SAN RICCARDO PAMPURI – ITINERARIO SPIRITUALE ED EPISTOLARE LETTO CON GLI OCCHI DEL CARD. CARLO MARIA MARTINI – Angelo Nocent

SAN RICCARDO PAMPURI – ITINERARIO SPIRITUALE ED EPISTOLARE LETTO CON GLI OCCHI DEL CARD. CARLO MARIA MARTINI

 

Angelo Nocent

PREMESSA

Il Dr. Erminio Pampuri, da poco novizio dei Fatebenefratelli nel Convento-Ospedale di Brescia Sant’ Orsola, col nome di Fra Riccardo, così scriveva l’8 dicembre 1927 al nipote Giovanni che gli comunicava di sentirsi chiamato dal Signore a servirLo nel Sacerdozio:

Quale grande grazia! Essere scelto fra tanti e tanti ad essere sale della terra, luce del mondo, amico intimo di Dio e poter far discendere Gesù stesso sugli altari e la sua grazia, il suo perdono, la sua pace sulle anime,disporre con pieni poteri del tesoro divino dei meriti di N. S. Gesù Cristo, della sua SS. Passione e morte!”.

Riccardo appartiene alla numerosa schiera di coloro che hanno appreso la lezione evangelica delle parabole e di questa in particolare:

  • Voi siete il sale della terra,
  • voi siete la luce del mondo,
  • la vostra luce risplenda,
  • vedano le vostre opere buone”( Mt 5,13-16)

.

Anch’ egli si è sentito interpellato direttamente dalle parole del Maestro, pronunciate dopo le Beatitudini.

Il sale della terra, la speranza del mondo, sono coloro che permettono alla terra di non inaridire, di non marcire, perché il coraggio che hanno nel proclamare la fede salva l’umanità.

Riccardo si è posto in una condizione di società alternativa, di persone che di fronte alla società che privilegia il successo, l’effimero, il provvisorio, il denaro, il godimento, la potenza, la vendetta, il conflitto, la guerra. Egli sceglie la pace, il perdono, la misericordia, la gratuità, lo spirito di sacrificio.

Egli ha scelto di vivere le beatitudini ed ha fatto pienamente sue le quattro affermazioni di Gesù e la sua esortazione.

Si tratta di “affermazioni metaforiche, simboliche, non facili da interpretare” , spiega il Card. Martini.

Ogni simbolo viene svolto in maniera sintatticamente diversa:

La prima metafora è la più elaborata: “Voi siete il sale della terra” (affermazione in positivo), .”ma se il sale perdesse il sapore, con cosa lo si potrà rendere salato?” (la stessa cosa è detta in negativo).

  • Segue una conclusione che mostra gli effetti disastrosi del sale scipito: “A null’ altro serve che a essere gettato via e calpestato dagli uomini”.
  • Gesù quindi dice: o siete discepoli autentici o siete zero, o siete da buttar via, da disprezzare, siete degli infelici, degli spostati; voi siete il sale della terra, ma se di fatto non lo siete, non siete nulla.”
  • Non solo, poiché il quadro di pensiero che sta dietro sembra essere sapienziale ed il sale era immagine della sapienza, una volta diventato insipido, raffigurava una persona diventata stolta e insipiente

La seconda affermazione è un’altra metafora, appena accennata, anch’essa straordinaria: “Voi siete la luce del mondo”. È sorprendente, o Signore, []commenta il cardinale] che tu ci chiami luce, perché tu stesso sei la luce, come hai detto: “Io sono la luce del mondo”; tu non hai paura di dire a ciascuno di noi che siamo luce del mondo se viviamo le beatitudini evangeliche!

La terza affermazione cambia completamente. Usa l’immagine della città, esprimendola innegativo: “Non può restare nascosta una città collocata sopra un monte”. A dire: se siete discepoli, siete visti e giudicati da tutti, non potete nascondervi, tirarvi indietro; se accettate la via del discepolato, avete una responsabilità pubblica che nessuno vi può togliere.

L’ultimo paragone è un po’ simile alla metafora della luce. Mentre però, “la luce del mondo” faceva pensare piuttosto al sole, alla luce della creazione iniziale, qui si parla più modestamente di lucerna. Sappiamo che anche una lucerna piccola illumina un luogo buio. Gesù la descrive con un paradosso: “Non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio”, sotto quel secchio, più o meno grande, che è una misura per contenere il grano.

Certo è ridicolo coprire una lucerna con un secchio, però noi facciamo di queste cose ridicole quando non viviamo secondo il vangelo pur chiamandoci cristiani. Una lucerna va messa sopra il lucerniere, perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa.. Notate l’apertura cattolica, universale: a tutti quelli che sono nella casa, credenti e non, discepoli e non, vicini e lontani. Voi siete luce per tutti. Siete luce del mondo, non dei buoni, dei cristiani, di quelli che ci stanno, ma del mondo intero, siete il sale della terra, della terra che produce il cento per uno e di quella arida, disperata, affamata. Voi siete per tutti.

Gesù, dopo aver sottolineato la responsabilità del cristiano che accetta di essere discepolo, conclude con una esortazione, che riguarda in particolare la metafora della luce; ovviamente riprende anche il tema del sale e della città. “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini”. Può sembrare una contraddizione per chi conosce bene il Discorso della montagna, là dove dice: “Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini; quando preghi, chiudi la porta della tua stanza; quando fai l’elemosina, non suonare la tromba”.

C’è dunque un’apparente contraddizione fra le due esortazioni, ma noi comprendiamo bene che cosa significano l’una e l’altra. Gesù vuole che compiamo il bene per se stesso, senza cercare gratificazioni, soddisfazioni, compensi. Tuttavia il bene non può non riverberarsi intorno. Abbiamo la responsabilità di fare il bene per amore, e non per essere visti: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei Cieli”.

Spiega il Cardinale che “Sono tre momenti progressivi e potremmo paragonarli al frutto di un albero. Il frutto è bello quando è maturo sull’albero; è bello quando viene mangiato; è bello e buono quando nutre interiormente e lascia soddisfatti.

  • Voi siete luce per gli altri quando volete vivere il vangelo, quando siete decisi ad essere discepoli;
  • siete nutrimento per gli altri quando compite le opere evangeliche;
  • siete motivo di gloria a Dio quando queste opere sono colte da altri.

Ma quali sono queste opere buone che dobbiamo far risplendere?

Non dobbiamo cercarle lontano.Non sono quelle classiche del giudaismo (preghiera, elemosina, digiuno), bensì le opere del Discorso della montagna:

  • mitezza,
  • povertà,
  • gratuità,
  • misericordia,
  • perdono,
  • abbandono a Dio,
  • fiducia,
  • fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi.

È il Discorso della montagna che risplende e crea quella società alternativa che non permette alla società di corrompersi del tutto. È un po’ come la preghiera di Abramo a Dio per Sodoma: “Se ci saranno almeno dieci giusti, salverai la città.”

Riccardo nel suo tempo ha avvertito ed assunto la sua grande responsabilità nei confronti del mondo di essere fra coloro che sono sale e luce della città e della terra. Perché, se c’è tale speranza, questo sale e questa luce daranno speranza a molti.

Progressivamente ha avvertito la chiamata ad una missione, dapprima circoscritta, l’università, la Condotta Medica, la Chiesa locale, poi, attraverso l’Ordine Ospedaliero, verso il mondo intero. Una missione che in Convento troverà riassunta in una parola che diventerà anche professione di un voto: ospitalità. Con il farsi tutto a tutti, l’ essere luce, sale, lucerna sul lucerniere, città sul monte, senz’accorgersene, s’è ritrovato santo. E la Chiesa locale se n’è accorta subito, il giorno stesso del funerale.

Egli ha ben capito che sarebbe stato un controsenso se si fosse accontentato di una vita mediocre, vissuta all’insegna di un’etica minimalista e di una religiosità superficiale. Ha preferito puntare in alto, prendere il largo, adottando con convinzione questa misura alta della vita cristiana ordinaria.

Il Card. Martini è solito ripetere che è più facile essere santi che mediocri. Perché essere mediocri significa portare la vita cristiana come un peso, lamentandosi, amareggiandosi, rammaricandosi; la santità, invece, è luminosità, tensione spirituale, splendore, luce, gioia interiore, equilibrio, limpidità.

Il Pampuri per nulla intimidito dal vocabolo “santità” ha capito e dimostrato che farsi santi non vuol dire arrampicarsi sui vetri o vivere in un eroismo impossibile, solo di pochi. Ha capito che la santità non è opera personale, ma è partecipazione gratuita della santità di Dio, quindi è una grazia, un dono prima di essere frutto del proprio sforzo. E perciò va chiesto ripetutamente, ogni giorno, come il pane.

Le sue lettere stanno a Indicare che tutta la sua persona (mente, cuore, mani, piedi) l’ha inserita nella sfera misteriosa della purezza, della bontà, della gratuità, della misericordia, dell’amore di Gesù. Lui si è consegnato totalmente, nella fede, nella speranza e nell’amore a Gesù, al Dio della vita; una consegna attuata nella vita quotidiana vissuta con amore, serenità, pazienza, gratuità, accettando le prove e le gioie di ogni giorno con la certezza che tutto ha senso davanti a Dio, tutto è valido e importante.

Al nipote, proprio per esperienza personale, si sentiva di poter dare alcuni suggerimenti:

Sii poronto e generoso alla sua chiamata, non spaventarti della grandezza alla quale egli ti vuole, ricordati sempre che siamo figli di Dio, chiamati a farci santi nel servizio del Signore (ciascuno nello stato in cui il Signore lo vuole); vuoi che Egli dopo averti chiamato ti lasci pi mancare le grazie necessarie? Sarebbe aasurdo il pensarlo: Egli che ci ha dato il più, cioè tutto Se stesso, vuoi che non ci dia anche il meno?” (ibidem)

Messo a confronto con la lettera di Paolo agli Efesini si capisce che Riccardo, lui così concentrato sulle Lettere di San Paolo, rivela di essersi lasciato interrogare dalla Parola e di aver saputo cogliere l’insegnamento della sublime pagina dell’Apostolo, talmente ricca da far emergere cose nuove ad ogni lettura:

  • Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà.
  • E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto; nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia.
  • Egli l’ha abbondantemente riversata su di noi con ogni sapienza e intelligenza, poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra.
  • In lui siamo sta-ti fatti anche eredi, essendo stati predestinati secondo il piano di colui che tutto opera efficacemente conforme alla sua volontà, perché noi fossimo a lode della sua gloria, noi, che per primi abbiamo sperato in Cristo.
  • In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza e avere in esso creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa deIIa completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato, a lode della sua gloria” (Ef 1,3-14).

Quella che Paolo scrive alla comunità di Efeso è una lettera contemplativa e che inizia con una grande visione sintetica della storia di salvezza. Il Card. Martini, parlando ai giovani del XV GMG di Roma, dice che ogni volta che lo leggiamo o lo ascoltiamo, come ci sorprende l’irrompere di una cascata:

Anzitutto notiamo che è una lunga benedizione: “Benedetto sia Dio… che ci ha benedetti con ogni benedizione“. E’ una splendida preghiera che ripete per ben sei volte la formula in Cristo:

  • Dio ci ha benedetti con ogni benedizione nei cieli -in Cristo”,
  • “in lui ci ha scelti”,
  • “in lui abbiamo la redenzione”,
  • “in lui ha prestabilito di realizzare il suo disegno”,
  • “in lui siamo eredi”,
  • “in lui anche voi avete ricevuto il suggello dello Spirito”;

sei volte si fa riferimento a Gesù come al centro della benedizione. Questo testo è un grande canto di riconoscenza: sei volte si fa riferimento a noi che siamo gratificati, ricolmati di tanti doni: siamo scelti in Gesù, in lui predestinati, in lui eredi…

L’Arcivescovo di Milano, che è per noi una preziosa e sicura guida interpretativa del passo biblico, sia del mondo di osservare introspettivamente l’itinerario spirituale del Pampuri, si chiede:

1. Su quale sfondo va letta la pagina?

La stupenda pagina di san Paolo va letta chiaramente sullo sfondo del suo contrario, cioè della maledizioni della storia: guerre, fame, malattie, povertà, ingiustizie, crudeltà; il mondo sotto il potere del peccato, sotto il dominio del profitto fine a se stesso; il non senso della storia vista come un’avventura cinica, crudele.

E’ su tale sfondo che va letto il testo delle benedizioni di Dio, dell’amore, del perdono e della misericordia di Dio. E allora ci svela l’intenzione di Dio su ciascuno di noi, un’intenzione molto semplice, pure se Paolo la spiega con espressioni talora difficili.

2. L’intenzione di Dio

Il progetto di Dio su di noi è che, in una storia che sembra tanto crudele e senza senso, in una storia intessuta di ingiustizia e di violenze, siamo chiamati a essere in Cristo, in lui destinati a essere santi e immacolati. In Gesù “Dio ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità“. E’ quanto dobbiamo approfondire nella nostra catechesi: in Gesù noi siamo stati voluti da Dio; il mondo, tutto ciò che esiste è stato fatto per Gesù e per noi perché noi siamo una cosa sola in lui. “

Ciò premesso, il Martini cercare di farci comprendere meglio il significato della parola “santi”. “Santi vuol dire essere divini, entrare nella sfera del divino. La santità è una dimensione anzitutto ontologica prima di essere una dimensione morale: essere in Dio, in Gesù, essere figli.

Di conseguenza, immacolati, senza macchia.

Si esprime dunque della santità sia la radice profonda -essere in Gesù- sia le conseguenze etiche -essere immacolati-. I due termini ritornano al c.5 della stessa lettera agli Efesini, là dove Paolo sottolinea: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (vv.25-27).

La Chiesa, tutti noi siamo chiamati a essere santi e immacolati in Gesù.

E’ straordinaria questa intenzione di Dio

  • di fare di ciascun o una sola cosa in Cristo e di fare di noi una cosa santa, cioè la Chiesa;
  • di renderci divini, di purificarci da ogni macchia di egoismo, di odio, di amor proprio;
  • di renderci figli nel Figlio -”predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà“-, portatori nel mondo della presenza di Gesù.”

Riccardo si è interrogato come noi e reso cosciente dell’immensità della divina chiamata a essere santi. Le parole “santo, santità” hanno suscitano certamente anche il lui un brivido di timore pensando che essere santi significasse essere bravissimi, compiere chissà quali sforzi.

Al nipote non nasconde ciò che lui stesso sta vivendo da novizio:

Il Signore però, chiamandoti alla vita sacerdotale, non intende chiamarti ad una vita comoda e tranquilla poiché Gesù ai suoi Discepoli ha detto che non potevano pretendere trattati meglio di Lui, che era il Maestro: avrebbero patito come Lui doveva patire, sarebbero stati con Lui crocifissi con le più svariate persecuzioni e croci; come Egli aveva aperto una guerra a fondo, irriducibile contro il mondo, i suoi errori ed i suoi vizi, così essi avrebbero dovuto continuare tale guerra, senza quartiere e senza patteggiamenti prima in se stessi nella propria anima, nel proprio cuore per santificare e infiammare se stessi (“Se il sale diventa insipido, a che servirebbe, se non ad essere calpestato?) e poi nelle anime degli altri per santificarle ed infiammarle dell’amore santo di Gesù e della sua Croce”. (ibidem)

Ma si è anche reso conto che la lunga pagina delle benedizioni enunciate dall’Apostolo fa sapere che tutto è assai più semplice. Essere santi vuol dire lasciarsi amare da Dio, lasciarsi guardare da Dio come Dio guarda Gesù, vuol dire essere figli con e in Gesù, essere amati, lavati, perdonati da Gesù.

Nulla però [i Discepoli] avevano da temere, Egli ha vinto il mondo, ed essi pur lo vincerebbero con la sua grazia, basterebbe confidare in Lui, pregare Lui, restare uniti con Lui, Egli avrebbe loro ispirato per mezzo dello Spirito Santo ciò che avrebbero dovuto fare e dire; uniti a Lui avrebbero potuto compiere ogni cosa, superare ogni ostacolo: “Omnia possum in Eo qui me confortat”.

Il Pampuri ha capito che essere santi è davvero un problema di Dio prima che nostro, un problema che tocca a Dio risolvere. Come Teresa di Lisieux, anche lui si è semplicemente lasciato amare, non si è irrigidito né spaventato. E’ prevalsa in lui piuttosto la meraviglia:

  • quanto mi ami, o mio Dio!
  • quanto mi ami, o Gesù che vuoi essere tutto in me,
  • che vuoi unirmi a te
  • per insegnarmi a vivere, ad amare,
  • a soffrire e a morire come te!

Figlio del suo tempo, da bravo e valoroso caporale che sul fronte si è meritato anche una medaglia, sa come si deve rispondere al Superiore che chiama e così consiglia il nipote:

Coraggio adunque e generosità: se senti la chiamata del Signore, se il tuo Confessore te lo consiglia, segui tale chiamata, rispondi da buon soldato di Cristo, come i Santi: “Adsum – eccomi!”, mettiti nelle sue paterne divine braccia senza le eccessive preoccupazioni che la prudenza umana (dal Signore chiamata stoltezza) suole far sorgere per spegnere il fuoco santo che il Signore vuole accendere i noi: “Ignem veni mittere, ed quid volo nisi ut accendatur ?

Lasciando operare Dio in lui, sono emersi, a poco a poco, i passi, le caratteristiche, i momenti che hanno ritmato la sua santità. Questa disponibilità lo ha reso

  • contemplativo e amante della preghiera, gustata e sempre più allargata, fino a perdere la cognizione del tempo;
  • coerente con la sua fede, ha trasmesso ai coetanei e alla sua gente speranza di eternità, fiducia, sorriso, contentezza, serenità, tanti atti di generosità, di servizio, di disponibilità, di gratuità, testimoniato che la santità è possibile;
  • generoso nel servizio ai fratelli malati della sua Condotta Medica, vegliandoli anche la notte, mai calcolatore, mettendo mano al portafogli per le medicine o il macellaio;
  • membro attivo della Chiesa nelle diverse iniziative (Azione Cattolica, Banda, Esercizi Spirituali, Visite eucaristiche…) trasfondendo vivacità, disponibilità, amore, capacità di perdono…;
  • artefice di socializzazione e costruttore di pace e concordia, cominciando dalla famiglia, dalla parrocchia, dal piccolo gruppo, dicendo parole di benevolenza, di comprensione, di accoglienza, di condivisione.

Riccardo ha capito che il donare Gesù agli uomini, il condividere il tesoro che possedeva, non era un compito fra gli altri né un’attività che uno si assume come può. Egli lo ha fatto scopo della sua vita, tutta protesa in quest’ottica.

Se è legittimo chiedersi come abbia potuto realizzare un così impegnativo progetto di vita, come abbia fatto a tradurre le caratteristiche della santità nella quotidianità, la risposta, se vogliamo, è semplice:

  • LA PAROLA DI DIO. In anni in cui lo studio e la lettura della Sacra Scrittura erano penalizzate, Egli intuitivamente è rimasto in costante ascolto della Parola. Il Vangelo è diventato il suo tesoro più prezioso e dall’Imitazione di Cristo è stato spronato a leggerlo. Se essere santi significa essere come Gesù, in Gesù, è proprio il Vangelo, letto e meditato quotidianamente, che mette in noi la vita, i sentimenti, i giudizi, i pensieri, le azioni di Gesù.

A tal proposito così scriveva il Dr. Erminio Pampuri a un certo Sig. Milani il 5 dicembre 1924:

La lettura del S.Vangelo quanto più ripetutamente e attentamente si fa, con la volontà decisa e lo sforzo di applicarne le massime divine alla pratica della vita la Lectio Divina diremmo noi oggi), tanto più è compresa nel suo significato materiale, morale e mistico. E’ soprattutto lo sforzo sincero di applicarlo quello che fa sempre meglio comprendere lo spirito del Vangelo. E’ inoltre indispensabile per la giusta interpretazione la spiegazione di esso, e appunto per questo soprattutto è stato istituito da Gesù Cristo l’infallibile magistero della Chiesa”.

E ancora: “Nella lettura del Vangelo come di tutta la Sacra Scrittura, torna di gran giovamento il tener presente queste parole dell’autore dell’”Imitazione di Cristo”. E cioè: “Quando alcuno sarà più in sé raccolto e semplice di cuore, tanto maggiori e più sublimi dottrine ei comprenderà senza fatica: perché di sopra (cioè da Dio) riceve il lume della intelligenza”, libro I,cap.III

La nostra curiosità ci è spesso di ostacolo nella lettura delle Sacre Scritture, quando vogliamo capire e discutere, dove sarebbe da passarvi sopra semplicemente. Se tu vuoi cavarne profitto, leggile con umiltà, con semplicità e con fede”, libro I, cap.V”.

E San Gregorio Magno dice:

Se la Scrittura contiene in sé i misteri atti ad esercitare gli uomini più illuminati, essa contiene anche verità semplici atte a nutrire anche gli umili e i meno sapienti, ella porta al di fuori di che allattare i bambini, e di dentro, nei suoi più secreti significati, di che riempire d’ammirazione le menti più sublimi; simile ad un fiume così basso in certi luoghi che un agnello vi può passare a guado, e così profondo in certi altri, che un elefante vi potrebbe nuotare”.

  • L’EUCARISTIA. Fin dalla tenera età ha attinto vigore dai sacramenti, specialmente dall’Eucaristia e dalla Penitenza”. In entrambi ha ritrovato il sostegno per le sue debolezze, la forza di riprendere ogni giorno a essere come Gesù, ad essere santo.

L’Eucaristia è rivelatrice della verità di Gesù in tutta la sua interezza. Ed è insieme la rivelazione della verità del discepolo. Gesù viene dal cielo, Gesù è colui che si offre per la vita del mondo. Sono questi i due aspetti che definiscono Gesù nella sua persona e nella sua missione. E il discepolo è colui che mangia e beve la carne e il sangue di Gesù. In altre parole, è colui che riconosce l’origine di Gesù e il suo significato di salvezza e, di conseguenza, l’accoglie e la condivide.

Lui, prete mancato, perché non accolto dai gesuiti per malferma salute, dopo aver partecipato con entusiastico ardore al Congresso Eucaristico Nazionale di Genova nel settembre 1923, così scrive: “Quali tesori, quali torrenti di grazie ha riversato Gesù Eucaristico durante quel suo glorioso trionfo!…Dal gaudio di quei felici momenti, ben si può comprendere, per quanto lo permette la nostra mente limitata, qual gaudio infinito di perfetta felicità si compenetrerà nella beatifica visione diretta di Dio in Cielo” ( 6 ottobre 1923).

Sono sintomatiche le parole che sono state scolpite sulla sua tomba, segno evidente di una sensazione avvertita e diffusa: “NEL SECOLO E NEL CHIOSTRO ANGELICAMENTE PURO, EUCARISTICAMENTE PIO, APOSTOLICAMENTE OPEROSO”.

  • LA SILENZIOSA VIA DELLA CROCE. L’attaccamento a Gesù deve superare ogni altro legame. Il primato di Gesù non va solo affermato e riconosciuto a parole, ma concretamente nella sequela: «Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me». La via della Croce è un modo nuovo di vedere le cose e di agire, di valutare e di scegliere: la via della Croce è la via del dono di sé, della solidarietà, della rinuncia a fare della propria persona il centro attorno a cui tutto deve ruotare. Ma nessuna paura: questa logica, così diversa da quella abituale, non è generatrice di morte, ma di vita: «Chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà».

La meditazione della passione e morte di Gesu è stata per lui “di stimolo continuo ed efficace a sopportare le croci, ad amarle, a desiderarle per amor suo con quell’ardore vivissimo col quale Egli sospirò di portare quella croce pesantissima” (10 aprile 1924).

  • LO SPIRITO DI RACCOGLIMENTO E DI UNIONE CON DIO. Il motivo lo si può trovare perfino nei suggerimenti espressi a suo nipote: “Non chiacchierare troppo, ma abituati a tacere ed a restare un po’ raccolto in te stesso, poiché la bottiglia aperta lascia svaporare la forza del vino che contiene e lo fa inacidire”.(8 settembre 1928).
  • LA SPIRITUALITA’ DEL SACRO CUORE DI GESU’. In tempi come i nostri in cui, nonostante l’autorevole enciclica di PIO XII “Haurietis aquas”, la devozione al Sacro Cuore è, senz’altro, in crisi, è utile soffermarsi e dilungarsi su questo punto che ha caratterizzatola la chiesa della prima metà del ‘900 e la spiritualità del Pampuri in particolare. Proprio perché rimane ancora valida l’osservazione di Karl RAHNER che “non esclude l’ipotesi che la devozione al Sacro Cuore, da popolare diventi una devozione dei Santi, degli spirituali, dei mistici, i quali troveranno, come in un punto ardente, la risposta dell’unico Cuore alle supreme istanze del loro cuore umano”, è il caso di sottolineare che Riccardo ha saputo cogliere nel segno.

La spiritualità del S. Cuore, è in verità “l’anima di tutte le devozioni”, perché ci fa vivere pienamente la MEDIAZIONE del Verbo incarnato; ci fa rapportare alla seconda Persona della Trinità, accogliendolo nella sua duplice natura di UOMO-DIO.

La spiritualità del Cuore di Gesù è un modo di sentire e di vivere tutto il mistero di Cristo, come mistero d’amore”. Perché, come scriveva PIO XII: “La devozione al Cuore di Gesù è, in sostanza, il culto dell’amore che Dio ha per noi, nel Cristo ed, insieme, la pratica del nostro amore verso Dio e verso gli altri uomini”.

È la spiritualità più CRISTOCENTRICA, la più capace di inglobare e determinare tutta la nostra vita. Con essa “la religione diventa amore”, perché mette al centro – attraverso il simbolismo del cuore – l’amore stesso di Dio, così come si rivela nell’AT in Os 11,1.3-4; 14,5-6; Is 49,14-15: Ct 2,2: 6,2; 8,6; e come ce l’ha manifestato Gesù nel NT (cf. Gv 19,37; Lc 15).

  • GLI STESSI SENTIMENTI DI CRISTO GESÙ” (Fil 25 ) . II Cuore di Gesù, e ciò che esso significa come relazione personale affettiva, e ci dice quanto un uomo possa percepire l’amore di Dio, e fino a quali potenzialità possa rispondervi (Ef 3,17-19). L’amore di Gesù per ciascuno di noi, è la conseguenza dell’incarnazione e di quella solidarietà che Egli ha con l’umanità intera. San Paolo, che ha meditato e annunciato questo mistero, per esprimerlo conia per noi, dei neologismi, come:
  • con-patire (Rm 8,17),
  • con-crocifiggere (Rm 6,6),
  • con-morire (2Cor 7,3),
  • con-seppellire (Rm 6,4),
  • con-risuscitare (Ef 2,6),
  • con-vivere (Rm 6,8),
  • con-vivificare (Ef 2,5),
  • con-fondati (Rm 6,5),
  • co-eredi (Rm 8,17),
  • con-figurare (Fil 3,10),
  • con-formare (Rm 8,21),
  • con-glorificare (Rm 8,17),
  • con-sedere (Ef 2,6),
  • con-regnare (2Tm 3,10).

Tutto a riprova che “non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me” (Gal 2,20).

D’altra parte, il cristiano che è unito al suo Signore, sa che per questa comunione il Cristo co-agisce con il credente quando prega, quando soffre, quando ama.

  • Una PRESENZA viva La Sacrosanctum Concilium, al n. 7, parla delle varie presenze “reali” del Risorto, nella sua Chiesa:nelle azioni liturgiche, nel sacrificio della Messa, nei sacramenti, nella sua parola, nella comunità riunita per la preghiera. In più, ogni cristiano dovrebbe sentire il Signore “presente in sé”, secondo la promessa dello stesso Salvatore (cf. Gv 14,20) Gesù è “nostro contemporaneo”, infatti, Egli è “lo stesso, ieri, oggi e sempre” (Eb 13,8).
  • Quando noi viviamo in santità, – cioé in comunione con Lui – diveniamo co-attori dei misteri della sua vita terrena, sia nella dimensione sacramentale offertaci dall’ANNO LITURGICO, che nell’unione dei cuori, sperimentabile nell’esperienza mistica. Tutta la persona, anche la sua dimensione affettiva, è coinvolta nella vita di Cristo:
  • con tenerezza, per Gesù Bambino;
  • con amicizia, per l’Evangelizzatore di Galilea;
  • con compassione, per l’Innocente sofferente e crocifisso;
  • con adorazione, per il Signore risorto. Presente nella nostra storia.

II Cristo si fa presente nella vita d’ogni cristiano con grazie particolari, soprattutto nei momenti decisionali. A volte, la percezione della sua presenza è così certa, gratuita, illuminante, da avvicinarsi ad una vera “esperienza mistica”.I momenti sono questi:

  • Vocazione, soprattutto quando questa è chiamata ad una vita di speciale consacrazione. Es.: Maria (Lc 1,26-38).
  • Conversione, che non è necessariamente “mutamento di condotta etica, ma nuovo orientamento teologale di tutta la persona e l’esistenza a Cristo”. Es.: san Paolo (At 9,1-8).
  • Sequela, che è l’aspetto conseguente la vocazione e la conversione. Si segue Gesù per “convivere, comunicare e condividere” con Lui (cf. Mc 3,14).
  • Comunità, come luogo al quale porta la vocazione e la conversione, perché in essa e per essa si attua la sequela. Solo nella comunità si ha la certezza di incontrarsi con Cristo (Mt 18,19-20).
  • Missione, che è evangelizzazione e (o) testimonianza, imitando, anche in questo, Gesù, il Messia salvatore.

E’ facile, è possibile vivere così, tendere alla santità?

Non credo si possa affermare che è facile essere santi. Non lo è stato neanche per Riccardo. Ma certamente è molto più bello del contrario e ogni volta che uno ci prova è costretto a dare ragione a tale affermazione. Certo, sembra duro e magari spaventa. Eppure, lo sappiamo tutti, è bello essere in Gesù e come Gesù; è assai più bello del contrario.

  • Perché la negligenza, la pigrizia, la svogliatezza, il cercare sempre e soltanto i propri comodi, è la cosa più triste che ci sia.
  • Invece la santità, l’essere in Gesù, l’avvicinarsi a lui è la cosa più bella in assoluto. Provare per credere.

E’ possibile realizzare questo ideale?

Lo chiediamo all’evangelista Luca. Egli è molto attento non soltanto al servizio e all’assistenza che, ad esempio, le donne svolgono nella comunità, ma anche al loro compito per l’edificazione e coesione della Chiesa (At.9,36; 16,14; 18,26). Epperò, è particolarmente interessato a quello dell’ascolto della Parola. E certamente non si tratta di un ascolto ozioso, inerte, o per un mero fatto culturale e contemplativo; è beato, infatti, chi ascolta la Parola per metterla in pratica.

Egli utilizza i dati in suo possesso per ricostruire una scena ideale, in cui sono illustrati due atteggiamenti sull’accoglienza di Gesù: il servizio generoso di Marta per l’ospite gradito e di riguardo e l’ascolto attento di Maria alle parole del Signore.

L’attenzione al Maestro, l’ascolto della sua Parola è per il discepolo la “parte migliore”, che non gli sarà tolta. Per Luca, ascoltare la Parola non ha nulla a che fare con la contemplazione oziosa, bensì sfocia nell’azione concreta ed esigente (Lc.8,15). Se questo vale per ogni cristiano, tanto più diventa essenziale per coloro che “lasciando ogni cosa per amore di cristo, lo seguono come l’unica cosa necessaria (Lc.10,42, ascoltandone le parole (Lc.10,39), pieni di sollecitudine per le cose sue”.

Maria di Betania, senza rendersene conto, sta realizzando in quel preciso istante la definizione dell’essere umano, chiamato l’unità del fare e dell’ascolto. Che cosa significa essere uomini o donne? E’ scoprire il mistero di noi stessi nell’ascolto della Parola di Uno, più grande di noi, che avendo fatto il nostro cuore, ce ne rivela i segreti.

Maria di Betania è immagine dell’uomo che si autocomprende, che giunge all’autenticità, alla chiarezza del possesso cognitivo di sé ponendosi con umiltà all’ascolto della Parola divina che ci rivela e, nello stesso tempo, ci riempie. Credo si possa affermare decisamente che il mistero dell’ascolto di Maria di Betania è una vera e propria rivelazione della condizione umana che siamo chiamati ad accogliere. Dal nostro essere aperti al discorso di Dio, gratuito e benevolo, noi impariamo che siamo in ascolto, dono, e ci realizziamo nella gratuità.

Ciò che emerge dal fatto è che Riccardo è la testimonianza di un’autocoscienza vigile e di questo ideale realizzato. Egli ha saputo coniugare servizio generoso con l’ascolto attento. E come lui, una miriade di persone. Basterebbe fare un po’ d’attenzione e ci accorgeremmo di essere circondati da santi. Ho provato a indagare superficialmente e subito mi sono accorto di quanti santi solo del ‘900 sono già assurti alla gloria degli altari o vi sono candidati. Senza contare quelli che non lo saranno mai. La santità è, di fatto, in mezzo a noi, sulle strade, sui tram, in metropolitana, non lontana da noi.

Se si pensa che il Signore ha concesso al nostro secolo che appare così secolarizzato, così pagano, di essere il più ricco di santi e di martiri di tutti gli altri secoli, c’è da restare stupefatti. Ed anche da arrossire dalla vergogna a stare dall’altra parte della barricata, fatta di pigri ed oziosi operai nella stessa vigna del Signore.

E, se una lieta notizia ne deriva, consiste nel fatto che Dio ha una Parola per me, per noi, per tutti e possiamo ascoltarla, nel silenzio e nella pace. Da tale ascolto

  • siamo nutriti,
  • cresciamo nella fede,
  • ci realizziamo come essere umano,
  • cresciamo insieme a tanti altri come Chiesa in cammino.
  • A tutti viene assicuratao: “Questa parte migliore non ti sarà mai tolta”.

L’EDUCAZIONE CRISTIANA E IL NUOVO UMANESIMO – Flavio Pajer

Flavio PAJER

Università Pontificia Salesiana di Roma, e Facoltà Teologica di Napoli

 

Sono passati quasi settant’anni da quando Jacques Maritain scriveva negli Stati Uniti d’America e pubblicava in Francia il suo Umanesimo integrale (1936), opera nella quale egli prospettava l’utopia di un rovesciamento dei principi della civiltà occidentale, in quanto „si tratta di arrivare a un primato della qualità sulla quantità, del lavoro sul denaro, dell’umano sul tecnico, della saggezza sulla scienza, della solidarietà sociale sull’egoismo individuale”.

A settant’anni di distanza, dobbiamo purtroppo dire che l’utopia maritainiana si è rivelata davvero tale: solo un’utopia, un sogno. Non solo, ma dovremmo ammettere che – sotto certi aspetti, come quelli etico-valoriali o simbolico-religiosi – quella che lui chiamava „civiltà occidentale” ha conosciuto da allora ad oggi una progressiva estenuazione, per non dire una evidente degenerazione.

Lo stesso anno 1936 usciva L’homme cet inconnu di Alexis Carrel, premio Nobel per la medicina, la cui tesi centrale faceva chiaramente eco al richiamo di Maritain: „la nostra civiltà è disumana perché ignora l’uomo”.

1. Umanesimi nel Novecento occidentale

Ma non si contano le opere letterarie e le analisi filosofiche che lungo tutto il Novecento hanno tentato di individuare lo specifico della condizione umana dalle angolature più svariate e inconciliabili tra loro: dall’ Uomo senza qualità (1930-43) di Robert Musil all’ Uomo a una dimensione (1964) di Herbert Marcuse, dall’ Homo ludens (1938) di Johan Huizinga all’Homo patiens (1984) di Viktor E.Frankl, dall’Homo viator (1945) di Gabriel Marcel all’Uomo planetario (1990) di Ernesto Balducci…e come non citare, in questa nobile terra di Romania, gli importanti studi sull’ homo symbolicus, mythologicus, religiosus del vostro celebre compatriota Mircea Eliade?

Questo grappolo di nomi esemplificativi che ho evocato – ma l’elenco potrebbe continuare a lungo ! – non indica certo un itinerario rettilineo di una teoria dell’uomo contemporaneo, quanto una rete o meglio un labirinto di visioni più o meno parziali e contraddittorie. Un labirinto dove è più facile smarrirsi che trovare una direzione di marcia coerente. D’altra parte, sappiamo che non pochi pensatori si compiacciono nel contrassegnare la condizione umana proprio con i caratteri esistenziali del limite, della debolezza, della ferita. Per esempio, già Freud, in un suo testo del 1917, scriveva che dagli inizi dell’epoca moderna l’umanità s’era vista infliggere tre gravi ferite:

  • la prima, sul piano cosmologico, era il fatto di Copernico che osò dire che la terra era più piccola del sole e che girava introno ad esso;
  • la seconda, biologica, era stata causata da Darwin la cui teoria sembrava aver dato un colpo mortale all’orgoglio umano;
  • la terza ferita, di ordine psicologico, era la psicanalisi, che affermava, nonostante ogni apparenza contraria, che l’uomo non è mai padrone della propria anima.

A queste tre ferite della coscienza moderna, a dir il vero già abbondantemente cicatrizzate, noi uomini post-moderni ne dobbiamo aggiungere diverse altre: per esempio,

  • l’esser divenuti consapevoli della relatività della nostra cultura, anzi della sua mortalità,
  • l’aver perso quella sicurezza prima garantita dai nostri secolari etnocentrismi culturali,
  • l’aver assistito alla fine delle grandi ideologie che a modo loro obbligavano a darsi un’ identità e una appartenenza,
  • l’essere consci che le stesse epistemologie dei saperi sono divenute labili e falsificabili,
  • il sentirci in balìa dei „giochi” non sempre innocenti della globalizzazione,
  • per non parlare dell’incombente e imperversante minaccia del terrorismo transnazionale…

Il sociologo Zigmunt Bauman (La società dell’incertezza, 1999), nel capitolo „Catalogo delle paure postmoderne”, registra la paura dell’incertezza (p.101), anzi parla dell’ambiguità tra la fobia del mutevole e la fobia del definitivo (p.117). E l’epistemologo Edgar Morin (A’ propos des sept savoirs, 2000) va ancora più avanti quando afferma che „l’acquisizione dell’incertezza è una delle più grandi conquiste della coscienza umana” (p.45) e annovera addirittura l’incertezza (da lui intesa come attitudine e capacità positiva di sottoporre a verifica continua ogni certezza) tra i „sette saperi” che dovrebbero essere insegnati e appresi da tutti nella scuola del futuro (p.41). Alla base di questo generale clima di incertezza stanno paure planetarie come quella della crisi ecologica, del boom demografico, della tecnocrazia disumanizzante, della onni-invadenza informatica, dello „scontro tra civiltà”, e altre ancora. E comunque un’attesa implicita e confusa di un uomo nuovo si fa strada in questi ultimi anni nella ricerca inquieta di forme sperimentali di religiosità, nel fenomeno vistoso del nomadismo spirituale. Le „filosofie” New Age/Next Age, per esempio, come altre correnti esoteriche e settarie, testimoniano – talora in forme inedite e paradossali, quasi prometeiche – l’ansia dell’avvento di un uomo nuovo.

Le stesse religioni storiche – che da secoli avevano mantenuto la presunzione di indicare all’uomo credente la sua vera natura e vocazione – sembrano entrate oggi nell’era dell’incertezza, della fluidità: sembrano impotenti a trasmettere all’uomo la sua identità ultima. Certi fenomeni di fondamentalismo si spiegano appunto come reazione identitaria all’estenuarsi, reale o apparente, delle certezze di un tempo. Lo stesso cristianesimo – al di là della laboriosa ricomposizione interna dei suoi contenuti dogmatici, etici, ordinamentali – sache deve fare oggi seriamente i conti con il pluralismo delle religioni. Se fino a ieri, in un’epoca in cui l’epopea missionaria coincideva con la supremazia incontrastata dell’Occidente, le chiese cristiane davano un giudizio piuttosto pessimistico sull’avvenire delle grandi religioni mondiali, oggi la teologia cristiana delle religioni è diventata un posto decisivo di frontiera della teologia contemporanea. Il teologo domenicano Claude Geffré azzarda questo parallelo illuminante:

Come l’ateismo ha potuto essere l’orizzonte in funzione del quale la teologia della seconda metà del secolo XX re-interpretava le grandi verità della fede cristiana, così il pluralismo religioso tende a diventare l’orizzonte della teologia del XXI secolo e ci invita a rivisitare i grandi capitoli della dogmatica cristiana. Si tratta della risposta ad una situazione storica incontestabile ed anche della conseguenza di una intuizione-chiave del Vaticano II che, per la prima volta nella storia del magistero romano, ha dato un giudizio positivo sulle religioni non cristiane1.

2. L’umanesimo postmoderno e le sue sfide all’educazione cristiana

L’educazione è per definizione rivolta verso l’avvenire: essa e a un tempo trasmissione di un patrimonio di valori e di conoscenze acquisite dal passato, ma soprattutto è progetto prospettico, progetto d’uomo proponibile oggi alle generazioni che crescono. Ma nasce appunto qui il dramma di tanti adulti d’oggi, di genitori, educatori, pastori: hanno la convinzione, o almeno il sospetto, di non aver più un progetto d’uomo sicuro, plausibile, collaudato, da consegnare alla generazione successiva. Il tema dell’educazione è largamente rimosso dalla scuola e persino da molte famiglie. La scuola tende a rifugiarsi in un ruolo di istruzione di saperi e di competenze, funzionale alle aspettative emergenti della società produttiva, mentre la famiglia, luogo tradizionale e naturale della prima socializzazione dei minorenni, si sente sempre più spropriata ed inerme di fronte all’invadenza crescente del tempo scolastico e della onnipresenza pervasiva dei media. A monte di questa diffusa crisi dell’educazione, stanno fenomeni culturali macroscopici che è necessario individuare nella loro entità, per non ridurre a discorso moralistico e individuale un problema che ha radici storiche e strutturali, e dimensioni collettive. Volendo cogliere a grandi tratti schematici le principali sfide che la cultura postmoderna pone all’educazione, direi che possiamo condensarle in queste quattro.

1. La prima sfida può essere individuata nella crescente compresenza di varie visioni del mondo e della vita. E’ quello che si chiama comunemente il fenomeno del pluralismo culturale ed etico. La diversità culturale costituisce

1 R. GIBELLINI, ed., Prospettive teologiche per il XXI secolo, Queriniana, Brescia 2003, 353.

oggi un nodo problematico per l’antropologia come per il diritto, per la politica come per l’educazione. Il concetto di diversità è associato spesso a quelli di disuguaglianza, conflittualità, intolleranza. Da sempre e non solo da oggi, la diversità è stata fonte di sospetti e di paure, di autodifese e di aggressioni.

Oggi l’amplificarsi del fenomeno migratorio, l’estenuarsi del tradizionale concetto di stato nazionale, il sempre più facile accesso a fonti informative transnazionali e a modelli di vita indotti da altre culture hanno innescato un processo di inevitabile incontro-confronto (talvolta: scontro?) tra le molteplici identità coesistenti.

Nelle culture occidentali, ma non solo, convivono ormai concezioni immanenti e trascendenti, materialistiche e spiritualistiche, totalitarie e libertarie, agnostiche e fondamentaliste, laiciste e confessionali… Un ventaglio di visioni che, anziché contrapporsi in nette polarità dialettiche come poteva avvenire in tempi passati, convivono oggi piuttosto indifferentemente nel mondo della politica come in quello dell’educazione pubblica, impregnano i sistemi della comunicazione massmediale come gli spazi del tempo libero, e sempre più spesso coabitano persino all’interno dei nuclei familiari, indipendentemente dalle variabili di età, di sesso, di professione.

Sarà ancora possibile, in tali contesti di diffuso pluralismo teorico e pratico, educare ad una, e ad una specifica visione della vita? Se relativismo e agnosticismo sono già largamente diffusi nelle coscienze adulte e aggrediscono ineluttabilmente le coscienze giovanili, come potrà imporsi, e a quale prezzo, un progetto educativo che voglia ispirarsi a una particolare concezione della vita? Questo è il dilemma che oggi sfida ogni sistema educativo: o introdurre i giovani, in modo a-valutativo ed equidistante, alle varie visioni della vita compresenti, nell’illusione di inseguire un’improbabile quanto vuota neutralità, oppure educare in modo partecipativo e appellante a una particolare visione – quella del proprio credo filosofico e religioso – col rischio però di formare delle persone impreparate a inserirsi e a convivere in una società pluralistica.

E’ indubbia la preferenza da accordare, anche solo dal punto di vista pedagogico, al secondo aspetto del dilemma. Ma almeno a due condizioni. La prima: saper superare sia una gretta autoreferenzialità al patrimonio dei propri valori ritenuti come esclusivi, sia la tentazione del „culto identitario”, che esonera dalla fatica delle necessarie mediazioni culturali. La seconda: non minimizzare, nell’educazione, i provvidenziali aspetti positivi dello stesso pluralismo che obbliga i credenti/cristiani a verificare progetti e strumenti educativi pensati in tempi di „cristianità”, che impegna le organizzazioni religiose a vincoli di interdipendenza e solidarietà con le molteplici e inedite espressioni del volto politico e culturale delle società civili.

In altre parole, si tratta di iniziarsi alla propria cultura ma senza pretendere di assolutizzarla e di comprendere le altre culture senza subordinarle pregiudizialmente alla propria. In termini più direttamente educativi si tratta di:

  • conoscere in modo autocritico la propria posizione culturale;
  • conoscere e tollerare senza pregiudizi sfavorevoli le posizioni di chi è diverso da noi per idee e comportamenti;
  • riconoscere positivamente i valori degli altri, quand’ anche fossero incompatibili con i propri;
  • impegnarsi, al di là delle idee e convinzioni personali, in attività comuni di integrazione reciproca.

2. La seconda sfida, conseguente e complementare alla prima, è data dalla caduta di significatività di un certo modello di antropologia e di educazione cristiana monoculturale, etnocentrica, normata da parametri di ortodossia veritativa e di ortoprassi morale, ma indifferente ai canoni estetici, emozionali, simbolici. Se educazione significa aiutare ad appropriarsi creativamente di quel patrimonio simbolico elaborato dalle generazioni precedenti per dare un significato alla vita, troppi indizi lasciano oggi intendere che non solo una certa trasmissione di valori e stili di vita non è più praticabile come un tempo, ma che quegli stessi contenuti che risultavano significativi per le generazioni di ieri risultano spesso „in-significanti” nella cultura odierna.

L’accesso al senso globale della vita, reso possibile ieri da un tessuto sociale portante che oggettivava il patrimonio culturale in costume e linguaggio, in riti civili e religiosi, in norme e istituzioni, è ostacolato oggi dalla disintegrazione di quel tessuto sociale in seguito all’autonomia acquisita dalle singole sfere dello scambio sociale (politica, economia, religione, famiglia, scuola, pubblico/privato ecc.). I grandi sistemi di significato tradizionali hanno perduto, nelle società occidentali, credibilità assolutezza, centralità; c’è un istintivo rifiuto delle grandi sintesi, dei „grandi racconti” . Di qui la crisi di quelle evidenze etiche veicolate nei nostri paesi dalla tradizione cristiana, evidenze che costituivano l’orizzonte entro cui si definiva oggettivamente il senso della vita umana. Da qui anche l’accentuarsi odierno della distinzione tra moralità pubblica e devianza privata, nel senso che le condotte trasgressive che minacciano per esempio i diritti dell’uomo, la vita comunitaria o l’ecosistema risultano maggiormente condannate, mentre appaiono giustificate o facilmente giustificabili gli atteggiamenti più trasgressivi delle norme che regolano la vita privata dell’individuo.

Oltre che dal dolore, dalla malattia, dalla morte, l’uomo ha bisogno di essere liberato dalla assurdità del non-senso della vita, da quell’insignificanza di sé, del tempo, delle cose, che inquieta e mortifica la sua natura di essere ragionevole.

Se manca un senso del vivere cade pure il senso del futuro, la capacità progettuale, l’appello a realizzare una vocazione personale nella storia.

Psicologi e psicoterapeuti hanno offerto contributi notevoli alla educazione della scoperta del senso. Due nomi per tutti, assai noti nelle scienze umane, che scelgo volutamente dalla cultura umanistica non ecclesiastica: Alfred Adler, che ritiene con buone ragioni che nel senso della vita risieda la regola che guida in ogni individuo il pensiero, l’affettività, le attività ludiche e lavorative; occorre però che insegnamento, educazione e terapia aiutino la persona a sintonizzare il senso ideale alla vita reale e viceversa. L’altro nome è Viktor E. Frankl, fondatore della logoterapia, che, grazie a una filosofia della vita in perenne ricerca di significati e di compiti da realizzare, non soltanto ha ribaltato le obsolete interpretazioni psicoanalitiche, che vedevano all’origine dei disturbi psichici solo repressioni e complessi, ma ha soprattutto individuato gli itinerari da seguire per aiutare la persona a costruirsi un’identità o a recuperarla, a darsi ragioni per vivere e per vivere pienamente.

3. Un terzo fronte di sfide all’educazione è costituito da un ampio ventaglio di fratture strutturali e culturali, che minano l’unità della persona o spezzano i vincoli della comunità umana e per questo pongono ostacolo oggettivoal progetto educativo. Ecco alcune delle principali fratture, riprese frequentementedalle analisi di sociologi e filosofi contemporanei:

  • – la divaricazione tra progresso e valori dello spirito, constatabile, per esempio, tra un ordine socio-economico tutto teso alla fruizione concorrenziale dei beni materiali, da una parte, e, dall’altra, il proliferare inoffensivo di dichiarazioni di principio sulla dignità della persona umana e la solidarietà sociale; tra un sistema educativo magari all’avanguardia in fatto di tecnologie istruttive e di programmi al fine di riuscire funzionale agli interessi del sistema produttivo, ma proprio per questo inadempiente sul versante primario e irrinunciabile della educazione critica e della formazione della coscienza personale;
  • – la dissociazione tra l’imperante cultura scientifico-tecnica e i saperi simbolico-religiosi, questi ultimi ridotti spesso a discipline marginali o addirittura ininfluenti nei curricoli di studio e a partire spesso dai primi anni di scuola; è il „gap” tra il primato di fatto dei saperi strumentali, che offrono competenze spendibili nel mercato delle attività produttive, e la marginalità dei tradizionali saperi simbolici, le cosiddette discipline umanistiche, più gratuite e disinteressate; l’illusione della scuola, anche della scuola cristiana, è di presumere che il senso globale della vita, che in tempo di cristianità era trasmesso per via naturale dal contesto vitale quotidiano, possa venir elaborato oggi dalla scuola per via concettuale;
  • – la distinzione, che a volte si radicalizza in separazione, tra la sfera pubblica e la sfera privata dell’attività umana, con il conseguente abusivo sconfinamento dell’attività religiosa e delle scelte etiche individuali nella sfera del privato personale. Sono fratture di varia natura, e di diversa origine e portata. Tutte però, proprio per il loro potenziale dissociante e disgregante, concorrono a rendere più problematica un’educazione integrale, che ambisca reintegrare i frammenti provenienti da più modelli coesistenti di vita nella totalità organica della persona.

In questo contesto diventa problematico – qualcuno arriva persino a dire: proibitivo – educare alla verità, inteso come processo unitario a scoprire il vero e nel contempo a diventare veri come persone. E’ chiaro che questa educazione alla verità dovrebbe implicare tutte le dimensioni costitutive della persona, da quelle intellettuali e scientifiche a quelle affettivo-sentimentali, dalla dimensione simbolico-religiosa a quella etica-comportamentale. In ciascuna sfera occorre saper padroneggiare un certo patrimonio di conoscenze oggettive verificate e nel contempo saper verificare (= render vero, effettivo) nel vissuto quotidiano quelle acquisizioni, mediante l’esercizio della capacità di discernimento, di scelta e di condotta coerente. Questo in linea di principio.

Di fatto, sono note le difficoltà in cui oggi s’imbatte ogni educatore che voglia promuovere verità nel senso pieno del termine: riduzione del vero all’empiricamente verificabile, primato del criterio dell’efficacia tecnica, vitalismo e soggettivismo (il miglior terreno per la cultura del pensiero debole), relativismo indotto da un malinterpretato pluralismo, condizionamento mediatico (esiste e conta solo quello che passa dai media), l’esposizione prolungata alla seduzione della cosiddetta „realtà virtuale”, la perdita di contatto con le radici storiche del patrimonio culturale ereditato, l’estenuarsi della capacità progettuale nelle giovani generazioni, come sopra ricordato… In siffatto clima culturale lo scontro tra generazioni e relative visioni della vita sembra inevitabile.

E anche la scuola si trova impotente, o spesso in ritardo, a ridiventare luogo di elaborazione, non della verità tout court, è ovvio, ma dei presupposti culturali e degli strumenti critici che dovrebbero permettere ad ogni persona l’accesso alla verità.

4. Un’ulteriore, quarta sfida tocca più da vicino i processi dell’educazione religiosa: la possiamo chiamare la sfida della pertinenza culturale del fatto cristiano. Nel contesto culturale della post-modernità il cristianesimo si trova a dover realizzare una re-inculturazione dell’annuncio evangelico, oppure rassegnarsi a lasciarsi emarginare come un residuo del passato. L’inculturazione nell’universo classico, realizzata dalle prime generazioni cristiane e poi via via modulata attraverso due millenni, mostra la sua obsolescenza a partire dalla sua grammatica di base. L’antropologia mutuata dalla cultura greca, soprattutto dopo la svolta costantiniana, appare oggi trascesa o addirittura ignorata dalla percezione prevalente nelle nuove generazioni. Il dualismo carne-spirito, anima-corpo che – malgrado fosse fondamentalmente estraneo alla spiritualità dei profeti dell’AT e al nucleo del NT – ha egemonizzato il cristianesimo occidentale è ogni giorno di più una prigione, sia pure aurea, per la comunicazione della fede cristiana. Ci si avvede che questa è una antropologia di separazione e di contrapposizione (uomo-donna, bianco-nero, ricco-povero…), incomponibile con la coscienza democratica dell’uguaglianza.

Si radica qui anche quella specie di slittamento moralistico (inconsapevole?) di tanta parte del magistero e della pastorale recente.

Nelle nostre chiese – ho presenti soprattutto le comunità cattoliche in Occidente – da alcuni decenni a questa parte l’esperienza religiosa, compresa quella propriamente liturgica e sacramentale, viene vissuta come un’esperienza emotiva, forse anche per influsso di un diffuso clima di abdicazione della ragione forte a vantaggio del cosiddetto „pensiero debole” (coniato dal filosofo torinese Gianni Vattimo). Da un certo punto di vista il messaggio cristiano – che di per sé apparterrebbe più all’ordine simbolico-analogico che a quello razionale-speculativo – potrebbe trovarsi avvantaggiato in questo clima culturale improntato al primato dell’ emozionale sul razionale (come ricorda la sociologa francese Danièle Hervieu-Léger). Senonché questo messaggio si scontra oggi con un notevole handicap: il fatto di essere stato tradizionalmente formulato in termini di ortodossia dottrinale più che in codici simbolici, affettivi, estetici, lo fa percepire istintivamente distante dalle condizioni di ricettività e di intelligibilità dell’uomo contemporaneo; in ciò sta la difficoltà della fede a tradurre i suoi contenuti verbali in quei linguaggi universali propri della creatività artistica, che per secoli – dalla musica all’ icona, dall’architettura al rito liturgico – sono stati il tramite felice ed efficace di un „con-sentire” ecclesiale e comunitario intorno ai valori che davano senso profondo e permanente alla vita. Era il tempo in cui non era nemmeno necessaria una vera e propria educazione cristiana o iniziazione intenzionalmente programmata, perché bastava quello lasciar agire quell’automatismo sociologico di riproduzione culturale, che oggi gli studiosi dei processi culturali chiamano socializzazione religiosa.

3. Condizioni per affrontare la sfida educativa nel postmoderno Le molteplici analisi che da un ventennio a questa parte ci parlano dell’ „uomo post-moderno” ci consegnano l’immagine di un uomo in cui è fatto spazio alla differenza, alla alterità, al limite, alla complessità. Ne consegue la necessità di una somma cautela in ogni affermazione sull’uomo. Direi che sono almeno due i postulati di base che l’odierna concezione antropologica consegna alla nostra responsabilità di credenti e di pastori2:

  • – quello del senso dell’essere-uomo, nel momento in cui il confine e la relazione tra natura, tecnica e morale (= essere, poter essere e dover essere) sono divenuti problematici al limite della rottura, e interpellano la coscienza personale e collettiva;
  • – e quello della comprensione e gestione del pluralismo e delle differenze che esso comporta a tutti i livelli: di pensiero, di opzione morale, di cultura, di filosofia dello sviluppo umano e sociale, di adesione religiosa.

Cadono quindi come insufficientemente probanti:

  • – sia i modelli d’uomo di tipo speculativo-essenzialista, tesi a svelare unicamente l’essenza atemporale dell’uomo, definita in termini di qualità costitutive (intelligenza, libertà, volontà…), o di dimensioni fondamentali (individualità, socialità, politicità, religiosità …), o del suo statuto soprannaturale (grazia-peccato, virtù teologali, ecc). Una tale antropologia cristiana declinata in chiave di natura atemporale rischia di lasciare all’oscuro gli aspetti storico-culturali di crescita e di sviluppo dell’essere umano. L’essenza in questo caso mette in penombra e sacrifica le dinamiche fondamentali dell’esistenza;
  • – sia i modelli d’uomo di tipo esperienziale-relazionale, costruiti in chiave di intersoggettività, o di gratificazione emozionale, in quanto rischiano di trascurare la necessaria dimensione ontologica, istituzionale, contestuale, metapersonale della crescita umana.

Risulta dunque meglio plausibile una prospettiva storico-prassica dell’educazione, che riesca a pensare l’uomo in termini di soggetto e popolo, di uomo e donna, di essere che è e si fa persona, libertà, storia, cultura, in e mediante l’attività comune di trasformazione della realtà concreta con cui ci si trova a vivere, fatta anch’essa in tal modo partecipe dello stesso processo di emancipazione e di liberazione. Il riferimento ultimo, dunque, è sempre l’uomo reale, non l’idea di uomo e neppure la natura umana in sé o l’uomo in generale, ma la persona concreta, materialmente individuata, cronologicamente datata, geograficamente e culturalmente ubicata.

L’educazione è, per definizione, azione situata in un contesto dinamico e interattivo. La pedagogia contemporanea, quella cristianamente orientata compresa, ha espresso posizioni di rottura nei confronti di una educazione intesa come trasmissione impersonale di verità depositate o di valori atemporali o che si presumono socialmente „innocenti”. Dal don Milani della Scuola toscana di Barbiana al Paulo Freire della „pedagogia della liberazione” brasiliana, l’educazione è fondamentalmente dialogo tra soggetti radicati in precisi contesti socio-economici, è cultura problematizzante incentrata sulle contraddizioni del presente all’opposto di una cultura depositaria decontestualizzata, che conforma l’alunno ad adeguarsi oggi all’assetto sociale esistente, anche se ingiusto, e domani a difenderlo se corrisponde ai propri interessi di categoria. Educazione, cristianamente intesa, è „pratica di libertà” per imparare a diventare cittadini liberi in una società che ti vorrebbe suddito, a diventare credenti responsabili in una comunità ecclesiale dove, prima delle legittime differenze di ruoli e ministeri, deve vigere il principio della pari dignità personale e, teologicamente parlando, dell’universale sacerdozio dei fedeli.

Per ripensare l’azione educativa cristiana nel nuovo quadro di riferimento appena richiamato, alcuni criteri di fondo mi sembrano prioritari.

1. Il criterio della complessità.

Anzitutto, tener conto della complessità della nuova condizione umana: complessità nell’essere e nell’operare, ma anche nell’interpretare e nel progettare. Una complessità che è il frutto – come ricorda Niklas Luhmann – del disintegrarsi del sistema sociale tradizionale sostanzialmente unitario in vari sottosistemi autonomi (quello economico, il politico, il giuridico, l’educativo, la scienza, l’arte…), ciascuno dei quali non ha più bisogno, come avveniva nel passato, della religione come fattore di ‘integrazione sociale’ o come orizzonte di senso. Di fatto è una complessità secolarizzata, consegnata a un orizzonte infrastorico, incapace o insufficiente a dare un senso unitario e trascendente alla vita. Per di più l’uomo d’oggi vivendo la sua vita in un mondo sempre più estetizzato e quindi dominato da esperienze puntuali, maggiormente esposte alla discontinuità e alla frammentazione, sembra aver perduto la possibilità di trasmettere ciò che dall’esperienza stessa ha imparato: cioè quell’insieme di norme e comportamenti per la cui trasmissione è necessaria una durata, nella quale le esperienze possano sedimentarsi e stabilizzarsi. In linea di principio, il criterio della complessità chiederebbe all’azione educativa di riconoscere, certo, le antinomie, le contraddizioni, le polarità della condizione umana (io/me, esistenza/essenza, materia/spirito, individuo/società, uomo/natura, identità/alterità…), ma di assumerle nella loro irrinunciabile complementarità, pena la caduta in progetti riduttivi di educazione, come l’addestramento psico-fisico dettato da certo biologismo antropologico, o al contrario, il plagio moralistico fondato su forme di pietismo o spiritualismo pedagogico…

2. La strategia della  “sapiente gradualità”.

La indicava il card. Martini appena un paio d’anni fa quand’era ancora sulla sua cattedra di Milano: Non basta proclamare il valore della vita o scatenare battaglie per difenderla. In una società pluralista è piuttosto necessario attenersi a una sapiente gradualità evitando i due estremi: da una parte, l’immediata e precipitosa pretesa di tradurre in politica e in leggi dello stato o in itinerari educativi i valori cristiani, e dall’altra l’oblio pratico di tali valori.

Non è dato oggi di perseguire l’obiettivo della cristianizzazione della società con strumenti forti del potere, ma di preservare la differenza della Parola cristiana rispetto alle parole correnti, sapendo che proprio così la Parola sarà efficace anche per la salvaguardia e la promozione dell’ethos pubblico di una nazione3.

Tramontata l’egemonia, reale o presunta, della cultura cristiana nelle nostre società civili, è tornato il tempo delle doverose e faticose mediazioni, il tempo di una laicità da difendere anche come valore evangelico, anziché combatterla come una nemica delle nostre sicurezze teocratiche.

3. L’imperativo etico della responsabilità personale.

Non si può parlare di educazione cristiana se persone e istituzioni non promuovono il passaggio da una morale della legge ad una morale della coscienza, o più propriamente della responsabilità. Alla elencazione dei precetti negativi si sostituisce la presentazione della vita cristiana secondo l’ideale della perfezione, i cui contenuti essenziali sono condensati nel discorso della montagna; alla concezione della vita morale come adeguamento a prescrizioni rigide e dettagliate subentra una concezione alternativa, che fa appello alla coscienza come criterio ultimo di valutazione dei comportamenti e spinge l’uomo al pieno esercizio della responsabilità nelle decisioni4.

L’acquisizione di questo modello è impresa lunga e difficile; molte sono infatti le resistenze, dovute alla necessità di fuoriuscire da una condizione di passività e di dipendenza, che è d’altronde rassicurante, per entrare in una condizione di risposta attiva e personale alle esigenze del momento storico e della propria vocazione; condizione che, non avendo a che fare con parametri nettamente definiti o con soluzioni prefabbricate, può generare stati di insicurezza e di ansia. Ma qui sta appunto il grande compito di ogni progetto educativo ispirato al vangelo: scoprire la verità e fare la verità, perché, in ultima analisi, „è la verità che vi farà liberi” (Gv 8,32).

Lo ricorda con accento solenne la voce dell’ „umanista” Giovanni Paolo II, quando nel finale della sua enciclica Fides et ratio (n.107) prorompe in questa invocazione accorata: A tutti chiedo di guardare in profondità all’uomo, alla sua costante ricerca di verità e di senso.

Diversi sistemi filosofici, illudendolo, lo hanno convinto che egli è assoluto padrone di sé, che può decidere autonomamente del proprio destino e del proprio futuro, confidando solo in se stesso e sulle proprie forze. La grandezza dell’uomo non potrà mai essere questa. Determinante per la sua realizzazione sarà soltanto la scelta di inserirsi nella verità, costruendo la propria abitazione all’ombra della Sapienza e abitando in essa. Solo in questo orizzonte veritativo comprenderà il pieno esplicitarsi della sua libertà e la sua chiamata all’amore e alla conoscenza di Dio come attuazione suprema di sé.

3 Cit. da G. ZIZOLA, Adista (18.2.2002), 5.186

4 Cf G. PIANA, Jesus (genn 2000), 59.

Cf. P. CODA, Seminarium 3-4 (2002) 859. 184

COMUNITÀ CRISTIANA E SOFFERENTI PSICHICI – Luciano Manicardi (9)

A mo’ di conclusione, queste pagine, che si incentrano sulla sfida che i malati psichici rappresentano per le comunità cristiane, vorrebbero aiutare a riflettere sulla lezione che la debolezza ha da offrire alle comunità cristiane.

La comunità, cercando di ripensarsi a partire dal punto di osservazione dei deboli, e particolarmente dei malati psichici, più facilmente individua l’essenziale che la caratterizza, ritrova se stessa spogliata dai tanti elementi che oggi la appesantiscono e la distraggono dall’ essenziale. Ritrova la sua fisionomia di corpo, lasciandosi alle spalle le sue configurazioni pesanti di “azienda” o di “macchina”. Jean Vanier, la cui esperienza di decenni di vita in comunità con persone portatrici di handicap psichici anche molto gravi, spesso persone che hanno trascorso lunghi periodi di vita in ospedali psichiatrici, è preziosa per configurare il rapporto fra comunità cristiana e malato mentale, ha scritto:

 

Bisogna che la chiesa sia sempre costruita sul più povero, e non il povero come oggetto di carità, ma il povero che, in quanto presenza di Gesù e fonte di vita, può guarirei (1) .

 

In effetti, troppo spesso anche nella chiesa queste persone sono o emarginate o temute o giudicate non necessarie o insignificanti o tutt’al più curate come oggetti di carità. Mentre essere vicini a loro è una grazia e una benedizione.

 

Premessa

 

Che atteggiamento hanno i cristiani verso le persone sofferenti nella psiche? Che responsabilità si assume la comunità cristiana in quanto tale? Come svolge, se lo svolge, il suo mandato di essere elemento essenziale per un percorso di assunzione e cura del sofferente? Si ha coscienza che la guarigione è anche fatto relazionale, che la qualità buona delle relazioni umane è decisiva per il ritrovamento di un benessere o almeno di un assetto vivibile dell’ esistenza? Può essere utile ricordare che lo psichiatra inglese Maxwell Jones cercò di organizzare l’ospedale psichiatrico come una comunità terapeutica (2). C’è in noi, nelle nostre comunità cristiane la disponibilità all’incontro e alla relazione con il malato e il sofferente psichico? La comunità cristiana ha coscienza di poter sviluppare potenzialità terapeutiche proprio in quanto luogo comunitario, relazionale, schola amoris, come amava ripetere Giovanni Paolo II riprendendo un’espressione di san Bernardo?

Già porre il problema del rapporto fra comunità e persone con handicap o sofferenze psichiche pone il dito su una grave piaga e su una malformazione ecclesiologica: non vi sono malattie che escludano dal far parte del corpo ecclesiale. Sano o malato, un cristiano è membro del corpo ecclesiale, ne è parte essenziale e irrinunciabile. Anzi, è portatore in sé di quella debolezza che lo rende somigliante al Crocifisso. Se dunque si deve affrontare questo rapporto come problema, significa che una malattia certamente c’è: ma si pone sul piano ecclesiale, sulla modalità con cui noi intendiamo e diamo forma concreta alle comunità cristiane.

 

Presenza dei malati, latitanza della comunità

 

Il tema propone una polarità: comunità cristiana e sofferenti psichici. I due termini del problema richiedono una riflessione preliminare. La presenza di persone afflitte da disagi, disturbi e malattie mentali è oggi ampiamente documentata e di proporzioni impressionanti. I livelli di gravità sono molto diversi, ma la realtà è di tali dimensioni da interpellare e scuotere le coscienze. Sappiamo bene che oggi le malattie della soggettività sono diffuse. Possiamo parlare di medicalizzazione dell’ esistenziale: l’uso e l’abuso crescente di prodotti farmaceutici di sostegno quali sonniferi, tranquillanti, antidepressivi, è lì a mostrarlo. Sembra quasi che vivere sia una malattia. Occorre chiedersi a chi pensiamo sentendo parlare di “sofferenti psichici”. Sempre e solo ad altri? Ai cosiddetti “matti”? La sofferenza psichica è dimensione che in maniere differenti, anche non patologiche, concerne ciascuno di noi.

Ma la mia domanda, provocatoria, verte invece sull’altro polo del problema: dov’è la comunità? E soprattutto dov’è o qual è la comunità che può aiutare un processo di guarigione? Non mi riferisco solo all’ attenzione carente di fronte al problema specifico che stiamo trattando, che pure è indubbia, ma alla presenza e alla configurazione stessa della comunità cristiana come tale. In particolare, come si configura la comunità cristiana locale in rapporto al problema del disagio e della malattia mentale, tra i poli della comunità familiare (e la cerchia affettiva di conoscenti, parenti, amici), delle istituzioni mediche e terapeutiche (il polo professionale tecnico della cura del malato) e della più ampia comunità civile e politica (il polo della convivenza sociale)? Questa domanda, su cui torneremo, ci suggerisce di porre un’ulteriore riflessione preliminare e urgente per non cadere nei rischi della retorica sulla positività sempre e comunque dell’ entità comunitaria e sulla sua possibilità di guarire. E ci dice come la presenza del malato, e del malato mentale, interpelli l’ecclesiologia, ma anche la fede e la spiritualità.

 

La comunità che produce sofferenti

 

La riflessione è questa: la comunità può produrre malattie, disagio psichico. Da un punto di vista sociologico, Marcel Gauchet ha mostrato come nel mondo disincantato, nel mondo che conosce il declino della presenza e dell’influenza degli dèi e del divino, nel mondo che fa a meno di Dio, il soggetto sia sottoposto a uno sforzo psichicamente stressante per tentare di essere se stesso: “Il declino della religione si paga con la difficoltà d’essere-sé… Siamo oramai destinati a vivere nella nudità e nell’ angoscia ciò che ci è stato più o meno risparmiato dall’inizio dell’avventura umana per grazia degli dèi” (3). Una iper-responsabilità di cercare di darsi un senso nella radicale solitudine, nella debolezza e fragilità dei legami, diviene schiacciante per l’uomo. Del resto, anche il ritorno di religiosità, di spiritualità, oggi eclatante, sembra spesso non uscire dalla stessa logica narcisistica, autocentrata, per nulla liberante, in definitiva patologica e, a mio parere, neppure cristiana.

Il clima culturale che traversa il mondo delle relazioni sociali e lavorative è contrassegnato da individualismo radicale, antagonismo, concorrenzialità. Nel mondo tecnologico i criteri di valutazione delle persone, che divengono anche i criteri di autovalutazione (ed eventualmente di svalutazione), sono funzionali ed esaltano la produttività e l’efficienza, non sollecitano la creatività, ma esigono esecutività precisa. È insomma una cultura che seleziona, e perciò esclude, crea primi e ultimi, produce emarginati e malati, deboli e perdenti. Certamente produce frustrati e illusi. Il quadro della comunità familiare, pure luogo di affetti vitali, appare oggi talmente fragile ed esposto, che spesso manca della robustezza e saldezza necessarie, oltre che delle competenze, per poter aiutare il familiare che vive un disagio o una malattia psichica. Senza calcolare che spesso deve saper mettere in atto misure di difesa per non essere travolta dall’ingestibilità della malattia. E senza calcolare ancora che spesso proprio la famiglia è l’alveo dell’insorgere di disturbi e malattie psichiche. E lì certo si pone l’esigenza di un rapporto comunità cristiana-famiglia in cui la prima sappia essere sostegno e aiuto concreto alla seconda.

Ma soprattutto anche la comunità cristiana deve sapersi vedere come luogo che sa creare malattia, disagio, sofferenza psichica. Deve dunque operare un’ autocritica e saper riconoscere che si può strutturare in maniere tali che aiutano l’insorgere di sofferenze psichiche.

 

- Quando è luogo burocratizzato, efficiente, organizzativo, efficace, ma dimentico dell’ attenzione da dare al piano umano, all’ascolto delle persone, all’educazione alla parola, alla formazione alla libertà e alla responsabilità, alla verità e all’autenticità, anch’essa può produrre esclusioni, e dunque sofferenze, ferite che divengono difficilmente rimarginabili.

- Quando la comunicazione all’interno della comunità e i suoi toni non sono evangelici o semplicemente civili, allora possono nascere ferite e sofferenze; quando i rapporti tra autorità e fedeli sono traversati da logiche di potere e da personalismi, possono avvenire oppressioni e abusi psicologici, fino a suscitare dipendenze o produrre rigetti; quando i rapporti tra le diverse componenti e articolazioni della comunità sono solcati da gelosie e rivalità possono nuovamente insorgere dinamiche di esclusione, di scarto, psicologicamente pesanti; quando la direzione spirituale, la confessione o la predicazione suscitano ingiuste colpevolizzazioni; quando si vive in climi di paura, di libertà a scartamento ridotto, di non limpidezza, quando si verificano casi di abuso spirituale (4) o addirittura di abuso fisico e sessuale, allora anche la comunità cristiana crea malattia e disagio psichico.

- In particolare mi pare utile ricordare la responsabilità della parola all’interno della comunità (come all’interno di ogni relazione interpersonale e sociale). Può essere espressa con le parole di Hans-Georg Gadamer: “Appartiene alle più grandi responsabilità del parlare il fatto che la parola pronunciata non possa più essere richiamata indietro. La parola pronunciata appartiene a colui che la ode” (5). E noi sappiamo bene come la parola può ferire, uccidere, conficcarsi come una dolorosa spina nella memoria e nella mente dell’altro.

 

La riscoperta della valenza terapeutica della fede deve pertanto accompagnarsi a una certa compaginazione della comunità cristiana in cui siano al centro alcune dimensioni essenziali che le consentano di essere comunità secondo il vangelo.

 

Una comunità datrice di senso

 

Una comunità così non può che avere un connotato di fondo essenziale. Un connotato in cui consiste la sua vocazione profetica. Se il profeta è colui che fa segno, la comunità cristiana è chiamata a essere segno e a declinare la sua vocazione profetica come invenzione del senso, reperimento e creazione di senso. In un contesto culturale che tende a evacuare la domanda sul senso giudicandola marginale e restringendo il campo d’interesse al funzionale, a ciò che è utile, conveniente economicamente, che emargina ciò che è gratuito, la chiesa ha il compito di custodire la domanda sul senso vivendo e trasmettendo la fede come cammino del senso. Proprio in questo la presenza del malato psichico, e magari del malato psichico grave, in cui le facoltà umane stesse sono drasticamente ridotte, il suo essere visto e considerato all’interno della compagine ecclesiale, può aiutare la comunità cristiana a posizionarsi correttamente. Chi è il malato psichico? Cosa suscita in noi? Prima di pensare a che fare per lui c’è da prendere sul serio la domanda che suscita in noi, il lavoro che ci obbliga a fare. Di fronte alle reazioni che può suscitare di paura, rimozione, estraneità, credo utile ricordare che il paziente psicotico non può non essere considerato come uno uguale a noi, anche se presenta una reale diversità; egli è immerso in una angosciata e disperata ricerca di senso e a questo senso noi non siamo estranei, anzi. Il non-senso, l’assurdo in cui procede il malato psichico, non è destituito di senso, anzi rivela qualcosa della ricerca di senso “normale” .

Cogliamo qui un aspetto forse inatteso. Il malato mentale proprio nella sua inquietante diversità, in questa diversità indesiderata e che ci coinvolge o almeno ci interpella e ci sgomenta in profondità, ci ricorda che cos’è la comunità cristiana. Forse proprio il malato mentale, qualora si accetti di vederlo, considerarlo, assumerlo per quanto è possibile, può aiutare la comunità a guarire lei dalle sue patologie. Sarà provocatoria, ma la questione va posta: e se fosse il malato che guarisce la comunità? Per poter essere comunità che cura il malato psichico la comunità cristiana deve essere anzitutto e semplicemente comunità. E questo, l’accennavo già prima, richiede almeno tre dimensioni: centralità dell’ ascolto e della celebrazione della parola di Dio; essere luogo di fraternità e di relazioni significative; apertura al debole, in particolare al malato mentale.

 

a) Una comunità che sia luogo di ascolto e di celebrazione della parola di Dio. L’ascolto della parola di Dio come centrale: solo un’ecclesia audiens, scrive Karl Barth, può essere ecclesia docens (6), ovvero, solo l’ascolto della parola di Dio che rende la chiesa serva, può abilitarla alla sua missione, a rispondere alle parole di Gesù che le dicono: “Guarite i malati, cacciate i demoni, annunciate che il regno di Dio si è fatto vicinissimo” (Mt 10,7-8).

b) Una comunità che sia luogo di fraternità e di relazioni significative. Il secondo elemento costitutivo della comunità è il suo essere luogo di fraternità e relazioni significative, buone e forti, semplici e gratuite. Echeggiando quanto ha scritto il cardinal Martini nel discorso del 6 dicembre 1995, si tratta di “una comunità alternativa, cioè una comunità che, in una società connotata da relazioni fragili, conflittuali e di tipo consumistico, esprima la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementate dalla mutua accettazione e dal perdono reciproco” (7). Non è semplice istanza etica o economia pastorale: è obbedienza all”‘amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 13,34); è fare della comunità il sacramento del corpo di Cristo.

c) Una comunità aperta al debole. Infine, per essere autenticamente comunità, essa deve aprirsi al debole, al malato e trovare nel debole un criterio della sua verità e autenticità. Una comunità in cui l’elemento attivo ed efficentistico divenga preminente, rischia di emarginare il debole, di non dar spazio alla presenza inutile del malato, di colui che non ha strumenti di conoscenza e di parola, e limitate possibilità di azione. Una tale comunità risponde allora a una concezione per cui la comunità deve essere l’insieme dei forti, la somma delle ricchezze di ciascuno, mentre ogni autentica comunità è frutto della condivisione delle povertà di ciascuno. La comunità è com-munitas, termine che rinvia a munus, che è il dovere, il mandato, il compito, ma anche il dono, in particolare il dono che si dà, il dono che ci spoglia di noi stessi e che rende coloro che vivono in una comunità dei donati a… e donanti a… La communitas allora è !’insieme di persone unite non da una proprietà, da un possesso, da un di più, ma da una mancanza, una povertà, un di meno (8). Paolo direbbe che la comunità è l’insieme delle persone che sono unite da un debito, il debito dell’amore reciproco (cf. Rm I3,8). Il malato mentale, nel suo reale deficit, nella sua concreta disabilità, che (sia ben chiaro!) con tutte le forze si deve assolutamente cercare di arginare e ridurre, ricorda alla comunità il suo status di corpo – è Paolo che la definisce così – in cui le membra più deboli sono le più necessarie (cf. 1Cor 12,22).

 

Non da ultimo, una delle maniere in cui il malato mentale può aiutare la comunità e i membri della comunità a guarire loro spiritualmente, è il carattere rivelatore della sua disarmante inermità, della sua debolezza, della sua fragilità. Essi ci ricordano che solo chi è vulnerabile può amare e lasciarsi amare. Splendida, anche qui, la testimonianza di Jean Vanier: “Le persone portatrici di handicap hanno una terrificante capacità rivelatrice”. Un malato, la cui madre morì al momento del parto, fu colpito da meningite e rimase gravemente leso, incapace di parlare, costretto a vivere per quattro anni completamente da solo, prima di essere accolto in una delle comunità di Vanier in Africa. Quando era molto angosciato batteva furiosamente la testa contro il muro, contro le pareti. Ora, quando gli assistenti della comunità vivono una tensione o non si parlano, egli lo sente e comincia a battere la testa contro il muro: non si tratta allora di cercare uno psichiatra, ma di trovare la via di riconciliare tra loro gli assistenti. Commenta Jean Vanier: “Ciò che una persona portatrice di handicap mentale esige è che si viva l’amore e che si sia nella verità. Non si può giocare con lei, perché lo sente” (9).

Gli elementi a cui abbiamo accennato – liturgia, relazionalità e fraternità, apertura al debole, la condivisione delle debolezze come costitutiva della comunità cristiana – sono parte di un’unica sacramentalità, la sacramentalità che fa della chiesa un luogo in cui le energie dell’ agape di Dio si traducono in relazioni interpersonali e divengono ispiratrici di relazioni sociali. Insomma, solo una comunità sana può essere una comunità che cura. Ma una comunità sana è una comunità sanata, o meglio, una comunità malata che il Signore ha guarito: nel Vangelo di Marco, figura dei discepoli sono i malati che Gesù guarisce. Noi siamo dei guaritori malati.

 

La competenza del cristiano di fronte al malato mentale

 

In obbedienza a questo fondamento evangelico credo che il primo ed elementare passo che la comunità cristiana è chiamata a fare nei confronti dei malati mentali è di accettare di vederli, e non di coprirsi la faccia e gli occhi come di fronte allo sfiguramento del Servo sofferente di Isaia 53: “Uno davanti al quale ci si copre la faccia”. C’è un modo di vicinanza terapeutica: essere presente a qualcuno rivelandogli il suo valore, la sua importanza, la sua dignità. Liberarci dallo sguardo mondano e intriso di pregiudizi che spesso è il nostro e assumere lo sguardo di Dio su questi suoi figli e sue creature.

 

È urgente cambiare il nostro sguardo su coloro che chiamiamo malati mentali, ed è urgente che essi cambino il loro sguardo su se stessi. Esiste un livello di essere che resta intatto. Esiste un luogo in ciascuno in cui noi siamo non solo guariti ma già restituiti a noi stessi … È a questo nucleo intatto che io mi rivolgo parlando a voi malati, non perché io abbia in me la speranza che un giorno voi sarete di nuovo integri, ma perché c’è in me la certezza che voi lo siete già (10).

 

Questa la competenza propria del cristiano circa il malato mentale: saper vedere in lui e accogliere in lui un uomo, una donna a immagine e somiglianza di Dio, un fratello, una sorella in cui risplende il volto di Cristo, uno per cui Cristo è morto. Questo cambiamento di sguardo è anche cambiamento del cuore: la presenza assunta del malato mentale immette il credente e la comunità cristiana in un cammino di conversione. Se uno dei problemi che possono frenare il credente nell’affrontare questo problema o nel cercare di assumerlo è quello della mancanza di competenze specifiche, non si può dimenticare questa competenza umana e spirituale del cristiano che lo abilita a farsi prossimo del malato.

 

Tratti e compiti della comunità cristiana

 

La comunità che si prende cura del malato psichico non può che essere una comunità di ascolto. Esercitarsi all’ arte dell’ ascolto è essenziale per aiutare a dare vita, a proseguire quel processo di nascita di una persona che non è avvenuto una volta per tutte, o più modestamente per far sentire soggetto parlante e desiderante l’altro che ci è davanti. Essere ascoltati, accolti, sentire che c’è chi ha bisogno di noi è un tratto che si deve vivere nella comunità cristiana. Nella comunità cristiana, che è un corpo, nessuno può dire “io non ho bisogno di te” (1Cor 12,21), esattamente come in un corpo, dice Paolo, la mano non può dire al piede “io non ho bisogno di te”. È noto che l’abbé Pierre ha iniziato la sua esperienza del villaggio Emmaus quando ha teso la mano a un disperato e gli ha detto: “Prima di suicidarti potresti aiutarmi a ricostruire una casa per una donna e il suo bambino che sono sulla strada?”. Quell’uomo accettò (11). L’ascolto è essenziale per guarire: ascoltare la persona, non solo le sue frasi, ma la persona. Allora si crea un clima di accoglienza e di amore. La comunità diviene allora un luogo dove si è portati gli uni gli altri (“Portate i pesi gli uni degli altri”, i pesi che siete gli uni per gli altri).

Se anche ci sono difficoltà comunicative o limiti comunicativi con il sofferente psichico, noi sappiamo che il sistema immunitario reagisce soprattutto agli stimoli emozionali. E la comunità cristiana che è un corpo non può che essere mossa da quell’amore intelligente che crea linguaggi di amore nuovi. Quei cristiani che nell’ eucaristia domenicale si scambiano il segno della pace, il bacio santo, l’abbraccio comunionale, come possono non cercare vie di contatto e comunicazione non verbali con chi è limitato a livello di parola? Il toccare (arte sviluppata dall’aptonomia che studia la comunicazione tattile affettiva essenziale soprattutto con i malati terminali, con chi non riesce a parlare) ci ricorda che è il corpo che parla, che trasmette messaggi, che comunica.

Ascoltare diviene un ascoltare la sofferenza dell’ altro e immette nella compassione. La compassione è un tratto della comunità che assume la responsabilità del malato psichico e che si relaziona con la sofferenza del malato mentale. Non si tratta di un mero sentimento, non ha nulla a che vedere con la commiserazione che è giustamente rifiutata dal malato che la trova offensiva, ma di un sentire che coinvolge la totalità della persona e che diviene virtù, etica, responsabilità verso l’altro facendo ciò che è in nostro potere e collaborando attivamente con chi può aiutarlo ad altri livelli di competenza. È una compassione-virtù, non una semplice compassione-sentimento, è un curare nel senso di prendersi cura dell’umano che è nell’ altro, nel malato, anche nel malato in cui questo umano è offuscato. Questa compassione si radica nella coscienza della comune umanità di cui sia io che il malato siamo ospiti. Questa compassione abita la coscienza della comune, universale umanità e della comune, universale esperienza della sofferenza. Proprio l’umanità più sofferente, più offuscata, più menomata, può svegliare la nostra assopita umanità, la nostra umanità imbarbarita. Uno dei tratti più tipici della nostra società è il cinismo: l’ostentazione compiaciuta e anche gridata, sguaiata, dell’indifferenza per l’altro. Dimenticando l’evidenza: che egli è ospite dell’umanità che ospita anche me.

La compassione si radica anche in quella solidarietà che connota la comunità cristiana che è corpo: e se in un corpo un membro è malato, tutto il corpo risente e partecipa della malattia. Come ritenere estranea a me la malattia del fratello? Il malato presenta e rappresenta la malattia degli altri, come un bambino che manifesta dei comportamenti devianti presenta e rappresenta l’ostilità e i litigi dei genitori: nella sua malattia, il malato rappresenta e presenta il groviglio di relazioni umane da cui è uscito.

Questi tratti ci portano a sottolineare l’importanza nella comunità cristiana di sviluppare una cultura della presenza. Di fronte alle dominanti dell’ apparire e del fare, il malato ci chiede di essere, di essergli accanto, di essere una presenza. Presenza che si situa sul piano del dono: dare tempo, dare ascolto, dare la parola. Ovvero, dire all’ altro, nella sua malattia: tu ci sei e sei importante per me. E spesso avviene che il sofferente psichico stesso sappia essere una presenza rilevante nella comunità ecclesiale non solo e non tanto per le incombenze che riesce ad assolvere, ma per la presenza che è, per l’umanità, per la bontà…

Nelle comunità cristiane si fa lavoro di educazione, di trasmissione della fede in particolare a giovani, bambini, adolescenti. lo credo che una vigilanza per aiutare una crescita solida, anche dal punto di vista psicologico, dei giovani, sia da mettere in conto da parte della comunità cristiana: non si tratta solo di assumere i sofferenti psichici, ma di operare in modo che ci possa essere uno sviluppo sano anche dal punto di vista psicologico. Introdurre all’arte della vita interiore, del dar nome alle proprie emozioni, del parlare la sessualità, del discernere bene e male e dell’assumere la disciplina dei limiti, questa è forse azione preventiva, o semplicemente educazione che libera dai sensi di onnipotenza e aiuta lo stabilirsi di un certo equilibrio psicologico. Introdurre: alla leggibilità delle proprie emozioni e sentimenti, alla capacità di gestire le situazioni (interiori ed esteriori), il che suppone lo sviluppo di una capacità di fiducia e confidenza. Introdurre al senso della vita, all’importanza della vita che merita un investimento personale di energie e passione. Tutto questo, e moto altro, fa parte dell’opera di trasmissione della fede intesa come cammino del senso della vita.

Infine, io penso che la rete di aiuto e sostegno concreto che la comunità cristiana può mettere in atto per venire in soccorso alle situazioni di disagio psichico presenti in loco, insomma il lavoro di carità vissuta, di tempo ed energie spese, debba da un lato accordarsi con il lavoro svolto nelle istituzioni sanitarie e teso alla riduzione del deficit, all’ampliamento delle abilità, all’incremento dell’integrazione, al guadagno dell’autonomia, al consolidamento dell’identità, e debba, dall’altro lato, arricchirsi di una riflessione che aiuti pian piano a elaborare un’antropologia che sappia ragionare sul tipo di diversità che la malattia mentale comporta, sul tipo di ostacoli che incontra nella cultura odierna e che portano a rimuoverla e a non volerla vedere, e sappia arricchirsi anche di un ascolto della Scrittura che possa dare peso e sostanza a una considerazione di fede della malattia mentale. Sappia arricchirsi di pensiero, consapevolezza e idee. Forse stiamo muovendo solo i primi passi.

 

 

 

[1] J. Vanier, “La force de la vulnerabilité” , in Christus 178 (1998), p. 195.

[2] Cf. H. I. Kaplan, B. J. Sadoek, Manuale di psichiatria, EdiSes, Napoli 1993, P.145.

[3] M. Gauchet, Il disincanto del mondo. Una storia politica della religione, Einaudi, Torino 1992, p. 303.

[4] Cf. D. Johnson, J. van Vonderen, Le pouvoir subtil de l’abus spirituel. Comment reconnaitre la manipulation et la fausse autorité spirituelle dans l’église et comment y échapper, Jaspe, Magog 1998.

[5] H.-G. Gadamer, La responsabilità del pensare. Saggi ermeneutici, Vita e Pensiero, Milano 2002, p. 58.

[6] Cf. K. Barth, La proclamazione del vangelo, Boria, Torino 1964, p. 58.

[7] C. M. Martini, Alla fine del millennio lasciateci sognare, Piemme, Casale Monferrato 1997, p. 220.

[8] Cf. R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998, pp. IX-XXXVI.

[9] J. Vanier, “La force de la vulnerabilité”, p. 194.

[10] Ch. Singer, Où cours-tu? Ne sais-tu pas que le ciel est en toi?, Albin Michel, Paris 2001, pp. 38-39.

[11] Narrato in J. Vanier, “Au coeur de la compassion”, in Christus 152 (1991), p.414.

 

MALATTIA E SOFFERENZA: RIPENSARE LA SPIRITUALITÀ – Luciano Manicardi (8)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/manicardi_umanosoffrire8.htm

GESÙ E LA MORTE – Luciano Manicardi (7)

Gesù e la sua morte

 

Prima di presentare una riflessione sull’ultima fase della vita di Gesù, sui suoi ultimi momenti, e una lettura dei quattro racconti evangelici della morte di Gesù evidenziando le peculiarità proprie di ciascun vangelo nel narrare l’unico evento, mi pare necessario fare una premessa che, ascoltando l’insieme delle quattro testimonianze evangeliche, mostri come Gesù ha incontrato la morte in diverse forme già durante la sua vita, e come ha vissuto le situazioni di “morte nell’esistenza” che, anche se non coincidono con la morte fisica, tuttavia segnano una morte ugualmente reale e dolorosa. Per la Bibbia, infatti, la morte è l’evento dell’irrelazionalità e c’è morte là dove c’è fine di una relazione, mancanza di salute e libertà, dove la pienezza di vita viene minacciata o spezzata. Questi eventi di morte nella vita hanno influito sulla coscienza di Gesù di fronte alla sua morte e lo hanno preparato a morire, a vivere la sua morte davanti a Dio, a fare della sua morte un atto.

Solo l’uomo muore, l’animale perisce: non ha la morte come morte davanti a sé, né dietro di sé. Solo l’uomo sa di dover morire (1). E questa coscienza può renderlo prigioniero della paura. La Lettera agli Ebrei afferma che il Figlio di Dio, con l’incarnazione, è venuto “a liberare quelli che per paura della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2,15). Per chi ha fede, la morte umana, a seguito della morte di Cristo, ha assunto una possibilità nuova di significato. E nelle parole e nei gesti di Gesù morente il credente può trovare la ricapitolazione di tutto ciò di cui potrà avere bisogno negli ultimi momenti della sua esistenza. Ma vediamo come e dove Gesù ha incontrato la morte durante la sua vita (2).

È talmente essenziale la “morte del Signore” nella coscienza degli evangelisti e delle prime comunità cristiane che Matteo colloca la nascita di Gesù in un contesto di morte già decretata su di lui da Erode (cf. Mt 2). La nascita di Gesù e l’emigrazione in Egitto per fuggire la sentenza di morte, già situano la vicenda di Gesù nella luce della morte futura sulla croce. Da subito la vita di Gesù è minacciata e ostacolata.

Gesù ha conosciuto la morte cruenta, per decapitazione, subita da Giovanni il Battezzatore, suo maestro e guida (cf. Mc 6,17-29). Da lui Gesù si fece battezzare, cioè immergere nel fiume Giordano, mostrando così di aderire alla predicazione escatologica ed etica del profeta. Se un discepolo non è da più del suo maestro, ciò che è avvenuto al maestro può avvenire anche al discepolo che ne segue le tracce. In effetti Giovanni, con la sua vita, con la traiettoria della sua esistenza e con la sua stessa morte, ha aperto la strada che Gesù percorrerà, ovviamente adempiendo la sua vocazione assolutamente unica e incomparabile.

Gesù ha incontrato il dolore straziante di una madre che piange il figlio morto (cf. Lc 7,II-17), la fede e la dignità di Giairo, il padre della bambina dodicenne che muore (cf. Mc 5,21-24.35-43), e soprattutto ha vissuto il personalissimo e lancinante dolore per la morte di Lazzaro, l’amico che egli conosceva bene e amava molto: “Gesù amava molto Marta, Maria e Lazzaro” (Gv 11,5). E quando fu di fronte al dolore e al pianto delle due sorelle, anch’egli “scoppiò in pianto” (Gv 11,35). E tra la gente che era presente ci fu chi seppe leggere bene il senso di quel pianto: “Vedi come lo amava” (Gv 11,36). Ma anche questa morte Gesù l’ha accostata nella fede nel Dio che ascolta la preghiera e può dare vita ai morti.

Gesù ha conosciuto anche le morti “anonime”, quelle riportate dai casi di cronaca: i galilei che Pilato fece uccidere “mescolando il loro sangue con quello dei loro sacrifici” (Lc 13, 1), o i diciotto disgraziati su cui rovinò la torre di Siloe uccidendoli (cf. Lc 13,4). E ha cercato di leggere nella fede queste morti strappandole all’idea che una tale sorte fosse segno di peccato: Gesù non rende la vittima un colpevole.

Secondo molti padri della chiesa Gesù conobbe anche la morte del padre: Giuseppe. Questo però non è affermato dai vangeli ma solo supposto a partire dal silenzio su Giuseppe e dalla sua “sparizione” durante il ministero pubblico di Gesù. Non è pertanto possibile dire nulla di sicuro su questo punto.

Invece è certo che la vita comune itinerante con il gruppo di discepoli che egli ha scelto e chiamato a vivere con sé per l’annuncio del regno di Dio si viene configurando, giorno dopo giorno, come spazio in cui Gesù è contraddetto, incompreso, lasciato solo, rinnegato, tradito. Uno dei discepoli lo consegna alle autorità che lo metteranno a morte. Il primo dei discepoli, quello a cui Gesù ha affidato il compito di confermare nella fede i fratelli e di essere roccia del gruppo, arriva a rinnegarlo. La comunità stessa di Gesù si vede traversata da gelosie, rivalità, desideri di potere e di affermazione, esclusivismo e intolleranza. Secondo la testimonianza di Matteo 27,3-10 la vicenda di Giuda, colui che consegnò Gesù, termina in un tragico suicidio (cf. Mt 27,5). Insomma, anche lo spazio comunitario a cui Gesù ha dato vita, diviene luogo di esperienza di morte.

Gesù ha vissuto anche la sofferenza dovuta al contrasto con le autorità religiose del suo popolo, soprattutto con i sacerdoti, che mal tolleravano le parole e i gesti profetici di Gesù; ha sentito la diffidenza e l’ostilità del potere politico romano verso il gruppo di galilei, suoi discepoli, che potevano essere sospettati di essere dei rivoltosi; ha sperimentato la condizione di marginalità all’interno del panorama del giudaismo del tempo, ma soprattutto ha patito la condanna da parte del Sinedrio, massima istituzione giudiziaria, il tribunale che emette le sentenze di Dio (3). Gli scontri e le polemiche che gruppi avversari gli oppongono, contribuiscono a far sorgere in lui l’acuta coscienza del possibile esito violento della sua esistenza. Coscienza che traspare dagli annunci della sua passione e morte che Gesù pronuncia a misura che avanza nel suo ministero e si avvicina a Gerusalemme, “la città che uccide i profeti” (Lc 13,34).

La stessa lettura delle Scritture, luogo di discernimento della sua vocazione, lo porta a prendere coscienza della possibile fine tragica: i salmi in cui parla il giusto che incontra ostilità e rigetto proprio per la sua giustizia (cf. Sal 22); i canti che mostrano il Servo del Signore incontrare incomprensione, violenza, morte (cf. Is 50,4-9; 53); il brano di Sapienza 2 che parla della morte vergognosa a cui gli empi vogliono condannare il giusto solo perché si mostra diverso da loro.

Il confronto con la morte acquista toni sempre più drammatici quando Gesù, dopo aver concluso la celebrazione pasquale, esce verso il Getsemani, il podere in cui spesso si recava per la preghiera personale (4). Dopo il banchetto pasquale era usanza uscire all’ aperto e gustare l’aspetto naturale della festa di Pasqua, quello di festa della primavera, che si aggiungeva a quello storico di memoriale della liberazione e della salvezza. Il gruppo dei discepoli è certamente abitato dal senso della gioia pasquale, ma anche traversato da una tensione spasmodica: l’annuncio del tradimento, il discorso con cui Gesù ha previsto lo sfaldarsi del gruppo comunitario (“Tutti vi scandalizzerete”: Mc 14,27), le parole con cui ha preannunciato il dono della sua vita hanno ingenerato nel gruppo incertezza e angoscia. Gesù è triste: se anche affronta la morte nella preghiera e cercando di farne un evento di obbedienza a Dio, tuttavia è preso da paura nei confronti della morte. Sente il vuoto, la solitudine abissale, e chiede ai suoi discepoli più prossimi di stargli accanto, di essergli vicino: “Vegliate e pregate con me” (Mt 26,38). Spossato, Gesù incespica, viene meno e prega intensamente: “Abba, Padre, allontana da me questo calice” (Mc 14,36). Nella notte pasquale si bevevano quattro calici facendo memoria di quattro gesti di liberazione operati da Dio al tempo dell’ esodo dall’Egitto, ma a Gesù è riservato un quinto calice, il calice dell’ amarezza, il calice della morte. E anche in quella situazione drammatica Gesù si abbandona alla volontà di Dio: “Non la mia, ma la tua volontà sia fatta” (Lc 22,47). La notte di Pasqua è memoria della notte dell’esodo, che fu “notte di veglia” per Dio (Es 12,42) e diviene notte di veglia per Gesù stesso. Egli chiede anche ai suoi.. discepoli di vigilare, ma non ce la faranno. E arriva Giuda, il discepolo che tradisce con un bacio. Tradisce dicendogli le parole che il discepolo rivolgeva al maestro: “Pace a te mio maestro”. E forse già qui muore Gesù: “Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo?” (Lc 22,48). La “morte nel bacio” era stata la morte di Mosè: egli morì, dice letteralmente Deuteronomio 34,5, “sulla bocca di Dio”. E la tradizione ebraica ha interpretato quell’espressione come un bacio. Qui il bacio di Dio scompare dietro al bacio di Giuda, questo bacio stravolto nel suo significato di affetto e di dedizione. E la morte appare a Gesù sotto i tratti dell’abbandono dei suoi “amici”: “Tutti, abbandonandolo, fuggirono” (Mc 14,50). E perfino sulla croce Gesù grida l’abbandono di Dio stesso: “Perché mi hai abbandonato?”. Ma egli resta legato e attaccato al Dio che l’abbandona. E sulla sua fede, che anticipa la resurrezione, potrà ricostruirsi il tessuto sfilacciato del gruppo dei discepoli e potrà ricostruirsi la loro fede così fragile.

 

L’ultima fase della vita di Gesù

 

La vita di Gesù, come la vita di ogni uomo, ha conosciuto una fase finale. I vangeli, pur con differenze rilevanti, testimoniano che questa vita ha conosciuto un finale tragico e scandaloso culminato nella infamante morte di croce. Questo appare con particolare evidenza nei racconti evangelici della passione secondo Matteo e secondo Marco. Colui che ha attirato folle e creato una comunità itinerante di discepoli viene rigettato dalle folle che ne invocano la crocifissione e viene abbandonato dai discepoli che lo lasciano solo. Colui che ha curato e guarito molte persone malate nel corpo e nella mente, ora si trova nell’impotenza di salvare chicchessia. Colui che ha annunciato il vangelo del Regno con potenza di parola e insegnato molte cose alle folle affamate del pane della parola di Dio, ora entra progressivamente nel silenzio. Colui che ha vissuto una vita di fedeltà al Dio unico, si vede sconfessato e condannato dalle legittime autorità religiose del popolo di Dio. Colui che ha sempre nutrito una relazione personalissima e intima di confidenza con il Dio a cui si rivolgeva chiamandolo “Abba”, ora gli si rivolge con una domanda che grida l’enigma del sentirsi abbandonato da lui (5). Vi è negli eventi che scandiscono l’ultima fase della vita di Gesù, qualcosa che sembra smentire tutto ciò che Gesù ha vissuto fino allora, tutta la sua fede, il suo amore, la sua speranza. In particolare, gli avversari di Gesù sembrano sintetizzare la sua vita con insulti che mettono in derisione tre piani della vita di Gesù: l’autorità che Gesù ha mostrato durante tutta la sua vita, la sua relazione di salvezza nei confronti degli altri (aiuto, guarigione, perdono), e infine la sua stessa fede, la sua relazione personale con Dio.

“Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso” (Mt 27,39). Con questa provocazione i passanti scherniscono l’autorità di Gesù e, facendo forza sull’ evidente impotenza attuale del crocifisso, sembrano annullare e dichiarare falsa anche l’autorità che Gesù ha mostrato in precedenza. Nella loro lettura la croce smentisce l’autorità che ha portato il Nazareno a pronunciare parole di giudizio su chi rendeva il tempio un luogo di mercato e a scacciarne i cambiavalute. L’autorità che emergeva dalle parole di Gesù (“Gesù insegnava come uno che ha autorità e non come gli scribi”: Mt 7,29; Mc 1,22) e dai suoi gesti (“Con quale autorità fai queste cose? Chi ti ha dato questa autorità?”: Mt 21,23; Mc 11,28), appare ora sconfessata dalla situazione di debolezza e impotenza in cui Gesù sprofonda.

Ma anche la sua relazione buona con gli altri, con le persone che ha incontrato nel cammino della sua esistenza, viene azzerata dalla lettura che ne fanno sacerdoti, scribi e anziani: “Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso!” (Mt 27,42). Il finale della vita di Gesù sembra autorizzare i suoi avversari a invalidare tutto il bene che Gesù ha fatto in passato, a farlo entrare nel dimenticatoio.

E infine, dopo la sua autorità e la sua relazione con gli altri, perfino la sua fede in Dio viene messa in derisione e in discussione. “Ha confidato in Dio: lo liberi lui ora, se gli vuol bene” (Mt 27,43). L’aver avuto fiducia in Dio gli viene rinfacciato quasi come una colpa. Questo è l’atto più radicale e invadente di decostruzione e demolizione della vita precedente di Gesù, il più impudico, quello che si permette di giudicare l’intimità e l’ineffabilità della sua relazione con il Padre. L’osservatorio particolare costituito dalla fase finale dell’ esistenza di Gesù appare come ciò che consente di leggere come fasulla l’intera sua vita precedente, perfino la sua fede. E così un’intera esistenza vissuta e spesa nella donazione di sé per gli uomini e nella fedeltà obbediente al Padre, nel dare vita e nell’operare giustizia, nell’ amare e nel benedire, si trova a essere sepolta sotto il peso dell’infamia che Gesù subisce nei suoi ultimi momenti. Colui che passò sanando molti e benedicendo, ora si trova sprofondato nella maledizione e nell’impotenza.

È così per il Signore, può essere così anche per il discepolo che segue il Signore e che può trovarsi là dove il suo Signore si è trovato. Un’intera vita spesa nel perseguire l’amore di Dio e del prossimo, un’intera vita segnata dalla fede e dall’ obbedienza, traversata dal vigore profetico della denuncia delle infedeltà a Dio e dall’instancabile opera di aiuto ai deboli e ai poveri, può venire a trovarsi in una fase finale in cui il credente appare travolto dal male e dal peccato, a causa degli eventi e degli altri. Un servo di Dio può trovarsi in una situazione simile a quella del suo Signore, o perché si fa carico del peccato e del male altrui, quello che gli altri non saprebbero reggere né portare, o perché vittima della calunnia. Viene in mente il caso del cardinale Joseph Louis Bernardin, arcivescovo di Chicago dal 1982 al 1996, morto di cancro dopo aver subito l’onta di infamanti accuse false (6).

Ma può anche avvenire che una vita tutta segnata dalla ricerca della santità possa essere offuscata da una caduta. O che una vita spesa nell’ apostolato conosca nella parte finale il male dovuto all’ alienazione mentale o alla demenza. Ora, la verità di un uomo non è mai riducibile a un momento solo, fosse pure quello più vicino alla sua morte. E men che meno può essere riducibile a un momento di debolezza morale o di perdita della salute psichica o fisica. Dietro e dentro ogni uomo vi è sempre un desiderio di amore e di senso, di pienezza e di dedizione che non può essere smentito da circostanze che paiono essere di segno contrario. Un uomo è sempre tutta la sua vita. E questo chiede ai nostri occhi e ai nostri cuori di vincere le tentazioni di giudicare, di dare sentenze, di condannare, di definire, per assumere invece uno sguardo capace di misericordia e soprattutto di longanimità, di memoria e di fede.

Lo sguardo di fede è quello che sa vedere in Gesù crocifisso il Figlio di Dio. Che sa discernere la rivelazione del volto di Dio nel Gesù che subisce ogni sorta di violenza, che appare privato di ogni dignità umana fino a vedere non rispettata neppure la sua morte, che risulta essere condannato dalle autorità religiose e bandito dalla società civile: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (Mt 27,55), confessa il centurione ai piedi della croce. Lo sguardo di fede sa vedere la continuità della vita di Gesù anche in quei drammatici momenti finali, sa vedere in lui il profeta anche se ridotto al silenzio dell’ agnello afono, sa vedere in lui il maestro anche se privato oramai dei suoi discepoli, sa vedere in lui il Signore anche se privato perfino della sua stessa vita. È lo sguardo che sa riconoscere e dare espressione all’ amore e alla fede che Gesù continua a vivere anche allora. È così che, narrando la passione, i vangeli ci presentano un Gesù che si rivolge a Giuda chiamandolo amico (cf. Mt 26,50), che si volge con sguardo pieno di amore verso Pietro che lo ha rinnegato (cf. Lc 22,61), che guarisce il servo del sommo sacerdote ferito da uno che era con lui (cf. Lc 22,50-51), che invoca il perdono per i suoi aguzzini (cf. Lc 23,34), che prega il suo Dio affidandosi interamente a colui di cui ora conosce l’abbandono, quasi gli stesse dicendo: “Mio Dio, tu che mi hai abbandonato, tu solo sei e resti il mio Dio; in te solo, di cui ora sperimento l’abbandono, io spero e metto la fiducia”. La vittoria sulla morte con la resurrezione è preceduta da questa vittoria sulla croce che si trova a essere ri-significata da colui che vi viene steso sopra. E Gesù dà senso anche al patibolo della morte vergognosa portandovi la sua vita piena di amore per gli uomini e di obbedienza amorosa al Padre. Vi dà senso, ovvero, la vive nella libertà e nell’amore. Anche l’ultima fase della sua vita, per quanto segnata dal male e difficilmente leggibile come fase di fedeltà a Dio, è ancora traversata dalla forza dell’ amore più forte della morte. E questo dà speranza a ogni credente. Quale che possa essere la fase finale della sua esistenza.

 

La morte di Gesù nel Vangelo secondo Marco

 

Riporto il testo del racconto della morte di Gesù secondo il primo vangelo in una traduzione letterale.

 

Venuta l’ora sesta, si fece buio su tutta la terra fino all’ora nona. E all’ora nona Gesù gridò a gran voce: “Eloì, Eloì, lemà sabactàni?”, che tradotto significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. E alcuni dei presenti, udito ciò, dicevano: “Vedi! Chiama Elia”. Allora, un tale, andato di corsa a inzuppare di aceto una spugna e avendola posta su una canna, gli dava da bere dicendo: “Lasciate! Vediamo se viene Elia a calarlo giù”. Ma Gesù, emettendo una gran voce, spirò. E il velo del tempio si squarciò in due dall’alto in basso.

Ora, il centurione, che era presente di fronte a lui, vedendo che spirò così, disse: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,33-39).

 

Gesù è stato crocifisso all’ora terza (cf. Mc 15,25), cioè alle nove del mattino. Il tempo che intercorre fino all’ ora sesta, cioè a mezzogiorno, è riempito dagli scherni e dagli insulti dei passanti, dei sommi sacerdoti, degli scribi e anche dei due malfattori crocifissi accanto a lui (cf. Mc 15,29-32). Le tre lunghissime ore di agonia di Gesù morente sono segnate dall’ abbandono e dall’ assenza di compassione degli umani nei suoi confronti. Quelle ore sono accompagnate non da parole di vicinanza e di consolazione delle persone amate e care, ma dalle parole violente di sconosciuti e avversari. Gesù sprofonda nel silenzio, nell’isolamento e nell’impotenza.

Dall’ora sesta all’ ora nona (cioè da mezzogiorno alle tre del pomeriggio) una tenebra scende sulla terra. Questa tenebra è anzitutto evocazione simbolica della situazione tragica in cui si trova il giusto appeso alla croce: come per l’uomo sofferente che nel salmo 22 grida l’abbandono di Dio, anche per Gesù ora è notte (cf. Sal 22,3). E tuttavia essa riveste anche un significato teologico più rilevante. Ciò che sta avvenendo sulla croce è un evento che ha a che fare con la storia della salvezza, è un evento escatologico, un evento che dice l’intervento di Dio. Nell’ Antico Testamento l’intervento definitivo di Dio nella storia umana è evocato a volte con l’espressione” giorno del Signore”. Ebbene, il profeta Amos scrive che “in quel giorno” il Signore farà tramontare il sole a mezzogiorno e oscurerà la terra in pieno giorno; sarà un giorno di lutto come per la morte del figlio unico (cf. Am 8,9-10). La tenebra indica dunque che l’evento della morte di Gesù riguarda la storia intera dell’umanità, è evento decisivo nella storia della relazione di Dio con il mondo. E questo significa che quest’ora tragica e desolata è anche germinalmente gloriosa e abitata. Nella Bibbia la tenebra è spesso immagine della presenza di Dio. Certo, si tratta di una presenza nascosta, enigmatica, non rassicurante. Inoltre, al momento della morte di Gesù, questa presenza appare anche silenziosa, muta. Se al battesimo la presenza di Dio si era manifestata nei cieli squarciati e nella voce dall’ alto che si rivolgeva direttamente a Gesù proclamandolo suo Figlio amato (cf. Mc 1,9-11) e se alla trasfigurazione la stessa presenza di Dio si era svelata nella nube e nella voce che rivolgeva a tutti la medesima proclamazione (cf. Mc 9,7), ora la presenza di Dio nella tenebra resta muta. Dio non dice nulla. Non conferma il cammino di Gesù. Risuonano nella mente le parole degli oranti che nei salmi gridano a Dio: “Perché non rispondi? Perché resti muto?”; “Dio mio, invoco di giorno e non rispondi, grido di notte e non trovo riposo” (Sal 22,3). Abbandono dei discepoli, ostilità degli avversari, assenza di compassione dei compagni di condanna, e soprattutto silenzio di Dio: ecco che tutto questo esplode nel grido forte “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” 7. Marco riporta l’ora di tale grido (le tre del pomeriggio) e perfino le parole aramaiche pronunciate da Gesù: “Eloi, Eloi, lemà sabactàni”. Sono le parole del salmo 22,2. Gesù sta pregando. Mentre muore, il suo cuore e il suo pensiero vanno al suo Dio. E si tratta di un grido drammatico: Gesù si appella a Dio contro Dio. Dio resta il suo Dio, Gesù pone la sua fiducia incondizionata nel Dio che sempre è stato il suo Dio e lo è anche ora, nel momento della morte. E tuttavia a lui Gesù grida il suo enigma: “Perché mi hai abbandonato?” (8). La morte di Gesù è segnata da un enigma, da un “perché?”. Heinrich Schlier ha commentato con commossa partecipazione tale evento drammatico:

 

A chi doveva ancora rivolgersi il Gesù abbandonato e reietto, il Gesù tormentato e schernito? A chi se non a Dio, al quale si sono sempre rivolti i giusti e alla volontà del quale egli si era arreso nel Getsemani? Ma, adesso, neppure Dio c’è più per lui! Ora, anche lui lo ha abbandonato. Gesù deve ancora patire anche questo, che Dio gli si sottragga e si nasconda e si spalanchi attorno a lui il tenebroso vuoto del nessuno e del nulla. Ora egli attinge il profondo e beve fino alla feccia il calice della passione. Anche Dio l’abbandona. Egli esperimenta per noi l’abbandono totale. “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Ma neppure in questo momento, egli abbandona Dio! Proprio adesso, nel momento in cui Dio gli fa gustare anche questo: l’essere senza Dio, il dover patire senza Dio e il morire, egli si volge a Dio e si tiene saldo a lui. Prega, non grida nel vuoto, ma a lui, verso di lui! Egli si volge, senza Dio, a Dio! Depone ai piedi di Dio ogni angoscia, e, ora, anche questa tremenda angoscia del morire senza Dio. “Mio Dio, mio Dio…”. Proprio così facendo, alla fine, egli diviene per tutti il vincitore del morire abbandonati da Dio e il vincitore della morte senza Dio – per tutti (9).

 

Sappiamo che ciò che storicamente rendeva le crocifissioni particolarmente macabre e angoscianti erano le grida di rabbia e dolore, le selvagge maledizioni e le esplosioni violente di disperazione delle vittime. Ma Gesù fa del suo grido una preghiera. Tuttavia Marco annota che anche la sua preghiera viene distorta e non compresa: i presenti credono che stia chiamando Elia, che nella pietà popolare ebraica era ritenuto il protettore dei morenti, dei casi disperati. Per deridere Gesù fino alla fine, ecco che uno dei presenti va a inzuppare nell’aceto (o vino acidulo, usato forse a fini anestetici) una spugna per far bere Gesù, ridargli un po’ di forza e prolungare cosi la sua agonia e vedere se effettivamente Elia viene a salvarlo. Lo sguardo di fede dell’ evangelista sa cogliere in questo gesto un’allusione al destino del giusto sofferente che, nel salmo 69,22, dice: “Nella mia sete mi fanno bere l’aceto”. Ma l’agitazione dei presenti viene interrotta dal grido di Gesù che muore. Gesù muore gridando. Ma questo evento, così tragicamente frequente all’ epoca, poiché erano molti i crocifissi, manifesta subito la sua qualità teologale: il velo del tempio si squarcia in due dall’ alto in basso e il centurione confessa che quell’uomo, morto così “male” era veramente il Figlio di Dio. Il velo di cui si parla era la tenda, la cortina che separava il luogo più interno del tempio, il Santo dei Santi, dal resto del complesso sacro. Nel Santo dei Santi entrava soltanto il sommo sacerdote una sola volta all’ anno in occasione del Giorno dell’espiazione. Simbolicamente Marco sta affermando che la comunione con Dio passa oramai attraverso Cristo, non attraverso il tempio. E se il sistema di santità del tempio era basato su separazioni e distinzioni successive e progressive, il corpo di Gesù e la santità che egli vive è inclusiva: egli muore accanto a malfattori, come era stato battezzato in mezzo a peccatori, e a tutti porta la comunione di Dio. Per Marco è proprio vedendo Gesù morire “in quel modo” che il centurione lo confessa Figlio di Dio. Se al battesimo era stata la voce divina a proclamare la dignità filiale di Gesù, sotto la croce è invece la voce di un uomo, di un pagano. Con questa morte Gesù raggiunge ogni uomo e ogni angolo della terra. Oramai non vi è più alcuna situazione di disgrazia o inferno che non possa essere abitata dalla presenza di Dio in Cristo Gesù. E sotto la croce si prepara già la nascita di qualcosa di nuovo: la presenza discreta delle donne discepole, unica presenza fisicamente fedele a Gesù dalla Galilea fino alla fine, già prelude a quell’alba del primo giorno dopo il sabato in cui esse andranno al sepolcro e riceveranno l’annuncio: “È risorto! Non è qui! Andate a dire ai suoi discepoli e a Pietro che vi… precede in Galilea: là lo vedrete, come vi ha detto” (Mc 16,6-7).

 

La morte di Gesù nel Vangelo secondo Matteo

 

La narrazione matteana della morte di Gesù presenta significative differenze rispetto a quella di Marco. Eccone tLna versione fedele al testo greco:

 

Dall ‘ora sesta si fece buio su tutta la terra fino all’ora nona. Verso l’ora nona Gesù gridò a gran voce, dicendo: “Elì, Elì, lemà sabactàni?”, cioè: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Alcuni di coloro che erano là presenti, udito ciò, dicevano: “Costui chiama Elia”. E subito uno di loro, andato di corsa a prendere una spugna e avendola inzuppata di aceto e post:a su una canna, gli dava da bere. Ma gli altri dicevano: “Lascia! Vediamo se viene Elia a salvarlo!”. Ma Gesù, avendo di nuovo gridato a gran voce, emise lo spirito. Ed ecco, il velo del tempio si squarciò in due dall’ alto in basso e la terra fu scossa, le rocce furono squarciate, i sepolcri furono aperti e molti corpi di santi addormentati risuscitarono e, uscendo dai sepolcri, dopo la sua resurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti. Ora, il centurione e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, vedendo il terremoto e ciò che accadeva, furono presi da grande timore e dicevano: “Veramente questi era Figlio di Dio” (Mt 27.45-54).

 

La prima parte della narrazione della morte di Gesù secondo Matteo è piuttosto simile a quella di Marco. Matteo, che a differenza di Marco non aveva annotato l’ora della crocifissione di Gesù (cf. Mc 15,25), adesso indica la durata delle tenebre: tre ore, da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Tre ore di silenzio, di immobilità, in cui l’evangelista non registra né parole né azioni. “Verso” le tre Gesù grida con voce forte le parole che danno inizio al salmo 22. Questo grido paradossale esprime bene il senso della relazione con Dio da parte del credente ebreo, dunque anche di Gesù. Noi siamo abituati a definire il rapporto con Dio una “fede” il cui soggetto è l’uomo. Un uomo crede, oppure no, in Dio. Ma il rapporto con Dio come emerge nei salmi (e Gesù sta pregando un salmo) e in genere nella preghiera biblica, è diverso. Là, il soggetto è Dio. E il rapporto con Dio sgorga da Dio stesso. Sicché anche quando l’uomo dispera di Dio, non può staccarsi da lui. Qui Gesù si sente abbandonato da Dio, e il suo grido dice tale angoscia, ma al tempo stesso egli non può far altro che rivolgersi a quello che rimane il suo Dio. Gesù si manifesta come credente anche nel momento supremo della sofferenza e della morte. E si manifesta anche come obbediente. Così appare dall’espressione utilizzata per indicare il morire di Gesù: “Emise -letteralmente ‘lasciò andare’ -lo spirito” (Mt 27,50). La morte come gesto di obbedienza! Questa espressione può significare semplicemente il morire di Gesù, ma dato che il termine pneuma (“spirito”) in Matteo non ha mai valore antropologico, non si può escludere un riferimento allo Spirito santo e a un senso teologico dell’ espressione non distante da quello che troveremo nella narrazione della morte di Gesù secondo Giovanni (cf. Gv 19,30). Questa valenza teologica della morte di Gesù e l’eventuale dono dello Spirito sono in linea con la valenza rivelativa di tale morte che Matteo mette in luce. Morte che comunque è preceduta, come in Marco, dall’incomprensione del grido di Gesù che viene inteso come invocazione di salvezza da parte di Elia (cf. Mt 27.47-49) (10).

Ma ecco la parte più originale della narrazione di Matteo. La morte di Gesù è accompagnata da una serie di eventi sconvolgenti (cf. Mt 27,51-53). Se la lacerazione del velo del tempio era già ricordata da Marco, non così gli altri segni: la terra scossa, le rocce spezzate, i sepolcri aperti, la resurrezione di molti morti, la loro uscita dalle tombe e la loro apparizione a molti in Gerusalemme. Anzitutto va rilevato che i verbi greci usati per descrivere questi eventi sono al passivo: si tratta di una forma linguistica particolare per indicare che il vero soggetto di quanto avviene è Dio. Nella morte di Gesù avviene qualcosa di divino, dice Matteo. La morte di Gesù è l”’ora” finale della storia, è l’evento escatologico per eccellenza. In effetti Matteo riesce a radunare con mirabile sintesi, nel momento della morte di Gesù, sia la menzione della sua resurrezione che della resurrezione dei giusti. Nel momento della morte ecco i segni della vittoria della vita; al cuore della tenebra si fa strada la luce. La terra intera è coinvolta da ciò che avviene sulla croce. Come la nascita di Gesù secondo Matteo (cf. Mt 2,1-II) era stata salutata da una stella, così la sua morte è accompagnata dallo scuotimento della terra. Come al momento del battesimo di Gesù nel Giordano si erano aperti i cieli (cf. Mt 3,16), ora, al momento della sua morte, si aprono le tombe. Gli eventi elencati da Matteo non vanno intesi in senso storico, ma come segni del significato profondo dell’evento: la morte di Gesù è il crinale della storia umana; essa investe tutto il mondo e apre gli ultimi tempi, i tempi escatologici. E questa morte è indissolubile dalla resurrezione di Gesù (“Dopo la sua resurrezione”: Mt 27,53) e dalla resurrezione dei morti. Caratteristica peculiare della narrazione matteana della morte di Gesù è dunque l’anticipazione della resurrezione dei morti. Tutta la storia umana, fino alla consumazione dei secoli (cf. Mt 28,20), trova la sua chiave di lettura nell’ evento pasquale, nella morte e nella resurrezione di Gesù. Questa morte è giudizio e salvezza!

I fenomeni naturali elencati da Matteo sono posti in una sequenza logica: prima il terremoto, quindi le rocce che si spaccano, poi le tombe che si aprono, i santi morti che risuscitano, escono dalle tombe e sono visti nella città santa. Certamente Matteo sta affermando che nella morte di Gesù vi è il compimento di profezie veterotestamentarie. Forse vi è l’eco dell’ annuncio di Daniele della resurrezione, negli ultimi giorni, di “molti che dormono nella polvere” (Dn 12,2), ma certamente vi è il riferimento alla profezia di Ezechiele 37, 11 – 14. In quella pagina si parla di Dio che soffia il suo Spirito sulle ossa inaridite che rappresentano i figli di Israele. Dio annuncia tramite il profeta: “Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, popolo mio, e vi riconduco nel paese di Israele” (Ez 37,12). La morte di Gesù è evento che anticipa e rivela la fine della storia. In questo senso è “apocalisse”, cioè non tanto catastrofe o disgrazia, ma rivelazione, svelamento del senso profondo della storia (11). Possiamo pensare che quando, più tardi, Ignazio di Antiochia scriverà che Gesù “fu veramente crocifisso e morì mentre quelli nei cieli, sulla terra e sotto terra stavano a guardare” (12), egli avesse presente la narrazione di Matteo che elenca in successione segni nei cieli (tenebre), sulla terra (velo del tempio, terra scossa e rocce spezzate) e sotto terra (tombe aperte e morti che escono). Coloro che deridevano Gesù attendendo la venuta di Elia per salvarlo, ora sono smentiti da una risposta di Dio infinitamente più potente. I corpi dei santi (ovvero i giusti dell’ AT) morti (il testo usa l’eufemismo “addormentati”) escono dai sepolcri ed entrano in Gerusalemme, dove furono visti da molti. Cioè, mentre descrive la morte di Gesù, Matteo ne annuncia anche la resurrezione e annuncia anche la resurrezione dei santi morti. Davvero la morte di Gesù è la fine della storia, ma è anche ciò che dischiude il senso di tutta la storia. L’annuncio basilare della fede cristiana per cui Gesù Cristo è morto, risorto e apparso a molti, è il saldo fondamento della fede cristiana nella resurrezione dei morti.

Non a caso il centurione e l’intero corpo di guardia fecero la loro confessione di fede in Gesù “Figlio di Dio” avendo visto il terremoto e tutto ciò che accadeva. La confessione di fede non è individuale, ma collettiva, e non nasce semplicemente dalla visione della morte di Gesù (come in Marco 15,39), ma dalla constatazione dei segni che hanno accompagnato tale morte. Il timore che si impadronisce di loro è tipico della reazione davanti al manifestarsi di Dio (cf. Mt 27,54) e la loro confessione di fede parte dalla presa d’atto della potenza di Dio manifestatasi nella debolezza del crocifisso, mentre in Marco è l’esatto contrario. In Marco è la debolezza di Cristo (“Vedendo che spirò così”: Mc 15,39) che svela la potenza di Dio.

Ma siamo sempre di fronte all’unico e medesimo mistero della debolezza della croce che rivela la potenza di Dio e il mistero della salvezza.

 

La morte di Gesù nel Vangelo secondo Luca

 

Il racconto lucano della morte di Gesù presenta tratti peculiari e specifici sia rispetto a Marco che a Matteo:

 

Era già circa l’ora sesta e si fece buio su tutta la terra fino all’ora nona perché il sole si era eclissato. Il velo del tempio si squarciò nel mezzo e Gesù, esclamando a gran voce disse: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”. Detto questo, spirò. Ora, il centurione, vedendo l’accaduto, glorificava Dio dicendo: “Veramente quest’uomo era giusto!”. E tutte le folle accorse insieme a quella visione, avendo osservato l’accaduto, se ne tornavano percuotendo si il petto. Stavano là tutti i suoi conoscenti, da lontano, e anche le donne che l’avevano seguito insieme fin dalla Galilea, a vedere queste cose (Lc 23.44-49).

 

La morte di Gesù è preceduta da due segni: il segno cosmico del buio su tutta la terra e il lacerarsi del velo del tempio. Il buio in pieno giorno viene specificato come dovuto a un’ eclissi di sole. Si realizzano i segni predetti dai profeti come indicativi del giorno del Signore, il giorno escatologico: “Farò prodigi nel cielo e sulla terra… Il sole si cambierà in tenebre … prima che venga il giorno del Signore” (Gl 3,3-4); “In quel giorno – oracolo del Signore – farò tramontare il sole a mezzogiorno e oscurerò la terra in pieno giorno” (Am 8,9). A questo segno che avviene nel cosmo si accompagna un segno che avviene nel tempio, nel centro religioso della città santa, Gerusalemme: lo squarcio del velo del tempio. Questo segno in Luca precede la morte di Gesù, una morte che avviene nella preghiera.

Dopo che si è lacerata la tenda che dava accesso al Santo dei Santi, al luogo della comunione più intima con Dio, Gesù mostra di vivere la comunione con Dio con la sua preghiera fiduciosa e serena. Gesù non muore avendo in bocca le parole angosciate del salmo 22, ma un’espressione traboccante di fiducia in Dio tratta dal salmo 31: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”. Nessun grido angosciato di fronte all’ assenza da parte di Dio, ma una preghiera di abbandono fiducioso al Signore che esprime la filialità che Gesù ha sempre vissuto: Gesù muore abbandonandosi al Dio che chiama “Padre” (13). Già prima, sulla croce, Gesù si era rivolto a Dio chiamandolo “Padre” e invocando da lui il perdono dei suoi aguzzini (cf. Lc 23,34). Questa invocazione era in bocca a Gesù dodicenne al tempio (Lc 12,49, letteralmente: “lo devo rimanere nelle cose [nello spazio] del Padre mio”) e in verità dietro di essa vi è l’esperienza di fede e di preghiera che ha retto tutta la vita di Gesù. La sua morte è in continuità con tutta la sua vita, e questa continuità egli la vive e la esprime nella preghiera, nella sua relazione con il Padre. Nel momento finale Gesù sintetizza in unità tutta la sua vita, passato e presente, e affronta con fiducia il futuro ponendolo nelle mani del Padre. Gesù non subisce la morte, ma la vive come un attivo affidamento a Dio. Gesù, che secondo Luca ha continuato a fare il bene fino alla fine (si pensi alla guarigione dell’ orecchio del servo del sommo sacerdote al momento dell’arresto: cf. Lc 22,50-51), muore come un “giusto”, cioè certamente come un innocente, ma soprattutto in conformità con il volere divino. Così la sua morte diviene esemplare: negli Atti degli apostoli Stefano muore come Gesù (cf. At 7,59-60). Come si può seguire Gesù nella vita, così lo si può seguire nella morte. La morte di Gesù è esempio delle morti dei martiri. Gesù è il “giusto” servo, la cui morte giustificheràmolti, come afferma Isaia 53,1 I. Ma è anche il Messia, come appare dal suo rivolgersi a Dio come Padre: Gesù è il Figlio che ha vissuto tale filialità nella preghiera, nel dialogo con il Padre. Se subito dopo il battesimo Gesù aveva ascoltato la voce dal cielo che gli diceva: “Tu sei mio Figlio, l’amato, in te mi sono compiaciuto” (Lc 3,22), ora, alla fine del suo ministero e della sua vita, egli si rivolge spesso e intensamente a Dio chiamandolo “Padre” (cf. Lc 22,42; 23,34.46). Gesù è il Figlio di Dio, è il Messia che si rivolge a Dio dicendogli: “Tu sei mio Padre” (Sal 89,27; 2Sam 7,14) (14).

Certo se, come riconosce il centurione, Gesù era giusto, la sua condanna è stata una contraddizione. Cogliamo qui un aspetto tipico della passione e della morte di Gesù secondo Luca: Gesù è segno di contraddizione, è colui che svela i pensieri e i sentimenti dei cuori (cf. Lc 2,34-35). La presenza di Gesù suscita una divisione perché obbliga a prendere una posizione. Avviene così anche tra i due malfattori crocifissi con Gesù: uno lo riconosce come Messia e lo prega, l’altro lo bestemmia (cf. Lc 23,39-43). Tutta la narrazione della passione è la storia dello svelamento delle intenzioni dei cuori dei personaggi che incontrano Gesù, i quali sono normalmente colti nella loro incoerenza e nella loro contraddizione. La passione è la storia di una contraddizione: l’innocente è condannato, un omicida viene rilasciato dal carcere, i giudei vogliono la condanna del Messia loro destinato, Pilato riconosce l’innocenza di Gesù e poi lo consegna alla morte, Pietro rinnega tre volte il suo Signore, Giuda tradisce il suo maestro e lo tradisce “con un bacio” (Lc 22,48), cioè con il segno di devozione del discepolo al maestro, le donne che piangono Gesù (le “piangenti”, donne che a pagamento seguivano i condannati a morte per fare il lutto su di loro) sono aspramente rinviate a piangere su se stesse e su Gerusalemme (cf. Lc 23,26-31).

Ma questa storia della contraddizione umana di fronte al Figlio di Dio, diviene anche storia dell’instaurazione della verità, del ritrovamento della verità.

E questo avviene proprio alla croce. Croce che per Luca è evento che deve essere contemplato, visto. Egli parla infatti delle folle che “erano accorse a questo spettacolo” (Lc 23,48), usando il termine greco theoria, che indica la contemplazione, ciò che deve esser osservato e contemplato. Ora, dalla visione del Crocifisso le folle sono condotte a un ripensamento dei fatti accaduti e a una loro inedita interpretazione: “Se ne tornavano percuotendo si il petto” (Lc 23,48). Il ritrovamento della verità, della giusta relazione con il Signore passa attraverso una rinnovata visione di sé: di fronte al Giusto condannato a morte emerge la contraddizione del proprio cuore e il ritorno intrapreso altro non è che il movimento della conversione, del cambiare strada. Si esce dalla contraddizione come Pietro che piange amaramente il proprio rinnegamento (cf. Lc 22,62), come il buon ladrone che riconosce il male che ha fatto e la giustizia di Gesù (cf. Lc 23,40-42), come le folle che dopo la visione della croce se ne tornano battendosi il petto e riconoscendo il proprio peccato (cf. Lc 23,48). La tenebra in cui è sprofondato il cosmo nei momenti che precedono la morte del Messia è lo spazio della contemplazione: la tenebra abitata da Gesù (e segno della presenza divina anche nell’ AT) diviene rivelazione delle tenebre che sono nel cuore dell’uomo.

In particolare, nel dialogo tra Gesù e il buon ladrone appare che il Messia morente promette al condannato la comunione con lui: “In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso” (Lc 23,43). L’evento della morte viene sottratto alla sua forza isolante, e diviene occasione di comunione. “Con me”: la salvezza trova il suo contenuto in queste due parole. Il salmista esprime la sua fiducia in Dio cantando: “Se anche vado in una valle oscura, non temo alcun male perché tu sei con me” (Sal 23,4); Gesù si presenta come Messia affidabile promettendo: “Oggi sarai con me”. La morte di Gesù, proprio nella sua irripetibile unicità in quanto morte del Messia e del Figlio di Dio, si rivela decisiva e illuminante per aiutarci a vivere la nostra morte, per innestare la speranza cristiana proprio al cuore dell’ evento ineluttabile della fine della vita: “Oggi sarai con me in paradiso” (15).

 

La morte di Gesù nel Vangelo secondo Giovanni

 

Il quarto vangelo narra la morte di Gesù in maniera assolutamente originale rispetto ai racconti dei tre vangeli sinottici:

 

Dopo questo, Gesù, sapendo che tutto era oramai compiuto, affinché si compisse la Scrittura, dice: “Ho sete”. C’era là un vaso pieno di aceto. Avendo dunque messo una spugna piena di aceto attorno a [una canna di] issopo, [la] portarono alla sua bocca. Quando dunque ebbe preso l’aceto, Gesù disse: “È compiuto”, e chinato il capo, consegnò lo spirito (Gv 19,28-30).

 

Il racconto della morte di Gesù è strettamente legato a ciò che precede, come appare dall’espressione iniziale “dopo questo” (v. 28). Ovvero dopo la scena in cui Gesù, dalla croce, si rivolge a sua madre e al discepolo amato. Si tratta di una scena che non deve essere letta banalmente come affidamento della madre che resta sola al discepolo amato e fidato che si dovrà prendere cura di lei. Questa lettura che intende il gesto di Gesù come gesto di bontà e pietà filiale corrisponde in realtà a una griglia morale che non si addice alla profondità teologica del quarto vangelo. Il quarto evangelista ci presenta qui una scena di rivelazione: Gesù “vede” (v.26a), “dice” (v. 26b), “ecco” (v. 27). I tre elementi si trovano sempre in scene di rivelazione. E la rivelazione concerne la costituzione del popolo escatologico di Dio, del popolo messianico che in Cristo trova la sua unità. La scena di Maria sotto la croce rinvia a quella delle nozze di Cana (cf. Gv 2,1-12) che si trova all’inizio del quarto vangelo: anche là era presente la madre di Gesù. Ma se a Cana l’ora di Gesùnon era ancora arrivata (cf. Gv 2,4), al Calvario l’ora è giunta (“Da quell’ora”: v. 27). Se a Cana Gesù dava il vino, al momento della crocifissione dona il suo sangue. L’alleanza inaugurata a Cana si compie sulla croce16. E alla croce abbiamo la creazione, a opera del Signore, del nuovo popolo di Dio. Il testo presenta dunque anche una valenza ecclesiologica: la chiesa nasce sotto la croce. È il figlio che crea la madre, è il Signore che crea la chiesa. Maria viene stabilita nella maternità spirituale dei credenti. Anche il discepolo amato, il garante della tradizione del quarto vangelo e della comunità giovannea, è collocato all’interno di questa relazione di filialità nei confronti della madre di Gesù. Maria è l’Israele fedele che ha generato il Messia riconosciuto e confessato dai discepoli. Maria sintetizza in sé i due aspetti di figura della sinagoga e di inizio della chiesa (17).

Ebbene è “dopo questo” che il quarto vangelo riporta le ultime parole e gli ultimi gesti di Gesù prima della morte. Una morte che per Giovanni non è una fine ma un compimento: per tre volte ricorre il verbo “compiere” (vv. 28bis.30) che dà una precisa tonalità a tutta la scena.

La morte di Gesù si configura anzitutto come compimento delle Scritture (cf. v. 28) (18). Il compimento, perseguito da Gesù in tutto il suo ministero, si manifesta nella spartizione delle vesti (cf. Gv 19,24; Sal 22,19) come nella costituzione del nuovo popolo di Dio (cf. Gv 19,25-27; Is 60,4-5; 66,8; Bar 4,36-5,9), e infine nel suo stesso corpo morto che sembra incorporare fisicamente il compimento della Scrittura (cf. Gv 19,35-37). Dopo aver infatti annotato che i giudei domandarono a Pilato che venissero spezzate le gambe ai crocifissi perché era la Parasceve, cioè la vigilia della Pasqua, ed essi temevano di restare contaminati se i corpi restavano sulla croce (il condannato a morte che veniva appeso non doveva restare tutta la notte sul patibolo, ma doveva essere sepolto lo stesso giorno per non contaminare il paese: cf. Dt 21,22-23), Giovanni rileva che i soldati spezzarono le gambe ai due crocifissi con Gesù, ma non a Gesù stesso che era già morto (cf. Gv 19,31-33). La pratica del crurifragium (spezzare le gambe dei condannati) era volta ad affrettarne la morte: con le gambe spezzate essi non potevano più reggersi, cadevano in avanti, si chiudevano le possibilità di respiro ed essi morivano per asfissia. Gesù, invece, viene colpito da un soldato con un colpo di lancia al costato “e subito uscì sangue e acqua” (Gv 19,34). Ebbene, dopo questo, l’autore del quarto vangelo interviene nella narrazione atte stando che tutti questi eventi non sono stati casuali, ma hanno compiuto le Scritture:

 

Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa di dire il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si adempisse la Scrittura: “Non gli sarà spezzato alcun osso” (Es 12,46; Nm 9,12). E un altro passo della Scrittura dice ancora: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Zc 12,10) (Gv 19,35-37).

 

Inoltre Gesù compie, nella sua morte, anche la propria missione, e lo proclama: “È compiuto” (v. 30). Gesù ha compiuto l’opera di rivelazione del Padre.

E ha compiuto la sua obbedienza e la sua libertà. Gesù inclina il capo prima di spirare, mentre normalmente dovrebbe avvenire il contrario. Il capo che si reclina sembra alludere a un atto di obbedienza, quell’obbedienza che ha retto tutta la vita di Gesù, le sue parole e le sue azioni perché egli non dice se non ciò che ha ascoltato dal Padre e non compie se non le azioni del Padre. L’obbedienza di Gesù avviene nello spazio della sua libertà, sottolineata dal “sapendo” che dàinizio alla scena. Gesù sa, è pienamente cosciente della morte che arriva e del disegno divino che si compie.

La morte di Gesù appare poi compimento dell’ amore. Ciò che era stato profetizzato nel gesto di deposizione delle vesti per inchinarsi davanti ai suoi discepoli e lavare loro i piedi, ora avviene. E Giovanni aveva introdotto la scena della lavanda dei piedi con queste parole: “Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1). La croce è il sigillo di una vita donata fino all’ estremo, fino alla fine, fina al punto di non ritorno. Gesù l’aveva detto: “Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i pr-opri amici” (Gv 15, 13). E Gesù dona la vita anche per il nemico e continua a chiamare amico colui che g-li si fa nemico, così come lava i piedi anche a Giuda che ha già in animo il tradimento. La croce è l’evento della libertà dell’amore che giunge ad amare il nemico.

E la morte è per Gesù anche il compimento del suo desiderio. Desiderio espresso da quella sete (cf. v. 28) che non sarà estinta da una bevanda ma dall’ abbraccio con il Padre. Il testo allude certamente alla sete terribile del crocifisso, ma dietro a quella sete materiale vi è la sete di compiere la volontà del Padre.

Alla luce di tutto questo non stupisce che la morte di Gesù in Giovanni non appaia come una sconfitta, ma come una vittoria: con la sua morte in croce egli ha “vinto il mondo” (Gv 16,33). Anzi, il verbo che Giovanni utilizza- per indicare il morire di Gesù designa l’atto di un v-ivente. Giovanni non dice che Gesù”spirò”, ma che” consegnò lo spirito” (v. 30). Si tratta del gesto cosciente e libero di un vivente. L’ultimo gesto di Gesù è ancora un donare: dopo aver donato se stesso, dopo aver- fatto il bene per tutta la sua vita, giunto all’estremo del suo cammino terreno, Gesù ancora dona. E lo spirito che egli dona può benissimo essere inteso come lo Spirito, con la maiuscola, dunque come riferimento allo Spirito santo. La morte di Gesù, da evento di isolamento e di non relazione, diviene transitivamente evento di vita. La morte, come consegna dello Spirito santo, diviene una pentecoste, evento che trasmette il principio della vita spirituale all’ esistenza del cristiano. Così si definisce ulteriormente la concezione della morte di Gesù nel quarto vangelo: la morte, la croce è gloria. Gesù appare come un re (si pensi alla corona di spine: cf. Gv 19,2-3), e la sua via crucis è in verità un cammino di intronizzazione regale. La croce è innalzamento e giudizio sul mondo, è un andare al Padre, è un esodo verso il Padre. Una pasqua, un passaggio da questo mondo al Padre. Nella croce, per Giovanni, è già insita l’interezza del mistero pasquale.

 

 

 

[1] Cf. E. Jüngel, Morte, Queriniana, Brescia I972.

[2] Cf. X. Léon-Dufour, Face à la mort. Jésus et Paul, Seuil, Paris I979.

[3] Cf. J. Massonet, s.v. “Sanhédrin”, in Supplément au Dictionnaire de la Bible XI, Letouzey & Ané, Paris 1986, coll. 1353-1413.

[4] Cf. H. Schuermann, Comment Jésus a-t-il véçu sa mort?, Cerf, Paris 1977; M. Bastin, Jésus devant sa passion, Cerf, Paris 1976.

[5] Cf. B. Gerhardsson, “Jésus livré et abandonné d’après la passion selon saint Matthieu”, in Revue Biblique 2 (I969), pp. 206-227.

[6] Cf. J. Bernardin, Il dono della pace. Riflessioni personali, Queriniana, Brescia 1997.

[7] Cf. E. Manicardi, “Gesù e la sua morte secondo Me 15,33-37″, in Associazione biblica italiana, Gesù e la sua morte. Atti della XXVII settimana biblica, Paideia, Brescia 1984, pp. 9-28.

[8] Cf. R. E. Brown, La morte del Messia. Un commentario ai racconti della passione nei quattro vangeli, Queriniana, Brescia 1999, pp. 1175-1202.

[9] H. Sehlier, La passione secondo Marco, Jaca Book, Milano 1979, pp. 97-98.

[10] Cf. D. Senior, La passione di Gesù nel Vangelo di Matteo, Ancora, Milano 1990, pp. 134-147.

[11] Cf. R. A. Monasterio, Exegesis de Mateo 27,51b-53. Para una teologia de la muerte de Jesus en el Evangelio de Mateo, Editorial Eset, Vitoria 1980.

[12] Ignazio di Antiochia, Ai Tralliani 9,1.

[13] Cf. R. E. Brown, La morte del Messia, pp. 1202-1205.

[14] Cf. E. Manicardi, “L’atteggiamento di Gesù nell’imminenza della sua morte nel Vangelo secondo Luca”, in Parola, Spirito e Vita 32 (1995), pp. 97-119.

[15] Cf. D. Senior, La passione di Gesù nel Vangelo di Luca, Ancora, Milano 1992, pp. 125-146.

[16] Cf. A. Serra, Maria a Cana e presso la croce, Centro di cultura mariana Mater ecclesiae, Roma 1978.

[17] Cf. I. de la Potterie, “La passione secondo Giovanni (18,1-19,42)”, in A. Vanhoye, I. de la Potterie, Ch. Duquoc, E. Charpentier, La passione secondo i quattro vangeli, Queriniana, Brescia 19883 pp. 55-71.

[18] Cf. R. Vignolo, “La morte di Gesù nel Vangelo di Giovanni”, in Parola, Spirito e Vita 32 (1995), pp. 121-142.

 

 

GESÙ INCONTRA I MALATI – Luciano Manicardi (6)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/manicardi_umanosoffrire6.htm

TRAVERSARE LE CRISI – Luciano Manicardi (5)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/manicardi_umanosoffrire5.htm

LINGUAGGI – Luciano Manicardi (4)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/manicardi_umanosoffrire4.htm

ACCANTO AL MALATO – Luciano Manicardi (3)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/manicardi_umanosoffrire3.htm

NELLA MALATTIA – Luciano Manicardi (2)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/manicardi_umanosoffrire2.htm

IL VOLTO DEL SOFFERENTE – Luciano Manicardi (1)

IL VOLTO DEL SOFFERENTE

La sofferenza è esperienza universale. L’uomo è anche homo patiens (1). Quando queste affermazioni diventano esperienza vissuta, spesso drammatica, a volte tragica, esse ci segnano. E noi comprendiamo, non semplicemente in modo razionale, ma anche con le viscere, che la sofferenza costituisce il caso serio dell’ esistenza. O quantomeno un’ esperienza che può aprirci una strada verso ciò che nella vita è essenziale e vero. Può. Non è detto che avvenga. Tante persone sono state indurite, intristite e abbrutite dal dolore. Il credente, poi, sa e sente che attorno alla sofferenza si gioca qualcosa di decisivo riguardo sia all’uomo che a Dio, all’immagine dell’uomo e all’immagine di Dio. Di fronte alla sofferenza le domande si moltiplicano e le risposte spesso mostrano la loro falsità o debolezza o inconsistenza. Il credente interroga anche Dio e questa interrogazione è terribile. Di fronte al bambino morto, all’inerme ucciso, all’uomo torturato, a chi nasce malformato, noi diventiamo un interrogativo, la realtà diviene un enigma. E Dio stesso diventa un interrogativo per noi. Da questo interrogativo radicale nasce la sete di autenticità umana, di giustizia, di compassione, e sorge pure il desiderio della ricerca e di un’indagine che interpelli le Scritture e la tradizione cristiana, ma anche le scienze umane, l’antropologia e la sociologia, la psicologia e la psichiatria, le scienze della comunicazione, eccetera. Nella convinzione che la sofferenza ha qualcosa da dirci sull’uomo e su Dio.
In particolare, la fede cristiana, che ha al suo cuore la rivelazione inaudita dell’incarnazione, del Dio che si è fatto uomo, carne fragile, non può ritenere estraneo a sé nulla di ciò che è umano. Sofferenza, malattia e morte comprese. Anzi, è convinzione di chi scrive che ciò che è autenticamente umano è anche autenticamente spirituale, e che l’autenticità spirituale deve sempre passare attraverso il vaglio di ciò che è autenticamente umano.

Le pagine che seguono nascono proprio da questo intento: ripensare i discorsi cristiani su malattia, sofferenza e morte radicandoli nel terreno della rivelazione biblica, evangelica in particolare, e restituirli alla concretezza dell’umano sofferente. Insomma, il senso è di evangelizzare e di umanizzare il discorso cristiano su sofferenza, malattia e morte. Cosa che comporta il tenere sempre presente il soggetto sofferente più che la sofferenza, la persona malata più che la malattia, l’uomo morente più che la morte. Nell’ambito di cui ci stiamo occupando l’uso dell’astratto può corrispondere a una volontà di fuga, a quel non coinvolgimento che impedisce l’incontro con il concreto sofferente, malato, morente. Cioè, con il suo volto.

Educati come siamo alla cultura dell’applauso, non sappiamo neanche dove sta di casa la cultura dell’ ascolto. Distribuiamo farmaci per contenere la depressione, ma mezz’ora di tempo per ascoltare il silenzio del depresso non lo troviamo mai. Con i farmaci, utili senz’ altro, interveniamo sull’ organismo, sul meccanismo biochimico, ma la parola strozzata dal silenzio e resa inespressiva da un volto che sembra di pietra, chi trova il tempo, la voglia, la pazienza, la disposizione per ascoltarla? Tale è la nostra cultura (3).

Certo, sappiamo bene come sia difficile ascoltare, se ascoltare indica l’atto di aprirsi e accogliere la sofferenza dell’ altro: “La maggior parte degli orecchi si chiude alle parole che cercano di dire una sofferenza” 4. Si innalzano barriere per evitare che la sofferenza passi da chi la vive e la esprime a chi la ascolta. Eppure, senza questa cultura dell’ ascolto del sofferente noi condanniamo l’altro alla solitudine e all’isolamento mortale e precludiamo anche a noi la possibilità di una consolazione e di una comunicazione nella nostra sofferenza. Prosegue Galimberti:

Ascoltare non è prestare l’orecchio, è farsi condurre dalla parola dell’ altro là dove la parola conduce. Se poi, invece della parola, c’è il silenzio dell’altro, allora ci si fa guidare da quel silenzio. Nel luogo indicato da quel silenzio è dato reperire, per chi ha uno sguardo forte e osa guardare in faccia il dolore, la verità avvertita dal nostro cuore e sepolta dalle nostre parole. Questa verità, che si annuncia nel volto di pietra del depresso, tace per non confondersi con tutte le altre parole (5).

La domanda che qui si deve porre è: sappiamo dare tempo, attenzione ed energie all’ascolto di chi soffre? E sappiamo ascoltare la sofferenza profonda che è in noi, premessa indispensabile per porci sempre più attentamente in ascolto della sofferenza dell’ altro? Ascoltare significa dare la parola, dare tempo e spazio all’ altro, accoglierlo anche in ciò che egli rifiuta di sé, dargli diritto di essere chi lui è e di sentire ciò che sente e fornirgli la possibilità di esprimerlo. Ascoltare è atto che umanizza l’uomo e che suscita l’umanità dell’ altro. Ascoltare è far nascere, dare soggettività, permettere all’uomo di realizzare il proprio nome e il proprio volto. Ovvero la propria umanità.
Il volto, infatti, è l’emergenza dell’identità. Il volto è epifania dell’umanità dell’uomo, della sua unicità irriducibile, e questa preziosità del volto è simultanea alla sua vulnerabilità:

La pelle del volto è quella che resta più nuda, più spoglia. La più nuda sebbene di una nudità dignitosa. La più spoglia anche: nel volto c’è una povertà essenziale … Il volto è esposto, minacciato come se ci invitasse a un atto di violenza. Al tempo stesso, il volto è ciò che ci vieta di uccidere (6).

La sofferenza può dunque sfigurare il volto e cancellare, con la sua brutale violenza, l’umanità della persona, ma la sofferenza può anche, paradossalmente, restituire umanità al volto del violento.
Gli internati nei campi di sterminio nazisti si vedevano annientare umanamente venendo spogliati del nome e ridotti a numero, quindi privati del proprio volto: si doveva eliminare dal volto del detenuto ogni residuo di individualità. Ha testimoniato Primo Levi:

Già mi sono apparse, sul dorso dei piedi, le piaghe torpide che non guariranno. Spingo vagoni, lavoro di pala, mi fiacco alla pioggia, tremo al vento; già il mio stesso corpo non è più mio: ho il ventre gonfio e le membra stecchite, il viso tumido al mattino e incavato a sera; qualcuno fra noi ha la pelle gialla, qualche altro grigia: quando non ci vediamo per tre o quattro giorni, stentiamo a riconoscerci l’un l’altro (7).

La fatica, la paura, il terrore, la fame, gli orrori quotidiani, tolgono carne alla pelle che resta fragile involucro di ossa:

Prima della morte fisica, regna nei campi la liquidazione dell’individualità attraverso lo smantellamento del volto, la cancellazione dei tratti sotto la durezza delle ossa che ricopre una pelle privata di carne. La stessa magrezza… che conforta l’aguzzino nel sentimento di non avere a che fare con uomini, ma con un residuo che bisogna eliminare ponendosi solo problemi amministrativi e tecnici (8).

Ed Elie Wiesel testimonia:

Tre giorni dopo la liberazione di Buchenwald io caddi gravemente ammalato: un’intossicazione. Fui trasferito all’ ospedale e passai due settimane fra la vita e la morte. Un giorno riuscii ad alzarmi, dopo aver raccolto tutte le mie forze. Volevo vedermi nello specchio che era appeso al muro di fronte: non mi ero più visto dal ghetto. Dal fondo dello specchio un cadavere mi contemplava. Il suo sguardo nei miei occhi non mi lascia più (9).

Al tempo stesso è anche vero che la sofferenza può ridare dignità a chi la violenza l’aveva usata fino al giorno prima. Con toccante lucidità Barbara Spinelli commenta così le immagini del volto di Saddam Hussein violato dalle mani del soldato che fruga nei suoi capelli arruffati e dall’ispezione dei suoi denti, come fosse una bestia da soma cui, al mercato, si spalanca la bocca per guardare lo stato e l’età della dentatura e si controlla se nel suo pelo non s’annidino pidocchi:

Ecco un dittatore feroce… il despota che ha gasato gli iraniani e i curdi, che ha massacrato gli sciiti e ogni sorta di oppositore, e tuttavia d’un tratto non sembrava più l’orrore che era stato. Sembrava aver acquisito una dignità che poco prima non possedeva, uno sguardo di cui in passato non era stato capace. Era ridotto alla sua umanità e precisamente questa umanità è stata imbestialita dai modi dell’arresto e della successiva spettacolarizzazione … Quel viso di Saddam trasformato in poster pubblicitario … è un’incalcolabile sconfitta morale (10).

Lo sguardo che noi portiamo sul volto sofferente (pensiamo in particolare al volto sfigurato dal dolore, deformato dalla malattia, devastato da cicatrici, ustionato, alterato dall’ alienazione), sguardo che oscilla tra la ripugnanza e la curiosità morbosa, è chiamato a percorrere il cammino che giunga a riconoscere l’umanità, per quanto ferita o umiliata, di quel volto. Un racconto della scrittrice finlandese Tove Jansson ci pone di fronte a quello sguardo d’amore che sa restituire umanità a chi ha visto mutato il proprio aspetto in irriconoscibili sembianze mostruose (11). Sintetizziamo la narrazione: Mumintroll, una delle creature del libro, gioca a nascondino con gli amici. Si nasconde nel cappello grande e nero di un vecchio mago senza sapere che tutto ciò che vi entra cambia aspetto. Quando Mumintroll esce dal cappello i suoi amici si ritraggono spaventati: il suo aspetto è cambiato e ora è terrificante, quasi mostruoso. Mumintroll, tuttavia, non sa di essere cambiato e non capisce perché gli amici fuggono. In preda al panico, intrappolato nella solitudine delle sue nuove sembianze, cerca di spiegare che è lui, è sempre lui, ma loro scappano via urlando per il terrore. In quel momento arriva la mamma di Mumintroll, lo guarda stupita e gli domanda chi è. Lui la supplica con lo sguardo di riconoscerlo perché se lei non lo capirà, come potrà vivere? Allora lei lo guarda negli occhi, osserva profondamente l’anima di quella creatura che non assomiglia affatto al suo caro figlioletto e dice con un sorriso: “Ma tu sei il mio Mumintroll”. E in quel momento accade un piccolo miracolo: il mostro, l’estraneo, svanisce e Mumintroll torna a essere quello di prima. Insomma, non solo ci è necessaria una cultura dell’ ascolto, ma anche una cultura dello sguardo: e questo con urgenza ancora maggiore considerando lo scialo di esibizione delle sofferenze e delle morti sui mass media. Sappiamo volgere uno sguardo umano e umanizzante al sofferente?
Il percorso disegnato dai capitoli di questo libro si muove attorno all’idea che l’umanità di Gesù, narrata
nei vangeli, può insegnarci a vivere il confronto con la sofferenza e l’incontro con i malati. Può umanizzarci. E renderci più evangelici.
Può anche farci comprendere che essere cristiano è diventare uomo in verità seguendo Cristo: è cristiano chi diventa uomo. Dietrich Bonhoeffer, che dalla lettura di un testo di Maritain era stato colpito da una citazione di Karl Marx che diceva: “È facile essere un santo quando non si vuole essere un uomo” (12), si sofferma su questa essenzializzazione dell’ esperienza cristiana:

Essere cristiano non significa essere religioso in un determinato modo, fare qualcosa di se stessi (un peccatore, un penitente o un santo), in base a una certa metodica, ma significa essere uomini; Cristo crea in noi non un tipo d’uomo, ma l’uomo. Non è l’atto religioso a fare il cristiano, ma il prender parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo (13).

L’aprirci al dolore di Dio nel mondo, nella vita quotidiana, è anche il destarci all’umano lacerato, oscurato, menomato nella persona sofferente, nel portatore di handicap, nella persona segnata dalla malattia fisica o psichica; è cogliere la passione di Dio nel dolore e nella sofferenza dell’umano che è nell’uomo. Parlando dell’umano che è nell’uomo intendo riferirmi a qualcosa che è comune a ogni singola persona, a ogni singolo viso, ma che al contempo va oltre il singolo individuo, e non coincide neppure con la cosiddetta “specie” umana. Del resto, vi è la possibilità di un’umanità disumana: l’uomo non è naturalmente umano e umanizzato, così come non è naturalmente libero. L’umanità e la libertà sono conquiste per cui si lotta e doni alla cui accoglienza occorre aprirsi. Si verificano spesso disumanità nella chiesa, nelle relazioni fraterne comunitarie, così come nei rapporti familiari, tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra anziani e giovani, e poi nelle relazioni sociali e politiche, così come nelle relazioni più personali e intime, nelle relazioni sessuali, nell’amore (o in ciò che chiamiamo tale). Quante volte dobbiamo constatare che il nemico è l’amico, è il vicino, il familiare, il confratello… Dovremmo imparare pertanto a considerarci ospiti dell’umano che è in noi. Ospiti, non padroni. Così potremmo imparare anche ad aver cura dell’umano che è in noi e a essere solleciti verso l’umano sofferente che è nell’altr014. Forse, l’umano che è in noi è esattamente il luogo della nostra immagine e somiglianza con Dio (cf. Gen 1,26-27). Si comprende come il divenire umani sia per il cristiano l’opera della fede e implichi l’obbedienza alla parola del Dio creatore che ha detto: “Facciamo l’uomo” (Gen 1,26). Anche noi, anche gli uomini, sono implicati in quel “facciamo”! L’uomo è chiamato a collaborare con Dio affinché cresca in lui quell’umanità che è il vero riflesso della luce divina nel mondo, è il luogo di Dio nel mondo, luogo che – come l’azione dello Spirito – va ben oltre le confessioni cristiane e gli spazi ecclesiali! Umanità che non può essere eliminata neppure dalla più devastante sofferenza. E la sofferenza, nei suoi molteplici volti, è oramai appello al credente perché risvegli la propria umanità rendendola sempre più conforme a quella di Cristo (15).
Una poesia di Dietrich Bonhoeffer, intitolata Cristiani e pagani, mi pare che si presti bene a chiudere
questa introduzione e a condurre alla lettura delle pagine successive:

 

Uomini vanno a Dio nella loro tribolazione,
piangono per aiuto, chiedono felicità e pane,
salvezza dalla malattia, dalla colpa, dalla morte.
Così fan tutti, tutti, cristiani e pagani.

Uomini vanno a Dio nella sua tribolazione,
lo trovano povero, oltraggiato, senza tetto né pane,
lo vedono consunto da peccati, debolezza e morte.
I cristiani stanno vicino a Dio nella sua sofferenza.

Dio va a tutti gli uomini nella loro tribolazione,
sazia il corpo e l’anima del suo pane,
muore in croce per cristiani e pagani
e a questi e a quelli perdona
(16).

 

 

[1] Cf. v. E. Frankl, Homo patiens. Soffrire con dignità, Queriniana, Brescia 1998.
[2] S. Natoli, “Rimozione della morte ed epopea del macabro”, in Parola, Spirito e Vita 32 (I995), pp. 341-358.
[3] U. Galimberti, “Pantani nel deserto dei depressi”, in La Repubblica, I8 febbraio 2004.
[4] C. Chalier, Sagesse des senso Le regard et l’écoute dans la tradition hébraique, Albin Miche!, Paris 1995, p. 91.
[5] U. Galimberti, “Pantani ne! deserto dei depressi”.
[6] E. Lévinas, Etica e infinito. Il Volto dell’Altro come alterità etica e traccia dell’Infinito, Città Nuova, Roma 1984, p. 100.
[7] P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1963, p. 42.
[8] D. Le Breton, Des visages. Essai d’anthropologie, Métailié, Paris 1992, p. 287.
[9] E. Wiesel, La notte, Giuntina, Firenze 1980, p. 112.
[10] B. Spinelli, “Saddam, i due minuti di odio”, in La Stampa, 21 dicembre 2003.
[11] T. Jansson, Racconti dalla valle dei Mumin, Salani, Firenze I995.
[12] Si veda l’edizione critica: D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, a cura di C. Gremmels, E. e R. Bethge, in collaborazione con I. Tödt, Queriniana, Brescia 2002, p. 504, n. 7.
[13] Ibid., p. 499.
[14] Cf. P. Sequeri, L’umano alla prova. Soggetto, identità, limite, Vita e Pensiero, Milano 2002.
[15] Cf. L. Manicardi, L’umanità della fede, Qiqajon, Bose 2005 (Testi di meditazione 123).
[16] D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, pp. 480-481.

BIBLIOGRAFIA

In questa breve bibliografia riporto solamente titoli di opere non citate nelle note del libro.

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CHI OSPITA L’ALTRO FA UN DONO ANCHE A SE – Enzo Bianchi

“Non dimenticate l’ospitalità: alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo”. Questa esortazione della Lettera agli Ebrei ci ricorda che l’accoglienza autentica crea un dialogo fecondo di cambiamenti e di arricchimenti per l’ospite come per l’ospitante: dal dialogo non si esce come vi si era entrati, e la sfida del dialogo richiede la disponibilità a intraprendere questo cammino. Nel dialogo emergono visioni inedite dell’altro, si fa strada la fine del pregiudizio, la scoperta di ciò che si ha in comune e anche di ciò che manca a ognuno degli interlocutori. Lì avviene la contaminazione lo spostamento dei confini: quell’altro che io situavo in una dimensione remota, si rivela molto più vicino e simile a me di quanto pensassi. Il confine resta, ma non è più luogo di conflitti o di malintesi, bensì di pacificazione e di incontro. L’ospitalità, che ha richiesto che si varcasse la soglia di una casa, ora si approfondisce e diviene incontro tra umani.

 

Certo, se non si attende nulla dall’altro, il dialogo nasce già morto: la sufficienza, il voler bastare a se stessi è di fatto negazione dell’altro, sia che lo si consideri come oggetto da possedere, sia che ci si rifiuti di vederlo e di prenderlo in considerazione. Ma se si accetta la presenza dell’altro, più ancora se si è disposti ad accoglierlo come “ospite interiore” riconoscendone le tracce presenti in noi, allora scocca la scintilla del dialogo autentico: si dà tempo all’altro, si scambiano parole che divengono doni reciproci. Il diá-logos infatti è una parola che si lascia attraversare da una parola altra, è un intrecciarsi di linguaggi, di sensi, di culture: gli interrogativi dell’altro diventano i miei, i suoi dubbi scomodano le mie certezze, le sue convinzioni interpellano le mie. Allora scopriremo che nel dialogo arriviamo a esprimere pensieri mai pensati prima, con l’affascinante percezione di sentirli a un tempo inauditi eppure familiari a noi stessi, finiamo per scoprire di avere da tempo tra le mani realtà che eravamo convinti di ignorare.

 

È nel dialogo, in quel luogo privilegiato in cui ciascuno resta se stesso e nel contempo accetta il rischio di diventare “altro”, che l’ospite diviene la rivelazione di un dono che viene da “altrove”, la scoperta di un punto di vista inedito sulla propria esistenza, l’affiorare con parole e gesti dell’interiorità che ci abita.

E tutto questo a partire da un gesto molto semplice e concreto: il dare da bere e da mangiare all’ospite. Si sa che nei paesi mediterranei un bicchiere d’acqua o una tazza di caffè sono il gesto più spontaneo, più immediato di ospitalità. Ma oggi, nella nostra società, la tavola è ancora il centro, il polo attorno al quale si organizza la casa affinché sia ospitale? Fin dalla sua prima comparsa nell’evoluzione delle civiltà, la tavola si è manifestata come luogo fatto non solo per mangiare ma anche per comunicare: se il cibo non è «parlato», nutre solo aggressività, violenza e sopraffazione. La tavola in comune con l’ospite è lo spazio in cui il cibo è condiviso e il mangiare diventa «convivio», occasione di comunione vitale: è a tavola, alla tavola condivisa, che l’uomo ha l’opportunità ogni volta rinnovata di liberarsi dal suo essere «divoratore» – del cibo e dell’altro da sé – e di ridiventare ogni giorno uomo di comunione.

La tavola è infatti il luogo attorno al quale l’uomo ha cominciato a fare amicizia, a creare società, a stipulare alleanze. È atto comunionale per eccellenza. Mangiare è anche il comportamento umano più carico di simbolismo. Mangiare insieme, offrire il proprio cibo all’ospite, significa far entrare l’altro in una comunione profondissima con noi. Infatti, “noi mangiamo ciò che nostra madre ci ha insegnato a mangiare. Non solo – ci ricorda Leo Moulin – ma tale cibo ci piace e continuerà a piacerci per tutta la vita, perché noi mangiamo con i nostri ricordi … Anzi, noi mangiamo i nostri ricordi, perché ci danno sicurezza, conditi come sono di quell’affetto e di quella ritualità che hanno caratterizzato i nostri primi anni di vita”. Questo vale anche per la cultura-madre, per la cultura in cui siamo stati allevati, per la cucina particolare di quella regione o di quel paese che noi offriamo all’ospite (o che ci vediamo offrire). E capiamo anche, scoprendo il disgusto che ci può provocare il cibo che ci viene offerto quando siamo ospiti o le resistenze che l’altro manifesta di fronte ai cibi che noi gli offriamo quando lo ospitiamo, quanto siamo radicati in una storia particolare e quanto sia lungo e faticoso il cammino verso l’incontro con l’altro.

 

Ora, dalla condivisione della parola nel dialogo e del cibo attorno a una tavola nasce una conoscenza nuova dell’ospite: colui che era estraneo, di cui si ignorava la provenienza, di cui si faticava a comprendere il linguaggio, è ora divenuto qualcuno di familiare, parte di quella cerchia di persone e di mondi che costituisce il «nostro» mondo, fatto di somiglianze e di alterità, di consuetudini e di novità, di tradizioni ricevute e di nuove strade imboccate.

E questo elemento «socializzante» dell’ospitalità non dovrebbe essere dimenticato. Quando uno di noi accoglie un altro, infatti, non è mai solo: nel mio accogliere l’altro c’è sempre con me la mia storia, le persone che l’hanno attraversata, gli incontri che l’hanno determinata, la cultura che l’ha orientata. Analogamente, anche l’ospite accolto non è un individuo a sé stante, non giunge mai solo: con sé porta il suo passato, le persone e le vicende che lo hanno fatto soffrire o gioire, le speranze e le disillusioni, il futuro atteso e quello ignoto. Sì, anche nel faccia a faccia di due singole persone, l’ospitalità resta il luogo comunitario per eccellenza: sono due mondi che si incontrano attraverso l’intrecciarsi di due sguardi e il dialogare di due volti.

L’ospitalità è un dono! Dono a chi è ospitato, dono a chi ospita. Certo, l’ospitalità è solo una tappa, non può essere tradotta in situazione definitiva perché essa si indirizza sempre a nuovi interlocutori temporanei che si affacciano alla soglia della casa o della città. La condizione dell’ospite è quella di chi non resta, altrimenti diventa un membro e perde la propria qualità di forestiero, straniero, altro, pellegrino: l’ospitalità è un rito di passaggio, il dono temporaneo di uno spazio.

Praticare così l’ospitalità, allora, porterà con sé un dono inatteso: quasi inavvertitamente finiremo per scoprire che facendo spazio all’altro nella nostra casa e nel nostro cuore, la sua presenza non ci sottrae spazio vitale ma allarga le nostre stanze e i nostri orizzonti, così come la sua partenza non lascerà un vuoto, ma dilaterà il nostro cuore fino a consentirgli di abbracciare il mondo intero.

Enzo Bianchi – OSPITARE – 12 Luglio 2012

LE CINQUE PAROLE DELLA MISSIONE – Enzo Bianchi

1. OSPITALITA’

Abramo disse: “Mio Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo” (18, 1-15) Quanto è difficile essere ospitali, trasformare l’estraneità in affinità, la distanza in prossimità. E quanto sono vicine l’ospitalità e l’ostilità, facilmente l’ospite (hospes) può trasformarsi in nemico (hostis). E’ facile che la stretta di mano che di per sé è segno di pace, si trasformi in un braccio di ferro. L’altro a volte ci sta stretto, sempre è un mistero conturbante. Eppure anche noi un giorno abbiamo fatto irruzione nella vita di altri e se siamo ancora al mondo è perché siamo stati ospitati e accolti per il fatto stesso di essere venuti all’esistenza e non certo perché lo meritavamo.

1. Mia è la terra, voi siete stranieri e ospiti (Lev 25,23)

Il popolo d’Israele ha sempre nutrito la convinzione che la terra è un dono dato all’uomo da Dio come residenza. L’uomo vive in una terra che è proprietà di Dio, appartiene a Lui. Ma questa è anche la verità della condizione umana: ciascuno di noi, in quanto venuto al mondo, è ospite della terra e dell’umanità, e soprattutto è ospite di Dio. Siamo di casa nella ‘casa’ il cui architetto e costruttore è Dio. L’apostolo Pietro, rileggendo la tradizione del primo testamento, qualifica i cristiani come “stranieri e pellegrini”(1Pt 2,11). La condizione dei cristiani è quella di persone che risiedono lontano dalla propria casa (stranieri) e a ridosso della casa altrui, la loro vocazione originaria è pertanto quella di muoversi verso gli altri (pellegrini). Per risiedere presso di sé, per trovare casa devono muoversi verso la casa di altri e farsi ospitare.

L’uomo, essendo un pellegrino, vive un’esistenza esposta, dipende dall’ospitalità dell’altro. Vivere questa condizione è alquanto faticoso. In primo luogo perché ci si sente troppo dipendenti dal gesto e dal cuore di un altro, poi perché si percepisce che il pellegrino è sempre visto come un estraneo. L’incontro con l’estraneità e la differenza può facilmente generare diffidenza e ostilità. Da qui la tentazione della chiusura e dell’immobilismo, la tendenza ad arroccarci e rintanarci in case-fortezza.

La fatica che si sperimenta nel dover dipendere dall’ospitalità, cioè dalla stima e dalla fiducia dell’altro, può portare a rifiutare l’ospitalità ad altri. Ma quando la persona sperimenta sulla sua pelle che quasi mai riesce a trovare una dimora sicura né nel suo corpo né nella sua anima, si accorge che è impossibile eliminare la tenda del pellegrino e che per essere fedeli a se stessi occorre ricevere e offrire ospitalità.

Accettare di essere ospiti e non padroni e vivere aperti all’ospitalità di chi bussa alla nostra porta sono esperienze che si sostengono reciprocamente. E’ per questo che nella parola ‘ospite’ si raccolgono due significati, la parola è infatti utilizzata sia per chi è ospitata sia per chi ospita, si riferisce sia all’atto di ricevere che a quello di offrire ospitalità.

2. Santità e ospitalità

La morte in croce di Gesù sancisce la fine di una santità senza ospitalità. Fino all’ora della sua morte la santità era interpretata come separazione dalle varie forme di impurità. La morte era la più grande impurità, ma tra tutte le morti, la crocifissione era la più lontana dalla santità, la contraddiceva totalmente. Con l’evento della morte in croce di Gesù, impurità assoluta, avviene un capovolgimento radicale: proprio in quell’Ora accade la rivelazione della santità stessa di Dio. Fino ad allora Dio per condividere la sua santità aveva separato il popolo eletto da ogni altro.

La santità si rivela soprattutto nella disposizione di un mondo ordinato, ordine che Dio attuava separando. Le mura del tempio separavano gli israeliti dai gentili, gli uomini dalle donne, i sacerdoti dal popolo. Al centro stava il Santo dei Santi, il luogo separato per eccellenza. Tutte queste separazioni, motivate dalla paura della contaminazione,implicavano delle ripetute esclusioni.

Lo spazio per l’ospitalità si faceva sempre più stretto. Gesù, fin dall’inizio del suo ministero, si pone al di qua della purità religiosa del giudaismo che, come appena accennato, consisteva in una purezza raggiunta per via di separazione di ogni estraneità e perciò di esclusione di ogni forma di alterità e di differenza. Gesù opera una radicale ‘inversione di sguardo’. Il suo è uno sguardo di ammirazione per ciò che avviene nell’altro, chiunque sia, anche oltre i confini di Israele.

Gesù tocca i lebbrosi che erano gli impuri e perciò gli esclusi per eccellenza, tocca e risolleva la figlia morta di Giairo, mangia e beve con prostitute e peccatori, si lascia toccare dalla donna peccatrice in casa di Simone. Gesù non compie questi inimmaginabili gesti di ospitalità perché intollerante della legge, ma perché desideroso di rivelare il vero volto della santità di Dio, una santità che non separa eliminando, ma che ospita trasformando.

Dio in Gesù rivendica tutto come suo (la terra è mia), anche ciò che fino ad allora era escluso e disprezzato. L’accesso a Gesù è facile, il suo infatti è uno sguardo libero da pregiudizi e ospitale rispetto ad ogni novità. Gesù in ogni incontro crea attorno a sé uno spazio di libertà, che rende possibile e benefica la relazione con Lui. La sua presenza di prossimità nasce dall’opera di distanza che egli sa compiere nei confronti di se stesso. Distanza da sé e disappropriazione di sé sono condizioni indispensabili per lasciare in sé un posto libero per l’altro.

Ritirarsi prima di occupare tutta la scena, rende facile e favorevole l’accesso. “Figlia mia, la tua fede ti ha salvata” (Mc 5,34): neppure della fede Gesù si attribuisce l’origine, non si appropria di nulla di ciò che egli stesso accende nell’altro. Il suo stile di vita è stato quotidianamente connotato da una ospitalità ‘aperta’, un’apertura mantenuta fino alla fine e spinta fin dentro l’opposizione e il rifiuto.

Per non rifiutare nessuno, Gesù assume il rifiuto che lo conduce alla morte e alla morte di croce. E’ proprio qui che avviene il capovolgimento: Gesù giunge ad abbracciare e ospitare ogni forma di distanza dalla santità di Dio. Da questo momento in poi la forma della santità di Dio assume il volto di una ospitalità senza confini. Nella Gerusalemme nuova, nulla è maledetto ed escluso, tutto è accolto e trasformato. (Ap 22,3)

3. Per una liturgia ospitale

Risulta singolare come l’esperienza liturgica, che implica sempre una ‘differenza’ di luoghi e di tempi rispetto all’ordinario svolgersi della vita quotidiana, risulti alla fine all’origine di un legame con essa più accessibile e ospitale. Si può notare una certa analogia con la vita monastica che appunto si svolge in un forma di vita ‘separata’ dal mondo ma che alla fine si dimostra la più aperta e implicata nella sua trasformazione. Nella regola di san Benedetto si legge: “Gli ospiti in monastero non manchino mai”.

Un luogo di ‘separazione’ non può concepirsi senza una larga e assidua presenza dell’ospite. Quale il motivo? Una cosa è evidente: liturgia e vita monastica vivono, con l’assiduità dettata dalla preghiera oraria, quella forma di relazione con l’umano che suona come un ripetuto invito a riconoscere e cantare l’origine gratuita di ogni dono e di ogni relazione. La preghiera di lode e di intercessione scavano infatti al centro della persona uno sazio ospitale al dono dell’Origine santa. E lo spazio offerto a Dio anziché rubare spazio all’uomo, lo libera e lo istituisce.

In particolare la preghiera dei Salmi, in cui tutto l’umano –dal grido del dolore a ogni forma di desiderio del cuore- è accolto e ospitato da Dio, plasma nell’orante l’attitudine ad ospitare l’altro in modo altrettanto disarmato e aperto. Ma anche la forma rituale concorre a liberare spazi e tempi ‘ospitali’. A condizione però che se ne custodisca la ‘semplicità e l’innocenza’.

La liturgia è semplice senza essere semplicista: non insegue risultati speciali, è efficace senza essere efficiente, non è il ‘dunque conclusivo’ di ragionamenti elevati e di complicati presupposti, è già predisposta e non richiede troppe predisposizioni, è ricca di promesse senza richiedere troppe premesse. Non esige la perfezione, non pretende che uno conosca tutto o sappia fare tutto. La sua perfezione si dà nella relazione fiduciosa e abbandonata e nella partecipazione.

Il rito ospita volentieri la differenza e non ha paura della fragilità. Chi partecipa al rito incontra il sano e l’ammalato, il dotto e l’analfabeta, l’anziano e il fanciullo, incontra appunto la differenza di età, di cultura, di spiritualità , scopre che la Voce che ha lo ha invitato ha raggiunto persone che non sarebbero mai state raggiunte e per tutti c’è un posto. La semplicità della liturgia ha il carattere di grazia ospitale. Ma perché possa essere mantenuta, occorre custodirne l’innocenza: alla liturgia non si deve chiedere nulla di più di quanto essa ci doni.

4. Chi pratica l’ospitalità accoglie angeli

“ Non trascurare l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo” (Ebrei 13,2). Il riferimento è certamente all’esperienza in cui Abramo accogliendo presso le querce di Mamre tre uomini stranieri, ha ricevuto la visita di Dio (Gn 18,1-16). Ha dato ospitalità a Dio perché pronto nell’ospitare uomini. La pratica dell’ospitalità apre sempre ad una rivelazione: chi ospita si espone all’incontro con una parola che viene da altrove. Per questo l’ospitalità non può essere limitata a coloro che noi stessi invitiamo.

L’invitato è uno che scegliamo noi di venire a casa nostra, nel migliore dei casi è uno che desideriamo far rientrare nel gruppo dei già conosciuti, è una nuova presenza ma frutto di una nostra attenta e scrupolosa valutazione.

L’ospite è invece colui che si presenta, non scelto, davanti a noi; è colui che giunge a noi portato semplicemente dagli avvenimenti. E’ la presenza di uno che chiede di essere accolto nella sua novità che all’inizio si presenta semplicemente e solo come ‘diversità’.

L’ospitalità è accoglienza senza valutazioni ‘previe’, non è il risultato di una analisi accurata delle predisposizioni dell’altro. Ospitare è precedere l’altro nelle buone disposizioni, è offrire i presupposti che rendono l’altro ‘ospitabile’, è accettare l’altro per il fatto stesso che è arrivato nella nostra casa. Anche noi un giorno siamo stati ospitati e accolti con ogni premura senza offrire nessun presupposto se non il fatto di essere venuti all’esistenza.

L’ospitalità rende umano chi la esercita: quando si crea un posto per l’altro il cuore si allarga, quando si dà tempo all’altro i nostri giorni si caricano di un futuro promettente. Ospitare è dire di sì alla propria umanità accogliendo l’umanità dell’altro. “L’ospitalità è un dono. Dono a chi è ospitato e dono a chi ospita.

Praticare l’ospitalità porta con sé un dono inatteso: quasi inavvertitamente finiremo per scoprire che facendo spazio all’altro nella nostra casa e nel nostro cuore, la sua presenza non ci sottrae spazio vitale, ma allarga le nostre stanze e i nostri orizzonti, così come la sua partenza non lascerà un vuoto ma dilaterà il nostro cuore fine a consentirgli di abbracciare il mondo intero” . (E. Bianchi, Ero straniero e mi avete ospitato, BUR, 2009, 107).

L’OSPITALITA’ DEI FATEBENEFRATELLI VERSO IL 2000 – Pierluigi Marchesi o.h.

Carissimi confratelli, con questo documento, dal titolo «L’ospitalità dei Fatebenefratelli verso il 2000», intendo continuare il cammino iniziato con le precedenti riflessioni: «Le basi del rinnovamento» e «L’umanizzazione». 

PRESENTAZIONE

Rinnovamento, fonte di consolazione

 

l. La prima riflessione nasceva dal profondo bisogno di cambiamento interiore avvertito da tutti come urgente per mantenere profeticamente orientata la nostra vita spirituale. In quel documento era chiaramente espressa la finalità di rinnovarsi continuamente in modo da non perdere i contatti con Dio, la Chiesa e San Giovanni di Dio. Il nostro rinnovamento è così diventato qualcosa di tangibile, fonte di autentica consolazione.

 

2. Nel secondo documento, con l’apporto prezioso del Consiglio Generale, ho cercato di richiamare l’attenzione di tutto l’Ordine e dei collaboratori laici sullo scopo ultimo della nostra azione: il rapporto, umano e umanizzante, con il malato; rapporto basato sulla consapevolezza che la testimonianza del nostro carisma non si realizza se si perde di vista la figura centrale del nostro operare quotidiano, cioè il bisognoso, l’uomo che soffre, il povero: il nostro «essere» e «fare» per lui, il nostro rapporto con lui personale, oltre che professionale, rappresentano infatti un fattore terapeutico e allo stesso tempo una testimonianza di amore misericordioso, una riedizione vivente dell’amore di Cristo nel nostro tempo e della sua passione per i più bisognosi.

 

3. Il presente documento, che trae ispirazione dai fermenti che le Province dell’Ordine esprimono, si colloca dunque idealmente a metà strada tra i primi due in quanto cerca di colmare lo spazio esistente tra la nostra dimensione interiore di persone e di religiosi e l’atteggiamento di umanità che il malato oggi si aspetta da noi con sempre maggiore insistenza.

 

Porre mano al nostro futuro non per paura, ma per amore

 

4. Sono pagine, queste, scritte guardando al 2000, con quel senso del futuro che noi dobbiamo coltivare per offrire ai bisognosi di oggi e di domani l’essenza del nostro carisma specifico: l’Ospitalità. Si tratta allora di rafforzare la nostra identità di uomini, di religiosi, di operatori nel mondo della salute non solo per mantenere viva la nostra istituzione, ma soprattutto per proiettarla nel futuro, in modo da rispondere adeguatamente alle esigenze della società in cui siamo e saremo chiamati ad operare, avendo di mira il bene supremo della vita umana, alla quale sempre meno ci si riferisce secondo principi di rispetto, di attenzione, di premura e di conforto. Inoltre, queste pagine contengono più di una provocazione affinché, con il supporto delle nuove Costituzioni, ognuno di noi si senta spinto ad assumere con coraggio ruoli e compiti più congeniali alla nostra peculiare caratteristica di religiosi «ospitanti».

 

5. Nel continuare il dialogo con i confratelli, non pretendo di fissare tali ruoli, piuttosto miro a stimolare (ove occorra, in maniera radicale) l’analisi critica dei nostri comportamenti, delle nostre collocazioni professionali, del nostro rapporto con la comunità in cui l’obbedienza ci ha destinati, con le comunità delle singole province e con il Governo centrale dell’Ordine; senza ovviamente trascurare il rapporto con i collaboratori laici e con le complesse realtà in cui siamo immersi. E ciò con spirito di fiducia, in una prospettiva di creatività dettata dall’amore del prossimo, non dalla paura del futuro.

 

6. Ho cercato di dialogare con voi come chi ha bisogno di reciprocità nel confronto delle opinioni, in un’atmosfera di confidenza. Con tale animo vorrei ci preparassimo ad affrontare, sinceramente e gioiosamente la ricerca, mai esaurita in noi stessi, del modo migliore di essere e di agire; ricerca non fine a se stessa, ma orientata alla valorizzazione ottimale di quel voto di Ospitalità che ci costringe a pensare, sperimentare, comunicare fra di noi tutto ciò che serve per realizzarlo nel modo più completo. In altre parole, ad ad ammalarci della malattia dell’uomo, nostro fratello.

7. La domanda di fondo è questa: come il Fatebenefratello può prepararsi a svolgere, in vista del 2000, la missione misteriosa e storica di accogliere l’uomo ‑in particolare l’uomo bisognoso– di questa società?

Qui chiamiamo in causa i nostri «giacimenti» interiori, le nostre Costituzioni, le nostre abitudini professionali e religiose e la nostra fantasia per inventare, attingendo al tesoro delle nostre tradizioni, le soluzioni adatte ai tempi, per riscoprire quei compiti di «servizio» (non di potere, di prestigio o di pura e semplice realizzazione personale) che soli ci consentono di chiamarci Fatebenefratelli, ovvero fratelli che si preoccupano di fare del bene al prossimo.

8. Il buon esito della ricerca dipende da noi, dall’impegno che porremo nel guardare avanti senza negare il presente o il passato, accettando il gravoso ma esaltante compito di interrogarci in modo schietto e sincero su ciò che stiamo facendo e dovremo fare per essere coerenti con la nostra identità di uomini e di religiosi.

Sono fermamente convinto che il raggiungimento del nostro fine specifico (testimoniare l’amore misericordioso) richieda una serie di impegni che sono sovente gravosi e scomodi, ma che d’altra parte ci danno la misura dello spazio che si apre ai Fatebenefratelli nel mondo contemporaneo, soprattutto in quello industrializzato e tecnologizzato. Un campo smisurato ‑contrariamente a quanto alcuni pensano‑ che, se addirittura a volte ci spaventa, ci fa però toccare con mano l’attualità, anzi l’urgenza del nostro carisma e della nostra Istituzione.

 

9. Cari confratelli, come vostro Generale avverto in certi momenti le incognite del presente: non perché ci sia poco da fare, ma perché non siamo sempre adeguatamente preparati a dare le risposte che la Chiesa si aspetta da noi. Mi preoccupa il nostro star fermi, il nostro ripiegarci talvolta su posizioni di comodo, di sicurezza o di malintesa rassegnazione. Eppure sappiamo che il messaggio evangelico mantiene intatta la sua forza suscitatrice, la sua capacità di infiammare anime generose. E mai come oggi l’uomo ci interpella, chiedendoci di occuparci della sua persona, di stare al suo fianco per testimoniargli qualcosa che è tipico del nostro essere religiosi, cioè la capacità di «ammalarci della sua malattia», di identificarci non solo coi suoi bisogni, ma soprattutto con le sue motivazioni esistenziali, col suo desiderio inappagato di felicità (e quindi di Dio). Oltre al tetto di un ospedale e alla nostra professionalità ‑che non devono mancare ai livelli più dignitosi‑ questo dobbiamo saper dare al malato: se non lo faremo, lo deluderemo definitivamente e irrimediabilmente.

 

I nostri ruoli, i nostri compiti, la nostra passione verso l’uomo, le nostre tentazioni

 

10. Nel tentativo di mettere in luce i ruoli e i compiti mediante i quali realizzare nel prossimo futuro l’Ospitalità dei Fatebenefratelli, possiamo individuare due tentazioni ricorrenti. La prima è quella di ritagliarci un posto, una nicchia, nella quale svolgere un mestiere o una professione, magari in competizione con i confratelli o (soprattutto) con i laici. La seconda, più sottile e maligna, ci spinge a delegare al numeroso esercito dei nostri preziosi collaboratori laici i compiti di assistenza al malato, a prendere cioè le distanze dalle vicissitudini del nostro assistito. Questa tentazione è molto più evidente là dove i progressi delle scienze e delle tecniche hanno raggiunto livelli elevati, oppure dove, per ragioni di buon funzionamento del complesso sistema delle nostre opere, il processo di delega e di razionalizzazione dei ruoli è indispensabile. Ma ove delegare significasse abbandonare le strutture a se stesse o addirittura abbandonare il malato, allora dovremmo rivedere con estrema chiarezza i nostri modelli di comportamento, per impedire che i mutamenti organizzativi e tecnologici si trasformino per il malato nella trappola dell’anonimato, della efficienza pura e semplice, condannandolo all’isolamento-abbandono in ambienti certamente razionali, ma freddi e scostati dal punto di vista umano.

 

11. Non è certo questo che ci proponemmo di realizzare nel giorno della nostra solenne professione, emettendo il voto della Ospitalità. Nessuna garanzia ci fu sottoscritta allora circa la sicurezza del posto di lavoro né circa il controllo a distanza del malato e dei nostri collaboratori. Abbiamo promesso fedeltà al nostro carisma che ci obbliga a mutare gli atti, i ruoli, gli atteggiamenti, le strutture, ma non a rinunciare alla passione verso i nostri assistiti, verso i familiari del malato, verso i collaboratori, nonché all’impegno per le iniziative culturali, formative, religiose e sociali atte a favorire la crescita personale, religiosa, professionale in noi, nei nostri collaboratori e nel mondo della sanità.

Come Padre Generale –lo ripeto– non ho la ricetta per definire i ruoli presenti e futuri, anche perché questi si possono precisare solo mediante un attento esame di noi stessi, alla luce dei fini ultimi del carisma ospedaliero. Ma tutti noi dobbiamo dedicare tempo e impegno per una verifica dei nostri attuali comportamenti.

 

12. Ho parlato di due principali tentazioni. Ma ce ne sono altre. Quella, ad esempio di mantenere o di desiderare incarichi per i quali non possediamo la competenza; o quella di puntare ad un alto livello organizzativo e tecnologico dei nostri ospedali non avendo sempre ben chiari i nostri fini specifici. La gente ci guarda con occhio attento, ci scruta, vuol capire per quale motivo ci siamo fatti religiosi. Non sempre riusciamo a dar loro una risposta convincente. Talvolta non siamo esemplari perché eseguiamo male i nostri compiti, facciamo solo le cose che ci piacciono, blocchiamo la crescita dei collaboratori, oppure restiamo lontani dal malato, ci chiudiamo in ruoli rigidi e ripetitivi, cerchiamo «fuori» spazi che, dovremmo trovare «dentro» o evitiamo l’arduo ma necessario lavoro di ricerca di ruoli più utili al malato. Siamo più spesso capaci di cogliere il male del mondo (a volte lo troviamo anche nel progresso, in cose di per sé neutre o buone) che di individuarlo dentro di noi, non già per deprimerci o per colpevolizzarci, ma per risollevarci dal torpore e dalle abitudini dannose.

 

13. Nessuno ovviamente nasce santo. Il cammino della perfezione spirituale è esaltante ma lungo, faticoso, costellato di deviazioni che toccano la nostra realizzazione umana, professionale e religiosa. Occorre correggere tali deviazioni e riconoscere i propri errori, da uomini forti, coraggiosi, autenticamente aperti al mistero. Questo atteggiamento di sana autocritica ci spinge da un lato ad attingere alle nostre risorse, dall’altro a chiedere aiuto a tutti, a Dio e agli uomini che ci sono vicini, per riequilibrare il rapporto col mondo che noi vogliamo e dobbiamo servire, per crescere nella nostra vera identità.

 

 

I. IL CAMBIAMENTO DEL MONDO E LA NOSTRA CECITÀ

 

Un paradosso: non fare niente

14.             Cito da un noto volume di padre Bartolomeo Sorge «Il futuro della vita religiosa»: «La crisi attuale della vita religiosa ‑come del resto la crisi più generale che la Chiesa attraversa‑ non è nata dall’interno, come era avvenuto altre volte, ma è stata indotta dall’esterno, dal trapasso di cultura e di civiltà che il mondo sta vivendo…

La crisi è arrivata all’improvviso da una rapida trasformazione sociale e culturale… La nostra quindi non è una crisi da infermità, ma di sviluppo e di crescenza… In questi ultimi anni è finita una civiltà, un certo tipo di ideologia, sono cambiati totalmente i rapporti di autorità, si sono trasformati ruoli e strutture consolidati da decenni, modi di comunicazione e di esercizio del potere. L’uomo stesso ha un diverso atteggiamento verso il mondo, la storia, i propri simili, l’organizzazione del sapere, verso la vita stessa. Noi siamo stati travolti da questi mutamenti, il mondo sta diventando sempre più piccolo, più dinamico, più socializzato».

La diagnosi è fedele. E noi ci troviamo sovente costretti a decidere in un clima di delusione perché non siamo riusciti a collegare il vecchio col nuovo, coi bisogni emergenti, con la sete di libertà, di conoscenza e di solidarietà di molti strati della nostra popolazione.

 

15. Il mondo odierno non è né migliore né peggiore di quello di ieri: è solo cambiato, persino sconvolto. Se lo vogliamo servire, è questo mondo che dobbiamo assumere e conoscere. In fondo la crisi è salutare poiché ci permette di salvare ciò che va salvato e di gettar via ciò che va scartato. Ma abbandonare vecchi ruoli è tanto più difficile quanto più essi hanno preso posto nel nostro essere, impoverendo la nostra personalità e la nostra dimensione di religiosi, cioè le sue radici dei nostri modi d’agire.

 

16. Gettare il vecchio però non significa correr dietro alle mode. Occorrono discernimento ed equilibrio, perché può nascere una situazione di incertezza: ci si chiede infatti se dobbiamo andar tutti in missione, intraprendere iniziative che facciano colpo sulla società, o divenire tutti animatori magari senza sapere di che cosa, di chi, come e perché. Spesso non troviamo la risposta ai nostri interrogativi. La prima cosa da fare, quando ci troviamo in questa condizione di smarrimento, o peggio ancora di rassegnazione o di apatia, paradossalmente è proprio quella di «rinunciare a fare ». Ovvero sia: prima di agire e di assumere nuovi ruoli, dobbiamo fermarci per riflettere a lungo sulle nostre paure, sui nostri desideri, sulle nostre possibilità, sui motivi per i quali ci siamo fatti religiosi, sugli insegnamenti del nostro Fondatore e della Chiesa, sulle esperienze dei credenti laici. Fermarci per interiorizzare, per «rientrare in noi stessi» secondo l’indicazione di S. Agostino.

 

Abbattere i campanili o comprenderne meglio il senso?

 

17. Il documento sulla «Umanizzazione» incoraggiava a recuperare la «personalizzazione» del rapporto con l’assistito in un contesto sociale profondamente mutato.

La storia del nostro Ordine si identifica con l’immagine di S. Giovanni di Dio e dei suoi seguaci che si prendono sulle spalle il malato, il derelitto, il bisognoso. Per secoli i nostri predecessori hanno assistito, e in prima persona, chi si trovava nella sofferenza. Allora non esistevano altre strutture di soccorso: l’Ospedale religioso era una «sicurezza», perché vi si ottenevano un tetto, cibo, cure e assistenza. Oggi ci troviamo di fronte a una situazione profondamente cambiata, che si caratterizza ‑come accennavo prima‑ per l’affievolirsi del rapporto diretto ed esclusivo col malato. Se pensiamo a come era un nostro Ospedale appena 40 anni fa, vengono subito alla memoria i malati (tanti e riconoscenti) quasi timorosi di chiedere il nostro intervento; comunità di religiosi dal numero oggi impensabile, con i confratelli impegnati nelle mansioni più varie: farmacista, cuoco, infermiere giardiniere. Somigliavano, le nostre opere, ai villaggi di un tempo, autosufficienti grazie ai ruoli ben distribuiti. I medici erano scarsi, ma la gente si fidava di noi: interi reparti erano gestiti da noi o da religiose. Il mondo dell’Ospedale, diciamolo, era nelle nostre mani. Il personale esterno aveva sì un proprio ruolo, ma subalterno e non interferiva nella nostra attività. Il mondo della sofferenza e della miseria era quasi completamente staccato dalla comunità civile; e in questo mondo molti di noi si sono formati da giovani, lavorando duramente, in condizioni di estrema precarietà di mezzi, ma con la grande soddisfazione di toccare, «odorare», sentire ogni giorno il malato, dal quale nessuna barriera li separava.

 

18. Così accadeva per altre categorie professionali. Pensiamo al medico di quegli anni. Era un professionista di prestigio, dotato di un ascendente sulle famiglie impensabile al giorno d’oggi; tant’è vero che c’è della nostalgia per quel tipo di medico, che esercitava il suo ruolo senza filtri, con l’aiuto semmai di qualche specialista. La gioia e la sofferenza della famiglia assistita erano le sue, in un clima di profonda fiducia e di reciproca comunicazione. Così era anche per il parroco, la cui autorità era indiscussa: deteneva il sapere religioso, spesso la cultura più avanzata, e non era quasi mai messo in discussione nel suo ambito di apostolato. Il campanile, a fianco della chiesa, chiamava i fedeli alle sacre funzioni, ritmava gli eventi gioiosi e tristi del villaggio… fungeva da parafulmine, da osservatorio, era in ogni caso un sicuro punto di riferimento.

 

19. I tempi oggi sono cambiati. Dovremo allora abbattere i campanili perché oggi la gente ha l’orologio al polso? Oppure dobbiamo toglierci gli orologi per permettere al campanile di continuare a svolgere le antiche funzioni?

Non è questa la domanda che dobbiamo porci. Chiediamoci piuttosto quale sia il ruolo autentico del campanile, quello per il quale l’uomo di fede l’ha eretto accanto alla chiesa: farsi vedere da lontano, più che farsi sentire. Il campanile esprime il desiderio dell’uomo di unire la terra al cielo, l’uomo a Dio, la natura al Creatore. È per l’uomo il più originale richiamo, alla sua origine, al suo destino, a Colui che è nei cieli. Anche se non è più l’edificio più alto, sorpassato com’è spesso da orgogliosi grattacieli, esso rimane e rimarrà sempre simbolo di un annuncio, di una presenza che rimanda alla «Presenza».

 

 

Stare in ascolto dell’uomo

 

20.             Per tornare a noi, cari confratelli, è vero che abbiamo seguito in parallelo il destino del medico, del prete e del campanile, perdendo numerose funzioni che qualche anno fa ci sembravano indispensabili, ma ciò non significa che dobbiamo scomparire. Noi possiamo, anzi dobbiamo vivere e testimoniare il nostro carisma, con modalità diverse rispetto al passato. Il medico, il prete, il campanile hanno ancora molto da dire e da fare, purché esprimano qualcosa di perenne e di fondamentale per l’umanità, cioè il valore della sacralità dell’uomo. Dice Giovanni Paolo II: «È la disponibilità a servire l’uomo che ci apre verso Dio e verso gli uomini, verso il Creatore e verso le creature. Il Concilio ci insegna proprio questo, nello spirito del Vangelo e insieme nella dimensione dei tempi in cui viviamo» (21 ottobre 1985).

 

21. Nel nostro tempo, e ancor più nel futuro, i nostri compiti saranno sottoposti a verifiche e a mutamenti anche radicali. Ma resterà l’essenza del carisma. Il compito più congeniale a noi e più gratificante è quello di stare vicino al malato e di assisterlo, con una vigilanza intensa e diretta. Ciò va ancora oggi assicurato al malato, nello spirito del nostro Fondatore: solo che questa assistenza, che noi chiamiamo integrata, non può più essere svolta compiutamente da singole persone, mediante il ricorso a singole professioni. Il concetto stesso di assistenza integrale ed integrata richiama una pluralità di funzioni perché, col passare dei secoli, dai bisogni elementari dell’uomo si è passati a bisogni molto più articolati, esigenti uno stragrande numero di risposte, e quindi di figure professionali. Il risultato è che noi non abbiamo più l’esclusiva del malato, né il diritto di imporgli dall’esterno la nostra concezione religiosa della vita. Ma c’è di più: il malato di oggi ha a sua disposizione una gamma di risposte terapeutiche ed assistenziali impensabili fino qualche decennio fa. In alcuni Fatebenefratelli questo progresso ha generato delle frustrazioni, addirittura la sensazione di sentirsi inutili. È doloroso constatare come alcuni di noi reputino non più interessante lavorare con l’uomo di oggi, come se quest’uomo fosse meno angosciato, meno solo, meno bisognoso, meno meritevole del nostro impegno che quello di ieri. Al contrario, arrivo a dire che anche se il Fatebenefratello dovesse abdicare a tutti i suoi compiti professionali, egli svolgerebbe ugualmente con la sua presenza, la sua bontà e letizia e con il suo stile di vita la propria missione, testimoniando la sacralità dell’uomo e l’amore di Dio per l’uomo, secondo il suo carisma specifico, nelle forme adeguate ai tempi.

 

22. Ha detto recentemente Giovanni Paolo II: «San Tommaso, commentando il trattato aristotelico sull’anima afferma nettamente: l’uomo è totalità dell’essere (De Anima, III, Lez. 13), racchiude in sé un’infinita profondità dell’essere, immagine dell’Infinito per essenza che è Dio stesso. Vorrei imprimere profondamente nell’anima e nel cuore di tutti questa grandiosa concezione dell’uomo, pensando alla quale fin dal primo giorno del mio ministero pontificale ho esclamato: con quale venerazione dobbiamo pronunciare questa parola: uomo».

E non è, il nostro, il tempo dell’attenzione, dell’ascolto, del rispetto, della promozione della libertà degli uomini, della loro identità, delle loro motivazioni?

 

23. Star vicino al malato di oggi richiede comportamenti tecnici, morali, umani, sociali, religiosi che nessuno di noi può svolgere da solo. Ciò implica una nostra crescita, vorrei dire una dilatazione, nel nostro modo di vivere, di operare, di servire il mondo: è l’uomo che si rivolge a noi, per chiederci qualcosa di più, quel qualcosa che ha modificato totalmente non solo i nostri ospedali, ma anche la quantità e la qualità dei collaboratori laici. Questo stesso uomo ci costringe a delegare compiti, a lavorare in gruppo, a studiare, ad approfondire, a uscire dalla routine, dai nostri schemi mentali. Egli non ci chiede di essere più bravi come infermieri, come amministratori, ma ci chiede di essere attenti totalmente disponibili ad «ospitare» la sua intera umanità, la persona nel suo insieme, a capire e saziare la sua sete di premura, perché mai come oggi l’uomo ‑ricco di soldi‑ è povero di rapporti umani, sinceri, disinteressati.

Trasmettere il profumo della sacralità dell’uomo

24. Miei cari confratelli, quando sento alcuni di noi lamentarsi a causa della perdita del rapporto diretto ed esclusivo col malato mi domando cosa penserebbe il nostro Fondatore nel vedere il nostro malato seguito da più persone, fornito di medicine, di spazi decorosi, di strutture accoglienti… Certamente sarebbe soddisfatto constatando la presenza di tutto ciò che, in fondo, egli stesso già cercava secoli fa, quando bussava alle porte dei ricchi e dei potenti per ottenere aiuto da distribuire ai malati di allora bisognosi di tutto. Giovanni di Dio ci stimolerebbe però a identificare i diseredati di oggi negli handicappati, negli anziani, nei tossicodipendenti e nei poveri. Ed eventualmente ci rimprovererebbe non per il nostro essere meno vicini al malato, ma perché accanto ad una «vicinanza tecnica» talvolta non esiste in noi e nei nostri collaboratori che ruotano intorno al malato la «vicinanza umana». S. Giovanni di Dio ci ha lasciato in eredità la passione per il bisognoso, che si esprime non solo standogli vicino fisicamente, ma ispirando, sorreggendo, illuminando quanti (collaboratori laici, familiari ecc.) operano attorno a lui, perché a loro volta, con l’intelligenza del cuore oltre che della mente, sappiano testimoniare la speranza, la fiducia, l’amore verso il prossimo.

25. L’ospitalità del futuro potrà cambiare ancora molto, nelle sue forme esteriori, ma non dovrà mai venir meno la nostra capacità di testimoniare il messaggio evangelico dell’amore, definito nuovo dal Signore Gesù (cf. Gv 13, 34). La prima sua novità è l’unione dei due comandamenti. «La carità affonda le sue radici in una dedizione senza riserve a Dio: tutta la persona con le sue doti, i suoi progetti, le sue capacità operative deve affidarsi alla volontà di Dio, al progetto di amore che Dio ha sugli uomini. La manifestazione visibile e dinamica di questo affidamento è la dedizione a ogni uomo, considerato come un fratello, un prossimo, un altro se stesso» (Card. C.M. Martini).

Non si possono separare o ridurre i diversi aspetti di quell’atto unitario che è la carità. Se dovessimo privilegiare qualche nostra prospettiva ristretta, perderemmo di vista gli immensi orizzonti dischiusi dallo sguardo di Gesù.

 

26. La seconda novità del messaggio è la sorprendente e rivoluzionaria concezione del prossimo (cf. Lc 10,29‑37). Per Gesù Cristo il prossimo non è colui che ha già con noi rapporti di sangue, di affinità psicologica o di bisogni che noi possiamo soddisfare. Prossimo diventiamo noi stessi nell’atto in cui, davanti a un uomo ‑anche davanti al malato o al bisognoso che non si conosce‑ decidiamo di fare un passo che ci avvicina, ci «approssima» a Lui.

Perciò tutto consiste nel «farsi prossimo», come afferma il Cardinal Martini nella sua bella lettera pastorale (1985-1986). Il nostro Riccardo Pampuri non è ricordato perché strappava denti piuttosto che curare handicappati, ma perché ‑pur svolgendo lavori semplici ed umili‑ la sua persona emanava il profumo di Dio. Profumo che egli aveva saputo coltivare dentro di sé con lo studio, con la preghiera, la capacità di ascolto dell’uomo del suo tempo, nel luogo in cui viveva, mai dimenticandosi di essere prima di tutto un testimone, un portatore di luce, oltre che un operatore e un tecnico.

 

27. Miei cari confratelli, dal Pampuri impariamo la lezione che il primo e autentico nostro ruolo è quello di puntare alla nostra santificazione personale, indipendentemente dal fatto di esercitare questa o quella professione. Il ruolo professionale, se ci sarà, manifesterà e darà pienezza all’umanità della nostra persona. Se coltiveremo in noi ‑attraverso un lungo lavoro di elaborazione interiore‑ questa dimensione del divino e la diffonderemo intorno a noi per la salute dei nostri malati, riuscendo a «contagiare» dello stesso spirito i nostri collaboratori, i familiari e la gente che vive intorno alle nostre opere, allora avremo assolto il compito che ci spetta, quello di testimoni e quello di guide morali prima ancora che tecniche.

 

II. APRIRSI ALLO SPIRITO SANTO

 

28. «La nostra apertura allo Spirito, ai segni dei tempi e alle necessità degli uomini ci indicherà come dobbiamo incarnarlo creativamente in ogni momento e situazione».

La citazione tratta dalle nuove Costituzioni ci aiuta non solo a comprendere su quali basi compiere le nostre scelte di ruolo, ma anche a delinearne le conseguenze «pratiche» per essere aperti al Tempo, all’Uomo.

 

 

Aprirsi all’energia dello Spirito

 

29. Durante una meditazione, mi ha colpito il pensiero di uno psicanalista che annota: «Io sono sempre stato toccato, nella lettura della Bibbia, dalla figura dello Spirito Santo». Questo slancio, questa forza vitale ‑se vogliamo definirla così‑ è l’eredità lasciata da Cristo agli apostoli, è la vita trasmessa agli uomini dalla Vita stessa. Prima di riceverla, i discepoli hanno dovuto percorrere numerose tappe: una lunga dipendenza dal Maestro, accompagnata da tutta la gamma dei sentimenti umani (ammirazione, risentimento, gelosia, ecc … ); la caduta delle illusioni narcisistiche lungo il cammino, unita alla perdita della sicurezza del potere; la separazione finale, vissuta nei suoi aspetti dolorosi (la morte di Cristo) come in quelli esaltanti (la resurrezione e l’ascensione).

E solo alla fine di un simile percorso ‑mi preme sottolinearlo‑ che l’uomo si appropria di se stesso, diventa davvero persona, e riconosce la divinità «dentro» di sé sviluppando senza timore tutti i suoi talenti. «Tutti furono pieni di Spirito Santo e cominciarono ad esprimersi in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi»(At 2, 4).

 

30. Se dall’interessante approccio psicologico passiamo a quello biblico e teologico, la meditazione sullo Spirito si arricchisce a dismisura. Piace qui riportare un brano dell’eminente teologo Y.M.J. Corgar che, ormai al termine della sua vita, sembrò lasciarci in eredità per i nostri tempi la contemplazione dello Spirito.

«Oggi abbondano le testimonianze dei Padri, dei teologi, dei mistici, del concilio Vaticano II, che riconoscono una presenza attiva dello spirito nel mondo e nelle ricerche che lo travagliano. Questo non significa che tutto, in questa storia, venga dallo Spirito Santo. Il male vi ritaglia la sua parte. L’uomo resta “incurvatus in se”, incessantemente tentato di ripiegarsi su se stesso, di ricercarsi e farsi autosufficiente nella dimenticanza e nel disprezzo di Dio. Lo Spirito Santo, avvocato di Gesù e dei discepoli, è anche colui che “convince il mondo di peccato” (Gv 16, 9) e che anima la lotta contro la “carne “».

31. L’azione dello Spirito nella storia del nostro mondo mira a costituire un corpo di figli di Dio e un tempio di adorazione «in spirito e verità» che non può essere soltanto il corpo di Cristo (cf. Gv 2, 21).

Gli uomini, come i giudei e Salomone, e come i costruttori delle nostre cattedrali, hanno voluto esprimere simbolicamente tutto il cosmo materiale e umano nei loro templi. Il Corpo della comunione con Cristo ha certamente una sua forma visibile e designabile, la Chiesa; ma, come dice Paolo Evdokimov, se si può dire dove la Chiesa è, non si può dire dove essa non è. I limiti e i modi dell’Azione dello Spirito nel mondo ci sfuggono.

 

32. Cercando di precisare le ragioni che chiamano la Chiesa all’attività missionaria, il decreto conciliare «Ad Gentes» afferma che «finalmente si compie il disegno del Creatore, nell’aver fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza, quando tutti coloro che partecipano della natura umana, dopo essere stati rigenerati in Cristo mediante lo Spirito Santo, riflettendo insieme la gloria di Dio (cf. 2 Cor 3, 18) potranno dire: “Padre Nostro (n. 7‑3)”».

E il concetto viene documentato con molte citazioni dei Padri della Chiesa, tra i quali la seguente di sant’Ippolito: «Egli non rifiuta nessuno dei suoi servitori… volendo e desiderando salvare tutti, volendo rendere tutti dei figli di Dio, e chiamando tutti i santi a costituire un solo uomo perfetto. C’è infatti un solo Figlio (Servo) di Dio: per mezzo suo noi otteniamo pure la rigenerazione (la nuova nascita) mediante lo Spirito Santo, aspirando a formare insieme un unico uomo celeste e perfetto».

È uno solo, in definitiva, colui che dice “Padre Nostro”. E noi, sua Chiesa, formiamo, in seno alla vastità del mondo, ciò che san Paolo chiama “le primizie”.

 

33. Noi conosciamo e invochiamo Cristo e lo Spirito. Abbiamo la Parola ispirata, i sacramenti, i ministeri istituiti. Se lo Spirito agisce al di là dei limiti visibili della Chiesa, questa è, per il mondo, il sacramento di Cristo e del suo Spirito.

Noi assumiamo questo vasto mondo nella nostra preghiera, rendendo gloria per lui al Padre mediante Cristo nello Spirito.

 

34. Lo Spirito, infatti, è colui che segretamente raccoglie e annota tutto ciò che, nel mondo, cerca di balbettare “Padre Nostro”. Questo è il senso che personalmente, diamo ogni giorno alla dossologia che termina l’Anafora e introduce il “Padre Nostro!”. Solo per mezzo suo noi gridiamo, e lui grida per noi, Abbà, Padre (Rm 8, 15; Gal 4, 6)». (Cit. da La parola e il soffio, Borla, Roma 1985, pp. 157-159).

35. Questi rapidi richiami all’azione dello Spirito del Signore approdano a una conclusione che mi sta a cuore: dobbiamo aprirci allo Spirito. Incessantemente e con urgenza. Essere spirituali non è una scelta facoltativa tra altre, ma è il nostro dover essere, il nostro destino.

Per una cultura dell’attenzione

 

36. Solo nello Spirito Santo siamo in grado di comprendere e assimilare il Vangelo –fondamento perenne del Cristianesimo– e il suo messaggio.

Ricorro ancora una volta a una citazione per chiarire il senso delle mie parole. G. Prezzolini, scettico, ma tormentato in pari tempo dalla ricerca di Dio tanto da essere indotto a una preziosa corrispondenza con Paolo VI, scrive: «Il Vangelo non contiene un messaggio sociale o politico… Il cristianesimo ricerca la trasformazione dell’uomo in nuovo Adamo: è, quello evangelico, un messaggio puramente interiore… Questi cristiani, questi viaggiatori passeggeri per il mondo, ma non appartenenti a questo mondo, devono occuparsi delle cose di questo mondo in modo da essere indifferenti alle loro forme. Ciò che temo oggi nei cambiamenti che la Chiesa giustamente si propone è che essa segua una linea politica… ossia la tendenza a seguire i più forti … ».

E ancora: «Ma un campo è rimasto alla Chiesa. Né la scienza né lo Stato hanno mai potuto toccarlo: il cuore umano che è inquieto… In questo campo, il quale non guarda ricchi o poveri, giovani o vecchi, maschi o femmine, schiavi o padroni, bianchi o neri, destri o sinistri, la Chiesa ha un potere assoluto sulle coscienze di tutti coloro che sentono la insoddisfazione dei beni terreni e non hanno il coraggio disperato di accettare il mondo arido, indifferente alla sorte dell’uomo, puro urto di forze senza alcun scopo… La Chiesa dovrebbe… ricordarsi… che vive per difendere valori contrari all’onore, alla ricchezza, alla potenza, al fasto, al piacere dei sensi, all’apatia, alla conquista… Ma nessun Stato e nessun partito mai si propose e ha la possibilità di scegliere e di fare degli uomini buoni: ecco il campo per la Chiesa… Un santo, un religioso caritatevole, un poeta ispirato dalla coscienza religiosa sono più importanti di molte affermazioni, riduzioni, modificazioni del culto, dell’abito, della dottrina ecclesiastica» (dall’«Ombra di Dio»).

 

37. Cari confratelli, la nostra apertura allo Spirito è cominciata quando noi, inquieti, abbiamo sentito insoddisfazione dei beni terreni e giudicato l’aridità del mondo e l’indifferenza verso il male come situazioni da modificare prima di tutto dentro di noi; così, toccati dal soffio dello Spirito, noi abbiamo incontrato S. Giovanni di Dio che ci ha invitati ad occuparci del cuore umano col nostro cuore aperto a Lui. Noi siamo in linea col Vangelo quando testimoniamo il valore-carità: non ci spinge altro che l’interesse per quanti, poveri nella carne e negli affetti, si rivolgono a noi. Noi, quando siamo aperti allo Spirito, siamo portatori più che della prestazione tecnica, di una cultura dell’attenzione verso l’animo umano, verso l’Io essenziale ed immortale, mediante l’accoglimento della persona nella sua interezza. Ma per mantenere questa apertura integrale all’uomo, dobbiamo ricercare la nostra continua trasformazione interiore. Questa è, del resto, la condizione necessaria di altre trasformazioni, riguardanti le nostre Comunità, le Province, le nostre opere, i rapporti con i collaboratori laici e i nostri stessi malati.

 

Il suono della Parola si fa eco nello Spirito

 

38. Questa dunque è la prima rivoluzione che noi dobbiamo fare. Essa ci eviterà di imbalsamare il Vangelo, il nostro Carisma, l’Uomo che soffre, il Tempo e il Mondo in cui viviamo. Ma essa richiede un impegno non ordinario, che ha il suo punto focale nell’ascolto della Parola unito alla totale contemplazione nello Spirito. Nel congiungere tra loro la Parola e lo Spirito, troveremo anche il senso unitario da dare alla nostra vita. Quando siamo disturbati nelle nostre abitudini e nella nostra sicurezza operativa, ci chiediamo quali sono le cose pratiche da fare dimenticando il primum movens di tutte le nostre azioni: lo Spirito, il soffio vitale che deve ispirarle.

 

39. Miei cari confratelli: ciò che noi realizzeremo in futuro, in termini di opere, di ruoli, di indirizzi, sarà esattamente in rapporto al posto e alla dimensione che daremo allo Spirito, cioè in definitiva alla nostra crescita personale, alla cura con cui sapremo evitare di perderci in attività poco produttive e non collegate rispetto al senso che noi vogliamo dare alla vita.

Noi abbiamo scelto di stare dalla parte di chi ama di amore non misurato, e accoglie il debole, l’indifeso, il trascurato; abbiamo scelto di vivere lunghi momenti di abbandono, di deserto, di meditazione, di preghiera non «routinizzata», per acquisire tale capacità di amore incondizionato. Il segreto della Parola attende di essere da noi scoperto: «Essa è la perla preziosa, il tesoro nascosto, per la cui conquista è necessario vendere tutto. Nell’ascoltazione silenziosa, la parola… affiora alla coscienza e vi accende l’irresistibile desiderio di ordinare sul suo ritmo, percepito come l’armonia del destino personale, la propria realtà. Senza il risveglio di questo desiderio, l’uomo è privo del suo passo, della sua qualità essenziale, e viene a perdersi negli smarrimenti dell’ambiente in cui vive. La preghiera evangelica è l’incontro, nel silenzio, del nostro mistero personale con quello divino, il ritrovamento della nostra verità in Dio…

La critica che la gente ci rivolge è una sola: ci occupiamo troppo del tempo, del mondo, e poco dello spirito, e perciò non siamo più distinguibili da qualsiasi collaboratore laico, quando non lo teniamo stretto col nostro guinzaglio. Noi che serviamo la vita, la creazione (cercando di liberarla dalle deformazioni della povertà, della malattia, dello scetticismo e della solitudine) dobbiamo possederla, la vita. Una vita completa che pulsa, corporea e spirituale, ricca e disponibile, capace di prestazioni umane e religiose utili all’altro, e non solo a noi stessi. Lo ripeterò fino all’esaurimento: la vita pratica, attiva, il nostro ruolo sono importanti ma non salveranno l’anima nostra e l’Ordine, se noi non impegneremo molto del nostro tempo per arricchire la vita interiore, per coltivare le nostre capacità di amore, nella ricerca dell’unione personale col principio della vita» (P.G. Vannucci O.S.M.)

 

40. Il nostro Ordine ha avuto in eredità una grande e preziosa cultura del lavoro: conosciamo tutti il valore e l’utilità del lavoro per il nostro equilibrio biopersonale. Oggi, la nostra attività ci sta spostando verso funzioni più manageriali, di guida: ci mette, se siamo capaci, nella condizioni di stabilire rapporti umani, oltre che professionali, che sono di grande aiuto alla nostra psiche e a quella dei malati. A volte in noi sono carenti il lavoro intellettuale e quello spirituale: se li trascuriamo, finiremo per svuotare di significato le nostre attività manuali e professionali.

 

Non mentire, non tradire

 

41. La mia vi sembrerà una provocazione; ma dobbiamo centrare di più la nostra giornata sulla coltivazione dello spirito e della persona, rivedendo in modo spregiudicato le nostre attuali mansioni, in modo da garantire attraverso di esse la realizzazione del nostro carisma. Infatti, come uomini è attraverso il lavoro che noi doniamo al mondo la nostra umanità e dimostriamo la nostra capacità di amore. Come religiosi dobbiamo esprimere al mondo indicazioni e anche critiche, se necessario; ma per far questo dobbiamo conoscere «gli impulsi della umanità attuale, per affermarli e per purificarli ». E dobbiamo ravvivare in noi la preghiera, portandola a un livello di maturità. Ciò è possibile se alla cultura del lavoro manuale e professionale sapremo affiancare quella dell’uomo e della nostra civiltà, oltre a quella fondamentale dello Spirito.

Solo a questa condizione le nostre comunità si animeranno e ciascun religioso, secondo le proprie esperienze ed attitudini, potrà capire il mondo nella sua autenticità, interpretare il profondo anelito dell’uomo a dare un senso alla vita, rifiutando ogni modello, secondo il famoso detto: imparare da tutti, ma non imitare nessuno. Anche noi dunque, in spirito di ricerca, di verità e amore, di autenticità e libertà, dobbiamo reinventare i nostri modelli di vita religiosa, operativa, comunitaria, sociale. Facciamo insieme questo lavoro evitando le tentazioni di ripetere moduli ormai sorpassati (che è mentire) o di imitare questo o quell’Ordine (che è tradire la coerenza con le nostre origini).

L’apertura allo Spirito nelle nostre comunità

 

42. Il nostro aprirsi allo Spirito –si è detto– presuppone un lavoro individuale di crescita umana, intellettuale, religiosa e una azione coerente nella realtà specifica delle nostre opere. La nostra crescita comincia dagli anni di noviziato assieme ai nostri confratelli, ai nostri collaboratori e ai malati, coi quali noi siamo (o dovremmo essere) in perenne comunione.

Comincia dunque nella comunità religiosa, che oggi ci dà forse più angustie che soddisfazioni. Questo era meno vero un tempo quando la comunità, come un grande grembo materno, ci proteggeva, ci dava sicurezza, pur mostrandosi molto severa in termini di prescrizioni, divieti, e persino di ostacoli alla nostra personale realizzazione. Oggi qualcosa è cambiato: la comunità dei religiosi non è più una entità totalizzante, c’è più spazio per le libertà personali, il ruolo gerarchico è vissuto in modo meno oppressivo. Tuttavia, persiste una certa delusione in tutti noi; ogni tanto ci aspettiamo che la comunità debba corrispondere meglio ai nostri bisogni, forse coltiviamo l’infantile desiderio di essere amati dagli altri, magari senza meritarlo, forse la nostra idea della comunità religiosa è rimasta bloccata a metà strada tra la nostalgia del passato (o il suo totale rifiuto) e la spinta ad aprirla allo Spirito oltre che a ciascuno dei nostri confratelli.

 

43. Credo che a noi tocchi reinventare le nostre comunità, che non ci vengono regalate da questa o quella Casa. Noi siamo rimasti vittime di un errore: quello di pretendere che l’amore sia un dono e non una conquista. È ben vero che nei primi anni della nostra vita, in famiglia e in convento, i nostri genitori, come i nostri superiori, ci hanno mostrato spesso un volto sorridente, benevolo, accogliente: in fondo ogni bambino deve ricevere l’amore gratuito degli adulti. Ma con il passare degli anni noi abbiamo sperimentato che amare ed essere amati è una cosa incredibilmente complessa, impegnativa, sempre meno spontanea, sempre in bilico, ricca di esperienze contraddittorie, quando non portatrice di vere e proprie sofferenze. La comunità si è trasformata prima o poi per ognuno di noi, in qualche modo, fonte di sofferenza. Possiamo sentirci imbarazzati ad ammettere la pesantezza, la quasi impossibilità di creare una comunità ricca di comprensione, di azione di fiducia. Ma abbiamo il dovere di cercare delle soluzioni. Nella comunità di oggi sono più evidenti i segni di logorio, di sfiducia, di incomprensione, anche perché è possibile più che in passato la fuga dalla comunità-comunione, in svariate forme: lavorando di più, frequentando gli studi, intraprendendo attività sociali, viaggiando, riunendosi a discutere, ecc…

 

44. In termini umani, la comunità potrebbe essere paragonata ad un gruppo che si costituisce per raggiungere una certa meta. Tipica è l’équipe professionale che ‑una volta realizzato l’obiettivo‑ si scioglie ed ognuno torna alle sue occupazioni. Noi siamo un gruppo anche in questo senso, ma non soltanto in questo. Anche noi ci mettiamo insieme per pregare, per lavorare, per studiare; ma ciò non fa ancora comunità-comunione: spesso, infatti, noi desideriamo la comunità ma allo stesso tempo la fuggiamo, forse per evitare dei rischi. Credo che ciò avvenga non per cattiveria, paura o scarso senso della religiosità, bensì per volontà di impedire lo schiacciamento dell’Io personale nella vita comunitaria, di evitare lo sfruttamento affettivo da parte di alcuni confratelli non sufficientemente maturi come persone e come religiosi; in altre parole, si è convinti che in comunità non sia possibile sviluppare se stessi, crescere come persone e come religiosi, e che in comunità avvenga soltanto l’impoverimento dell’Io e il suo sfruttamento.

 

45. Cari confratelli, tutto questo in parte è vero; quando in comunità non si ha la sensazione di essere rispettati, di camminare insieme pur nella diversità delle persone, allora si ritiene inutile parteciparvi.

Ma la comunità religiosa è qualcosa di più di un gruppo, in quanto i suoi membri stanno insieme nel nome di Qualcuno che li ha fatti incontrare per realizzare l’ideale di testimoniare il loro amore verso il prossimo. Questo ideale unisce persone con una forte identità personale e religiosa, interessate non ad elemosinare adulazioni e riconoscimenti, ma ad offrire la loro persona al dialogo reale con l’altro. Noi ‑come uomini, come cristiani e come religiosi‑ siamo chiamati alla comunione. Come afferma il Vaticano II, «la ragione più alta della dignità dell’uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio » (GS. 19). Non si tratta di una semplice attitudine umana al dialogo e alla disponibilità, bensì di un dono che ci è svelato e comunicato nella parola di Dio. La comunione è mistero, la cui partecipazione è offerta all’uomo; è «il progetto di Dio che si attua nella storia con l’annuncio della fede, fondato sulla comunione trinitaria» (CEI, Comunione e comunità, documento 1981 n. 16) ne segue che tanto la Chiesa nel suo essere comunità, quanto le comunità di Chiesa ‑come è la nostra comunità religiosa‑ sono sempre un’icona della Santissima Trinità, una manifestazione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. La comunione testimonia l’amore stesso di Dio, un amore puro ed esigente.

 

46. Cari confratelli, dobbiamo riconoscerci per quel che siamo, con le nostre luci e le nostre ombre, per ciò che vogliamo ottenere attraverso la nostra vita, e poi interrogarci se siamo «autentici», oltre che con noi stessi, anche con i nostri confratelli. Diversamente, la comunità non diventa comunione, luogo di crescita e di scambio, dove si incontrano persone vive, in carne e ossa, unite nella varietà dei caratteri, dei carismi e della formazione, per dialogare rispettandosi sempre, camminando insieme, sia pure con mansioni e compiti differenziati. La comunità non è il paradiso terrestre, ma un luogo necessario per la crescita di tutti attraverso l’incontro realmente fraterno nelle intenzioni e nelle forme, non accecato dalle illusioni o dai nostri desideri narcisistici.

 

47. L’incomprensione e il conflitto nelle comunità molto spesso manifestano il desiderio di uscire dalla immaturità, dal conformismo, dalla ipocrisia di certe riunioni celebrate solo per dovere e non perché funzionali alla nostra vita. Ma come possiamo parlare di amore se non possediamo la consapevolezza dei nostri e degli altrui limiti, se non ci rispettiamo e se non rispettiamo l’altro?

Siamo esseri umani, viviamo in comunità non per ripiegarci su noi stessi, ma per crescere con quanti tendono ai nostri stessi obiettivi.

 

48. La nostra principale preoccupazione deve quindi essere rivolta a questa non più eludibile situazione di malessere della comunità religiosa; situazione che va affrontata non rinforzando meccanismi illusori, bensì riscoprendo la passione originaria ed originale del crescere insieme mediante l’amore con cui ci ha amato Cristo (Gv 12, 14).

Noi possiamo dare in cambio il nostro impegno per crescere cristiani e religiosi sempre più autentici, indipendentemente dalle deviazioni e dagli errori inevitabili; con l’occhio dunque a noi stessi, e senza giudicare gli altri. Dice un poeta: «Giudicare una persona per la sua azione più meschina è come calcolare la potenza dell’oceano dalla sua leggera schiuma». Ben più autorevoli il Vangelo e San Paolo, di cui vi invito a leggere i toccanti richiami (cfr. Lc 6, 37-38; Gal 5, 13-15).

49. Da quanto ho detto, emerge l’importanza che assume per l’identità e l’efficacia del nostro carisma la formazione di comunità in cui operino persone autentiche, coscienti del fatto che tali comunità si costruiscono giorno per giorno entrandovi con le proprie energie e con le proprie debolezze, con la propria esperienza e col desiderio di restare uniti nel nome di Gesù, perché in tal caso Lui è presente (Matteo, 18, 20).

La nostra ospitalità potrà cambiare, nuove opere sorgeranno, altre potranno e dovranno estinguersi. Non è questo che preoccupa, bensì il fatto che protagoniste del futuro siano delle comunità davvero rinnovate.

III. APRIRSI AL TEMPO E ALL’UOMO

 

50. Se dovessi esprimervi compiutamente il mio pensiero su questo tema, ci vorrebbe bel altro spazio. I cambiamenti avvenuti in questi ultimi decenni nel campo della salute e, più in generale, in quelli dei bisogni e dei disagi dell’umanità, con innegabili progressi ma anche con imprevedibili arresti e cambi di rotta, sono talmente numerosi e sconvolgenti che richiederebbero una riflessione a sé. Qui possono bastare alcuni richiami, uniti a qualche proposta, che ci stimolino alle necessarie aperture al Tempo e all’Uomo senza mai abbandonare l’apertura (centrale) allo Spirito.

 

Un Tempo diverso, un Uomo diverso.

 

51. Una prima riflessione riguarda l’umanità di oggi: siamo tutti consapevoli che essa è stata colta di sorpresa dalla rapidità delle trasformazioni e dalle sollecitazioni che hanno interessato le ideologie, l’economia e la politica, provocando delle vere e proprie «rivoluzioni» all’interno dell’animo umano.

«Un mondo diverso invade il mondo conosciuto, e questo mondo è tanto imprevedibile da rendere le previsioni della vita ordinaria del tutto insignificanti. In questo mondo diverso c’è il mistero di tutti i fondamenti della vita». (B. Kristensen).

In questo mondo diverso nasce l’uomo diverso del nostro tempo, ancora una volta combattuto tra le esigenze divine e quelle del male, come ci insegna la storia. In questo mondo diverso noi dobbiamo-vogliamo vivere, noi dobbiamo-possiamo operare. Ma la nostra azione risulterà efficace solo se possederemo la forza interiore e la consapevolezza che l’umanità ha bisogno di testimoni della verità, di guide morali oltre che operative, dotate di coscienza critica, di anticipatori coraggiosi. Ce lo ricorda Paolo VI con ineguagliabile forza: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono testimoni. S. Pietro esprimeva bene ciò quando descriveva (1Pt 3,1) lo spettacolo di una vita rispettosa che conquistava senza bisogno di parole coloro che si rifiutano di credere alla Parola» (Evangelii nuntiandi, n. 41).

 

52. Questo impegno personale che fa progredire l’umanità, pone l’uomo del nostro tempo in una condizione nuova, forse la più nuova e sconvolgente dal suo apparire sulla faccia della terra: la solitudine, il trovarsi quotidianamente a confronto con realtà che lo manipolano e lo allontanano dal «centro» vitale dello spirito, da quel Dio di cui egli è stato creato «a immagine e somiglianza». Chi non riesce a raccogliere la sfida di questa solitudine, diventa preda delle mode del tempo, si immerge in attività frenetiche, si contorce, si disperde, offuscando la sua identità, perdendo definitiva la sua libertà.

 

Custodi e artefici del benessere della gente.

 

53. Oggi più di ieri sono dunque necessarie all’uomo la libertà di pensiero personale, la ricchezza del cuore ed una nuova e più coerente operatività.

E tutto questo che rapporto ha con la nostra vita di religiosi ospedalieri? Un rapporto strettissimo in quanto anche noi dobbiamo attingere molto maggiormente al nostro Io interiore, alla nostra libertà, alla forza dei nostri sentimenti se vogliamo operare in modo coerente a favore della umanità del nostro tempo.

In noi si è sovente alimentato un vizio mentale, anticristiano: l’abitudine a vivere con la malattia, il disagio, la sofferenza dei nostri pazienti ci ha fatto dimenticare il vero obiettivo che è quello di garantire loro, anche attraverso l’attività sanitaria in senso stretto, il massimo di benessere possibile. Noi non siamo solo distributori di farmaci, o riparatori di corpi, ma anche e soprattutto custodi e, per la nostra parte, artefici in molti casi del benessere della gente che si rivolge a noi carica di bisogni e motivazioni nuovi e persino sconvolgenti per noi, abituati ad una visione schematica e riduttiva nella nostra azione.

 

54. La nostra apertura al Tempo e all’Uomo ci deve coinvolgere non solo professionalmente, ma anche personalmente e culturalmente alla ricerca di questo Uomo di oggi, diverso da quello di ieri. È proprio da questo Uomo che noi vogliamo fuggire quando diciamo che nella ricca società capitalistica non c’è più spazio per i Fatebenefratelli. Come se essere ricchi equivalga ad avere la chiave della felicità, della salute, del benessere. Il benessere non va confuso con il ben-avere. Avvertiamo la grande tentazione di abbandonare a se stesso questo uomo occidentale che con grande sforzo cerca di emanciparsi dalla povertà, dalla superstizione, dalle tradizioni assurdamente vincolanti per trovare un suo nuovo equilibrio da proporre al resto dell’Umanità; e di abbandonarlo proprio mentre vive la vulnerabilità della sua condizione di ricercatore di nuove strade. Non è forse anch’egli figlio di Dio, chiamato alla salvezza, e spesso coinvolto nel dare aiuto ai fratelli che soffrono per mancanza di cibo, medicine, abitazioni?

 

55. L’odierno uomo tecnologico non ha certo risolto del tutto i suoi problemi: è più libero, più responsabile, più attivo, ma paga tutto questo con una maggiore fragilità dei legami affettivi, mentre la stessa innovazione tecnologica lo espone maggiormente ai rischi della disoccupazione, della mobilità lavorativa, della perdita del rango sociale, della solitudine e dell’anonimato soprattutto all’interno dei grandi agglomerati urbani. Paga in definitiva questo progresso con un diffuso malessere della persona che si manifesta nella ricerca frenetica di divertimento, di evasione, di psicofarmaci, per ritrovare un minimo di serenità.

 

56. Una delle aspirazioni prevalenti dell’uomo, almeno nella cultura occidentale ed industriale, è l’aspirazione alla autonomia, cioè ad una condizione in cui sempre meno condizionato dalla tradizione, egli possa fare esperienza di se stesso, vivere in pienezza le sue dimensioni, essere sempre più libero. Questa sete di autonomia, di verità su se stesso e sugli altri, in altre parole di autenticità, rappresenta, soprattutto per noi religiosi, l’aspetto più traumaticamente più duro da accettare. Siamo infatti portati a condannarlo anche perché il suo comportamento è accompagnato a volte da spinte amorali, da sete di piacere, da negazione del trascendente, da sconvolgimenti nei rapporti familiari e sociali. Tuttavia la spinta alla emancipazione, alla ricerca e alla assunzione di responsabilità personali da parte dell’uomo del nostro tempo non è solo espressione di ribellione, ma anche di autenticità, di impegno. Dopo secoli in cui pochi uomini potenti hanno dominato le coscienze e le espressioni delle masse, l’umanità cerca di configurarsi il proprio destino secondo modelli interni più che esterni: è ciò di per sé è un bene, non un male. L’uomo che vuole diventare libero, autentico, responsabile, cerca dentro di sé, oltre che fuori, le risorse principali per realizzarsi in queste direzioni. E non tollera molto facilmente le imposizioni, i codici morali astratti e non sufficientemente motivati, i ceppi della consuetudine e della tradizione.

Nello stesso tempo, l’esercizio della propria autonomia lo espone inevitabilmente ad errori e deviazioni, a momenti di angoscia nonostante le conquiste ottenute sul piano materiale. E questo perché l’uomo non è solo ciò che ha ma è soprattutto ciò che è.

 

57. Dice un proverbio cinese: «l’uomo ricco ha sempre paura». E ne ha soprattutto quando si ammala. Forse l’uomo maggiormente in crisi oggi è quello che entra nei nostri ospedali. Da questa crisi egli può risorgere, col nostro aiuto e quello di Dio, a una vita nuova, più integrata, più orientata al bene della famiglia e dei fratelli, più cristiana ed umana.

Mi viene in mente il pensiero di un noto sacerdote-scrittore, don Pronzato, a proposito della parabola del seminatore: «Il seminatore non sceglie il terreno, non decide quale è il terreno buono e quello sfavorevole, quello adatto e quello meno adatto, quello da cui ci si può aspettare qualcosa e quello per cui non vale la pena di darsi da fare. Il terreno si rivela per quello che è dopo la semina, non prima. Se tutti gli annunciatori della Parola ricordassero questo… Il nostro compito non sta nel classificare i vari tipi di terreno, nel tracciare la mappa delle possibilità (una tentazione sempre presente). Noi dobbiamo mettere alla prova tutti i terreni. Dobbiamo rischiare la parola dovunque. Vorrei dire che dobbiamo imparare a sprecare la semente. Imparare a compiere numerosi gesti inutili». Senza dimenticare che il seme può trasformare il terreno.

Entrare nel tempio del Tempo e dell’Uomo contemporaneo.

 

58. Dedicarsi ai nostri fratelli e all’Uomo contemporaneo non è perder tempo se abbiamo la cultura e la forza necessarie.

Aiutare gli affamati e vestire gli ignudi, sono opere meritevoli, come assistere chi ‑chiuso nel suo egoismo‑ è incapace di mettere in comunione con gli altri i beni materiali e morali. Povero è ogni uomo che ha perso l’equilibrio psico-fisico e la speranza in una vita più ricca in ogni senso; chi si avvicina al mistero della morte, o anche solo temporaneamente è costretto a separarsi dagli affetti familiari, dai compiti lavorativi, dai rapporti sociali. Se è nobile la scelta missionaria, non lo è meno quella di chi decide di stare con l’Uomo del «progresso» e con le sue opere, in queste realtà «Avanzate» dove più diffuse sono l’indifferenza e la insensibilità, umana e spirituale, verso l’uomo. Un affamato, un ignudo, un handicappato è molto più visibile di chi, benestante, non ha bisogno tanto di cibo, di vestiti o di custodia, quanto di speranza, di attenzione, di rispetto, di identificazione. Il pane psichico e spirituale è un pane meno visibile, ma ugualmente utile al malato, anche se è più difficile da somministrare.

 

59. Cari confratelli, guardiamoci dai complessi di superiorità o di inferiorità indotti in noi dal colore della pelle o dalla grandezza del portafoglio dei nostri assistiti. Guardiamoci dal pregiudizio secondo il quale le necessità dell’uomo sono solamente di carattere economico-materiale-scientifico, da affrontare in modo tecnicistico e basta.

Così non si rende giustizia alla complessità e alla ricchezza dell’Uomo contemporaneo, né alla sostanza della nostra vocazione; può anzi essere un pretesto per sottrarci alla assunzione di nuovi, impegnativi atteggiamenti orientati non alle nostre necessità (di potere, di prestigio, di rapida risposta del malato ai nostri interventi materiali) ma a quelle della persona affidateci. A tale persona, più libera, più emancipata, più attenta e più sola deve essere rivolta un’attenzione diversa, se vogliamo realmente rispondere ai suoi bisogni e rispettare i significati più profondi del suo stile di vita. Il nostro carisma, che ha una ricchezza incredibile, non soffre e non soffrirà mai di mancanza di utenti: può essere esercitato in ogni luogo abitato dall’uomo, il quale avrà sempre nell’animo il desiderio di un alimento non solo biologico. Il nostro Carisma ci invita dunque ad entrare nel tempio dell’Uomo concreto di oggi. Ci avverte anche che dobbiamo mutare a seconda del Tempo e dell’Uomo, senza garantirci che tale mutamento sia indolore. Forse è più facile affrontare i rischi della savana o del deserto che annunciare il nostro Carisma a gente istruita, con facoltà critiche notevoli, ma con bisogni nuovi da soddisfare.

 

60. «Nell’ambiente tecnicizzato e consumista della società moderna nella quale si scoprono ogni giorno nuove forme di emarginazione e di sofferenza, il nostro apostolato ospedaliero è pienamente attuale». Lo leggiamo nelle nostre Costituzioni.

Siamo noi, cari confratelli, che rischiamo di non essere attuali se non fissiamo lo sguardo sulle emarginazioni e sulle sofferenze dell’Uomo contemporaneo. Alleiamoci dunque con quanti ‑anche collaboratori laici‑ vogliono crescere accanto a noi e spesso camminano davanti a noi. Insieme risponderemo meglio alla nostra chiamata, alla nuova cultura dell’Uomo, del Tempo e della Vita, uno sforzo di ricerca e di sperimentazione che mai forse il nostro Ordine ha dovuto così urgentemente affrontare.

Questa visione dell’Uomo può sembrare troppo spirituale e poco tecnicistica, ma è sicuramente in linea con le Costituzioni e con lo Spirito che le anima. Vi troviamo, infatti, la spinta a realizzare il nostro apostolato da religiosi «nuovi», attuali, veri, a favore dell’uomo al quale sempre dobbiamo guardare. «L’Himalaia è ovunque, il nostro vero maestro è ogni uomo e ogni donna che soffre» (Gandhi).

 

IV. IL NOSTRO RUOLO NELL’ORDINE

 

61. Ciò che ho detto a proposito del religioso singolo e della comunità, si può applicare anche al nostro Ordine. La ricerca dei bisogni dell’uomo contemporaneo, la collocazione delle nostre Opere, la capacità di progettare attività sempre più rispondenti alle esigenze della società interessano il tessuto connettivo della istituzione. Anch’essa deve cambiare per vivere nella attualità e nel futuro. E deve cambiare ‑come sta in parte già avvenendo‑ in direzione di una sempre maggiore colleganza tra case e Province, tra Province e Governo Centrale, tra quest’ultimo e la periferia.

 

Unità nell’autonomia.

 

62. Spesso, a livello singolo e di comunità, viviamo con un certo fastidio i richiami del Consiglio Generalizio che, ormai da tempo, sollecitano ad una connessione sempre più stretta fra le varie componenti della nostra Istituzione. La mancanza o l’insufficienza di tale connessione, controproducente per noi e per i rapporti coi collaboratori laici, non dipende dalla distanza geografica fra le singole case e la Provincia, o tra questa e il Centro, ma piuttosto da una scarsa percezione della complessità e della ricchezza della nostra stessa Istituzione.

Sembra strano come in un’epoca in cui si viaggia con estrema facilità da un continente all’altro e si dispone di informazioni in tempi molto rapidi, facciamo ancora fatica a comportarci come un corpo unico, ben articolato nelle sue strutture.

Non possiamo, non dobbiamo accogliere con sospetto le iniziative che mirano a favorire la nostra colleganza. È anzi assurdo pensare di risolvere i nostri problemi di governo, di vita interiore, di risposta ai bisogni del malato, di gestione economica e di progettazione senza un forte spirito di comunanza sia a livello orizzontale che verticale.

 

63. In questi ultimi anni, l’Ordine ha prodotto uno sforzo notevole in tale direzione: ma ciò ancora non basta, non siamo ancora ad un punto soddisfacente. Tutti noi dobbiamo sentirci obbligati a pensare a soluzioni nuove al problema in un clima di maggiore fiducia reciproca e di collaborazione da parte di tutti. La distanza e le differenze sociali e culturali che ci caratterizzano non debbono diventare un alibi al nostro disinteresse, come se il Centro non facesse parte dell’Ordine!

Cari confratelli, quando il Priore Generale vi invita a vivere intensamente il vostro ruolo, quando insiste sulla necessità della sintonia tra ognuno di voi e la Provincia, tra le singole Province nonché fra voi e il Centro, non mira a sottrarvi autonomia, tempo, risorse, bensì a realizzare quello scambio, fra l’altro previsto dalle Nuove Costituzioni, che permette di crescere a tutti i livelli, di favorire decisioni più sagge. L’autonomia non deve diventare autarchia, per nessun motivo; l’unità nella autonomia è quindi un progetto che non può essere trascurato. Il compito più sgradevole per un Superiore Generale è quello di dover obbligare uno dei suoi confratelli a fare ciò che va fatto. È veramente doloroso constatare la pigrizia di certe Province non solo di fronte alle indicazioni del Governo Centrale, ma anche di fronte a risoluzioni prese in casa propria: a parole ci dichiariamo disponibili e poi nei fatti, o non operiamo, oppure operiamo disuniti, quando non addirittura in antagonismo. Al Priore Generale non reca disturbo la diversità delle opinioni: una inestimabile ricchezza scaturisce dal considerare in modo diverso un problema.

Quello che impoverisce è invece la mancanza di dibattito, la falsa obbedienza, lo spirito di prevaricazione, la paura di perdere autonomia.

64. Se vogliamo prepararci al 2000 in piena coerenza col nostro carisma dell’Ospitalità, non possiamo rinunciare ad un maggiore avvicinamento, umano e spirituale, fra di noi, fra Periferia e Centro, fra vicini e lontani. Nessuno di noi può ritenersi superiore ad un altro, nessuno può sentirsi più a posto di un altro. Nell’esercizio delle nostre funzioni tutti siamo importanti, tutti siamo utili, indipendentemente dal ruolo odierno, dall’età, dalla nazionalità di provenienza o da quella in cui operiamo.

E saremo ancora più utili, più testimoni, più coscienza critica, più guida, più innovatori se le nostre risorse, i nostri cuori, le nostre intelligenze, la nostra spiritualità confluiranno verso progetti di vita condivisi, trasparenti, partecipati.

 

65. Il nostro Ordine deve caratterizzarsi per una visione veramente comunitaria, per legami più franchi e schietti, per programmi ispirati da un genuino senso di appartenenza. Il mondo si stupisce quando vede confratelli disuniti, bloccati nella reale comunione da gelosie ed invidie infantili, perché si attende da noi, oltre che la testimonianza autentica dell’amore cristiano, una attitudine al perdono, alla tolleranza, alla alleanza fra di noi. Una delle grandi paure del nostro tempo, la paura atomica, è generata dalla furbizia, dalla prepotenza, dalla convinzione di essere dalla parte giusta, dalla discordia alimentata in continuazione e mai risolta di uno spirito di dialogo. Noi dobbiamo trovare al nostro interno, tutti insieme, il modo per testimoniare al Mondo la capacità di trovare l’intesa, di sopportare le differenze, di mettere una pietra sopra le offese ricevute. Saper perdonare è indispensabile per costruire l’unità, per dare spazio alla critica non distruttiva, nel rispetto nell’amore reciproco. Come Vostro Priore Generale vi chiedo di essere generosi, verso le inevitabili debolezze umane, per contribuire alla costruzione di un Ordine più unito e più aperto.

 

Testimoni e guide morali per i nostri collaboratori.

 

66. Su questo aspetto della nostra vita religiosa ho già detto molto in questi ultimi anni. Tuttavia preferisco ripetermi, perché il nostro futuro dipenderà molto da quello che noi riusciremo a fare nei confronti dei nostri sempre più numerosi collaboratori. Il nostro ruolo ha subito e subirà ulteriori cambiamenti radicali: sta a noi anticiparli, inventarli alla luce del nostro carisma e dei segni dei tempi.

Su un punto voglio essere subito chiaro: chi entra nei Fatebenefratelli non lo fa per una scelta professionale, ma per una vocazione interiore. E anche se le nostre Opere prevedono, all’interno della scelta spirituale, una collocazione professionale, per i nostri futuri religiosi la destinazione manageriale è secondaria: essi non sono entrati nell’Ordine per dirigere. Anche se la conoscenza dell’arte direttiva va acquisita, la preparazione culturale, religiosa, professionale non deve essere quella di chi occuperà posti di comando, perché abbiamo la fortuna di avere collaboratori laici specializzati in questi compiti specifici, cui hanno dedicato un investimento maggiore di tempo e di intelligenza. Qualche religioso, in particolari luoghi e momenti, potrà anche assumere ruoli direttivi-gestionali, ma questa non è la nostra meta finale, è una fase transitoria e contingente. Abbiamo perso troppo tempo nel contrastare la crescita e l’inserimento in funzioni direttive dei nostri collaboratori laici: è giunto il momento di cambiare.

 

67. Sono convinto che S. Giovanni di Dio, oggi non creerebbe nuovi Ospedali, né si metterebbe a dirigerli, ma dedicherebbe il suo impegno a formare uomini, a creare nel laicato menti e cuori in grado di assicurare alle nostre Opere quel clima professionale, umano e gestionale che spesso fa difetto. Lo ripeto: noi non diventiamo frati, priori, Provinciali, Generali per essere dei managers, bensì per testimoniare, per orientare, per formare i nostri collaboratori alla missione di assistere in modo integrale il malato, il bisognoso. Già in alcune Province dell’Ordine il ruolo di coordinatore della comunità è stato separato da quello di direttore amministrativo dell’Ospedale. Su questa strada dobbiamo continuare, cambiando innanzitutto il nostro animo. È certo più gratificante, in un’ottica puramente umana, gestire il potere per il potere, che non dirigere un servizio in una posizione di guida morale, lasciando la guida tecnica a collaboratori laici ‑che quasi sempre sanno fare meglio– opportunamente scelti e permanentemente formati. Il grande compito che ci attende nel prossimo futuro è proprio questo: essere all’interno delle nostre, Opere guida morale, cioè coscienza vigile e, se necessario, critica, affinché i nostri collaboratori si alleino a noi nel servizio al malato. È una scelta decisiva non più rimandabile che ci costerà notevole fatica, forse anche la perdita di prestigio in qualche caso, ma permetterà alle nostre Opere di funzionare meglio anche sotto il profilo gestionale. Più concretamente, il nostro collaboratore deve diventare oggetto-soggetto delle nostre attenzioni, così come lo è il malato; dobbiamo individuarne e capirne i bisogni e i disagi, magari provocati da noi. In tale modo creeremo nell’Ospedale quella «ecclesia» che a parole tutti vogliamo, ma che nella realtà temiamo.

 

68. Il ruolo di guida morale non si improvvisa. Esso va progettato, programmato ed attuato secondo criteri di onestà e in armonia con le caratteristiche delle nostre Opere. Per comunicare la nostra umanità e la nostra passione verso il malato ai collaboratori, dobbiamo possedere tale passione, non quella per le poltrone di comando. Assumere un ruolo di guida comporta una crisi di identità per molti di noi, abituati soprattutto al «fare» in prima persona. Il tempo dei «fac-totum» è finito, occorre concentrarsi sui compiti primari che la nostra scelta vocazionale ci impone. Da qui la necessità di uno studio e di una ricerca continui per tradurre in indicazioni concrete gli ambiti di comportamento in cui esplicare le funzioni di guida morale, di animazione e di coscienza critica nei confronti di noi stessi, dei collaboratori e del mondo. Questo ci consentirà di valorizzare meglio il nostro rapporto con gli altri, di arrivare ad una alleanza autentica, di eliminare ogni ombra di contrapposizione, di sospetto, di sfiducia.

69. I nostri collaboratori sono in grande maggioranza dei laici. Dal Vaticano II ad oggi è stato riscoperto e valorizzato il singolare ruolo dei laici nella Chiesa e lo «specifico» che li contraddistingue: la secolarità.

Dal documento preparatorio al Sinodo dei Vescovi del 1987 sul tema: Identità e missione dei laici nella Chiesa, proporrei qualche sottolineatura particolarmente utile per un nostro corretto rapporto con i collaboratori.

Secondo il concilio Vaticano II, il ruolo ecclesiale dei laici è inscindibilmente legato alla loro vocazione battesimale e alla loro condizione secolare.

In quanto battezzati, essi sono a pieno titolo fedeli incorporati a Cristo e alla Chiesa. E il loro inserimento nelle realtà temporali e terrene, ossia la loro «secolarità», è un dato teologico, è la modalità caratteristica secondo la quale essi vivono la vocazione cristiana.

 

70. I laici posseggono un’unica ed indivisa «identità», in quanto insieme sono membri della Chiesa e membri della società. Dalla loro peculiare condizione, essi derivano coerentemente la loro partecipazione alla missione salvifica della Chiesa; in quanto battezzati, possono e devono vivere la loro responsabilità apostolica non solo nelle realtà temporali e terrene, ma anche in quelle propriamente ecclesiali; in forza della loro specifica condizione secolare, sono abilitati e impegnati come cristiani non solo nell’ambito della chiesa, ma anche e propriamente in quello del mondo e delle sue strutture e realtà.

Il Concilio Vaticano II lo afferma chiaramente nella «Apostolicam Actuositatem»: «L’opera della Redenzione di Cristo, mentre per natura sua ha come fine la salvezza degli uomini, abbraccia pure l’instaurazione di tutto l’ordine temporale. Per cui la missione della chiesa non è soltanto portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli uomini, ma anche animare e perfezionare l’ordine temporale con lo spirito evangelico. I laici dunque, svolgendo la missione della chiesa, esercitano il loro apostolato nella chiesa e nel mondo, nell’ordine spirituale e in quello temporale: questi ordini, sebbene siano distinti, tuttavia nell’unico disegno divino sono così legati, che Dio stesso intende ricapitolare in Cristo tutto il mondo per formare una creazione novella, in modo iniziale sulla terra, in modo perfetto nell’ultimo giorno.

Nell’uno e nell’altro ordine laico, che è simultaneamente fedele e cittadino, deve continuamente farsi guidare dalla sua unica coscienza cristiana» (AA, 5).

 

71. Nella missione salvifica che la chiesa ha nei riguardi delle realtà temporali e terrene ‑missione che è di tutta la chiesa e quindi anche dei pastori‑ i laici, in forza della loro tipica secolarità, hanno un posto originale e insostituibile: «Ai laici tocca assumere la instaurazione dell’ordine temporale come compito proprio e, in esso, guidati dalla luce del Vangelo e dal pensiero della chiesa e mossi dalla carità cristiana, operare direttamente e in modo concreto; come cittadini cooperare con gli altri cittadini secondo la specifica competenza e sotto la propria responsabilità; cercare dappertutto e in ogni cosa la giustizia del regno di Dio».

Paolo VI nell’esortazione apostolica «Evangelii nuntiandi» scrive dei laici: «Il campo proprio della loro attività evangelizzatrice è il mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale, dell’economia, così pure della cultura, delle scienze e delle arti, della vita internazionale, degli strumenti della comunicazione sociale; ed anche di altre realtà particolarmente aperte all’evangelizzazione, quali l’amore, la famiglia, l’educazione dei bambini e degli adolescenti, il lavoro professionale, la sofferenza. Più ci saranno laici penetrati di spirito evangelico, responsabili di queste realtà ed esplicitamente impegnati in esse, competenti, nel promuoverle e consapevoli di dover sviluppare tutta la loro capacità cristiana spesso tenuta nascosta e soffocata, tanto più queste realtà, senza nulla perdere né sacrificare del loro coefficiente umano, ma manifestando una dimensione trascendente spesso sconosciuta, si troveranno al servizio dell’edificazione del regno di Dio, e quindi della salvezza in Gesù Cristo» (EN,70).

 

72. La presenza dei laici cristiani nel mondo deve essere coraggiosa e profetica e potrà assumere varie forme di testimonianza accompagnata sempre dal discernimento evangelico. Infatti, come avvertono S. Giovanni e S. Paolo, il mondo è una realtà in cui coesistono il bene e il male, e che richiede un’opera di discernimento e di libera scelta.

Dev’essere allora riconosciuta e promossa dentro e per il popolo di Dio la responsabilità di tutti e di ciascuno, quindi anche quella dei fedeli laici.

Per definire in modo preciso sia la legittimità, sia la determinazione concreta dei ministeri affidati ai laici, Paolo VI invitava a rileggere la storia della Chiesa e ad essere attenti alle necessità presenti: « Uno sguardo alle origini della chiesa è molto illuminante e permette di usufruire di un’antica esperienza in materia di ministeri, esperienza tanto più valida in quanto ha permesso alla chiesa di consolidarsi, di crescere e di espandersi. Ma questa attenzione alle fonti dev’essere completata da quella dovuta alle necessità presenti nell’umanità e della chiesa. Dissetarsi a queste sorgenti sempre ispiratrici, nulla sacrificare di questi valori e sapersi adattare alle esigenze e ai bisogni attuali: queste sono le linee maestre che permetteranno di ricercare con saggezza e di valorizzare i ministeri, di cui la chiesa ha bisogno e che molti suoi membri saranno lieti di abbracciare per la maggior vitalità della comunità ecclesiale» (EN, 73).

 

73. Ognuna di queste espressioni meriterebbe un commento e una puntualizzazione, in relazione al nostro ruolo di lavoro» di guida morale e di compagni di lavoro nell’edificare la Chiesa e, in essa, il regno di Dio.

È subito evidente che i laici, con i quali abbiamo un rapporto di collaborazione, non solo sono professionalmente caratterizzati, ma portano con sé una valenza apostolica: anch’essi sono, «edificatori della Chiesa», nel senso che la Chiesa cresce ogni giorno anche grazie al nostro carisma di religiosi e grazie ai doni-ministeri propri dei laici.

L’ideale traguardo per noi sarebbe vedere i nostri 40.000 collaboratori sintonizzati sulla nostra lunghezza d’onda, pur nella diversità del compito professionale. I nostri Ospedali cambierebbero d’incanto: non ci sarebbero più ruoli o poltrone da difendere a denti stretti, né sarebbero più necessari certi controlli faticosi e pedanti, sostituiti dall’autocontrollo. Dobbiamo anche riconoscere che, in molte Opere, i nostri collaboratori sono molto più avanti di noi, e non solo professionalmente. Pertanto, ad essi dobbiamo aprire il nostro cuore, prospettare le nostre difficoltà, i nostri problemi e le nostre speranze. Con loro noi possiamo-dobbiamo collegarci: molti di essi aspettano solo un cenno da parte nostra per darci una mano, per aiutarci, per allearsi con noi e non per interesse personale o per ottenere favori, ma perché si rendono conto che assieme si può fare molto di più e meglio.

 

74. Impariamo dunque dai collaboratori più vicini al nostro carisma, dialoghiamo con loro, scambiamo con essi l’esperienza delle vicende professionali e personali: solo così insieme potremo lavorare nell’esclusivo interesse dei malati. Nell’impegno di formazione a questo nuovo ruolo di sostegno e di guida, saranno di sostegno e lume il Consiglio Generalizio e i Provinciali; ma lasciamoci anche ispirare e aiutare dai collaboratori laici «puri di cuore», interessati alla creazione dell’Hospitium pietatis di cui si è parlato.

Miei cari confratelli, so che ad alcuni di voi sto chiedendo un grosso sacrificio. Non essendo dei contemplativi, noi siamo in un certo senso costretti a dividerci nello stesso giorno in ruoli attivi e in ruoli contemplativi. Se vogliamo non soltanto rimanere negli ospedali, ma portare la luce del divino al malato, dobbiamo preoccuparci di far accendere altre luci, quelle che i nostri collaboratori possiedono, magari offuscate da un velo di pigrizia, di assuefazione, di fatalismo. Saper togliere questi veli, con discrezione ma con fiducia nei collaboratori ed in noi stessi, rientra in quel ruolo di guida morale che noi dobbiamo assumere per restare in linea con la nostra scelta di vita.

Questione etica e ruolo di coscienza critica dei Fatebenefratelli

75. La fine del sec. XX ci sorprende con una richiesta responsabilità di etica che proviene proprio dagli ambienti culturali che sembravano ormai irrimediabilmente sganciati dal riferimento a valori e norme. Si fa strada l’acuta consapevolezza che la tecnica non basta. Proprio il successo di quest’ultima, mettendo in mano all’uomo potenzialità prima impensate (divisione dell’atomo e intervento sulla struttura genetica della cellula vivente), ha aperto il nuovo fronte di domanda.

La struttura intima della richiesta contemporanea di etica è familiare al credente, perché ha un ritmo identico a quello della morale, che deriva dalla Parola rivelata. Quest’ultima converge strutturalmente sui due poli della fedeltà e della responsabilità. Il cristiano, nel suo agire morale, vuol essere essenzialmente fedele al Cristo, in quanto nella sua persona riconosce il Figlio di Dio e il Fratello universale, e responsabile nei confronti delle richieste concrete che la storia rivolge alla sua vocazione. Anche l’etica, di cui si sente oggi una diffusa nostalgia, nasce intorno alla fedeltà e alla responsabilità. Ci si domanda, infatti, a quali condizioni l’uomo resta ancora uomo. Gli interrogativi antropologici sono particolarmente forti nel campo bio-medico; nel prolungamento artificiale della vita, nelle tecnologie applicate alla riproduzione, nella manipolazione farmacologica del comportamento e nella prassi psichiatrica, nell’uso degli individui per la ricerca e la sperimentazione, nelle manipolazioni genetiche. Si avverte un senso del limite, oltre il quale si tradisce l’uomo.

 

76. Sul fronte della responsabilità, la questione etica esige che ci si interroghi sulla qualità morale dell’azione, riferendola non solo al modello dell’uomo a cui si vuol restare fedeli, ma anche alla progettazione di un futuro. La prima esigenza è ovviamente che, per quanto sta nell’uomo, ci sia futuro. Il filosofo Hans Jonas ha riformulato l’imperativo kantiano per l’agire morale in questi termini: «Agisci in modo tale che le conseguenze del tuo agire siano componibili con la sopravvivenza di una vita veramente umana sulla terra». Oggi siamo in grado di distruggere sia la vita, sia la qualità umana della vita. La richiesta etica si identifica con l’assunzione della propria responsabilità, rinunciando alle deleghe e al ruolo di spettatori marginali del processo storico. Essere soggetto ed essere protagonista sono due esigenze equivalenti.

La duplice esigenze di fedeltà e di responsabilità rende la ricerca etica dell’uomo contemporaneo affine, pur nella diversità, a quella di chi nel proprio agire morale si ispira alla fede in Gesù di Nazareth.

 

77. La fede non fornisce al cristiano o al religioso un territorio privilegiato o protetto, al riparo dalle aggressioni che tutti gli uomini subiscono per il fatto di vivere nel tempo e nello spazio. Lo sperimentiamo nel campo della sanità nel quale si svolge in modo privilegiato il nostro impegno evangelico e umanitario. Ci rallegriamo certamente per la domanda di etica, che mette in crisi il modello di medicina «scientifica», cioè positivistica, che si pretendeva dispensata dal compito di porsi problemi di ordine antropologico ed etico. Soprattutto là dove è in gioco la salute, come coagulo di valori che investono l’uomo nella sua totalità, il semplice rispetto delle regole di procedimento non basta (si potrebbe, riprendere l’esempio fornito da Kant, del medico e dell’avvelenatore: le prescrizioni per il medico, al fine di guarire il paziente, e per l’avvelenatore, al fine di uccidere un uomo, sono le stesse… Il saper come fare ‑to know how‑ non risponde alla domanda dell’etica, che ha a che fare con il «regno dei fini».

78. Mentre i nostri contemporanei rivalutano l’etica nell’ambito delle scienze della vita e della salute, ci rendiamo conto che noi, in quanto credenti e religiosi, non siamo in grado di fornire «la» risposta. Siamo fieramente consapevoli che la fede in Cristo a cui aderiamo ci fornisce uno stimolo creativo per cercare, insieme agli altri uomini, credenti e no, regole di condotta fedele e responsabile. Ma, proprio per la trascendenza della fede, non abbiamo un modello storico concreto da proporre (tanto meno da imporre).

Il passato può essersi deposto su di noi come polvere, o magari anche come una crosta. Per il Vaticano II, i credenti hanno una certa responsabilità per l’ateismo, causato da una presentazione fallace della dottrina o dai difetti della propria vita religiosa, morale e sociale (cfr. Gaudium et spes, 19). Qualcosa di analogo può essersi verificato per quanto riguarda la «controtestimonianza» sul piano dell’etica (mancanza di rispetto per la coscienza dell’altro, strumentalizzazione delle cure del corpo in vista delle preoccupazioni spirituali, preferenza data alla “legge del sabato” ‑regole morali‑ piuttosto che all’uomo concreto).

Una nuova situazione di dialogo si è creata nel campo dell’etica: l’umanista è chiamato a parteciparvi con la sua «fede» (che è quanto meno fede nell’uomo; fede che l’uomo è la medicina per l’uomo … ); il religioso è chiamato a parteciparvi con la «buona volontà». Questa inversione dei ruoli tradizionalmente attribuiti all’uno e all’altro è indice del rivoluzionamento avvenuto nell’etica, ma anche del cammino all’interno della coscienza cristiana, soprattutto a seguito della riflessione conciliare sulla teologia della Chiesa e della Storia.

 

79. Ho già accennato nelle parti iniziali del documento che oltre ad essere testimoni e guide morali, noi dobbiamo anche intervenire criticamente nel mondo della Sanità. Non basta infatti lavorare duramente nei nostri Ospedali, occorre dedicare tempo allo studio dei fenomeni legati al progresso sanitario, per orientarli verso il massimo benessere della persona. Nel precedente documento sulla Umanizzazione ho cercato di esprimere alcuni concetti al riguardo. Qui vorrei insistere piuttosto sul fatto che oggi si tende ad avere una eccessiva fiducia nelle risorse tecniche che (e non sempre per motivi umanitari) vengono messe a disposizione del mondo sanitario. Ciò spiega anche la facilità con la quale da parte di alcuni governi e parlamenti, sono state varate leggi in materia di aborto, di eutanasia, di interventi manipolatori sulle strutture genetiche. Tali tendenze vanno contrastate. Ma per farlo in maniera efficace occorre essere al passo, conoscere a fondo i vari problemi, evitando sterili accuse o posizioni astrattamente rigide di difesa.

Per svolgere seriamente un ruolo non solo critico, ma anche propositivo, dobbiamo collegarci maggiormente con i nostri collaboratori laici, col mondo della Chiesa, con la scienza. Spesso, mancandoci tale consapevolezza, ci limitiamo a constatare, senza intervenire, mentre dovremmo essere in grado di offrire al mondo sanitario idee e progetti, aperti a quanto di positivo ci viene dalla scienza e dalla tecnica.

 

80. E soprattutto, quando vediamo minacciata la sacralità dell’uomo, da qualsiasi parte venga la minaccia, dobbiamo avere il coraggio umano e religioso di intervenire.

Non possiamo tacere di fronte a ingiustizie, tradimenti, pigrizie, a soluzioni difformi da ciò che umanità e fede ci suggeriscono. Ne va di mezzo la nostra vocazione, il nostro impegno di alleati dell’umanità che soffre. Tacere in simili casi equivale ad acconsentire. Ma ancora una volta per parlare, per indicare strade nuove e giuste, dobbiamo possedere una preparazione adeguata, essere all’altezza del compito. Purtroppo, non è sempre così. E torniamo alla indispensabile collaborazione dei laici. Per raccogliere vittoriosamente le sfide del tempo, ci serve un collegamento, uno scambio assiduo con esperti delle varie materie: professionisti delle scienze mediche, biologiche, umane, in grado di garantirci quella preparazione di cui oggi non si può fare a meno.

Come vostro Priore Generale ha sempre, praticato questo scambio, ricevendone spesso critiche, quasi che il Carisma dell’Ordine venisse contaminato o snaturato per il fatto stesso che collaboratori laici, interni ed esterni all’Ordine, erano stati da me interpellati. Sono più che mai convinto del contrario: il nostro carisma sprigionerà tutta la sua forza allorché ci saremo aperti al carisma, umano e scientifico, dei collaboratori laici.

 

81. Nessuno detiene tutto il sapere sanitario, come non dei laici esiste quasi mai un approccio esclusivo verso il malato. Sono perciò necessari i contributi di persone che operano nel mondo della salute; molti di essi hanno un grande rispetto, a volte ammirazione per il nostro Ordine. Esso non potrà che trarne vantaggio se, con determinazione, noi saremo capaci di costruire rapporti di stima, di amicizia, di mutuo sostegno con i nostri collaboratori e con quanti, all’esterno dell’Ordine, possono offrirci il loro contributo. Ne guadagneranno in efficacia e in incisività la nostra azione e il nostro ruolo di coscienza critica verso i misfatti compiuti, magari in nome della scienza, contro il debole, il malato, il bisognoso.

Il nostro ruolo di anticipatori

 

82. Oltre al compito di testimoni, di guide morali e di coscienza critica, ci attende quello di anticipatori, di innovatori. Primo grande anticipatore è stato il nostro Santo Fondatore, e dopo di Lui quanti, nonostante l’indifferenza, il disprezzo e l’ostilità dei più hanno saputo percorrere, nel campo del nostro Carisma, nuove strade. Altre ne restano da scoprire, miei cari confratelli! Non è vero che tutto ormai sia stato scoperto e realizzato: i bisogni materiali e spirituali dell’uomo sono minacciati anche nelle nostre Opere, quando certi bisogni vengono ignorati, sottovalutati, o addirittura manipolati a nostro uso.

Per convincersi che esistono molte necessità non soddisfatte nel campo della assistenza al malato del nostro tempo, basta scorrere l’elenco delle Associazioni di Volontari che pullulano in tutto il mondo. Esse si occupano degli handicappati, dei cardiopatici, dei drogati, degli alcolizzati, dei malati di cancro, degli spastici, dei diabetici, dei laringectomizzati, degli psicotici, degli epilettici e così via. È impressionante notare l’ingente numero di persone che si dedicano con passione e in modo gratuito alla soddisfazione di bisogni materiali, sanitari, psicologici che il nostro trionfante mondo della Sanità non riesce spesso neppure a sfiorare.

 

83. Alle volte noi crediamo di avere esaurito il nostro compito, convinti che non esistano più necessità da cogliere e da soddisfare! Quanta supponenza e ingenuità in questo nostro atteggiamento! Il mondo del volontariato, splendida realtà del nostro tempo che testimonia quante persone generose operino al di fuori degli ordini religiosi, è lì a dimostrarci che nella nostra società cosiddetta avanzata c’è tanto da fare per noi nei prossimi anni al di là del nostro mondo ospedaliero. A fondare queste associazioni di Volontariato sono di frequente persone che hanno vissuto la malattia in prima persona o nei loro familiari; e dopo aver compreso che le strutture sociali e sanitarie non sono in grado di sostenere patologie così vistose e così poco gratificanti dal punto di vista del prestigio professionale, hanno deciso di far da sé, realizzando una catena di solidarietà da far arrossire di vergogna qualcuno di noi, quanto a spirito di dedizione, di sacrificio, di gratuità. Miei cari confratelli, queste persone svolgono un ruolo di primissimo ordine, sono esemplari anche per noi e soprattutto stanno anticipando nella società del benessere, a prezzo di enormi sforzi, le nuove frontiere della salute.

84. L’uomo del prossimo futuro non potrà affrontare da solo le sfide e i disagi che comporterà, paradossalmente, il progresso scientifico. Tale progresso ha allungato la durata della nostra vita e ciò è molto positivo; ma non ha fatto molto per la qualità della vita dell’anziano, del malato cronico, del disabile. Ed è facile prevedere che aumenteranno sempre più le forme delle patologie croniche e il disagio dei giovani che, di fronte alle seduzioni della società dei consumi e del benessere, cercano vie traverse ‑droga, violenza, indifferenza‑ per affermarsi o per dare in qualche modo un senso alla loro esistenza. Dunque noi dobbiamo cercarlo, quest’uomo del nostro tempo, studiarlo, amarlo, sforzarci di comprenderne i bisogni e i disagi, e soprattutto le motivazioni vitali. Noi che abbiamo il compito di restituire la salute, non possiamo limitarci ed essere dei semplici riparatori di corpi. Dobbiamo seguire quest’uomo che, lasciato l’ospedale, si trova a volte senza lavoro, senza un sostegno con molti problemi anche di ordine psichico. Dobbiamo avere per lui una autentica capacità di comprensione, utilizzando non solo la cartella clinica, ma anche la scheda invisibile del disagio emotivo del nostro paziente ospedalizzato. La paura che il malato avverte (di morire, di perdere il lavoro, affetti e vita di relazione) è tremenda in molti casi, e non va mai ignorata. Diversamente noi restituiamo al mondo un uomo ferito e incompreso, e ciò offende Dio, l’uomo, la nostra fede, la carità. Il nostro ruolo di anticipazione passa attraverso il riconoscimento di questi bisogni: queste iniziative nuove e meritorie possono nascere, col risultato di eliminare l’antica scissione fra anima e corpo, fra natura e cultura, fra bisogno corporale e bisogno spirituale; una scissione per comodità operata da noi, dalla medicina cosiddetta scientifica, dall’ospedale trasformato in officina di riparazione, se, parando ciò che è, intimamente unito nella persona umana.

 

85. Nell’ospedale dunque si apre un campo inedito al nostro futuro operare, che richiede il coinvolgimento di molte persone, compreso lo stesso malato; un operare che coinvolge in misura molto maggiore la nostra professionalità la nostra umanità. Ho già avuto occasione di dirlo, ma lo ripeto ancora qui con una profonda convinzione che vorrei partecipare a tutti voi: il malato è la nostra Università, il nostro datore di lavoro, colui che ci guida nelle nostre scelte professionali. Dobbiamo captarne e interpretarne i messaggi, le proteste, i drammi, le esigenze. Ascoltando il malato, noi potremo modificare radicalmente il nostro modo di essere uomini e religiosi, le nostre strutture, i nostri organigrammi. Chi di noi fosse tentato di lasciare le nostre Opere per testimoniare altrove la buona novella, è invitato a restare anche solo mezz’ora al giorno accanto ad un malato: cambierà presto idea. Anche l’ospedale è terra di missione, forse anche più che il Terzo Mondo, dove c’è miseria ma ancora tanta umanità!

 

86. Questo esercizio di ascoltare un malato al giorno lo raccomando ad ognuno di voi. Dopo un po’ di tempo scoprirete che essere anticipatori, oggi, nelle nostre Opere significa saper ascoltare il malato e agire di conseguenza.

Dall’ascolto scaturiranno progetti di studio, di ricerca, di sperimentazione, di cambiamento delle nostre abitudini vecchie e improduttive.

All’inizio questo potrà essere particolarmente faticoso per chi ha perduto la capacità di sintonizzarsi con la lunghezza d’onda degli altri o ha eretto barriere protettive che impediscono al malato di aprirsi a noi. Ma se avremo la forza di continuare, i risultati non si faranno attendere. Intanto, prepariamoci a sconvolgere il nostro Io interiore: se «sapremo ammalarci» col malato, il nostro Ordine non solo si rinnoverà ma andrà ben oltre il 2000.

 

 

Il nostro rapporto con la Chiesa

 

87. La Chiesa, finalmente, ha affermato in modo concreto il suo interesse verso le Opere ospedaliere dei religiosi, attraverso l’istituzione della Commissione Pontificia per i problemi della Sanità. È un riconoscimento importante che colloca la nostra vocazione e la nostra azione al posto giusto. Per quanto ci riguarda, dobbiamo sentirci orgogliosi per questo evento e insieme stimolati a condividere sempre più la missione della Chiesa, cioè l’evangelizzazione che è sempre connessa con la promozione umana.

 

88. Dobbiamo trarne motivi di impulso per la crescita della nostra fede, per la pratica evangelica nella nostra vita quotidiana, e per una più incisiva presenza nel mondo ecclesiale. Si tratta cioè non solo di saper fare, ma anche di far sapere alla Chiesa ciò che noi stiamo compiendo e intendiamo compiere per il benessere dell’uomo e per la sua anima. Forse, talvolta ci accompagna ancora un antico sentimento di inferiorità, un atteggiamento di modestia che tuttavia non ha senso: noi siamo, a pieno titolo, testimoni e operatori concreti di quel messaggio evangelico che la parabola del buon Samaritano riassume in modo cosi significativo. La nostra ricerca, il nostro aggiornarci, i nostri progetti per il futuro non possono rimanere nel solo ambito delle nostre case, ma debbono arrivare, anche per ottenerne risposte e conferme, a tutti gli uomini di Chiesa, clero e comunità ecclesiali.

 

89. La Chiesa ha bisogno di noi come noi abbiamo bisogno di Lei, e ciò sarà sempre più vero nei prossimi anni. È indispensabile comunicare all’interno della Chiesa. La nostra vocazione e il carisma del nostro Ordine nella loro identità e nei loro programmi, debbono essere ben presenti al mondo dei credenti, per diventare per essi uno stimolo e che un modello, una strada per realizzare la comune vocazione battesimale alla santità. Le beatificazioni di Fra Riccardo Pampuri (1981) e di Padre Benedetto Menni (1984) ci confermano tutto questo: anche il nostro carisma fa parte del patrimonio della Chiesa.

Contribuiamo dunque a creare una vera Comunità ecclesiale, manifestando il significato profondo delle nostre attività e facendoci conoscere per quello che siamo. I credenti, i giovani soprattutto, devono capire che il nostro operare è meritevole non solo agli occhi del mondo, ma anche e soprattutto agli occhi di Dio; questo può far sì che uomini coraggiosi scelgano di unirsi a noi e al nostro Ordine per continuare a testimoniare la sacralità dell’uomo bisognoso.

 

90. In questi ultimi anni si è notato un confortante risveglio di vocazioni; ciò deve impegnarci ancor più e responsabilizzarci verso una maggiore e migliore divulgazione, nel mondo della Chiesa e dei credenti, della nostra immagine e del nostro operare. Spalanchiamo le porte di casa nostra, utilizzando i mezzi di comunicazione più congeniali, perché l’Ordine di S. Giovanni di Dio mostri al mondo tutta la carica attuale e moderna di amore per il prossimo.

 

V. LA COMPRENSIONE DELLE NUOVE CATEGORIE DI BISOGNOSI

Nello spirito delle nuove Costituzioni

 

91. In questa parte cercherò di illustrare, rifacendomi alla tradizione di S. Giovanni di Dio, ai segni del Tempo e alle Nuove Costituzioni, le categorie dei nuovi bisognosi per una ricerca che impegni le Comunità e le Province ad una costante revisione del nostro operato, confrontato con l’evoluzione delle problematiche e delle situazioni particolari, come ci invitano a fare le Nuovissime Costituzioni. Certo, non possiamo esaurire le risposte nell’indicare la pur ardua strada della rottura delle abitudini e del cambio dei ruoli professionali. Occorre proporre l’alternativa di una autentica esperienza religiosa a salvaguardia dei valori umani come modello e indirizzo delle nostre Opere. Ancora, è opportuno ampliare il nostro concetto di bisognoso proiettandoci nel nostro tempo e nelle sue problematiche.

Già nei capitoli precedenti, questo concetto è stato ridefinito per evitare i pericoli di appiattimento; l’animo nel bisogno ‑si è detto‑ si trova dovunque, anche nell’uomo all’apparenza potente e ricco di mezzi materiali.

L’umanità è offesa in varie forme. Incredibilmente, come mostro invincibile, il male si trasforma con sembianze diverse, si presenta nelle più svariate situazioni anche quando sembra quasi debellato. Sta a noi individuare i nuovi bisogni del malato e, soprattutto, le nuove categorie di bisognosi.

 

92. In certe regioni della terra ancora troviamo, come ai tempi di S. Giovanni di Dio, malati e poveri inermi, esposti crudamente alle intemperie, senza cura, per le vie della città; ma in altre aree queste situazioni di dolore sono quasi del tutto scomparse: nei paesi economicamente progrediti il male non si manifesta in modo così evidente; è più subdolo, legato talora alle ideologie e alle mode culturali. V’è dunque la necessità di un accorto giudizio e di un’attenta revisione di atteggiamenti che non si risolvino in imitazione pura e semplice, ma siano costantemente riferiti ai valori morali. È compito delle nostre comunità affrontare seriamente questi problemi; le nostre Province devono individuare, nel loro territorio, le nuove situazioni di bisogno e diversificare gli interventi, con gli opportuni mezzi terapeutici. Nelle pagine successive toccheremo alcuni argomenti fondamentali dell’esperienza terrena dell’uomo: in particolare la vecchiaia e la morte, momenti dell’esistenza che oggi vanno assumendo valenze diverse e sono stati ridefiniti culturalmente e socialmente. Cercheremo anche di esemplificare maggiormente il tema delle «nuove categorie» di bisognosi, intendendo con questo termine non solo il povero, il malato. Ma chiunque lotta per riacquistare la sua identità di persona.

 

 

Il pianeta giovani

 

93. Una casistica quanto mai varia e abbondante, che conferma ancora una volta una realtà: l’uomo bisognoso, senza assistenza, esiste tuttora e si presenta, sotto vari aspetti, in tutte le società contemporanee. Nella sua vasta gamma notiamo oggi la triste, sempre più massiccia presenza dei giovani. Non possiamo restare indifferenti davanti ai moltissimi tossicodipendenti, malati nell’anima, colpiti nell’età più vulnerabile più ingenua. Di fronte ad essi diventa imperativa una nostra risposta che raccolga la sfida del male, anche superando la normale struttura dei nostri centri di cura organizzando presidi terapeutici di nuova concezione in grado di affrontare e di contrastare con interventi efficaci, riducendola, la progressività del fenomeno.

Se osserviamo più attentamente, li potremo vedere, questi nuovi bisognosi, come S. Giovanni di Dio li vedeva per le vie di Granada: sono oggi gli anziani, i tossicodipendenti, gli uomini spiritualmente fragili.

San Giovanni di Dio diede l’esempio, indicò la via da seguire quando ancora in pochi capivano: confortò i poveri, gli emarginati di ogni specie, recò sollievo ai malati senza nessuna distinzione. Il suo esempio, oggi come ieri, ovunque è denso di frutti: la sua intuizione si è tradotta in realtà concreta, in una reale conquista civile.

Spetta a noi imitarlo, ricchi del suo insegnamento, non solo percorrendo il cammino già noto, ma soprattutto interpretandone la perenne novità: cercare il bisognoso dovunque si trovi anche nei palazzi della grande città, confortarlo, aiutarlo, rispettarlo, nel contesto dei nostri tempi. In questo senso intendiamo oggi il compito fondamentale, nella continuità della nostra tradizione carismatica, sapendo discernere tra gli aspetti contingenti e i valori immutabili.

 

94. Ho parlato di continuità: ma essa non risiede nel mantenimento di ruoli, bensì nell’esercitare veramente il nostro carisma, nell’individuare i nuovi campi nei quali intervenire con rinnovato slancio.

La diversità dei nostri tempi, se da un lato ci consiglia di adeguarci alle nuove metodologie e all’uso di quegli strumenti che l’intelligenza umana ha saputo offrire per riscattare dalle miserie e dai mali della vita l’uomo, dall’altro soprattutto ci impone di riscoprire nella sua freschezza il messaggio imperituro del Vangelo e di S. Giovanni dì Dio, che ha saputo essere un interprete formidabile dei bisogni della sua epoca. Continuità non conservazione dello «status quo». E ancora: una continuità che non è conservazione dello «status quo», ma attenzione alla sostanza oltre le mode effimere e i luoghi comuni, che si propone come valore innovatore, realmente rivoluzionario in una società che gratifica la massificazione, il consumo, il successo, l’efficienza produttivistica, la potenza, trascurando l’uomo nella sua irriducibile individualità e solitudine, quale si manifesta problematicamente nella dimensione della malattia.

 

95. Dobbiamo infine ricordare che un’autentica missione di guida spirituale non si esaurisce nell’ambito delle nostre strutture, ma si espande in un più vasto raggio alimentata dall’eco che le nostre azioni suscitano, presentandosi. come modelli d’intervento autenticamente umani, innovativi, espressione di una cultura «dell’uomo» e «per l’uomo». Non diversamente a suo tempo San Giovanni di Dio, con il suo umile magistero, richiamò l’attenzione del sovrano, il quale fu talmente convinto del suo esempio che finanziò la costruzione di nuovi ospizi per i poveri in una dimensione completamente diversa dal passato.

 

 

VI.             LA RICERCA COME MOMENTO DI RINNOVAMENTO DELLA NOSTRA OSPITALITA’

 

L’esempio del Fondatore

 

96. Correva l’anno 1495. Da poco Cristoforo Colombo aveva visitato alcune isole dei continente americano. Ancora non si potevano prevedere le grandiose conseguenze cul­turali ed umane di queste scoperte, anche perché Colombo non sapeva, quando intraprese il suo viaggio, che non avrebbe raggiunto l’Oriente, ma avrebbe incontrato sulla sua rotta, inaspettatamente, ignote terre, uno sconosciuto e grandioso continente. Egli però desiderava allargare le conoscenze, provare nuove strade, da sostituire o da affiancare a quelle vecchie. Colombo, partecipe di quello spirito di ricerca e di avventura tanto frequente negli ingegni della civiltà umanistica, i quali credevano fermamente nella centralità dell’uomo e intendevano l’intelligenza come dono divino per conoscere, comprendere, governare la natura circostante, si lasciò guidare da questo spirito di ricerca e affidandosi alla protezione di Dio osò sfidare l’ignoto Oceano. Ma non fu un temerario irresponsabile. Prima di affrontare i pericoli della navigazione in alto mare aveva studiato, analizzato, discusso e sofferto il suo progetto.

 

97. Ebbene, in quell’anno 1495 mentre l’Europa ancora stupiva per i meravigliosi racconti dei navigatori, Giovanni Ciudade nasceva nella provincia di Evora, in Portogallo, in una località non molto distante dal porto da cui aveva salpato Colombo. Giovanni, spinto da inquietudine interiore e da sete di avventura, girò varie terre, finché vedendo come venivano trattati i malati, soprattutto quelli mentali e i poveri infermi abbandonati lungo i portici delle vie cittadine, intuì la via da seguire e osò dedicarsi con tutte le sue forze alla costruzione di un ospizio per aiutarli, ma con ben altri metodi e spirito rispetto a quelli comuni ai suoi tempi.

E quando, uscendo dalla Cattedrale di Granada, vide nella Calle Lucena un edificio adatto alle sue esigenze, non esitò a seguire la voce del cuore attuando il piano a lungo meditato, pur consapevole dei limitati mezzi di cui disponeva. Era l’anno 1537. Egli in quel momento, non sapeva né forse pensava, che il suo gesto ‑di carità, di dedizione alla causa dell’umanità dolente‑ un gesto che in, quel momento poteva apparire temerario, isolato, economicamente insostenibile ‑ avrebbe spinto gli animi più generosi ad aiutarlo nelle fatiche quotidiane e a condividere la sua passione di carità; egli nemmeno sapeva che il suo esempio sarebbe stato ripreso e perpetuato da tanti generosi che avrebbero speso la vita per mantenere vivo lo stesso spirito di carità cristiana.

 

98. Giovanni di Dio osò pensare e progettare. Inventò dal nulla ‑se ci riferiamo ai criteri di assistenza ai malati in uso a quei tempi‑ il suo modello, suddividendo in modo razionale i locali, distinguendo gruppi di malattie per reparti, diversificando le terapie, trasformando anche e soprattutto spiritualmente l’approccio con gli infermi. San Giovanni di Dio, però, non improvvisava senza logica: traduceva in pratica la lezione del Vangelo, le sue esperienze interiori di conversione, la sua meditazione religiosa, che gli faceva intuire la rotta, illuminante da indicare agli altri. Così il nostro Ordine ha portato quel modello di spiritualità in tanti paesi del mondo.

 

Viaggio di ricerca

 

99. Se ho accostato Giovanni di Dio a Colombo, è stato non per metterli a paragone, bensì per presentarli sotto metafora. Le metafore spesso sono più utili del microscopio per vedere l’infinitamente piccolo e più potenti del telescopio per osservare gli astri. Esse, più che i ragionamenti razionali, possono stimolare la nostra fantasia e il nostro spirito, aiutandoci a vedere in modo diverso ciò che magari è già di fronte a noi, ma che noi non riusciamo a mettere a fuoco. Perciò, vorrei approfondire alcuni concetti. Il viaggio di ricerca non è un motivo nuovo per noi cristiani. È anzi una esigenza vitale. Non possiamo continuare a percorrere strade già abusate, talora insoddisfacenti, tortuose; strade che, se nel passato hanno avuto il pregio di intuizioni pionieristiche, oggi appaiono univoche e limitanti.

L’inerzia è nemica della fede. Cristo si è incarnato per rivelarci la via del Regno dei Cieli, sulla quale ha voluto precederci col Suo esempio e la Sua morte redentrice. Possiamo noi religiosi restare ancorati nei nostri tranquilli porti, timorosi di intraprendere un nuovo viaggio verso l’uomo, quando la nostra stessa esistenza è un viaggio, tormentato e faticoso, verso la salvezza? Il nostro dovere è di ricercare l’uomo, il bisognoso.

100. Non incontreremo sulla nostra rotta continenti ignoti; San Giovanni di Dio ha già indicato alla coscienza individuale e sociale l’universo dei poveri e la loro umanità offesa. Durante la nostra navigazione scopriremo quasi certamente altre anime tormentate da nuove forme di bisogno.

Oggi gli Stati civili riconoscono il diritto insopprimibile di ogni individuo alla salute; la malattia non è solo un malessere personale, ma un fatto sociale collettivo di cui lo Stato si fa carico garantendo anche ai poveri la necessaria assistenza.

Quando San Giovanni di Dio iniziò la sua impresa con la temerarietà dei giusti, le cose non andavano in questo modo. Ma egli aveva assimilato bene la lezione evangelica, e da essa prese l’avvio il progetto di riscatto del sofferente emarginato. Un progetto che avrebbe trovato, nei secoli, solidale tutta la Chiesa.

 

101. Il nostro Santo Padre, Giovanni Paolo II, nel discorso di chiusura del Sinodo, ha ricordato infatti che la Chiesa desidera con tutte le sue forze servire l’umanità affinché la vita dell’uomo sia sempre più degna, e desidera anche difendere i diritti inalienabili della persona, fedele allo Spirito Santo generatore di vita e all’insegnamento di Gesù Cristo, che si è sacrificato per noi, per persuaderci a cercare nel bene, nell’amore, la vera vita, rivoluzionando la gerarchia dei valori.

Dobbiamo raccogliere questo pressante invito ‑ lavorare al servizio dell’umanità, lottando per affermare il rispetto dell’uomo e rifiutando e rivoluzionando, dove possibile certi modelli culturali che non tengono conto dell’autentica dignità umana.

 

102. Ogni cristiano, ogni religioso dove essere come un pioniere in cammino verso la Terra Promessa. Dobbiamo dunque comportarci come intrepidi naviganti che credono sia possibile giungere alla comunicazione con le anime, e per questo non si stancano di indagare l’animo umano, di rivelarne la grandezza, di conoscerne i bisogni per portargli sollievo. Queste sono le nostre mete.

Nella prima parte del documento sono stati individuati alcuni particolari ruoli del nostro ministero. In primo luogo quello di testimoni, poi quelli di guida morale, e di coscienza critica, infine il ruolo di anticipatori. Successivamente, ho richiamato alla vostra attenzione la necessità di comprendere nuove categorie di bisognosi, mentre nell’appendice indicherò alcune di tali categorie, che fanno parte di quell’Oceano che è l’«uomo che soffre». Ma per dare chiarezza di motivazioni ed efficacia concreta ai nostri interventi, è necessario che ci incamminiamo verso una autentica ricerca religiosa, professionale, umana, individuale e collettiva. Proprio questo spirito di ricerca, da realizzare e da potenziare in tutte le comunità, mi sono sforzato di infondervi e di alimentare attraverso questo documento, aiutato soprattutto dalle Nuove Costituzioni.

 

Al passo coi tempi

 

103. Mi sia concesso insistere sull’argomento, non rimaniamo insensibili ai progressi della conoscenza medica; e per quanto siano esemplari l’impegno e lo spirito di solidarietà dei nostri confratelli, corriamo il rischio di trovarci impreparati culturalmente, professionalmente e spiritualmente di fronte alle domande dell’Uomo e della Chiesa dal nostro tempo, alle istanze della tecnologia avanzata che toccano da vicino la possibilità di sopravvivenza e di sviluppo del nostro Ordine.

 

104. Noi siamo chiamati a lavorare su questa terra per la salute-salvezza nostra e del malato. La nostra fede e la nostra coscienza di religiosi devono spingerci ad intervenire in tutte quelle situazioni in cui, a causa di pigrizie, abitudini, incoltura e scarsi collegamenti, la salute e la salvezza del malato, (e quindi anche nostra) sono in pericolo.

Tutto questo ci obbliga ad ascoltare, a capire, a cercare di imparare, a coordinare, a prevenire, a riflettere in ultima analisi, sempre aperti e pronti a mettere in discussione i nostri atteggiamenti. Senza lasciarci prendere dallo scoramento se ‑ad esempio‑ in alcune Province i confratelli sono in diminuzione o se i collaboratori sono più preparati di noi. Dalla nostra crisi possiamo trarre un frutto più grande perché i nostri sforzi, invece di esaurirsi in interventi particolari e limitati avranno un respiro maggiore inserendosi in un programma di lavoro ben più ampio e costruttivo.

 

105. Occorrono sicuramente energia e sacrificio, ma noi, cari confratelli, abbiamo scelto proprio di servire Dio e l’uomo, con pazienza e devozione, allorché abbiamo deciso di entrare nell’Ordine.

La chiusa dimensione specialistica non è per noi, anche se potrebbe apparire gratificante a prima vista e immediatamente valida e operante; finirebbe per chiuderci in una gabbia, impedendoci la visione dei fatti nella loro dimensione spirituale e universale, inaridendoci con una tecnica spinta all’esasperazione. Del resto, se decidessimo di seguire questa strada, disperderemmo energie, ruberemmo tempo prezioso al nostro lavoro perdendoci nel labirinto di conoscenze tecniche particolarmente sofisticate. Noi non possiamo limitarci al ruolo di tecnici addetti a macchine e a monitors, non è per questo che abbiamo emesso i voti. In questi ruoli ‑lo ripeto ancora una volta‑ meglio di noi e con maggiore efficacia possono agire i nostri collaboratori laici. Non priviamoci dunque di tempo prezioso da dedicare alla salvezza delle anime e alla salute dell’uomo. Il nostro bagaglio di conoscenze va orientato in un ambito molto più vasto, per finalizzare la nostra azione ad un disegno complessivo in cui prevalga una cultura a dimensione umana, volta alla salvezza spirituale, al recupero dell’armonia psicofisica e del benessere, come testimonianza attiva e militante e la carità, dell’amore, del servizio umile e disinteressato verso il bisognoso.

 

106. In tal modo, aperti al mondo, curiosi intellettualmente, attenti alle trasformazioni, forti nella fede e generosi nell’impegno, come singoli religiosi e come comunità continueremo il carisma della nostra tradizione adeguando la nostra azione ai nuovi bisogni umani.

 

APPENDICE

 

Introduzione

 

Nella parte che segue ho pensato di scendere al concreto, individuando tre categorie di bisognosi del nostro tempo tra i quali noi possiamo mettere alla prova la nostra «stoffa» di religiosi nei ruoli di testimoni, di guide morali, di coscienza critica e di anticipatori. Avrei potuto ampliare il ventaglio delle situazioni, ma ho tralasciato di farlo mantenendolo aperto ad ogni suggerimento o integrazione, al contributo di esperienze nuove e singolari che ciascuna Provincia o singola Comunità può già avere affrontato in questa stessa ottica. Ciò che mi interessava era comunicarvi lo spirito che ha dettato queste pagine, e che si rifà alle nuove Costituzioni, cioè il testo sul quale ho lungamente riflettuto e pregato prima di mettermi al lavoro.

L’anziano, il moribondo, il drogato: tre gruppi di persone umane che più di altre risentono della emarginazione, della solitudine e dell’abbandono. In un mondo dove conta soltanto produrre e consumare, chi non è giovane e sano perde totalmente di rilievo sociale. Ecco dunque un campo in cui ‑nell’indifferenza e nell’abbandono di cui spesso sono responsabili anche le istante politiche ‑ il messaggio e la testimonianza dei moderni samaritani (e noi siamo e vogliamo essere tra quelli, come autentici seguaci di Cristo e di Giovanni di Dio) possono veramente «salvare» l’uomo e ridargli serenità e fiducia. Sono le nuove frontiere del nostro apostolato, i «segni dei tempi» che devono guidare l’Ordine ospedaliero nella costruzione del proprio futuro stabile.

 

I)            LA VECCHIAIA

 

Un fenomeno in esplosione

 

Una delle realtà nuove del nostro tempo è rappresentata dall’invecchiamento della popolazione, tanto più accentuato quanto più l’uomo partecipa agli enormi benefici del progresso economico, sociale, culturale, sanitario. Il fenomeno non si manifesta solo nell’aumento della durata media della vita, ma anche nella percentuale assoluta di anziani nella società: la contrazione delle nascite, modificando i rapporti, determina infatti un aumento relativo degli anziani.

Nel recente convegno di Milano Medicina sono state ipotizzate alcune cifre per il Duemila: in Italia ‑ad esempio‑ avremo 131 anziani ogni 100 bambini. Ci troviamo dunque di fronte ad una vera esplosione demografica della «terza età» se si pensa che all’inizio del secolo in Italia vi erano appena 28 ultrasessantenni ogni 100 bambini. La situazione si ripresenta identica in tutti gli Stati tecnologicamente sviluppati.

La scienza, che si era proposta il grande compito di aiutare l’umanità a vivere di più, ora si è prefissa il traguardo di vivere meglio la stagione della vecchiaia.

Il problema dell’anziano, dunque, di fronte a queste cifre, assume nella società attuale, un’evidenza anche quantitativa. Finora le società occidentali si erano interrogate soprattutto sul peso economico di milioni di pensionati, il che ha provocato ripensamenti e dubbi sul concetto di stato assistenziale. Sembra ora che, all’improvviso, i progressi scientifici e l’«esplosione demografica» abbiano suscitato una maggiore attenzione verso questo problema, cogliendo quasi di sorpresa gli interessati e i responsabili.

 

La cultura del giovanilismo

La cultura del nostro tempo non è molto preparata per affrontare questo fenomeno. Infatti, se osserviamo i comportamenti degli stati nazionali, noi riscontriamo un investimento elevato in asili, scuole, università, cioè rivolto ai giovani, mentre si verifica un brusco calo di attenzione pubblica verso la stessa persona quanto arriva ad una certa età. Ciò, naturalmente, è vero entro certi limiti, in quanto i politici dei nostri paesi si sono dati da fare per organizzare qualcosa per gli anziani, soprattutto per quelli che si ritrovano emarginati nella solitudine. Questo qualcosa si muove secondo due direzioni: assistendo i più poveri tra essi in centri specializzati, che spesso sono l’anticamera del cimitero, cercando di coinvolgerli in qualche attività che li mantenga in contatto coi giovani.

Tuttavia non possiamo ignorare, con occhio critico verso i modelli culturali della nostra epoca, che molto spesso questi interventi sono parziali o risentono della mentalità dominante, alla cosiddetta «Young culture», centrata sul giovanilismo, sull’efficienza fisica e sull’edonismo, a spese di altri valori.

Il modello paradigmatico è costituito dall’individuo giovane: e gioventù significa bellezza, salute, vitalità, efficienza. Queste sembrano essere le categorie per giudicare la vita degna o non degna dell’uomo, i parametri della vivibilità dell’esistenza. L’uomo giovane, quindi, nel pieno della possibilità psicofisica e produttiva rappresenta l’uomo «tout court».

Questo modello spiega tante cose. Ad esempio quella moda per cui tanti volonterosi animatori sociali inducono molti ultrassessantenni a sgambettare in feste da ballo o a praticare jogging, e footing con la sicurezza di compiere un’opera apprezzabile e nobile. Ma questa è solo una parziale risposta e per giunta con aspetti insidiosi, in quanto l’anziano posto in questa dimensione è spinto a rifiutare la sua età e recuperare la giovanilità perduta nella speranza di essere accettato.

La società può anche accettare il vecchio, ma a patto che faccia il giovane, che scimmiotti un’età che non ha più. Quale tristezza di fronte a queste situazioni, che costituiscono una barbarie bella e buona, non giustificabile nemmeno da un presunto amore per la gioventù. È una barbarie perché si limita ancora una volta la vita nella sua interezza, la si scinde in epoche, riducendola, forzando chi non ha più la «fortuna» di essere giovane ad assumere atteggiamenti incoerenti con la propria età psico-fisica, che rendono incongruente e perciò ridicola la persona stessa.

Questo tipo di atteggiamento può generare processi patologici di rifiuto della propria età, del proprio aspetto e del proprio ruolo, nonché di sofferenza psichica, poiché si spezza l’unità corpo-spirito il tempo cronologico e il tempo psicofisico del nostro Io più profondo. Questo processo collettivo di rimozione culturale della vecchiaia richiama quello analogo della morte.

Sulla donna, sull’uomo, sul bambino, sull’adolescente esiste un’abbondante letteratura, sulla vecchiaia no. Siamo di fronte ad un altro tabù della società civile odierna, secondo cui la vecchiaia coincide col preludio della morte, con l’età grigia, con l’affanno e il dolore, il crollo fisico, l’emancipazione dalle gioie della vita. Quanti giovani dicono superficialmente che non desiderano diventare vecchi. E questo perché si immaginano la vecchiaia come paralisi fisica, sofferenza, angosce, limiti, arteriosclerosi, artrosi ecc.

Il linguaggio riflette queste resistenze psichiche: «i meno giovani», la «terza età», la «quarta età», sono termini che quasi sempre sostituiscono «vecchio», «vecchiaia», «anziani». Come se questo nominalismo come se le parole potessero cambiare la sostanza delle cose. «La vecchiaia non esiste, è solo psichica» esclamano gli assertori del giovanilismo.

La società, dunque di fronte a questo problema si comporta da ipocrita. Gli economisti discutono sul peso sociale dei «non attivi» (ancora il nominalismo, con connotazioni economico-produttive). Ma ci domandiamo: e gli «attivi», mantenendo i «non attivi» non assicurano anche per sé una «terza età» migliore?

Enfatizzare l’età giovanile può anche essere operazione facile quando giovani non si è più: tale enfasi nasconde la volontà di non ricordare che anche la gioventù ha i suoi problemi. La visione dell’età dell’oro contrapposta all’età grigia manifesta pienamente la sua infedeltà alla realtà, i suoi limiti. L’uomo, ancora una volta, angosciato dalla morte, per la mancanza di una cultura globale della vita, e quindi della morte, cerca di superarla, di esorcizzarla, di allontanarla, facendo ricorso alla favola della meravigliosa età giovanile, in una sorta di collettiva e fantastica evasione dalla realtà, ricreando il mito di una moderna Arcadia. Questa dimensione culturale carica di ingiuste ed esasperate attese, che inevitabilmente conducono a drammatiche delusioni la vita dei giovani, rendendola ancora più ingiusta verso l’anziano, perché lo mortifica, non gli permette di invecchiare.

 

Dimensione della vecchiaia

 

Come tutte le situazioni umane, la vecchiaia ha una dimensione esistenziale: modifica il rapporto dell’individuo col tempo, e quindi il rapporto col suo mondo e con la propria storia: ma se questa situazione viene colpevolizzata, negata socialmente, accade che il rapporto si spezzi producendo effetti perversi fino alla negazione di sé. In altre parole: se la vecchiaia biologica è un fattore che non può essere condizionato, né dalla storia né dalla società, il destino e la situazione individuale del vecchio sono invece un fatto sociale e storico, quindi determinato dalla cultura umana. E ancora, i dati fisiologici e psicologici si possono influenzare reciprocamente determinando fenomeni psicosomatici.

L’anziano è oggetto di manipolazione sociale anche con la suggestione pubblicitaria, che mantenendolo all’interno del circuito produzione-consumo, lo modella come consumatore di illusioni giovanilistiche ed estetiche.

Qualche studioso ha voluto assimilare la vecchiaia ad una malattia e, orre individuare il bisogno del malato, risalire alle partendo da questa ipotesi, ha creato una geriatria fisico-ricostruttiva. Ma ecco, sempre e comunque ci troviamo davanti ad un errore: vecchiaia non è malattia, cioè fatto accidentale, ma norma dell’evoluzione fisica, così come ricostruzione del fisico richiama l’illusione della gioventù. Certo, il miglioramento del tono fisico dell’anziano agisce positivamente sulla sua psiche, crea un benessere maggiore e ritarda la comparsa di alcuni processi degenerativi ossei. Ma ciò a cui dobbiamo opporci non è la terapia fisica, sono i modelli sottostanti di tipo estetico, non morale.

È stato Ippocrate il primo a paragonare le tappe della vita umana al susseguirsi delle stagioni della natura.

Questo riferimento ci fa meglio comprendere il tipo di negazione e di rimozione operata dal modello culturale che abbiamo analizzato: è come se un albero dovesse far finta di non entrare nella spoliazione invernale, coprendosi di finte foglie, prese a prestito… Ci si illude di inibire il «processo di crescita», di evoluzione biologica, in modo artificioso e indecoroso, mettendo in moto un meccanismo di rifiuto che finisce col produrre maggior sofferenze e mutilazioni, strutturando una personalità patologia, in crisi di valori, e senza coscienza di sé.

Una volta il vecchio era saggio. Conosceva cose che spesso risultavano indispensabili per la vita e per la sopravvivenza; deteneva un sapere che veniva tramandato alle successive generazioni. In Africa, ancora oggi, quando muore un vecchio, i sopravvissuti esclamano: «Oggi un libro si è chiuso!». Un tempo il vecchio godeva di grande rispetto e c’era addirittura chi, per questo, come nota lo storico P. Laslett, «esagerava la propria età».

Ma era un contesto sociale diverso. Come nota lo storico Cipolla. «Una società industriale è caratterizzata dal continuo e rapido progresso tecnologico. In tale società gli impianti divengono rapidamente obsoleti e gli uomini non sfuggono alla regola. L’agricoltore poteva vivere beneficiando di poche nozioni apprese nell’adolescenza.

L’uomo dell’era industriale è sottoposto ad un continuo sforzo di aggiornamento e tuttavia viene inesorabilmente superato. Il vecchio nella società agricola è il saggio: nella società industriale è un relitto».

Si capisce allora perché oggi molti vecchi finiscono la vita senza ruolo e paradossalmente, come se si fosse realizzata una nemesi, vi è la vendetta dell’antico sul nuovo: perde il ruolo nella società chi ha goduto del privilegio di produrre e di vivere nella società industriale, mentre chi, come gli artigiani e gli agricoltori, ha vissuto in attività autonome, conserva a vari livelli (mentale, familiare e sociale) una migliore capacità di avere un ruolo anche nella vecchiaia.

È un altro fatto paradossale della nostra società tecnologica: «peso» sociale e percentuale più alta di anziani creano contraddizioni, a cui si aggiunge l’incertezza sull’identità e sui ruoli.

Vi sembra, cari confratelli che in questa tanto decantata età tecnologica non sia tutto oro ciò che riluce? Che abbia ragione non chi sa utilizzare i ritrovati tecnici, ma chi comprende la cultura dell’uomo integrale, per l’intero arco dell’umana esistenza, con i suoi bisogni materiali, culturali e spirituali?

 

Cultura umanistica e fede religiosa

 

La cultura dominante permette l’emargínazione perché è una cultura incompleta, parziale, riduttiva. Per uscire indenni dalla trappola del mito tecnologico ci sono di aiuto una cultura umanistica e la fede religiosa. La prima, con l’appoggio di tutte le scienze, denuncia quanto sia illusorio pensare di poter salvare l’universo uomo. La seconda. la fede in Dio, ci richiama alla dignità dell’uomo, alla sua sacralità in ogni tempo, in ogni luogo. Sacralità che viene sancita dalla speranza della resurrezione; infatti «Il Risorto ha liberato l’uomo dalle tre forze antidivine: il peccato, la legge, la morte… credere nella Resurrezione di Cristo è affermazione della vita sulla morte, dello Spirito sulla legge, della Grazia che è verità, bellezza, amore, sul peccato che è chiusura, immeschinimento, bruttura… viviamo senza paura» (Vannucci).

La cultura umanista e la fede assegnano all’uomo un ruolo in ogni momento, ritenendolo capace di essere se stesso: in ogni epoca o tappa dell’esistenza, anche dopo la morte fisica. Come possiamo noi, religiosi ospedalieri, rispondere in modo concreto a questi problemi, dopo aver indagato le ragioni di questa nuova forma di emarginazione?

Certamente non possiamo pensare di cambiare integralmente la società. La risposta, molto semplice, è già implicita nelle precedenti considerazioni. La vecchiaia propone tre aspetti distinti e collegati tra loro: aspetti biologici, psicologici e sociali.

In campo biologico vi sono interessanti interventi da operare: dalla ginnastica educativa, preventiva e rieducativa, alla cura specialistica delle malattie e dei fenomeni tipici dell’età; interventi che richiedono collaborazione e aiuto di esperti qualificati in vari settori. Tuttavia, sappiamo che nemmeno essi sono in grado di ridare completamente la salute, perché non esiste la possibilità di alterare l’evento biologico e quindi il destino dell’individuo verso la vecchiaia.

Un campo d’azione certo meno spettacolare rispetto al conclamato trionfo della medicina o dei ritrovati terapeutici, ma che permette una cura più efficace dell’anziano, è quello psicologico e sociale, centrato sulla disassuefazione ai modelli introiettati dalla cultura dominante.

In altre parole noi tutti insieme, Fatebenefratelli e laici, dobbiamo cercare risposte adeguate, soluzioni idonee a ridare un senso alla vecchiaia, un’identità e un ruolo all’anziano.

Se questo è il fine a cui mirare, dobbiamo concentrare l’attenzione sui modi e sui mezzi per raggiungerlo.

Innanzitutto, occcause e trovare le terapie adeguate, che garantiscano un’assistenza integrale, secondo il sistema di valori ispirato al Cristianesimo. Non possiamo permettere che i nostri centri diventino parcheggi per anziani disadattati.

 

Essere all’altezza del compito

Per essere all’altezza del compito, necessitano due elementi fondamentali.

In primo luogo il Fatebenefratello deve assimilare una cultura della vita, riaffermare in modo deciso la propria visione religiosa dell’esistenza. In secondo luogo, deve preoccuparsi di ascoltare pazientemente l’anziano, di entrare in contatto con lui, giorno per giorno, senza preconcetti.

Lo scambio reciproco di informazioni, favorito da questa quotidiana esperienza con il malato, renderà più costruttivo il rapporto con gli esperti laici delle varie discipline. Non dobbiamo inoltre temere di affrontare nuove conoscenze, anche mediante la lettura, per poter meglio comprendere delicati e complessi meccanismi psicologici dell’anziano.

Liberiamoci, a questo proposito, del complesso dell’umile Fatebenefratello che si cimenta in un impari, scontro con la cultura contemporanea. Un nostro religioso armato di carità, di fede, di umiltà, svolge un prezioso servizio di amore, lasciandosi guidare dal cuore e dalla sua cultura religiosa. In questo viaggio verso nuove terre, è vero, egli non conosce con certezza le acque in cui gli toccherà navigare, né gli ostacoli che incontrerà. Tuttavia dispone delle strumentazioni per non perdere l’orientamento. Sa che, se non può combattere la vecchiaia nel suo processo fisico, biologico, egli può agire efficacemente sul terreno psichico, mediante quelle piccole attenzioni al soggetto che lo mettono a suo agio, favorendo in lui la serena accettazione del suo stato. Dipende molto da noi se i nostri ospiti vivranno la loro condizione in pace con se stessi e con gli altri, e non come una larvata prigionia.

Un autentico benessere, che può perfino far passare in secondo piano i frequenti disturbi fisici della vecchiaia, passa attraverso il recupero del senso della propria età.

Negli anziani il calo del morale può provocare un brusco declino. È anche questo un fenomeno psico-somatico.

Nonostante la maturità raggiunta, la psiche degli anziani si rivela molto fragile; può bastare una delusione, un cambiamento di abitudini, un abbassamento di certe funzioni per provocare un trauma che origina il declino fisico. A volte, e conviene ricordarsene sempre, il trauma ha origine proprio dal passaggio alla vita in ospedale, nell’ospizio, nella casa di cura: sono momenti vissuti spesso dagli anziani come l’effettivo chiudersi della loro vitalità, come la scomparsa della dimensione sociale, cioè come l’inizio del declino definitivo, preludio di imminente morte. Queste cadute di morale creano una indifferenza e una apatia che vanno contrastate.

Se noi, esseri mortali, non possiamo alterare la fisiologia umana, né illuderci che esistano ricette miracolistiche, possiamo però ricorrere alle discipline psicologiche per interpretare le debolezze e le richieste degli anziani, per dare loro risposte soddisfacenti e stimolanti

Non si tratta certo di ridonare loro gli anni perduti, bensì di collaborare per una migliore qualità della loro vita, rispettandone il «background» socio-culturale, tenendo presente però che la sindrome che abbiamo descritta colpisce indifferentemente le persone agiate e quelle povere. Piuttosto, se una distinzione può avere un valore, è quella legata al sesso dell’anziano.

La donna infatti, finché sta in famiglia, mantiene certi suoi ruoli legati alla precedente condizione di madre, mantiene il rapporto affettivo con i figli e nipoti, si rende utile e sovente è responsabile dell’andamento domestico.

Per l’uomo, invece, l’età della pensione è un gravissimo trauma: egli perde il ruolo di supporto attivo della famiglia senza acquisire quello tipico del passato, allorché il vecchio era riconosciuto come il saggio, il patriarca, la guida autorevole. Egli si sente inutile, colui che non produce, la bocca in più da sfamare: siamo di fronte ad un fenomeno culturale e sociale,e su questo piano dobbiamo intervenire.

A questi fattori di carattere psicologico si aggiungono gli effetti delle malattie croniche più diffuse: ipertensione, diabete, artrite e altre. E qui sono chiamate in causa le necessarie terapie suggerite dalla geriatria. Ma il grosso problema sul quale noi ci dobbiamo concentrare con attenzione è quello psicologico.

 

Restituire un ruolo all’anziano

Il compito del Fatebenefratelli è quello di restituire il ruolo al vecchio. Occorre esserne consapevoli innanzitutto in prima persona, poiché molti di noi sono anziani o sul punto di diventarlo. E allora dobbiamo chiederci: come viviamo la nostra terza stagione? Sappiamo invecchiare?

Dalla auscultazione di noi stessi dobbiamo trarre conseguenze importanti e conoscenze da trasmettere. All’anziano dobbiamo partecipare le nostre consapevolezze, in modo che impari ad accettare il suo stato. Ciò può dargli serenità e fiducia: spesso l’anziano ha paura di non essere amato e ascoltato; teme perfino che si scambino certe sue idee come degenerazioni psichiche dovute all’invecchiamento. Può subentrare in lui la tristezza di vedere che nella propria vita non c’è più spazio per i progetti e per i sogni, ma solo per i rimpianti, per il fardello dei ricordi che pesa come un macigno nella sua progressiva lontananza e mitizzazione. Sta a noi convincerlo che la vecchiaia è anche la stagione nella quale vengono esaltati valori come l’amicizia, l’amore e la saggezza.

L’anziano ha molto tempo libero, non essendo più gravato dalle occupazioni della routine produttiva; egli può dunque dare molto, proprio nel momento in cui crede di valere poco. L’età della vecchiaia potrebbe veramente essere l’età dei valori umani, più che dei bisogni materiali. Ma a condizione che lo spirito si mantenga giovane, accettando la vita per quella che è. Senza fughe all’indietro o in avanti.

Diceva a questo proposito Papa Giovanni XXIII: «A volte vedo affacciarsi la tentazione di considerarmi vecchio. Bisogna reagire: ad onta delle apparenze esteriori, bisogna conservare vivida la giovinezza dello spirito».

Noi possiamo aiutare l’anziano, anche nel recuperare i ruoli giusti, se siamo capaci di vivere la nostra età, se siamo in grado di convivere con la nostra vecchiaia.

A chi chiedesse «Cosa debbo fare per aiutare il vecchio emarginato, fragile, indebolito, impoverito? », io risponderei: dimmi come vivi o come pensi di vivere la tua futura vecchiaia e ti dirò se e come sarai in grado di aiutare il tuo prossimo anziano.

In concreto la prima cosa da fare è avere un rapporto adulto, maturo, verso la nostra stagione. L’Ordine vive dei doni spirituali e umani dei suoi componenti: senza giovani esso non avrebbe futuro, senza anziani non avrebbe guide esperte. Per questo è auspicabile che tra le diverse generazioni non venga mai meno lo scambio di idee, esperienze, di progetti, in altre parole, non venga meno la creatività.

Uno studio sulle persone centenarie ha messo a fuoco interessanti situazioni di vitalità psichica. La maggior parte di esse fanno piani precisi per il futuro, si dedicano ai passatempi preferiti, hanno resistenza fisica; riempiono bene le loro giornate con, ticcupazioni e attività e non dimostrano, almeno all’apparenza, paura della morte.

Un’altra interessante testimonianza è quella del gerontologo inglese, Alex Confort, che ha detto: «Probabilmente è la nostra prospettiva culturale, non il numero delle cellule cerebrali, che c’induce, in vecchiaia, alla rigidità o, al contrario, alla disponibilità, al mutamento ».

Dunque l’attività intellettuale, la progettualità, l’espressione della creatività personale, gli interessi in occupazioni realizzanti, impediscono un precoce e brusco declino mentale. E le conseguenze di ciò si riflettono nell’umore, nel gusto di vivere, in un rapporto con se stessi e con la propria età sicuramente positivo.

L’anziano ha tempo libero per riappropriarsi dei suoi interessi e per scoprirne di nuovi. Ma ancora una volta occorrerà valutare queste riflessioni e queste esperienze in modo non riduttivo, cioè in una visione integralmente umana, che non prescinda dall’insieme di valori e di comportamenti necessari per risolvere il nodo dell’identità e del ruolo degli anziani. In altri termini, le attività creative e ricreative, pur importanti e necessarie, non possono essere pretesto per una evasione, una fuga dalla noia, dalla crisi esistenziale. Chi volesse propinare questi modelli solo per riempire i vuoti del tempo non coglierebbe il nocciolo del problema. Proprio l’anziano sarebbe il primo ad accorgersi del sotterfugio e proverebbe un’intima insoddisfazione.

Non dobbiamo poi nemmeno tentare impossibili ritorni al passato, a quando l’anziano manteneva salde posizioni sociali; né pensare che sia proponibile come soluzione per tutti un reinserimento dell’anziano nella società produttiva. Tuttavia, non trascuriamo di «usare» la sua esperienza chiamandolo a collaborare con noi allorché servono interventi, analisi, giudizi.

Egli può sicuramente essere utile nel rapporto con altri anziani, magari più bisognosi di assistenza di lui.

Ogni anziano è un microcosmo, una persona, un insieme anche di abitudini, di piccoli personali riti quotidiani che si sono sedimentati durante un’intera esistenza. Ove sia possibile dobbiamo garantire queste forme personali che allontanano la penosa immagine di chi si sente in casa d’altri, privato dei propri oggetti con cui ha a lungo convissuto, propenso a ripensare con nostalgia a tutte quelle cose che gli mancano. E ciò possiamo fare ascoltandoli, colloquiando con loro, scoprendoli poco a poco, evitando di colpevolizzare i loro gusti e i loro atteggiamenti (spesso si pretende che siano seri, saggi, composti; ma anch’essi provano la stessa nostra gamma di sentimenti e di situazioni), costringendoli forse ad assumere identità di «copertura» per venire accettati.

Il recupero del ruolo avverrà innanzitutto a partire dal rispetto per loro: non possiamo certo essere noi ad imporre, a sovrapporre le nostre idee. E anche prima che l’obiettivo sia raggiunto, essi quanto meno ritroveranno la coscienza della propria età, la vivranno senza colpe o rimorsi, senza sentirsi emarginati. Forse quelle situazioni penose di anziani perennemente seduti, depressi, che hanno poche cose da comunicare se non l’esposizione reciproca degli « acciacchi » o conversazioni acidule e pettegole, forse potranno essere definitivamente evitate.

 

Le famiglie devono collaborare

 

Ma l’intento di recuperare l’anziano al suo ruolo, vincendone la solitudine non si ottiene completamente se le famiglie non sono coinvolte in questo sforzo collettivo. La famiglia deve essere disponibile al colloquio, anche per rivelarci abitudini, interessi, piccoli fatti, che ci possono aiutare nel nostro operare; deve essere disponibile alla collaborazione, all’incontro, per non estraneare l’anziano dai suoi affetti che gli restano ben presenti nella memoria. Quale armonia potremo ricreare se in lui prevarrà la malinconia? Se si sentirà emarginato, abbandonato come un «relitto» inutile?

Quindi nei nostri compiti rientra anche la sensibilizzazione.dei parenti, coi quali dobbiamo tenere aperto un dialogo sia di ascolto interessato, sia di consiglio.

Ancora una volta si manifesta qui la ricchezza del nostro carisma. Si tratta di sfruttarla in maniera adeguata, con le necessarie aperture ai tempi, non insistendo sui vecchi metodi che a volte sanno tanto di mero paternalismo assistenziale ma scegliendo di rapportarsi al vecchio, di inseguirlo, nei suoi timori, nelle sue difese, nei suoi fallimenti, nelle sue speranze, nelle sue possibilità: solo così il nostro ruolo sarà dì qualche valore.

Come amerei vedere i nostri Fatebenefratelli, vecchi e giovani, discutere non sui casi clinici, ma sui casi umani (e quindi anche clinici), all’interno di un gruppo di costante riferimento nel quale le opinioni di tutti vengano confrontate per dare al religioso che segue l’anziano tutti i suggerimenti che la scienza e il cuore possono mettere a disposizione. Mi piacerebbe vedere i religiosi intrattenersi con i parenti dei loro ospiti anziani, a lungo, non per dare ordini né per redarguire, ma per acquisire informazioni e conoscenze utili ad una migliore assistenza. E infine mi piacerebbe vedere il Fatebenefratelli in colloquio costante con l’anziano, nella reciproca scoperta della propria umanità. Le nostre opere per anziani non sarebbero case di riposo, ma luoghi di attività, di studio, di ricerca, di riflessione, di rivelazione dell’animo umano e, fin dove possibile, di attivazione di tutte le risorse disponibili.

Vorrei, insomma, che il vecchio sul letto di morte potesse dire a noi: «Avete fatto tutto il possibile, spesso più del necessario, a volte avete sbagliato, non avete capito, ma sempre avete avuto l’orecchio attento e il cuore aperto verso di me».

Ho fondate speranze che ciò possa avvenire.

 

II. IL MALATO TERMINALE

 

Un pietoso eufemismo

Abbiamo osservato precedentemente quanto sia sconvolgente il problema della perdita del rapporto diretto col malato, e come il lavoro di umanizzazione all’interno delle nostre strutture debba cominciare proprio dal recupero non tanto di un rapporto di natura clinica ‑tra paziente e infermiere‑ quanto piuttosto di un rapporto con l’anima del nostro malato: dobbiamo recuperare quel complesso nucleo di affetti, di emotività, di atteggiamenti dello spirito che interagiscono positivamente nell’incontro tra due persone molto più che il rapporto tra un anonimo degente «numerato» e un asettico professionista addetto alle sue cure. Sappiamo anche che questo incontro sollecita, stimola un reciproco accrescimento spirituale. Il discorso si fa più arduo di fronte ad un particolare tipo di malato, il morente, che con pietoso, quasi esorcizzante eufemismo viene definito «malato terminale». Restiamo pensosi, non solo per lo svanire della vita terrena nel mistero della morte nella speranza della resurrezione futura, ma anche per la constatazione amara di quanto il nostro operare sia impotente, non riuscendo ad intervenire in modo positivo in quel momento, il più importante dell’esistenza umana.

Come cristiani sappiamo quanto sia decisivo questo trapasso per ogni uomo, per ogni anima; sappiamo quali travagli psichici, quanta pena provi il moribondo e in che modo dolce e disperato si manifesti in lui l’amore per la luce, per la vita, per il mondo che sta per lasciare.

Sappiamo pure che prepararsi alla morte è condizione fondamentale per affrontare senza timori, senza rimpianti o peccaminosi furori di rifiuto, la prova di questo ultimo attimo fuggente. Davanti alla realtà della morte, mistero sovrumano, non possiamo che imporci un grande, un devoto silenzio, e innalzare i nostri suffragi per l’anima del defunto, inchinandoci alla volontà divina.

Ma prima, che cosa possiamo fare? Oggi morire in ospedale è un fatto comunissimo e diffuso; incontriamo sempre più spesso la morte nelle corsie, nei vari reparti in ogni momento del nostro operare. P, un fenomeno a cui dobbiamo fare fronte, fedeli alla nostra cultura dell’ospitalità; il nostro ospite soffre interiormente davanti a noi: ci limitiamo a pregare per lui o dobbiamo in qualche modo aiutarlo a compiere serenamente il grande passo? Anche in questo caso dobbiamo fissare l’attenzione sugli inconsapevoli, ma non per questo meno erronei e pericolosi, comportamenti che offuscano la dignità umana.

 

Un «tabù» da rimuovere

 

Per un cristiano il problema della morte deve essere un argomento fondamentale. Aiutare l’uomo morente a mantenere la sua dignità, il suo valore e accompagnarlo in quegli ultimi momenti, spesso lunghi, deve essere un nostro preciso dovere di assistenza e di buona ospitalità. Anche perché, oggi la morte viene vista con ottiche falsate. Esisto no nella società contemporanea due tendenze opposte: da una parte si rifiuta la morte come dato oggettivo dell’esistenza umana, la si rimuove con un senso di terrore misto a disgusto; dall’altra, si riscopre la morte come evento ineluttabile.

Sì, cari fratelli, si riscopre la morte, come se essa non fosse stata sempre presente nel pensiero, negli atti, nella storia e nella civiltà dell’uomo.

Ma soffermiamoci su alcuni fenomeni che evidenziano la prima tendenza. L’uomo oggi rifiuta la morte: sa che esiste, ma si comporta come se essa non dovesse mai sopraggiungere, evita di considerarla come evento certo e con questo pretende di allontanarla, quasi come in un rituale esorcistico. In sostanza, ne rimuove il pensiero. Eppure, la morte è diventata un fenomeno abituale quotidiano. Pensiamo ai notiziari televisivi che spesso manifestamente offrono la «morte a tavola», in diretta, fino al punto da farci dubitare sulla liceità etica di simili spettacoli, giustificati con il «dovere di informare». Se prendiamo in esame i comportamenti più consueti, ai quali nessuno dedica attenzione, ci accorgiamo che la stessa cultura della vita è basata sulla certezza della morte.

Ipotizziamo un paradosso: l’immortalità della vita terrena. Se dovesse avverarsi, l’uomo non avrebbe più gli stessi comportamenti, cambierebbe nei costumi, nella filosofia esistenziale: l’età dell’apprendimento sarebbe costante e non relegata al periodo dell’infanzia ‑ adolescenza ‑ gioventù; l’angoscia dello scorrere del tempo non esisterebbe; il tempo e la voglia di ricostruire, di cambiare attività, il coraggio delle scelte e dei mutamenti, sarebbero prevalenti sulla tendenza all’accettazione, alla professionalità definitiva e conservativa. La vita sarebbe vista in una prospettiva totalmente diversa, si~ creerebbero nuove abitudini, nuove teorie e nuovi modi di pensare.

Eppure, proprio perché è un paradosso, ci accorgiamo della flagrante contraddizione insita nel rifiuto della morte. È solo il terrore che fa negare la morte, oggi? Forse che prima l’uomo non ne provava paura? Forse una spiegazione sta nel fatto che l’immagine della morte è in netto contrasto con l’edonismo, con la vitalità giovanilistica, con la stilizzazione della bellezza, cioè con i modelli di consumo culturale ed economico oggi tanto in voga. Essa è vista come qualcosa di sconveniente, come gli atti fisiologici: il moribondo, nel suo immiserimento fisico, viene associato a fenomeni dichiarati inammissibili dalla civiltà dei deodoranti. Non è più sublimata od eroica, come accadeva ai personaggi letterari che amavano una morte bella, virile, patriottica, degna. L’antieroe letterario contemporaneo è il borghese, che si adatta alle pieghe della vita, mentre teme e sfugge la morte.

Dunque, anche la cultura più nobile ha revisionato i modelli precedenti e li ha dichiarati inammissibili nella realtà.

La fiducia nella scienza medica porta le famiglie a ricoverare il malato grave in ospedale; talvolta esse, pur di fronte a certezze negative, senza speranza, restano ancorate al miraggio del «miracolo scientifico». Ma più spesso certi comportamenti celano l’incapacità di sapere accudire, soffrire, assistere, vivere nella promiscuità con la morte. In alcuni casi il malato grave diventa un peso non più sopportabile, scomodo per i cinici, e così viene scaricato su altri, nell’intento-alibi di offrirgli un’assistenza specialistica che, nella maggior parte dei casi, si rivela modesta ed inutile.

 

Cambiata l’immagine tradizionale del morente

 

Una caratteristica del nostro tempo è che si muore sempre più raramente nel proprio letto; si preferisce l’ospedale, sia per necessità di cure specializzate che spesso esigono attrezzature non trasportabili a domicilio, sia per una disassuefazione al rapporto diretto con la morte (quella vera, non quella televisiva, che può essere guardata con distacco per la bravura degli attori che la fingono).

L’evoluzione subita dalla famiglia rende praticamente impossibili certi compiti di assistenza. Nel passato, le famiglie numerose erano in grado di suddividere meglio ‑rendendolo sopportabile‑ il peso di una lunga presenza quotidiana a fianco del degente; c’era anche in tutti i suoi componenti una preparazione psicologica ad una tale evenienza.

16 cambiata poi l’immagine tradizionale del morente: spesso è una specie di «mostro» prigioniero in un groviglio di tubi di plastica, di flebo, di elettrodi, di cateteri, di sondini. P‑ l’immagine di questa civiltà, la rappresentazione iconografica di un’epoca che esprime una realtà di totale emarginazione e solitudine interiore. È passato il tempo in cui il moribondo parlava alla famiglia dolente e compunta, ma attenta a quella voce grave che raccomandava e spesso benediceva.

La morte era un rito di dolore che aveva la cornice di una solida speranza. Oggi, tale cornice è quasi del tutto scomparsa nella nostra cultura. Vale la pena di interrogarsi al riguardo.

Nel libro delle «Meditazioni cristiane» di Giovanni Vannucci, al capitolo «La Resurrezione» trovo questa interessante citazione: «Scelgo per queste considerazioni (sulla morte dell’uomo) due diverse correnti di esperienza di pensiero. Comincerò con un testo indù della Katha Upannishad (1000 a.c.). Nachiketas interroga Yama, il re dei morti, perché gli riveli il mistero della morte, dell’immortalità. Yama; riluttante a rispondere, sottopone l’in­terrogante ad alcune prove; trovato il giovane maturo, gli rivela il segreto dell’« Io » profondo ed immortale dell’uomo.

Rispondendo alla domanda, afferma che gli uomini si dividono in due categorie: quelli che si identificano con la parte fisica e vitale del loro essere, e quelli che sono invece in costante comunione con il loro «Io» profondo ed immortale.

Per i primi la morte è una cessazione, una amara e indesiderata vicenda; per gli altri, è avanzamento e ascesa verso una vita più vasta e più libera.

«Il bene supremo è una cosa, il piacevole un’altra, ciascuno trascina l’uomo a una fine differente. Chi aderisce al bene, giunge a un buon fine; chi sceglie il piacevole, fallisce lo scopo. Tanto il bene che il piacevole si presentano all’uomo, il saggio li esamina e li discrimina».

Il saggio sceglie il bene, non il piacevole, lo stolto, essendo avido e possessivo, preferisce il piacevole. Il mondo spirituale non si manifesta all’immaturo e allo sciocco; illuso dal fascino della ricchezza, egli afferma che solo questo mondo esiste e non ve n’è un altro…

L’uomo che si concentra su ciò che è oltre l’udito, oltre il tatto, oltre la vista, oltre il gusto e l’olfatto, sull’indefettibile ed eterno, senza principio

né fine, più grande delle cose grandi, permanente, si salva dalle fauci della

e morte».

Per l’altra corrente, quella ebraica,, scelgo due brani tratti rispettivamente dall’antico Testamento e da un racconto midrascico.

«Un cane vivo vale più di un leone morto: i vivi sanno che morranno, ma i morti non sanno più nulla: per essi non esiste più salario, poiché il loro ricordo è dimenticato. Il loro amore come il loro odio e la loro bramosia sono da tempo periti. Non avranno più parte a ciò che avviene sotto il sole». (Kohelet, 9, 4‑6).

Hillel disse al giovane discepolo Jacob: «Mi sento vecchio e ho paura della morte. Quando sarò in agonia, prega l’angelo della morte di essere pietoso con me».

Jacob rispose: «Accettò, a patto che una volta raggiunta l’altra sponda tu mi venga a dire in sogno come sono le cose dell’aldilà». Un mese dopo la morte, Hillel apparve a Jacob per dirgli: «Grazie, fratello, l’angelo, della morte è stato gentile con me, mi ha sfiorato con la lievità di un’ala di farfalla. Se tu sapessi quanto è buono Dio, Jacob! Mi potrebbe domandare qualunque cosa, tuttavia se esigesse da me il ritorno sulla Terra, mi rifiuterei».

Jacob si stupì. «L’angelo della morte non è stato gentile con te? Non hai adesso la prova che la morte è dolce?». «Ne ho la certezza, ma non vorrei tornare a vivere sulla Terra». «Perché?» «A motivo dell’angoscia della morte ».

Le due tradizioni sono il segno di due culture differenti. Per l’induismo, l’angoscia della morte è frutto dell’ignoranza: il saggio ne è immune, avendo realizzato la natura immortale del proprio Sé. Invece, nell’Ebraismo, la morte, presente dalle prime pagine della Genesi fino agli scritti sapienzali, è il sommo dei mali…

Questa nota caratteristica della religiosità ebraica penso derivi dal suo mito centrale: la «Giustizia». L’ebreo è sulla terra per creare un popolo di giusti, che attui nel suo ambito la grande giustizia divina; il popolo dei giusti sarà la guida di tutte le altre genti che si orienteranno verso la città giusta, Gerusalemme.

Da questa spinta per la creazione di un popolo di giusti deriva la grande importanza data alla famiglia, alla terra, alla vita, alla rivelazione ebraica. In una simile ottica, la morte non poteva apparire che una punizione, un’ammenda per le colpe commesse e insieme come un angoscioso fallimento, per chi non poteva vedere i figli dei figli né godere il compimento di tutte le attese della giustizia.

L’annuncio della Resurrezione non poteva che avvenire nell’Ebraismo, come suo capovolgimento risolutivo: «Chi crede in me, ha la Vita eterna. Chi mangia della mia carne, ha la Vita eterna. Io sono la Resurrezione e la Vita». (Gv 6, 53; 11, 26)».

Eppure queste parole sono rimaste sovente inerti nella vita della cristianità. Qualche raro santo ha sorriso alla morte, chiamandola «sorella» o «il più grande sacramento». Ordinariamente ha prevalso l’orrore della morte…

Oggi, invece, nella stessa cultura laica, tra i pensatori più avveduti, si nota una ritrovata attenzione per il problema della morte, dopo anni di disinteresse.

 

Riscoprire la morte

 

La riscoperta della morte è importante non solo nella prospettiva dell’aldilà, ma anche in quella del presente. Si dice: se vuoi la vita, prepara la morte. Oppure: si muore come si è vissuti. Ma non secondo la logica dell’orrore e nemmeno seguendo il meccanismo del rifiuto, che fanno presentire e sperimentare in modo drammatico e angoscioso il momento del distacco. La medicalizzazione della morte, dove il malato diventa dominio della medicina, è una forma di rifiuto del grande passo. Per questo oggi la morte migliore è da molti ritenuta quella «repentina e improvvisa», che invece era così temuta nel Medio Evo. E nemmeno «dopo» il defunto deve sembrare tale: nelle « funeral homes » (obitori) americane lo si imbelletta per farlo apparire un quasi vivente: «The patient looks lovely now» (ora ha di nuovo un bell’aspetto).

Anche il lutto è rifiutato, venendo spesso meno un autentico dolore interiore e quindi non avendo senso il segno esterno: anzi, chi si lascia andare ad una forte commozione è guardato addirittura con sospetto.

Ma questi sono palliativi che non cambiano la sostanza. È ora che la morte ‑la quale è una cosa sola con la vita‑ esca dalla clandestinità e che l’uomo ritrovi il cammino, per un certo tempo smarrito, verso una cultura della morte e, quindi, della vita. E ciò è possibile seguendo la strada dell’uomo.

Da quanto si è detto, infatti, vediamo emergere un nuovo tipo di bisognoso, di emarginato: il malato terminale. Anche a lui dobbiamo garantire attenzione e assistenza.

Certo, di fronte ad una persona che non ha speranze di sopravvivenza sorgono numerosi interrogativi. Innanzitutto, fino a che punto si deve prolungare il trattamento terapeutico? Si deve permettere che si tramuti in vero e proprio accanimento? Chi decide durata e modalità di questa lotta contro la morte? Quali gli interventi legittimi e quali no? Che atteggiamento deve tenere l’operatore sanitario verso il morente? Chi collabora con lui in questa fase?

In sostanza, che fare per mantenere il morente in una situazione di massima dignità e di minima sofferenza salvaguardandone il diritto di vivere senza accanirsi in cure inutilmente dolorose, né senza abbandonarlo a se stesso? E ancora: come, se e quando avvertire il morente del suo stato? E chi lo deve fare?

 

Interrogativi drammatici

 

Siamo di fronte a problemi drammatici.

Molti medici, molti operatori, e ahimè talvolta anche qualche Fatebenefratello, non sanno che fare e finiscono per abbandonare alla solitudine colui che sta affrontando il passo più importante della vita. È la nefasta conseguenza di un’idea di assistenza finalizzata solo al recupero dell’integrità e della efficienza fisica, è un lasciar via libera in noi al rifiuto della morte.

Un primo fondamentale motivo di riflessione riguarda determinati atteggiamenti in costante diffusione che minacciano l’uomo proprio in nome dell’umanità. Tra questi, il più subdolo è l’eutanasia, la cui pratica si insinua in modo strisciante nell’ospedale con sempre maggior credito. Abili manipolazioni culturali, soprattutto attraverso i mass-media, riescono a presentare l’eutanasia agli occhi della gente come la risposta più semplice e più «umanitaria»: per eliminare la sofferenza di chi non ha più speranza di guarigione, si elimina il sofferente. Ma questo falso umanitarismo ad un’analisi attenta rivela il suo volto ambiguo.

1 «Molte volte le richieste di uccisione pietosa ‑ricorda il teologo B. Háring‑ non sono espressione di una vera volontà di morire, bensì un appello disperato per ricevere più cure, più attenzione più solidarietà umana».

Secondo i sostenitori di tale pratica, essa sarebbe una conquista umana, sancirebbe «il diritto a morire con dignità». Ma, cari confratelli, la dignità della morte non consiste affatto in questa «conquista», bensì nel modo di affrontare la morte.

Disumano è piuttosto quel letto, disumani sono quei tubi, quel corpo e quell’anima abbandonati a se stessi, quell’uomo solo con i suoi pensieri, le sue angosce e inquietudini. La vera risposta sta nell’affrontare questo momento di sofferenza morale e psichica, non nel sopprimere il sofferente.

Sappiamo che la scienza medica può aiutare ad affrontare bene la morte evitando di degradare l’uomo ad animale in preda al dolore. Il progresso nei procedimenti di rianimazione che attenuano o sopprimono la sensibilità corporea mirano proprio a questo.

Tuttavia, cari confratelli, occorre definire quella «Terra di nessuno» che separa la cura e il lenimento del dolore dalla crudeltà, dall’inutile sperimentazione fatta unicamente per orgoglio scientifico, che riduce l’uomo a cavia, in definitiva dall’accanimento terapeutico.

Diciamo innanzitutto che non è possibile tenere in vita una persona allo stato unicamente vegetativo se non vi sono motivazioni precise che esulano dalla sperimentazione.

oggi, il tempo della morte si è insieme allungato e suddiviso. C’è la morte cerebrale, biologica, cellulare; gli antichi segni basati sull’arresto cardiaco e respiratorio non bastano più; si misura l’attività cerebrale, si può mantenere artificialmente pulsante un , si può stimolare forzatamente la respirazione. Il tempo della morte può essere allungato a discrezione del medico: non si può eliminare la morte; ma si può regolare la durata della fine. è possibile ritardare il momento fatale sopprimendo anche il dolore.

Ma spesso questo prolungamento da mezzo scientifico al servizio di quell’uomo sofferente si trasforma in fine. Ed è appunto in questa oscura zona di confine tra la cura e la crudeltà, tra diritto alla vita ed eutanasia che la nostra coscienza di religiosi deve vigilare affinché si rispetti una misura che sia segno di umanità e di etica, al di là delle norme che i singoli Stati predispongono.

La morte non può più essere assegnata in dotazione esclusiva al medico, alla tecnica, alla sperimentazione, perché essa rappresenta il più antico mistero dell’uomo, sul quale noi come religiosi non possiamo esentarci dall’esercitare il nostro ruolo specifico di missionari della salvezza e di guide spirituali.

 

Non abbandonare il morente

 

Ma soffermiamoci su un terzo aspetto, già accennato. Di fronte al malato grave, spesso perdiamo anche noi le speranze, ci sentiamo inutili e lo abbandoniamo in attesa dell’inesorabile momento.

Quale angusta visione della vita e della morte, quale assuefazione ad un ruolo di operatori tecnici dimentichi che il termine salute significa anche «salvezza», cioè vita dell’anima!

Per questo oggi l’ospedale è diventato il luogo della morte solitaria. Un cuore che si ferma non fa rumore; eppure in noi dovrebbe suscitare una vasta eco. La morte, come la vita, non è un atto esclusivamente individuale. Anche quella degli altri ci tocca in qualche modo da vicino.

Spetta a noi, entro i nostri limiti umani che non possono certo cambiare i destini, eliminare quel senso di «selvaggio» nell’immagine della morte solitaria coi tubi di plastica, che clamorosamente fa rivivere l’antico orrore del cadavere putrefatto abbandonato nella campagna.

Quale civiltà sarebbe altrimenti quella in cui cambiassero le forme dell’orrore, ma non la sostanza?

In un recente Convegno dei medici cattolici svoltosi a Roma si sono discussi i problemi del dolore, della vecchiaia, dell’eutanasia. Temi fondamentali, che, richiedono un’impostazione filosofica generale per una seria critica del nostro modello di civiltà che approdi ad una cultura e ad atteggiamenti nuovi in questo campo.

Durante il convegno, un professore ha testualmente dichiarato: «È necessario un nuovo impegno nell’assistenza ai morenti. Occorre intensificare la presenza presso il malato, considerando che è il morente colui che ha da insegnare, poiché vive un’esperienza che gli altri ignorano. È necessaria una specifica preparazione in questo senso del personale sanitario, una preparazione che è soprattutto umana. Un medico o un infermiere non potranno, a volto sereno e con equilibrio, assistere un morente se nella propria coscienza non avranno integrato una visione della vita e della morte, non avranno dato cioè per conto proprio una risposta ai problemi essenziali della vita umana».

Miei cari confratelli, che lezione ci proviene da questo laico! Noi a volte, bloccati dalle nostre paure più che dai nostri impegni, fiaccati dai nostri fantasmi di impotenza, siamo preceduti dai laici con suggerimenti ricchi di valore che dovrebbero essere nostri e che invece non abbiamo saputo cogliere nell’alveo del nostro ricchissimo carisma.

Dicevo prima che la «dignità della morte» risiede anche nel modo sereno di affrontarla, in quel periodo (lungo o breve, cosciente o semicosciente) di oblio della mente prima del trapasso definitivo.

Ma i problemi nascono prima del momento finale; fin da quando il decorso del male fa prevedere un sicuro esito infausto; è in questa fase che la volontà razionale applicata alla metodologia scientifica entra in crisi facendoci disperare e spingendoci a rinunciare ad ogni ulteriore aiuto. Ma noi sappiamo che dove la conoscenza e il metodo scientifico si arrestano, c’è ancora lo spazio per la superiore forza dello Spirito.

Nella fase «terminale» il malato si trova a risolvere delicatissimi enigmi, è tormentato da dubbi angosciosi, scosso da qualche vaga speranza e distrutto dal decadimento. Lo invade la paura, mentre si ritrova solo con se stesso, cosciente della sua unicità. Nei momenti lucidi rivede la vita come in un film e col rischio di perdersi definitivamente nell’incubo, sommerso da sensi di colpa, da rimpianti, da aspre malinconie, dal disperato attaccamento alla vita, dal bisogno inevaso di comunicazione e di affetto. In lui si innescano delicati meccanismi psicologici che occorre saper riconoscere e dominare; perciò si rende necessaria la collaborazione con esperti psicologi perché spesso la cultura personale non basta; l’uomo morente è più bisognoso di chiunque altro, è un malato «difficile», che richiede molto tempo e molte attenzioni. Raramente egli può raggiungere da solo una accettazione e una maggiore serenità se non viene aiutato da tutti coloro che lo assistono e dalla stessa famiglia. Al di là del dibattito sulla necessità di rivelare o meno al malato grave il suo stato, è assodato che chi si trova in una situazione simile la intuisce oltre le parole.

La sua assistenza deve dunque essere fatta di attenzione, anche ai particolari. Non servono discorsi, ma una presenza affettuosa; il malato deve percepire che non sarà solo ad affrontare quel momento: basta una mano stretta, che nel contatto struggente rivela un ancoraggio alla vita, dona una sicurezza protettiva, quasi materna, consentendo al paziente anche di dire cose per lui urgenti e importanti, forse le sue ultime parole.

 

Coinvolgere la famiglia

 

Ma per aiutarlo in modo veramente significativo, è necessario coinvolgere la famiglia in questa presenza.

Innanzitutto non è giusto che sia la famiglia a decidere autonomamente se e come informare il malato del suo stato. È sempre opportuno che i medici curanti incontrino i familiari per uno scambio di informazioni, concernenti anche la psicologia del degente, in modo da concordare insieme il da farsi.

Dalla famiglia possiamo apprendere importanti informazioni sulla storia personale del malato che aiutano a capirlo meglio.

A volte, il suo attaccamento alla vita è dettato da «nobili preoccupazioni» per la sorte di chi resta: da qui magari l’intenzione di affidare le sue raccomandazioni finali ai parenti, di chiarire qualcosa del passato, di eliminare sensi di colpa. Dobbiamo favorire questi momenti estremi di comunicazione, che un tempo facevano parte del rituale domestico della morte‑ il malato aveva i familiari raccolti intorno al suo letto ed egli conversava con loro quasi in un clima di calda serenità, di accettazione; lasciava le sue ultime raccomandazioni, divideva l’eredità. Gli astanti si sentivano come investiti di un carisma. Non è impossibile ridare naturalezza, conforto, amore e cristiana accettazione a queste anime che si appressano all’estremo passo. E c’è in tutto ciò un arricchimento reciproco: anche il morente aiuta noi. Da lui apprendiamo sensazioni che non conosciamo; standogli accanto verifichiamo la nostra fortezza.

Un’attenzione speciale dobbiamo avere in queste situazioni anche per i parenti del malato, che soffrono momenti di ansia, di tensione; spesso, in mancanza di notizie, si macerano nel dubbio e nell’angoscia, anche a causa dei medici che, per ragioni professionali, sono talora evasivi e usano un linguaggio estremamente tecnico nelle diagnosi e nelle prognosi. Una maggiore comprensione delle loro esigenze, dettate spesso da ansia affettuosa, ci può aiutare a creare un clima di reciproca cooperazione, di fiducia e di calda sincerità, a beneficio del malato.

Ai familiari si dovrebbe lasciare tempo per la visita, affinché questa non risulti troppo asettica e spersonalizzata, soprattutto nelle camere di rianimazione, studiando nel contempo i mezzi adatti per garantire il rispetto delle norme di prevenzione igienica. Alla preghiera per l’anima, che è dovere di tutti i religiosi, dobbiamo saper unire un profondo senso di pietà cristiana, attingendo alle risorse del cuore. La nostra sensibilità ci guiderà nell’arduo compito di offrirci come spalla sulla quale piangere, come forza nella quale confidare; il nostro esempio può convincere più di mille parole a ritrovare il proprio cammino spirituale. In tal modo, superando la chiusa visione tecnica della sconfitta della medicina di fronte alla morte, noi sviluppiamo un modello di assistenza superiore.

Il momento cruciale per i familiari è comunque quello dell’imminenza del decesso del loro caro. Immaginiamoci lo stato doloroso, la confusione delle scelte, la stanchezza psichica di queste persone, spesso tormentate da un senso di colpa perché vorrebbero non assistere al momento fatale. La nostra presenza al loro fianco è più che mai preziosa e illuminante.

La stessa cosa va detta per i familiari dei degenti ricoverati d’urgenza, passati cioè bruscamente dallo stato di salute a quello di malattia per cause cardiovascolari, cerebrali, traumatiche‑accidentali. Il sentimento di preoccupazione per la sorte della persona cara è in essi altrettanto vivo anche se non in presenza di prognosi infausta.,

 

Non ho prospettato traguardi impossibili. Sono certo che, seguendo la strada che è più che mai la nostra, la morte in ospedale potrà recuperare la dignità perduta. E l’ospedale potrà davvero essere per il malato grave l’unico luogo dove gli sia garantita un’assistenza continua, con metodologia e mezzi altrove improponibili, e contemporaneamente un luogo di assistenza integrale, che allontani gli inquietanti spettri della solitudine e dell’orrore, lasciando spazio alla rassegnazione umana e alla speranza cristiana.

Vorrei fin d’ora invitarvi a studiare mezzi e formule, a immaginare e progettare, assieme ai medici e agli infermieri, una riscoperta profonda del senso della vita e della morte.

Sono convinto, sulla base anche di alcune splendide esperienze già in corso (per es. «Royal Hospital di Montrèal» e alcune Fondazioni, tra cui una italiana) che al Fatebenefratello desideroso di impegnarsi in modo nuovo nell’assistenza ai morenti, si apra uno spazio enorme. Sfruttarlo è, oltre che un preciso dovere legato alla nostra vocazione ospedaliera, condizione «si­ne qua non» per lo sviluppo del nostro Ordine e per un degno servizio alla Chiesa.

III.  I TOSSICODIPENDENTI

 

Il cancro dei giovani

 

L’immagine di un cancro che si diffonde con le sue metastasi in tutta la civiltà occidentale sarà forse fin troppo sfruttata per indicare il problema della droga e della tossicodipendenza; ma è sicuramente efficace per evidenziare questo nuovo «male» della società che colpisce soprattutto i giovani. Tentare una analisi esauriente del problema droga è arduo; non di meno è necessario darne almeno una sommaria descrizione. La gravità e l’estensione del fenomeno sono evidenti, al di là delle statistiche, le cui elaborazioni matematiche hanno comunque una loro tragica evidenza.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità afferma che più di 4.000.000 di persone, negli USA, hanno fatto uso di vari tipi di droga. Ma il fenomeno appare agghiacciante se indagato nelle percentuali relative. Il Federal Bureau of Narcotics afferma che 1 giovane su 5 si droga e che, in ogni caso, il 40% degli studenti di scuola media superiore ha assunto droga almeno una volta; e addirittura il 60% degli studenti universitari.

Assumere la droga almeno una volta non è ancora sintomo di tossicodipendenza, ma la realtà presenta contorni più precisi: tra i tossicodipendenti riconosciuti, più del 50% ha una età tra i 20 e i 30 anni, e vi è una vasta percentuale, in aumento, per i giovani di età inferiore. La loro estrazione sociale è indicativa: negri (52%), messicani (6%), portoricani (13%); come dire che la maggior parte di essi appartiene a gruppi etnici sociali emarginati. Osservando il fenomeno in Europa notiamo che esso ha raggiunto dimensioni allarmanti in Olanda, Danimarca, Gran Bretagna, Germania, Francia; per quanto riguarda l’Italia, ai grandi centri del Nord, si è aggiunto ora il meridione con le sue principali città e anche con centri minori dove però abbondano i disoccupati.

 

Chi è il tossicodipendente

 

Per sgombrare il campo da eventuali confusioni definiamo la situazione del tossicodipendente come quella di chi si trova in uno stato di intossicazione, periodica o cronica, per l’uso abituale e continuo, con sindromi di astinenza, di sostanze stupefacenti, naturali o prodotte sinteticamente; una situazione pericolosa per lo «status» psico-organico del soggetto che viene oppresso in vaste sfere della personalità. La morfina, l’eroina, la cocaina, l’L.S.D., ma anche il metadone, i barbiturici e le cosiddette «droghe leggere», tra cui la marijuana, sono le principali sostanze stupefacenti che determinano stati definibili genericamente come allucinogeni. Ovviamente con reazioni diverse da droga a droga e perfino da individuo a individuo, ma caratterizzate prevalentemente da sonnolenza, loquela impacciata, depressione del sistema nervoso centrale, stati di beatitudine, eccitazione, iperattività, senso di allungamento del tempo psichico, euforia, allucinazioni. Reazioni che, in ogni caso, comportano una evidente pericolosità per se stessi e per gli altri. Per se stessi, poiché la diminuita o alterata percezione della realtà esterna rappresenta un evidente fattore di rischio per la sicurezza e l’incolumità; e inoltre l’abuso di droghe provoca devastazione organica e un declino fisico che può condurre alla fatale «over dose», cioè a collassi e insufficienze respiratorie spesso letali.

Si può affermare poi con certezza che i tossicodipendenti presentano una patologia non irrilevante riguardante le malattie croniche, le epatiti, la compromissione irreparabile di alcuni organi, con comparsa di nuove malattie come l’A.I.D.S.

A questi problemi bisognerebbe aggiungerne altri: il rischio derivante dalla droga «tagliata» con sostanze nocive, ad esempio; oppure la mancanza di ogni preoccupazione igienica nel rito degli eroinomani. Ma il discorso di­venterebbe troppo vasto e composito. Ma c’è anche un tasso di pericolosità che riguarda la società: si comprende facilmente come lo stato allucinogeno, le percezioni alterate, l’esaltazione psichica, la perdita dei freni inibitori, l’assenza di sensi di colpa e di pudore, tutti questi fattori producano una personalità alterata, una sorta di «molecola impazzita» della collettività. Le conseguenze sono note: la tossicodipendenza genera bisogno economico per l’acquisto delle sostanze. Bisogno a cui si legano migliaia di fenomeni delinquenziali, dal piccolo furto con scasso, fino alle aggressioni violente, anche per pochi soldi. Queste componenti clamorose hanno fatto salire la percentuale dei delitti provocando uno stato di assoluta mancanza di sicurezza, perché il tossicodipendente è spinto a colpire indiscriminatamente chiunque. Il criterio secondo cui il comune delinquente non agisce quando «il gioco non vale la candela», in questo caso non conta affatto.

L’intenzione di «criminalizzare» il tossicodipendente è ben lontano dai miei pensieri, sia chiaro, ma certe situazioni vanno conosciute senza eufemismi, nella loro realtà. Così come non possiamo ignorare un nuovo sintomo di barbarie emergente da certi discorsi che si stanno facendo strada cinicamente: partendo dal dato della pericolosità sociale, si reclama la necessità di un «energico» intervento pubblico (o privato) per «risanare» la situazione.

 

Fattori e cause

 

Se poniamo l’attenzione sul fenomeno è per coglierne la miseria, per indagarne le cause con l’occhio anche alla vittima, che è il consumatore di droga. Certo, la richiesta di sicurezza sociale è un fatto di dignità civile, di giustizia, ma non può essere il punto di partenza per risolvere il problema.

La tossicodipendenza è un problema dell’uomo, correlato a precise dinamiche sociali, psicologiche, culturali, a carenze spirituali. Se non ci si pone in questa ottica è difficile elaborare un’idea accettabile di intervento terapeutico. Pensiamo soltanto al groviglio di fattori che influiscono sulle scelte personali: gli elementi psicologici individuali, la vita di relazione con la famiglia, gli amici, la collettività, la situazione sociale, la posizione culturale. Pensiamo anche alla responsabilità enorme di quei modelli culturali che, nell’ultimo decennio, hanno proposto la droga come momento di libertà, di alternativa; modelli di stampo materialistico e consumistico caratterizzati dalla caduta di antiche (e in alcuni casi ormai inadeguate) ideologie, che spiegano la tendenza contemporanea all’arrivismo, al successo da raggiungere con qualunque mezzo. Il panorama spirituale dalla nostra epoca ci appare inaridito, depauperato di valori etici, mentre non sembrano ancora emergere alternative sufficientemente strutturate. È in questo vuoto che si inseriscono tali tendenze deteriori.

La difficoltà di cogliere in tempo la situazione si spiega d’altra parte con la rapidità e la complessità delle mutazioni economiche, sociali, tecnologiche e culturali, in un mondo nel quale anche i valori sembrano diventati oggetto di effimero consumo. Qui la droga trova sicuramente la sua collocazione, proponendosi come «figlia dei tempi», in una duplice veste: come risposta ingannevole alle situazioni di disagio, e quindi mezzo di fuga verso la beatitudine, e come proposta di «valore alternativo», cioè come un altro modo di vivere che non accetta quello comune.

Nella complessità della situazione giocano anche alcune pesanti contraddizioni della politica estera e interna degli Stati nazionali circa i grandi valori della pace, della libertà e della giustizia, che non sono affermati con decisione nonché l’incubo aberrante del conflitto nucleare.

Ne derivano una sorta di pessimismo esistenziale, che induce a volere le cose qui e subito,, a consumare alla svelta ogni emozione; e un giovanilismo che carica di ingiuste attese la vita dei giovani, quale mito di ebbrezza e di felicità. Entrambi non sono certo estranei alla diffusione della droga, avendo privato l’uomo di valide certezze, della sicurezza di un modello giusto, ed eliminato dagli orizzonti umani fedi e ideali nei quali credere e sperare.

La nostra società ‑cioè tutti noi, consapevoli, compartecipi di eventuali errori, coagenti nel riproporli‑ ci spinge a superare tali insicurezze e tali ansie con gli psicofarmaci; ci illude che felicità, realizzazione e successo siano ottenibili con pillole di energia efficientistica, ci insegna a vincere l’angoscia con l’alcool, secondo la strategia di una produttività non asservita ai bisogni umani, ma volta ad imporre bisogni falsi, negativi, alienanti. Non è forse vero che le forze socio‑economiche oggi si rivolgono ai giovani (e persino ai bambini) come a soggetti da conquistare al mercato del consumismo avendo come primo obiettivo l’utile, non l’educazione?

 

 

 

Scarse difese per i giovani

 

È proprio il giovane, in fase di formazione, il soggetto più esposto alle insidie. Nel momento in cui inizia la sua esplorazione personale del mondo, facendosi una propria scala di valori, confrontando ciò che vorrebbe con ciò che trova e sviluppando il processo di socializzazione, il giovane non è ancora pienamente capace di scelte ragionate. In questa fase di strutturazione della sua personalità egli si trova aperto alle novità, nutre curiosità, cerca il rapporto con gli altri, per conoscersi e conoscere, per mettersi alla prova anche, per definire la sua identità. Per questo, egli può lasciarsi facilmente sedurre da modelli aberranti. In fondo al suo cammino di ricerca, può anche trovare lo spacciatore in cerca di nuovi acquirenti.

Le sue difese sarebbero certamente più efficaci se egli avesse alle spalle una famiglia che fosse per lui guida, informazione, affetto, rifugio nei momenti difficili. Ma abbiamo già visto come e quanto la famiglia sia cambiata, nel passaggio da una cultura contadina ad una cultura industriale e tecnologica. Nella prima, la trasmissione di valori da padre in figlio era lenta ma ineludibile e sicura: il padre, depositario del sapere, insegnava al figlio le cose del mondo e della natura. Oggi la figura del padre ha perso questo prestigio culturale, la sua autorevolezza di guida: le conoscenze sono così vaste, rapide e mutevoli che impediscono una assimilazione del sapere paterno. Spesso, inoltre, la preparazione scolastica del figlio risulta addirittura superiore a quella del padre, il quale quasi sempre per la rapidità dei mutamenti, rimane estraneo ai fenomeni tipicamente giovanili di costume, per cui il figlio non vede più in lui un interlocutore affidabile e «preparato». Infine, ha sempre maggior efficacia (anche manipolante) una forma di trasmissione delle conoscenze al di fuori dell’ambito familiare: quella svolta tramite i mass-media, che propongono continuamente modelli culturali assai insidiosi per la psiche giovanile, soprattutto attraverso la pubblicità. Per non dire del ruolo negativo di certi genitori all’interno della famiglia «nuclearizzata», entrata in crisi come cellula base della società. Sono sovente gli stessi genitori che ripropongono acriticamente ai figli quei modelli di successo e di comportamento.

Non può venire alcun beneficio ai giovani da una famiglia spesso minacciata nella sua stabilità da separazioni, disoccupazione, introiti economici al di sotto della media generale, cioè da fattori che creano emarginazione e un senso di frustrazione in relazione al modo di vivere degli altri.

Dalla frustrazione alla rivalsa il passo è breve. E allora il giovane «fugge»: nelle strade, nelle piazze, si aggrega a gruppi per cercare ciò che gli manca. E qui trova l’ultima insidia, nella rete del vasto mercato in cui opera gente senza scrupoli, con legami a livello internazionale, un mercato di cui lo spacciatore all’angolo è solo il «terminale».

Il potenziale tossicodipendente, fiaccato familiarmente e privo di certezze morali, suggestionato dai comportamenti dei coetanei, del «gruppo», compie così la prima scelta per evadere, per provare, o anche solo per essere accettato. La droga è così giunta persino alle porte delle scuole medie inferiori, il che eleva di molto la soglia di pericolosità sociale del fenomeno.

Il tossicodipendente, carente di salute fisica e psichica, di amore, di comprensione, di sapere, ma soprattutto di libertà, rientra dunque nella categoria dei nuovi bisognosi: è l’imprigionato nell’anima. Per questo, non stupisce che si siano andate creando comunità terapeutiche di ispirazione cristiana che, con grande dedizione e competenza, affrontano soprattutto la dimensione personale e psicologica del tossicodipendente. Infatti, il vero problema non è la dipendenza fisica, ma quella psicologica: nonostante le apparenti espressioni di «libertà» manifestate ed ostentate dal tossicodipendente, egli si sente schiavo al punto da non credere più nella possibilità di guarigione.

 

Un campo aperto ai Fatebenefratelli

 

L’argomento richiederebbe ben altri approfondimenti, ma per ora mi fermo qui.

Ho fatto questa riflessione perché sono convinto che il Fatebenefratello possiede, a livello religioso e professionale, la possibilità di accostarsi adeguatamente al problema, sviluppando il ruolo di guida-animatore, collaborando con altre iniziative, sempre attento al problema umano.

Miei cari confratelli: come ho promesso, con questo documento non intendo darvi certi ordini, ma proporvi riflessioni utili per scoprire l’enorme gamma delle nostre possibilità, che già in parte abbiamo sviluppato, ma che possono trovare nel nostro tempo molte altre applicazioni. Ne ho accennate tre, che mi sembrano più immediatamente alla nostra portata, e che noi possiamo affrontare solo dopo un attento esame delle nostre particolari situazioni e dopo aver individuato i bisognosi di oggi.

Il mio scopo principale, lo ripeto, è quello di stimolarci a meditare, ad uscire dagli angusti schemi che ci impediscono di cambiare come esigono il nostro carisma e le nostre Costituzioni. Intendo invitare ciascuno di noi ad uscire dalle nostre tossicodipendenze ‑dalla routine, dal comodo, dal sicuro, dai rimpianti, dalle pigrizie, dalle abitudini, dalle paure‑ per entrare nella sfera della creatività, in modo da corrispondere efficacemente ai bisogni dell’uomo contemporaneo.

La nostra identità infatti, non si costruisce sulla conservazione acritica del passato, bensì sull’attenzione al presente e al futuro, sulla pronta disponibilità di tutti a intraprendere quegli atti, quei ruoli, quelle iniziative che i tempi richiedono, nella indefettibile fedeltà al Vangelo e al nostro santo Fondatore.

INDICE

 

PRESENTAZIONE

Rinnovamento, fonte di consolazione …                         …………….

Porre la mano al nostro futuro non per paura, ma per amore

I nostri ruoli, i nostri compiti, la nostra passione verso l’uomo

 

I. IL CAMBIAMENTO DEL MONDO E LA NOSTRA CECITÀ

Un paradosso: non fare niente

Abbattere i campanili o comprenderne meglio il senso?

Stare in ascolto dell’uomo

trasmettere il profumo della sacralità dell’uomo

 

II. APRIRSI ALLO SPIRITO SANTO

Aprirsi all’energia dello Spirito

Per una cultura dell’attenzione

Il suono della Parola si fa eco nello Spirito

Non mentire, non tradire

L’apertura allo Spirito nelle nostre comunità

 

III. APRIRSI AL TEMPO E ALL’UOMO

Un Tempo diverso, un Uomo diverso

Custodi e artefici del benessere della gente

Entrare nel tempio del Tempo e dell’Uomo contemporaneo

 

IV. IL NOSTRO RUOLO NELL’ORDINE

Unità nell’autonomia

Testimoni e guide morali per i nostri collaboratori

Questione etica e ruolo di coscienza critica dei Fatebenefratelli

Il nostro ruolo di anticipatori ..

Il nostro rapporto con la Chiesa

 

V. LA COMPRENSIONE DELLE NUOVE CATEGORIE DEI BISOGNOSI ……….

Nello spirito delle nuove Costituzioni

Il pianeta giovani

Le nostre tentazioni

 

VI. LA RICERCA COME MOMENTO DI RINNOVAMENTO

DELLA NOSTRA OSPITALITA’

L’esempio del Fondatore

Viaggio di ricerca

Al passo coi tempi

 

APPENDICE

 

INTRODUZIONE

 

I. LA VECCHIAIA….

Un fenomeno in esplosione

La cultura del giovanilismo

Dimensione della vecchiaia

Cultura umanistica e fede religiosa

Essere all’altezza del compito

Restituire un ruolo all’anziano

Le famiglie devono collaborare

 

II IL MALATO TERMINALE

Un pietoso eufemismo

Un «tabù» da rimuovere

È cambiata l’immagine tradizionale del morente

Riscoprire la morte

Interrogativi drammatici

Non abbandonare il morente

Coinvolgere la famiglia

 

III. I TOSSICODIPENDENTI

Chi è il tossicodipendente

Fattori e cause

Scarse difese per i giovani

Un campo aperto ai Fatebenefratelli

L’OSPITALITA’ ALLE SOGLIE DEL TERZO MILLENNIO – 1993

ROMA 7 SETTEMBRE 1993

LA NUOVA EVANGELIZZAZIONE E L’OSPITALITÀ ALLE SOGLIE DEL TERZO MILLENNIO

 

Evoluzione della vita religiosa nell’Ordine Ospedaliero di S. Giovanni di Dio dal Concilio Vaticano II ai giorni nostri e prospettive future

Edizioni Fatebenefratelli

A tutti i Confratelli dell’Ordine

 

Stimati in Cristo,

 

i giorni 29 e 30 agosto u.s. si è svolto il secondo incontro della Commissione Preparatoria del Capitolo Generale 1994. Detto incontro è servito princi­palmente ad analizzare il documento-base che sarà presentato al Capitolo per valutare lo sforzo di rin­novamento compiuto dall’Ordine dopo il Concilio e per orientare il nostro futuro.

 

Come previsto dal calendario di lavoro della Commissione, ho la soddisfazione di poterVi inviare sin d’adesso il documento affinché lo studiate e va­gliate attentamente, Il documento, che considero un prezioso elemento per la nostra crescita spirituale, dovrà essere conosciuto da tutti i Confratelli come anche dal gruppo di collaboratori che si crede op­portuno. Ciascuna Provincia, o gruppo di Province attraverso il Segretariato Interprovinciale, scelga il metodo più opportuno per realizzare il suo studio. Al Capitolo il documento servirà come strumento di la­voro per valutare la tappa post-conciliare dell’Ordi­ne ed illuminare la programmazione del suo futuro.

 

Non chiediamo di elaborare commenti particola­reggiati, come se si trattasse della revisione degli Statuti Generali; tuttavia siamo disposti ad accoglie­re tutti i suggerimenti che riterrete opportuno avan­zare, per integrarli nel documento e facilitare il lavo­ro dei Confratelli Capitolari durante il Capitolo. Vi preghiamo di elaborare i Vostri contributi capitolo per capitolo e di inviarceli attraverso le Province op­pure i Segretariati Interprovinciali. Tra i cinque ca­pitoli del documento, vorremmo che dedicaste un’at­tenzione speciale ai capitoli III e V.

 

Nell’elaborazione dei Vostri contributi, nella quale seguirete il metodo indicato dalla Vostra Pro­vincia, Vi suggeriamo di procedere secondo il triplice schema: aggiungere, eliminare, sostituire. I contribu­ti vanno inviati a Fra Pedro Saavedra, Presidente della Commissione Preparatoria del Capitolo, pres­so la Curia Generalizia, entro la fine di aprile 1994. Più che perderVi in precisazioni e puntualizzazioni, Vi preghiamo di concentrarVi sugli aspetti utili per il nostro futuro.

 

Faccio voti affinché questo percorso serva da preparazione degna al grande evento di fede che tut­to l’Ordine vivrà con il Capitolo nel mese di ottobre 1994 a Bogotà.

 

Che San Giovanni di Dio, San Riccardo e i nostri Beati ci illuminino e che tutto ciò che andiamo facen­do contribuisca al bene dell’infermo e del bisognoso! Sempre uniti nel carisma, Vi saluta fraternamente

 

 

Fra Brian O’Donnell

Priore Generale

 

Roma, 7 settembre 1993

PRESENTAZIONE

 

Nella riunione dei Superiori Maggiori dell’Ordi­ne, celebratasi a Roma dal 19 al 22 ottobre 1992, si parlò, tra le altre cose, anche del Capitolo Generale 1994, per il quale, dopo un approfondito studio, si suggerì come tema: “LA NUOVA EVANGELIZ­ZAZIONE E L’OSPITALITA ALLE SOGLIE DEL TERZO MILLENNIO” con il sottotitolo: Evoluzione della vita religiosa nell’Ordine O­spedaliero di S. Giovanni di Dio dal Concilio Vati­cano II ai giorni nostri e prospettive future.

La Commissione Preparatoria del Capitolo Ge­nerale nominata dal Consiglio Generale ritenne op­portuno incaricare una sottocommissione dell’elabo­razione di un documento su questo tema che fu ulti­mato in una riunione svoltasi a Fusagasuga (Colom­bia) dal 3 al 9 agosto 1993. Dopo essere stato analiz­zato dalla Commissione Preparatoria, il documento viene presentato ora alle comunità e ai collaboratori per un ulteriore approfondimento.

Il documento consiste di cinque capitoli:

 

  1. nel primo capitolo vengono illustrate quelle par­ti della dottrina del Concilio che hanno avuto una particolare incidenza sulla nostra vita;
  2. il secondo capitolo propone sulla stessa linea una presentazione del magistero post-conciliare;
  3. nel terzo capitolo viene ricapitolata la risposta che l’Ordine ha dato all’esigenza di rinnovamen­to lanciata dal Concilio;
  4. nel quarto capitolo viene presentato l’invito con cui la Chiesa sta chiamando a raccolta attual­mente se stessa per una nuova evangelizzazione;
  5. nel quinto capitolo si tenta di mettere a fuoco il volto che l’Ordine desidera dare al suo futuro ri­spondendo alla nuova evangelizzazione con la nuova ospitalità.

Tanto nella valutazione di ciò che l’Ordine ha realizzato, quanto nell’orientamento del nostro futu­ro, abbiamo tentato di essere realisti e coscienti della nostra storia, quale la abbiamo vissuta e quale siamo chiamati a viverla nell’avvenire.

1. IL CONCILIO VATICANO IIE LE LINEE FONDAMENTALI PER LACHIESA E PER LA VITA RELIGIOSA

1.1. Il Concilio Vaticano II come fenomeno socio­logico e teologico nella Chiesa

 

Molto è stato scritto sul tema. Noi ci baseremo nella seguente presentazione sulle idee espresse dallo stesso Giovanni XXIII nella Costituzione Apostolica, con la quale il 25 dicembre 1961 convocò il Concilio.

 

Parte dalla grave crisi in cui si trova l’umanità che porterà con sé grandi cambiamenti. Vede uno squilibrio tra il progresso tecnico e scientifico da una parte e il progresso spirituale dall’altra. Giovanni XXIII non ha per questo una visione pessimista del nostro tempo, ma scorge in mezzo ad esso non pochi indizi che lo fanno sperare in tempi migliori sia per la Chiesa che per l’umanità.

 

Presenta il Concilio come un momento in cui la Chiesa desidera fortificare la sua fede e dare maggio­re efficacia alla sua sana vitalità. Sarà il momento per chiarire certi principi dottrinali e dare esempi di ca­rità. Il Concilio offrirà una possibilità per tutti gli uo­mini di buona volontà di avviare pensieri e propositi di pace.

 

E’ cosciente che la Chiesa, pur non avendo fina­lità direttamente terrestri, non può tuttavia disinteres­sarsi nel suo cammino dei problemi relativi alle cose temporali né delle difficoltà che da queste sorgono.

 

Pensiamo che il Concilio sia stata una grande esperienza di fede per la Chiesa e che i suoi contenu­ti abbiano illuminato la fede dei suoi membri. Guidato da questa luce, anche il nostro Ordine ha iniziato un cammino di rinnovamento che ci prepariamo a va­lutare in questo Capitolo Generale per aprirci al futu­ro, fedeli alla nostra identità quali possessori del cari­sma dell’ospitalità, per il bene della Chiesa e della nostra società, nel servizio agli infermi e ai biso­gnosi.

 

1.2. Lumen Gentium. Il nuovo concetto di Chie­sa: apertura al laicato

 

La Costituzione Dogmatica sulla Chiesa “Lumen Gentium”, considerata il documento fondamentale del Concilio Vaticano II, sviluppa e completa la dot­trina che sulla Chiesa aveva incominciato a formula­re il Concilio Vaticano I, interrotto bruscamente nel 1869.

 

Pur mantenendo una continuità dottrinale con quanto si era andato elaborando nel secolo anteriore, si distingue per un tono molto più pastorale ed ecu­menico, avvia l’elaborazione di una teologia del lai­cato e apre alla Chiesa nuovi orizzonti di fronte al mondo moderno. Fu promulgata da Paolo VI il 21 novembre 1964.

 

La Chiesa viene presentata come mistero, come sacramento, come comunità. Partendo dalle diverse immagini bibliche, interviene un cambio fondamen­tale nella presentazione della sua funzione quale stru­mento di salvezza voluto da Gesù per l’umanità.

 

Nel definirsi, la Chiesa dà l’assoluta precedenza alla figura del popolo di Dio, come nuovo popolo de­stinato all’alleanza con Dio che, in virtù del batte­simo, partecipa del sacerdozio comune di Cristo, ar­ricchito da diversi carismi, con una funzione univer­sale e missionaria.

 

All’interno di questo popolo si dedica una consi­derazione speciale ai fedeli laici che contribuiscono al bene della Chiesa in base al loro carattere secolare che li è proprio e peculiare, e che sono destinati per vocazione a cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Sono chiamati da Dio a contribuire, dall’interno a modo di fermen­to, alla santificazione del mondo esercitando la pro­pria professione guidati dallo spirito evangelico.

 

Pensiamo che la nuova ecclesiologia abbia influi­to positivamente sulla forma di orientare la nostra vi­ta e di sentirci Chiesa e che, mettendo in risalto il va­lore della presenza dei laici nelle strutture umane, ci abbia aiutato a inserire con profitto questa realtà nel­le nostre strutture.

 

 

1.3. Forma di stare nel mondo: Gaudium et Spes

 

La Costituzione Pastorale “Gaudium et Spes” venne approvata dal Concilio Vaticano II il 7 dicem­bre 1965, dopo essere stata studiata approfonditamente e rielaborata nelle tre sessioni conciliari.

 

Nonostante l’ampiezza del suo contenuto, poggia su un’impostazione unitaria che la qualifica. La Chiesa si definisce come posta al servizio dell’uomo ed afferma che non c’è nulla di genuinamente umano che non trovi eco nel suo cuore. Si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia. Per questo si rivolge a tutti gli uomini, ani­mata dal desiderio di esporre a tutti come intende la sua presenza ed azione nel mondo contemporaneo.

 

Ha dinnanzi a se l’intera famiglia umana nel con­testo universale di tutte quelle realtà entro le quali es­sa vive. Desidera instaurare un dialogo con essa su tutti i suoi problemi alla luce del Vangelo e offrirle la forza salvifica che ha ricevuto dal suo Fondatore. E la persona umana che si tratta di salvare, è l’umana società che si tratta di rinnovare.

 

Senza voler entrare in un’analisi più approfondita dei vari problemi, due sono le cose che vanno evi­denziate per l’incidenza che hanno avuto posterior­mente sulla nostra vita. La prima è che la Costituzio­ne introduce una visione umanizzante dell’essere della Chiesa, del suo stare al servizio dell’uomo, af­frontando temi fondamentali della sua identità: di­gnità, coscienza, libertà, rispetto, uguaglianza ecc. La seconda è che esamina una serie di tematiche intima­mente collegate con la nostra missione: gli interroga­tivi profondi dell’uomo, la morte, il progresso, la cul­tura, lo sviluppo economico ecc.

 

Non c’è dubbio che molti dei progetti che abbia­mo avviato nel processo del nostro rinnovamento e gran parte dei nostri sforzi volti a rispondere alle esi­genze attuali del nostro apostolato siano stati ispirati da questa filosofia.

 

 

1.4. Principi sulla vita religiosa emanati dai do­cumenti conciliari: Lumen Gentium 43-47

e Perfectae Caritatis

 

La Lumen Gentium presenta la vita religiosa co­me uno stato particolare distinto da quello dei chieri­ci e da quello dei laici, stato che, per sua natura, pro­muove lo sviluppo della persona umana, la purificazione del cuore, la libertà spirituale e il fervore della carità. I consigli evangelici vengono indicati come l’essenza della consacrazione.

 

Esorta a lavorare secondo le forze e la forma del­la propria vocazione, sia con la preghiera, sia con l’operato apostolico, per il consolidamento e l’esten­sione del Regno.

 

La vita religiosa è un segno che attira i membri della Chiesa a compiere con slancio i doveri della vo­cazione cristiana. Liberi dalle preoccupazioni terre­ne, capaci di testimoniare la vita nuova ed eterna conquistata dalla redenzione di Cristo, i religiosi ab­bino cura e sollecitudine, affinché la Chiesa, attraver­so le loro vite, presenti Cristo al mondo.

 

Dichiara che lo stato, che è costituito dalla pro­fessione dei consigli evangelici, pur non concernen­do la struttura gerarchica della Chiesa, appartiene tut­tavia fermamente alla sua vita e alla sua santità.

 

La Chiesa eleva la professione religiosa alla di­gnità di uno stato canonico e la presenta come stato consacrato a Dio con la sua azione liturgica.

 

La Perfectae Caritatis muove dalle dichiarazioni fatte dal Concilio sui religiosi nella Lumen Gentium, ma nella prospettiva di conferire maggiore efficacia alla loro presenza nella Chiesa proponendo i principi per un adeguato rinnovamento:

 

“Il rinnovamento della vita religiosa che si ade­gua alle esigenze dei tempi comporta nello stesso tem­po il continuo ritorno alle fonti di ogni vita cristiana e allo spirito primitivo degli istituti, e l’adattamento de­gli istituti alle mutate condizioni dei tempi” (PC 2).

 

Il Vangelo viene presentato come suprema norma di vita. Si esorta a conservare lo spirito autentico dei Fondatori ed i loro intenti, come pure le sane tradi­zioni; a che tutti gli istituti partecipino alla vita della Chiesa e promuovano tra i loro membri un’appro­priata conoscenza dell’uomo e della realtà attuale della nostra società mettendo in moto un rinnova­mento spirituale.

I criteri proposti per il rinnovamento sono:

 

— adattamento del modo di vivere, di pregare e di agire alle odierne condizioni fisiche e psichiche dei religiosi, alle necessità dell’apostolato, alle esigenze della cultura e alle circostanze sociali ed economiche;

 

— riconsiderazione della forma di governo degli i­stituti;

 

— revisione delle costituzioni, dei direttori, dei consuetudinari, dei manuali di preghiera e di ce­rimonie e di altri codici di stile all’insegna del motto: no alla moltiplicazione di leggi.

 

Afferma che un efficace rinnovamento può aver luogo solo con la collaborazione di tutti i membri dell’istituto e che va ancorato nella ricchezza della propria vita spirituale.

 

Agli istituti di vita apostolica dice che la loro azione appartiene alla natura stessa della vita religio­sa; perciò tutta la vita dei loro membri sia compe­netrata di spirito apostolico e tutta l’azione apostolica sia animata da spirito religioso.

 

Rivolgendosi direttamente alla vita religiosa lai­cale, conferma i membri appartenenti a questo stato nella loro vocazione e li esorta ad adattare la loro vi­ta alle esigenze attuali.

 

Dà criteri in relazione ai consigli evangelici, alla vita comune, all’abito religioso, alla formazione, al mantenimento, adattamento e abbandono delle opere, alla promozione delle vocazioni ecc.

 

Riteniamo che la Perfectae Caritatis sia stato il decreto che ha creato il maggior movimento in dire­zione del rinnovamento, non solo all’interno della nostra istituzione, ma nella vita religiosa in generale. Così lo voleva il Concilio e così è stato. Ora si tratta di valutare la profondità di questo rinnovamento e di assumere sulla sua linea un modello di vita, quale lo attende da noi Fatebenefratelli la Chiesa.

 

 

1.5. La riforma liturgica: Sacrosanctum Concilium

 

È la prima Costituzione che il Concilio approva dopo un processo di elaborazione molto partecipato, che denota l’importanza che si attribuiva al tema e all’esigenza di rinnovamento. Entrò in vigore nel me­se di febbraio 1964, quando ancora non era iniziata la terza tappa del Concilio.

 

Mise in moto nella Chiesa come pure nell’Ordine un grande movimento di rinnovamento tutto teso ad assumere i principi emanati dalla Costituzione. Il senso in sé della liturgia, il sacramento dell’eucaristia con l’importanza che si è attribuita alla liturgia della parola; l’ufficio divino; l’anno liturgico ecc. sono tut­ti temi che furono esaminati dal testo conciliare e che noi fedeli abbiamo tentato di incarnare nelle nostre espressioni liturgiche.

 

Analizzando la nostra realtà attuale ci dobbiamo chiedere, fino a che punto ci siamo fermati in esterio­rità e fino .a che punto la riforma liturgica ci abbia aiutato veramente ad approfondire il significato del mistero di Cristo. Forse dopo i cambiamenti del Con­cilio pecchiamo attualmente di un certo abbandono dei temi liturgici e faremo bene perciò a richiamarci alla mente i loro fondamenta per dare loro nella no­stra vita spirituale il significato che meritano.

2. IL MAGISTERO DELLA CHIESAPOST-CONCILIARE SULLA VITARELIGIOSA E LA SUA MISSIONE

 

2.1 Ecclesiae Sanctae: norme per l’attuazione del Decreto Perfectae Caritatis

 

Nell’introduzione di questo documento, promulgato di agosto 1966, Paolo VI dice che il Concilio Va­ticano II esige che si stabiliscano norme e direttive per rispondere alle necessità create dallo stesso Concilio.

 

Pubblicandole promuove un periodo di speri­mentazione che servirà anche per la revisione e la modifica del nuovo Diritto Canonico.

 

La pubblicazione abbraccia l’ambito di quattro Decreti conciliari, tra cui la Perfectae Caritatis.

 

Accogliendo queste esigenze, l’Ordine avvia un processo di revisione ed adattamento delle proprie Co­stituzioni elaborando nello stesso tempo gli Statuti Ge­nerali e promuovendo la vitalità spirituale ed apostolica tra i Confratelli, i collaboratori, gli amici e gli infermi.

 

Nel portare avanti questo compito tiene in consi­derazione sia i criteri che si propongono per un ade­guato rinnovamento, sia gli aspetti indicati come bi­sognosi di adattamento e rinnovamento.

 

 

2.2. Evangelica Testificatio: Esortazione Apostoli­ca di Paolo VI circa il rinnovamento della vita religiosa secondo l’insegnamento del Concilio

 

Pubblicato il 29 giugno 1971, questo documento ha portato nella nostra vita una ventata di aria fresca.

 

È il primo documento di contenuti sulla vita religiosa che esce dopo il Concilio Vaticano II. E’ un documen­to pensato e lavorato che introduce concetti nuovi in riferimento all’interpretazione della vita religiosa nel mondo moderno.

 

Presenta la vita religiosa come testimonianza evangelica che manifesta agli uomini il primato dell’amore di Dio e dei valori del Regno. Rafforza il significato della sua presenza nella Chiesa, arrivando ad affermare addirittura che, senza questo segno con­creto, la carità che anima l’intera Chiesa, rischiereb­be di raffreddarsi, il paradossale e meraviglioso mes­saggio salvifico del Vangelo di perdere la sua forza di penetrazione, il sale della fede di diluirsi in un mon­do in fase di secolarizzazione.

 

Invita a superare certi elementi esteriori, a snelli­re appesantimenti e irrigidimenti e a compiere tutti gli adattamenti necessari. Afferma Paolo VI che se­gue con attenzione tutti gli sforzi di rinnovamento in atto, voluti dal Concilio.

 

Affronta molti temi peculiari della nostra vita, con grande chiarezza, con contenuti nuovi, tracciando linee che più tardi verranno raccolte come principi nelle Co­stituzioni degli istituti e nello stesso Diritto Canonico.

 

Per noi è stata fonte per il rinnovamento spiritua­le delle nostre vite ed ispirazione per il testo delle no­stre Costituzioni attuali.

 

 

2.3. Evangelii Nuntiandi: Esortazione Apostolica di Paolo VI sull’evangelizzazione del mondo contemporaneo

 

Scritto un anno dopo l’Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi del 1974, a dieci anni dalla chiusura del Concilio, affronta il tema dell’evangelizzazione nel mondo moderno in maniera molto felice.

 

E uno dei documenti migliori del magistero di Paolo VI. Prova ne è che ha mantenuto intatta la sua attualità fino ai giorni nostri.

 

Prende in considerazione quattro questioni fondamentali: Che cosa significa evangelizzare? Qual è il contenuto dell’evangelizzazione? Quali sono i suoi destinatari? Come evangelizzare oggi?

 

Apre nuove frontiere mettendo il Vangelo in relazione con lo sviluppo, la liberazione, le strutture, la politica ecc. Sottolinea il grande valore della testimo­nianza e del contatto personale per l’evangelizzazio­ne. Tutto ciò ha contribuito a che nella Chiesa si sia passato dal concetto “essere missionario”al concet­to “evangelizzare”.

 

Nel presentare gli agenti dell’evangelizzazione, di­ce che noi religiosi abbiamo nella vita consacrata un mezzo privilegiato per una evangelizzazione efficace. Testimoni della santità nella dimensione del radicalismo delle beatitudini. Descrive la nostra vita come una predicazione eloquente, capace di impressionare anche i non cristiani di buona volontà, sensibili a certi valori.

 

Mette in risalto la dedizione di tanti religiosi all’annuncio di Cristo giudicando il loro apostolato ricco di originalità, immaginazione e generosità.

 

 

2.4. Mutuae Relationes: note direttive per le re­lazioni tra i vescovi e i religiosi nella Chiesa

 

È un documento emanato congiuntamente dalla Sacra Congregazione per i Religiosi e gli Istituti Secolari e da quella dei Vescovi. La data di pubblicazio­ne è il 14 maggio 1978.

 

E diviso in due parti: una dottrinale che, nel caso dei religiosi, tocca il tema dell’identità e del carisma proprio degli istituti che deve essere custodito, ap­profondito e sviluppato in sintonia con il Corpo di Cristo, in crescita perenne, tenendo presente i doni personali che ciascun religioso riceve dallo Spirito.

 

La seconda parte ha un’impostazione più pratica e si riferisce al campo formativo, all’aspetto operati­vo e al coordinamento in funzione della realizzazione di un buon apostolato.

 

Diversi di questi aspetti sono confluiti tanto nel nostro diritto proprio quanto nel nostro stile di vita in ordine a rispondere alle esigenze della nostra voca­zione, avendo un impatto particolarmente forte nel campo della formazione permanente, della pastorale della salute e dell’apostolato nella Chiesa locale, dio­cesana e nazionale.

 

 

2.5. Il nuovo Codice di Diritto Canonico: 1983

 

Promulgato il 25 gennaio 1983 da Giovanni Pao­lo II, la nuova versione del Codice opera una profon­da riforma su quello risalente al 1917.

 

Alla riforma del Diritto Canonico si stava lavo­rando da anni raccogliendo i concetti fondamentali del Concilio Vaticano II e del Magistero successivo fino al momento della sua promulgazione.

 

La sua pubblicazione è avvenuta, quando le no­stre Costituzioni già erano state elaborate definitiva­mente. Il fatto di aver potuto visionare e studiare tut­to il materiale esistente prima della sua pubblicazione ufficiale, ci ha permesso tuttavia di ispirarci ad esso in tutto il nostro lavoro e di integrare nel nostro diritto proprio tutto ciò che riguardava da vicino la nostra vocazione.

 

2.6 Salvifici Doloris

 

È una Lettera Apostolica scritta da Giovanni Pao­lo II l’11 febbraio 1984 sul senso cristiano della sof­ferenza umana.

 

La offre al mondo dopo essere passato come Pon­tefice attraverso l’esperienza dell’attentato e, come conseguenza, del dolore, della sofferenze e della pos­sibilità di perdere la vita.

 

E’ divisa in due parti: nella prima viene proposta un’antropologia della sofferenza, nella seconda una teologia della sofferenza.

 

Come approccio del magistero all‘infermità e al dolore, non apporta nessuna innovazione speciale; tuttavia è la prima volta che la Chiesa presenta una ri­flessione sistematica sul tema. E’densa di contenuti, particolareggiata e contiene una serie di elementi che aiutano a comprendere il senso cristiano della soffe­renza e a viverlo integrando il dolore nella vita delle persone sulla base di una visione olistica della realtà.

 

2.7. Redemptionis Donum

 

È un’Esortazione Apostolica di Giovanni Paolo II ai religiosi e alle religiose pubblicata il 25 marzo 1984 a circa un anno dalla promulgazione del Diritto Canonico.

 

È un documento che presenta una visione teolo­gica della vita religiosa prendendo in considerazione sì tutti i temi fondamentali, ma che — questo il no­stro parere — senza scendere in aspetti pratici, si li­mita a ricapitolare la dottrina che il magistero recente della Chiesa è andato formulando al rispetto a partire dal Concilio Vaticano II.

 

 

2.8. Dolentium Hominum

 

È una Lettera Apostolica in forma di Motu Pro­prio, scritta da Giovanni Paolo II l’ 11 febbraio 1985, con la quale viene istituita la Pontificia Commissione per la Pastorale degli Agenti Sanitari, il cui compito sarà coordinare tutte le istituzioni cattoliche, sia reli­giose che laiche, dedite alla pastorale degli infermi.

 

Mantenendo la stessa finalità, la Commissione più tardi viene elevata al rango di Pontificio Consi­glio. Il documento fonda l’azione pastorale a favore degli infermi su un concetto integrale dell’uomo, che non può essere assistito soltanto nelle sue necessità somatiche, ma anche sotto l’aspetto spirituale.

 

Per noi questo atto non è stato solamente un’espressione di conferma del significato della no­stra missione, ma anche uno stimolo per realizzare ciò a cui siamo stati chiamati da Cristo, in collabora­zione con altri gruppi con una missione simile e in sintonia con i principi emanati dal magistero.

 

 

2.9. Lineamenta per il Sinodo sulla vita religiosa

 

È la IX Assemblea ordinaria che ci si prepara a celebrare. Il tema è stato stabilito da Giovanni Paolo II il 30 dicembre 1991. Avrà luogo nell’autunno del 94, praticamente in concomitanza con il nostro Capitolo Generale.

 

Consultando vari organismi e seguendo le indicazioni dello stesso Giovanni Paolo II, il Consiglio della Segreteria Generale del Sinodo ha preparato il testo delle Lineamenta unitamente ad un questionario, il cui scopo è di promuovere tra i pastori della Chiesa gli interessati una riflessione approfondita in vista del prossimo dibattito sinodale.

 

Si presenta come un cammino sinodale, che è stato iniziato e che continua accompagnato dalla riflessione, la meditazione e la preghiera di tutta la Chiesa, affinché i consacrati possano giungere ad una presa di co­scienza più profonda e ad un impegno più autentico nella missione della Chiesa per la salvezza del mondo.

 

Invita la vita religiosa “a rendersi sempre più ge­nerosa nella nuova evangelizzazione del mondo at­tuale, con le sue situazioni variegiate e diversificate di persone, categorie e culture” (3).

 

Parla della vita religiosa laicale presentandola come ­“una forma rilevante di consacrazione nella sua espressione carismatica, con una grande diversità di servizi apostolici e sociali in favore dell’umanità. I religiosi laici, mossi dal proprio carisma, si aprono a tutti nell’amore universale di Cristo per lenire i dolo­ri dei deboli e degli ammalati, per venire incontro ai poveri ed emarginati, per contribuire a stabilire la vera pace e giustizia in questo mondo, in una comu­nione fraterna universale che viene evocata dallo stesso nome con cui vengono designati, cioè, FRATEL­LI” (21).

 

In numerose prese di posizione che nel frattempo sono state pubblicate in relazione al testo delle “Li­neamenta”, abbiamo potuto leggere che lo stesso of­fre una visione della vita consacrata limitata rigida­mente alle coordinate del magistero ufficiale, il ché rappresenta in se innegabili vantaggi, ma che allo stesso tempo implica un impoverimento considere­vole, perché così si ignora praticamente la grande ric­chezza di esperienza accumulata da tanti consacrati nelle più diverse parti del mondo. La vita consacrata è di per se stessa vita e pertanto movimento.

 

 

2.10. Altri documenti apparsi nella Chiesa con ri­ferimento ai religiosi: vita di preghiera, apo­stolato, formazione…

 

2.10.1. Religiosi e promozione umana

 

È un documento elaborato dalla Sacra Congrega­zione per i Religiosi e gli Istituti Secolari, pubblicato il 12agosto 1980.

 

Dato che i religiosi per il loro inserimento in seno alla Chiesa e il loro collegamento peculiare con la sua missione sono stati e continuano ad essere particolar­mente sensibili e coinvolti nell’apostolato di presenza, impegno ed azione diretto alla lotta per la promozione integrale dell’uomo che caratterizza il nostro tempo, si ritenne opportuno propone dei criteri al rispetto, contra­stando nel contempo cene visioni riduttive o esagerate.

 

Il documento affronta quattro temi, di cui tre di­rettamente collegati con la nostra presenza ed azione storica nella Chiesa: l’opzione per i poveri e per la giustizia oggi; le attività e opere sociali dei religiosi; l’inserimento nel mondo del lavoro.

 

La riflessione proposta su questi tre problemi ci portato, nel nostro processo di rinnovamento, a compiere azioni e a cambiare atteggiamenti per rispondere meglio alle esigenze del nostro essere ed agire nella Chiesa.

 

Prova ne sono i numerosi cambiamenti realizzati e i principi assunti nella nostra vita.

 

 

2.10.2. La dimensione contemplativa della vita religiosa

 

E’ un documento preparato dalla Sacra Congrega­zione per i Religiosi e gli Istituti Secolari, pubblicato, al pari del precedente, il 12 agosto 1980.

 

Per fortuna è un segno peculiare del nostro tempo la riscoperta, in atto nel Popolo di Dio, del gusto per l’attività contemplativa. Il documento, di fronte a questa ripresa, dà in un certo qual modo quasi per scontata la relativa dottrina e pone l’accento sugli orientamenti pratici ed attuali, dedicando la prima parte in prevalenza agli istituti di vita attiva e la se­conda a quelli di vita contemplativa.

 

Sottolinea l’importanza della interiorità spirituale di ogni forma di vita consacrata e la necessità ed ur­genza di riaffermare l’assoluto primato della vita nel­lo Spirito.

 

Nel caso degli istituti di vita attiva, la Sacra Con­gregazione ha voluto promuovere soprattutto l’integra­zione tra interiorità e dinamismo affrontando quasi tut­ti i temi che costituiscono la nostra vita, nell’auspicio che si stabilisca una vera osmosi tra queste due realtà.

 

Vari dei suoi orientamenti sono stati ripresi nei nostri lavori illuminativi e tradotti in pratica nella no­stra vita.

 

 

2.10.3. Direttive sulla formazione negli istituti religiosi

 

È un documento elaborato dalla Sacra Congrega­zione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, pubblicato il 2 febbraio 1990.

 

La sua pubblicazione era attesa da tutti i religiosi, dato che se ne stava parlando da anni e che da anni circolavano “bozze” che a noi ed altri sono servite per l’elaborazione delle Costituzioni e la preparazio­ne del libro sulla formazione.

 

Il suo scopo è: precisare i concetti da tenere in considerazione nella formazione dei candidati alla vita religiosa; presentare gli agenti e gli ambiti della formazione analizzando alcuni tratti caratteri­stici del nostro tempo e definire le tappe della for­mazione.

 

Riteniamo che la Consacrazione con questo scrit­to abbia reso un grande servizio agli istituti della vita religiosa, anche se la sua pubblicazione è giunta in un momento in cui la maggioranza, tra cui noi, aveva già organizzato a livello di diritto e di filosofia tutti gli apporti conciliari e post-conciliari in materia di for­mazione.

 

Avendo avuto fortunatamente la possibilità di consultare le “bozze” in circolazione, possiamo dire che i nostri orientamenti sono basati su queste diretti­ve della Chiesa.

Riguardo alla formazione dei candidati e alla formazione permanente illuminano e rinforzano i principi dai quali siamo partiti, e le azioni che andia­mo realizzando.

 

 

2.10.4 Fratello negli Istituti Religiosi Laicali

 

É un documento scritto dai Superiori Generali degli Istituti Laicali, tra cui anche il nostro Superiore Generale Fra Brian O’Donnell, pubblicato nel mese giugno 1991. Il suo scopo fu quello di presentare l’identità specifica del Fratello.

 

Illustra in tutta la sua pienezza significato e valore della vita del Fratello, la cui vocazione risponde in pieno alle necessità del nostro mondo: al servizio dell’amore in nome di Gesù, siamo, con tutto quello siamo e che possiamo fare, testimoni di una fraternità possibile in un mondo sempre più lacerato.

 

Presentato come ricercatore dell’Assoluto, il Fratello è chiamato a fare della preghiera un’attitudine normale nella sua vita compiendo ovunque, nel suo vivere comunitario e nel suo apostolato, la sua mis­sione fondamentale che è quella di vivere e trasmet­tere al mondo l’utopia evangelica della fraternità.

3. INCIDENZA SULL’ORDINE: RINNOVAMENTO PER L’OSPITALITÀ

 

3.1. Il movimento che si crea nell’Ordine in ri­sposta alle esigenze del Concilio

 

Il Motu Proprio “Ecclesiae Sanctae” che ha imparti­to le norme per l’attuazione dei diversi decreti del Concilio Vaticano II, nella parte dove si riferisce alla “Pecfectae Caritatis” chiede agli istituti religiosi di convocare entro due o tre anni al massimo uno speciale Capitolo Generale, ordinario o straordinario.

 

Questo Capitolo si potrà tenere in due periodi distinti, con un intervallo di tempo in genere di non più di un anno.

 

Ai fini di una migliore preparazione si sollecita di realizzare un’ampia consultazione dei religiosi nella forma che si crede più opportuna (II. 1. 3 e 4).

 

Questo Capitolo ha la facoltà di modificare in forma sperimentale determinate norme delle Costitu­zioni.

 

Questi esperimenti si potranno protrarre fino al prossimo Capitolo che potrà prolungarli, ma non per un periodo maggiore di sei anni.

 

Partendo da questi principi, nell’Ordine prende corpo un movimento di rinnovamento che era già sta­to avviato in alcuni aspetti durante i primi anni del generalato di P. Igino Aparicio e precedentemente da P. Mosé Bonardi.

 

 

3.2. Revisione e adattamento delle Costituzioni ed elaborazione degli Statuti Generali

 

3.2.1. Costituzioni e Statuti Generali “ad expe­rimentum”: 1971

 

Seguendo le direttive impartite dal Motu Proprio“Ecclesiae Sanctae”, l’Ordine promosse un Capitolo Generale Straordinario, condue sessioni nel 1969 e nel 1970, orientato fondamentalmente alla revisione delle Costituzioni e all’elaborazione dei nuovi Statu­ti Generali.

 

Anche se queste Costituzioni seguono ancora lo schema tradizionale, contengono numerosi elementi che conferiscono loro un sapore nettamente post­-conciliare:

 

  • - integrano, adeguandola alla realtà dell’Ordine, la dottrina dei documenti del Concilio e di quelli emanati nel frattempo dal magistero in relazione al Concilio;
  • - eliminano gran parte della normativa che passa a costituire materia degli Statuti Generali;
  • - presentano in maniera positiva i voti;
  • - danno grande forza al significato liturgico della nostra fede;
  • - promuovono l’azione missionaria dell’Ordine;
  • - integrano nuovi concetti di formazione: lo scola­sticato, la formazione continua, la necessità di studi speciali.

Negli Statuti Generali viene creato il Segretariato Generale per le Missioni e si incoraggia l’istituzione di altri.

 

3.2.2 Costituzioni e Statuti Generali del 1984

 

Il Capitolo Generale del 1976 era del parere che le Costituzioni approvate dopo il Concilio Vaticano II non avessero avuto il tempo sufficiente per essere assimilate e messe in pratica dall’Ordine e considerò pertanto opportuno rimandare l’elaborazione delle Costituzioni definitive per altri sei anni.

 

Dopo un ampio lavoro di elaborazione, al quale presero parte tutti i Confratelli, si giunse a un proget­to definitivo che fu sottoposto allo studio e all’appro­vazione del Capitolo Generale del 1982.

Nelle nuove Costituzioni confluiscono la dottrina del Concilio e gli insegnamenti del magistero post-­conciliare, ma anche l’esperienza vissuta dall’Ordine nei quasi vent’anni che allora ci separavano ormai dall’assemblea sinodale.

 

Anche se hanno un carattere eminentemente dot­trinale e teologico, sono piene di vita ed accessibili a tutti i Confratelli. Sono state presentate come il no­stro libro di vita, sono state chiamate il nostro princi­pale libro di preghiera. Sono state definite il Vangelo in chiave di carisma.

 

Gli elementi qualificanti che le caratterizzano, sono:

 

  • - integrano non solo i principi emanati dai decreti conciliari, ma anche quelli proposti successiva­mente dal magistero post-conciliare;
  • - prendono in considerazione tutti i criteri della teologia della vita religiosa;
  • - si fondano su un’esperienza di dodici anni vissu­ta da parte dell’Ordine;
  • - presentano in una nuova luce il carisma, la spiri­tualità e la missione dell’Ordine;
  • - definiscono in termini nuovi il voto di ospitalità;
  • - aprono nuovi orizzonti all’esercizio del nostro apostolato;
  • - sottolineano l’importanza di essere comunità di vita e la necessità di un’autentica vita spirituale.

Gli Statuti Generali non vengono sottoposti ad uno studio così rigido come le Costituzioni; la loro approvazione avviene tuttavia con il verdetto dei Ca­pitolari che decidono di affidare ad una commissio­ne la redazione del testo da presentare in via defi­nitiva.

 

 

3.3. Documentazione dei Rev.mi Padri Generali Iginio Aparicio, Mario Alfonso Gauthier, Pierluigi Marchesi e Brian O’Donnell

 

P. Igino Aparicio il 10 gennaio 1960 scrive una lettera circolare per l’attuazione delle conclusioni del Capitolo Generale del 1959, in cui tocca tre aspetti concreti collegati intimamente con la vita religiosa: la vita spirituale; reclutamento e selezione delle vocazioni e perfezionamento della formazione della nostra gioventù. Richiamandosi alla Costituzione Apostolica “Sedes Sapientiae”,invita a realizzare una simbiosi tra vita spirituale ed attività apostolica. Allo stesso tempo impartisce alcune norme per i diversi centri di formazione, istituendo lo scolasticato come tale.

 

Il 10 aprile 1966 scrive, sotto l’influsso della ripetuta lettura della Costituzione, Lumen Gentium e del Decreto Perfectae Caritatis, una lettera intitolata “Lo stato religioso ospedaliero alla luce del Concilio Ecumenico Vaticano II”, nella quale presenta alla considerazione dei suoi Confratelli alcuni punti della dottrina conciliare che più tardi saranno inseriti nelle Costituzioni “ad experimentum”. Conclude lanciando un appello ai religiosi a rinnovarsi secondo lo spirito del Vangelo. Afferma: “Non viene proclamata una riforma giuridica, bensì spirituale; una rinnova­zione, cioè, interiore di quanto costituisce l’essenza dello stato religioso… Se ci sforziamo di vivificare i basilari principi ricordati dal Concilio ai religiosi, il nostro santo Padre Fondatore vedrà in noi tanti suoi degni successori, fedeli alla Chiesa, col medesimo grande ardente amore, che egli aveva per essa.”

 

P. Mario Alfonso Gauthier dedicò parte del suo lavoro come Superiore Generale a promuovere l’as­similazione delle nuove Costituzioni secondo lo spi­rito della Chiesa. Presentandole l’8 marzo 1971 all’Ordine, scrisse: “Vi invitiamo a studiarli attenta­mente e a meditarli, per quindi viverli con fervore e raggiungere così la meta fissataci dal Concilio Vati­cano II, cioè: il nostro rinnovamento spirituale per­sonale e quello di tutte le comunità dell’Ordine O­spedaliero.” Con lo stesso impegno promosse la revisione del Cerimoniale dell’Ordine che venne pub­blicato il 24 ottobre 1974, colmando così un’altra precisa esigenza della Chiesa.

 

Sono tre i documenti principali che P. Pierluigi Marchesi scrive durante il suo generalato: Le basi del rinnovamento, L’Umanizzazione e L’Ospitalità dei Fatebenefratelli verso il 2000.

Le basi del rinnovamento è un documento che P. Pierluigi indirizza ai Confratelli per dare risposta ad una richiesta dei Capitolo Generale del 1976, dopo aver creato le commissioni “H” e “R” ed aver tenuto una riunione a Granada nel mese di marzo 1976 con i PP. Provinciali. Di questo scritto ci occuperemo più avanti.

 

L’Umanizzazione, pubblicata nel mese di marzo 1981, fu offerta all’Ordine di nuovo dopo un incontro previo con i PP. Provinciali destinato al suo studio e completamento. La riflessione ha un duplice tema di fondo: la crescita personale dei Confratelli come tali e delle comunità chiamate a vivere secondo un ideale e la progettazione della nostra presenza nelle opere sulla base di un’attitudine umanizzante: “Umanizzar­si per umanizzare “. Nel documento è stato ricono­sciuto un denominatore comune, l’umanizzazione appunto quale base su cui poggiare gli sforzi di rin­novamento personale e dell’Ordine. Per l’incidenza che ha avuto sulla vita dell’Ordine, torneremo più avanti nella nostra analisi su questo documento.

 

L’Ospitalità dei Fatebenefratelli verso il 2000 traccia un nuovo stile di essere e di agire per il futuro immediato dell’Ordine. Di fronte ai cambiamenti della nostra società sottolinea la necessità di rimane­re aperti allo Spirito, ai tempi e all’uomo di oggi per individuare e comprendere le nuove categorie di bisognosi. Disegna un nuovo ruolo per i Fatebenefratelli ­nella Chiesa e nella società sulla base di un peculiare approccio alla vita e considera l’atteggiamento di ricerca come un possibile momento di rinnovamento della nostra ospitalità.

 

Nell’appendice del documento vengono analizzati ­tre gruppi di bisognosi che si propongono come destinatari preferenziali del nostro carisma: gli anziani, i ­malati terminali e i tossicodipendenti.

 

I due interventi di maggior spicco di Fra Brian Donnell hanno visto la luce a motivo della celebrazione del terzo centenario della canonizzazione di Giovanni di Dio: come si ricorderà, “Servo e Profeta” è uscito all’inizio, “Giovanni di Dio continua a vivere nel tempo” alla chiusura del centenario. Quest’ultimo, presentato a Malaga nell’ambito di una Conferenza Generale dell’Ordine, si segnala per la particolarità che fu elaborato collegialmente dal De­finitorio Generale.

 

In “Servo e Profeta” il P. Generale presenta sotto questo duplice aspetto la figura di San Giovanni di Dio nell’intento di dare, sulla base della propria espe­rienza, nuovo impulso alla nostra vita religiosa e all’apostolato che il corpo dell’Ordine, Confratelli ecollaboratori, realizzano. Vede il futuro della nostra vita nella dimensione della testimonianza profetica, dimensione che incarneremo scegliendo un approc­cio contemplativo alla vita, in particolare alla soffe­renza e al dolore, mettendo i poveri e gli emarginati al centro del nostro servizio, facendo nostra una spi­ritualità tesa all’integrazione e all’interconnessione, vivendo uno stile di vita sempre più semplice ed aprendoci in tutto questo ad altri religiosi e ai laici. La riflessione si chiude indicando come valore chia­ve quello dell’umanizzazione. La nostra vita religiosa ha subito profonde trasformazioni, ma dobbiamo vivere nella convinzione che siamo tornati di nuovo nelle mani del vasaio.

 

Giovanni di Dio continua a vivere nel tempo” è un messaggio rivolto all’Ordine che, partendo dalla realtà, si propone di richiamare, con tutta la sua forza vitale, il segno di Giovanni di Dio ricordando i prin­cipi basilari dell’identità del Fatebenefratello. Pur ri­conoscendo il forte contrasto che esiste tra il progetto della nostra vita e la società di oggi, il messaggio ci chiede di essere coscienti che è questa la società che siamo chiamati a servire proponendo soluzioni ai problemi esistenti. Il messaggio era inteso come vei­colo per trasmettere la forza dell’utopia e della spe­ranza sia ai Confratelli che a quanti costituiscono il corpo dell’Ordine.

 

Come aiuto e stimolo al rinnovamento dell’Ordi­ne va letta finalmente la Relazioneche Fra Brian ha presentato all’incontro dei Superiori Maggiori svol­tosi a Roma dal 19 al 22 ottobre 1992 dopo la ce­lebrazione dei Capitoli Provinciali. Partendo dalla domanda Come vanno le cose? il P. Generale affron­ta in essa due tematiche che considera di importanza fondamentale: il rinnovamento e forme appropriate dell’ospitalità.

 

Concludendo afferma che, anche se il rinnova­mento non è sparito dal lessico dell’Ordine e dai suoi progetti e viene auspicato e ricercato dai singoli e dalle Comunità, occorre che la sua necessità e i mez­zi per la sua realizzazione vengano richiamati con maggiore forza.

 

 

3.4. Documentazione dei Capitoli Generali: 1965, 1970, 1976, 1979, 1982 e 1988

 

Il LVII Capitolo Generale, denominato nell’occasione intermedio perché non implicava l’elezione del Generale, ebbe luogo nel mese di maggio 1965. Si dedicò a studiare le proposte presentate dai PP. Capi­tolari, dalle quali si nota chiaramente l’incidenza sui Confratelli incominciava ad esercitare la dot­trina conciliare, anche se il Concilio era ancora in pieno svolgimento.

 

Il LVIII Capitolo Generale, denominato straordinario, fu celebrato in due sessioni nel 1969 e nel 1970 ed era orientato, come Capitolo speciale secon­do le direttive del Motu Proprio Ecclesiae Sanctae, completamente all’elaborazione delle Costituzioni e degli Statuti Generali. Nella seconda parte, oltre all’approvazione del testo delle Costituzioni, si svolse la fase elettiva del nuovo governo dell’Ordine per il sessennio successivo.

 

Il LIX Capitolo Generale, celebratosi nel mese di ottobre 1976, concordò di prorogare per altri sei armi le Costituzioni“ad experimentum “. Inoltre de­cise che una commissione nominata ad hoc approfon­disse i temi più importanti e preparasse il materiale necessario per le Costituzioni definitive. Con ciò se­gnò in un certo qual modo il contenuto del Capitolo Straordinario del 1979. Furono esaminate tutte le questioni importanti della nostra vita religiosa secon­do la documentazione del Concilio ed approvate una serie di proposte che sarebbero servite come base per i lavori successivi.

 

Il LX Capitolo Generale, celebratosi nel 1979, era un Capitolo straordinario, che fu convocato allo scopo di compiere uno studio approfondito del carisma come richiesto dal Capitolo precedente.

 

Venne introdotta una nuova metodologia che privilegiava il lavoro di gruppo rispetto

 

Venne concordato un piano generale per la revisione delle Costituzioni da promuovere da una Com­missione Centrale nelle Province e nelle comunità.

 

Il Capitolo approvò una nuova formulazione del voto di ospitalità ad experimentum che più tardi sa­rebbe stata inserita nelle nostre Costituzioni attuali.

 

Delimitò e distribuì la programmazione secondo i seguenti campi di azione: apostolato, stile di vita, for­mazione e governo ed amministrazione. Individuò il problema fondamentale dell’Ordine all’epoca nello “squilibrio tra la logica assistenzialista” e “la logi­ca evangelizzatrice” che implica e comporta il cari­sma specifico dell’Ordine.

 

Inoltre stabilì un programma suddiviso in obietti­vi e tappe da realizzare successivamente nella vita delle Provincie.

 

Il LXI Capitolo Generale, svoltosi nel 1982, non elaborò un nuovo piano di azione, ma si limitò a rivedere ed aggiornare quello del 1979 cercando di renderlo più funzionale ed aderente alla realtà delle Province.

 

Pur riconoscendo una serie di aspetti positivi en­trati a far parte della vita dell’Ordine grazie al lavoro realizzato nei tre anni successivi, il Capitolo constata allo stesso tempo una serie di problemi che debbono essere affrontati per migliorare e rendere più efficace la vita dei religiosi. Alla luce di questa visione di in­sieme il Capitolo definisce come problema fondamentale: “Constatiamo con una certa preoccupazione che il modo in cui ci inseriamo attualmente nelle opere assistenziali è in contrasto con la vita e l’azione di San Giovanni di Dio.”

Il lavoro principale del Capitolo era orientato analisi e all’approvazione definitiva delle Costituzioni. Dopo che i PP. Capitolari avevano studiato e discusso lungamente il testo proposto cercando di identificarci con esso, il Capitolo nominò una commissione per la redazione definitiva delle Costituzioni. Degli Statuti Generali furono trattati nell’aula sol­o quegli aspetti strettamente collegati con il testo delle Costituzioni.

 

Inoltre il Capitolo deliberò che i Segretariati Internazionali per la Formazione e per la Pastorale Ospedaliera fossero incaricati di determinati programmi, che si nominassero due Coordinatori Generali per missioni in Africa e in Asia e che si erigesse uno Scolasticato Interprovinciale nell’Africa Occidentale.

 

Il LXII Capitolo Generale, celebratosi nel 1988, fu preparato con l’elaborazione di un docu­mento intitolato “Ospitalità – impegno con l’uomo”. ­Si mantenne la metodologia introdotta nei due Capitoli precedenti e ciascuna fase era preceduta da un’introduzione del P. Presidente. Un altro elemento di lavoro costituirono le valutazioni presentate dai Segretariati Generali.

 

Dopo aver valutato attentamente gli aspetti positivi e negativi del sessennio trascorso, il Capitolo denuncia che “il problema principale dei Confratelli consiste nella poca incidenza del nostro apostolato tra i malati e i bisognosi” aggiungendo che è un aspetto preoccupante, perché è dal Capitolo del 1979 che questo problema viene evidenziato. Perciò il Capitolo considera imprescindibile continuare il processo di rinnovamento, avendo come centro l’ospitalità secondo lo stile del nostro Fondatore (Fase del giudicare).

 

La programmazione è animata dal desiderio di dare nuovo impulso alla dimensione dell’apostolato che vie­ne trattata sotto il titolo “Ospitalità”;nel settore della formazione vengono privilegiate la formazione permanente e la pastorale vocazionale; viene incoraggiata l’azione missionaria, rivolta un’attenzione speciale al tema dei collaboratori (come si ricorderà, hanno parte­cipato in questo Capitolo per la prima volta otto colla­boratori in veste di uditori a una parte delle sessioni) e proposto un piano di riorganizzazione per le strutture di animazione dell’Ordine (Fase dell’agire).

 

Infine il Capitolo demanda al Governo Generale di studiare determinate questioni collegate agli Statu­ti Generali e di indicare adeguate soluzioni in merito.

 

 

3.5. Azioni nella vita dell’Ordine

 

3.5.1. Scuola Internazionale di Spiritualità e Missionologia. Studentati Interprovin­ciali

 

Nelle norme impartite da P. Igino Aparicio per i centri di formazione si trova un capitolo intitolato Scuola Internazionale che si riferiva alla Scuola di Spiritualità e Missionologia eretta a Roma nel 1955 e inaugurata nel 1956. In quanto alla spiritualità venne­ro proposti i seguenti obiettivi: cultura teologica e spirituale, preparazione di formatori, relazioni tra i Confratelli delle diverse Province e apprendimento dell’italiano. Per quanto riguarda invece la missionologia, lo scopo era di preparare spiritualmente, moralmente e culturalmente i religiosi impegnati in terra di missione.

 

Nelle norme succitate si trova inoltre un capitolo dedicato allo Studentato Interprovinciale. In esso si incoraggiò le Province di lingua comune a costituire una casa di studi superiori interprovinciale, la cui erezione doveva comunque essere approvata dal P. Generale con il suo Definitorio. Si propose di crearla in una casa con un’opera apostolica sotto la guida di in maestro, anche se tutti i Confratelli sarebbero comunque rimasti sotto l’autorità di un Priore locale.

 

 

3.5.2. Le Commissioni “H” e “R”

 

Nel Capitolo Generale del 1976 fu deciso la creazione di una Commissione con il compito di studiare alcuni punti in relazione alla ospitalità destinati ad essere integrati nelle Costituzioni definitive.

 

A tal fine si tenne a Roma dal 26 ottobre al 2 no­vembre 1977 una riunione convocata dal P.Generale, nel cui ambito venne istituita la Commissione H. Il compito di tale Commissione si incentrò su tre aspet­ti: lo studio del voto di ospitalità, lo studio del cari­sma e del fine specifico dell’Ordine, e la preparazio­ne dei contenuti e della dinamica del Capitolo Gene­rale Straordinario.

 

Chi consulta la documentazione della Commis­sione, può constatare come il P. Generale, istituendola, era animato dal desiderio di spingere l’Ordine a mettere in pratica l’invito del Vaticano II, vale a dire a realizzare “il rinnovamento autentico dell’Or­dine”. Per definire le competenze e i compiti della Commissione fu elaborato un documento guida intitolato: ”Sul rinnovamento dell’Ordine nella vita nell’espressione del suo carisma”.

Realizzando uno studio approfondito sul contenuto del carisma, si era convinti di poter appoggiare significativamente il processo di rinnovamento spirituale e la fraternità dei Confratelli.

 

Nella stessa riunione fu istituita la Commissione R per il rinnovamento.

 

 

3.5.3. 1979: Anno del Rinnovamento. Corsi di rinnovamento

 

In un incontro con i PP. Provinciali svoltosi a Granada i primi di marzo del 1978, il P. Generale pre­sentò una riflessione intitolata: “Le basi del rinnova­mento” che posteriormente venne proposta a tutto l’Ordine in data 18 aprile 1978.

 

Nell’introduzione di questo scritto P. Marchesi proclamò l’anno 1979 “Anno del Rinnovamento”, che sarebbe culminato nel Capitolo Generale Straor­dinario. Le Commissioni “H” e “R”organizzarono una serie di corsi: si iniziò con uno riservato a rispet­tivamente due animatori di ciascuna Provincia, che si tenne a Roma nel mese di novembre 1978, al quale seguirono diverse riunioni di Superiori organizzate per gruppi linguistici, nonché diversi incontri per sensibilizzare tutti i Confratelli.

 

Il P. Generale considerava la sua riflessione come un modesto, fraterno e meditato aiuto teso ad avviare il rinnovamento dell’Ordine a livello personale e co­munitario. La riflessione era suddivisa in due parti intitolate rispettivamente le barriere che ci dividono e i punti forti che ci uniscono.

 

 

3.5.4. I Segretariati Generali e la Commissione Generale di Animazione

 

I Segretariati Generali sorgono all’interno dell’Ordine come strumenti di aiuto per il P. Generale il suo Consiglio nell’area di governo e dell’ani­mazione. Sulla stessa linea vengono istituiti nelle Province i Segretariati Provinciali.

 

Abbiamo già rilevato come nelle Costituzioni del 1971 si parli del Segretariato Generale per le Missio­ni (C nn. 111 e 118) e si promuova la creazione di altri per i seguenti campi: vocazioni, formazione, pastorale ospedaliera, ospitalità ed amministrazione (SG n. 255). Il motivo per cui si creano i Segretariati è di “rendere sempre più aggiornato ed efficace il nostro specifico apostolato”. Ignoriamo se all’epoca si è arrivati ad istituzionalizzare gli stessi a livello della Curia Generalizia; sappiamo tuttavia che inco­minciarono a funzionare in alcune Province.

 

Nel 1978 Fra Pierluigi Marchesi nel presentare “Le basi del rinnovamento“, scrive una breve lettera, nella quale, facendo riferimento all’organizzazione della Curia Generalizia, annuncia la creazione di due uffici, tra cui quello di studi e formazione, e cinque Segreterie rispettivamente per la Pastorale Vocazio­nale, le Missioni, la Pastorale Ospedaliera, gli Ospe­dali e le relazioni con i collaboratori secolari. Alcuni di questi incominciano in seguito a lavorare; altri tut­tavia entrano soltanto dopo il Capitolo del ‘82 piena­mente in funzione.

 

Nel sessennio 1982-1988 sono stati costituiti i Se­gretariati per i Laici, Studi e Formazione, Missioni, Pastorale Sanitaria, Centri ed Amministrazione. Era­no composti da religiosi e collaboratori. Hanno elabo­rato propri obiettivi e si sono riuniti due volte all’an­no. Il lavoro realizzato è raccolto nei relativi verbali.

 

Il Capitolo Generale del 1988 considerò iperdi­mensionata questa organizzazione e chiese al Gover­no Generale nella linea di azione 28.3 della sua pro­grammazione di “riesaminare e riorganizzare i Se­gretariati Generali, affinché incoraggino, stimolino e animino i seguenti settori della vita dell’Ordine: pa­storale ospedaliera, missioni, stile di vita e governo della comunità, formazione, laicato e centri ed amministrazione.”

Accogliendo questa richiesta, nel piano di governo elaborato e presentato da Fra Brian O’Donnell con una lettera nel mese di febbraio 1989, si affida la respon­sabilità di ciascuna delle aree sinora gestite dai Segre­tariati Generali ad un Consigliere Generale. Inoltre si istituisce una Commissione Generale ed una Commissione Permanente per l’Animazione, sulle quali sarà presentata una valutazione in questo Capitolo.

 

3.5.5. Il Segretariato Latino-americano per il Rinnovamento

 

I corsi di rinnovamento costituirono per tutti i Confratelli dell’America Latina un momento prezio­so per lo studio della realtà, per l’aggiornamento pa­storale e per dare alla propria vita un nuovo impulso evangelizzatore nella dimensione del carisma e della missione dell’Ordine.

 

Realizzati questi corsi nel 1979 a Bogotà, gli ani­matori di questo processo si resero conto che, per da­re continuità al cammino di rinnovamento iniziato, era necessario fornire un appoggio e un accompagnamento permanente ai Confratelli.

 

Nelle riunioni che succedettero all’ultimo corso, il P. Generale, i Provinciali e i Delegati Provinciali interessati concordarono di creare il Segretariato Latino-americano per il Rinnovamento, detto SELARE, diretto da un Confratello destinato a tempo pieno a organizzare le attività necessarie per portare avanti e seguire il processo. Inoltre nelle tre Delegazioni (co­stituite nello stesso anno in Viceprovincie), nella De­legazione del Brasile e nella Provincia Colombiana, si nominò rispettivamente un Confratello per anima­re il processo nella propria area.

 

Com’era prevedibile, in principio la funzione del SELARE non fu accettata o compresa in uguale ma­niera dalle diverse comunità dell’America Latina. Alcuni Confratelli offrirono al nuovo organismo tutto il loro appoggio e favorirono la sua crescita; altri lo consideravano inutile; altri ancora si mostrarono in­differenti.

 

Ma grazie all’encomiabile impegno dei Confra­telli che furono i suoi direttori e dei Confratelli de­legati nei diversi paesi, il SELARE si mostrò all’al­tezza del suo compito dando preziosi frutti nell’ac­compagnamento del rinnovamento post-conciliare in America Latina.

 

All’inizio degli anni novanta, la presenza del SE­LARE all’interno dell’Ordine come anche nella Chiesa e nel mondo della salute in America Latina era di tale rilievo che nella Riunione dei Superiori Maggiori svoltasi a Roma il 30 ottobre 1989, si deci­se di darle una nuova struttura più adeguata alle sue crescenti responsabilità e alla sua proiezione amplia­ta. D’ora in poi si chiamerà Segretariato Interprovin­ciale dell’America Latina (SAL.OH), con programmi interni per i Confratelli dell’Ordine e programmi esterni per altre comunità e diocesi. Questa proiezio­ne esterna continuerà sotto la sigla del SELARE, co­me un programma dipendente da SAL.OH.

 

3.5.6. I Segretariati Interprovinciali

 

Il desiderio di intensificare la cooperazione in al­cuni aspetti della propria vita è, soprattutto negli ulti­mi anni, andato aumentando nelle Province, soprat­tutto in quelle inserite in una stessa nazione o in un contesto linguistico-culturale di comune tradizione, anche se realizzare questo desiderio non sempre si è rivelato facile.

 

Alcune Province, con il tempo, sono convenute sulla necessità di creare a tal fine Segretariati Interpro­vinciali e li hanno istituiti, con l’appoggio del Governo Generale, quali strumenti agili per l’animazione.

 

I Segretariati Interprovinciali compaiono nelle Costituzioni del 1982 (n. 97d), dove il loro ruolo ap­pare vincolato a rappresentare gli interessi delle Pro­vincie associate dinnanzi alle autorità di uno stesso stato. Il loro sviluppo successivo è stato tuttavia mol­to più ampio, e ciò essenzialmente per due ragioni: da una parte hanno spesso varcato i confini nazionali, dall’altra hanno incominciato ad abbracciare nelle proprie azioni elementi peculiari dell’animazione della vita delle Province, non riconducibili alla sola dimensione rappresentativa dinnanzi ad uno stato.

 

Oggi esistono nell’Ordine sette Segretariati Inter­provinciali: SAL.OH in America Latina, quello delle Province di lingua inglese, quello delle Province di lingua tedesca e dell’Europa dell’Est, quello delle due Provincie italiane, quello polacco e quello dell’Asia.

 

 

3.5.7. Il libro sulla formazione nell’Ordine

 

Il libro sulla formazione è stato portato a termine dopo un lungo processo di elaborazione. La prima parte, pubblicata nel 1985 con il titolo: “La formazione­ del Fatebenefratello”,presentò i principi, gli obiettivi e i criteri fondamentali della formazione trattando non solo la formazione iniziale, ma anche la Pastorale Vocazionale e la Formazione Permanente.

 

La Commissione Permanente di Animazione dell’Ordine pubblicò nel mese di ottobre 1991 “La Formazione Permanente nell’Ordine”. Inoltre mise a disposizione delle Province, dopo che un documento base con lo stesso titolo era stato studiato dai promo­tori vocazionali, il testo definitivo de “La Pastorale Vocazionale nell’Ordine”lasciando ai responsabili provinciali la sua pubblicazione nelle diverse lingue.

 

Con ciò il Governo Generale considera di aver offerto le basi sia per suscitare e realizzare una buona formazione dei candidati in ordine alla loro integra­zione progressiva nell’Ordine, sia per garantire un accompagnamento adeguato mediante la Formazione Permanente.

 

3.5.8. I Noviziati Interprovinciali

 

Il desiderio di conseguire una migliore promozio­ne vocazionale e formazione dei candidati nei paesi in via di sviluppo, la scarsità delle vocazioni nei pae­si industrializzati, la possibilità di offrire buoni for­matori e l’apertura e il movimento di interprovincia­lità esistente nell’Ordine, sono i fattori che hanno portato alla creazione dei centri di formazione inter­provinciale.

 

Nelle Dichiarazioni del Capitolo Generale del 1979, nella sezione dedicata all’apostolato, tappa 30, raccomandazione 2, si chiede l’erezione di un Novi­ziato Interprovinciale in Africa. Nelle Dichiarazioni del Capitolo del 1982, nel capitolo dedicato alle pro­poste varie, si dice al punto 3: “Si dovrà creare uno Scolasticato Interprovinciale per l’Africa occidenta­le”.Finalmente nelle Dichiarazioni del Capitolo Ge­nerale del 1988, nella parte intitolata Fase dell’Agire, divisione Formazione Iniziale, nella linea d’azione 18 si sollecita: “Promuovere la costituzione di Centri Interprovinciali”.

Tutto ciò ha comportato che oggi abbiamo un Noviziato congiunto e due Scolasticati comuni nella Delegazione Generale dell’Africa, che non sappiamo, se possiamo definirli interprovinciali. Inoltre esi­ste un Noviziato Interprovinciale in Palencia (Spa­gna) delle tre Provincie spagnole ed uno a Graz (Au­stria) delle Province di lingua tedesca e dell’Europa dell’Est.

 

3.5.9. Le visite canoniche generali e provinciali come espressione di un nuovo stile di

ani­mazione

 

Le visite canoniche, sia generali che provinciali, sono prescritte praticamente da sempre dal Diritto Canonico. Come tali sono entrate a far parte delle no­stre Costituzioni e sono state realizzate nel tempo.

 

Il ruolo attribuito al visitatore, le difficoltà a li­vello dei mezzi di comunicazione e di trasporto e la forma di concepire la stessa visita hanno fatto sì che in passato essa verteva in primo luogo sul controllo, sulla disciplina e sulla valutazione della situazione incontrata. La chiusura serviva ad impartire criteri o norme in relazione al funzionamento della vita della comunità e dell’ospedale.

 

Lo stile delle visite canoniche è andato poi pro­gressivamente cambiando nella misura in cui hanno preso piede le idee del Concilio.

 

L’ultima visita canonica generale è stata proget­tata e realizzata sulla base di una concezione aperta e collegiale che ha portato a delegare le sue tappe più importanti al Consigliere Generale responsabile dell’area in oggetto, mentre il P. Generale e parte del Consiglio hanno partecipato di volta in volta alla chiusura accentuando così il suo carattere animatore, senza che per questo siano state trascurate le esigen­ze di analisi e revisione proprie della visita.

 

 

3.5.10. La costituzione delle Viceprovince dell’America Latina

 

Il 12 dicembre 1979 marca un passaggio impor­tante nella storia dell’Ordine in America Latina, ve­nendo erette canonicamente in questa data nell’ambi­to del Capitolo Generale Straordinario, come frutto del processo di rinnovamento post-conciliare e come risposta all’esigenza di adattarsi alle nuove necessità del subcontinente americano, le Viceprovince suda­mericane, e cioè:

 

- la Viceprovincia Sudamericana Settentrionale (composta di Ecuador, Panama, Perù e Vene­zuela) che sceglie come patroni Nostra Signora e il Venerabile Francesco Camacho;

 

- la Viceprovincia del Messico, Cuba e America Centrale che si collocò sotto la protezione di No­stra Signora di Guadalupe;

 

- la Viceprovincia Sudamericana Meridionale (composta di Argentina, Bolivia, Cile, Paraguay e Uruguay) posta sotto la protezione di San Gio­vanni di Avila.

 

Questo passo ha permesso di rendere più agili la struttura e i servizi dell’Ordine nonché di inserirsi meglio nelle diverse realtà; inoltre ha favorito l’in­gresso di vocazioni autoctone.

 

Le Viceprovince sono entità giuridiche temporali destinate ad essere erette in Provincie. A 15 anni dal­la loro creazione, oggi ciascuna delle Viceprovince sudamericane deve analizzare, a quale punto di que­sto processo verso la trasformazione in Provincia si trova.

 

 

3.5.11. Le Coordinazioni di Asia e Africa. La De­legazione Generale dell’Africa

 

Questo tema compare per la prima volta nel Ca­pitolo Generale del 1979, dove viene posto nei se­guenti termini: “Si considera indispensabile la nomi­na di due COORDINATORI: uno per l’Africa e le Isole Mascarena, l’altro per l’Asia e l’Oceania; detti coordinatori dovrebbero avere le stesse facoltà che le Costituzioni attribuiscono ai Delegati Generali”(Programmazione, Obi. II, Tappa 30, Raccom. 1).

 

Il Capitolo Generale del 1982, nella sezione dedi­cata alle proposte varie, al punto 2 chiede: “Si dovrà nominare un Coordinatore Generale per le Missioni d’Africa ed uno per quelle d’Asia”.

 

In quanto all’Africa, avviato il processo di coordinamento dei diversi centri dell’Africa Occidentale. il LXII Capitolo Generale nella linea di azione 25 approva che si porti avanti questo processo con l’obiettivo di instaurare la Viceprovincia dell’Africa Occidentale.

 

A tal fine la Curia Generalizia promuove, dopo i capitoli Provinciali del 1989, una riunione, alla qua­le invita i PP. Provinciali delle Province con opere in Africa e i Confratelli operanti in Africa che avevano preso parte agli ultimi Capitoli Provinciali. In detta riunione si giunge alla conclusione che la forma mi­gliore per preparare le case in Africa a diventare una Viceprovincia, sia quella di raggrupparle in una De­legazione Generale; come tale ha realizzato un pro­prio percorso in questo sessennio.

 

In quanto all’Asia, il LXII Capitolo Generale nella linea di azione 26 deliberò: “Il Governo Generale faciliti il coordinamento di alcuni aspetti del­la vita delle missioni dell’Ordine in Asia…”. In se­guito è stato creato il Segretariato Interprovinciale dell’Asia che ha incominciato ad operare in questa direzione.

 

3.5.12. I Capitoli Interprovinciali in Spagna

 

Al fine di giungere ad una condivisione maggiore degli elementi fondamentali della propria vita e del proprio apostolato, le Province di Spagna, per voce dei loro tre Consigli Provinciali, riunitisi a Madrid il 4 settembre 1985, chiesero alla Curia Generalizia il permesso di poter realizzare un Capitolo Interprovin­ciale che ebbe poi luogo a Ciempozuelos nel mese di maggio 1986.

 

In detto Capitolo si approvò un documento intito­lato “La presenza dell’Ordine in Spagna” che ha il­luminato il significato della presenza e dell’apostola­to dell’Ordine nel suo insieme in Spagna. L’esperien­za del Capitolo Interprovinciale fu ripetuta nel 1989 e nel 1992.

 

Questa esperienza assieme al dinamismo del Se­gretariato Interprovinciale ha fatto sì che si assiste oggi in Spagna, a prescindere dalle difficoltà proprie, ad un’azione congiunta in tutti i campi che costitui­scono la vita dell’Ordine.

 

3.5.13. Il Fondo Comune per le Missioni

 

La proposta di creare un Fondo Comune per le Missioni apparve per la prima volta durante la riunio­ne dei Superiori Maggiori dell’Ordine svoltasi nel mese di ottobre 1989.

 

Presa in considerazione dal Consiglio Generale, si preparò una prima bozza in cui venne delineata la filosofia del futuro Fondo Comune. Dopo aver studiato i suggerimenti presentati al riguardo dalle Province, si giunse ad un piano definitivo in una riu­nione della “Commissione Africa”.

 

Il Fondo è nato dall’esigenza di promuovere una maggiore condivisione delle risorse, vale a dire un appoggio più incisivo dalle realtà più avvantaggiate verso quelle meno avvantaggiate. Sinora si basa praticamente sui contributi che giungono direttamente dalle Province.

 

Anche se in principio si era pensato di fare del Fondo un mezzo di aiuto per tutte le comunità missionarie dell’Ordine, si constatò presto che era impossibile, per cui si decise di limitare la sua responsabilità alle Delegazioni Generali del Vietnam e dell’Africa.

 

Sono stati esaminati i preventivi di tutti i centri appartenenti alle due Delegazioni. Gran parte dei lo­ro introiti derivano dall’attività assistenziale che rea­lizzano. Aiuti consistenti arrivano dalle varie organizzazioni internazionali, tra cui le nostre ONG. Ma possiamo dire che anche il Fondo Comune ha fatto la sua parte negli anni 1991 e 1992. In quest’ultimo anno ha distribuito aiuti anche ad alcuni centri in Ame­rica Latina e in Australasia.

 

Nella distribuzione degli aiuti, il comitato prepo­sto alla gestione del Fondo, si è orientato ai criteri in­dicati dalle due Delegazioni Generali.

 

La nostra gratitudine va in particolar modo alle Province che con il loro aiuto hanno reso possibile che questa iniziativa vada sempre più consolidandosi.

 

3.5.14. La testimonianza di fedeltà dei Confra­telli nei paesi oppressi

 

Riteniamo giusto e necessario fare riferimento a questo fatto. Sono non pochi i Confratelli che in di­versi paesi, come altri settori della Chiesa, hanno sof­ferto l’oppressione.

Sono stati limitati nella libertà di testimoniare la loro fede e di realizzare il proprio apostolato; di po­tersi muovere e stare in contatto con i Confratelli di altre nazioni e di partecipare come membri dell’Ordi­ne ai suoi avvenimenti più importanti. Sono stati perseguiti e privati della possibilità di promuovere la no­stra vocazione.

 

Hanno vissuto con difficoltà il movimento che il Concilio ha suscitato nella Chiesa. Hanno patito la mancanza di informazione sia a livello generale che a livello dell’Ordine.

 

Quando dopo molti sforzi, rappresentanti di que­sti paesi poterono partecipare a qualche Capitolo, erano ricevuti con grande gioia e bombardati con do­mande circa la loro vita.

 

In queste circostanze hanno offerto alla Chiesa e all’Ordine un’encomiabile testimonianza di fedeltà alla nostra vocazione mantenendo vivo in mezzo a tutte le difficoltà il carisma di San Giovanni di Dio.

 

 

3.5.15. Il crollo dell’ideologia materialista nell’Europa dell’Est: nuove possibilità

 

Eccettuando la Polonia che da sempre ha goduto di uno status speciale, la situazione nei paesi dell’Eu­ropa dell’Est ha conosciuto in questi ultimi anni una profonda trasformazione. Con la caduta della cortina di ferro si sono aperte tutt’una serie di nuove possibi­lità che soltanto ieri sembravano ancora inimmagi­nabili.

 

I Confratelli possono di nuovo mettersi insieme e vivere in comunità; l’Ordine può rivendicare il diritto di proprietà sui suoi ospedali; si possono accogliere nuove vocazioni. Tutto sembra indicare che un nuovo orizzonte si avvicina.

 

Il messaggio del governo generale “Giovanni di Dio continua a vivere nel tempo” lanciava un appello ad impegnarsi nella ricostruzione dell’Ordine in que­sti paesi. Dalle Province di Austria e Baviera sono state avviate nel frattempo diverse iniziative. I nuovi candidati vengono formati nel Noviziato Interprovin­ciale Tedesco e nel Segretariato Interprovinciale Te­desco sono stati integrati rappresentanti delle diverse realtà dell’Est. Ma verosimilmente l’Ordine è chiam­ato a compiere altri gesti per conseguire in questi paesi la rivitalizzazione che merita.

 

3.5.16. I Confratelli riconosciuti santi dalla Chiesa

 

Il periodo post-conciliare è stato molto ricco in questo senso per l’Ordine. Tutti i Confratelli che ci hanno preceduto nella storia dell’Ordine, hanno cer­cato di rispondere fedelmente alle esigenze dell’ospitalità. Per questo sentiamo una profonda riconoscenza verso loro. Alcuni di loro si sono distinti sia per il dono che hanno ricevuto da Dio, sia per la risposta che hanno dato.

 

Tutti ricordiamo le celebrazioni che l’Ordine ha vissuto negli ultimi dodici anni, a incominciare da San Riccardo Pampuri, di cui abbiamo avuto la gioia di poter celebrare in soli otto anni la beatificazione e la canonizzazione rispettivamente nel 1981 e 1989. Nel 1985 è stato beatificato solennemente P. Bene­detto Menni; nel 1992 finalmente ha avuto luogo la beatificazione dei 71 Confratelli-Martiri della guerra civile spagnola.

I fatti che hanno costituito la loro vita e la loro morte, sono oramai ampiamente conosciuti. Circo­stanze molto diverse tra loro, ma che hanno visto ri­sponderli tutti in maniera eroica, cosa che è stata ri­conosciuta dalla Chiesa che per questo li ha procla­mati santi.

 

Questo riconoscimento è stato vissuto con grande gioia dall’Ordine. Confidiamo nella loro protezione così come confidiamo in quella di San Giovanni di Dio e del Beato Giovanni Grande, affinché continuino ad illuminarci e ad aiutarci a proseguire fedeli nel cammino della nostra vocazione.

 

3.6. Nuovi orientamenti nella vita dell’Ordine

 

3.6.1. Lo stile di vita: viviamo in comunità di fe­de la nostra consacrazione nell’ospitalità

 

Di stile di vita si incomincia a parlare nel Capito­lo Generale Straordinario del 1979, dove compare nella sezione 3 dedicata alla situazione attuale dell’Ordine come pure in uno dei grandi titoli della programmazione, precisamente il B.

 

Da allora in poi questo tema ha costituito una co­stante nella programmazione dei due Capitoli succes­sivi. Voleva essere questo un modo per integrare tut­to ciò che il rinnovamento della vita religiosa esigeva da noi in relazione alla vita di fede e al nostro vivere comunitario.

 

Ci siamo dati una libertà maggiore, abbiamo vo­luto abbandonare l’uniformità a vantaggio di un’unità costruita su basi più sincere, abbiamo fonda­to il nostro vivere comunitario non solo su presuppo­sti teologici, ma anche sugli apporti che la psicologia poteva offrirci: la crescita umana, il dialogo, la dina­mica di gruppo, le relazioni interpersonali ecc.

 

Abbiamo voluto vivere una vita di fede più in­centrata sul mistero di Cristo, con uno spazio forte dedicato alla preghiera personale, ma radicata al con­tempo fortemente nella dimensione comunitaria co­me espressione che condividiamo una stessa voca­zione di fede.

 

Guidati da semplicità evangelica, con la quale Dio illuminava la nostra vita, abbiamo tentato di in­camminarci su una strada più in sintonia con quello spirito evangelico che il Concilio ci spronava ad as­sumere. Oggi, a 28 anni dal Concilio, dobbiamo chie­derci guardando indietro al processo di rinnovamento che abbiamo compiuto: Siamo soddisfatti del nostro stile di vita e della forma in cui esprimiamo la nostra identità di Fatebenefratelli?

 

 

3.6.2. La Formazione Permanente come stru­mento di rinnovamento

 

San Giovanni di Dio non solo visse in un tempo di grandi cambiamenti, ma mise in moto egli stesso grandi cambiamenti. Oggi la Chiesa e la società si at­tendono un cambio radicale dalla vita religiosa. La nostra missione esige che rispondiamo alla Chiesa e ai poveri di oggi, ai malati e agli emarginati che ci chiedono di avvicinarci a loro come uomini attuali e non con concezioni del passato.

 

I Confratelli che sono entrati nell’Ordine prima o durante il Concilio Vaticano II, erano abituati a pen­sare alla formazione religiosa in termini di formazio­ne iniziale: postulantato e noviziato. Ma lo stesso Concilio ci dice che “il rinnovamento degli istituti dipende in massima parte dalla formazione dei loro membri”, i quali debbono adoperarsi per tutta la vita a perfezionare la propria cultura (PC 18ac).

 

In questa luce la Formazione Permanente diventa uno strumento prezioso e indispensabile del processo di rinnovamento dell’Ordine. E’ nelle Costituzioni del 1971 che questo concetto compare per la prima volta sotto il titolo di Formazione Continua: “La testimo­nianza cristiana dei nostri religiosi nel mondo sarà tanto più efficace quanto più completa è la loro preparazione culturale e apostolica, in armonia col fine dell’Ordine e col progresso dei tempi” (n. 161).

 

Nel Capitolo del 1982, l’Ordine perviene a for­mulare una prima definizione della Formazione Per­manente (Imag. Id. 33), definizione che si presenta ulteriormente affinata nelle Costituzioni del 1984: “La formazione permanente è un ‘esigenza del­la stessa vita e la risposta continua all’azione rinno­vatrice dello Spirito” (n. 72).

 

Il governo generale ha dimostrato un’attenzione speciale a questo tema con la pubblicazione del docu­mento “La Formazione Permanente nell’Ordine” e la sua applicazione attraverso il programma di “for­mazione permanente a livello comunitario” (1991-1994).

 

Il movimento di rinnovamento creatosi nell’Or­dine a partire dal 1979, ha contribuito enormemente a sensibilizzare le coscienze per la necessità della for­mazione permanente.

 

Da allora l’Ordine ha continuato a intensificare i suoi sforzi in questa direzione attraverso diverse ini­ziative quali:

 

  • - corsi, seminari, giornate e incontri sui più diver­si temi e ambiti per l’attualizzazione della mis­sione dell’Ordine;
  • - il programma di formazione a distanza promosso dal SELARE in America Latina per formare
  • “esperti nel campo della Pastorale della Salute” che successivamente è stato adeguato e adottato dalle Province di Spagna;
  • - i corsi di aggiornamento per: Superiori, formato­ri, direttori ecc.;
  • - i programmi di formazione permanente a livello comunitario promossi dalla Curia Generalizia.

 

3.6.3. L’opzione preferenziale per i poveri

 

A partire dal Concilio Vaticano II la Chiesa inco­mincia ad insistere, approfondendola e chiarendola sempre di più, sull’opzione preferenziale per i poveri. Il nostro Ordine, alla luce di questa opzione evangelica ed ecclesiale, esiste per evangelizzare i poveri, accom­pagnarli ed assisterli nelle loro sofferenze secondo lo stile di San Giovanni di Dio: “Incoraggiati dal dono ricevuto, ci consacriamo a Dio e ci dedichiamo al ser­vizio della Chiesa nell’assistenza agli ammalati e ai bisognosi, con preferenza per i più poveri” (C n. 5).

 

Il LXII Capitolo Generale segnala a questo pro­posito che “questa opzione rappresenta un criterio fondamentale che ci permette di valorizzare il si­gnificato della nostra presenza nella Chiesa e nella società, come persone, comunità e Province. Al tem­po stesso, è la chiave di lettura per valutare il nostro cammino di rinnovamento personale e comunitario” (DCG III.A).

 

Gli emarginati di oggi, in qualunque società essi si trovino, costituiscono le “nuove categorie di biso­gnosi”, termine che va riferito non solo al povero e malato, ma a qualsiasi uomo che lotta per recuperare la sua identità di persona. “Povero è ogni uomo che ha perso l’equilibrio psico-fisico e la speranza in una vita più ricca in ogni senso…Anche l’uomo del progresso è povero” (L’Ospitalità verso il 2000, n. 58).

 

L’Ordine Ospedaliero vive inserito nella realtà di un mondo diviso: Nord-Sud, Primo e Terzo Mondo, benessere e povertà. I Confratelli e le opere situate nel Primo Mondo, alla luce dell’opzione per i poveri agiscono in maniera coerente di fronte a questa realtà? Dall’altro canto, le opere situate nel Terzo Mondo ricercano nuove forme per rispondere a questa opzione?

 

Si sono visti alcuni sforzi per adeguare la nostra vita e le nostre strutture al servizio dell’emarginato: day-hospitals, alberghi notturni, assistenza a malati di AIDS e malati terminali, promozione di zone emarginate partendo da centri-base già esistenti… Questi sforzi richiedono tuttavia un’azione più coerente ­nel senso che l’Ordine si deve mettere più marcatamente nell’ottica del povero identificandosi, nel suo stile di vita, chiaramente con questa opzione, affinché, attraverso la sua forma di vita, il suo servizio di annuncio/denuncia, eserciti un’influenza sempre maggiore in questo senso sulla Chiesa e le strutture della società.

 

 

3.6.4. Le strutture sanitario-assistenziali dell’Ordine e la forma di orientare la loro missione

 

Nostro Padre San Giovanni di Dio fondò il suo ospedale a Granada per assistere i poveri che non tro­varono accoglienza in altri ospedali, offrendo loro, nella misura del possibile, un servizio degno ed uma­nizzato. In questo stesso spirito è andata sviluppan­dosi la storia del nostro Ordine.

 

Il Concilio ci ha dato e chiesto, come criterio, di adattarci alle esigenze del tempo, criterio a cui noi abbiamo dedicato grande attenzione nell’esercizio del nostro apostolato. Possiamo dire da sempre, ma maniera particolare nel periodo post-conciliare. Se elencassimo tutte le innovazioni introdotte nei centri, si riempirebbero in un nonnulla le pagine seguenti. Ma non possiamo fare qui un’analisi così particolareggiata. Pertanto ci soffermeremo soltanto sulla documentazione degli ultimi tre Capitoli Generali.

 

Nel ‘79 compare, nella sezione dedicata all’apostol­ato, come obiettivo 1 la necessità di rivedere e adattare le opere assistenziali e di promuovere nuove forme di apostolato. La seconda parte di questo obiettivo è stata ripresa, nella stessa sezione, dal Ca­pitolo del ‘82. Difatti, le Costituzioni che si approva­no in questo Capitolo, contengono un numero, il 47, che definisce le forme di apostolato.

 

La formulazione più esaustiva delle diverse esi­genze che questo tema ci ha posto nel nostro cammino post-conciliare, ha offerto il Capitolo del 1988 con a sezione intitolata Ospitalità, nella quale la presen­za dell’Ordine viene esaminata da una duplice angolazione: da una parte nei settori generalmente coperti dallo stato e dall’altra parte nei settori in cui l’azione sociale e sanitaria dello stesso non si fa sentire in ma­niera sufficiente. In questo modo viene esposto da una parte ciò che l’Ordine ha già realizzato nel rinno­vamento del suo apostolato, dall’altra viene confer­mato il desiderio di continuare su questo cammino di rinnovamento per servire meglio i bisognosi.

 

Per qualunque analisi che il Capitolo vorrà realizzare in ordine al futuro, rimandiamo a questo para­grafo.

 

 

3.6.5. La dimensione etica come atteggiamento di fondo in colui che serve e come princi­pio di rispetto all’uomo che soffre

 

L’ospitalità con tutto ciò che implica, è la forza propulsiva della nostra vocazione. La nostra vita e in particolare la nostra vita post-conciliare è stata tutta un’aspirazione e un agire, affinché fosse così. Questo pensiero affiora anche nella maggioranza dei numeri delle nostre Costituzioni attuali.

 

I Fatebenefratelli e quanti collaborano con essi, sono chiamati ad una vocazione di servizio alla per­sona malata, povera e bisognosa. La nostra aspirazio­ne è di realizzare questo servizio secondo lo stile di San Giovanni di Dio. Sappiamo che tra la sua vita e la nostra vita esiste una sensibile differenza di qua­lità. Ciononostante vogliamo e ci impegniamo, affin­ché nell’esercizio dell’ospitalità siano incarnati i principi che sono espressi, a modo di ideale, nelle no­stre Costituzioni:

 

  • - ci prendiamo cura dei poveri e degli ammalati assistendoli integralmente(n. 45);
  • - realizziamo la nostra missione con atteggiamen­ti e modi umanizzanti(n. 44):
  • - offriamo agli ammalati e a ogni persona biso­gnosa il servizio efficiente che meritano (n. 43);
  • - li assistiamo come prediletti del Regno, difendia­mo i loro diritti e offriamo la vita per loro (n. 3);
  • - la nostra presenza tra loro si distingue per lo ze­lo con cui poniamo in risalto i valori dell’etica cristiana e professionale (n. 51).

 

Illuminati da questa realtà e da altre riflessioni ella Chiesa e dei nostri Superiori, siamo passati all’azione avviando determinate politiche, definendo l’identità dei centri e dell’assistenza da praticare in essi; abbiamo promosso gruppi di riflessione che ci hanno aiutato a sviluppare nella dimensione etica lo stile di servizio che vogliamo che sia applicato nei nostri centri; abbiamo creato comitati di etica con l’obiettivo di illuminare determinate situazioni e di offrire modelli di comportamento per un esercizio di­gnitoso dell’ospitalità.

 

3.6.6. I nuovi bisogni e le risposte dell’Ordine

 

È una precisa esigenza del nostro carisma, e per­tanto della nostra vocazione, che, con l’aiuto delle nostre opere, ci impegniamo a sopperire ai bisogni dei poveri e degli infermi.

 

Il nostro mondo è dinamico; perciò sia negli stati che dispongono di un sistema sanitario organizzato, sia negli stati che non dispongono di un simile si­stema, sono apparse nuove necessità impreviste: tos­sicodipendenza, AIDS, Alzheimer, l’esplosione della popolazione anziana, senzatetto, nuovi poveri… Le stesse malattie di sempre, da come sono vissute oggi, presentano nuove necessità: angoscia, isolamento, condizioni disumanizzanti… Nuove necessità sono emerse anche nell’accompagnamento di chi vive i suoi ultimi momenti: malati terminali, hospices… Nuove necessità sorgono infine continuamente da situazioni puntuali, siano esse causate da eventi cala­mitosi o da guerre e condizioni politiche instabili Mozambico, Liberia, Cuba, Togo, Bosnia-Erzegovina ecc.

 

Di fronte a questo quadro l’Ordine ha preso l’impegno di rispondere. In diversi dei nostri documenti recenti viene auspicata una nuova presenza dell’Ordine nelle nuove situazioni di bisogno. Il nostro Prio­re Generale precedente, Fra Pierluigi Marchesi, ha affrontato in maniera puntuale questo tema nel suo scritto “L’Ospitalità dei Fatebenefratelli verso il 2000” dedicando nell’appendice uno spazio speciale all’analisi di tre nuovi bisogni: la vecchiaia, il malato terminale e i tossicodipendenti.

 

L’impegno di rispondere alle nuove necessità si è tradotto nel frattempo in numerose azioni concrete, sia nel senso che le Province abbiano aperto nuove opere, sia nel senso che abbiano adattato quelle esi­stenti. Pensiamo che i nostri Superiori, dando il via a questa ricerca, abbiano saputo valorizzare la creativi­tà del nostro carisma senza diminuire il valore delle innumerevoli attività apostoliche che da tempo si stanno realizzando nelle nostre opere.

 

 

3.6.7. Il movimento della Pastorale della Salute

 

Il Concilio ci ha aiutato a concepire la nostra vo­cazione più fortemente come un servizio integrale all’infermo e bisognoso. Non che non sia stato sem­pre così, ma non c’è dubbio che da allora nel nostro operare apostolico abbiamo incominciato a contem­plare con una nuova consapevolezza le possibilità di aiuto che alla persona umana derivano dalla salvezza di Gesù Cristo.

 

In questo senso si approvò, prima ad experimen­tum e poi definitivamente, nei Capitoli Generali del 1979 e del 1982, il nuovo testo relativo al voto di ospi­talità.

 

Possiamo affermare con certezza che in questo periodo nell’Ordine ha avuto luogo un risveglio per il tema della Pastorale della Salute che ha contribuito a un risveglio per questo tema nella stessa Chiesa, sia a livello universale che nazionale, regionale e locale.

 

Il Segretariato di Pastorale è stato sin dalla sua fondazione una delle strutture che più successo hanno ­avuto nelle Province. Nella maggior parte dei nostri centri esistono oggi Consigli o Gruppi di Pastora­le che lavorano, con il dovuto rispetto, per l’integra­zione della dimensione religiosa nel processo della malattia. Alcuni nostri Confratelli sono impegnati negli organismi diocesani e nazionali di Pastorale della Salute.

 

Ci sono stati e continuano a susseguirsi riflessioni, corsi e pubblicazioni. Questo ha fatto sì che, oltre coloro che sono impegnati direttamente nel Servi­zio di Pastorale nei centri, tutti noi Confratelli siamo oggi molto più coscienti di questa dimensione del no­stro apostolato ed anche tanti nostri collaboratori che intervengono con entusiasmo nelle azioni che si pro­grammano nei centri.

 

 

3.6.8. Il movimento dell’umanizzazione

 

Sappiamo che l’azione dell’umanizzazione pre­cede quella della pastorale; ma sappiamo anche che ogni azione pastorale comporta già al suo primo li­vello un’azione umanizzante. Ciononostante “l’uma­nizzazione”,intesa come movimento, nasce dopo quello della Pastorale nella vita dell’Ordine.

 

Anche se nessuno può dire che non fossimo co­scienti delle esigenze di umanizzazione che la realiz­zazione del nostro apostolato implicava, bisogna rico­noscere che di umanizzazione come tale, nell’Ordine si è incominciato a parlare a partire dal documento del nostro Priore Generale precedente, Fra Pierluigi Mar­chesi, intitolato appunto “La Umanizzazione”, che esce nel 1981 e proclama lo stesso anno a livello dell’Ordine come Anno d’Umanizzazione.

 

Da allora in poi numerose sono state le riflessioni e le azioni pratiche portate avanti in questa direzione nei centri, che ci hanno reso più consapevoli del valore fondamentale della persona, soprattutto quan­do è malata e bisognosa.

 

Tutto ciò ha determinato che le nostre comunità terapeutiche ed ospedaliere si sono poste come obiet­tivo la necessità di umanizzarsi per umanizzare. Sap­piamo che questo cammino che abbiamo iniziato, sarà interminabile, perché ci sarà sempre ancora un’altra possibilità di migliorare la qualità del servi­zio che offriamo e il modo in cui vengono trattati i malati e rispettati i diritti dei destinatari del nostro ca­risma.

 

Probabilmente non abbiamo raggiunto tutti gli obiettivi che ci eravamo posti; tuttavia possiamo af­fermare che abbiamo iniziato un cammino e che sia­mo soddisfatti dei risultati conseguiti. In futuro do­vremo concentrare i nostri sforzi a superare le omis­sioni e a rimediare alle carenze esistenti.

 

 

3.6.9. L’apertura ai collaboratori

 

Da sempre l’Ordine ha fatto affidamento su col­laboratori nell’esercizio dell’ospitalità. Giovanni di Dio, nelle sue lettere, parla ripetutamente dei suoi collaboratori e dell’aiuto che da essi riceveva.

 

Guardando alla storia, possiamo dire che l’opera San Giovanni di Dio è stata sostenuta in ogni attimo della sua vita da impiegati, benefattori e volontari.

 

­Una profonda apertura ai collaboratori si è avuta però soprattutto negli anni post-conciliari. Questa apertura si spiega da due premesse.

 

La prima è stata il rinnovamento. Spinti da esso, abbiamo adattato le nostre opere alle esigenze del tempo inserendole nella rete del servizio sanitario e sociale dei diversi paesi, introducendo le nuove tec­niche e ampliando il numero dei professionisti necessari per le nuove forme di servizio al malato. Pertanto il rinnovamento delle opere ha comportato l’inseri­mento di un grande numero di collaboratori.

 

La seconda è stata un approfondimento qualitati­vo del rinnovamento, nel senso che sentivamo sem­pre più forte l’esigenza di offrire un servizio ai desti­natari del nostro carisma sempre più in linea con lo spirito di San Giovanni di Dio. Assieme ai nostri col­laboratori intuimmo allora la necessità di instaurare un’alleanza tra quanti, sotto la bandiera di San Gio­vanni di Dio, compivamo una missione comune.

 

Proprio allora la Chiesa ci stava proponendo una dottrina sul laicato. Nell’accoglierla, ci accorgevamo che non era applicabile senza una serie di differenzia­zioni alla nostra realtà… che non quadrava piena­mente con il significato che noi desideravamo dare alla presenza dei nostri collaboratori nella nostra mis­sione, con i quali condividiamo sì ideali umani, ma non sempre quelli della fede.

 

Dalla Curia Generalizia venne promosso allora un movimento che poco a poco prese corpo. Abbiamo posto la nostra attenzione sulla filosofia che volevamo essere presente ed attiva nei nostri centri, una filosofia che fosse accettabile e condivisibile da tutti che ci troviamo impegnati nell’esercizio dell’ospitalità. Abbiamo realizzato una riflessione sull’innegabile dato che Confratelli e collaboratori, sulla base dei loro numerosi valori comuni, sono uniti in una missione, perché, anche se in maniera diversa, tutti partecipiamo al carisma di San Giovanni di Dio.

 

Ci possiamo dire soddisfatti del cammino realiz­zato, anche se abbiamo ancora davanti a noi un gran­de pezzo di strada da fare. La nostra speranza deve essere quella di arrivare a formare una famiglia che avvolta nello spirito di Giovanni di Dio, viva la sua vocazione comune di servizio agli infermi.

4. IL SIGNIFICATO DELLA NUOVA EVANGELIZZAZIONE

 

Fondamentalmente la “‘nuova evangelizzazione” ha inizio con il Concilio Vaticano II, anche se il concetto e il termine sono entrati soltanto di recente nel lessico comune della Chiesa. Il Concilio Vaticano II, diceva nel 1985 Papa Giovanni Paolo II, ha rappresentato“il fondamento e l’avvio di una gigantesca era di evangelizzazione del mondo moderno”. Storic­amente parlando si potrebbe dire che tutto ebbe inizio con la “svolta giovannea”. Con l’annuncio del Concilio Vaticano II per voce di Papa Giovanni XXIII Chiesa esce dal secondo millennio e si incammina verso il terzo millennio consapevole delle enormi sfide che la attendono nel mondo moderno dominato fila secolarizzazione e dalla civiltà della tecnica.

 

Che cosa è e che cosa non è la“nuova evangeliz­zazione”? La nuova evangelizzazione è innanzitutto in movimento che riguarda la Chiesa stessa, la sua più intima identità. Essa è in primo luogo l’afferma­zione del primato dell’evangelizzazione su tutti gli altri compiti della Chiesa. Non è un “nuovo Vange­lo”, oppure, come qualcuno ha voluto intenderla, un aggiustamento, un adattamento del Vangelo all’era moderna. La novità non intacca il contenuto del mes­saggio evangelico che è immutabile, ma riguarda il linguaggio, i gesti, i metodi di apostolato. Parlare di nuova evangelizzazione non significa che quella pre­cedente sia stata nulla, infruttuosa o non duratura. Si­gnifica che oggi ci sono sfide nuove, nuove richieste che si presentano ai cristiani e alle quali è urgente ri­spondere (cfr. Santo Domingo, IV Conferenza Generale, II Parte, Capitolo I, n. 24).

 

 

4.1. L’uomo moderno e il messaggio cristiano

 

Prim’ancora di addentrarci nella tensione problematica che si è venuta a creare tra uomo moderno messaggio cristiano, ci sembra opportuno sottolineare alcune verità fondamentali che riguardano il rapporto tra uomo e religione in generale.

 

Prima verità: Sant’Agostino con una espressione molto semplice, ma molto efficace dice che l’uomo è “docibilis Deo “,capace cioè di accogliere Dio. Que­sta capacità è comune a tutti gli uomini e sempre presente. Come spiegarsi allora l’atrofia di questa capa­cità nell’uomo moderno e l’ateismo così diffuso nel nostro tempo? Risponde Karl Barth: “L’uomo della città secolare non è ateo, come egli stesso crede forse di essere; in realtà è idolatra”. Questo significa che l’uomo moderno ha, in fondo, molta nostalgia di Dio, perché, per dirlo con K. Rahner, come l’uomo di ogni tempo anche l’uomo moderno è “inguaribilmen­te religioso” (K. Rahner).

 

Seconda verità: Se Dio è scomparso dall’oriz­zonte dell’uomo moderno, ciò non è accaduto perché sia morto o mai esistito, ma perché fra noi e lui si è interposto il nostro Ego ormai onnipotente. Martin Buber ha coniato a questo proposito l’espressione eloquente della “eclissi di Dio “. E’ questo smisurato egocentrismo ad impedire all’uomo moderno di fare autenticamente, personalmente, l’esperienza di Dio. Ma al di là di questo errore di visione, che ricopre e nasconde Dio rendendocelo incomunicabile, Dio continua a splendere perfettamente intatto.

 

Una terza verità che secondo noi va tenuta in considerazione, è che la modernità è indivisibile, vale a dire che investe oramai, pur se con intensità e sfumature diverse, il globo intero. Dunque la proble­matica non riguarda solo l’uomo del mondo sviluppato, come spesso si è tentati di credere, ma l’uomo di ogni angolo del mondo in quanto uomo della civiltà della tecnica.

 

In tutto questo si avverte una grande sete di spiritualità, di trascendenza (vedi il proliferare delle sette). ­Nonostante che all’uomo di oggi sembri inte­ressare soltanto più quello che è fattibile e non ciò che è vero, c’è in lui una forte insoddisfazione esistenziale che si esprime in particolare in una continua e sempre più diffusa ricerca di stordimento (droga, divertimento, attivismo frenetico ecc.). Dietro questo si cela una forte tensione religiosa latente, alla quale tutti i cristiani, ma in particolare coloro che hanno consacrato la loro vita all’evangelizzazione, sono chiamati a proporre un modello di vita nella fede si­gnificativo ed attraente.

 

Assunte queste premesse, possiamo chiederci allora con Giovanni Paolo II nell’ottica della nuova evangelizzazione: “Come rendere accessibile, pene­trante, valida e profonda la risposta all’uomo di oggi, senza per nulla alterare o modificare il contenuto del messaggio evangelico? Come arrivare al cuore della cultura che vogliamo evangelizzare? Come parlare di Dio in un mondo nel quale è presente un crescente processo di secolarizzazione?” (Santo Domingo, IV Conferenza Generale, Discorso Inaugurale, n. 10).

 

Una prima risposta a questa domanda la troviamo in Redemptoris Missio al n. 42: “L’uomo contemporaneo crede più ai testimoni che ai maestri, più all’e­sperienza che alla dottrina, più alla vita e ai fatti che alle teorie”. Poco più avanti leggiamo: “La testimo­nianza evangelica, a cui il mondo è più sensibile, è quella dell’attenzione per le persone e della carità verso i poveri e i piccoli, verso chi soffre”. Questo è il campo di azione del Fatebenefratello nella nuova evangelizzazione: essere testimone dell’attenzione cristiana per la persona nella sua globalità, che noi abbiamo chiamato umanizzazione, essere testimone della solidarietà per i poveri, i malati e gli emargina­ti, essere fratello di chi soffre.

 

 

4.2. L’evangelizzazione della cultura e le culture dell’uomo

 

La domanda di fondo alla quale bisogna dare una risposta a questo riguardo è: quale rapporto esiste tra la fede e la moltitudine delle culture esistenti nel mondo e come è possibile in questa moltitudine una vera universalità? Questa domanda diventa ancora più pressante di fronte al fatto che l’aspirazione uni­versalistica della fede si deve misurare oggi, come abbiamo già detto, con un’altra universalità: quella della cultura della tecnica che grazie alla potenza del­le sue capacità e dei suoi successi si è imposta dap­pertutto, ma che nel contempo ha provocato quella divisione in nord e sud, in poveri e ricchi, che rappre­senta la vera emergenza del nostro tempo. Da qui sempre più forte il grido che chiede un’inculturazio­ne della fede non solo nelle diverse culture del mon­do, ma soprattutto nella cultura della tecnica.

 

In tutte le grandi culture storiche la religione rap­presenta un elemento essenziale, è anzi il suo centro. La dicotomia o addirittura la contrapposizione tra re­gione e fede è una concezione recente nata nell’Eu­ropa dell’era moderna. “La rottura tra Vangelo e cul­tura è senza dubbio il dramma della nostra epoca”,diceva Paolo VI nell’EN.

 

Il concetto dell’inculturazione propagato dal ma­gistero di Giovanni Paolo II parte dall’assunto che in cultura è attiva una disposizione di apertura ver­so le altre culture e che pertanto ogni cultura è poten­zialmente universale. L’elemento di mediazione, il punto d’incontro tra due culture è la verità comune sull’uomo che è intimamente e necessariamente lega­ta alla verità su Dio. Per questo motivo il messaggio di Gesù, i valori cristiani possono, anzi devono ispi­rare le diverse culture nel mondo dando vita così ad una cultura cristiana che rinnovi, ampli e unifichi i valori storici passati e presenti. Da qui anche la nuo­va concezione del “popolo di Dio” come “popolo dei popoli”.

 

Ma mentre l’inculturazione della fede in altre culture antiche e ricche di originalità sembra dipen­dere dalla mediazione poc’anzi citata, tra fede e cultu­ra della tecnica non sembra possibile un vero dialogo ed autentico incontro.

 

Parliamo volutamente di cultura della tecnica e non di tecnica come strumento di sviluppo e progres­so, intendendo con ciò quella visione relativistica e razionalistica che sta manovrando l’umanità verso un vuoto di senso che rischia di soffocarla. Anche se è innegabile che la cultura della modernità presenta un buon numero di valori positivi, molti dei quali sono frutti dell’evangelizzazione, come la libertà, l’ugua­glianza, la solidarietà sociale e la giustizia per citare solo quelli più importanti, essa ha eliminato valori re­ligiosi fondamentali e introdotto concezioni inganne­voli in netto contrasto con i valori cristiani (cfr. San­to Domingo, IV Conferenza Generale, Discorso Inaugurale, n. 20).

 

Anche qui il Fatebenefratello può fare molto con la sua testimonianza “culturale”. Innanzitutto esso opera in molte culture essendo l’ordine presente in 48 paesi diversi su tutti e cinque i continenti, e può quindi, oltre a promuovere e valorizzare il dialogo delle culture al suo interno nella persona dei confratelli, contribuire ad una vera cultura della solidarietà tra i popoli nella persona dei suoi collaboratori, amici e benefattori. In più è presente in un campo della società mondiale, la salute, in cui i rischi della civiltà della tecnica diventano sempre più visibili. Deve impegnarsi per un giusto utilizzo delle conquiste della tecnica, ma evitare che la fattibilità prenda il soprav­vento sulla verità in momenti così centrali della vita dell’uomo come lo sono la nascita, la morte e la ma­lattia.

 

 

4.3. Unione intrinseca tra evangelizzazione e promozione umana

 

Dato che l’uomo – non l’uomo astratto, ma l’uomo concreto – “è la prima strada che la Chiesa deve percorrere nel compito della sua missione”(Re­demptor hominis, n. 14), la promozione umana è una conseguenza intrinseca dell’evangelizzazione (cfr. Santo Domingo, IV Conferenza Generale, Discorso Inaugurale, n. 13).

 

L’uomo concreto dunque, l’uomo con i suoi biso­gni, le sue aspirazioni, l’uomo nella sua fisicità, nella sua realtà sociale è la strada dell’evangelizzazione. In altre parole: il messaggio del Vangelo verrebbe muti­lato, addirittura svuotato, se fosse privato delle con­seguenze etico-sociali che ne derivano. La vera evan­gelizzazione deve perciò essere accompagnata sem­pre dalla testimonianza vissuta, dall’impegno concre­to per l’uomo.

 

Inutile dire che il Fatebenefratello a questo ri­guardo si trova in una posizione privilegiata, dato che la promozione dell’uomo, sotto tutti gli aspetti, è la sua missione, sia essa la guarigione dell’uomo colpi­to da malattia, l’accoglienza affettuosa di quanti sof­frono di un’infermità cronica, l’attenzione speciale rivolta ai più deboli e ai più poveri o l’accompagnamento di chi sta vivendo i suoi ultimi momenti. La domanda a cui il Fatebenefratello, al riguardo, dovrà dare una risposta in futuro è, come trasformare i suoi gesti di guarigione sempre più in autentici gesti di evangelizzazione, come trasformare i luoghi in cui opera, sempre più in luoghi significativi di evangeliz­zazione. Qui torna di nuovo prepotentemente alla ri­balta il tema dell’umanizzazione. Umanizzazione e evangelizzazione debbono formare per il Fatebene­fratello un’unità indivisibile, perché “dove non c’è carità, non c’è Dio, anche se Dio è in ogni luogo” (SGD, Lettera a Luigi Battista, n. 15).

 

Un grande rischio che nell’impegno per la pro­mozione dell’uomo può insinuarsi nel Fatebenefratello e che questi deve evitare è di percepirsi solo o prevalentemente nella dimensione dell’utilità sociale, dell’efficienza, trascurando la dimensione del suo es­sere testimone della carità di Dio che è la sua vera e più profonda chiamata.

 

Un’altra sfida con cui il Fatebenefratello si trova confrontato nella sua azione di promozione umana nel campo della salute, è di promuovere e di intensificare il dialogo tra scienze e fede. Qui egli è chiamato a di­mostrare che la scienza e la tecnica contribuiscono al­la civilizzazione e all’umanizzazione del mondo nella misura in cui sono permeate dal sapere di Dio (cfr. Santo Domingo, Discorso Inaugurale, n. 21).

 

 

4.4. Il contatto personale – elemento indispen­sabile per l’evangelizzazione

 

Un tratto che sta caratterizzando sempre più forte­mente l’uomo moderno, è senza dubbio la sua povertà relazionale. Sebbene la nostra era sia dominata com­pletamente dalla comunicazione, è anche, come l’ha definita qualcuno, l’era della incomunicabilità. Uno dei fattori principali a cui va addebitato questo fatto è, secondo noi che, senza la mediazione di Dio, le rela­zioni umane sono diventate fonte di angoscia perché dominate quasi esclusivamente dall’interesse, dallo sfruttamento, dall’ambiguità e soprattutto dalla com­petitività. Ed è proprio qui che l’uomo moderno, die­tro la sua parvenza di presunzione e autosufficienza, mostra tutta la sua fragilità. Ed è anche da qui che, se­condo noi, può e deve iniziare il suo recupero verso Dio. Abbiamo già detto del grande bisogno di spiritualità che non solo da ieri si respira dopo la cadu­ta della fede nel progresso illimitato e nelle ideologie. Questo recupero deve avvenire però con tatto, delica­tezza e grande comprensione, perché l’uomo di oggi è come se uscisse da un tunnel ed ha bisogno dunque di essere ricondotto gradualmente verso la luce.

 

Il Fatebenefratello deve convincersi che l’uomo che ha di fronte, nonostante tutte le parvenze, nel suo profondo è molto sensibile alla sua testimonianza e spesso non aspetta altro che essere invitato a entrare nello spazio della comunione umana che è lo spazio di Dio. In altre parole, il Fatebenefratello deve contrap­porre la sua interiore cultura dell’ospitalità alla cultu­ra dell’ostilità che non domina solo sempre più forte­mente i rapporti tra i popoli, le nazioni e le etnie, ma anche le relazioni interpersonali. In più i Fatebenefra­telli qui devono dimostrare una nuova capacità di ag­gregazione, cioè devono saper dare vita a comunità di fede aperte che siano di invito per tutte le persone con cui vengono a contatto: malati, familiari, collaborato­ri, amici ecc. Ogni centro dovrebbe essere una piccola chiesa domestica capace di creare quella comunione cristiana, in cui la gioia dell’uno è la gioia dell’altro e il dolore dell’uno è il dolore dell’altro.

 

Oggi più che mai il Fatebenefratello è chiamato ad essere testimone, nelle relazioni umane, di Dio “amante della vita” (Sap 11, 26) che si mescola fra la sua gente e con la sua presenza rende ospitale la terra e l’uomo veramente uomo.

5. ENTRIAMO NEL 2000 CON UN NUOVO SENSO DI OSPITALITÀ

 

Con l’anno 2000 entriamo nel terzo millennio. Per questo motivo, nel lanciare nuovi progetti, si è fatto spesso riferimento a questa data, non tanto per­ché con essa si chiude un secolo, ma perché apre un nuovo millennio nella storia dell’umanità.

 

Iniziative politiche, culturali e sociali si sono ri­chiamate a questa data; il magistero della Chiesa ed anche noi stessi con la già citata riflessione: “L’Ospi­talità dei Fatebenefratelli verso il 2000”. Sebbene il tempo si succeda in un inesorabile ritmo continuo, tutto il mondo pensa ormai al 2000 come ad un mo­mento che aprirà all’umanità una realtà diversa.

 

Il Capitolo 1994 parte dalla stessa prospettiva: fa­cendo un bilancio su che cosa abbiano significato per l’Ordine questi ultimi 30 anni dalla fine del Concilio, desideriamo entrare nel 2000 con uno slancio nuovo, con una nuova visione dell’ospitalità. Ce lo proponia­mo con realismo, vale a dire, assumendo con i suoi er­rori e i suoi meriti, tutti gli sforzi che sono stati com­piuti nella storia recente dell’Ordine per dare nuove risposte alle esigenze della nostra società, ma dando nel contempo, alla luce della nuova evangelizzazione, un nuovo senso all’essere e all’esercizio della ospitalità.

 

 

5.1. La società in cui viviamo

 

La società alla fine del XX secolo si presenta di­namica e in continua trasformazione. Negli ultimi cinquant’anni si sono prodotti, sia quantitativamente che qualitativamente, i maggiori cambiamenti che la storia ricordi.

 

Questi cambiamenti così rapidi e profondi hanno trasformato la nostra esistenza personale e sociale ed anche il nostro ambiente. Le caratteristiche principali di questo cambiamento sono state: la produzione in serie, una crescita enorme nel campo delle comunica­zioni, l’omogeneizzazione (dei procedimenti, salari, del habitat ecc.), il gigantismo (stabilimenti industria­li, ospedali ecc.) e la concentrazione del potere.

 

Gli individui e le società hanno tratto beneficio di questi cambiamenti, p.e. per quanto riguarda le con­dizioni e la durata media di vita. Il progresso tecnolo­gico punta oggi ad uno stile più ragionato per quanto riguarda l’utilizzo delle risorse: sorge l’industria“ecologica”, cresce l’elettronica, l’informatica, la biotecnologia, che determineranno le forme di produ­zione e le condizioni di vita nell’immediato futuro. Questi progressi rappresentano una sfida per la nostra ospitalità, giacché molti di loro esigono da noi di ag­giornare, di approfondire sul piano etico-religioso e di adeguare costantemente la nostra missione.

 

Come abbiamo detto nel capitolo IV, una delle con­seguenze dei cambiamenti del XX secolo è stata la di­sintegrazione dell’uomo e il suo impoverimento interiore; allo stesso tempo si registra attualmente un forte desiderio di trascendenza. Lo spettacolare pro­gresso tecnologico richiede un progresso identico a li­vello spirituale ed etico. Su questa esigenza ha insistito anche Giovanni Paolo II nell’enciclica “Sollicitudo rei socialis”, dove nel terzo capitolo propone una panora­mica molto esaustiva del mondo contemporaneo.

 

Dall’altra parte assistiamo all’inesorabile dissol­versi dei valori tradizionali. Il consumismo è diventa­to un fenomeno universale; la società dell’immagine attrae e modella i comportamenti; la molteplicità del­le opinioni ha ridimensionato il valore dell’individuo e della sua libertà. I nuovi valori ed antivalori incido­no, volenti o nolenti, sul nostro stile di vita e di mis­sione che dovrà pertanto essere ripensato e rivalutato alla luce del Vangelo e del carisma per essere fermen­to e luce nel mondo in cui viviamo.

 

Questi ed altri fatti esigono dall’Ordine di saper leggere e discernere i nuovi segni del tempo.

 

5.2. Il significato della nuova ospitalità

 

Come abbiamo già detto, il magistero, quando parla di nuova evangelizzazione, non si riferisce al contenuto che è lo stesso dalla fondazione della Chie­sa: la salvezza di Gesù Cristo, ma a nuovi metodi di presentazione che corrispondano alle nuove situa­zioni che l’uomo sta vivendo.

Nella stessa linea noi, alla luce delle seguenti riflessioni, parliamo di nuova ospitalità:

 

  • - L’aspirazione dell’Ordine è di incarnare lo stile di San Giovanni di Dio nell’esercizio dell’ospi­talità. Se fossimo come lui, saremmo caratteriz­zati come agenti dell’ospitalità dal suo stesso es­sere, dalla sua stessa forza d’azione e non avremmo bisogno di parlare di nuova ospitalità.
  • - L’Ordine desidera rispondere alle nuove esigenze con l’impronta di San Giovanni di Dio, per cui è chiamato a vivere l’ospitalità in forma rinnovata.

 

Ponendoci dinnanzi in questo Capitolo la possibi­lità di una nuova ospitalità non significa altro che far­ci, tutto l’Ordine, confratelli e collaboratori, una chiamata a rinnovare il nostro essere agenti dell’ospi­talità per rispondere ai bisogni dell’uomo che soffre.

 

Consideriamo valido l’invito che ci ha rivolto il Concilio, a tornare alle fonti, sia a quelle del Vangelo che a quelle del nostro Fondatore. Da ambedue, la nostra ospitalità potrà attingere una dimensione nuo­va. Consideriamo altrettanto valida la necessità di leggere i segni del tempo in chiave di ospitalità. Sol­tanto così riusciremo ad adeguare le nostre risposte alle aspettative che l’uomo di oggi pone in noi Fate­benefratelli.

 

 

5.3. Esigenze della nuova evangelizzazione che dobbiamo fare nostre

 

Dopo aver chiarito l’intima relazione tra nuova evangelizzazione e nuova ospitalità, vogliamo ora esaminare più da vicino le esigenze concrete che la nuova evangelizzazione ci pone di fronte. Sullo sfon­do di quanto detto nel capitolo IV di questo docu­mento, ci permettiamo di richiamare l’attenzione in particolare sui seguenti punti:

 

- identità: come consacrati nell’ospitalità dob­biamo manifestare una rinnovata convinzione e determinazione nel farci riconoscere senza falsi timori come cristiani e religiosi, coscienti che il messaggio evangelico per sua stessa natura pre­me per essere trasmesso agli altri; il Papa a que­sto proposito parla di un nuovo ardore dell’evangelizzatore, al quale nulla può fare ta­cere;

 

- consapevolezza: dobbiamo fare nostra la consa­pevolezza che l’uomo che abbiamo di fronte, no­nostante si proclami indifferente o addirittura areligioso, conserva nel suo profondo una gran­de sensibilità per l’oltre, per Dio; è a quest’uomo che dobbiamo imparare a parlare con un nuovo linguaggio senza generalizzazioni o semplifica­zioni indebite;

 

  • - testimonianza: il messaggio cristiano, pur ser­vendosi come veicolo della parola, ha bisogno, per essere credibile, di essere incarnato da perso­ne che vivono nel e del Vangelo; il nostro cari­sma dell’ospitalità ci apre, come testimoni di Cristo, uno spazio privilegiato;
  • - profetismo: tra i tanti carismi che Dio dà per il bene del suo popolo, la vita religiosa, motivata dai valori futuri che essa tenta di annunciare con la sua testimonianza attuale, partecipa, in modo particolare, alla dimensione profetica della Chie­sa; come Gesù “il profeta potente in opere e in parole” (Lc 24, 19), anche noi siamo chiamati ad identificarci pienamente con il nostro tempo, il nostro ambiente sociale, ma ad essere, al tempo stesso, “altri” per il linguaggio, il comporta­mento, gli atteggiamenti;
  • - inculturazione e universalità: dobbiamo fare nostre le conoscenze dell’antropologia e dell’et­nologia per andare incontro con rispetto sempre maggiore alle culture in cui vogliamo fare pre­sente la misericordia di Dio attraverso il nostro carisma; in questo deve ispirarci un autentico spirito universalistico che abbracci l’intera fami­glia ospedaliera -religiosi, collaboratori e ami­ci – e che promuova una cultura del dialogo e della solidarietà tra i popoli;
  • - umanizzazione e tecnica: pur apprezzando l’immenso valore delle conquiste tecniche, dob­biamo vigilare sul loro giusto utilizzo ed indica­re i loro limiti promuovendo un’applicazione umanizzata per un buon esercizio dell’ospitalità;
  • - promozione umana: dobbiamo fare sì che il no­stro impegno a favore dell’uomo malato, povero ed emarginato e della sua crescita assuma sem­pre più manifestamente il valore della salute/sal­vezza di Cristo ed evitare di percepirci come centri socio-sanitari solo o prevalentemente nel­la dimensione dell’utilità sociale;
  • - contatto personale: l’uomo di oggi soffre in mi­sura crescente di una spaventosa solitudine, di un angoscioso svuotamento interiore, di un ano­nimato dilagante; per questo dobbiamo, oltre a fargli sentire la nostra comprensione e vicinanza, offrirgli autentiche relazioni di aiuto sia sul pia­no umano che su quello spirituale e pastorale.

Le nuove risposte che siamo chiamati a dare nel­la linea della nuova evangelizzazione, ci stanno chie­dendo di “rifondare”l’Ordine agli albori del terzo millennio, rimanendo docili ed aperti all’azione dello Spirito che ci sta costantemente presentando nuovi cammini. Si tratta di stare attenti alla sua voce che si esprime nella chiamata dei nuovi bisognosi.

 

 

5.4. La nuova ospitalità: esigenze nella nostra vi­ta di fede

 

Ci sentiamo privilegiati da Dio perché si è mani­festato in maniera speciale nella nostra vita chiaman­doci a vivere la nostra storia personale radicati nella fede. Una fede che si manifesta ogni giorno della no­stra vita attraverso le opere. Una fede da cui deve scaturire come risposta l’impegno per ciò che abbia­mo chiamato la nuova ospitalità.

 

Sappiamo che Giovanni di Dio dedicava grande spazio nella sua vita alla preghiera in tutte le sue for­me di espressione: eucaristia, penitenza, rosario, altre orazioni verbali, meditazione della passione di Cri­sto, dialogo con il Signore per chiedergli aiuto ecc. Dall’altra parte lo vediamo dotato di un ardore evan­gelico, trasformato nel suo essere, armonioso e sere­no, come frutto della preghiera. Con un senso di ospi­talità che scaturisce dalla sua identificazione con il progetto evangelico. Valorizziamo la sua fiducia in Dio; come scorge dappertutto la Provvidenza. Valo­rizziamo la sua capacità di intuire la presenza di Dio in ogni luogo, soprattutto dove si realizza l’amore. Valorizziamo la sua totale disponibilità a fare qualun­que cosa che gli si chiede per amore di Dio. Ciò ci di­mostra come Giovanni di Dio, dall’esperienza della fede nell’amore di Dio, fosse capace di presentare una nuova ospitalità, diversa da quella che si stava esercitando all’epoca.

 

Radicati in Giovanni di Dio, noi ci sentiamo chiamati a vivere l’ospitalità con uno spirito nuovo. Per i nostri limiti non sempre siamo stati capaci di tenere fede a questo obiettivo e siamo coscienti che la preghiera ci aiuterà a conseguirlo, una preghiera in­carnata nella vita, che ci darà la capacità di stare ac­canto ai malati e ai bisognosi in sintonia con Dio co­me Giovanni di Dio.

 

 

5.4.1. Coltiviamo la nostra vita di fede in comu­nità

 

La fede è un dono, ma un dono che richiede di es­sere accolto, sostenuto, coltivato. In questo processo conta molto l’atteggiamento della persona di fronte a Dio, ma contano anche fattori esterni quali: la forma­zione teologica e spirituale, le espressioni liturgiche, il nostro stesso essere chiamati a vivere in comunità. Pertanto la nostra fede esige:

 

  • - che purifichiamo costantemente la nostra attitu­dine di uomini di preghiera, di persone che ac­cettano Dio come fondamento assoluto della propria esistenza;
  • - che potenziamo la nostra formazione teologico-spirituale in tutti i campi e che la aggiorniamo attraverso la formazione permanente per soste­nere e coltivare la nostra dimensione di fede;
  • - che abbiamo cura delle nostre espressioni litur­giche, affinché siano momenti forti di incontro della Comunità con Cristo reso presente attra­verso i segni che celebriamo;

 

- che aderiamo al principio evangelico della ricon­ciliazione fraterna come realtà imprescindibile per partecipare alle celebrazioni comunitarie per favorire la fraternità nella comunità e la forma di vivere apostolicamente la nuova ospitalità;

 

- che non ci assentiamo né scusiamo con leggerez­za l’assenza dalle espressioni comunitarie di pre­ghiera per fomentare la unione tra i Confratelli e dei Confratelli con Dio.

 

 

5.4.2. Preghiera personale e esperienza di Dio

 

Siamo convocati nella Chiesa per vivere in comu­nità. Alla base di tutto ciò sta però una scelta perso­nale. E’Dio che ti invita. Eri tu, sono io che rispondo a un progetto che realizziamo insieme. Da qui l’impor­tanza di dedicare spazio alla preghiera personale, all’incontro con Dio, all’esperienza di Dio. Siamo convinti che gran parte della forza della ospitalità di San Giovanni di Dio scaturiva dai suoi incontri perso­nali con Cristo nella preghiera. Pertanto:

 

  • - una buona risposta alla chiamata che abbiamo ri­cevuto da Dio esige fomentare l’incontro perso­nale con Lui attraverso la preghiera;
  • - quello che vogliamo non è tanto che ciascuno compia diligentemente l’ora di preghiera perso­nale, di cui ci parlano le nostre Costituzioni, ma che ciascuno, fomentandola, ricerchi l’incontro personale con Dio;
  • - il clima vivo di un’osmosi di comunicazione personale nella preghiera con il Signore è neces­sario come presupposto per realizzare la pre­ghiera comunitaria;
  • - soltanto da una disposizione personale può scaturire la possibilità di camminare nella presenza di Dio e di fare una lettura degli avvenimenti della vita ‘iella luce della fede.

 

 

5.4.3. La sofferenza della persona – cammino per l’incontro con Dio

 

Nell’introduzione della “Salvifici doloris” al n. 3, Giovanni Paolo II riprende un pensiero della sua enciclica “Redemptor hominis”affermando: “In Cri­sto ogni uomo diventa la via della Chiesa”.Appli­cando questo pensiero al tema della sua riflessione, dichiara subito dopo: “Si può dire che l’uomo diven­ta in modo speciale la via della Chiesa, quando nel­la sua vita entra la sofferenza”.

 

Non vogliamo addentrarci qui nel tema della pre­senza del male, della malattia e della morte nel mon­do. La lasciamo nell’ambito del mistero. La accettia­mo come una realtà inerente alla nostra condizione di esseri limitati. Giovanni Paolo II presenta la soffe­renza come una realtà catechetica per gli uomini (SD 12), tanto per quelli che la patiscono quanto per quel­li che stanno a fianco dei sofferenti, che serve a com­prendere il vero senso dell’esistenza (SD 29).

 

La sofferenza di una persona porta sempre alla domanda sul suo perché. A seconda come la persona vive la sofferenza, questa può portare all’agnostici­smo, producendo molteplici frustrazioni e conflitti nei rapporti dell’uomo con Dio, ivi inclusa la negazione stessa di Dio (SD 9), oppure come sostiene la tesi dell’enciclica, all’incontro con Dio (SD 27).

 

Noi Fatebenefratelli, chiamati all’esercizio dell’ospitalità, chiamati all’incontro con il povero, bisognoso e malato, con la persona che soffre, dob­biamo tener conto di ambedue queste realtà, affinché a partire da una presenza opportuna possiamo portare luce nelle diverse situazioni ed aiutare. nella misura del possibile, le persone ad incontrarsi con Dio.

 

Come dice l’enciclica, assumendo in tutta profondità la sofferenza nella vita, la realtà della sof­ferenza, più che una risposta astratta, è soprattutto una chiamata, una vocazione (SD 26). La quale, ag­giungiamo noi, non dà la possibilità di scegliere tra essere malati o non essere malati, ma sì quella di op­tare per questo o quell’altro modo di assumerla, di stare nel mondo in questa condizione.

 

 

5.4.4. Come Giovanni di Dio, con Dio e con l’uomo

 

Essere un Fatebenefratello è una sfida. È il pro­getto di configurarci il più possibile con Giovanni di Dio. Di identificarci con la sua forma di vivere e di servire gli infermi. Ciascuno sulla base della sua per­sonalità. Non possiamo eliminare i codici che ci defi­niscono, ma possiamo avvicinarci, nella misura del possibile, al profilo ideale del religioso di San Gio­vanni di Dio cercando di identificarci il più possibile con il profilo di Cristo manifestazione della mi­sericordia del Padre.

 

Come fece nostro Padre San Giovanni di Dio: “Egli, sotto l’impulso dello Spirito Santo e tra­sformato interiormente dall’amore misericordioso del Padre, visse in perfetta unità l’amore a Dio e al prossimo” (C n. 1).

 

Il progetto di Dio implica sempre che Dio stesso entri nell’essere dell’uomo. Come il progetto del ve­ro uomo implica sempre l’essere aperti a Dio, il la­sciargli uno spazio nel proprio essere. Per Giovanni di Dio ciò era chiarissimo. Da qui la sua preoccupa­zione di trasmettere questo senso di Dio e dell’uomo ai suoi seguaci nel rispetto dei loro sentimenti, ma nella consapevolezza che in Dio avrebbero incontra­to i poveri e i malati, l’autentico senso della loro vita.

 

Gli obiettivi della nuova ospitalità e le esigenze di conversione e rinnovamento della dottrina conci­liare ci chiedono di vivere in profondità la nostra fe­de, di viverla nella dimensione della testimonianza, di viverla senza divisioni per Dio e per l’uomo. Di vi­verla radicati in Dio cercando di stare vicini all’uo­mo, soprattutto quando si trova in difficoltà.

 

 

5.5. La nuova ospitalità: esigenze nel nostro vive­re comunitario

 

Vogliamo rispondere alle esigenze della nuova evangelizzazione con la nuova ospitalità. Questo im­plica che creiamo una nuova forma di vivere ed esse­re comunità. Con ciò non vogliamo ignorare la nostra realtà, come stanno le cose nelle Province e quali so­no le nostre Comunità. Anzi, è proprio a loro che so­no indirizzate le seguenti proposte.

 

La nuova ospitalità esige che le nostre comunità vivano veramente la fraternità, che siano aperte ai collaboratori e agli infermi, che si preoccupino della propria crescita attraverso la preghiera e la formazione, che siano garanti del carisma e anima delle nostre opere, che si trasformino realmente in scuole di ospitalità.

 

5.5.1. Comunità di vita

 

Le nostre Costituzioni, all’inizio del capitolo de­dicato alla comunità, affermano che noi, seguendo l’esempio della Chiesa primitiva, nella quale la mol­titudine dei credenti aveva un cuore e un’anima sola e metteva in comune tutto ciò che possedeva, dimo­striamo al mondo che la convivenza umana è possibi­le (C. n. 26b).

 

Può darsi che questa sia una presentazione troppo spiritualista; sappiamo che anche nella Chiesa primi­tiva esistevano difficoltà, ma ciò che vogliamo sotto­lineare con questo riferimento è che siamo chiamati a formare comunità di vita. La teologia della vita reli­giosa ha insistito molto su questo aspetto. Siamo co­munità in missione, ma non ci possiamo perdere nel fare.

 

La nuova ospitalità esige che le nostre comunità siano comunità di vita che testimonino la comunione in un mondo diviso, che vivano la fraternità come ve­ri fratelli e diffondano l’idea dell’amore fraterno ne­gli ambienti in cui sono inserite.

 

Per formare autentiche comunità di vita ritenia­mo necessario:

 

- che ciascun Confratello si impegni in un proces­so di crescita personale, basato sui doni che ha ricevuto da Dio, cercando di superare i propri li­miti e agendo sempre nella prospettiva del bene comune;

 

- che ciascun Confratello sia consapevole che for­miamo una comunità e che pertanto tutti siamo responsabili della sua costruzione, della sua cre­scita, di dedicarle tempo, della necessità di par­tecipare alle sue manifestazioni;

 

- che ciascun Confratello dedichi determinati mo­menti allo studio e all’approfondimento delle esigenze umane, teologiche, spirituali e profes­sionali della nostra vocazione per poter rispon­dere efficacemente alle esigenze del nostro apo­stolato;

 

- promuovere come stile di vita l’apertura, il dia­logo, la capacità di ascolto, il rispetto per gli al­tri, la collaborazione, l’attitudine al servizio, la semplicità, la modestia;

 

  • - creare coscienza di appartenenza alla comunità, stabilire legami tra i Confratelli sulla base di una vera amicizia appoggiandosi e sostenendosi vi­cendevolmente in qualunque situazione, aperti alla riconciliazione quando necessario e uniti profondamente nella missione comune;
  • - fomentare lo spirito di fede; siamo comunità uma­ne e tutto quanto esista di veramente umano ci ar­ricchisce, ma allo stesso tempo siamo coscienti che Dio sta in mezzo a noi, per cui dedichiamo spazi forti alla preghiera e camminiamo nella pre­senza di Dio;
  • - vivere sentendoci in missione cercando la comu­nicazione reciproca con i collaboratori, gli infer­mi, i bisognosi e tutti coloro con cui veniamo a contatto; in questa maniera avremo un arricchi­mento reciproco e creeremo una vera alleanza apostolica.

 

 

5.5.2. Strumenti validi per fomentare il nostro vivere comunitario

 

Abbiamo spiegato l’aggettivo nuovo applicato all’evangelizzazione dicendo che esso si riferisce alla forma e i mezzi di presentazione, non al contenuto che rimane invariabile.

 

La nuova ospitalità esige l’utilizzo di strumenti atti a fomentare il nostro vivere comunitario, affinché le nostre siano comunità veramente vive. Alcuni di questi strumenti sono quelli di sempre, altri sono nuovi. Faremo bene ad utilizzarli tutti per fomentare il nuovo stile di vita che richiede l’ospitalità del terzo millennio.

 

Come elementi indispensabili per la crescita del­la comunità proponiamo:

 

  • - la lettura e meditazione delle Costituzioni che ci renderà più coscienti dell’ideale di vita che ab­biamo abbracciato; le Costituzioni sono per noi, come abbiamo detto, il Vangelo in chiave di cari­sma;
  • - il contatto permanente con Giovanni di Dio, che nel convivere con i suoi primi compagni, riuscì a stabilire con loro una vera comunità di vita in funzione ad una vera ospitalità;
  • - la celebrazione della liturgia e la preghiera co­munitaria come momenti di comunicazione con il Padre in quanto membri della Chiesa convoca­ti a formare una comunità;
  • - il progetto di vita, espressione di come la comu­nità desideri vivere concretamente la sua voca­zione, la cui elaborazione e valutazione mantie­ne viva la nostra attenzione per la risposta che diamo alla chiamata del Signore;
  • - la formazione permanente secondo le necessità personali, seguendo però nel contempo i pro­grammi comunitari per stare, nella misura del possibile, al passo del nostro apostolato;
  • - l’incontro comunitario mediante la riunione di famiglia, la ricreazione, i pasti, l’accoglienza di persone amiche di un membro o di tutta la comu­nità come espressioni importanti del nostro vive­re comunitario.

 

5.5.3. L’universalità come elemento essenziale della comunità

 

Un’attitudine che deve caratterizzarci come co­munità della nuova ospitalità, è l’universalità.

 

Siamo cittadini del mondo, viviamo in un’epoca dove le comunicazioni sono molto agevoli, sono 45 i paesi in cui l’Ordine è attualmente presente, tutti ele­menti che ci dovrebbero aprire all’universalità.

 

Dall’altra parte persistono espressioni che la im­pediscono: la difesa della propria identità; la tradizio­ne vissuta ad oltranza; l’attaccamento a principi acci­dentali, che, senza renderci conto, viviamo come fon­damentali; il fatto di lasciarci trascinare da comporta­menti egocentrici ed egolatri indotti dai criteri defor­mati della nostra società.

Ciononostante crediamo che la nuova ospitalità abbia un bisogno quasi essenziale dell’universalità. Pertanto esige:

 

  • - di aprirci“ecumenicamente al dialogo interreli­gioso”, vale a dire, di essere aperti in maniera universale al confratello fomentando questa apertura attraverso un autentico dialogo in seno alla comunità;
  • - che io, dalla mia cultura mi apra alla cultura dei miei confratelli, che ci confrontiamo con altre comunità dell’ordine nel mondo, creando alcu­ne comunità composte da confratelli di diversi paesi per scoprire gli elementi universali che ci uniscono;
  • - operare un’apertura giusta verso la donna, la cui presenza ha arricchito di sensibilità i nostri cen­tri e la cui azione è molto efficace nell’esercizio del carisma;
  • - essere sempre più coscienti delle necessità degli altri ricercando criteri per condividere i beni con i quali siamo stati arricchiti non solo a livello delle nostre comunità apostoliche, ma anche a li­vello delle esigenze della società;
  • - intendere la nuova ospitalità come esigenza di salute per tutti, di cui le nostre comunità si devo­no fare promotrici.

 

 

5.5.4. Comunità per la nuova ospitalità: il ruolo che dobbiamo assumere

 

Tutto ciò che siamo andati dicendo, lo abbiamo voluto puntualizzare in funzione delle nostre comu­nità chiamate a proiettare la nuova ospitalità nel terzo millennio in sintonia con le esigenze della nuova evangelizzazione.

 

Se riusciremo a superare le difficoltà che abbia­mo incontrato nella prassi e che talvolta ci hanno fat­to perdere l’illusione di poter costruire una vera co­munità, saremo capaci di vivere la comunità nella lu­ce dell’avventura della nuova ospitalità.

 

Gli aspetti che abbiamo segnalato in questo para­grafo 5.5 sono da considerarsi come obiettivi da tene­re presente nella prospettiva di metterli poco a poco in pratica.

Abbiamo il convincimento che molto dipenderà dalla nostra attitudine interiore, se crediamo o non crediamo in questa possibilità. Combattiamo il nostro ateismo a questo riguardo.

 

Soltanto coloro che confidano nella provvidenza come Giovanni di Dio, che credono contro speranza, potranno entrare nel terzo millennio aperti alla nuova ospitalità. Se non ci manteniamo aperti al Signore, rischio, come Israele, di non entrare nella terra promessa.

 

Questa prospettiva è valida per tutte le nostre comunità. Ad alcune di esse le esigenze della nuova ospitalità permetteranno di vivere negli stessi luoghi in cui vivono oggi.

 

Tenendo presente tutto ciò che abbiamo detto qui sulla comunità, avranno la possibilità di correre l’avventura di essere fedeli al futuro.

Altre saranno marcate più fortemente dal segno della modernità. Sorretti dalla forza di comunità-nu­cleo, coloro che vivranno questa esperienza, saranno chiamati a vivere ed esprimere la ospitalità in luoghi distinti e con persone diverse da quelle che compon­gono la loro comunità.

 

In questo caso bisogna sempre tenere presente che, anche in presenza di esigenze che ci possono di­sperdere, rimangono sempre più forti i legami che ci uniscono. Pertanto dobbiamo ricercare sinceramente quei momenti in cui questi legami possano esprimer­si e crescere.

 

Potremo prendere in considerazione anche, come esigenza della nuova ospitalità per alcuni Confratelli, la possibilità di creare comunità miste, composte cioè da Confratelli e collaboratori, che condividano non solo la missione, ma che, nella prospettiva della ospi­talità, arrivino a formare veri nuclei di vita.

 

In ogni momento le nostre comunità devono essere espressione del carisma dell’ospitalità, con il quale sono state arricchite. Inserite in un’opera pro­pria o affidata a loro, devono essere garanti che l’as­sistenza si realizzi nello spirito di Giovanni di Dio.

 

Il nostro P. Generale anteriore ha presentato un modello secondo cui il ruolo della comunità nei cen­tri dovrebbe esplicarsi nelle seguenti quattro direzio­ni: guida morale, coscienza critica, presenza antici­patrice e forza profetica.

 

E un modello, certo, ma che segna un salto di qualità nella forma di stare al servizio del malato. La nuova ospitalità ci chiede questo salto di qualità. Di­sponiamoci senza timore a compierlo, perché solo così risponderemo alle necessità del nostro tempo dando alla nostra vita tutta la sua forza apostolica.

 

 

5.6. La nuova ospitalità: esigenze nella nostra vi­ta apostolica

 

Il fine ultimo della vita di noi Fatebenefratelli è di fare presente nel nostro apostolato di carità Cristo che ci invita a impegnare la nostra esistenza nell’evange­lizzazione dei poveri e degli ammalati (cfr. C n.4l).

 

Alla luce della nuova evangelizzazione la Chiesa og­gi, in vista della nuova ospitalità, ci invita a verificare:

 

  • - se il nostro apostolato ha in tutte le sue espres­sioni una autentica valenza evangelizzatrice;
  • - in quale misura le nostre comunità nella loro azione apostolica sono coscienti del loro ruolo evangelizzatore;
  • - fino a che punto i singoli si percepiscono e si ap­prezzano nella loro dimensione di testimoni del Vangelo;
  • - in quale misura sappiamo essere animatori moti­vati radicati nel Vangelo ma nello stesso tempo sensibili alle scienze umane e organizzative;
  • - fino a che punto siamo riusciti ad armonizzare la dimensione apostolica con la dimensione con­templativa nella nostra vita.

 

 

5.6.1. Luoghi e azioni con un particolare signifi­cato evangelico

 

San Giovanni di Dio ha iniziato la sua opera a Granada praticamente sulla strada. Senza mezzi è riuscito ad affascinare persone sensibili che con la lo­ro generosità gli hanno permesso di aprire un primo luogo protetto aperto a tutti (cfr. SGD, TI Lettera a Gutierre Lasso, n. 5).

 

Anche se d’ora in poi Giovanni di Dio, i suoi pri­mi seguaci e l’Ordine che ne ha preso l’eredità, si so­no appoggiati ad opere stabili, non hanno mai smesso di rimanere aperti alle emergenze dell’epoca interve­nendo con tempismo in situazioni puntuali (guerre, epidemie, calamità naturali, ecc.).

 

Come i nostri predecessori noi Fatebenefratelli siamo chiamati oggi sulla spinta della nuova evan­gelizzazione ad attingere alla inesauribile ricchezza del nostro carisma, rispondendo con creatività e rinnovato ardore ai bisogni dell’uomo del nostro tempo.

 

Senza togliere nulla alle molteplici forme in cui oggi l’ordine esprime il carisma di San Giovanni di Dio, ci sembra che esistano alcuni campi di azione che, nella prospettiva della nuova ospitalità, sono se­gni evangelici particolarmente significativi:

 

  • - gli asili notturni: come espressione della dimen­sione di gratuità che nella nostra società dell’ef­ficienza e della produttività è quasi negata;
  • - gli hospices: come luoghi che segnalano il valo­re della vita nel momento del morire;
  • - i malati di AIDS: per contrastare paure e pre­giudizi irrazionali;
  • - i tossicodipendenti: amare l’uomo che non si sa amare;
  • - gli immigrati: accogliere Gesù straniero come genuina espressione di ospitalità;
  • - gli anziani: per affermare il valore della vita nel­la sua globalità.

 

Comunque sia, ogni luogo dove c’è povertà, ma­lattia, sofferenza è un luogo privilegiato per noi Fate­benefratelli di esercitare e vivere il Vangelo della Mi­sericordia.

 

 

5.6.2. Uniti ai collaboratori nella stessa missione

 

Partendo dall’apertura fondamentale che il Con­cilio Vaticano II ha operato verso i laici e illuminati dall’insegnamento della “Christifidelis laici”, noi Fatebenefratelli abbiamo costruito progressivamente un rapporto con i nostri collaboratori che abbiamo chiamato “Alleanza”.

Avendo dinanzi ai nostri occhi la capacità del tut­to particolare del nostro Fondatore di aggregare attor­no a sé persone, le più diverse, e di valorizzarle nello spirito del Vangelo, noi Fatebenefratelli oggi di fron­te alla moltitudine e alla varietà delle persone che ci aiutano nella nostra missione siamo consapevoli dell’enorme compito di trasmettere loro i valori della nostra rinnovata ospitalità.

 

Muovendo dal documento “Fatebenefratelli e collaboratori insieme per servire e promuovere lavi­ta “, alla luce della nuova evangelizzazione e della nuova ospitalità ci sembra di poter affermare che:

 

- c’è un livello in cui esiste la possibilità di incontro con tutti i nostri collaboratori, indipendentemente dal loro credo che potremmo definire il livello del comune servizio all’uomo; pur rispettando le con­vinzioni altrui è nostro compito sviluppare anche qui la nostra azione evangelizzatrice;

 

- abbiamo una particolare responsabilità verso colo­ro che condividono la nostra fede nel mantenere vi­vo in loro lo spirito evangelico e di formare assie­me a loro quella Chiesa ospedaliera che possiamo anche definire come la nostra Chiesa domestica;

 

- dobbiamo saper valorizzare sempre di più gli ap­porti con cui i nostri collaboratori hanno arricchito e continuano ad arricchire la storia dell’ospitalità;

 

- nell’alleanza che abbiamo proclamato ci deve essere anche spazio per la ricerca comune con i

laici di nuovi progetti di ospitalità coerenti e condivisibili;

 

- dobbiamo continuare a promuovere e ad accoglie­re con gioia chi dona gratuitamente nel servizio volontario il suo tempo ad alleviare le sofferenze del prossimo e ad essere sempre riconoscenti ai nostri benefattori per il loro contributo materiale e spirituale alla nostra missione nella consapevolez­za che tanto i volontari quanto i benefattori condi­vidono con noi il carisma di San Giovanni di Dio.

 

 

5.6.3. Filosofia del nostro agire: principi fonda­mentali e situazioni concrete

 

Assumendo l’appello della Chiesa ad essere sem­pre più consapevoli del primato dell’evangelizzazio­ne, noi Fatebenefratelli nel progettare la nuova ospi­talità, ci sentiamo impegnati a dare nuovo slancio all’identità confessionale dei nostri centri.

 

Con il rinnovamento abbiamo già fatto passi si­gnificativi in questa direzione. Prova ne sono:

 

  • - il coinvolgimento dei nostri collaboratori in vista di una condivisione non solo sul piano del lavo­ro ma anche su quello della fede e del carisma;
  • - la collegialità e la corresponsabilità nella ge­stione delle opere tra religiosi e laici;
  • - l’introduzione delle commissioni di etica;
  • - la sensibilizzazione per la dottrina sociale della Chiesa nell’ambito dei nostri centri con una par­ticolare attenzione alle esigenze della giustizia sia verso gli operatori che verso i malati;
  • - un approccio alla persona malata ispirato ai prin­cipi dell’umanizzazione;
  • - la valorizzazione e la promozione del servizio di pastorale per un annuncio deciso della salute-salvezza di Cristo;
  • - la revisione costante e della qualità dei nostri servizi e dell’efficacia apostolica sullo sfondo del carisma di San Giovanni di Dio.

 

Un elemento sempre più importante della nostra filosofia deve costituire in futuro una sensibilità spe­ciale per la questione ecologica. La nuova ospitalità, coerente al recenti insegnamenti della Chiesa, deve essere anche preoccupazione di mantenere ospitale la nostra terra. Essendo le nostre strutture luoghi di grande consumo dei più svariati materiali, possiamo qui dare dei segnali concreti e significativi di atten­zione all’ambiente istituendo commissioni per l’am­biente, privilegiando l’utilizzo di materie biodegra­dabili e riciclabili e sensibilizzando i collaboratori at­traverso corsi e seminari.

CONCLUSIONE

 

La sottocommissione incaricata di elaborare il presente documento ritiene di aver compiuto il lavo­ro affidatole con molta buona volontà, consapevole di rendere un servizio importante all’Ordine nella prospettiva che il rinnovamento, che ci è stato chiesto dal Concilio, continui nello spirito della nuova evan­gelizzazione attraverso la nuova ospitalità.

 

Tocca ora ai Confratelli e ai collaboratori studiar­lo, correggerlo e migliorarlo. Così arricchito sarà poi oggetto di un’ulteriore analisi nel Capitolo Generale che nella programmazione dovrà stabilire ed appro­vare gli orientamenti pratici a breve e a lungo ter­mine da adottare dal Governo Generale, dalle Pro­vince. dalle comunità e dai centri assistenziali per ri­spondere alle esigenze della nuova ospitalità.

 

 

LE SORELLE DI SAN GIOVANNI DI DIO NELLA PAGINA SMARRITA O DIMENTICATA DAI FRATELLI – Angelo Nocent

Me lo sono chiesto per anni senza trovare risposta: ma perché i Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio hanno deciso di assistere nell’ospedale creato dal santo Fondatore soltanto le persone di sesso maschile? E le donne chi sono? Possibile che lui, così sensibile alle sofferenze di ogni genere in cui venivano a ritrovarsi nonne, madri, sorelle, ragazze, perfino suore… decidesse di escluderle dal suo progetto assistenziale?

Se nei secoli, dai Fratelli Ospedalieri, questo problema è stato risolto chiamando religiose di Congregazioni Femminili a svolgere l’assistenza nei reparti di degenza delle donne, ho avvertito questa soluzione come di ripiego ingiustificato.

In quell’albero così rigoglioso, riprodotto in tante stampe d’epoca, nato sul ceppo di un uomo di nome Giovanni, non ho mai notato un ramo dissecato che pulsava al femminile. E, nel labirinto delle ipotesi, la risposta non mi veniva nè dalle letture dei documenti storici da me raggiungibili, nè dalle stampe, nè dalla tradizione orale.

Senonché…

Lunedi notte (13 Ottobre 2008) mi sveglio di scatto. Convinto di essere in ritardo per il lavoro, cerco l’orologio: sono appena le quatro del mattino.

Mi alzo perché non riesco più a riaddormentarmi, mi faccio un caffè e comincio a sfogliare un vecchio libro del Padre Gabriele Russotto: “L’ORDINE OSPEDALIERO DI S. GIOVANNI DI DIO” – Anno 1950.

Guardo le foto delle distruzioni belliche che hanno colpito anche diversi ospedali dei Fatebenefratelli d’Italia, Austria, Germania, Francia…Mi soffermo più a lungo sull’Ospedale San Giuseppe di Milano: la documentazione del bombardamento aereo della notte 15-16 Agosto 1943 è desolante.

A pagina 151 mi soffermo, tra l’incredulo e lo stupito, su questo titolo: “COSTRUZIONI DELLA CARITA’ “.

Leggo: “Malgrado i danni e le distruzioni subìte e le gravi difficoltà nelle quali l’Ordine si trovò durante la tremenda parentesi bellica, tuttavia il suo cammino, guidato dalla mente illuminata e dal cuore grande del Generale P. Efrem Blandeau, non si arrestò. Durante il periodo della guerra furono fondate complessivamente altre 22 Case, come segue:

  • 2 in Italia;

  • 2 in Irlanda;

  • 5 nella Spagna;

  • 2 nel Portogallo;

  • 2 in Africa;

  • 2 in Argentina;

  • 2 nel Cuba;

  • 1 nel Perù;

  • 3 negli Stati Uniti;

  • 1 nel Venezuela.

  • In qualcuna di queste Nazioni l’Ordine è entro per la prima volta”.

Cosa pensare? L’avevo insistentemente sentito ripetere al ginnasio, dal Prof. Celli quando leggevamo ”I PROMESSI SPOSI”: “La c’è la Provvidenza!”. E’ l’espressione che il Manzoni fa dire a Renzo. E mi rendo conto che, se i frati sono da cinque secoli sui nostri percorsi, è perché non hanno mai dubitato.

Ma, se allora…, perché non ora?

Proseguo la mia curiosa consultazione, ignaro che, proprio alla pagina 179, il Padre Russotto, svegliandomi di buon mattino, mi aveva preparato quella sorpresa che son qui a riferire, tanto mi ha suscitato incredulità e interesse, perché rispondeva a quella domanda iniziale sul perché delle donne non ammesse in ospedale.

Ciò che segue – escluso il titolo che è mia deduzione – mi ha lasciato di sasso ed è fedelmente riportato.

LE SORELLE DI SAN GIOVANNI DI DIO NELLA PAGINA DIMENTICATA DAI FRATELLI

Le sorelle c’erano ma i fratelli – non ho ben capito per quali ragioni storiche – le hanno perse per strada, fino a dimenticarle per sempre.

Ad onor del vero, ci ha provveduto il milanese Padre Benedetto Menni che era stato inviato in Spagna da Pio IX e dal Padre Alfieri a rifondare il suo Ordine che era stato soppresso. Così, nel 1881 ha dato vita al ramo femminile delle Suore Ospedaliere del Sacro Cuore, particolarmente dedite all’assistenza dei malati psichiatrici che giustamente lo considerano Santo Fondatore, pur ispirandosi al Patriarca di Granada. Ma si tratta di una storia parallela che andrebbe spiegata.

Epperò…

Le Costituzioni dell’Ordine, anno 1585 per “L’OSPEDALE DI GIOVANNI DI DIO” in Granada, prescritte da Mons. Giovanni Mendez Salvatierra, Arcivescovo di Granata, furono la base delle prime Costituzioni dell’Ordine e delle altre edizioni successive. Se ne conserva copia stampata – mancante però di più pagine – nell’Archivio Generale dei Fatebenefratelli in Roma.

Il titolo intero è: Regla y Costituciones, para el Hospital de Juan de Dios desta ciudad de Granada, Por el Illustrissimo Reverendissimo Senor don Joan Mendez de Salvatierra, Arcobispo della…, del consejo de su Majestad, etc. (Granada , 1 gennaio 1585, pp. 17-18)

TITOLO XV delle COSTITUZIONI 1585: DEL MEDICO, DEL CHIRURGO E DEL BARBIERE

Prima Costituzione, che tratta delle ore in cui debbono trovarsi nel detto Ospedale, a chi spetta la loro nomina e da chi debbono dipendere dentro l’Ospedale.

1.Il medico ed il chirurgo…

2.Come debbono essere multati…

3.Dell’ordine, che devono osservare nella visita ai malati…

4.Quando il medico deve ispezionare la farmacia…

5.Della carità e diligenza, con cui debbono visitare i detti infermi…

6.Dell’ora, in cui il barbiere deve essere presente alla visita insieme col medico… “

(1587)

Queste Costituzioni – delle quali è giunto fino a noi solo il Capitolo XV – furono approvate dal primo Capitolo Generale, celebrato in Roma nei giorni 20-29 giugno 1587, e sono la documentazione scritta del metodo assistenziale introdotto nel 1537 da san Giovanni di Dio nel suo Ospedale in Granada e poi continuato fedelmente dai suoi Figli nella Spagna e nelle altre nazioni.

Il Capitolo XV° è riportato nella prima biografia del Santo – più volte citata – del P. Francesco de Castro: Vita et opere sante di Giovanni di Dio…, tradotta dallo spagnolo dal P. Francesco Bordini (Firenze, 1589) p. 196.

  • Dell’ordine che tengono li Fratelli di Giovanni di Dio in overnare li poveri infermi nelli loro spedali, estratto brevemente, et ommariamente dal Capitolo XV delle loro Costitutioni. Conviene grandemente…

  • Dell’ordine che si tiene nel ponere li poveri infermi nel letto. S’ha da procurare…

  • Del modo che si tiene nel visitare gli poveri infermi con il medico, et chirurgico. Nelle due visite…

  • Ordine che si tiene nel dar da mangiare a’ poveri infermi. Venuta l’hora…

  • Della guardia che s’ha da tenere, così nel giorno, come nella notte dell’infermeria; et la maniera che s’ha da tenere in licentiare i poveri, di poi che sono risanati. Et acciò…

  • Della gran cura che s’ha da tenere degll’infermi, che stanno nell’agonia della morte. Et perché importa…

  • Come si sepeliranno l’infermi, che sono morti nel nostro spedale, e delle messe de’ defunti ogni lunedì. Quando per voluntà di…

  • Degli esercitij spirituali, che si fanno nelle i infermarie. Nelle infermarie si dirà Messa ogni mattina,…

  • Delle sorelle del nostro habito, che hanno da medicare le povere inferme.

  • “In alcuni delli nostri spedali si ha usato, et usa ricevere donne inferme, et medicarle in luogo distinto, et separato, et lontano dalle infermarie degli huomini, servendo le sorelle del nostro habito con la carità possibile, et questo perché le donne siano rimediate come gli huomini: ha parso al capitolo che si faccia il medesimo da qui innanzi ne’ luoghi commodi, et ritirati dove si possa fare, procurando sempre di andare innanzi di perfettione, et s’intenda che non ha da essere con ogni picciola commodità; ma dove possino stare molto appartate, et raccolte, et che non possa entrare in esse niuna sotre d’huomini; eccetto che i medici, et che siano in istanze molto commode, e per questo effetto si terrà particolar cura in questo esercitio”.

  • Della infermiera maggiore, facendosi spedale di donne.

  • “Sarà una infermiera maggiore d’età di anni 40 poco più, o meno, la quale sarà religiosa del nostro habito, diligente et sufficiente per questo ministerio,

  • dove sarà obedita da tutte le altre sorelle, et farà l’infermiera maggiore, che nel spedale delle donne si osserva quell’ordine, che s’è detto nello spedale degli huomini, nella visita de’ medici, et in tutti gli altri esercitii, così spirituali, come corporali,

  • et così anco tenirà particolar cura nello spedale si viva con ogni modestia,

  • et non lasci uscire niuna fuora se non sarà sana, er licentiata dal medico,

  • et farà che tutte le cose le siano provedute, et convenienti atte:

  • di maniera che non si manchi niente di quello che dal medico fu ordinato,

  • et per quest’effetto sarà una ruota per dove le si diano tutte le cose necessarie,

  • et per la porta non entrerà se non l’inferme, et li medici quando anderanno a visitare,

  • et il fratello maggiore si troverà sempre presente alla visita,

  • et se sarà bisogno il barbiero, et lo spetiale,

  • et l’infermiera maggiore farà che si faccia la visita con ogni modestia et honestà,

  • et che alle inferme non le manchi cosa niuna, come sìè detto nella infermità degli uomini,

  • et nella porta della infermeria delle donne saranno due chiavi differenti una dall’altra,

  • et una la tenirà il fratello maggiore, et l’altra la sorella infermiera maggiore; di maniera che non possa aprire l’uno senza l’altra”.

(DA: “L’ORDINE OSPEDALIERO DI S. GIOVANNI DI DIO” – Roma – Isola Tiberina . Anno Giubilare 1950 – P. Gabriele Russotto O.H. )

 

DUNQUE…

Fin dalle origini è evidente che vi è già una fondazione religiosa al femminile, analoga a quella dei frati, sorretta dalle medesime norme:

  • “In alcuni delli nostri spedali si ha usato, et usa ricevere donne inferme, et medicarle in luogo distinto, et separato, et lontano dalle infermarie degli huomini, servendo le sorelle del nostro habito con la carità possibile, et questo perché le donne siano rimediate come gli huomini:..”

  • “Sarà una infermiera maggiore d’età di anni 40 poco più, o meno, la quale sarà religiosa del nostro habito, diligente et sufficiente per questo ministerio, dove sarà obedita da tutte le altre sorelle, et farà l’infermiera maggiore, che nel spedale delle donne si osserva quell’ordine, che s’è detto nello spedale degli huomini…”

Qui mi limito a dire che l’argomento meriterebbe almeno di di essere approfondito. E, se vi sono dei ritardi storici, andrebbero recuperati.

Sono tentato di credere che certe crisi vengano da lontano e celino l’accorato desiderio di Dio: far emergere e riconoscere nel nostro tempo quella diaconia delle donne che da sempre esse hanno esercitato, nella riservatezza tipica di Maria, la magnifica donna accogliente ed ospitale della Chiesa nascente e nei secoli.

Nulla di nuovo sotto il sole.

A costo di sembrare patetico, mi domando: e se un giorno fossero le donne, le Sorelle Ospedaliere, a prendere in mano la situazione di alcune postazioni dell’Ordine dei Fratelli Ospedalieri , ormai in gravi difficoltà di sopravvivenza, ovunque ma in Italia in particolare? Fino a prova contraria, Fatebenefratelli vuol dire anche Fatebenesorelle. O no ?

La carità di Giovanni di Dio è stata sostenuta sia dalla ricchezza delle nobildonne che dagli spiccioli della scontata fatica delle donne del popolo. E tra esse, alcune di quelle sottratte dal Santo alla schiavitù della prostituzione. Tutto fa pensare che San Giovanni di Dio, sul ruolo della donna, pur nei condizionamenti legati alla mentalità del tempo, abbia visto più lontano di noi che ci consideriamo emancipati. Del resto, la tradizione ci tramanda che proprio la Sorella Maria di Nazaret, la donna per eccellenza, lo abbia risollevato in una accidentata caduta da cavallo e lungo tutto il percorso della sua illuminata avventura, fin sul letto di morte.

Forse la lettura dal libro del Profeta Gioele può dissipare dubbi e paure.

Cap 3, 1-5 – Il Signore manderà il suo spirito

  • “Dopo questo, io manderò il mio spirito su tutti gli uomini: i vostri figli e le vostre figlie saranno profeti, gli anziani avranno sogni e i giovani avranno visioni.

  • In quei giorni manderò il mio spirito anche sugli schiavi e sulle schiave.

  • Farò cose straordinarie in cielo e sulla terra: ci saranno sangue, fuoco e nuvole di fumo.

  • Il sole si oscurerà e la luna diventerà rossa come il sangue, prima che venga il giorno del Signore, giorno grande e terribile.

  • Ma chi invocherà il mio nome sarà salvo. Sul monte Sion e in Gerusalemme sopravvivranno quelli che io ho scelto”.

Come sembrano in atto le profezie!

Ai tempi del profeta Gioele, Maria di Nazareth non era ancora nata. Ma nella mente di Dio era presente dall’eternità. Le profezie del Magnificat di Maria, i sogni di Giuseppe ci appartengono: siamo chiamati a realizzarli.

Una ragazza che sta cercado la sua vocazione, mi ha spedito una mail proprio oggi, 21 maggio 2007, per farmi partecipe di una scoperta che ha fatto, leggendo una biografia di Don Gnocchi. La riccetta che mi ha suggerito e che volentieri metto in circolazione è ottima e cercherò di utilizzarla per primo:

“Volete diventare santi? Ecco il sistema: prima di ogni vostra azione chiedetevi sempre che cosa farebbe la Madonna al vostro posto e comportatevi come lei”.(Don Carlo Gnocchi).

Da questa mia piuttosto complicata postazione esistenziale, non sempre riesco a percepire come gira il mondo. Ma sono fortunato: vedo un succedersi di miracoli.

Vorrei chiederne uno: che i Padri Capitolari dei Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio che s’incontreranno a Fatima dal 22 ottobre al 9 novembre per celebrare il LXVIII Capitolo Generale, si accorgessere di questa pagina, operassero un discernimento ed aprissero nuovamente le porte a un ramo femminile: le Sorelle Ospedaliere di San Giovanni di Dio. Come hogià detto, in qualche modo, vi ha già provveduto San Benedetto Menni.

Nè mancano le Suore della Carità di San Giovanni di Dio (Sisters of Charity of St. John of Good (SCJD), fondate in India da Fra Fortunatus Thanhäuser o.h. Ma ci sono ancora tanti posti vacanti che attendono di essere occupati dalla fantasia della carità.

Con o senza il velo, prego il Signore della messe perché susciti una donna capace di rifarsi a San Giovanni di Dio non tanto per ammirare le virtù di questo formidabile uomo, gigante della carità compassionevole, vissuto in un certo periodo storico.

Ma per raccogliere nella sua storia le indicazioni ispiratrici per scrivre una nuova pagina dell’ hospitalitas, emanazione del “Sacramentum Hospitalitatis” quale appunto è l’ Eucaristia. Perché la profezia contenuta nel carisma originario che si è manifestato in Granada, non può perdere il suo mordente di disturbo ma deve porsi in posizione di avanguardia, di avanposto: amare come Dio ama, secondo il modello Gesù, praticato da Maria.

Mettere i piedi sulle impronte lasciate da Cristo, non è uno scherzo: richiede un ribaltamento del sistema motivazionale umano non facile da raggiungere.

“Purtroppo pensiamo ancora – scriveva ancora quindici anni fa Alessandro Manenti in Profezie di retroguardia – che per formare dei bravi religiosi basti un po’ di teologia, un po’ di esperienza pastorale, un po’ di comunità, un po’ di preghiera e il gioco è fatto.

E la effettiva libertà di vivere secondo quei valori accettati, creduti, praticati chi la favorisce? Non abbiamo capito ancora che la radice non è l’ignoranza dei valori trascendenti e neanche la presenza di patologia, ma è la naturale refrattarietà del cuore umano a fare un dono totale di sè nonostante lo si accetti a parole e non si sia impediti da turbe psichiche. Chi favorisce questo lungo e lento lavoro di assimilazione”.

La risposta dell’autore era rivolta a una domanda provocatoria derivante dalle ricerche di Padre Luigi Rulla pubblicate in Antropologia della vocazione cristiana (Piemme, Casale Monferrato 1986) che evidenziava un quadro disastroso. In essa venivano forniti i seguenti dati:

  • religiosi maturi 16%

  • immaturi 45%;

  • quando si considerano anche i seminaristi, i maturi sono 11%

  • e gli immaturi 45%.

  • Religiose mature 11%

  • immature 64%

  • Laiche mature 5%,

  • immature 71%

Nel 2012 la situazione è diversa?

 

Il carmelitano Bruno Secondin, ordinario di teologia spirituale all’Università Gregoriana di Roma, scriveva: “L’invecchiamento molto esteso nel nostro mondo occidentale dei membri degli istituti religiosi è un’altra ragione di difficoltà e di smarrimento. I giovani si sentono molto a disagio nell’associarsi con gruppi e istituti formati da persone quasi tutte sopra i sessant’anni, stanche e impaurite per il collasso delle opere e dell’organizzazione. D’altra parte, se non entrano giovani, ancor meno la capacità di adeguamento al presente e di nuove iniziative si può affacciare. E’ quasi un circolo vizioso”.

Circolo vizioso che solo Dio può spezzare.

Se è utopico pensare che imponenti istituzioni plurisecolari si trasformino completamente e rapidamente, qualcuno sostiene che va profilandosi un modo diverso di entrare nel mondo dei consacrati: fare, sì una scelta di consacrazione, ma rimanendo nel mondo, senza essere nè suore, nè preti.

A Mariapia Bonanate, giornalista che ha scandagliato quel mondo poco conosciuto delle religiose, riferito nel suo libro “SUORE”, è stato chiesto: “C’è un settore in cui ritiene dovrebbero impegnarsi in modo particolare le congregazioni religiose femminili?“

La sua risposta: “Fermo restando il fatto che i campi della loro azione sono molteplici, sarebbe auspicabile la loro presenza là dove non c’è nè istituzione civile, nè religiosa. Una donna può arrivare dove non arriva un uomo e una suora dove non arriva un prete. Fra i diseredati, fra gli ultimi la presenza di una religiosa produce degli effetti straordinariamente positivi. Oggi il luogo privilegiato della teologia sono i poveri. Lo si può vedere nelle frontiere del mondo dalle favelas agli slum, ma anche nelle nostre città. Mi sentirei di indicare in questo senso e con tutte le varianti legate ai singoli carismi il modello delle Piccole sorelle di Charles de Foucauld”.

Un san Giovanni di Dio al femminile, nei bassifondi o a questuare bussare alla porta dei palazzi di ricchi e benestanti, a insegnare la lingua agli stranieri in qualche sottoscala, su una cattedra universitaria, in camice bianco in ospedale o nel ruolo di psichiatra psicoterapeuta…non dispiacerebbe neanche a lui che non è mai stato geloso della concorrenza. Madre Teresa di Calcuta non è che un esempio moderno. Ben venga, dunque. Ma non è opera d’uomo. E’ dono dello Spirito che non disdegna di essere invocato, strattonato, sollecitato, con insistenza.

Anni fa il carmelitano cardinale di Torino Anastasio Balestrero, sulla crisi delle vocazioni religiose, sulle tante interpretazioni, forniva questa: “Sono dell’idea che la vita religiosa non abbia trovato ancora un assetto postconciliare. E questo spiega, a mio parere, la carestia delle vocazioni.

Ma a me preme soprattutto ricordare che di fronte alla scarsità delle vocazioni, il Signore ci comanda di pregare perché il Padre mandi operai nella sua messe. Wuesto comando deve essere ricordato da tutti, deve essere inculcato nel Popolo di Dio. Pregare. La soluzione è dall’alto, perché Dio solo chiama e da Dio solo provengono le vocazioni. I problemi umani esistono, i problemi sociali ci sono, le crisi delle famiglie e dei giovani sono reali. Ma la potenza e la misericordia di Dio non sono davvero raccorciate da queste povertà e da queste lentezze umane“.

SAN GIOVANNI DI DIO – Il percorso travagliato di un santo

SAN GIOVANNI DI DIO

La vita di un Santo

È il 1495: nasce Giovanni Ciudad, il futuro San Giovanni di Dio. Nasce da una modesta famiglia di Montemor-o-Novo, piccola cittadina portoghese a 110 Km. da Lisbona. Incerte e frammentarie le notizie sulla sua infanzia, e misterioso l’episodio in cui il padre Andrea lo affida, a soli 8 anni, a un pellegrino di passaggio… Ritroviamo più tardi il piccolo Giovanni in Castiglia, dove trascorre gli anni fino alla maturità come pastore al servizio di Francisco Cid, majoral di Oropesa. La vita di Giovanni Ciudad si annuncia da subito movimentata, e non particolarmente ordinata. Ha già ventotto anni quando si arruola nell’esercito imperiale per combattere contro i Francesi, nella campagna per la riconquista della fortezza di Fuenterrabia, nei Pirenei. La passione per il gioco non lo fa di certo emergere dalla truppa. Fino al momento in cui il suo diretto superiore, il capitano Ferruz, in seguito a una storia di furto nella quale Giovanni è coinvolto, arriva a ordinarne l’impiccagione.

In questa come in altre occasioni, è solo la fede istintiva di Giovanni a salvarlo in extremis. Ritorna alla vita di pastore a Oropesa, ma di nuovo segue la via militare e nel 1532 è con l’armata che salva Vienna dalla morsa dei Turchi. Di ritorno, decide di compiere un pellegrinaggio a San Giacomo di Compostella. Nuovamente in Portogallo incontra il conte d’Almeida, nobile caduto in disgrazia, e insieme raggiungono la colonia portoghese di Ceuta, in Marocco, dove Giovanni, per mantenere la famiglia del conte, lavora come bracciante alle fortificazioni della città. Ritornato in Spagna, accetta un lavoro qualsiasi per vivere. Con i pochi risparmi, decide di diventare venditore ambulante di libri e immagini religiose. E’ sempre in movimento, Giovanni: e mentre è in cammino la tradizione racconta che avviene l’ incontro con il “pastorello stanco”. Egli lo porta sulle sue spalle e il bambino lo ricompensa con una melagrana. E’ il bambino Gesù.

1539: Giovanni vive a Granada, dove ha aperto una libreria. Il 20 gennaio gli capita di ascoltare un sermone di Giovanni d’Avila. Rimane sconvolto: è la vera conversione. Il suo shock è così forte da sembrare pazzo. Percorre le strade della città urlando la sua “follia” per Dio: «Nudo, voglio vivere, seguire Gesù Cristo, nudo, e diventare povero in suo onore». Poi a casa brucia i libri e, in ginocchio, nelle piazze di Granada, esprime la sua contrizione: «Misericordia, misericordia, Signore Iddio, abbiate pietà di questo grande peccatore che Vi ha offeso». La sua conversione viene presa per pazzia. Lo prendono e ricoverano all’Ospedale Reale, dove a quei tempi la malattia mentale si cura con le catene e la frusta. Viene presto riconosciuto sano e rimesso in libertà. Giovanni decide allora di dedicare il resto della sua vita ai poveri e agli ammalati.
È l’autunno del 1539, ha quarantaquattro anni, fonda in via Lucena il suo primo ospedale. In dicembre il Vescovo di Tuy, Monsignor Sebastian Ramirez Fuenleal, presidente della Cancelleria Reale di Granada, gli conferisce l’ abito religioso e gli conferma il nome che il popolo gli aveva già dato: “Giovanni di Dio”. Nel 1547 l’Ospedale si trasferisce alla salita de los Gomeles. Giovanni muore l’8 marzo 1550. I suoi primi compagni danno inizio alla fondazione dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio – Fatebenefratelli. Il processo di beatificazione è del 1630, del 16 ottobre 1690 la canonizzazione di Alessandro VIII. E’ proclamato Patrono celeste degli ospedali e dei malati da Leone XIII nel 1886, Patrono celeste degli infermieri e delle loro associazioni da Pio XI nel 1930. Pio XII, nel 1940, lo proclama secondo Patrono celeste di Granada.

San Giovanni di Dio è, come uomo, un esempio di disponibilità e apertura verso il prossimo. Sradicato dalla famiglia a soli otto anni, sballottato dagli eventi, si adatta di buon grado alle condizioni più difficili. La sua è una vita in movimento, un’esperienza continua di mutamento nell’ambiente e nelle persone che lo circondano, ma anche di stabilità nella generosità. Sempre si rivela in lui la generosità che cresce e che, poco a poco, si trasforma in fede. Giovanni di Dio è diventato Santo per la sua generosità nei confronti di tutti quelli che ha incontrato, servito, curato, consolato. La sua santità è il frutto di questo distacco da sé che provoca in lui l’ amore per Gesù Cristo. Questo è il messaggio di Giovanni di Dio: Dio è la fonte di ogni amore. Dio che svela a tutti noi il vero volto del fratello ferito nella carne e nel cuore. Alcuni, sconvolti dalla Parola di Dio e dall ’esempio di santi come Giovanni di Dio, finiscono per consacrare la vita al servizio dei loro fratelli più bisognosi.

Primi due discepoli, Antonio Martin e Pedro Velasco. Oggi a formare l’Ordine dei Fatebenefratelli sono oltre 1500 Religiosi, nativi di 55 paesi diversi: un Ordine sparso in tutto il mondo, con 293 opere in 46 nazioni e oltre 40.000 collaboratori. La lunga storia iniziata a Granada più di quattrocento anni fa si svolge anche in Italia e porta, dopo alterne vicende, alla creazione di ventuno ospedali facenti parte della Provincia romana e di quella lombardo-veneta.

Per primo si stabilisce il legame con il centro della Chiesa, Roma, dove l’ allora “Fratello Maggiore” dei discepoli di Giovanni di Dio, Rodrigo di Sigüenza, invia Fra Pietro Soriano e Fra Sebastiano Arias allo scopo di ottenere il riconoscimento ufficiale dell’Istituto. Il processo è lungo: prima l’approvazione come Congregazione e poi come Ordine religioso – rispettivamente con la Bolla “Licet ex debito”, del 1572, e con il Breve “Etsi pro debito”, del 1586. Nel frattempo, Fra Soriano si muove a Napoli per fondare il primo ospedale fuori della Spagna ed è quindi di nuovo a Roma, nel 1584, dove acquista il monastero con la chiesa di San Giovanni Calibita sull’Isola Tiberina, trasformandolo in ospedale. Il frate, seguendo il mandato del santo Fondatore, organizza una struttura di tipo nuovo, in cui ogni malato ha un letto singolo, con cortine abbassabili, per dare un po ’ di riservatezza e dignità alla sofferenza. Questo Istituto continua a rappresentare, ancora oggi, il punto di riferimento per i Fatebenefratelli in Italia ed è la sede della Curia Generalizia.

Ma continuiamo con la storia. Nel 1587 si tiene il primo Capitolo, che approva le Costituzioni ed elegge Pietro Soriano primo Priore Generale dell’ Ordine. La fama dei Fatebenefratelli si diffonde anche al nord, tanto che nel 1588 l’arcivescovo di Milano, Monsignor Gaspare Visconti, segue l’ intenzione del predecessore Carlo Borromeo e li chiama nella città di S. Ambrogio. Il secolo successivo porta bene all’Ordine, nonostante qualche interferenza politica da collegare al dominio spagnolo, intenzionato a mantenere pieno controllo anche sulle strutture ospedaliere.

Nel 1653 si contano ben otto province italiane – Roma, Napoli, Milano, Sicilia, Bari, Calabria, Basilicata, Sardegna – e sono attivi 150 ospedali. Ma l’ interferenza della corona continua a farsi sentire nella seconda metà del ‘700, soprattutto nella Provincia lombarda, quando entra a fare parte dell’ Impero asburgico e subisce le vessatorie “Leggi Giuseppine”. Sorte non migliore tocca ai Fratelli che vivono la triste parentesi del dominio napoleonico.

Con il secolo XIX, tutto l’Ordine è sconvolto dal traballante rinnovamento socio-politico che segna il tramonto del vecchio regime. Il «nuovo che avanza» non è foriero di buone notizie per i Fatebenefratelli. L’ideale repubblicano avversa manifestamente la Chiesa e le sue istituzioni.

Succede anche di peggio con la nascita del Regno d’Italia che, nel 1866, porta alla soppressione dell’Ordine. Ventisette dei quarantasei ospedali dei Fatebenefratelli sono requisiti: a Milano, l’ospedale Santa Maria Ara Coeli, plurisecolare sede della provincia.

A Roma, nel 1878, il municipio di Roma entra in possesso dell’Ospedale Tiberino, cuore dell’Ordine; tre Fatebenefratelli non italiani, ufficialmente privati cittadini, lo comprano per 400 mila lire, nel 1892. Ma queste azioni in incognito non sono un caso isolato: in molti ospedali, i Frati di San Giovanni di Dio possono continuare a servire solo inquadrandosi in Associazione Laica Ospedaliera.

Gradualmente l’ondata anticlericale diminuisce e l’Ordine in Italia riprende quota. Nascono nuovi ospedali. Dal 1968 i Fatebenefratelli delle due Province italiane procedono alla classificazione degli istituti, con tutti i relativi adeguamenti, per inserirli nel piano sanitario nazionale. Oltre all ’Ospedale sull’Isola Tiberina e l’Ospedale S. Pietro, sulla via Cassia, la Provincia romana conta oggi sei centri assistenziali: Napoli, Benevento, Genzano, Perugia, Palermo, Alghero.

Più lungo l’elenco per la Provincia lombardo-veneta: quattordici i centri nell’Italia settentrionale: Brescia, Cernusco sul Naviglio, Erba, Gorizia, Milano, Romano d’Ezzelino, S. Colombano al Lambro, San Maurizio Canavese, Solbiate Comasco, Trivolzio, Varazze, Venezia nonché l’Ospedale Sacra Famiglia di Nazareth, in Israele. Inoltre lo spirito missionario ha spinto i religiosi a fondare e sostenere due ospedali in Africa, ad Afagnan, nel Togo, e a Tanguiéta, nel Benin che oggi formano, insieme al centro nutrizionale di Porga (Benin) la Delegazione generale S. Riccardo Impuri. Sempre della Provincia lombardo-veneta è il Centro Studi Fatebenefratelli di Monguzzo, un castello trecentesco donato per lascito testamentario. Oggi è adibito a centro studi ospedalieri e luogo di congressi e convegni di carattere sanitario e religioso. Struttura di grande suggestione, presenta fra l’altro una Biblioteca ricca di oltre 10.000 volumi, e la Sala consiliare, al primo piano.

Realizzare il Regno di Dio nell’ambiente sanitario

È il 1546, quando Giovanni di Dio prende con sé nell’ospedale di Granada i primi due discepoli, Antonio Martin e Pedro Velasco. Oggi a formare l’Ordine dei Fatebenefratelli sono oltre 1500 Religiosi, nativi di 55 paesi diversi:un Ordine sparso in tutto il mondo, con 293 opere in 46 nazioni e oltre 40.000 collaboratori. La lunga storia iniziata a Granada più di quattrocento anni fa si svolge anche in Italia e porta, dopo alterne vicende, alla creazione di ventuno ospedali facenti parte della Provincia romana e di quella lombardo-veneta.

Per primo si stabilisce il legame con il centro della Chiesa, Roma, dove l’ allora “Fratello Maggiore” dei discepoli di Giovanni di Dio, Rodrigo di Sigüenza, invia Fra Pietro Soriano e Fra Sebastiano Arias allo scopo di ottenere il riconoscimento ufficiale dell’Istituto. Il processo è lungo: prima l’approvazione come Congregazione e poi come Ordine religioso – rispettivamente con la Bolla “Licet ex debito”, del 1572, e con il Breve “Etsi pro debito”, del 1586. Nel frattempo, Fra Soriano si muove a Napoli per fondare il primo ospedale fuori della Spagna ed è quindi di nuovo a Roma, nel 1584, dove acquista il monastero con la chiesa di San Giovanni Calibita sull’Isola Tiberina, trasformandolo in ospedale. Il frate, seguendo il mandato del santo Fondatore, organizza una struttura di tipo nuovo, in cui ogni malato ha un letto singolo, con cortine abbassabili, per dare un po ’ di riservatezza e dignità alla sofferenza. Questo Istituto continua a rappresentare, ancora oggi, il punto di riferimento per i Fatebenefratelli in Italia ed è la sede della Curia Generalizia.

Ma continuiamo con la storia. Nel 1587 si tiene il primo Capitolo, che approva le Costituzioni ed elegge Pietro Soriano primo Priore Generale dell’Ordine. La fama dei Fatebenefratelli si diffonde anche al nord, tanto chenel 1588 l’arcivescovo di Milano, Monsignor Gaspare Visconti, segue l’ intenzione del predecessore Carlo Borromeo e li chiama nella città di S. Ambrogio. Il secolo successivo porta bene all’Ordine, nonostante qualche interferenza politica da collegare al dominio spagnolo, intenzionato a mantenere pieno controllo anche sulle strutture ospedaliere. Nel 1653 si contano ben otto province italiane – Roma, Napoli, Milano, Sicilia, Bari, Calabria, Basilicata, Sardegna – e sono attivi 150 ospedali.

Ma l’interferenza della corona continua a farsi sentire nella seconda metà del ‘700, soprattutto nella Provincia lombarda, quando entra a fare parte dell’Impero asburgico e subisce le vessatorie “Leggi Giuseppine”. Sorte non migliore tocca ai Fratelli che vivono la triste parentesi del dominio napoleonico.
Con il secolo XIX, tutto l’Ordine è sconvolto dal traballante rinnovamento socio-politico che segna il tramonto del vecchio regime. Il «nuovo che avanza» non è foriero di buone notizie per i Fatebenefratelli. L’ideale repubblicano avversa manifestamente la Chiesa e le sue istituzioni. Succede anche di peggio con la nascita del Regno d’Italia che, nel 1866, porta alla soppressione dell’Ordine. Ventisette dei quarantasei ospedali dei Fatebenefratelli sono requisiti: a Milano, l’ospedale Santa Maria Ara Coeli, plurisecolare sede della provincia. A Roma, nel 1878, il municipio di Roma entra in possesso dell’Ospedale Tiberino, cuore dell’Ordine; tre Fatebenefratelli non italiani, ufficialmente privati cittadini, lo comprano per 400 mila lire, nel 1892. Ma queste azioni in incognito non sono un caso isolato: in molti ospedali, i Frati di San Giovanni di Dio possono continuare a servire solo inquadrandosi in Associazione Laica Ospedaliera.

Gradualmente l’ondata anticlericale diminuisce e l’Ordine in Italia riprende quota. Nascono nuovi ospedali. Dal 1968 i Fatebenefratelli delle due Province italiane procedono alla classificazione degli istituti, con tutti i relativi adeguamenti, per inserirli nel piano sanitario nazionale. Oltre all’Ospedale sull’Isola Tiberina e l’Ospedale S. Pietro, sulla via Cassia, la Provincia romana conta oggi sei centri assistenziali: Napoli, Benevento, Genzano, Perugia, Palermo, Alghero. Più lungo l’elenco per la Provincia lombardo-veneta: quattordici i centri nell’Italia settentrionale: Brescia, Cernusco sul Naviglio, Erba, Gorizia, Milano, Romano d’Ezzelino, S. Colombano al Lambro, San Maurizio Canavese, Solbiate Comasco, Trivolzio, Varazze, Venezia nonché l’Ospedale Sacra Famiglia di Nazareth, in Israele.

Inoltre lo spirito missionario ha spinto i religiosi a fondare e sostenere due ospedali in Africa, ad Afagnan, nel Togo, e a Tanguiéta, nel Benin che oggi formano, insieme al centro nutrizionale di Porga (Benin) la Delegazione generale S. Riccardo Impuri. Sempre della Provincia lombardo-veneta è il Centro Studi Fatebenefratelli di Monguzzo, un castello trecentesco donato per lascito testamentario. Oggi è adibito a centro studi ospedalieri e luogodi congressi e convegni di carattere sanitario e religioso. Struttura di grande suggestione, presenta fra l’altro una Biblioteca ricca di oltre 10.000 volumi, e la Sala consiliare, al primo piano, che ospita ogni tre anni i Capitoli Provinciali dell’Ordine.

Il carisma dell’ospitalità

Povertà, castità e obbedienza sono i tre voti classici comuni a tutti gli ordini religiosi. I Fatebenefratelli aggiungono un quarto voto, dettato dal carisma specifico del loro Ordine, che è l’ospitalità. Ospitalità come amore verso Dio e verso il prossimo. Concetti astratti? Al contrario, molto concreti: assistere gli infermi, raccogliere l’elemosina per la loro sopravvivenza – «Fratelli, fate il bene a voi stessi dando l’elemosina ai poveri» è il celebre invito di San Giovanni di Dio – esercitare un attivo apostolato con “donne di vita”, imboccare la professione medica non per fare soldi, ma per servire l’uomo, in particolare il più bisognoso… Questo è, secondo la lezione di San Giovanni di Dio – e di San Giovanni Grande, di San Riccardo Pampuri, DI San Benedetto Menni, come di tutti gli altri confratelli che hanno dedicato la propria vita alla «santa ospitalità» – il senso autentico del Vangelo, da vivere con eroica coerenza. La lezione resta valida.

Perché la vita dei santi continua a esercitare questa funzione splendidamente esemplare? Perché sono uomini come noi, calati nella realtà precisa e contingente della storia. Non è solo questione d’essere cristiani, ma uomini autentici. Tutti si riconoscono nell’umanità. E i santi rappresentano concretamente e umanamente la possibilità di imitare Cristo. In ogni epoca storica, essi riescono a incarnare la Parola di Dio nella realtà del proprio tempo, nonostante le condizioni spirituali, sociali, politiche ed economiche più o meno avverse, perfino tragiche.

Come scrive il Superiore Generale dell’Ordine, Fra Pascual Piles Ferrando: «Giovanni di Dio può considerarsi a pieno titolo come un modello della “Nuova Ospitalità”, perché ha saputo coniugare l’amore verso Dio e l’amore verso il prossimo incarnandolo nella realtà concreta del suo tempo con grande capacità organizzativa dell’assistenza e con una chiara visione del futuro».

L’ ospitalità è quindi la chiave di lettura per comprendere come lo spirito dell’Ordine di San Giovanni di Dio si sia manifestato nei cinque secoli della sua storia. E’ un carisma “operativo”, l’ospitalità. E’ la speranza. «Nell’ospitalità, la speranza pensa che un giorno gli ospedali saranno centri di vita e di salute, capaci di risanare integralmente l’uomo sofferente; saranno luoghi capaci di generare a nuova vita le persone, anche se non saranno riusciti a eliminare la malattia» ha giustamente sostenuto Giovanni Cervellera, facendo intendere una fede che in prospettiva è sicuramente quella «realizzazione del Regno di Dio nell’ambiente sanitario» che è il traguardo spirituale dell’Ordine Ospedaliero dei Fatebenefratelli.

Ma è anche una testimonianza concreta della potenza carismatica dell’ospitalità. Un’ospitalità che si presenta naturalmente «nuova» allorché trasmette alle persone di buona volontà il modo di osservarla. E lo trasmette, puntualmente, in ogni epoca. Anche nella nostra. Quali dunque i contenuti dell’attuale “Nuova Ospitalità”? Si tratta di venire in soccorso di questa società, disorientata ma orgogliosa delle sue conquiste, con i valori immutabili della carità. Come scrive Fra Marco Fabello: «I grandi significati dell’ospitalità, oggi, si manifestano concretamente nella solidarietà e nell’attenzione alle persone che ci stanno vicine e che vivono nel bisogno e nella povertà fisica, intellettuale e morale».

Con la scelta fatta, dal 1968 in poi, di procedere alla classificazionedegli istituti per inserirli nel piano sanitario nazionale, i Fatebenefratelli danno l’ennesima dimostrazione del valore “operativo” dell’ospitalità. Un valore che è sotto i nostri occhi, in quasi tutti i centri assistenziali, con continui e attenti lavori di ristrutturazione e di ammodernamento nonché di imponenti ampliamenti delle strutture, ma soprattutto con l’assunzione di una nuova impostazione nella conduzione della struttura ospedaliera.

Un adeguamento in prima analisi legislativo, per rispettare i caratteri di «controllo di gestione – verifica della qualità» che sono alla base della nuova normativa sanitaria nazionale; ma un adeguamento che tale non è, se considerato dal punto di vista più profondo del carisma dell’ospitalità. E’ allora piuttosto un’adesione naturale alla propria vocazione: il mandato ricevuto da Cristo per curare gli infermi con gioia, comprensione e umanità. Ed è appunto quest’ultimo, l’umanità del servizio, un tema di importanza capitale per comprendere lo spirito della missione ospedaliera dei Fatebenefratelli.

«La vocazione ospedaliera che abbiamo ricevuto è un dono che si sviluppa in noi nella misura in cui rispondiamo ogni giorno all’invito di Dio che ci chiama a identificarci con Cristo nell’amore verso gli uomini e specialmente nel servizio agli ammalati e ai bisognosi». ex art. 53 Costituzioni dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio “Voi siete chiamati a umanizzare la malattia”.

Ma nonostante questo, anche se la degenza è a breve termine, così come la prospettiva di recupero fisico, anche se non siamo soli, c’è per tutti un momento di riflessione, qualche volta di paura. Più della sofferenza fisica – uno stato critico complessivo dell’essere, che ognuno di noi è più o meno capace di affrontare e superare – è lo spaesamento da noi stessi che colpisce e che rende insicuri.

Questa sensazione di spaesamento la provano tutti. Oltre quella sottile cortina trasparente che divide la salute dalla malattia, la realtà non è più come prima: ora siamo noi i malati, siamo noi gli “estranei” e forse pensiamo alle numerose occasioni in cui abbiamo incontrato un malato e non l’abbiamo riconosciuto… “Queste persone che sono qui con me, ora, come mi vedono? Sono diventato anch’io un estraneo per loro?” Potrebbe essere questo, forse, il pensiero fisso di quello stato “sottile”, nel quale lo spazio e il tempo sembrano sfuggire di mano. Lo stato che si chiama malattia.

«C’è un legame misterioso e concreto tra la malattia e la riconciliazione, perché nella malattia l’uomo è capace di riflettere, di pensare al suo destino, al mistero della vita e della morte, di pensare a Dio». Così si è espresso Fra Pierluigi Marchesi, ex Priore Generale dell’Ordine dei Fatebenefratelli, per sottolineare la ricchezza di senso che la malattia e la sofferenza possono avere per la vicenda esistenziale di ognuno. I malati non sono degli estranei. Sono dei «profeti del senso» che, con il loro dramma personale, ci ricordano chi siamo e perché esistiamo.

Grazie alla loro prova, spesso disperata, capiamo che la nostra vita non è un sistema chiuso, ma un passaggio. La risposta che l’uomo dà alla sua sofferenza lo può cambiare. E può cambiare anche gli altri: famiglia, medici, infermieri… se solo i “normali” fossero meno distratti dalla buona salute e dalla voglia di vivere. Il malato invece sa, quantomeno lo sente, che i contenuti della sua vita quotidiana – lavoro, tempo libero, la ricerca del successo – non hanno sussistenza in sé. Ora che è costretto a un letto d’ospedale, s’interroga sul senso della vita, della sofferenza, della morte; nessuna delle sue certezze di prima serve più. Perfino la fede, se c’è, qualche volta vacilla.

Il malato cerca allora qualcuno. Quel qualcuno siamo tutti noi, oltre naturalmente al personale ospedaliero, che è in prima linea ogni giorno nella lotta contro la sofferenza degli ammalati. Ecco perché occorre riflettere ogni volta che si incontra la malattia: per imparare a riconoscerla, per comprenderne il senso, per riuscire a rapportarsi con l’ essere individuale che dolorosamente incarna quello stato critico. Perché l’ospedale è stato creato per lui.

Ancora Fra Pierluigi Marchesi, dal discorso pronunciato nell’ottobre 1983, al VI Sinodo dei Vescovi: «Se il malato non è al centro dell’ospedale, al centro degli interessi di tutti gli operatori, altri si mettono al suo posto. Non è raro negli ospedali vedere emergere la centralità del medico, o dell’amministratore, o del sindacalista, o del religioso: tutti usurpatori, perché il posto centrale non spetta ai medici, né agli infermieri, né agli amministrativi, né alla comunità dei religiosi o delle religiose.» Non c’è dubbio quindi che l’esperienza religiosa della malattia sia una testimonianza preziosa della centralità del paziente rispetto al “sistema ospedale”.

Saper ascoltare è l’atteggiamento ideale per avvicinare il malato. Non è facile. Le persone che lo prendono in cura, dopo le prime domande e l’avvio della cura, non gli danno più attenzione. Soprattutto non hanno tempo per ascoltare i problemi di fondo che lo preoccupano più della stessa sofferenza; gli infermieri sono assorbiti dai compiti professionali; i medici si interessano della malattia e dell’esecuzione scrupolosa della terapia.

Tutto nella vita del paziente è misurato, quantificato, programmato nel tempo come in una tabella di marcia. Niente di strano, certo, quando è un’entità fisica – il corpo – che va rimessa in ordine. Ma questo corpo non è materia inerte: appartiene a una persona. Se curare è rispondere ai bisogni del malato, allora si deve tenere conto anche della sua persona, di quello che sente e risente. E per questo non c’è che la qualità del silenzio. Un silenzio abitato da due persone. Lì c’è l’ospitalità, che è comprensione, attenzione, comunione nella domanda sul senso da dare all’avventura umana.

 

DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II ALLA COMUNITÀ RELIGIOSA DEI FATEBENEFRATELLI

Domenica 5 aprile 1981


1. Ho desiderato quest’incontro unicamente con voi, carissimi religiosi dell’Ordine ospedaliero di san Giovanni di Dio, perché mi premeva di esprimervi, insieme con la stima, la viva gratitudine che nutro per il servizio reso a questa città dalla vostra Congregazione nel corso di questi quattro secoli di storia. Non ripeto quanto ho già detto, sia pure in sintesi, solo poco fa. Ma quale poema di carità, di abnegazione, di altruismo è stato scritto dai Fatebenefratelli a partire da quel 25 marzo 1581, “che fu il primo giorno che i detti fratelli cominciarono a curare i poveri in questa città”, come è riferito testualmente in una “Memoria” dell’epoca! Né dimentico l’opera discreta, silenziosa e tanto efficace che svolgete in Vaticano, da quando Pio IX, nel 1874 vi chiamò a gestire il “servizio farmaceutico per la notte”.

Un così vasto e generoso impegno di dedizione alla cura degli infermi ha tratto origine e stimolo dalla testimonianza di quell’umile servitore dei poveri che fu san Giovanni di Dio, il quale usava firmarsi “Io frate zero”, secondo una probabile interpretazione dell’enigmatica sigla che egli soleva apporre in calce alle sue lettere. Per operare le sue meraviglie, Dio ha bisogno di strumenti che siano pienamente consapevoli della propria nullità, perché solo persone di questo genere sanno abbandonarsi, senza opporre resistenze, alle iniziative imprevedibili del suo amore.

Il vostro fondatore fu uno strumento siffatto e Dio lo ha scelto per “confondere i forti” (1Cor 1,27), e farne il padre di una così numerosa e benemerita Famiglia di anime generose.

2. Figli carissimi, avete alle vostre spalle il ricchissimo patrimonio di esempi virtuosi, che la lunga schiera dei vostri confratelli è andata accumulando nel corso di questi quattrocento anni di presenza in Roma e in tante altre parti del mondo. Coltivate in voi la legittima ambizione di emularne la testimonianza di fede intrepida e di carità senza confini. Sono significative, a questo proposito, le parole con cui il primo biografo del vostro fondatore descriveva lo zelo e il fervore della Comunità primitiva, raccoltasi nell’Ospedale di Granada. Con cenni rapidi ma efficaci egli annotava: “Tutti quelli che entrano qui per servire, servono con carità e per amor di Dio, senza che nessuno riceva salario. E così la casa è servita meglio che qualsiasi altra casa del mondo, perché tutti vi entrano per salvare la propria anima esercitandosi nella carità, e ciascuno fa più che può, senza che sia necessaria alcuna riprensione” (F. De Castro, Storia della vita e sante opere di Giovanni di Dio, Roma, 1975, p. 119).

In un tempo come il nostro, nel quale la cura del malato rischia di passare in second’ordine di fronte all’affermazione di altri valori ritenuti prevalenti, è quanto mai urgente che vi sia chi testimoni con l’esempio e con la parola la superiore dignità della persona, specialmente se debole ed indifesa. Le parole di Cristo: “Ero malato e mi avete visitato”.(Mt 25,36), sono lì a ricordare che tale dignità sussiste in ogni essere umano foss’anche il più misero e che mai può essere sacrificata in vista d’un guadagno, fosse anche il più rilevante..

Voi conoscete la risposta che san Giovanni diede all’Arcivescovo di Granada, il quale lo esortava a “ripulire l’ospedale”, estromettendone alcuni malati indisciplinati e litigiosi. Il biografo riferisce che il santo “ascoltò con molta attenzione tutto ciò che il suo Prelato gli diceva, e con molta umiltà e mitezza gli rispose: “Padre mio e buon Prelato, io solo sono il cattivo, l’incorreggibile ed inutile, che merito di essere scacciato dalla casa di Dio. I poveri che stanno nell’ospedale sono buoni, e di nessuno di essi conosco alcun vizio, E poi, giacché Dio tollera i cattivi e i buoni, ed ogni giorno fa sorgere sopra di tutti il suo sole, non è ragionevole scacciare gli abbandonati e gli afflitti dalla loro propria casa”” (F. de Castro, Storia della vita e sante opere di Giovanni di Dio, Roma, 1975, p. 103).

3. All’esempio di una carità evangelica così consequenziale e così disarmante si sono formati innumerevoli fratelli del vostro Ordine. Viene spontaneo ricordare qui soprattutto la figura luminosa di Fra Riccardo Pampuri, che il prossimo quattro ottobre sarà elevato alla gloria degli Altari. Gli esempi di virtù di questa, e di tante altre anime sante, che hanno militato nelle file del vostro Ordine, costituiscono quel patrimonio prezioso, di cui parlavo all’inizio. Ciascuno di voi ne può andar fiero, per trarne ispirazione e stimolo nelle piccole e grandi scelte, mediante le quali egli è chiamato a dare senso alla propria vita.

Il mio augurio e che ciascun religioso dell’Ordine sappia trarre da tali esempi indicazioni concrete, capaci di orientare la sua azione in mezzo ai malati, elevandone il significato a testimonianza di quella presenza misteriosa, e pur reale, con cui Cristo continua a passare tra i sofferenti di oggi “beneficando e risanando”, come un tempo passava tra gli infermi della Palestina (cf. At 10,38). Con questi voti, imploro su di voi, sui vostri ammalati e su tutte le persone a voi care l’abbondanza delle consolazioni celesti, in pegno delle quali vi imparto di cuore la mia apostolica benedizione.

“Carissimi, stringendovi a Cristo, (la vita battesimale!) pietra viva…anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale (la nostra Chiesa, la parrocchia di cui celebreremo la festa l’8 di maggio, e il Regno di cui è segno e strumento).

La Chiesa, e la comunità parrocchiale è mediazione visibile di appartenenza, si edifica con pietre vive, scelte: adatte a svolgere il loro ruolo in tale edificio spirituale.

Verifichiamo allora se ci sentiamo parte e come, della Chiesa e quale servizio in essa svolgiamo e quale tensione verso il Regno ci anima. Ai cristiani infatti sono aperti campi immensi di impegno, dall’affido della missione fatta da Gesù: <<Come il Padre ha mandato me, così io mando voi>>

E poco fa – lo abbiamo proclamato – <<In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre>>. “Onore dunque a voi che credete”!.

Un esempio di questo impegno lo abbiamo udito raccontare nel brano degli Atti. C’era bisogno di provvedere ai poveri (…mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio – aveva detto Gesù nella Sinagoga di Nazareth – ) e gli apostoli invitano la comunità a provvedere e riorganizzare il servizio: <<Cercate dunque tra di voi…li presentarono quindi agli apostoli …i quali imposero loro le mani >> (è anche indicazione di metodo!)

Ancora oggi la nostra comunità dunque ha bisogno di adempiere a questo compito: “i poveri li avrete sempre con voi” ci aveva avvertiti Gesù! L’aveva detto non solo come realistica prospettiva storica ma come sottolineatura di un impegno per amici affidabili. Si, amici affidabili “se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi…ma vi ho chiamato amici-Gv15,15- (Tante volte sentiamo – come è vero – di essere soltanto servi inutili -Lc 17,10-. Ciò nonostante, il Signore ci chiama amici perché ci dona la sua amicizia, ci fa suoi amici ) …Vi ho costituito (ed è Lui che ci abilita a questa fattiva amicizia!) perché andiate e portiate frutto”. Verifichiamo un aspetto di questo impegno per i poveri.

Di fronte alla povertà può nascere la tentazione di prescindere da Cristo per dedicarsi a urgenze pressanti.

  • La tentazione di “prima migliorare la terra e poi trovare anche Cristo”.
  • La tentazione di cambiare prima le strutture, trasformando il cristianesimo in un moralismo prima, in una politica poi, riducendo il credere ad un fare.
  • Tentazione da lui vinta , diceva nel febbraio scorso l’allora card. Ratzingher, ai funerali di don Giussani. “Questa sarebbe stata una caduta nei particolarismi, una perdita dei criteri di orientamento e di conseguenza non la costruzione della comunione ma la divisione.”
  • Tentazione in cui non è caduto don Giussani, a partire dalla sua fede imperterrita, a partire da un innamoramento in Cristo, sottolineava l’attuale Papa. “Ha capito che il cristianesimo non è un sistema intellettuale, un pacchetto di dogmi, ma un incontro, una storia d’amore e un avvenimento. Questo gli ha dato il dono del discernimento in un tempo pieno di tentazioni

E questo ha dato la capacità, in tempi particolarmente difficili (ne faremo, spero, solenne memoria domani, 25 aprile!) a tanti in Italia e in Europa di essere “ribelli per amore” pagando con il rischio e a volte con la propria vita la scelta di libertà propria e altrui (inscindibili !) nella verità del rispetto della persona. La mancanza di questo ha portato molti che si credevano cristiani a confondere resistenza con rivoluzione verso una dittatura di altro segno, caratterizzando, a volte, con violenze e assassini il proprio agire.Senza Dio non si costruisce niente di bene. Ma “Dio rimane enigmatico se non riconosciuto nel volto di Cristo”. E’ affermazione questa di Benedetto XVI° che traduce bene le parole di Gesù che abbiamo appena proclamato: “Se conoscete me conoscerete anche il Padre…Chi ha visto me, ha visto il Padre…Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”.

La comunità, anche la nostra, ha bisogno di tante altre pietre vive che sostengano tanti altri settori dell’edificio spirituale: di papà e mamme educatori nella fede, di catechisti , di persone disponibili al servizio di anziani, di diversamente abili, di emarginati, … Nascono allora alcune urgenti domande:

  • La nostra comunità valorizza al meglio le disponibilità che ha…?
  • Riesce a ricoprire i ruoli che rimangono scoperti…?
  • Riesce ad aiutare ciascuno a discernere il proprio carisma …?

Forse poi in alcuni di noi prende il sopravvento una specie di dubbio sulla propria capacità, dubbio che paralizza. Altri ferma il pensiero che manca il tempo…

Credo che la soluzione alle perplessità riguardo la decisione e la modalità di impegno in una comunione di volontà con Gesù, sia sempre il “conoscere Gesù”. Una conoscenza che partendo dal diritto consapevole a conoscere Cristo perché è la sola possibilità di realizzarsi in pienezza, secondo la nostra autentica natura di uomo o donna, il nostro originario destino, sfoci poi nell’accogliere la Sua amicizia. Gesù ci ha donato i mezzi per coltivare questa amicizia e santa madre Chiesa ce li propone abitualmente. Dobbiamo solo deciderci

**********************

NB: “a partire da quel 25 marzo 1581, “che fu il primo giorno che i detti fratelli cominciarono a curare i poveri in questa città, come è riferito testualmente in una “Memoria” dell’epoca!”

LA DEVOZIONE AL S. CUORE FA DEL DOTT. ERMINIO PAMPURI UN SANTO – Angelo Nocent

San Riccardo Pampuri: dalla contemplazione all’azione

Sballottato tra una religione troppo intimista e un impegno chiuso nell’orizzontalismo, l’uomo d’oggi deve ritrovare il giusto quilibrio. È valido per tutti l’imperativo della lettera pastorale del Cardinal Martini: “Ripartiamo da Dio!”, per riconoscerlo poi nei fratelli e portarlo loro. “Chi non conosce il volto di Dio attraverso la contemplazione, non lo potrà riconoscere nell’azione, sebbene risplenda sul volto degli umiliati e oppressi”.

Esperienza ed esperienze di Cristo

“Parlando dell’esperienza di Cristo, ci si riferisce non ad esperienze o momenti speciali di presenza avvertita, ma ad una maturazione crescente in noi di tutta la vita cristiana, centrata sulla persona di Cristo. E’ un percorso lento e graduale che converte la conoscenza in incontro, l’incontro in amicizia, l’amicizia in trasformazione”. È la “mistica dell’ordinario”, è la religiosità dei poveri, è la santità di tutti e per tutti, come la “piccola via” di santa Teresa di Gesù Bambino e di Charles de Foucauld.

«Le cose che hai udite da me, trasmettile a persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a loro volta anche altri» (2 Tim 2,2)

«Ma tu, uomo di Dio, … tendi alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede.» (1 Tm 6,11-12)

  • Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’Amore che Dio ha per noi.” (1Gv 4, 16)

  • Quando Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi … subito … partii …” (Gal 1, 15-17)

  • Ed essi si dissero l’un l’altro: Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?” (Lc 24, 32)

  • Maestro io ti seguirò dovunque andrai!” Gesù gli rispose: Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli dell’aria i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo.” (Mt 8, 19-20)

  • Cammina umilmente con il tuo Dio!” (Mi 6, 8)

  • Ho sentito la voce del Signore che diceva: “Chi potrò mandare? Chi andrà per noi? E io dissi: Eccomi manda me!” (Is 6, 8)

  • Mi fu rivolta la Parola del Signore: “Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato …” (Gr 1, 4-5)

  • Ecco io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai; poi ti farò ritornare in questo paese, perché non ti abbandonerò senza aver fatto tutto quello che ti ho detto”. (Gn 28,15)

  • Il Signore disse ad Abram: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò!” (Gn 12, 1)

S. RICCARDO PAMPURI IN BREVE

San Riccardo nasce il 2 agosto 1897 a Trivolzio (PV). Rimasto orfano a soli tre anni, fu accolto nella casa di due zii materni che lo allevarono come un figlio, dandogli una solida formazione religiosa unita all’esempio di una generosa carità. Durante gli studi universitari e il servizio militare approfondì la sua spiritualità facendosi terziario francescano e impegnandosi attivamente anche nell’apostolato della cultura.

Nel 1915 si iscrive alla facoltà di Medicina presso l’Università di Pavia dove si laurea a pieni voti nel 1921. Più che un medico, il Pampuri era un istituzione di carità, come confermano le molte testimonianze dei pazienti che furono curati da lui. Professionalmente preparato, generoso e instancabile ad ogni chiamata, si era proposto di vedere Gesù nei suoi malati, che lo amavano e lo seguivano anche come indiscusso “leader” spirituale.

La decisione di abbracciare la vita religiosa era andata maturando nel dottor Pampuri mano a mano che egli approfondiva la sua esperienza di fede. Trovò nell’Ordine dei Fatebenefratelli il modo ideale di conciliare la sua professione di medico con la sete di Dio che lo bruciava da sempre.

Gli bastarono tre anni per sigillare la sua intensa esperienza di fede e di amore con una morte serena. Fra Riccardo Pampuri morì a Milano il 1 maggio 1930, a soli 33 anni. I suoi funerali furono un autentico trionfo popolare, a conferma della sua fama di santità. Il 1 aprile 1949 l’Arcivescovo di Milano, Cardinal Schuster, apriva il processo di canonizzazione di Fra Riccardo Pampuri.

Il 4 ottobre 1981, Fra Riccardo veniva dichiarato beato. Il 1 novembre 1989 fu canonizzato con una solenne cerimonia presieduta da Papa Giovanni Paolo II (fu la prima canonizzazione dopo l’attentato che il Papa subì in Piazza San Pietro). San Riccardo è il Santo del nostro tempo: semplice, umile, preparato, dedito ai malati, apostolo, sereno, credente, Un testimone in tutto e per tutto.

  • A lui possono salutarmente guardare, per la sua ardente fede, i medici cattolici;

  • a lui possono utilmente ispirarsi tutti gli operatori sanitari per la sua rigorosa coscienza professionale;

  • a lui possono fiduciosamente rivolgersi tutti gli ammalati per apprendere come vivere la loro sofferenza e per chiederne l’intercessione;

  • come lui i giovani possono generosamente dare un senso allo loro vita e incarnare i veri ideali umani e cristiani.

IL DRAMMA UMANO

“9Ma Dio, il Signore, chiamò l’uomo e gli disse: – Dove sei? 10 L’uomo rispose: – Ho udito i tuoi passi nel giardino. Ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nascosto. 11Gli chiese: – Ma chi ti ha fatto sapere che sei nudo? hai mangiato il frutto che ti avevo proibito di mangiare? 12L’uomo gli rispose: – La donna che mi hai messo a fianco mi h offerto quel frutto e io l’ho mangiato. 13Dio, il Signore, si rivolse alla donna: – Che cosa hai fatto? Rispose la donna: – Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato.

Il castigo

14 Allora Dio, il Signore, disse al serpente: “Per quel che hai fatto tu porterai questa maledizione fra tutti gli animali e fra tutte le bestie selvatiche: Striscerai sul tuo ventre e mangerai polvere tutti i giorni della tua vita. 15 Metterò inimicizia fra te e la donna, fra la tua e la sua discendenza. Questa discendenza ti colpirà al capo e tu la colpirai al calcagno”. 16Poi disse alla donna: “Moltiplicherò la sofferenza delle tue gravidanze e tu partorirai figli con dolore. Eppure il tuo istinto ti spingerà verso il tuo uomo, ma egli ti dominerà!”.

17 Infine disse all’uomo: “Tu hai dato ascolto alla tua donna e hai mangiato il frutto che ti avevo proibito. Ora, per colpa tua, la terra sarà maledetta: con fatica ne ricaverai il cibo tutti i giorni della tua vita. 18Essa produrrà spine e cardi, e tu dovrai mangiare le erbe che crescono nei campi. 19 Ti procurerai il pane con il sudore del tuo volto, finché tornerai alla terra dalla quale sei stato tratto: perché tu sei polvere e alla polvere tornerai”.

Cacciati via dall’Eden

20L’uomo chiamò la sua donna con il nome di “Eva” (Vita) perché è la madre di tutta l’umanità.

Sono le parole del Santo Padre, Giovanni Paolo II: «Voi siete chiamati a umanizzare la malattia». Un messaggio rivolto all’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio per la promozione di una medicina più umana, con il malato e per il malato. Un messaggio che deve essere trasformato in progetto di vita da chi vede nella malattia – fisica, mentale, morale che sia – un’ opportunità di crescita e non solo uno spiacevole incidente di percorso.

Nessun uomo sano si riconosce nella malattia e nei malati. E’ estranea la malattia, come una condizione cui non si appartiene, ed estranei sono imalati, perché privati di quelle facoltà che si ritengono normali: parola,vista, udito, libertà nei movimenti, autonomia nell’espletare le funzioni fisiologiche… Eppure tutti, prima o poi, facciamo l’esperienza di un ricovero in ospedale: quando va bene, per il classico piccolo intervento;ancora meglio, se al nostro fianco ci sono i familiari, ad assisterci con l’amore che addolcisce ogni sofferenza. E’ allora che si pensa: “per fortuna non sono solo.”

Qui si fonda tutta l’antropologia e l’eccelsa dignità spirituale dell’essere umano. Di questo annuncio i mistici sono gli araldi più convincenti. Questa grazia è specialissima, straordinaria e non ha niente a che vedere con fenomeni miracolosi di vario genere (aure luminose, levitazione, stimmate ecc.). Neppure consiste nelle visioni o nelle locuzioni interiori.

Beatificazione

Giovanni Paolo II: “4. Erminio Filippo Pampuri, decimo di undici figli, a 24 anni è medico condotto e a 30 anni entra nell’Ordine Ospedaliero di san Giovanni di Dio (Fatebenefratelli). Solo tre anni dopo moriva. È una figura straordinaria, vicina a noi nel tempo, ma più vicina ancora ai nostri problemi ed alla nostra sensibilità. Noi ammiriamo in Erminio Filippo, diventato nell’Ordine Fra Riccardo Pampuri, il giovane laico cristiano, impegnato a rendere testimonianza nell’ambiente studentesco, come membro attivo del Circolo Universitario “Severino Boezio” e socio della Conferenza di san Vincenzo de’ Paoli; il dinamico medico, animato da una intensa e concreta carità verso i malati e i poveri, nei quali scorge il volto del Cristo sofferente.

Egli ha realizzato letteralmente le parole, scritte alla sorella suora, quando era medico condotto: “Prega affinché la superbia, l’egoismo e qualsiasi altra mala passione non abbiano ad impedirmi di vedere sempre Gesù sofferente nei miei malati, Lui curare, Lui confortare. Con questo pensiero sempre vivo nella mente, quanto soave e quanto fecondo dovrebbe apparirmi l’esercizio della mia professione!”.

Lo ammiriamo anche come religioso integerrimo di un benemerito Ordine, che, nello spirito del suo Fondatore san Giovanni di Dio, ha fatto della carità verso Dio e verso i fratelli infermi la propria missione specifica e il proprio carisma originario. “Voglio servirti, o mio Dio, per l’avvenire con perseveranza ed amore sommo: nei miei superiori, nei confratelli, nei malati tuoi prediletti: dammi la grazia di servirli come servirei Te”: così scriveva nei propositi in preparazione alla professione religiosa.

La vita breve, ma intensa, di Fra Riccardo Pampuri è uno sprone per tutto il Popolo di Dio, ma specialmente per i giovani, per i medici, per i religiosi. Ai giovani contemporanei egli rivolge l’invito a vivere gioiosamente e coraggiosamente la fede cristiana; in continuo ascolto della Parola di Dio, in generosa coerenza con le esigenze del messaggio di Cristo, nella donazione verso i fratelli.

Ai medici, suoi colleghi, egli rivolge l’appello che svolgano con impegno la loro delicata arte animandola con gli ideali cristiani, umani, professionali, perché sia una autentica missione di servizio sociale, di carità fraterna, di vera promozione umana. Ai religiosi ed alle religiose, specialmente a quelli e quelle che, nell’umiltà e nel nascondimento, realizzano la loro consacrazione fra le corsie degli ospedali e nelle case di cura, Fra Riccardo raccomanda di vivere lo spirito originario del loro Istituto, nell’amore di Dio e dei fratelli bisognosi.” (04. 10. 1981)

DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II ALL’ASSEMBLEA DEI SUPERIORI E DELLE SUPERIORE D’ITALIA

Castelgandolfo, 15 ottobre 1981

1. Desidero manifestarvi anzitutto, la mia sincera gioia per questo incontro con voi, esponenti qualificati degli Ordini e Congregazioni maschili e femminili d’Italia, qui accompagnati dal Segretario della Sacra Congregazione per i religiosi, che rappresentate centoventi Istituti maschili, con trentasettemila religiosi, e seicentocinquanta Istituti femminili, con centoquarantacinquemila religiose.

Alla legittima letizia per questo incontro desidero aggiungere anche il vivo compiacimento per codesta assemblea nazionale congiunta che si realizza per la prima volta in Italia e che è stata preparata dagli Organismi interessati con ammirevole impegno sia per quanto concerne la parte liturgica – preghiera comunitaria e celebrazioni eucaristiche – sia per il numero, l’ampiezza e la profondità dei temi meditati e studiati insieme, che vertono sulla presenza e il valore della vita religiosa nella Chiesa e nel mondo, sull’efficacia e l’apporto della vita religiosa nella costruzione della Chiesa, nonché sul tema specifico della vita religiosa di fronte ai mutamenti culturali e strutturali della società italiana, nella quale voi tutti, fratelli e sorelle, siete chiamati ad operare apostolicamente ed a rendere esemplare ed incisiva testimonianza della fecondità della vostra donazione totale a Dio.

2. Questi temi di fondo, nonché i molteplici argomenti di studio, che sono in questi giorni trattati dai lavori di gruppo – quali, ad esempio, la spiritualità dell’azione, la pastorale vocazionale, le comunicazioni sociali e la vita religiosa, il coordinamento per un migliore servizio ecclesiale, eccetera – affrontati congiuntamente, sono rivolti a sottolineare il fatto che, se distinta è l’organizzazione, la vita, l’attività apostolica dei religiosi e delle religiose, comune ne è tuttavia la formazione religiosa, in quella fondamentale ed ineliminabile “dimensione contemplativa”, che sta alla base della consacrazione religiosa, la quale è una risposta generosa e totalizzante alla chiamata di Gesù: “Sequere me” (cf. Mc 2,14; Lc 5,27).

Questa dimensione originaria della vita religiosa è stata sottolineata dal Concilio Vaticano II, che ha raccomandato ai religiosi ed alle religiose il primato della vita spirituale, e quindi l’amore a Dio, che per primo ci ha amato, la vita nascosta con Cristo in Dio, lo spirito di preghiera, l’amore per il prossimo per la salvezza e per l’edificazione della Chiesa (cf. , 6); è stata ancora ribadita dal mio predecessore Paolo VI nella sua esortazione apostolica circa il rinnovamento della vita religiosa secondo l’insegnamento del Concilio, quando vi ha detto: “Un’attrattiva irresistibile vi trascina verso il Signore.

Afferrati da Dio, voi vi abbandonate alla sua azione sovrana, che verso di Lui vi solleva ed in Lui vi trasforma, mentre vi prepara a quella contemplazione eterna, che costituisce la nostra comune vocazione” (Paolo VI, , 8); è stata inoltre ampiamente illustrata dal recente documento, emanato nel marzo dello scorso anno dalla Sacra Congregazione per i religiosi e gli Istituti Secolari sulla “dimensione contemplativa della vita religiosa”, che è uno dei testi, che in questi giorni state analizzando e meditando nella riflessione congiunta.

È comune l’impegno per la promozione della persona, mediante l’inserimento nei molteplici aspetti della vita sociale, la varietà delle opere e delle attività condotte dai religiosi e dalle religiose a favore dell’uomo, nella organica comunione ecclesiale e in fedeltà dinamica alla propria consacrazione, secondo il carisma del Fondatore, come è ricordato dalla istruzione “Religiosi e promozione umana”, promulgata dalla Plenaria del menzionato Dicastero nell’aprile del 1978. “II compimento della missione dell’evangelizzazione – si legge in tale Documento – domanda alla Chiesa di scrutare i segni dei tempi, interpretati alla luce del Vangelo, rispondendo così ai perenni interrogativi dell’uomo. Di questa dimensione profetica i religiosi sono chiamati a rendere singolare testimonianza.

La continua conversione del cuore e la libertà spirituale, che i consigli del Signore stimolano e favoriscono, li rendono presenti ai loro contemporanei in modo tale da ricordare a tutti che l’edificazione della città terrena non può che essere fondata sul Signore e a lui diretta” (Religiosi e promozione umana, Introd.).

Comune è infine l’inserimento orante e fattivo nella Chiesa locale, dalla quale i religiosi e le religiose sono nati ed alla quale prestano unitariamente il proprio servizio, nella testimonianza e nell’annuncio del Vangelo, nella reciproca collaborazione, nel coordinamento della pastorale diocesana sotto la guida del Vescovo, il cui ministero rappresenta quello di Cristo capo della Chiesa, come è lucidamente descritto nel Documento “Criteri sui rapporti tra Vescovi e religiosi nella Chiesa”, emanato nel maggio del 1978 dalla Sacra Congregazione per i Vescovi e dalla Sacra Congregazione per i religiosi e gli Istituti Secolari, in applicazione dei Documenti conciliari .

3. Carissimi fratelli e sorelle! La vostra consacrazione religiosa è un segno spirituale e privilegiato per la Chiesa e per il mondo! Voi seguite Cristo che, vergine e povero, redense e santificò gli uomini con la sua obbedienza spinta fino alla morte in croce. La castità, la povertà, e l’obbedienza consacrate, vissute in piena letizia, sono testimonianze prefigurative della dimensione escatologica della Chiesa e del cristiano.

La fede ci dona la certezza che la dedizione a Dio nelle varie forme di vita consacrata, pur tra difficoltà, delusioni e pericoli, non potrà non incidere nell’autentica promozione ed evoluzione culturale e sociale dell’umanità, come il grano di frumento gettato a marcire nel terreno (cf. Gv 12,24) e come il pugno di lievito confuso nella massa di farina (cf. Mt 13,33).

Ne danno piena dimostrazione i tre novelli Beati – Alain de Solminihac, Luigi Scrosoppi, Riccardo Pampuri – e le due novelle Beate – Claudine Thévenet e Maria Repetto –, che ho avuto la gioia di elevare in questi giorni agli onori degli altari. Gesù Cristo dia continuamente a voi l’abbondanza della sua grazia, perché lo possiate seguire con generosa letizia, e metta altresì nel cuore di tanti e tante giovani il germe della vocazione religiosa e doni loro la forza di farla germogliare in una generosa risposta. Affido questi voti alla materna intercessione della Vergine santissima. A voi tutti la mia benedizione apostolica.

( Santa Sede del 15/10/1981 )

SAN RICCARDO PAMPURI – (2) Nelle lettere la ricerca di un volto umano e l’esperienza del TU – Angelo Nocent

 

IL MODO DI PREGARE DEL PAMPURI

Le lettere che ho trasformato in preghiera non sono fatte per essere semplicemente recitare. Non si possono nemmeno leggere davanti a Dio così come sono. Proprio per la loro natura, esse risultano più un invito a cogliere in maniera più chiara i fondamenti della carità Riccardiana, la determinazione con cui egli procede su tale strada, la tensione cui sottopone costantemente il suo uomo interiore che accusa spesso di muoversi con pigrizia, accidia, o di far posto all’orgoglio più che all’umiltà.

Nel saggio “Teologia e santità”, scritto nel 1948, ma pur sempre di attualità, il teologo Hans Urs Von Bathasar metteva in luce lo scollamento tra il lavoro teologico, condotto con metodo scientifico, e la spiritualità della fede cristiana. Tale divaricazione, iniziata già nel medioevo, consisteva in questo: che la teologia dogmatica tradizionale sembrava uno scheletro senza carne, e la letteratura ascetica un ammasso di carne senza scheletro. Già negli anni ’30 3 ’40 si fecero diversi tentativi per ricucire tale scissione, ma la distanza tra spirito e vita, tra ragione teoretica e ragione pratica, verrà colmata grazie all’influsso del pensiero dialogico del personalismo e del pensiero filosofico esistenziale, per non parlare degli influssi della visuale storico-salvifica della Bibbia.

Se è vero che la preghiera rivela l’intimo, sarebbe assurdo cercare in queste lettere trasformate in forma di preghiera ciò che a priori non c’è: una spiritualità sistematica. Tuttavia, mi piace qui ricordare la concezione molto più ampia della preghiera che ha il teologo Karl Rhaner. Per lui ogni esperienza umana – quella della gioia o quella del dolore – ci invia al di là di se stessa nella terra di una speranza illimitata dove dimora Dio.

Ad un intervistatore che gli chiedeva “Lei prega?”, Rhaner rispose in questo modo: “Io spero di pregare. Vede, quando nella mia vita – nelle ore grandi e nelle ore piccole – mi rendo conto di essere confinante con il mistero ineffabile, santo ed amante che noi chiamiamo Dio, quando quando mi pongo davanti a questo mistero, allora io prego – spero di pregare – “. La preghiera è dunque una multiforme attenzione della fede che sa tradursi in parola. Se è così, allora è più che giustificato il tentativo di trasformare in forma di preghiera le riflessioni spirituali di Riccardo Pampuri. Ciò permette di accorgersi che i confini tra riflessione personale e preghiera sono così fluidi da confondersi.

Dalle sue riflessioni epistolari prodotte nel corso degli anni, traspare il cammino cristiano di questo giovane, si possono cogliere grida che salgono dal profondo. Per quanto sommesse e controllate, lasciano trasparire l’animo sconvolto e sconvolgente. Non mancano gli sfoghi di un cuore ferito.

Le parole, anche quelle teologiche, rischierebbero di girare a vuoto se non si traducessero in preghiera. Perché è proprio in essa che potrebbe accadere ciò di cui si stava proprio parlando. Mi ha spinto a tentare questo esperimento l’aver constatato la veridicità di un’affermazione di Rhaner che mi sembra interpretare bebe l’esistenza solo apparentemente lineare, normale, di san Riccardo Pampuri: “Dimorare nell’incomprensibilità di Dio fattasi vicina, essere amati da Dio stesso fino al punto che il primo e l’ultimo sia l’infinità e l’incomprensibilità stessa, è una realtà tremenda e beata ad un tempo. Ma non abbiamo altra scelta. Dio è con noi”.

San Riccardo nella sua breve esistenza terrena ha scelto la sua libertà nella Carità del suo Creatore: Tuus sum ego. In Te ho posto la mia fiducia. I testi che seguono ne danno testimonianza.

Come pregava Riccardo?

Indubbiamente è influenzato dalla nuova teologia messa in circolazione dalla giovane Carmelita assorta alla gloria degli altari: Teresa di Gesù Bambino che in temporecord (1923-1925) viene proclamata beata e santa. Le cronache del tempo parlano di “un uragano di gloria”.

Teologi insigni scoprono nella sua autobiografia consistenti verità teologiche e correttivi per il cammino dello spirito. Questa ragazza di 24 anni non fa che ricordare al mondo intero che davvero Dio è nostro padre, così come Cristo ce l’ha rivelato e ce lo rivela. Riccardo non può non avere attinto a queta fonte.

Un anno dopo la sua morte (1897), lo stesso anno in cui nasce Erminio Pampuri, compare “Storia di un’Anima”, un libro composto dai suoi scritti. Un semplice ed umile libro (erano modestissimi quadernetti di scuola pieni zeppi di appunti!) che in breve conquista il mondo e divulga in tutta la Chiesa il forte messaggio di questa monaca sconosciuta, che subito diventa “la ragazza più amata dal mondo”. Decine di edizioni, milioni di esemplari, traduzioni in più di 60 lingue.

La piccola Teresa agli inizi del nuovo secolo ventesimo attira folle di pellegrini alla sua tomba e al suo monastero. Guarigioni interiori, conversioni, vocazioni, miracoli, un benefico influsso denunciato ovunque sul fronte missionario. Teresa fa parlare di sé ormai il mondo intero. Dalle lettere del Pampuri e dalle testimonianze di chi l’ha conosciuto, emerge una figura molto simile alla Carmelitana. Non trovo parole riassuntive più efficaci per definirlo se non quelle della stessa Carmelitana di Lisieux: “Per me la preghiera ( io oserei dire: per me Riccardo) è uno slancio del cuore, un semplice sguardo gettato verso il cielo, un grido di gratitudine e d’AMORE, nella prova come nella gioia, insomma, è qualche cosa di grande, di soprannaturale, che mi dilata l’anima e mi unisce a Gesù” (MA 317).

Anche per Riccardo, come per Teresa, la preghiera, più che come “elevazione dell’anima a Dio”, è percepita quale “incontro della sete di Dio con la nostra sete” (S. AGOSTNO). L’esperienza di preghiera riccardiana, che è poi la stessa accessibile alla maggior parte di noi, è “mistica”, non tanto per gli eventuali effetti straordinari che potrebbe produrre, ma per Chi li produce.

Poiché Dio è sempre straordinario, la preghiera mistica nel significato reale della parola, altro non è che una preghiera in cui l’azione di Dio prende il sopravvento sull’attività dell’uomo. Bisogna sgomberare subito il campo dagli equivoci: il mistico non vede nulla, non ode alcuna parola. Dio lo conduce, misteriosamente, nell’abisso inaccessibile della Sua essenza a godere del Puro Amore. Là Egli sarà luce abbagliante che acceca ogni nostra capacità sensoriale, oscurerà il nostro intendimento.

Qualcuno potrà obiettare che la mistica spazia nel campo dell’irrazionalità, della non conoscenza, dell’indistinto. Manon è così. Dio non ci toglie nulla, né può mortificare le facoltà di cui ci ha arricchiti. Egli piuttosto, nel fondo assoluto dell’anima, ci attirerà, facendoci scoprire la Sua presenza, offrendoci il Suo lume soprannaturale, il Suo intendimento e, come ripeterà San Giovanni della Croce nel Cantico spirituale e nella Fiamma d’Amor viva, fornendoci addirittura del Suo modo di sentire. In questo incontro unitivo, Dio, per il mistero dell’Incarnazione, si spoglierà della Sua divinità, rivestendoci di Sè, divinizzandoci.

Il nostro amore e la nostra conoscenza allora, lungi dall’essere annullate, saranno potenziate, fino a divenire veramente perfette in Lui, secondo la misura della grazia. “L’ESPERIENZA DIRETTA E PASSIVA DELLA PRESENZA DI DIO”. L’imperativo del Cardinal Martini nella lettera pastorale: “Ripartiamo da Dio!”, è sempre di attualità e conditio sine qua non per coloro che vogliono riconoscerlo poi nei fratelli e portarlo loro: “Chi non conosce il volto di Dio attraverso la contemplazione, non lo potrà riconoscere nell’azione, sebbene risplenda sul volto degli umiliati e oppressi”.

Questa è la strada percorsa ed ora indicata anche a noi da San Riccardo. Parlando dell’esperienza di Cristo, ci si riferisce non ad esperienze o momenti speciali di presenza avvertita, ma ad una maturazione crescente in noi di tutta la vita cristiana, centrata sulla persona di Cristo. E’ un percorso lento e graduale che converte la conoscenza in incontro, l’incontro in amicizia, l’amicizia in trasformazione.

È la “mistica dell’ordinario”, è la religiosità dei poveri, è la santità di tutti e per tutti, come la “piccola via” di santa Teresa di Gesù Bambino e di Charles de Foucauld quella che ci propone San Riccardo Pampuri “LA PRESENZA DI DIO” Dicono gli esperti che ciò che si avverte immediatamente nella prima grazia mistica è proprio una vivissima sensazione, o invasione, della presenza di Dio in noi.

Ciò non è minimamente paragonabile alle facili suggestioni di coloro che dicono di pensarlo, di immaginarlo o di sentirlo presente nella preghiera o al di fuori di essa.Afferma San Francesco di Sales: “Or, quand je parle du sacré sentiment de la présence de Dieu, en cet endroit, je n’entends pas parler du sentiment sensible, mais de celui qui réside en la cime et suprême pointe de l’esprit“.

L’effetto di questa invasione non si riduce a emozioni più o meno tenui, è una vera e propria folgorazione, per la quale non si può rivendicare alcun merito, in quando Dio, nella Sua sovrana libertà, la dà a chi vuole, quando vuole e come vuole. Non che Dio faccia delle preferenze o abbia delle simpatie. Egli riserva però certi doni a quanti devono compiere una determinata missione utile al bene dell’umanità. E’ propriamente questo il fine della grazia gratis data.

Viene subito da chiedersi: come è possibile che Dio sia presente dentro di noi? Come può il Creatore dell’universo trovare spazio in una sua creatura e, proprio perché tale, così piccola in confronto a Lui? Purtroppo noi moderni non siamo più capaci di ragionare in termini spirituali; siamo tutti materialisti. Eppure, il nostro essere proprio è spirituale e infinito. Dio è Amore – dice la Bibbia – cioè un essere in perenne ex-stasis, cioè tutto fuori di sé, rivolto verso l’oggetto del suo amore, che siamo noi. E poiché Egli, che è l’Amore, ama perfettamente, allora si può dire senza timore di esagerare che Dio è più in noi che in se stesso, ama più noi che se stesso. Ecco perché noi siamo il luogo della Sua presenza.

Può sembrare inaudito che Dio dentro di noi non stia stretto, ma è proprio così. Quest’ultime non son altro che epifenomeni, cioè fenomeni secondari, marginali, in cui, si, è possibile l’intervento divino, ma a cui si aggiunge sempre il concorso dell’uomo; la nostra natura vi partecipa considerevolmente. In genere queste apparizioni o rivelazioni, sono facili da descrivere. I veggenti si intratterranno a precisare quanto hanno visto o udito, ma la grazia dell’unione con Dio, nell’esperienza di cui stiamo trattando, è qualcosa di molto più spirituale e ben più difficile da descrivere; non si potrà darla in pasto ai giornalisti o ai telespettatori, con grande stizza da parte dei mass media. Il mistico non vede nulla, non ode alcuna parola. Dio lo conduce, misteriosamente, nell’abisso inaccessibile della Sua essenza a godere del Puro Amore. Là Egli sarà luce abbagliante che acceca ogni nostra capacità sensoriale, oscurerà il nostro intendimento.

A chi sostiene che la mistica spazia nel campo dell’irrazionalità, della non conoscenza, dell’indistinto, va detto che Dio non toglie assolutamente nulla, né può mortificare le facoltà di cui ci ha arricchiti. Egli piuttosto, nel fondo assoluto dell’anima, ci attirerà, facendoci scoprire la Sua presenza, offrendoci il Suo lume soprannaturale, il Suo intendimento e, come ripeterà San Giovanni della Croce nel Cantico spirituale e nella Fiamma d’Amor viva, fornendoci addirittura del Suo modo di sentire.

In questo incontro unitivo, Dio, per il mistero dell’Incarnazione, si spoglierà della Sua divinità, rivestendoci di Sè, divinizzandoci. Il nostro amore e la nostra conoscenza allora, lungi dall’essere annullate, saranno potenziate, fino a divenire veramente perfette in Lui, secondo la misura della grazia. Teresa nel capitolo 10 della Storia di un’anima ricorda i primi doni celesti, ricevuti agli inizi della sua vita religiosa.

Le considerazioni che suscita il primo paragrafo sono illuminanti per cogliere la somiglianza mistica del Pampuri con la santa francese: La persona che sperimenta il dono mistico della “presenza di Dio”, dice Teresa, “è presa”, senza preavviso, mentre agisce come di consueto, pregando o leggendo, o semplicemente operando. Quando Teresa usa l’espressione “mi sembra” è assolutamente certa di quel che dice. Dio le fa sentire la Sua presenza non attraverso una visione, ma “direttamente”, senza la formazione di immagini.

A tal proposito la santa scrive:

“(Un’ anima)…può rappresentarsi il Cristo innanzi a sé e imparare ad innamorarsi della sua sacra umanità, tenendola sempre presente, parlando con Lui, implorandolo nelle necessità, affliggendosi nelle sofferenze e rallegrandosi con Lui per le gioie, senza dimenticarlo mai a causa di esse e senza andare in cerca di orazioni studiate, ma servendosi di parole che rispondano ai suoi desideri e alle sue necessità. E’ un metodo eccellente di far profitto in brevissimo tempo.

Chi si adopera a vivere in così preziosa compagnia e ad avvantaggiarsene il più possibile, amando veramente questo nostro Signore, a cui tanto dobbiamo, costui, a mio parere, è già molto progredito”.

Dunque, la connotazione specifica del cristianesimo in genere e del Pampuri nel nostro caso, non è tanto l’unione mistica, l’illuminazione, la pace interiore, o il distacco dai beni terreni, ma la “sequela di Cristo”, l’ “imitazione di Lui”. Ciò non toglie però che Riccardo sia un mistico, un contemplativo, o meglio, per giocare sui termini, un contempl-attivo.

La contemplazione è un dono immeritato, che neanche dobbiamo richiedere, perché non costituisce il fine della nostra vita. Il Signore dà le grazie mistiche a chi vuole, come vuole e quando vuole. Epperò Riccardo ha fatto ciò che era in suo potere: meditare le Scritture, uniformarsi all’umanità di Cristo che per tutti è Via, Verità e Vita.

Studiando pazientemente il Pampuri, personalmente ne ho ricavato una ri-velazione: uno svelarsi della sua ricchezza interiore che, proprio per tale ragione, non è così facilmente raccontabile, come solitamente ci si aspetta quando si parla di santi. “ESPERIENZA” L’uomo moderno, quando parla di “esperienza”, si riferisce a emozioni epidermiche, a tenui tentativi, a scoperte esigue che non hanno niente a che vedere con quello che in realtà si deve intendere con tale termine.

L’esperienza mistica è qualcosa che ha a che fare con la complessa totalità della vita dell’uomo. Supponiamo che due innamorati decidano di convivere per un limitato periodo di tempo: questa breve convivenza prematrimoniale non può essere chiamata esperienza, è solo un assaggio di vita a due. Nella mistica si verifica il contrario. Chi la sperimenta si trova inspiegabilmente cambiato e non può che sentirsi un “uomo nuovo”, violentemente attirato da Dio come da una calamita interiore e divenire ebbro, pazzo d’amore.

“DIRETTA”

“Diretto” è tutto ciò che non fa ricorso a “intermediari” e proprio per questo è im-mediato, cioè senza mediazione, non fa uso di immagini, di affetti, di prese di coscienza, di ricordi memorizzati nel corso degli anni. La filosofia ci dice che lo stesso soggetto pensante è a sua volta medium nell’azione conoscitiva, perché ha impresse in sé le immagini di ogni oggetto di conoscenza e se ne serve.

Anche il linguaggio, espressione delle innumerevoli immagini che abbiamo catalogato nel fondo della memoria, diviene mediazione dialogica. Cosa avviene allora quando Dio si comunica “direttamente” all’uomo? Egli produce una realtà interiore assolutamente “nuova” e il mistico, così si chiama colui che riceve questa autodonazione divina, vede in qualche modo svanire, scomparire, tutti gli archetipi psicologici, e non può fare riferimento ad alcuna immagine o stato d’animo, non può esprimere tale realtà interiore con un linguaggio umano, perché le parole non si adattano al divino.

Le sue descrizioni letterarie o semplicemente verbali vengono allora differite, cronologicamente, al “dopo”, a quando l’esperienza dell’unione con lo Sposo divino è terminata. Solo allora si andrà in cerca di espressioni linguistiche per descriverla. Esse saranno concettualizzazioni operate “a posteriori” da coloro che ricordano un fatto assolutamente “nuovo” e “irricostruibile”, “passato” eppure “vivissimo”, “cessato” eppure “incancellabile”.

Una similitudine può certamente aiutare a capire il concetto: il Petrarca non scrive “su Laura”; se l’avesse fatto, Laura si sarebbe dovuta lavare per ripulirsi dell’inchiostro del Petrarca. Il Petrarca scrive “di Laura” quando Laura è assente. Quando era presente i due amanti facevano di sicuro qualcos’altro. Così i mistici: non scrivono mai durante l’unione… sempre dopo.

“PASSIVA”

Essere passivi sotto l’energica azione di Dio non significa diventare degli inattivi. Purtroppo oggi si considera impropriamente il mistico, lo si immagina come un inoperoso tutto preso dalla contemplazione delle cose del cielo, nient’affatto attento e dedito ai bisogni degli uomini. Ma è falso. Bisogna sfatare questo pregiudizio. Questa azione di Dio si potrebbe paradossalmente definire come una “riattivazione passiva”. Sembra un nonsenso, ma è proprio così; ci si accorge di ricevere tutto da un Altro e questa passività genera un’attività incontenibile.

La storia ci documenta le riforme, le fondazioni e tutta l’azione di vasto ed efficace rinnovamento che i grandi mistici hanno operato nel mondo, in ogni epoca storica. Dice Bergson che i santi hanno sempre avuto un gran numero di imitatori. I propagatori di bene hanno trascinato dietro di sé folle immense e, pur non domandando nulla, hanno ottenuto. Non è necessario per loro esortare, non hanno che da esistere, la loro esistenza è un richiamo insopprimibile. Man mano che passano gli anni, ci si accorge che una folla sempre più consistente sta mettendosi sulla scia di San Riccardo Pampuri. Si comincia con il chiedere una grazia, un’intercessione…e poi succede di tutto.

PREGARE

Pregare è per Teresa come per Riccardo, porsi davanti a Dio nella sua e nostra verità, per percepirlo come MISERICORDIA e percepirsi oggetto di questa misericordia gratuita. La stessa adorazione non è più lo stupore atterrito di Giobbe (Gb 42,1s) che si mette la mano sulla bocca, ma l’atteggiamento di chi volutamente e amorosamente volge il suo sguardo verso il Volto di Dio, per adorarlo.

Riccardo, è profondamente influenzato dalla spiritualità della giovane santa, pur se mai citata, perché posta dai Pontefici del tempo all’attenzione della Chiesa Universale proprio negli anni della sua adolescenza e maturità. Il futuro Dottore della Chiesa, è portatrice di una dottrina che è una vera rivoluzione copernicana: “Non si arriva all’amore attraverso lo spirito di sacrificio, ma si arriva allo spirito di sacrificio attraverso l’AMORE”. Da chi l’ha saputo? Semplicemente dall’ aver fatto nel monastero la scoperta della MISERICORDIA quale essenza stessa di Dio che altro non è se non il “Vangelo della grazia” espresso dall’Apostolo.

Alla scuola di Teresa, Riccardo scopre che la preghiera è “Uno sguardo pieno d’amore”, con cui deve rivolgersi a Gesù, il quale – sponsalmente – “gli dilata l’anima (cioè la rende capace di ricevere e corrispondere all’AMORE divino) e la unisce a sé”. Ma poiché è “Dio che ci ha amato per primo” (Gv 4,10), anche lo sguardo di Riccardo non è che una risposta a quello di Dio.

L’esperienza della santa è coinvolgente: “Quando Gesù ha guardato un’anima, subito le dà la sua divina somiglianza, ma bisogna che quest’anima non cessi di fissare gli sguardi su di Lui” (Lettera a Celina). La “divina somiglianza”, nel contesto teresiano, non è la “deificazione” di cui parlano i Padri orientali, ma è comunque l’esperienza di sentirsi “figli nel Figlio” e poter chiamare, dal profondo dell’anima Dio: “Abba, Padre!”, meglio ancora Papà (Rm 8,15).

Conseguentemente, anche nel momento dell’aridità, Riccardo come Teresa riuscirà a farsi “rapire” e a “nutrire l’anima” sua ogni volta che reciterà il Padre nostro” (MA 318). L’esperienza di essere amati è fondamentale perché finisce per rendere “necessario” lo stesso sacrificio quale suprema prova d’amore: “Non ho altro modo di provarti il mio amore che spargere fiori, cioè non lasciarmi sfuggire nessun piccolo sacrificio, nessuno sguardo, nessuna parola, approfittare di tutte le più piccole cose e farle per amore” (MA 318).

Quando Riccardo intuisce che l’amore trasforma tutto, tutto diventa sacrificio, cioè offerta sacra a Dio. E in questo tutto ci sono, non soltanto le cose che pesano, ma anche quelle che danno gioia, perché se fatte con amore, “se sono compiute nello Spirito… “ dirà il Concilio Vaticano secondo, “diventano spirituali sacrifici graditi a Dio” (Lumen Gentium 34).

L’umiltà che personifica Riccardo, è sì convinzione del proprio nulla, ma è accompagnata da un abbandono fiducioso nelle mani del Padre. La fiducia nell’Altro prende il sopravvento su quella disistima che porta alla pusillanimità e non all’umiltà cristiana. A guardar bene, il vero modo di umiliarsi sta proprio nel sopportare consapevolmente le imperfezioni, rimanendo nella pace, perché amati da Dio, nonostante debolezze e miserie.

Dunque una SPERANZA cieca nella sua misericordia, percepita come il solo vero tesoro. Anche la fede di Riccardo, come quella d’Abramo, dovette passare attraverso la prova, “Sperando contro ogni speranza” (Rm 4,18) fino ad affrontare quella che s. Giovanni della Croce chiama la “NOTTE della fede”.

E’ soprattutto all’interno della Chiesa, nelle comunità religiose, nei gruppi ecclesiali, spesso tentati di scoraggiamento, che lo spirito di Riccardo può avere un ruolo provvidenziale. Quante volte gli evangelizzatori si adirano con se stessi a causa dei propri limiti, perché confondono l’efficienza del proprio ministero con l’efficacia di esso.

Riccardo insegna a rendere attiva la virtù teologale della SPERANZA. Sperare, infatti, è andare oltre i propri limiti, non spaventarsi di essi, anzi scoprirne la provvidenzialità. Per noi indecisi, il segreto della santità di Riccardo, imitabilissima, è così sintetizzabile:

  1. Una volta capito che Dio è Padre, non possiamo che abbandonarci a Lui, senza avere più alcuna paura, neanche quella di noi stessi e della nostra miseria.
  2. Questo è il solo modo per scoprire che Dio ama le mani vuote.
  3. Se dovesse venire la “notte”, non mancherà il coraggio di avere paura, fino a gridare: pietà, Signore!
  4. Perfino una pagina come quella che descrive l’agonia del Cristo nel Getsemani è possibile chiamarla “evangelo”, cioè annuncio di gioia.
  5. La tentazione viene scoperta e vissuta come valore provvidenziale: in un certo senso, facendoci gridare verso Dio, ci unisce a Lui, e ci permette di seguire l’esortazione di Gesù a pregare sempre, senza stancarsi (cf. Lc 18,1).
  6. La speranza è la fede declinata al futuro: la fede in un Dio-AMORE diventa abbandono e fiducia da viversi radicalmente nel momento presente.
  7. Il passato non può essere che lasciato alla misericordia di Dio.
  8. L’avvenire non può essere affidato che alla sua Provvidenza.

Le lettere che conosciamo diventano significative a partire dal 1918, anno in cui Riccardo, non ancora laureato in medicina, si troverà sul fronte, preceduto due anni prima dal fratello che cadrà sul campo di battaglia, provocandogli un grande dolore.

1910 ( A 13 ANNI) (inediti 1-2-3) Tanti saluti Affettuosi saluti Cara zia, bisogna che tu venga a intenderti col sarto. La stoffa del mantello l’ha già bagnata.

1911 (a 14 anni) (inediti 4-5-6) Scusami se sono stato un po’ impertinente con te e con gli zii. Di salute sto bene…Quanto ai miei studi veda lei dai punti che ho presi in questo trimestre… Abbiamo incominciato questa settimana (19 dic.) a fare gli esami…abbastanza bene…Vacanze Venerdì alle 12.

1912 (a 15 anni) (inediti 7-8) · Greco, storia , geografia orali, abbastanza beme, gli altri bene. Se desidera che venga a casa per le vacanze (di Pasqua), mandi l’Achille perché il biglietto non arriverebbe in tempo. · Affettuosi e sinceri saluti.

1914 (A 17 anni – Pima Liceo) (1 – 1 inedita) · (alla sorella ) Ti chiedo le più vive scuse per la mia eccessiva negligenza…Prego perché il Signore abbia a illuminarti in occasione della tua Professione. Faccio la prima liceo… Primo trimestre: esito abbastanza soddisfacente…cercherò di migliorare…Abbiamo il regalo insperato del tuo ritratto… “Quanto avrei desiderato di poter teco ammirare quelle famose piramidi (d’Egitto) che attraverso ai secoli ci fanno conoscere la grandezza e la potenza di quei Faraoni che si facevano chiamare “figli del sole” e che pur dovettero piegare la loro fronte ai voleri del Dio d’Israele, quando ad essi comandò per bocca di Mosè la liberazione del popolo ebreo…” · Sto bene… Gli studi vanno abbastanza bene…latino e greco 7. Prima di Pasqua saprò le medie trimestrali.

1915 (a 18 anni – Seconda liceo) ) (2 – 2 inedita) · (13 marzo) La ricorrenza della Pasqua mi ha spinto a superare l’indolenza (di scrivere)…Giustamente ti lamenti del mio lungo silenzio…non mi sono dimenticato di te, della mia carissima sorella. “No, io sempre ti ricordo, ti ricordo specialmente nelle mie poche preghiere, quando m’accosto a ricevere la SS. Comunione, quando mi sento debole, debole nell’adempiere ai miei doveri,debole nel superare gli innumerevoli pericoli, nel resistere alle tentazioni, alle passioni; e sento il bisogno di qualcuno che preghi, continuamente preghi il Signore per me, che ne ho tanto, tanto bisogno, per mantenermi buono, per non scostarmi dal retto sentiero”

….Gli studi proseguono in modo soddisfacente “grazie a Dio che mi ha dato un po’ di buona volontà, e voglio sperare me la manterrà anche per l’avvenire”….Il terribile terremoto che distruggendo interi paesi ha cagionato migliaia e migliaia di vittime nell’Italia centrale…

L’Italia è minacciata da un pericolo più grande: “d’essere travolta nell’immane conflitto che da ben sette mesi strazia le altre nazioni europee: prega che Iddio tenga lontano sì terribile flagello che porterebbe il dolore in tutte le famiglie, in molte la desolazione e la rovina”… “ Abbondanti benedizioni da Gesù Cristo Risorto”.

  • 2 Agosto) Siamo arrivati felicemente ad Erte (m.500)…paesaggio magnifico, aria salubrissima che taglia ogni stanchezza e ravviva l’appetito. Dal Resegone un saluto con i miei amici.
  • (15 Agosto) Non ho potuto scrivere perché non ho trovato francobolli…Ieri abbiamo dato la scalata alla cima del Resegone (1813 m)…Oggi siamo a Lecco per provviste…A Erte una stanzetta per cica 1 Lira al giorno tra io e Benedetto (carissimo amico medico chirurgo, compagno di collegio e università).

1916 (Morte in guerra del fratello Achille il 1° luglio )

1917 (9 indite- 4-5-6-7)

  • · (21 Aprile) …Domenica se potrò avere il permesso (militare) verrò a casa…non pensate male, poiché mi trovo sempre assai bene.
  • · Maggio) Con grande sorpresa e piacere sono stato mandato qui a Vittorio Veneto per trasporti con la Croce Rossa…

Dalla lettera n.10 (1918)

Signore, concedimi la grazia di essere a Te strettamente unito: comprendo bene come solamente nel Tuo fedele servizio, stia la mia piena felicità, ma sovente la forza dello spirito mi viene a mancare e mi addormento nella tanto pericolosa tiepidezza.

Dalla lettera n. 14 (1918)

Signore, godo sempre buona salute, ed ora mi trovo in una posizione così comoda e lontana da ogni pericolo che non potrei desiderare di meglio. In questo paesetto tranquillo (Malanno) di una graziosissima valle dove tutto è bello e dove ogni cosa, dai verdi e folti castagni lungo i fianchi dei monti, ai paesetti appesi agli erti pendii, sotto la dolce protezione di bianche chiesette, alle ardite cime indorate dagli ultimi raggi del sole morente, tutto mi parla della potenza infinita di Te, divino Creatore, della tua infinita bontà. Quante volte in mezzo a questa tranquillità serena penso al doloroso turbine che ha travolto il mio caro fratello Achille! La sua immagine buona sempre mi sta dinanzi, e il dolce ricordo dei suoi buoni consigli, del suo esempio, mi è di grande conforto, Anche alla mia cara sorella penso sempre; faccio grande affidamento sulle sue preghiere che sono certo non verranno mai meno.

Dalla lettera n. 15 (31 dic. 1918)

Signore, sono le ultime ore di questo anno e volgendomi indietro a questo anno morente, agli altri già trascorsi, molti, troppi rimorsi sento salirmi dalla coscienza, per la poca, per la mala corrispondenza alle grazie infinite elargitemi dalla Tua Divina Misericordia, per le molte, troppe ingratitudini ad esse contrapposte.

E pur tutt’ora, quanta indifferenza e quanta freddezza nella via del bene! Sento la vacuità di tante cose, comprendo il male di tante altre, ma alla pratica, ogni minimo sacrificio mi pesa, l’adempimento del dovere mi torna gravoso e non sempre mi basta la forza di volontà per compierlo. Signore, ti prego, e nella preghiera e nei SS. Sacramenti trovo grande conforto e vera pace, ma dopo poco le forze vengono meno e torna la lotta dolorosa fra la coscienza del dovere da compiere ed il rimorso di non averlo compiuto.

Il rimorso… Dammi forza di volontà, Signore, fammi riacquistare a due mani la perduta pace.

Divina Provvidenza, Infinita Bontà, concedimi la pace nella tua Santa Grazia per il nuovo anno e per tutti i restanti della mia vita.

Dalla lettera n.16

Signore, i miei studi fin’ora mi sono andati sempre bene. Solo mi addolora molto la mancanza di alcuna costanza nei buoni proponimenti che, fatti sovente, più sovente ancora sono trasgrediti.

Mi sembra di essere quel terreno della parabola Evangelica, in cui la buona semente, attecchita e cresciuta, viene poi soffocata dagli sterpi e dalle erbe selvatiche.

Buon Dio, concedimi la forza e la grazia di estirpare le erbacce e di poter coltivare e difendere nel mio cuore la Parola e la Grazia Divina con fedeltà e costanza.

Dalla Lettera 17 (29 Marzo 1920)

Signore, devo riprendere il servizio militare in qualche ospedale di Milano, quale aspirante medico. Ti mi scruti e mi conosci. La mia vita è sempre la stessa: ad un periodo di buona volontà e di vita attiva nello studio e nella pietà, di quando in quando subentra un fosco momento di completa abulia, di mancanza di ogni buona volontà che all’improvviso mi riporta al punto di partenza, quando non più in giù.

Divina Misericordia, concedimi un po’ più di forza, di costanza, per proseguire sulla buona via. O Divina Provvidenza, che in questa Settimana Santa ti mostri nella tua incomprensibile, infinita immensità, per grazia sì tanto necessaria, confido in Te, spero.

Dalla lettera 18 (31 Dicembre 1920)

Buon Dio, giunto ormai alla fine dell’anno, sento forte il rimorso per le offese e le ingratitudini rese anche in quest’ultimo tratto della vita trascorsa, in cambio delle Tue tante grazie e del Tuo infinito amore.

Mio Divino Redentore, se lo sguardo al passato mi rattrista e mi scoraggia la debolezza tanto grande di questo povero mio spirito, una fede più viva in Te, un desiderio più forte della tua santa Amicizia, mi fa ancora, anzi più che mai, sperare in un anno migliore.

In quest’anno, che dovrebbe essere l’ultimo dei miei studi e il primo della mia vita professionale, ti prego, Signore, fa che possa attingere tanta forza dalla Fede in Te, così bella e santa. Aiutami ad uscire da una vita di sterili desideri e di vane aspirazioni per cominciarne una nuova, veramente feconda di opere. Mio Dio, io so bene che, se ti rendo la lode dovuta ed il ringraziamento, nella pace serena della tua santa Amicizia sarò più lieto e felice.

Dalla lettera 19 (5 Agosto 1921)

Signore, oggi, con piacere vivissimo ho potuto parlare con due consorelle di mia sorella Mariuccia che hai chiamato alla Missione in Egitto. Nel loro volto buono e sereno, mi è sembrati di veder rispecchiare il suo, sempre amatissimo. Esse mi hanno parlato talmente bene della loro vita di lavoro e di carità, che ora mi sembra di poterla meglio raffigurare nell’adempimento dei suoi vari doveri. Signore, l’orologio l’ho comperato io a nome della zia Maria che vuol fargliene un dono tutto suo.

Fa che si ricordi di noi quando lo guarda e preghi perché ogni istante da lui segnato non passi inutile per noi, ma ben speso per la Tua gloria e a salute delle nostre anime.

Mio Dio, mettendomi sotto la protezione del Serafico padre San Francesco ed iscrivendomi al suo terz’ordine, quantunque indegno e nella speranza di diventare migliore, ora sono diventato un po’ suo fratello anche nell’ordine spirituale.

Con il tuo aiuto, il 6 luglio ho fatto la laurea di medicina e chirurgia con un buon esito, terminando così il corso degli studi universitari. Concedi a Mariuccia di godere sempre di buona salute. Spero che fra qualche anno possa lei pure fare una scappata tra noi. Ricolmala di grazie perché preghi anche per me ora che ne ho più bisogno che mai.

Dalla lettera 20 (17 Gennaio 1922)

Signore, non è ancora giunta la solita lettera Natalizia della nostra sorella missionaria. Speriamo che goda buona salute e non abbia riportato alcun danno dalle agitazioni che hanno nuovamente travagliato la Regione in questi mesi. Vorrei sapesse che mi trovo con la sorella Margherita nella condotta medica presso Abbiategrasso dove, con l’aiuto della Tua Provvidenza, finora mi sono trovato bene.

Ho bisogno di raccomandarmi vivamente alle sue preghiere, tanto per noi che per o miei malati ai quali ben poco potrei fare senza il Tuo aiuto, Mio Dio.

Dalla lettera 21 (20 Aprile 1922)

O Signore, ti ringrazio per l’inestimabile dono della Santa Croce col legno del Getsemani che mi ha mandato Mariuccia. Molto a proposito Lei m’incoraggia a portare con rassegnazione ed affetto la croce che a Te piacerà di assegnarmi per rendermi partecipe dei meriti infiniti della Tua SS. Passione e degno del premio finale.

Purtroppo io sono sempre assai incostante e molto facilmente mi lascio vincere da una malaugurata neghittosa inerzia che mi fa tralasciare spesse volte il bene e perdere tanto bel tempo che potrebbe essere preziosamente impiegato. Ti prego affinché io abbia a risorgere una buona volta e per sempre, soprattutto col costante e solerte adempimento dei miei doveri quotidiani.

Ti chiedo uno spirito di pietà sempre più vivo, un amore a Te, Crocifiso, sempre più ardente. Fa che sopporti con pazienza, meglio, con gioia, le piccole continue croci d’ogni giorno perché mi abituino ad una padronanza sempre maggiore delle mie passioni e mi prepari a sacrifici anche più grandi.

Concedimi il tuo aiuto, mio Dio, perché possa tornare di reale giovamento ai miei malati. Ti ricordo anche la carissima Rita Cui debbo mota riconoscenza Per l’opera sua affettuosa e solerte E per i suoi non lievi sacrifici.

Ricordati, Signore, di Agostino: fagli trovare, in una Fede sempre più viva, quello spirito di prudente accondiscendenza e di rispettosa sottomissione, di cui maggiormente abbisogna nella sua posizione.

Ricordati anche di Fernando e della sua Famiglia, degli zii amatissimi, di Mariuccia, insomma, di tutti i miei cari. Rendici sempre uniti nel tuo amore E nella vicendevole carità sopra questa terra Per poter sperare di restare sempre uniti un giorno In una carità perfetta in Cielo. Con questa speranza io t’invoco e ti supplico.

Dalla lettera 22 (23 maggio 1922)

O signore, sono a ringraziarti vivamente per il prezioso ed inaspettato dono del ritratto di nostra sorella Mariuccia. Confesso che non l’avrei riconosciuta: non è più l’antica sorella nella carne, pur già tanto buona ed affettuosa; è una sorella nuova, una sorella nello spirito, una sorella in Gesù, ancor più buona e santamente affettuosa.

Fammi credere, Signore, che questo ritratto Sia un preannuncio, una sua avanguardia , alla quale seguirà una sua venuta, fra breve, tra di noi. Ad ogni modo, che esso mi sia sempre un richiamo del suo grande affetto, del suo desiderio vivissimo che io abbia a diventare un po’ meno cattivo, meno sordo e meno ribelle alla Tua Divina violenza.

Gesù, nel Tuo infinito Amore, ci vuoi salvi, ci vuoi Santi. Soprattutto per la santa Umiltà e la santa Carità.

Dalla lettera n. 23 (1 Dicembre 1922)

Redentore Divino, quanto fortemente dovrebbe ravvivarsi l’amore nostro riconoscente per Te che, nella Tua infinita bontà, hai voluto abbassarti, umiliarti, fino alla nostra miseria, per innalzarci fino a Te.

Purtroppo la mia anima che naturalmente aspirerebbe verso il suo Creatore, troppo risente dei legami con cui una materia fredda e greve ci tiene legati a questa miserabile terra. Invece d’infiammarsi di un amore ardente Verso il Divino Infante, il Bambino Gesù, a malapena debolmente si intiepidisce.

Ti prego, Signore, che il mio animo abbia a prepararsi, spianando i monti della superbia e riempiendo le valli delle troppe colpevoli manchevolezze. Concedimi fecondi propositi di bene, per meritare quella sola pace che gl’Angeli promisero dall’alto della capanna ai pastori semplici dal cuore umile e puro, ai Santi Magi desiderosi di verità ed assetati della scienza che conduce a Dio, a tutti gli uomini di buona volontà.

Dalla Lettera n. 24 (26 Gennaio 1923)

Signore, non sarà mai sufficiente la mia riconoscenza verso di Te per le persone amiche e buone che , a conforto ed aiuto , mi hai fatto incontrare lungo il cammino di una vita tanto insidiata dai continui pericoli!

Sto pensando alle signorine sorelle Moro. Rammento sovente le numerose discussioni, ove loro sapevano benevolmente indulgere alla buona intenzione, la mia poca discrezione.

Fra le tante, di alcune però non ho mai avuto da rammaricarmi per la mia ostinata intransigenza, e sono quelle in cui con affetto incondizionato, cercavo di difendere il nostro dolce Cristo in terra, il Sommo Pontefice, dalle farisaiche insinuazioni della stampa liberale.

Infatuata dalle false massime del mondo, troppo urtava la bianca figura del padre che dalla Roma dei martiri di Cristo, chiamava con voce accorata i figli, immersi in sanguinosa lotta fratricida, al bene rifiutato della pace. Signore, ormai quelle nebbie irose si sono disperse, ed il Papa brilla più che mai di insperato splendore.

Anche in questo breve corso di tempo, ho potuto sperimentare di quanto aiuto sia una stampa francamente cattolica, capace di indicare, fra la vertiginosa successione delle umane vicende , la via sicura, al lume della fede e della Parola di Gesù che non potrà mai fallire.

Fra tanto rimescolio di passioni politiche e di quotidiane preoccupazioni, fa che non perdiamo mai di vista il vero grande scopo della nostra vita.

Dalla Lettera N. 26 ( 28 Aprile 1923)

Signore, ho ricevuto per Pasqua la carissima lettera di mia sorella Suor Longina. Lei manifesta molta fiducia nell’opera mia di propaganda religiosa presso i miei ammalati, ma purtroppo la fiamma della mia carità è sempre troppo languida per poter comunicare agli altri il proprio calore.

Io mi sento sempre molto freddo e gravosamente attratto verso le preoccupazioni materiali delle quali pure comprendo la inutile vanità. Tu lo sai che solo con sforzo e con passo molto tardo mi volgo a quei sommi beni spirituali, ai quali, come ai soli necessari, dovrei attendere con invincibile ardore.

Gesù, com’è bello amarti ed amare il prossimo! E’ così grande la ricompensa, che anche quaggiù ne ricaviamo pace dell’anima e spirituali consolazioni! Ma la corrotta nostra natura che tanto mi si fa sentire e le continue opposizioni del demonio e del mondo, mi rendono troppo poco sensibile verso tesori così inestimabili, troppo poco attivo nel farne il doveroso e fortunato acquisto.

Concedimi la grazia Di sempre più avvicinarmi a Te, più chiaramente conoscerTi, più ardentemente amarTi, più fedelmente servirTi, e meritare così il premio promessoci di goderTi eternamente in Paradiso.

Dalla Lettera n. 27 (6 Luglio 1923)

Ti chiedo un grandissimo favore: mostrami, Signore, le tue vie! So che mi hai sempre amato tanto e le infinite grazie finora ricevute, ed alle quali purtroppo ho così poco corrisposto, sono dovute, almeno in parte, anche alle preghiere di mia sorella Mariuccia e di quanti mi vogliono bene.

Gesù, sei tu che ci hai detto: “Picchiate e vi sarà aperto, chiedete e vi sarà dato”. Sei Tu che hai provato tutta la verità di questa promessa versando per noi il Tuo sangue fino all’ultima goccia. Ma io mi sento troppo debole e troppo indegno di picchiare, di chiedere da solo al Tuo Cuore Sacratissimo.

Ebbene, Signore, sono qui a supplicarti ricorrendo al fraterno e caritatevole aiuto di con coloro che per me pregano perché io possa ben conoscere la Tua volontà a mio riguardo, e, conosciutala, possa seguirla prontamente, gettandomi fidente fra le Tue braccia misericordiose.

Ti ricordo i miei cari: Mariuccia, la carissima sorella Margherita. Soprattutto la zia Maria, tanto buona, affinché adattandosi cristianamente alla volontà della Divina Provvidenza, qualunque possa essere, comprenda che tende solo, oltre che alla Sua maggior gloria, al nostro miglior bene, per farci meritare le più abbondanti e preziose ricompense.

Dalla Lettera 28 ( 14 Agosto 1923)

Signore, grazie per la visita di suor Maria Vincenzina che ha passato tanti giorni in mezzo a noi e ci ha parlato tanto e tanto bene della nostra carissima Mariuccia. Ci sembrava quasi di vederla attendere con santo zelo alle sue quotidiane occupazioni.

Ho compreso al confronto quanto purtroppo sia grande la mia pigrizia, la mia freddezza. Spero con il tuo aiuto Che il suo esempio mi sia di sprone. Tu sai, e lo sa anche Mariuccia, come, nel cercare la via per la quale il Signore vuole che lo serva, non poche volte mi si è affacciata quella tanto gloriosa del Missionario. Ma troppo spesso mi appariva la pochezza fisica E più ancora morale a dissuadermene.

Eppure, quanto volentieri abbraccerei questo stato, se Tu, Divina Provvidenza, me lo indicassi come a me conveniente! Signore, fammi conoscere la Tua Volontà, perché non tenti di chiederTi ciò che a me non conviene, né diffidi dell’infinito Tuo misericordioso aiuto.

Ti prego concedermi di adempiere in modo completo e generoso ai doveri che m’incombono l’attuale mio stato, non trascurando le occasioni di bene che tanto sovente mi mandi, per meritare di conoscere sempre meglio la Tua Volontà a mio riguardo.

Fa che una Fede viva, ardente, una carità sempre più perfetta, abbia tutti a riunirci nel Tuo Amore, sola felicità e pace. Che Tu sia al di sopra di ogni umano interesse e di materiali preoccupazioni le quali altro non fanno che indurirci il cuore ed amareggiarci l’animo.

Come sarebbe bello, mio Dio, se noi tutti vivessimo sempre per Te, con Te, in Te; come unirci più strettamente fra di noi, di quello che potremo fare riunendoci in Te?

Non è Gesù che ti ha pregato, Divin Padre, “ut unum sint”, affinché abbiamo a formare una sola cosa, un’anima sola, come Lui forma una sola cosa con Te?

Come non amarci, infatti, quando amiamo Te, Signore?

E non siamo allora riuniti nel raggiungimento di uno stesso scopo: conoscerTi, amarTi e servirTi in questa vita. Per goderti eternamente nell’altra? Diretti alla stessa meta: il Cielo?

Armati degli stessi mezzi, quelli insegnatici da Gesù prima con l’esempio e poi con la parola?

Signore, ti prego con e per mia sorella Mariuccia: facci sempre più accendere del Tuo Divino amore e così verremo ad amarci sempre più e meglio fra di noi; attraici sempre più vicino a Te, ed in Te ci troveremo sempre più intimamente ed indissolubilmente uniti.

Dinnanzi a Te, mio Dio, che cosa è mai il tempo e lo spazio?

Se dunque siamo uniti in Te, che cosa ci separa se non un’ombra passeggera?

Dalla lettera n. 29 ( 5 Settembre 1923 – Dopo essere stato respinto dai Gesuiti)

Signore, ripeto anche a te ciò che ho scritto a mia sorella Mariuccia. Tu lo sai che ho ricevuto con la più viva gioia la sua lettera con la promessa di buone preghiere e consigli a mio conforto, per conoscere la via per la quale vuoi che io Ti abbia a servire.

Come vi sento palpitare il suo fraterno affetto, tanto ingrandito e santificato nell’amore Tuo! Serberò sempre riconoscenza a lei, come pure alla sua Madre Superiora e alle buone Consorelle che così vivamente e santamente si sono prese a cuore la mia causa.

Mio Dio, Tu sai bene che verso la fine dello scorso mese, dopo una settimana di Santi Esercizi, mi ero confermato nella decisione di entrare nell’Ordine dei Padri Gesuiti, quando il responso medico sfavorevole, come fortemente ne avevo prima dubitato, me ne precluse la via.

Anche con l’appoggio dei saggi consigli di Mariuccia, interpretando ora tale ostacolo, come una chiara manifestazione della Tua Volontà, e non desiderando di meglio che abbandonarmi sempre con fiducia alla Divina Volontà, penso che mi convenga ormai proseguire in pace sulla via già intrapresa.

Gesù, che io possa sempre meglio percorrerla con quel profondo e costante spirito di carità col quale solo potrò pervenire al certo conseguimento del mio ultimo fine.

Che la superbia, l’egoismo o qualsiasi altra mala passione Non abbiano ad impedirmi di vedere sempre Te nei miei ammalati, Te curare, Te confortare, Te sofferente per l’espiazione delle mie colpe, per il tuo amore infinito per me.

Con questo pensiero sempre vivo nella mente, quanto soave e quanto fecondo dovrebbe apparirmi l’esercizio della mia professione! Ma purtroppo la carne è debole, e non di rado anche lo spirito, ed invece di vigilare ed orare come Tu ci raccomandi, mi addormento spesso in un sonno profondo: per la fervida preghiera di Mariuccia, so che verrai a scuotermi, e come già Elia nel deserto, mi farai proseguire con Te per l’ardua via con rinnovato ardore.

Signore, fa’ che ricordandoci ed aiutandoci nella reciproca preghiera, incontrandosi i nostri sguardi, i nostri cuori nell’amore della Tua Eucaristia, uniti nell’unione più intima e santa, sotto la guida della buona e santa madre, e più ancora della Madre Celeste, potremo proseguire fidenti nella conoscenza, nell’amore, nella imitazione di Gesù, dolcissima speranza.

Dalla Lettera n. 30 ( 6 Ottobre 1923)

Signore, ho avuto la grazia inestimabile di partecipare alla chiusura del Congresso Eucaristico nazionale di Genova. Quali tesori, quali torrenti di grazie hai riversato Tu, Divina Eucaristia, durante quel tuo gloriosissimo trionfo!

Le nostre anime ne sono state ricolme, e solo la piccolezza del nostro povero cuore poteva mettere un limite alla Tua generosità infinita. Tu avresti voluto che noi avessimo infinitamente dilatato il nostro cuore Per poterlo infinitamente arricchire dei Tuoi doni .

Dal gaudio di questi felici momenti di amore eucaristico Ben si può comprendere, per quanto lo permetta la nostra mente limitata, qual gaudio infinito di perfetta felicità ci compenetrerà nella Tua beatifica visione diretta in Cielo.

Ma tu ben conosci la mia miseria, la mia debolezza ed incostanza, per cui solo nell’unione continua con Te, col Tuo Cuore Sacratissimo, fornace ardente di carità, abisso infinito do ogni virtù, posso trovare la grazia di corrisponderTi il meno indegnamente possibile a tanto Tuo amore.

Fa che io non abbia, con ulteriori ingratitudini, a volgere in ira terribile di giustizia la Tua misericordia ed il Tuo amore disprezzato, ma bensì, con una corrispondenza più pronta e generosa , con un abbandono sempre più completo, sempre più perfetto nel Tuo Cuore Sacratissimo – vita et ressurrectio nostra – abbia da crescerne il torrente di grazia, così che, vivendo sempre per in Te e per Te, nella mia comprensione, nel disprezzo del superbo mio nulla, nell’amore di Te che sei tutto, meriti di poterTi lodare e ringraziare per tutta l’eternità in compagnia della miriade di Angeli e di Santi , di tutti i miei cari e della mia sopra tutti carissima sorella.

“Mio Gesù, mi hai chiamato a Genova credente, fammi ritornare apostolo! Amarti e farti amare”. Non è vero che più deve amare, a cui più è stato perdonato? Che io non possa mai mettere limiti al Tuo amore, come Tu non ne hai messo alcuno nell’oblio delle mie iniquità.

Dalla Lettera n. 32 (9 Novembre 1923)

Bambino Gesù, con l’approssimarsi del santo Natale dovrei rivolgere ogni mio sforzo, preparare l’animo, il mio cuore affinché in essi Tu abbia a rinascere con una più abbondante copia delle tue grazie , con una più ardente carità verso Te e verso il prossimo.

Dovrei quindi, come predica San Giovani Battista, preparare le Tue vie riempiendo le valli dell’accidia, della tiepidezza, ed appianando i colli della vanità, della superbia, della ribellione, che tanto grave si manifesta anche con ogni peccato veniale. Per questa opera tanto necessaria chiedo il Tuo aiuto, Signore, e sono certo che non mi potrà mancare, anche per ottenere e far nascere in me quella buona volontà in premio alla quale gli Angeli hanno promesso la pace, quella sola e vera pace che è riposo dell’anima nostra in Te.

Infatti: il mio cuore è inquieto Finché non riposa in Te. Questo ti chiedo, mio Dio: “adveniat regnum tuum, fiat voluntas tua”.

Bambino Gesù, regna incontrastatto nel nostro animo, così che uniti in un solo desiderio, in una sola preghiera, io, i miei cari, tutti gli uomini della terra: Su noi regna, perciò deh c’infondi Quella fede che passa ogni velo, Quella speme che more nel cielo, Quell’amor che s’eterna con Te. (A.Manzoni)

Divino Infante, ti chiedo per i carissimi giovani del circolo giovanile della nostra parrocchia, che abbia a porre anche nei loro cuori il Tuo stabile regno che già con la Tua nascita ci mostri la tua predilezione per i poveri, per gli umili, per i diseredati della terra.

Tu che sei venuto per evangelizzare i poveri Ai quali in modo speciale hai promesso il Tuo regno celeste, non permettere che essi abbiano da ricadere sotto il pesante giogo del padre della menzogna, ma nelle fulgide verità della Fede possano conquistare per sempre la vera libertà.

Sei Tu infatti che hai detto: “Veritas liberavit vos”. Con una piena, incrollabile fiducia Nella infinita bontà e misericordiosa provvidenza Del Padre Celeste, possano sempre godere di quella pace Che gli Angeli annunziarono prima di tutto a i buoni, semplici ed umili pastori.

Dalla Lettera n. ( IN COSTRUZIONE …

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SAN RICCARDO PAMPURI – (1) Nelle lettere la ricerca di un volto umano e l’esperienza del TU – Angelo Nocent

 

Di Angelo Nocent

L’epistolario di un santo, normalmente, scoraggia anche il lettore più paziente, perché i pensieri spirituali che normalmente sono il principale interesse, si trovano sparpagliati in un mare di notizie che non interessano più di tanto ma che assorbono la mente e fanno anche perdere tempo.

Per evitare al lettore di accantonare il libro delle lettere di San Riccardo Pampuri solo dopo qualche pagina, ho pensato non solo di selezionare tutto ciò che permette di cogliere la sua spiritualità ma anche di farlo parlare con Dio, trasformando le sue conversazioni epistolari in forma di preghiera. Ne è risultata una confessio laudis che rispecchia fedelmente la struttura mentale del santo e lo coglie nella segretezza del suo rapporto con Dio che non poteva essere diversa dal modo con cui esterna la sua anima alla sorella e a qualche amico .

I testi non sono mai stati forzati ma semplicemente adattati all’esigenza dell’artificio letterario costruito sul rapporto io-Tu.

Il primo a sorprendersi del prezioso risultato sono stato proprio io che su quelle pagine mi ero più volte attardato per attingere a questo favo quel miele che nelle biografie viene fatto assaporare solo attraverso qualche citazione. Il testo che ne è risultato, sfrondato dai convenevoli, dalle notizie di cronaca e dai luoghi comuni del quotidiano si presenta ora come una grande tela, un arazzo carico di colori e sfumature che molto più si presta alla riflessione, alla meditazione o come sussidio per la scuola di preghiera di chi vuol misurarsi col metodo che ha portato questo giovane medico alla gloria degli altari a soli 33 anni.

Lo spessore di questo epistolario deriva dal fatto che esso è la cronaca del vissuto quotidiano e lo specchio dei sentimenti e pensieri di Erminio Pampuri, studente, soldato, medico condotto e del religioso Fra Riccardo dei Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio, i Fatebenefratelli.

Le missive oscillano fra due poli: la spiritualità e le cose concrete . Le numerose lettere alla sorella Suor Longina Maria, missionaria in Egitto, sono anche una preziosa autobiografia dello spirito. Senza di esse non avremmo che le sole testimonianze di chi lo ha conosciuto, giacché non si conoscono altri scritti.

La sua spiritualità tocca i temi classici dell’ascetica cristiana che vengono espressi con il linguaggio del suo tempo. Volendola in qualche modo definire, io la chiamerei la Spiritualità del Desiderio e della Convivenza che non è una dimensione statica, ma un dinamismo interiore che si vede circolare in ogni suo percorso umano, un’attività senza sosta, un muoversi-con, in casa, a scuola, sul fronte, all’università, nella condotta medica, in convento e nella corsia d’ospedale. Soprattutto un Dio visto in ogni uomo proprio perché abitato da Dio. Un vivere comune, all’insegna della quotidianità, ma dal carattere divino, segnato dalla presenza divina percepita nell’ordinarietà, in una costante tensione escatologica. Divino inteso come luogo che circonda la vita dai due lati e così enunciabile: Cristo è risorto, dunque, Cristo è presente, Cristo ritornerà.

Una certa coscienza sacrale e rituale del suo tempo, ma non solo, più che un amore per l’Eucaristia, di cui tanti sapevano abbastanza poco, alimentava il fascino del sacro. Cosi che ogni trasgressione veniva sentita come malefica, da confessare, capace di provocare l’ostilità di Dio. Per Riccardo è la vita, è piuttosto un ringraziare senza sosta che origina e culmina nella Messa nella quale tutto si congiunge e dalla quale prende avvio ogni azione: “culmen et fons” come dirà della Liturgia il Concilio Vaticano II.

Riccardo impara a stare davanti a Dio come a Colui che si ama. Sono significative le parole pronunciate sul letto di morte. Rivolgendosi al Padre Innocente Monculli che gli aveva conferito L’Unzione e il Viatico, ha chiesto: “Padre, come mi accoglierà Iddio?” E, prima ancora che rispondesse, alzando gli occhi al cielo, ha soggiunto: “L’ho amato tanto e tanto l’amo”.

Il divino è un peso invadente non facile da sopportare dalla debolezza umana. Dalle lettere par di cogliere questo stato di sofferenza che viene espresso col linguaggio della inadeguatezza, del limite personale che ha nomi diversi: peccato, pigrizia, accidia, vanità, tiepidezza, superbia, ribellione…

Dalle lettere non si può ricavare una sua biografia perché i fatti sono ridottissimi, quasi assenti. Più che il suo essere, disegnano invece il volto divino: disegnano la tenerezza, l’umanità, la quotidianità di Dio, quale il Pampuri la recepisce. Dio gli parla. Ma non gli parla mai come persona “sola”. Parla a lui e al mondo come se fossero una cosa sola. Quando Paolo dice che siamo “Corpo di Cristo”, è perché per Dio l’umanità è come il suo corpo, lo vede come uno e come una cosa sola con sé. Anche se la nostra autocoscienza ci fa sentire frammenti, separati l’uno dall’altro, dal punto di vista divino è improprio . Riccardo fa l’esperienza del Tu che gli sta innanzi. Conosce Dio proprio perché si cala in lui, assume la sua vita, le cambia direzione, la fa sua. Un amore esclusivo, ossia l’esclusività dell’Amore nel quale Riccardo contempla il mondo, il mondo visto come interno a Dio.

Quando esterna questa esperienza alla sorella questo “progetto” divino che matura in lui, non ha a disposizione che le parole inadeguate della sua cultura, della sua storia che per noi possono risentire del tempo. Il linguaggio ha dei confini. La differenza tra le formule e la realtà è abissale. Ma ciò che sta dietro, il lettore lo avverte. Avverte un Dio che deborda da se stesso, che costituisce nell’uomo la sua pienezza, la sua beatitudine, il suo fine. Dietro c’è un Dio che ama interamente, con tutto se stesso.

Ma Riccardo avverte che lo fa in un modo così diverso da come lui lo ricambia, che non riesce a darsi pace per la sua incapacità di corrispondenza. Più entra in relazione con Dio, più si sente una nullità. Ma immensamente amata. E’ l’esperienza dell’Indicibile.

Tutte le energie ed i desideri del giovane Pampuri, si trovi esso nel contesto parrocchiale o in quello universitario, portano l’impronta di una fides intrepida ed hanno un centro: la vita eterna. Questa è più evidente, luminosa, interessante dell’esperienza temporale. Per tutta a vita il suo epicentro è lì.

Nelle turbolenze degli anni ‘30

Credo si possa tranquillamente affermare che in quegl’anni, se c’era una condizione felice, compatta, era la cultura cattolica. Il pensiero cattolico si ergeva come un’immensa cattedrale in cui veniva chiusa e protetta la storia. Fuori restavano le tenebre esteriori della violenza, del terrore, del peccato. Tenebre che erano anche quelle della cattiva logica, della ragione distorta. Ogni peccato era sempre fondato su un errore logico. La religione che usciva dalle labbra degli uomini di chiesa fluiva come la perfetta ragione.

Nelle lettere il Pampuri ricalca queste certezze che davano a tutti sicurezza perché la religione era la vera risposta a tutti i problemi dell’uomo. L’Italia, l’amore di patria erano cose abbastanza sentite, ma per il cattolico il punto d’identità non poteva essere che la Chiesa, massima espressione della civiltà. E quindi il Papa, custode , garante, vicario, dolce Cristo in terra. Il papato quindi, visto come centro della civiltà, il papato recepito quale intrepido difensore della civiltà umana perché difensore della verità divina. Da questa angolazione, la spiritualità di Riccardo non si discosta affatto da quella di Teresa di Lisieux.

E’ risaputo che il Pampuri voleva farsi prete e che per ragioni di salute è stato respinto proprio dai Padri Gesuiti. E’ legittimo chiedersi se quell’idea la sentiva, in senso proprio, come una vocazione o come scelta di uno stato sociale. Verrebbe da credere alla prima ipotesi, in quanto l’essere medico era già un appartenere ad uno stato sociale di prim’ordine. E’ indubbio che agl’occhi del Dr. Pampuri la Chiesa emana un fascino particolare. A differenza della politica che si muove sotto il peso di errori antichi e nuovi. La professione di medico, in quanto professione, nonostante tutto, non appaga la sua anima. Ad un certo punto, essere prete, esserlo a tempo pieno nella schiera dei gesuiti per questa Chiesa che portava il peso e il senso della storia del mondo, la sola che si ergeva come fortezza nella storia, è per lui di una radicale evidenza. Non riesce ad immaginate di essere altro che prete, cioè uno che impegna la sua vita come espressione di un significato.

Dalle sue lettere trapela la sua educazione. Egli è stato educato a una religione interiore del “solo con il Solo”. Lo zelo parrocchiale, l’impegno nell’Azione Cattolica, nel Circolo Universitario “Severino Boezio”, nella San Vincenzo, ecc. non hanno mai il sopravvento. Ne sono invece la conseguenza. Epperò a me pare di cogliere una certa insoddisfazione nel Riccardo laureato e professionista. Da cosa gli deriva? Sono propenso a credere che gli derivi da un mancato appagamento culturale. Il liceo classico prima e l’università in seguito, gli avevano iniettato il virus della metafisica. Gli elementi basilari della filosofia che aveva acquisito, una filosofia vista come il linguaggio della religione, cioè apologeticamente, ad un certo momento cominciarono a fermentare in lui e gli fecero sentire il fascino del trascendente. Avrebbe voluto assaporare la teologia a pieni polmoni, nella speranza di avvicinarsi ancor più a Dio e placare la sua inquietudine interiore. La sua religione personale si era via via culturalmente arricchita ma ne avvertiva il limite proprio per la mancanza di una cultura teologica sistematica. Abbonato a diverse riviste cattoliche, da lì attingeva nuova linfa e nuovi stimoli. Se inizialmente la sua spiritialità poteva essere stata prevalentemente mariana (chi meglio di Maria poteva prendere posto nel suo cuore di orfano?), proprio attraverso Maria, col tempo si fece prevalentemente eucaristica: per Maria ad Jesum. Più che di domande, la sua è una preghiera adorante, dalle lunghe soste in chiesa. Pregare non credo gli costasse fatica: era per lui ormai una dimensione del vivere dalla quale riusciva a ricavare anche gioie e consolazione.

Non so dire quando avvertì in lui una Presenza intesa come Presenza che guida. Nell’epistolario la si percepisce già dal…

Riccardo è un mistico come Teresa di Lisieux al quale però nessuno ha chiesto di scrivere la storia della sua anima. I misteri della Grazia sono curiosi. Ad un certo momento nella sua anima entra qualcuno, nasce qualcosa di vivo, palpitante: il desiderio. Da allora comincia a “desiderare”. Ma che cosa? Un “non so che”. E quel “non so che” lo ha accompagnato ed è sceso con lui nella tomba. Chi possiede anche superficialmente confidenza con la poesia di San Giovanni della Croce, capisce che questo è il modo classico di manifestarsi della mistica: desidero un oggetto che assolutamente non conosco, ma che in qualche modo già possiedo. Il Desiderio, ospite segreto, inizialmente vivo e ardente, una volta stabilitosi, si fa assenza e presenza, dolore e gioia al medesimo tempo, Dio del cuore e Dio della storia. Mentre Riccardo sperimenta la persona divina, apprende una sua qualità molto umana: la compassione-misericordia-ospitalità, sinonimi che esprimono l’umanità di Dio.

Il Desiderio, Voce interiore che lo ha abitato per tutta la giovinezza, nel complesso delle esperienze, emozioni, speranze, era il segno inconfondibile, anche se discreto, inconscio, di una Presenza, il tocco dello Spirito. Una Presenza più intima del proprio io, che non parlava nel registro della legge e del comando, ma con le categorie del desiderio, della passione amorosa. Nasce e a poco a poco, si sviluppa la “cultura dell’esperienza” che provava. Nulla di razionale. Egli è costantemente attratto da quei saperi che riecheggiavano nel suo oscuro sapere, che davano esteriorità a una potenza interiore che cercava la sua via d’uscita, d’espressione: Terz’ordine Francescano, Azione Cattolica, Confraternita di S. Vincenzo, Missioni, Gesuiti. Stranamente, la Condotta Medica, nella quale già esprime il suo carisma che in seguito diverrà voto di ospitalità, ossia disponibilità totale al malato, fino a dare la vita, se necessario, gli va stretta.

Le categorie temporali dell’umano, dell’appartenenza, già subito dopo la morte e, forse, ancora oggi, sono lì a contenderselo: appartiene all’Ordine Religioso ma lo rivendicano l’Azione Cattolica, la Parrocchia…

Per compiacere i familiari, la salma è stata sottratta da subito ai Fatebenefratelli. Al momento della riesumazione, essa è finita nella Chiesa Parrocchiale che si sentiva in diritto di pretendere un suo figlio che in convento era giuridicamente vissuto solo tre anni ma, tra malattia e convalescenze, molto meno. Per la forzata rinuncia dei suoi resti mortali San Riccardo ha ripagato i suoi Confratellii operando negli ospedali di Gorizia “San Giusto” e Milano ”San Giuseppe” della Provincia Lombardo Veneta ben due miracoli.

Ormai l’urna del santo appartiene alla Parrocchia di Trivulzio, Diocesi di Pavia, che lo venera nella sua chiesa, meta di pellegrinaggi non solo nazionali.

In tutto questo, più che un sapore di legittimo orgoglio e di paesano campanilismo (“il dottorino è nostro”, a me sembra di poter cogliere la profezia. Riccardo è un segno profetico che, nelle fasi della sua triplice esperienza di laico impegnato, medico condotto e religioso, anticipa in qualche modo quell’ideale che, sessant’anni dopo, troverà una formulazione verbale del Magistero nella Christifideles laici di Giovanni Paolo II.

Il Pampuri, letto con le categorie del nostro tempo, proprio perché ha ben assimilato la lezione evangelica, senza rendersene conto s’è fatto anticipatore, figura concreta di una chiesa locale, la Parrocchia, di una struttura pubblica, la Condotta Medica e di una Comunità Religiosa sanante, i Fatebenefratelli, tutti chiamati ad aprirsi alla cooperazione. Il messaggio è forte per il nostro tempo: “insieme” per fare medicina con l’obiettivo unico di farsi carico della persona malata. Laici e religiosi sono sollecitati a condividere e parteciparsi i diversi carismi suscitati dal medesimo Spirito che opera tutto in tutti, a mettere insieme il proprio sapere, il patrimonio culturale ed ideale, gli interessi diversi, le strutture, per il bene comune di una società in trasformazione.

Una stranezza: quando la sua famiglia religiosa registra il minimo storico di votati all’ospitalità nell’Ordine Ospedaliero dei Fatebenefratelli, il termometro della santità riconosciuta dal Sommo Pontefice, quindi per Chiesa Universale, raggiunge la punta massima. Il ‘900 che abbiamo appena lasciato alle spalle è il momento più fulgido della storia dei discepoli di San Giovanni di Dio: : 60 martiri spagnoli, San Giovanni Grande, San Riccardo Pampuri, San Benedetto Menni, più alcuni in lista d’attesa di beatificazione.

I Fatebenefratelli sono una di quelle forme di aggregazione religiosa che va sotto il nome di Ordini Mendicanti. In cinque secoli di presenza, essi sono espressione del ministero sanante di Cristo, mai venuto meno in seno alla Chiesa. Apparentemente in declino e perfino in estinzione in alcune aree geografiche, potrebbero invece trovarsi ad incarnare la profezia che viene da San Riccardo e che lui, nel suo contesto storico ha potuto esprimere in tre momenti separati ma interiormente convergenti. Talvolta mi sono chiesto in che cosa consista la santità del Pampuri visto che non ha fatto niente di straordinario e solo vissuto bene l’ordinario, come si è soliti leggere. Con gli onori degli altari, egli è posto all’attenzione della Chiesa Universale. Il Papa ne ha dato una motivazione, non necessariamente l’unica. Queste sono le impressioni di Giovanni Paolo II espresse nel messaggio rivolto Al Priore Generale Dell’ordine Ospedaliero di San Giovanni Di Dio:

“ Al Reverendissimo Fra’ Pascual Piles Ferrando Priore Generale dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio

1. Nel centenario della nascita di San Riccardo Pampuri, desidero rendere grazie al Signore per questo Santo che onora codesta Famiglia religiosa. La presenza delle sue Reliquie nell’ospedale dei Fatebenefratelli all’Isola Tiberina, costituisce l’occasione opportuna per riproporre, a quanti operano nell’ambito di tale struttura ospedaliera, la testimonianza eloquente della sua vita, tutta permeata dal programma ascetico dell’”ama nesciri et pro nihilo reputari”. Ho avuto la gioia di proclamare beato nel 1981 e santo nel 1989 questa limpida figura di uomo del nostro tempo. In lui rifulgono i tratti della spiritualità laicale delineata dal Concilio ecumenico Vaticano II. La sua esistenza terrena, racchiusa nell’arco di appena 33 anni, mostra come in breve tempo questo giovane religioso abbia saputo raggiungere le vette della santità. Nei primi anni di vita a Trivolzio e Torrino, durante gli studi medi ed universitari a Milano e Pavia, sul fronte italo-austriaco nel corso della prima guerra mondiale, e poi a Morimondo, come medico condotto, lasciò ovunque tracce di pietà e di amore per i poveri. Sorretto dall’esempio dei suoi cari e dalla frequentazione di pii e zelanti sacerdoti, egli si impegnò in molteplici campi di apostolato: fu socio assiduo e generoso del Circolo Universitario e delle Conferenze di San Vincenzo de’ Paoli, presidente dell’Associazione giovanile di Azione Cattolica, Terziario francescano e animatore instancabile di iniziative di formazione spirituale e di carità. All’età di 30 anni, entrò nell’ordine dei Fatebenefratelli del cui carisma divenne uno degli interpreti più significativi.

2. “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?” (Mc 10,17). Sembra questa la domanda che attraversa i pensieri di questo giovane, sempre alla ricerca della perfezione cristiana. “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri ed avrai un tesoro in cielo, poi vieni e seguimi” (Mc 10, 21). All’invito del Signore egli, dotato di fede e carità profonda, rispose con gioia, donandosi completamente a Cristo povero, umile e casto ed entrando nell’Ordine dei Fatebenefratelli. Sofferente egli stesso di una malattia contratta in zona di guerra, nell’abbracciare il carisma di San Giovanni di Dio, riuscì a dare pienezza al suo desiderio di annunciare e testimoniare agli ammalati il Vangelo di Cristo crocifisso e risorto.

Come il divino Maestro, sentì l’urgenza del “deserto” e della preghiera (cfr Mc 1,35) per poter poi servire i fratelli, specialmente gli ammalati e i sofferenti. “Ho bisogno di raccogliermi un po’ in me stesso alla presenza del Signore, perché l’anima mia non si inaridisca e perda in sterili e dannose preoccupazioni esterne“, scriveva in una sua lettera. Tale bisogno lo portava a vivere costantemente unito al Signore, a sostare lungamente davanti al tabernacolo ed a nutrire una tenera devozione per la Vergine. Alla scuola del Vangelo, divenne per quanti lo conobbero e, soprattutto, per i suoi assistiti un segno vivente della misericordia di Dio, sempre disponibile a vedere negli ammalati il Cristo sofferente, ad inginocchiarsi sul limitare delle case dove regnava il dolore ed a partire frettoloso senza attendere alcuna ricompensa. Avendo scelto di compiere sino in fondo la volontà del Padre, ad imitazione del suo Signore, visse come atto supremo di obbedienza e di amore anche la malattia e la morte.

3. Come non accogliere il messaggio contenuto nel meraviglioso cammino di santità di San Riccardo Pampuri, che le celebrazioni centenarie ripropongono in modo eloquente? Ai Confratelli dell’Ordine cui appartenne, chiamati a servire Cristo negli ammalati, la testimonianza di questo giovane medico-chirurgo indica che l’unione con Dio deve alimentare costantemente la vita religiosa e l’attività apostolica. Ai laici che operano nelle strutture ospedaliere, San Riccardo Pampuri, medico innamorato della sua missione tra gli ammalati, propone di amare la propria professione e di viverla come vocazione. Egli, che nella cura dei sofferenti non separò mai scienza e fede, impegno civile e spirito apostolico, invita ogni operatore sanitario a tener sempre conto della dignità della persona umana, per esercitare il “dovere quotidiano” con lo spirito del buon Samaritano.

La testimonianza che rese nella malattia, che lo condusse alla morte, incoraggia quanti soffrono a non perdere la fiducia in Dio; li esorta piuttosto ad accogliere anche nella prova il progetto d’amore del Signore. Mentre invoco la speciale protezione di San Riccardo Pampuri, prego perché le celebrazioni giubilari della sua nascita e l’intero programma spirituale e culturale preparato per tale ricorrenza costituiscano per ciascuno un’occasione di rinnovato impegno nella vita cristiana, nei rapporti interpersonali e nel servizio ai malati.

Possano coloro che visitano le Reliquie di San Riccardo Pampuri, con la radicalità e la generosità da lui testimoniata sino alla morte seguire l’esempio di San Giovanni di Dio, Fondatore di codesto Ordine Ospedaliero. Con tali auspici, imparto a Lei, ai Confratelli, alle Religiose collaboratrici, agli Operatori sanitari ed agli ammalati una speciale Benedizione Apostolica. Dal Vaticano, 22 Ottobre 1997 IOANNES PAULUS II

( Santa Sede del 22/10/1997 )


Anche Don Luigi Giussani dal fiuto raffinatissimo in materia di giovani, ha detto la sua su questo sul nostro santo:

Ma sentite queste testimonianze (prese tra quelle contenute nella causa di canonizzazione) su san Riccardo Pampuri, vissuto 1800 anni dopo san Paolo. «Io lo conobbi proprio in università. Per me fu un vero compagno di studi. Pur estraniandosi dalle varie congreghe era sempre con e per noi. (…)

Ho in mente un fatto preciso. Lo rivedo, durante una sollevazione studentesca, accostarsi ai cadaveri di due studenti uccisi, unico ad osare di farlo. Pregò su di loro, ritirandosi poi indisturbato. I dimostranti che erano ad una vicina finestra lo rispettarono, mentre spararono immediatamente ad un altro che tentò di avvicinarsi. Non fu solo una prova di coraggio». «Già. Che anni! In quel paesino sperduto nelle campagne della Bassa milanese.

Non aveva un attimo di sosta, anzi non si dava un attimo di sosta. Potevano chiamarlo in qualsiasi ora del giorno o della notte. Era l’uomo della carità. (…) Aveva istituito una mutua per la quale gli iscritti pagavano due lire all’anno ed egli scalzando questo misero compenso li visitava in qualsiasi momento. Siccome poi la mutua non forniva le specialità, le forniva e pagava di sua tasca. Quando poi non pagava i conti dei suoi ammalati dal panettiere, dal macellaio… Col risultato che a metà del mese non avevamo più soldi e doveva chiederli in prestito»11.

Epperò io comincio a credere che si vadano evidenziando davanti ai nostri occhi altri nuovi aspetti non del tutto o non ancora recepiti della sua santità: potrebbe proprio essere nei disegni di Dio che un giovane medico condotto, proveniente dall’Azione Cattolica, che aspira al sacerdozio senza coronare il sogno, desideroso di santità, nella mentalità del suo tempo raggiungibile attraverso un progetto di vita religiosa (diventare santi vuol dire lasciare il mondo), diventi il faro indicatore per un ripensamento della vita religiosa ospedaliera chiamata ad aggregare le tre esperienze che Riccardo ha vissuto separatamente. Se così fosse, la sua attualità è considerevole perché sollecita alcuni ripensamenti sia a livello ecclesiale che sociale:

  • un modo diverso di vivere la fraternità ed il carisma delle comunità religiose ospedaliere maschili e femminili,
  • un modo diverso di essere presenti sul territorio per una cultura di umanizzazione preventiva della persona;
  • la necessità di stabilire legami più audaci con la Chiesa locale;
  • un impegno di coinvolgimento dei cristiani nelle Istituzioni socio-assistenziali;
  • la promozione di una Medicina olistica ed evangelica, finalizzata alla Persona che prende coscienza di essere chiamata a un’esperienza di fede proprio nel momento in cui è coinvolta in un processo di malattia e di sofferenza.

Io sono convinto che la Divinità si vada facendo strada per nuove e misteriose manifestazioni dell’Umanità di Dio. Riccardo ne è un anticipatore perché ha reso evidente

  • che il medico professionista, colto, qualificato, coscienzioso, disponibile, non è tutto;
  • che il credente non è un collo torto che, diffidando della scienza, si rifugia nelle novene;
  • che il medico e il credente, medicina e fede, non soffrono di idiosincrasia. Al contrario sono compatibili, possiedono lo stesso gruppo sanguigno e possono essere un binomio vincente per obiettivi che il farmaco da solo non può raggiungere.

Scrive Ernesto Balducci: “Noi portiamo in noi qualcosa che è Altro da noi ma questa alterità non è soltanto l’ombra ma è la luce, è la potenzialità obiettiva di forme umane più alte in cui le culture si comprendono l’una con l’altra, in cui le alterità non si annullano né si assimilano ma restano tali nel gioco dello scambio reciproco in vista di intese sempre più alte. L’alterità è il veicolo della nostra dilatazione, perché comprendendo l’Altro che è in me ed è fuori di me io dilato me stesso, rimanendo altro dall’Altro che ho compreso”.

A questo sono chiamati tutti: i votati all’ospitalità e coloro che a diverso titolo operano sia nel mondo della sanità che in ogni altro settore dei disagi umani. Riccardo, comprendendo l’Altro che era in lui ed era fuori di lui, ha dilatato se stesso a dismisura. A tal punto che tale processo è tutt’ora in corso. Perché chi appartiene alla Comunione dei Santi, abitando nell’Altro, non esaurisce la sua carica espansiva.

Il dilatare noi stessi a partire dall’Altro che è in noi ed è fuori di noi, rimanendo altro dall’Altro, genera solidarietà, compartecipazione, condivisione…sfaccettature che la tradizione ha sintetizzato nell’ Hospitalitas. A questa Sorgente salutare l’ospedale moderno ha sempre attinto. Quello post moderno è tentato di battere i percorsi alternativi della tecnologia esasperata e dell’autonomia razionale. Coloro che si riconoscono nell’Hospitalitas sono vere “sentinelle del mattino” che vigilano sui destini della sofferenza umana.

In quest’alba di millennio, ai Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio, in particolare ai giovani che sanno scorgere in San Riccardo Pampuri uno di loro, è chiesto di scrutare il disegno di Dio sulla nostra società per il futuro e per interpretare i segni del mondo giovanile per farsi propositivi. Bisogna porsi in una fase di ascolto: cogliere i desideri e le aspettative dei giovani delle parrocchie e dei gruppi, ma anche giovani di realtà non ecclesiali, in particolare del pianeta sanità.

Poi si passerà a ‘tirare le fila’ del lavoro svolto. Il discernimento permetterà di individuareare scelte e strumenti idonei ad affrontare la sfida contemporanea.

Se dovessi titolare al santo medico una Fondazione, la chiamerei A-dol nel significato di Amore-dolore, dove la A che precede il dolore starebbe a indicare che ogni sofferenza deve essere messa in relazione, posta sotto le ali, collegata, con la A maiuscola dell’Amore-Carità, ossia Dio. Infatti. Tutta l’esistenza del Pampuri che altro è se non l’affermazione del primato di Dio, testimoniato fino al sacrificio della sua giovane vita? Tutta la sua esistenza, il suo agire, sono contrassegnati da questa A che carica di senso il suo vivere, il soffrire, il morire: per amore, solo per amore.

Nelle parole pronunciate da Giovanni Paolo II, all’Angelus del 17 novembre 1989 sul Cuore di Gesù mi sembra di poter individuare l’atteggiamento di fondo che ha caratterizzato l’esistenza del giovane Erminio Riccardo Pampuri e permette di cogliere l’essenza di questa spiritualità:

  • · “gioia di tutti i santi”.
  • · già visione di paradiso;
  • · notazione veloce sulla vita del Cielo;
  • · parola breve che dischiude spazi infiniti di beatitudine eterna.

Su questa terra

  • · il discepolo di Gesù vive nell’attesa di raggiungere il suo Maestro,
  • · nel desiderio di contemplare il suo volto,
  • · nell’aspirazione struggente di vivere sempre con lui.

Nel Cielo invece,

  • · compiuta l’attesa, il discepolo è già entrato nella gioia del suo Signore (cfr. Mt 25,21-23);
  • · contempla il volto del Maestro, non più trasfigurato per un solo istante (cfr. Mt 17,2; Mc 9,2; Lc 9,28), ma splendente in eterno del fulgore dell’eterna Luce (cfr. Eb 1, 2);
  • · vive con Gesù e della stessa vita di Gesù.
  • · La vita del cielo non è altro che la fruizione perfetta, indefettibile, intensa dell’amore di Dio – Padre, Figlio, Spirito
  • · non altro che la rivelazione totale dell’essere intimo di Cristo, e la comunicazione piena alla vita e all’amore, che sgorgano dal suo Cuore.
  • · Nel Cielo i beati vedono appagato ogni desiderio,
  • · avverata ogni profezia,
  • · placata ogni sete di felicità,
  • · colmata ogni aspirazione.

Perciò il cuore di Cristo è la sorgente della vita di amore dei santi:

  • · in Cristo e per mezzo di Cristo e i beati del Cielo sono amati dal Padre, che li unisce a Sé col vincolo dello Spirito, divino Amore;
  • · in Cristo per mezzo di Cristo essi amano il Padre e gli uomini, loro fratelli, con l’amore dello Spirito.
  • · Il Cuore di Cristo è lo spazio vitale dei beati: il luogo dove essi rimangano nell’amore (cfr. Gv 15, 9), traendone gioia perenne e senza limite.
  • · La sete infinita di amore, misteriosa sete che Dio ha posto nel cuore umano si placa nel Cuore divino di Cristo.
  • · Lì si manifesta in pienezza d’amore del Redentore verso gli uomini, bisognosi di salvezza;
  • · del Maestro verso i discepoli, assetati di verità;
  • . dell’Amico che annulla le distanze ed eleva i servi alla condizione di amici, per sempre, in tutto.

L’intenso desiderio, che sulla terra si esprimeva nel sospiro: “Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20), ora, nel Cielo, si tramuta in visione faccia a faccia, in possesso tranquillo, in fusione di vita: di Cristo nei beati, dei beati, insieme alla loro Regina, in Cristo!

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