui pratica si insinua in modo strisciante nell’ospedale con sempre maggior credito. Abili manipolazioni culturali, soprattutto attraverso i mass-media, riescono a presentare l’eutanasia agli occhi della gente come la risposta più semplice e più «umanitaria»: per eliminare la sofferenza di chi non ha più speranza di guarigione, si elimina il sofferente. Ma questo falso umanitarismo ad un’analisi attenta rivela il suo volto ambiguo.
1 «Molte volte le richieste di uccisione pietosa ‑ricorda il teologo B. Háring‑ non sono espressione di una vera volontà di morire, bensì un appello disperato per ricevere più cure, più attenzione più solidarietà umana».
Secondo i sostenitori di tale pratica, essa sarebbe una conquista umana, sancirebbe «il diritto a morire con dignità». Ma, cari confratelli, la dignità della morte non consiste affatto in questa «conquista», bensì nel modo di affrontare la morte.
Disumano è piuttosto quel letto, disumani sono quei tubi, quel corpo e quell’anima abbandonati a se stessi, quell’uomo solo con i suoi pensieri, le sue angosce e inquietudini. La vera risposta sta nell’affrontare questo momento di sofferenza morale e psichica, non nel sopprimere il sofferente.
Sappiamo che la scienza medica può aiutare ad affrontare bene la morte evitando di degradare l’uomo ad animale in preda al dolore. Il progresso nei procedimenti di rianimazione che attenuano o sopprimono la sensibilità corporea mirano proprio a questo.
Tuttavia, cari confratelli, occorre definire quella «Terra di nessuno» che separa la cura e il lenimento del dolore dalla crudeltà, dall’inutile sperimentazione fatta unicamente per orgoglio scientifico, che riduce l’uomo a cavia, in definitiva dall’accanimento terapeutico.
Diciamo innanzitutto che non è possibile tenere in vita una persona allo stato unicamente vegetativo se non vi sono motivazioni precise che esulano dalla sperimentazione.
oggi, il tempo della morte si è insieme allungato e suddiviso. C’è la morte cerebrale, biologica, cellulare; gli antichi segni basati sull’arresto cardiaco e respiratorio non bastano più; si misura l’attività cerebrale, si può mantenere artificialmente pulsante un , si può stimolare forzatamente la respirazione. Il tempo della morte può essere allungato a discrezione del medico: non si può eliminare la morte; ma si può regolare la durata della fine. è possibile ritardare il momento fatale sopprimendo anche il dolore.
Ma spesso questo prolungamento da mezzo scientifico al servizio di quell’uomo sofferente si trasforma in fine. Ed è appunto in questa oscura zona di confine tra la cura e la crudeltà, tra diritto alla vita ed eutanasia che la nostra coscienza di religiosi deve vigilare affinché si rispetti una misura che sia segno di umanità e di etica, al di là delle norme che i singoli Stati predispongono.
La morte non può più essere assegnata in dotazione esclusiva al medico, alla tecnica, alla sperimentazione, perché essa rappresenta il più antico mistero dell’uomo, sul quale noi come religiosi non possiamo esentarci dall’esercitare il nostro ruolo specifico di missionari della salvezza e di guide spirituali.
Non abbandonare il morente
Ma soffermiamoci su un terzo aspetto, già accennato. Di fronte al malato grave, spesso perdiamo anche noi le speranze, ci sentiamo inutili e lo abbandoniamo in attesa dell’inesorabile momento.
Quale angusta visione della vita e della morte, quale assuefazione ad un ruolo di operatori tecnici dimentichi che il termine salute significa anche «salvezza», cioè vita dell’anima!
Per questo oggi l’ospedale è diventato il luogo della morte solitaria. Un cuore che si ferma non fa rumore; eppure in noi dovrebbe suscitare una vasta eco. La morte, come la vita, non è un atto esclusivamente individuale. Anche quella degli altri ci tocca in qualche modo da vicino.
Spetta a noi, entro i nostri limiti umani che non possono certo cambiare i destini, eliminare quel senso di «selvaggio» nell’immagine della morte solitaria coi tubi di plastica, che clamorosamente fa rivivere l’antico orrore del cadavere putrefatto abbandonato nella campagna.
Quale civiltà sarebbe altrimenti quella in cui cambiassero le forme dell’orrore, ma non la sostanza?
In un recente Convegno dei medici cattolici svoltosi a Roma si sono discussi i problemi del dolore, della vecchiaia, dell’eutanasia. Temi fondamentali, che, richiedono un’impostazione filosofica generale per una seria critica del nostro modello di civiltà che approdi ad una cultura e ad atteggiamenti nuovi in questo campo.
Durante il convegno, un professore ha testualmente dichiarato: «È necessario un nuovo impegno nell’assistenza ai morenti. Occorre intensificare la presenza presso il malato, considerando che è il morente colui che ha da insegnare, poiché vive un’esperienza che gli altri ignorano. È necessaria una specifica preparazione in questo senso del personale sanitario, una preparazione che è soprattutto umana. Un medico o un infermiere non potranno, a volto sereno e con equilibrio, assistere un morente se nella propria coscienza non avranno integrato una visione della vita e della morte, non avranno dato cioè per conto proprio una risposta ai problemi essenziali della vita umana».
Miei cari confratelli, che lezione ci proviene da questo laico! Noi a volte, bloccati dalle nostre paure più che dai nostri impegni, fiaccati dai nostri fantasmi di impotenza, siamo preceduti dai laici con suggerimenti ricchi di valore che dovrebbero essere nostri e che invece non abbiamo saputo cogliere nell’alveo del nostro ricchissimo carisma.
Dicevo prima che la «dignità della morte» risiede anche nel modo sereno di affrontarla, in quel periodo (lungo o breve, cosciente o semicosciente) di oblio della mente prima del trapasso definitivo.
Ma i problemi nascono prima del momento finale; fin da quando il decorso del male fa prevedere un sicuro esito infausto; è in questa fase che la volontà razionale applicata alla metodologia scientifica entra in crisi facendoci disperare e spingendoci a rinunciare ad ogni ulteriore aiuto. Ma noi sappiamo che dove la conoscenza e il metodo scientifico si arrestano, c’è ancora lo spazio per la superiore forza dello Spirito.
Nella fase «terminale» il malato si trova a risolvere delicatissimi enigmi, è tormentato da dubbi angosciosi, scosso da qualche vaga speranza e distrutto dal decadimento. Lo invade la paura, mentre si ritrova solo con se stesso, cosciente della sua unicità. Nei momenti lucidi rivede la vita come in un film e col rischio di perdersi definitivamente nell’incubo, sommerso da sensi di colpa, da rimpianti, da aspre malinconie, dal disperato attaccamento alla vita, dal bisogno inevaso di comunicazione e di affetto. In lui si innescano delicati meccanismi psicologici che occorre saper riconoscere e dominare; perciò si rende necessaria la collaborazione con esperti psicologi perché spesso la cultura personale non basta; l’uomo morente è più bisognoso di chiunque altro, è un malato «difficile», che richiede molto tempo e molte attenzioni. Raramente egli può raggiungere da solo una accettazione e una maggiore serenità se non viene aiutato da tutti coloro che lo assistono e dalla stessa famiglia. Al di là del dibattito sulla necessità di rivelare o meno al malato grave il suo stato, è assodato che chi si trova in una situazione simile la intuisce oltre le parole.
La sua assistenza deve dunque essere fatta di attenzione, anche ai particolari. Non servono discorsi, ma una presenza affettuosa; il malato deve percepire che non sarà solo ad affrontare quel momento: basta una mano stretta, che nel contatto struggente rivela un ancoraggio alla vita, dona una sicurezza protettiva, quasi materna, consentendo al paziente anche di dire cose per lui urgenti e importanti, forse le sue ultime parole.
Coinvolgere la famiglia
Ma per aiutarlo in modo veramente significativo, è necessario coinvolgere la famiglia in questa presenza.
Innanzitutto non è giusto che sia la famiglia a decidere autonomamente se e come informare il malato del suo stato. È sempre opportuno che i medici curanti incontrino i familiari per uno scambio di informazioni, concernenti anche la psicologia del degente, in modo da concordare insieme il da farsi.
Dalla famiglia possiamo apprendere importanti informazioni sulla storia personale del malato che aiutano a capirlo meglio.
A volte, il suo attaccamento alla vita è dettato da «nobili preoccupazioni» per la sorte di chi resta: da qui magari l’intenzione di affidare le sue raccomandazioni finali ai parenti, di chiarire qualcosa del passato, di eliminare sensi di colpa. Dobbiamo favorire questi momenti estremi di comunicazione, che un tempo facevano parte del rituale domestico della morte‑ il malato aveva i familiari raccolti intorno al suo letto ed egli conversava con loro quasi in un clima di calda serenità, di accettazione; lasciava le sue ultime raccomandazioni, divideva l’eredità. Gli astanti si sentivano come investiti di un carisma. Non è impossibile ridare naturalezza, conforto, amore e cristiana accettazione a queste anime che si appressano all’estremo passo. E c’è in tutto ciò un arricchimento reciproco: anche il morente aiuta noi. Da lui apprendiamo sensazioni che non conosciamo; standogli accanto verifichiamo la nostra fortezza.
Un’attenzione speciale dobbiamo avere in queste situazioni anche per i parenti del malato, che soffrono momenti di ansia, di tensione; spesso, in mancanza di notizie, si macerano nel dubbio e nell’angoscia, anche a causa dei medici che, per ragioni professionali, sono talora evasivi e usano un linguaggio estremamente tecnico nelle diagnosi e nelle prognosi. Una maggiore comprensione delle loro esigenze, dettate spesso da ansia affettuosa, ci può aiutare a creare un clima di reciproca cooperazione, di fiducia e di calda sincerità, a beneficio del malato.
Ai familiari si dovrebbe lasciare tempo per la visita, affinché questa non risulti troppo asettica e spersonalizzata, soprattutto nelle camere di rianimazione, studiando nel contempo i mezzi adatti per garantire il rispetto delle norme di prevenzione igienica. Alla preghiera per l’anima, che è dovere di tutti i religiosi, dobbiamo saper unire un profondo senso di pietà cristiana, attingendo alle risorse del cuore. La nostra sensibilità ci guiderà nell’arduo compito di offrirci come spalla sulla quale piangere, come forza nella quale confidare; il nostro esempio può convincere più di mille parole a ritrovare il proprio cammino spirituale. In tal modo, superando la chiusa visione tecnica della sconfitta della medicina di fronte alla morte, noi sviluppiamo un modello di assistenza superiore.
Il momento cruciale per i familiari è comunque quello dell’imminenza del decesso del loro caro. Immaginiamoci lo stato doloroso, la confusione delle scelte, la stanchezza psichica di queste persone, spesso tormentate da un senso di colpa perché vorrebbero non assistere al momento fatale. La nostra presenza al loro fianco è più che mai preziosa e illuminante.
La stessa cosa va detta per i familiari dei degenti ricoverati d’urgenza, passati cioè bruscamente dallo stato di salute a quello di malattia per cause cardiovascolari, cerebrali, traumatiche‑accidentali. Il sentimento di preoccupazione per la sorte della persona cara è in essi altrettanto vivo anche se non in presenza di prognosi infausta.,
Non ho prospettato traguardi impossibili. Sono certo che, seguendo la strada che è più che mai la nostra, la morte in ospedale potrà recuperare la dignità perduta. E l’ospedale potrà davvero essere per il malato grave l’unico luogo dove gli sia garantita un’assistenza continua, con metodologia e mezzi altrove improponibili, e contemporaneamente un luogo di assistenza integrale, che allontani gli inquietanti spettri della solitudine e dell’orrore, lasciando spazio alla rassegnazione umana e alla speranza cristiana.
Vorrei fin d’ora invitarvi a studiare mezzi e formule, a immaginare e progettare, assieme ai medici e agli infermieri, una riscoperta profonda del senso della vita e della morte.
Sono convinto, sulla base anche di alcune splendide esperienze già in corso (per es. «Royal Hospital di Montrèal» e alcune Fondazioni, tra cui una italiana) che al Fatebenefratello desideroso di impegnarsi in modo nuovo nell’assistenza ai morenti, si apra uno spazio enorme. Sfruttarlo è, oltre che un preciso dovere legato alla nostra vocazione ospedaliera, condizione «sine qua non» per lo sviluppo del nostro Ordine e per un degno servizio alla Chiesa.
III. I TOSSICODIPENDENTI
Il cancro dei giovani
L’immagine di un cancro che si diffonde con le sue metastasi in tutta la civiltà occidentale sarà forse fin troppo sfruttata per indicare il problema della droga e della tossicodipendenza; ma è sicuramente efficace per evidenziare questo nuovo «male» della società che colpisce soprattutto i giovani. Tentare una analisi esauriente del problema droga è arduo; non di meno è necessario darne almeno una sommaria descrizione. La gravità e l’estensione del fenomeno sono evidenti, al di là delle statistiche, le cui elaborazioni matematiche hanno comunque una loro tragica evidenza.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità afferma che più di 4.000.000 di persone, negli USA, hanno fatto uso di vari tipi di droga. Ma il fenomeno appare agghiacciante se indagato nelle percentuali relative. Il Federal Bureau of Narcotics afferma che 1 giovane su 5 si droga e che, in ogni caso, il 40% degli studenti di scuola media superiore ha assunto droga almeno una volta; e addirittura il 60% degli studenti universitari.
Assumere la droga almeno una volta non è ancora sintomo di tossicodipendenza, ma la realtà presenta contorni più precisi: tra i tossicodipendenti riconosciuti, più del 50% ha una età tra i 20 e i 30 anni, e vi è una vasta percentuale, in aumento, per i giovani di età inferiore. La loro estrazione sociale è indicativa: negri (52%), messicani (6%), portoricani (13%); come dire che la maggior parte di essi appartiene a gruppi etnici sociali emarginati. Osservando il fenomeno in Europa notiamo che esso ha raggiunto dimensioni allarmanti in Olanda, Danimarca, Gran Bretagna, Germania, Francia; per quanto riguarda l’Italia, ai grandi centri del Nord, si è aggiunto ora il meridione con le sue principali città e anche con centri minori dove però abbondano i disoccupati.
Chi è il tossicodipendente
Per sgombrare il campo da eventuali confusioni definiamo la situazione del tossicodipendente come quella di chi si trova in uno stato di intossicazione, periodica o cronica, per l’uso abituale e continuo, con sindromi di astinenza, di sostanze stupefacenti, naturali o prodotte sinteticamente; una situazione pericolosa per lo «status» psico-organico del soggetto che viene oppresso in vaste sfere della personalità. La morfina, l’eroina, la cocaina, l’L.S.D., ma anche il metadone, i barbiturici e le cosiddette «droghe leggere», tra cui la marijuana, sono le principali sostanze stupefacenti che determinano stati definibili genericamente come allucinogeni. Ovviamente con reazioni diverse da droga a droga e perfino da individuo a individuo, ma caratterizzate prevalentemente da sonnolenza, loquela impacciata, depressione del sistema nervoso centrale, stati di beatitudine, eccitazione, iperattività, senso di allungamento del tempo psichico, euforia, allucinazioni. Reazioni che, in ogni caso, comportano una evidente pericolosità per se stessi e per gli altri. Per se stessi, poiché la diminuita o alterata percezione della realtà esterna rappresenta un evidente fattore di rischio per la sicurezza e l’incolumità; e inoltre l’abuso di droghe provoca devastazione organica e un declino fisico che può condurre alla fatale «over dose», cioè a collassi e insufficienze respiratorie spesso letali.
Si può affermare poi con certezza che i tossicodipendenti presentano una patologia non irrilevante riguardante le malattie croniche, le epatiti, la compromissione irreparabile di alcuni organi, con comparsa di nuove malattie come l’A.I.D.S.
A questi problemi bisognerebbe aggiungerne altri: il rischio derivante dalla droga «tagliata» con sostanze nocive, ad esempio; oppure la mancanza di ogni preoccupazione igienica nel rito degli eroinomani. Ma il discorso diventerebbe troppo vasto e composito. Ma c’è anche un tasso di pericolosità che riguarda la società: si comprende facilmente come lo stato allucinogeno, le percezioni alterate, l’esaltazione psichica, la perdita dei freni inibitori, l’assenza di sensi di colpa e di pudore, tutti questi fattori producano una personalità alterata, una sorta di «molecola impazzita» della collettività. Le conseguenze sono note: la tossicodipendenza genera bisogno economico per l’acquisto delle sostanze. Bisogno a cui si legano migliaia di fenomeni delinquenziali, dal piccolo furto con scasso, fino alle aggressioni violente, anche per pochi soldi. Queste componenti clamorose hanno fatto salire la percentuale dei delitti provocando uno stato di assoluta mancanza di sicurezza, perché il tossicodipendente è spinto a colpire indiscriminatamente chiunque. Il criterio secondo cui il comune delinquente non agisce quando «il gioco non vale la candela», in questo caso non conta affatto.
L’intenzione di «criminalizzare» il tossicodipendente è ben lontano dai miei pensieri, sia chiaro, ma certe situazioni vanno conosciute senza eufemismi, nella loro realtà. Così come non possiamo ignorare un nuovo sintomo di barbarie emergente da certi discorsi che si stanno facendo strada cinicamente: partendo dal dato della pericolosità sociale, si reclama la necessità di un «energico» intervento pubblico (o privato) per «risanare» la situazione.
Fattori e cause
Se poniamo l’attenzione sul fenomeno è per coglierne la miseria, per indagarne le cause con l’occhio anche alla vittima, che è il consumatore di droga. Certo, la richiesta di sicurezza sociale è un fatto di dignità civile, di giustizia, ma non può essere il punto di partenza per risolvere il problema.
La tossicodipendenza è un problema dell’uomo, correlato a precise dinamiche sociali, psicologiche, culturali, a carenze spirituali. Se non ci si pone in questa ottica è difficile elaborare un’idea accettabile di intervento terapeutico. Pensiamo soltanto al groviglio di fattori che influiscono sulle scelte personali: gli elementi psicologici individuali, la vita di relazione con la famiglia, gli amici, la collettività, la situazione sociale, la posizione culturale. Pensiamo anche alla responsabilità enorme di quei modelli culturali che, nell’ultimo decennio, hanno proposto la droga come momento di libertà, di alternativa; modelli di stampo materialistico e consumistico caratterizzati dalla caduta di antiche (e in alcuni casi ormai inadeguate) ideologie, che spiegano la tendenza contemporanea all’arrivismo, al successo da raggiungere con qualunque mezzo. Il panorama spirituale dalla nostra epoca ci appare inaridito, depauperato di valori etici, mentre non sembrano ancora emergere alternative sufficientemente strutturate. È in questo vuoto che si inseriscono tali tendenze deteriori.
La difficoltà di cogliere in tempo la situazione si spiega d’altra parte con la rapidità e la complessità delle mutazioni economiche, sociali, tecnologiche e culturali, in un mondo nel quale anche i valori sembrano diventati oggetto di effimero consumo. Qui la droga trova sicuramente la sua collocazione, proponendosi come «figlia dei tempi», in una duplice veste: come risposta ingannevole alle situazioni di disagio, e quindi mezzo di fuga verso la beatitudine, e come proposta di «valore alternativo», cioè come un altro modo di vivere che non accetta quello comune.
Nella complessità della situazione giocano anche alcune pesanti contraddizioni della politica estera e interna degli Stati nazionali circa i grandi valori della pace, della libertà e della giustizia, che non sono affermati con decisione nonché l’incubo aberrante del conflitto nucleare.
Ne derivano una sorta di pessimismo esistenziale, che induce a volere le cose qui e subito,, a consumare alla svelta ogni emozione; e un giovanilismo che carica di ingiuste attese la vita dei giovani, quale mito di ebbrezza e di felicità. Entrambi non sono certo estranei alla diffusione della droga, avendo privato l’uomo di valide certezze, della sicurezza di un modello giusto, ed eliminato dagli orizzonti umani fedi e ideali nei quali credere e sperare.
La nostra società ‑cioè tutti noi, consapevoli, compartecipi di eventuali errori, coagenti nel riproporli‑ ci spinge a superare tali insicurezze e tali ansie con gli psicofarmaci; ci illude che felicità, realizzazione e successo siano ottenibili con pillole di energia efficientistica, ci insegna a vincere l’angoscia con l’alcool, secondo la strategia di una produttività non asservita ai bisogni umani, ma volta ad imporre bisogni falsi, negativi, alienanti. Non è forse vero che le forze socio‑economiche oggi si rivolgono ai giovani (e persino ai bambini) come a soggetti da conquistare al mercato del consumismo avendo come primo obiettivo l’utile, non l’educazione?
Scarse difese per i giovani
È proprio il giovane, in fase di formazione, il soggetto più esposto alle insidie. Nel momento in cui inizia la sua esplorazione personale del mondo, facendosi una propria scala di valori, confrontando ciò che vorrebbe con ciò che trova e sviluppando il processo di socializzazione, il giovane non è ancora pienamente capace di scelte ragionate. In questa fase di strutturazione della sua personalità egli si trova aperto alle novità, nutre curiosità, cerca il rapporto con gli altri, per conoscersi e conoscere, per mettersi alla prova anche, per definire la sua identità. Per questo, egli può lasciarsi facilmente sedurre da modelli aberranti. In fondo al suo cammino di ricerca, può anche trovare lo spacciatore in cerca di nuovi acquirenti.
Le sue difese sarebbero certamente più efficaci se egli avesse alle spalle una famiglia che fosse per lui guida, informazione, affetto, rifugio nei momenti difficili. Ma abbiamo già visto come e quanto la famiglia sia cambiata, nel passaggio da una cultura contadina ad una cultura industriale e tecnologica. Nella prima, la trasmissione di valori da padre in figlio era lenta ma ineludibile e sicura: il padre, depositario del sapere, insegnava al figlio le cose del mondo e della natura. Oggi la figura del padre ha perso questo prestigio culturale, la sua autorevolezza di guida: le conoscenze sono così vaste, rapide e mutevoli che impediscono una assimilazione del sapere paterno. Spesso, inoltre, la preparazione scolastica del figlio risulta addirittura superiore a quella del padre, il quale quasi sempre per la rapidità dei mutamenti, rimane estraneo ai fenomeni tipicamente giovanili di costume, per cui il figlio non vede più in lui un interlocutore affidabile e «preparato». Infine, ha sempre maggior efficacia (anche manipolante) una forma di trasmissione delle conoscenze al di fuori dell’ambito familiare: quella svolta tramite i mass-media, che propongono continuamente modelli culturali assai insidiosi per la psiche giovanile, soprattutto attraverso la pubblicità. Per non dire del ruolo negativo di certi genitori all’interno della famiglia «nuclearizzata», entrata in crisi come cellula base della società. Sono sovente gli stessi genitori che ripropongono acriticamente ai figli quei modelli di successo e di comportamento.
Non può venire alcun beneficio ai giovani da una famiglia spesso minacciata nella sua stabilità da separazioni, disoccupazione, introiti economici al di sotto della media generale, cioè da fattori che creano emarginazione e un senso di frustrazione in relazione al modo di vivere degli altri.
Dalla frustrazione alla rivalsa il passo è breve. E allora il giovane «fugge»: nelle strade, nelle piazze, si aggrega a gruppi per cercare ciò che gli manca. E qui trova l’ultima insidia, nella rete del vasto mercato in cui opera gente senza scrupoli, con legami a livello internazionale, un mercato di cui lo spacciatore all’angolo è solo il «terminale».
Il potenziale tossicodipendente, fiaccato familiarmente e privo di certezze morali, suggestionato dai comportamenti dei coetanei, del «gruppo», compie così la prima scelta per evadere, per provare, o anche solo per essere accettato. La droga è così giunta persino alle porte delle scuole medie inferiori, il che eleva di molto la soglia di pericolosità sociale del fenomeno.
Il tossicodipendente, carente di salute fisica e psichica, di amore, di comprensione, di sapere, ma soprattutto di libertà, rientra dunque nella categoria dei nuovi bisognosi: è l’imprigionato nell’anima. Per questo, non stupisce che si siano andate creando comunità terapeutiche di ispirazione cristiana che, con grande dedizione e competenza, affrontano soprattutto la dimensione personale e psicologica del tossicodipendente. Infatti, il vero problema non è la dipendenza fisica, ma quella psicologica: nonostante le apparenti espressioni di «libertà» manifestate ed ostentate dal tossicodipendente, egli si sente schiavo al punto da non credere più nella possibilità di guarigione.
Un campo aperto ai Fatebenefratelli
L’argomento richiederebbe ben altri approfondimenti, ma per ora mi fermo qui.
Ho fatto questa riflessione perché sono convinto che il Fatebenefratello possiede, a livello religioso e professionale, la possibilità di accostarsi adeguatamente al problema, sviluppando il ruolo di guida-animatore, collaborando con altre iniziative, sempre attento al problema umano.
Miei cari confratelli: come ho promesso, con questo documento non intendo darvi certi ordini, ma proporvi riflessioni utili per scoprire l’enorme gamma delle nostre possibilità, che già in parte abbiamo sviluppato, ma che possono trovare nel nostro tempo molte altre applicazioni. Ne ho accennate tre, che mi sembrano più immediatamente alla nostra portata, e che noi possiamo affrontare solo dopo un attento esame delle nostre particolari situazioni e dopo aver individuato i bisognosi di oggi.
Il mio scopo principale, lo ripeto, è quello di stimolarci a meditare, ad uscire dagli angusti schemi che ci impediscono di cambiare come esigono il nostro carisma e le nostre Costituzioni. Intendo invitare ciascuno di noi ad uscire dalle nostre tossicodipendenze ‑dalla routine, dal comodo, dal sicuro, dai rimpianti, dalle pigrizie, dalle abitudini, dalle paure‑ per entrare nella sfera della creatività, in modo da corrispondere efficacemente ai bisogni dell’uomo contemporaneo.
La nostra identità infatti, non si costruisce sulla conservazione acritica del passato, bensì sull’attenzione al presente e al futuro, sulla pronta disponibilità di tutti a intraprendere quegli atti, quei ruoli, quelle iniziative che i tempi richiedono, nella indefettibile fedeltà al Vangelo e al nostro santo Fondatore.