GLOBULI ROSSI: ALLE SORGENTI DELLA KOINONIA – Don Angelo – Comunità di Sant’Orsola
RADICATI NELLA CARITA’
ALLE SORGENTI DELLA KOINONIA
1 Corinzi 1:9
Fedele è l’Iddio dal quale siete stati chiamati alla Koinonia
(comunione) del suo Figliuolo Gesù Cristo nostro Signore
DON ANGELO
Comunità di S.Orsola
La legge di solidarietà che è nell’universo trova la sua prima spiegazione nel modo di essere di Dio stesso, il quale è comunione di tre Persone.
Tale legge assume un particolare valore rispetto alla creatura umana che, oltre ad avere un’insopprimibile esigenza di socialità con i propri simili, è stata chiamata ad un’intima comunione con Dio stesso.
La felicità dell’uomo è legata al realizzarsi di questa comunione che è propria degli esseri personali e che deve compiersi su un piano di libera iniziativa per spontanea e responsabile risposta di adesione all’Altro.
La Sacra Scrittura, mentre ci attesta che l’uomo è fatto per vivere in comunione con Dio e con i propri simili, ci rivela nello stesso tempo che dopo il peccato originale, questa fondamentale esigenza costituisce il tormento e la perenne ricerca del genere umano.
Nel Vecchio Testamento il bisogno di comunione con Dio si esprime e in certa misura si appaga per mezzo del culto, dell’Alleanza, della Legge, della preghiera e della solidarietà fraterna.
E’ Dio stesso a fissare per tappe successive della storia questi appuntamenti con il popolo che si è scelto come collaboratore nella preparazione del suo incontro d’amore con l’umanità.
Questo incontro si realizza nel momento dell’Incarnazione del Verbo.
E’ quindi il Nuovo Testamento a rivelarci la realtà e il significato di questo aspetto della divina economia creatrice e redentrice.
L’umanità glorificata del Cristo è il grande elemento indispensabile in cui avviene la comunione tra Dio e gli uomini e, conseguentemente, degli uomini tra loro.
Ma dato che Cristo prolunga la propria incarnazione nella Chiesa, è in questo che ora gli uomini possono trovare tale comunione sia in senso verticale con Dio sia in senso orizzontale con i fratelli.
Si entra in comunione con la Chiesa mediante il Battesimo e in tale comunione si cresce mediante l’Eucarestia, che significa e attua l’unione del cristiano con Dio e con i fratelli.
Alla Comunione sono ordinati tutti i Sacramenti. La Chiesa rimane sempre aperta a tutti gli uomini che, mossi dallo Spirito santo, cercano un contatto vitale col Cristo e, in Lui, con Dio e con i fratelli.
Questa comunione è anche di natura escatologica. C’è sempre la tensione verso la consumazione di un’intimità con Dio paragonabile all’unione sponsale.
Alla fine dei tempi la comunione dei santi costituirà la Gerusalemme celeste, sposa dell’Agnello Immacolato. E la suprema beatitudine sarà proprio l’essere per sempre insieme con Dio.
_________________________________________
LA COMUNIONE
(KOINONIA)
CON DIO
____________________________________
Dio è in comunione con Se Stesso. Creando Egli estende all’esterno il suo rapporto d’amore.
L’universo si mantiene in equilibrio in forza della legge d’attrazione, cioè legge di simpatia e di solidarietà, insita negli elementi che lo compongono.
Nessuna creatura può sussistere svincolata dalle altre. L’attrazione dei corpi è un aspetto di complementarietà. Questa legge di solidarietà universale, alla luce della Rivelazione, assume il suo vero significato.
Dio, infatti, è in se stesso “Comunione = Koinonia”, cioè “Relazione”. Nel suo Essere Uno e Infinito è sempre in atto un rapporto d’amore.
E’ il rapporto che costituisce il mistero della Santissima Trinità: tre Persone che in un’unica natura, si donano reciprocamente in un inesausto slancio di generosità e che comunicano in modo tale da formare una perfetta unità.
Gv. 19: 30-38 “Io e il Padre siamo una cosa sola “…”Il Padre è in Me e Io sono nel Padre”.
Dio è in comunione con Se Stesso. Creando Egli estende all’esterno il suo rapporto d’amore.
L’universo si mantiene in equilibrio in forza della legge d’attrazione, cioè legge di simpatia e di solidarietà, insita negli elementi che lo compongono.
Nessuna creatura può sussistere svincolata dalle altre. L’attrazione dei corpi è un aspetto di complementarietà. Questa legge di solidarietà universale, alla luce della Rivelazione, assume il suo vero significato.
Filippo gli dice: “Mostraci il Padre e ci basta”. Gli dice Gesù: “Da tanto tempo sono con voi e non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha veduto me ha veduto il Padre” (Gv 14: 8-10)
“Quando verrà il Consolatore, che io manderò da Padre, lo Spirito di Verità che dal Padre procede, Egli mi darà testimonianza”. (Gv 15:26)
In questa comunione sta l’ineffabile beatitudine di Dio che, pur potendo, non volle rimanere chiuso in Se Stesso .
Creando ha voluto estendere all’esterno il suo intimo, essenziale rapporto d’amore. Ha voluto, quasi, non bastare a Se Stesso.
Così ha messo nella creazione l’impronta del proprio essere solidale. E’ per questo che guardando l’opera delle sue mani poteva dire che tutto era buono. (Gen. 1:31)
Infatti tutte le creature tendevano irresistibilmente a Lui, sorgente e potenza conservatrice del loro essere e del loro rapporto (relazione = koinonia).
Erano un riflesso della sua gloria. Gloria che è irradiazione visibile della sua comunione trinitari (Eccli 42:21-25).
_________________________________________
LA COMUNIONE
(KOINONIA)
NELL’UOMO
___________________________________________
L’uomo è una creatura fatta per vivere in comunione. In tutte le creature Dio ha messo la legge della solidarietà.
Quindi anche e soprattutto nell’uomo per averlo fatto “anima vivente”, Dio ha voluto elevare, cioè, tale solidarietà alla comunione dello spirito; caratteristica che è propria degli esseri personali, ossia coscienti, liberi, responsabili, capaci di amare e di amarsi.
Dio ha voluto riflettere il rapporto della propria vita trinitaria (relazione = koinonia) nella creatura umana.
Espressione primordiale di questa socialità è al reciprocità complementare tra l’uomo e la donna.
Adamo solo, era una creatura smarrita, affogata in se stessa, quasi senza la possibilità di godere, in quanto gli mancava la corrispondenza di un altro essere che, appunto, gli fosse “corrispondente” e nel quale potesse espandersi e riversare la gioia della propria comunione con dio.
La gioia che non si può comunicare si muta in tristezza in se stessa; si ripiega su se stessa è si spegne.
Il simbolismo biblico (Gen 2:18) mette in evidenza che le persone che comunicano sono, l’una per l’altra, un aiuto.
Il conseguimento del completamento dell’uno è condizionato dall’apporto dell’altra.
E poiché la perfezione di completamento delle persone umane consiste nella realizzazione di una loro piena intimità con Dio, lo scopo del reciproco aiuto che esse si danno è quello di facilitarsi il conseguimento di tale intimità divina.
Ricordiamo: ogni rapporto umano, da qualsiasi motivo determinato, fosse anche il più nobile, fuori dall’idea della koinonia è destinato a spegnersi, a degenerare o a non raggiungere perfettamente il suo fine.
(Continua)
mercoledì, 21 gennaio 2009
RECENSIONI
DALLE PUBBLICAZIONI
DEL CARDINAL BIFFI
A CURA DI
FRATEL CRISTOFORO
“Comunità di S.Orsola”
Biffi : “intervento a Granarolo”
Il cristianesimo, in sé, non è una concezione della realtà, non è un codice di precetti, non è una liturgia. Non è neppure uno slancio di solidarietà umana, né una proposta di fraternità sociale. Anzi, il cristianesimo non è neanche una religione. E’ un avvenimento, un fatto. Un fatto che si compendia in una persona. Oggi si sente dire che in fondo tutte le religioni si equivalgono, perché ciascuna ha qualcosa di buono.
Probabilmente è anche vero. Ma il cristianesimo con questo non c’entra. Perché il cristianesimo non è una religione, ma è Cristo. Cioè una persona.
Io ho puntato su di lui la mia vita, l’unica vita che ho; e quindi sento il bisogno ogni tanto di contemplarne il mistero, di rinfrescare l’identikit di Cristo. Molte volte sentiamo parlare di Gesù Cristo, ma gli unici testi che ci parlano di Cristo sono i Vangeli. Perciò o si sta ai Vangeli, oppure si rinuncia a parlare di lui. Quindi non dirò neanche una parola che non sia documentabile dai Vangeli, a differenza di chi si inventa libri, film e parole.
Prima domanda, la più semplice: che tipo era questo Gesù Cristo? Che uomo era? Questo il Vangelo non lo precisa. E devo dire che un po’ mi secca, perché ho puntato la mia vita su di lui e non so neppure di che colore fossero i suoi occhi.
Era bello o era brutto? Beh, secondo me era bello. C’è un episodio dell’undicesimo capitolo del Vangelo di Luca. Gesù sta parlando alla folla. All’improvviso una donna, lanciando un grido d’entusiasmo, dice: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha nutrito”.
Ecco, questo è il primo panegirico di Cristo. Ed è fatto in termini molto… corporei. Tant’è vero che Gesù le rimprovera di trascurare la parola di Dio, per soffermarsi sulla sua bellezza: “Beati quelli che ascoltano la parola di Dio”.
Noi però ringraziamo questa donna sconosciuta, che ci ha permesso di rispondere alla nostra domanda preliminare: Gesù era davvero un bell’uomo.
E aveva anche due splendidi occhi. Lo sguardo di Gesù colpiva chi lo incontrava. I Vangeli, soprattutto quello di Marco, parlano spesso del suo sguardo: penetrante su Simone, che gli viene presentato dal fratello; affettuoso sul giovane ricco, quello che poi se ne va perché lui gli dice di “lasciare tutto e seguirlo”; di simpatia su Zaccheo, il capo degli esattori delle imposte che rubavano ( solo allora, per carità, non voglio dare giudizi ), che lo guardava stando appollaiato su un albero su un albero. E, ancora, di tristezza sull’offerta dei ricchi, di sdegno su quel che avveniva nel tempio, di dolore per chi lo tradisce… Insomma, il suo era uno sguardo che parlava.
E che faceva capire come Gesù avesse le idee chiare. Molto chiare. Quando parlava non diceva mai “ forse, secondo me, mi pare”.
E non aveva peli sulla lingua neanche con i potenti: ricordate quando dà della “volpe” al re Erode?
Ma una delle cose più belle di Gesù è che era un uomo libero. Anche dai suoi amici: Quando san Pietro fa la sua professione di fede ( ogni tanto ne azzeccava una anche san Pietro… ) Gesù gli fa un panegirico mai dedicato a un uomo, tanto che san Pietro probabilmente si ringalluzzisce, e comincia a pensare in grande.
Ma quando Gesù gli annuncia che il suo destino è quello di essere mandato a morte, Pietro, che già si sente “primo ministro del Regno di dio”, lo prende per un braccio e lo rimprovera. Gesù neanche lo guarda e lo tratta malissimo: “Va’ via da me, Satana: tu non pensi alle cose di Dio ma alle cose degli uomini”.
Niente male per un amico, no?
Con i parenti, poi, certe volte era anche peggio.
Quando Gesù abbandona la sua casa, a trent’anni, loro lo considerano pazzo: Lo dice il vangelo di Marco al capitolo terzo: “Uscirono i suoi parenti per andare a prenderlo, perché dicevano: “E’ uscito di sé”, è fuori testa.
Poi, quando la gente comincia ad andargli dietro, i parenti cercano di riavvicinarsi a lui, perché capiscono che in qualche modo sta acquistando potere. E allora chiamano Maria, per cercare di convincere Gesù a tornare da loro. E lui? Capisce tutto, al volo. E fa finta di non riconoscere nemmeno sua madre.
Ma non crediate che fosse un uomo troppo duro. Gesù amava. Anzitutto, i bambini. Sapeva capirli, dote che raramente noi adulti abbiamo: in genere , quando parliamo con loro, sappiamo solo chiedere quanti anni hanno e quale classe frequentano… Roba che a loro non interessa niente. Lui invece: “Lasciate che vengano a me”. Poi, gli amici. Aveva un forte senso dell’amicizia, Gesù. Per esempio era molto amico dei suoi discepoli: e, tra questi, era particolarmente legato a Pietro, Giovanni e Giacomo; e, ancora, tra questi soprattutto Giovanni gli era più amico. Insomma, anche lui aveva delle preferenze tra i suoi amici. Come è giusto: gli amici non sono mica tutti uguali.
Poi Gesù amava il suo popolo. Si sentiva pienamente ebreo, israelita. Tanto che il pensiero della distruzione di Gerusalemme lo fece addirittura piangere.
Ma c’è un’ altra cosa della personalità di Gesù che mi ha sempre colpito: la sua attenzione ai particolari. Gesù stava molto attento alle piccole cose della vita, anche perché sapeva che poteva farne delle parabole. Pensate a quella, quasi “emiliana”, del regno di dio che è simile a una donna di casa che prende un po’ di lievito e lo impasta con la farina finché è tutta fermentata. O quella dell’amico seccatore che deve essere accontentato pur di potersene liberare. Verissimo. Mi ricorda i nove anni in cui sono stato parroco a Legnano: c’era una donna che veniva a trovarmi ogni giorno, lamentandosi del marito. Ma che cosa potevo fare, io ? Non potevo mica ammazzarglielo !
E ce ne sarebbero tanti altri, di episodi da ricordare. Nel capitolo settimo del Vangelo di Luca si racconta che Gesù è a pranzo da un capo dei farisei: a un certo punto viene dentro una di quelle donne che non si sa come chiamarle… Diciamo una “lucciola”. Questa donna si mette vicino a lui e comincia a fargli dei complimenti, lo profuma. Era una scena gravissima: come se a un pranzo parrocchiale di Granarolo, in cui sono invitati il sindaco e il maresciallo dei carabinieri, una di queste donne entrasse e si mettesse a fare i complimenti al parroco… Eppure Gesù non si scompone. Anzi, la difende quasi con cavalleria.
Dal Vangelo, dunque, riconosciamo una figura umana eccezionale. Al punto che quando Ponzio Pilato lo presenta alla gente dice: “Ecco l’uomo”.
E invece io dico: ecco il punto. Gesù era solo un uomo? Perché anche la maggior parte delle persone che non credono lo considerano un grande uomo, da stimare.
Ma è una posizione insostenibile, se guardiamo a quel che Gesù Cristo stesso dice di sé.
Esempi? Si definisce “Figlio dell’uomo”, che era titolo usato dalle profezie di Daniele per indicare un personaggio misterioso, che sarebbe venuto dal cielo e che avrebbe posto fine alla storia. E con questo Gesù evoca la sua origine celeste e la sua definitività. Poi dice di essere “più grande di Davide”, e Davide era il re ideale, l’ideale della monarchia e della regalità per gli ebrei.
Ma la cosa più seria la dice nel Discorso della montagna. “Beati i poveri…” e via dicendo, ricordate? Beh, in quel discorso dice tra l’altro: “Avete udito che fu detto agli antichi “non uccidere”. Io invece vi dico…”.
Pensateci bene: con questa frase Gesù quasi “corregge” la Rivelazione di Dio. E rivendica a sé anche il potere di giudicare l’uomo. E chi può farlo, se non uno che si crede Dio?
E le altre cose che raccomanda? “Chi dà la vita per me la troverà…“
Oh, dare la vita per uno non è mica uno scherzo. Una volta, in una visita pastorale, un bambino mi ha chiesto: “Ma tu saresti disposto a dare la vita per il Signore?”.
Io ci ho pensato su e gli ho risposto: “Senti, io sarei anche disposto a dare la vita per il Signore. Però mi seccherebbe parecchio”. Che era un tentativo di mettere insieme il dovere con la sincerità.
E ancora: “Da’ da mangiare al tuo fratello perché in lui vedi me. Se un mazziniano storico dicesse: “Aiutate i fratelli perché in essi dovete vedere Giuseppe Mazzini”, direbbe una cosa che non commuoverebbe nessuno, perché un uomo povero vivo è molto più importante di un Mazzini morto.
Ma Gesù? Gesù ripaga con la vita eterna. Lo dice anche san Marco, scrivendo nel suo Vangelo in maniera un po’ umoristica: “Chi avrà lasciato il padre e la madre, i campi e la casa per me, avrà il centuplo quaggiù, con le persecuzioni e la vita eterna”.
Come dire: prima un po’ di botte, va bene; ma poi la vita eterna.
Perché il fatto è che Gesù sarà pure stato un grande uomo, un uomo eccezionale. Ma soprattutto è dio. E’ il Figlio di Dio. Non come lo siamo tutti noi, come lo sono tutte le creature, come la farfalla della vispa Teresa ( anche lei è “figlia di Dio” ): lui è il Figlio, l’unigenito.
Negli ultimi giorni di vita Gesù racconta una parabola, una delle più inverosimili nella sua struttura letteraria ( a Gesù non interessa raccontare una novella verista, ma trasmettere un messaggio ): è la parabola dei vignaiuoli infedeli e omicidi, che occupano il terreno del padrone senza dargli niente in cambio.
Allora il padrone manda alcuni servi a riscuotere. I vignaiuoli li picchiano. Il padrone ne manda altri; ma i contadini li uccidono.
E fin qui, secondo me, è un racconto un po’ esagerato: come facevano a pensare di uccidere così la gente e cavarsela senza problemi? Ma a questo punto la parabola diventa addirittura una cosa da matti. Il padrone dice: “Ah, ho un figlio unico, manderò lui, perché avranno timore di mio figlio”.
Ma chi è quel padre che sapendo di avere in casa dei briganti arrischia il suo unico figlio?
E infatti i vignaiuoli decidono di uccidere anche lui, in modo da ereditare la proprietà del padrone ( chissà in quale codice sta scritto che l’eredità passa agli assassini dell’unico erede ! ).
Eppure si è verificato alla lettera: infatti Gesù verrà ucciso fuori della vigna, fuori delle mura di Gerusalemme. Ed è stato il Padre a mandarlo.
Mettete insieme tutte queste cose. Ne esce il ritratto di un uomo eccezionale, che dice di essere Dio. Una provocazione!
Ma noi dobbiamo raccogliere questa provocazione. Perché se uno si presenta in questo modo, se dice di essere Dio, c’è poco da fare: o questo qui è matto, e allora non lo si può stimare, oppure è vero quello che dice, e allora bisogna inginocchiarsi.
Non basta mica dire: è un grande uomo.
Che cosa sono andati a dire gli apostoli di lui? Il nucleo del messaggio cristiano qual è? Una parola sola: è risorto. Si è risvegliato dalla morte. Gli apostoli sono andati in giro a dire che Gesù è risorto ed è ancora vivo. Oh, vivo oggi.
Quando facevo scuola a Milano all’Istituto di Pastorale, ho fatto una lezione sulla risurrezione di Cristo. Finita la lezione, una signora si avvicina e fa: “Ma lei vuole proprio dire che Gesù è vivo…?”.
Sì, signora; che il suo cuore batte proprio come il suo e il mio e il mio”. “Ma allora bisogna proprio che vada a casa a dirlo a mio marito”. “Brava, signora, provi ad andare a dirlo a suo marito”. Il giorno dopo la signora torna da me e mi dice: “Sa, l’ho detto a mio marito”. “E lui?”. “Mi ha risposto: “Ma va’, avrai capito male”. Notate che quella era una catechista. Eppure era sconcertata. Io le faccio avere la registrazione della lezione. Lei la fa sentire a suo marito.
E lui alla fine crolla: “Ma se è così, cambia tutto!”.
Pensateci, e ditemi se non è vero: se quell’uomo, bello, buono, eccezionale, è davvero Dio, e se è ancora tra noi, allora cambia davvero tutto.
L’attualità delle «Omelie del tempo di Natale» di Giuseppe DossettiUno spirito arreso all’amore
Emanuela Ghini
La pubblicazione delle omelie pronunciate per anni da Giuseppe Dossetti nelle varie sedi della comunità religiosa da lui fondata a Monteveglio (Bologna) nel 1956 è un dono magnifico della Piccola famiglia dell’Annunziata non solo alla comunità cristiana. Chiunque s’imbatta in queste omelie è coinvolto dalla parola calda, spoglia e viva, che non cerca di mostrarsi in una sua presunta efficacia, ma di far spazio all’unica Parola salvifica, di divenirne trasparenza.
Chi parla non si ascolta, diviene eco della Parola che corre dalla Genesi all’Apocalisse, e non ha bisogno di parole di uomini, perché le precede. Donando un’energia, una potenza, una consolazione capaci di reggere la vita. Il prezzo è l’annullamento di espressioni umane, anche le più sapienti, l’ascolto e la pura trasmissione. Esse richiedono un cuore purificato, la morte dei “pensieri”, come li chiamano i padri del deserto, la preghiera, tuffo nello Spirito di Cristo, il grande orante volto al Padre per tutti i fratelli.
Le omelie di Giuseppe Dossetti verificano ciò che Evagrio Pontico ha detto nel IV secolo: “Se preghi, sei teologo”. Mostrano che l’apice del discorso su Dio – in Dio – è la protensione a lui e la balbettante risposta, accogliente e sopraffatta, alla sua Parola: l’unica diffondente gioia. Qui si gioca la credibilità del cristiano.
Di questo omaggio l’omiletica di Giuseppe Dossetti non ha alcun bisogno. Ma in questo periodo torna alla mente il suono della sua voce nelle omelie ascoltate per anni nella sua comunità. Se ne usciva rigenerati, quasi che la grazia del battesimo si rendesse percepibile. Si sperimentava che solo lo Spirito parlava nel celebrante: egli non esisteva più, specchio dell’altra Realtà. Era questa a coinvolgere. Ma si era grati allo specchio.
Curate dalla Piccola famiglia dell’Annunziata, le Omelie del tempo di Natale di Giuseppe Dossetti (Edizioni Paoline) riguardano un quarto di secolo (1970-1994). Una delle prime discepole del monaco di Monteveglio, Maria Gallo, vi premette un’introduzione accurata, preziosa per orientare il lettore nei filoni delle meditazioni.
Lo spirito universalistico della comunità monastica di Giuseppe Dossetti, l’esplorazione di mondi geograficamente e culturalmente lontani dall’Europa – Thailandia, Medio Oriente, Terra Santa, India, Cina e così via – l’incontro con l’Ortodossia, l’Ebraismo, l’Islam rendono urgente la risposta alla grande domanda: “Voi, chi dite che io sia?” (Matteo, 16, 15).
La fede
Dossetti è tormentato dal dramma dell’incredulità, dal desiderio della manifestazione della luce “per tutti coloro che l’economia del Padre destina alla Chiesa, specialmente per quei grandi popoli i quali, nonostante l’intensità della loro speculazione e il loro orientamento spirituale, sembrano ancora lontani dalla conoscenza della verità e della grazia che è stata fatta agli uomini”.
La fede non è frutto di volontà. Non muove da iniziativa umana. Non consegue a speculazioni, non è teologia, anche se questa, “se organizzata con senso soprannaturale di discrezione e di equilibrio, può in qualche modo aiutare”. Non dipende dai segni, che richiedono interpretazione.
La fede è dono, luce dello Spirito, percezione del mistero, al di là di ogni sostegno. “È la radice delle facoltà nuove dell’uomo nuovo in Cristo”. Ma brilla a intermittenza. Quanto più cresce, tanto più espone a rischi. Non è mai scontata.
La fede è difficile. È fatica. Lo provano i padri, i santi, i martiri.
L’insidia è oggi più grave per gli aspetti negativi, al limite dell’assurdo, della nostra civiltà: l’imperversare della violenza, della corruzione, del cinismo, il disprezzo della vita, la perdita di senso, la ricerca scomposta, spasmodica di surrogati alienanti, a volte mortiferi, il pullulare di idoli, l’avanzare di altre religioni, che impegnano a un confronto, al dialogo, alla testimonianza forte e semplice.
Tempo di fede nuda, che Giovanni della croce sintetizza in modo folgorante: “Il Padre pronunciò una parola, che fu suo Figlio e sempre la ripete in un eterno silenzio, perciò in silenzio deve essere ascoltata”. La risposta corrisponde all’ascolto: “L’amore non consiste in grandi sentimenti, ma in una grande nudità”.
Natale e battesimo
Vivere di fede è accogliere il battesimo, la sua rinascita, la sua illuminazione, lasciare emergere le energie divine donate, accedere mediante esse alla Parola e ai divini misteri.
Accoglienza della fede, il battesimo richiede apertura al dono: purezza di cuore, liberazione dalle passioni, preghiera, fiducia, frequentazione incessante della Parola, il Verbo che come sposo si offre a chi lo cerca. E mentre domanda purezza, distacco, umiltà, insieme li dona.
“Al di fuori di Cristo le cose non esistono e noi non esistiamo”.
Se, come affermano Giovanni e Paolo, ogni realtà ha senso solo in Cristo, il battesimo opera in ciascuno l’incarnazione. “Come l’iniziativa di Dio, rispetto a tutto il mondo, sta nell’incarnazione, così l’iniziativa di Dio rispetto a ciascuno di noi sta nel battesimo, il lavacro che ci rigenera”.
Natale, attualizzazione dell’incarnazione, è memoria, attualizzazione del battesimo. L’Eterno assume la fragilità della natura umana fino allo strazio della morte, per risorgere e aprire all’uomo la via del ritorno al Padre, alla sua gloria, alla deificazione.
Il Natale perciò è occasione di grazia per crescere nella fede, lungo il cammino di diminuzione, di abbassamento che segna la vita di Gesù dalla nascita alla Pasqua. È domanda di “quello che è più necessario a noi e al mondo, l’aumento della fede e l’accesso ad essa di tutti i popoli della terra”.
Mistero di piccolezza, di contraddizione, di sfida a una ragione presuntuosa, che si ritiene l’unica via di conoscenza, il Natale si apre se “noi ci facciamo piccoli interiormente”, cancellando desideri, aspirazioni, prospettive storico-mondane. “Bisogna operare questo rovesciamento, accettare che Dio sia venuto come è venuto: non in modo grande, con prepotenza, con potenza, ma piuttosto in modo piccolo, esiguo, umilissimo”. Il Dio che regna (Isaia, 52, 7) regna nell’umiltà della sua natività, nell’estremo del suo annientamento”.
Ma l’infanzia di Dio è sovranità. Cristo è unico, inconfrontabile, è il Verbo che è dal principio. “In Cristo, per mezzo di Cristo e avendo come fine Cristo, il Padre ha creato i mondi e le ere passate e future; lo spessore dello spazio, della realtà e del tempo, che dovremmo, forse meglio, chiamare i tempi”.
Natale indica la via alla gloria del Padre: una “dimensione di vuoto che può essere riempita dalla grazia di Dio per una fede attuale in lui sempre più vigorosa, alta, serena. Natale è un grande mistero di umiltà: più noi entriamo in questa veduta e ci sforziamo di annullare tutto ciò che in noi chiede cose grandiose, appariscenti, trionfanti, tanto più scopriamo, nelle vie di Dio attraverso i secoli, il verificarsi sempre più profondo e …attuale della profezia: Il Cristo è venuto così, ha fatto questa scelta e alla fine della sua vita ha fatto la scelta della croce”.
Già presente nella luce di Betlemme, la croce non offusca il gaudio della nascita: il bambino fragile è il re della gloria: una scintilla di percezione di questa realtà incendia una vita. E diviene preghiera perché la manifestazione del Signore, che si attua a Natale e culmina nell’Epifania, “mistero di dilatazione e di espansione di vita”, realizzi la comunione universale: l’umanità e il cosmo parteciperanno alla grande assemblea dei redenti. Natale qualifica la preghiera: accoglienza del Verbo che è luce, vita, splendore per tutta la realtà. Egli ha tutto in sé, non ha bisogno di testimonianza, ma di adesione: la preghiera si fa adorazione quando ci accorgiamo che non è nostra. Noi non abbiamo niente da dare, dobbiamo solo accorgerci che il Verbo è. “La stessa possibilità di dire è, di gridarlo, è il dono costitutivo della nostra personalità. Noi siano questo grido, di cui (il Verbo) non ha bisogno ma di cui ci gratifica, ci dona la ricchezza infinita”.
Povertà e gioia messianica
La povertà radicale del Natale impegna tutti i battezzati, in forza dell’illuminazione ricevuta, alla responsabilità di custodire e far crescere “questa scintilla di fede per altri, conosciuti e sconosciuti, che troveremo o non troveremo sul nostro cammino”.
L’impegno consegue al dono. Natale manifesta la fede, apertura al “mistero di Cristo Signore, che malgrado tutto si inserisce nell’intimo dell’umanità”.
Il desiderio di entrare sempre più a fondo in questo mistero “si accumula nella storia profonda della Chiesa”. Storia di fede provata, crocifissa, come tutti i santi testimoniano, da Ignazio d’Antiochia a Teresa di Lisieux, per richiamare, nella folla che nessuno può contare, due estremi per distanza di secoli e diversità di martirio. Dossetti ribadisce la necessità della morte dell’uomo vecchio, per entrare nel mistero dell’incarnazione. È di drammatico realismo la sua analisi circa il “sentirsi sempre più crocifissi da quello che noi diciamo mistero, cioè da quella presenza reale del Dio trascendente nella nostra realtà di uomini immersi nel tempo e nella storia”.
Ma l’altro volto della croce, cioè del Crocifisso, è il Risorto, pure già presente nel Piccolo adorato dai pastori, il Salvatore annunziato dagli angeli come una grande gioia. Gioia della redenzione dai limiti umani, della salvezza dall’inconsistenza del nulla, dell’incontro con l’Amore che per primo ci ha amati.
Riportando all’illuminazione battesimale, Natale è invito a passare dall’illuminazione della mente a quella del cuore, accogliendo “i piccoli bagliori” della “luce interiore che è il grande sbocco della gioia”. La luce del cuore va cercata nelle piccole cose, in ciò che è stolto, non in ciò che è sapiente. Va cercata nel combattimento spirituale contro la prepotenza dell’io. Va cercata per tutti e per tutto il mondo: è impossibile gioire se miliardi di persone soffrono, esultare nella luce e esse sono nelle tenere.
“Un grido parte dal cuore dell’umanità disperata e chiede le consolazioni di Dio”.
Dobbiamo chiederle per noi e per tutti. Dio “ci lascia nella lotta, ma mai nella disperazione”.
Così si accoglie la gioia messianica: gioia piena, pacificante e pacificatrice, che zampilla “dalla luce del cuore”.
Fortiter et suaviter
Giuseppe Dossetti è stato uomo di luce e di pace. La passione di una coscienza indomita è divenuta in lui irradiazione della mansuetudine di Cristo. Chiunque l’abbia frequentato, forse anche solo avvicinato, ha incontrato la modestia, l’umiltà, la delicatezza uniche dell’uomo di Dio, posseduto da Cristo.
Nulla di caustico, di pungente, di amaro in uno spirito arreso all’Amore. Nessun compiacimento, anche inconsapevole, per un’intelligenza ammirata di sé, esposta al rischio di farsi giudice di altri, di divenirne critica, in nome di una presunta chiarezza che ferisce e respinge.
Egli ha vissuto la nota affermazione di Newman, di non sempre facile attuazione: “Gentiluomo è chi non arreca pena ad alcuno”. Dove “gentiluomo” in questo caso sta per monaco, cioè per cristiano, perché il monaco per i padri del deserto è il comune cristiano.
È stato per tutti fonte di consolazione e “testimone della speranza, di quella grande speranza che anche nelle notti della solitudine non tramonta” (Benedetto XVI, Spe salvi, 32).
La straordinaria lucidità dell’intelligenza si è sposata in Dossetti con una tenerezza misericordiosa priva di remore ma capace, pur additando l’errore e il peccato, di avvolgere di una dolcezza soccorrevole, che riscatta e perdona. Di cogliere la persona – dono di pochi – nel suo cuore profondo, oltre parole e gesti. Un uomo abitato dallo Spirito, che la comunione con Cristo ha inondato della grazia luminosa e contagiosa dei miti e puri di cuore.
Soleva dire don Giuseppe Dossetti: “Ci sono uomini che cercano il discorso su Dio e uomini che vogliono conoscere la tua esperienza di Dio”. Sarebbero questi ultimi, a giudizio di Maria Gallo, i primi destinatari delle omelie dossettiane, “esempio di una ricerca continua di Dio, di un’esperienza con i mezzi supremi che Dio ha dato: la sua parola, attualizzata al massimo nella celebrazione eucaristica, e la vita sacramentale che nasce col battesimo”.
(©L’Osservatore Romano – 27-28 dicembre 2007)
Il Peccato
Dossetti
“Un solo Signore”
Edizioni Dehoniane
E’ evidente che io non posso fare tutta la dottrina del peccato nel Nuovo Testamento; posso soltanto mettere insieme alcuni elementi.
In primo luogo si deve dire che il peccato è oggetto di fede e non di ragione, perché non si identifica con nessuna delle categorie razionali di errore, di colpa, di lesione, di responsabilità…
Dicendo questo si è già detto tutto, si è già riproporzionata tutta una serie di argomentazioni. Sarà vero o sarà falso, questo è tutt’altro discorso; ma se vogliamo affrontare il problema sul piano in cui lo pone la Scrittura, è certo che tutte le considerazioni che possiamo fare in base ad altre categorie razionali, che indebitamente o equivocamente molte volte noi accostiamo al peccato, non hanno alcun valore…
Prima di muoverci sul terreno della Scrittura possiamo considerare ancora una cosa a conferma di quello che si diceva.
E’ risaputo che è la rivelazione biblica, e particolarmente il cristianesimo, a introdurre il concetto di peccato, altrove non lo troviamo.
Nel pensiero greco, con il quale il cristianesimo adulto deve confrontarsi, troviamo invece una figura che è nettamente contrapponibile e perciò va evocato proprio perché rappresenta un termine preciso di confronto. Si può anzi dire che è uno degli elementi caratteristici del pensiero greco, cioè la concezione socratica ( successivamente di Platone e anche di Aristotele ) che non conosce il peccato ma “l’errore” o meglio “l’ignoranza” (agnoia), vista come un limite dell’esistenza umana.
L’uomo non è onnisciente e quindi necessariamente erra, in quanto ci sono in lui delle zone di inconoscenza. Non si tratta di un frammento, ma di un elemento fondamentale di tutto l’intellettualismo greco. Il rimedio perciò non può essere altro che un’espansione progressiva della conoscenza che, tuttavia, secondo il pensiero platonico, non potrà mai arrivare agli ultimi confini, proprio perché l’uomo non è onnisciente e per lui ci sono dei confini, questi confini si possono solo spostare.
E’ caratteristica di ogni razionalismo la non presenza o la perdita del peccato come rapporto negativo con Dio.
Ritroviamo invece la sua sostituzione con l’errore nel razionalismo contemporaneo e particolarmente in quella sua manifestazione oggi egemonica che è il neoilluminismo
E, sotto l’egemonia di questo neoilluminismo, noi cristiani non siamo più capaci di avere la consapevolezza biblica del peccato.
Tutta la nostra cultura ha sotteso la proposizione fondamentale che esistono solo le realtà fisiche, le altre che sembrano non essere tali sono ad esse riducibili: così le stesse realtà psicologiche o sociologiche sono in ultima istanza riducibili alla biologia…
E’ inevitabile allora giungere a una concezione della storia e della nostra esistenza – individuale e collettiva – come un progresso legato allo sviluppo della conoscenza della realtà fisica e dei mezzi di analisi della realtà naturale e umana di dominio dell’una e dell’altra.
Coerentemente, quindi il peccato non può essere più pensato come tale, ma solo come deviazione psicologica o sociologica.
E il rimedio non sarà certo costituito dalla salvezza e dai nostri sacramenti, ma solo dagli sviluppi della conoscenza, non più in un quadro platonico che avrebbe ancora delle garanzie da opporre, ma in un quadro in cui – rotti ormai tutti i limiti dell’umano – non si pone più un problema di distinzione tra onniscienza o meno dell’uomo, e in cui si può prevedere una capacità conoscitiva senza limiti. A questo punto il peccato non è più peccato, ma è solo deficienza di conoscenza e, in ultima analisi, carenza di sviluppi.
Cerchiamo di spiegare con parole più semplici.
Il peccato così com’è comunemente considerato da noi cristiani ha una dimensione e una natura spirituale. Va considerato innanzitutto in rapporto a Dio e al nostro modo di porci davanti a Dio.
Ha un significato innanzitutto verticale, come mancata risposta delle creature ad una vocazione e ad una chiamata del loro Creatore. Benchè conoscibile e sperimentabile in rapporto al creato ed alle creature non può essere definibile dalle categorie della ragione umana. Il senso e la portata del peccato si può comprendere soltanto per rivelazione di Dio. Non può essere afferrato da una ragione naturale non illuminata da una grazia divina. Il peccato come conseguenza di un distacco dall’autore della vita e di ogni vita ha bisogno di una luce che annienti le tenebre in cui la ragione stessa si muove allorchè ha rifiutato la fonte del proprio essere ed operare.
In questo senso può essere solo oggetto di fede, cioè di una ragione che si sottomette al Creatore, mettendo da parte il prodotto deviato ed alienato del proprio pensiero.
E’ dunque Dio che ci dice, cos’è il peccato, la sua origine, la sua portata, la sua natura, il suo esito finale per chi irretito in esso, non vuol venirne fuori e non accetta l’aiuto che è dato dal cielo.
E questo è opera della Rivelazione. Così come storicamente si è determinata in Israele. Nulla che appartenga ad una ragione naturale: siamo proiettati di colpo in una dimensione spirituale in cui opera l’eterna Ragione o Logos di Dio.
La realtà del peccato non è dimostrabile dalle categorie del pensiero umano: è semplicemente affermata e data per vera dalla Parola di Dio.
Non conosce approccio vero se non quello che passa attraverso le vie della fede. O si crede o non si crede alla Rivelazione.
Qualsiasi altra strada porta a risultati diversi e discordanti.
Significativo per noi cristiani il confronto con la cultura greca, che è cresciuta e si è affermata in spazi e tempi molto vicini e contigui a quelli di Israele.
Il pensiero greco, quello che passa attraverso le vie segnate da Socrate e Platone non conosce il peccato, ma l’errore che è ignoranza, ossia un limite insito nella conoscenza umana, limite che la ragione cerca di superare, ma che di fatto non è mai superato del tutto, né superabile se non come tensione continua ad andare oltre ciò che impedisce. L’errore o ignoranza ha dunque un significato relativo al singolo individuo ed alle sue possibilità conoscitive.
La ragione tende ad assolvere da ogni colpa. Perché chi fa il male in definitiva lo fa non sapendo di fare il proprio male.
Quale rimedio dunque? Non in un superiore intervento dall’esterno. Non c’è bisogno di alcuna grazia di Dio, semplicemente è richiesta una maggiore volontà di applicazione volta ai fini di una maggiore conoscenza. Tutto resta rinchiuso nell’uomo e nelle sue capacità naturali.
Il razionalismo ateo moderno non è andato oltre il pensiero di Socrate se non in una accresciuta fiducia nella ragione umana di conoscere in un senso più vero e profondo ogni aspetto di una esistenza alienata, seguendo le vie del metodo scientifico.
Ci si addentra sempre più in profondità nell’esplorazione del dato naturale, fino a dare spiegazione di ciò che appare più recondito nell’illusione di potere dominare sempre di più la realtà attraverso accresciute conoscenze.
In questa negazione del mistero divino e del soprannaturale le stesse realtà psicologiche e sociologiche sono riconducibili alla realtà fisica. Tutto si risolve nell’aggregazione o divisione di particelle materiali che appaiono come l’unico motore della storia in tutti i suoi aspetti. La dimensione spirituale dell’uomo fa tutt’uno con la sua psiche.
Ridotta a puro gioco ed aggregazione di atomi, su essa è possibile intervenire attraverso i semplici rimedi della medicina o della prevenzione.
Ogni morale non può dunque che essere relativa all’individuo ed alla sua particolare struttura biologica.
La ragione umana ha in sé i criteri operativi per un superamento di tutte le ambiguità dell’esistenza.
La stessa malvagità che l’uomo manifesta nei confronti dell’uomo, si può spiegare con categorie razionali che confinano l’uomo nell’ambito del materiale.
L’indigenza, la miseria e la povertà sono le cause di ogni guerra, violenza e rancore.
I condizionamenti sociali, culturali sono gli unici responsabili di ciò che comunemente viene definito male.
Tutto ha una sua giustificazione secondo i dettami di una ragione naturale che si rende sempre più presente a se stessa per meglio operare, per un uomo diverso e per un futuro migliore.
Non si dica che una tale mentalità è esclusiva di chi si manifesta apertamente come ateo.
Lo spirito del mondo è entrato anche nella chiesa.
Non è paradossale che nonostante l’accrescersi e l’aggravarsi del peccato, venga sempre più meno nei cristiani la consapevolezza del peccato?
Non vi è in questo lo zampino del satana, che chiude gli orecchi all’ascolto della Parola di Dio, e fa tutti sempre più esperti ed edotti riguardo alla parola dell’uomo?
Non c’è altro modo per uscire da questa via di morte se non recuperando la consapevolezza del peccato così come è in noi agita e creata dalla Parola rivelata.
Nel greco neotestamentario il peccato è fondamentalmente espresso con una parola sola: “amartia”, in relazione al verbo amartano ( peccatore ) e amartolos ( peccatore).
Ci sono altri termini equivalenti, ma la categoria fondamentale che troviamo nella Scrittura, nei grandi testi relativi al peccato, è precisamente questa.
Nel greco dei LXX, con questa parola si traduce una notevole varietà di parole ebraiche.
Tra le numerose parole ebraiche ce n’è una di gran lunga prevalente su tutte le altre. Nell’Antico Testamento il verbo ricorre 233 volte e il sostantivo 289 volte.
Va detto che subito che non è un verbo relativo a operazioni di conoscenza e non ha niente a che vedere con le radici che esprimono quello che noi chiamiamo “errore”, cioè una falsa o incompleta rappresentazione della verità, ma è un verbo di moto che nel suo primo senso vuol dire”fallire il bersaglio”, poi “smarrire la via”. Così qualcuno ha avanzato l’ipotesi che sia una radice e una categoria beduina: uomini che marciano in carovana per il deserto e che a un certo momento, uscendo dalla carovana, smarriscono la via e si trovano a morire nel deserto.
Ci sono anche dei riscontri testuali: ad esempio il salmo 24, quello così bello che inizia: “A te elevo l’anima mia, Signore”.
Ai versetti 7-8 dice: “I peccati della mia gioventù e le mie trasgressioni non ricordare, ma nella tua misericordia e nella tua bontà ricordati di me, o Signore. Buono e retto è il Signore, perciò egli mostra agli erranti il cammino”.
Gli erranti sono gli “hatta’im”, coloro che escono dalla carovana e, avendo smarrito la via, rischiano di morire con le ossa calcinate al sole del deserto. E Dio, nella sua bontà e misericordia li riacchiappa e li rimette nella carovana della salvezza.
Nelle diverse stratificazioni della rivelazione biblica si può notare uno sviluppo semantico di questa radice, che progressivamente si sposta dal significato iniziale profano a un significato nettamente religioso.
E’ in rapporto alla via di Dio da cui si esce che si dà il peccato, ed è in rapporto al dio, che si rivela nell’elezione e nel patto, che si è peccatori, quando a lui si è infedeli.
Non si tratta dunque di un’operazione carente delle facoltà conoscitive, ma di un distacco voluto dalla fedeltà al patto, sia pure con diversi gradi di consapevolezza.
Quindi è una realtà che non attinge l’intelletto, ma la volontà e che opera una rottura rispetto al Dio della rivelazione…
E’ in questa prospettiva di distacco e di rottura violenta che il Signore, parlando dei peccatori che si separano dalla via di Dio, dalla carovana della salvezza, li definisce “coloro che mi odiano” ( Es. 20,5; Dt 5,9; ecc. )…
Questo ci dice fra l’altro come il peccato non possa essere una categoria razionale; “coloro che mi odiano” definisce ulteriormente il peccato come qualcosa che è in rapporto a Dio: “Contro di te, di te solo, ho peccato e quel che è male ai tuoi occhi ho commesso” ( Sal 50,6 ).
Questo versetto centrale del Miserere non sarà mai abbastanza meditato; mi permetto di suggerirvi il commento di Savonarola, scritto dal carcere negli ultimi giorni della vita: troverete due pagine vigorosissime su questo versetto.
Il peccato è quindi soltanto in rapporto a Dio, è un atto più o meno consapevole di odio al Signore.
Anche per questo è un mistero. E’ qualcosa che non corrisponde all’opinione che gli uomini possono avere circa la portata materiale dell’atto che costituisce il peccato, ma è qualcosa in rapporto alla fedeltà al Dio della rivelazione e del patto. Non è misurabile con dimensioni umane; non è dall’opinione degli uomini che dobbiamo lasciarci ammaestrare e ammaestrare gli altri su quello che è peccato, e su quello che non lo è.
Qualificare il peccato con le categorie del consenso degli uomini è a priori impossibile.
Sappiamo benissimo che ci sono molte ragioni di crisi riguardo al peccato, così come riguardo alla teologia morale come per secoli è stata impostata…
Ho avuto modo di farmi idee molto chiare sulla teologia morale: anche lì c’era la tendenza inconsapevole a far rientrare le categorie del peccato in quelle del pensiero e della cultura del mondo…
Un recupero si potrebbe avere non sul piano della teologia morale, ma sul piano della spiritualità, guardata però con disprezzo dai teologi morali, come se fosse qualcosa di vago e di generico, perché non è scienza.
Prendiamo il salmo 50:
“Contro di te, di te solo, ho peccato
E quel che è male ai tuoi occhi ho commesso,
sicchè giusto tu apparisca nella tua sentenza
e irreprensibile nel tuo giudizio.
Ecco, nella colpa fui partorito e nel peccato mi concepì mia madre.
Ecco, hai voluto che fosse la verità nel mio recondito,
e nell’intimo m’insegni la sapienza”. ( Sal 50, 6-8 ).
Parole veramente paradossali! “Contro di te solo ho peccato”.
Contro te solo si qualifica il peccato, e solo quando l’ho riconosciuto si verifica questo capovolgimento e si dichiara la giustizia e la santità di Dio. Sicchè anche il peccato, una volta però che sia rovesciato, ha la funzione positiva di far emergere e di glorificare la santità di Dio.
E’ la sapienza segreta, quella che scopre l’irriducibilità del peccato alle dottrine umane elaborate nelle varie epoche circa la colpa o la responsabilità o l’errore.
L’intima sapienza, purtroppo, molte volte non la si trova nei libri di teologia morale, semmai negli scritti di spiritualità.
Ed è precisamente per questo che oggi siamo così disarmati dal punto di vista degli strumenti culturali e rischiamo continuamente di essere sommersi, nostro malgrado, da un pensiero che è assolutamente non omogeneo alla Parola di Dio.
Gli atti che vengono a comporre la condizione di peccato non sono valutabili razionalmente secondo le categorie naturali o secondo quelle delle attuali scienze umane; questi atti si rapportano a Dio solo, al Dio che si rivela, al Dio dell’elezione e dell’alleanza.
Di conseguenza solo Dio può operare il recupero degli “sviati sulla via”, ma occorre un suo nuovo intervento, che non è qualitativamente diverso da quello della rivelazione iniziale e dell’alleanza.
In altre parole si tratta come di una nuova generazione. E’ quello che possiamo constatare nella dottrina che ci presenta il più grande dei salmi penitenziali:
“Purificami con issopo e sarò mondo,
lavami e diventerò più bianco della neve.
Parlami di gaudio e di allegrezza
E le ossa che hai infrante esulteranno.
Distogli la tua faccia dai miei peccati
e cancella tutte le mie iniquità”.
Sono tutte operazioni di Dio; ed ecco la nuova generazione:
“Un cuore puro crea per me, o Dio,
e uno spirito retto rinnova nel mio interno.
Non mi scacciare dalla tua faccia
e il tuo santo Spirito non togliere da me” ( Sal 50, 9-13 )
Allora si capisce come già il Miserere, per presentimento evangelico, ponga questa nuova creazione, questo nuovo intervento di Dio, nella sfera del miracolo e quindi della gioia che l’evento divino inevitabilmente produce.
“Parlami di gaudio e di allegrezza”, è un preannunzio di Lc 15: la gioia che si fa in cielo è più grande per un solo peccatore ritrovato che per novantanove pecorelle che sono rimaste nell’ovile ( cf Lc 15,7 ).
Si tratta anche qui non di una semplice emozione, ma di una gioia divina, escatologica.
A questo punto si dovrebbe inserire una riflessione sul capitolo terzo del Genesi. Mi limito solo a qualche considerazione metodologica rispetto a questo testo che è così fortemente attaccato dalla pubblicistica odierna, quella in vena di facili successi. Solo chi non ha capito cosa vuol dire la grande compattezza teologica di quel racconto può distinguere e tentare di separarne i membri, come oggi abitualmente si fa nella nuova esegesi, mentre si tratta di un unico enunciato in sé indivisibile, da prendere quindi nella sua totalità senza insinuare delle distinzioni. Questo mi sembra il criterio metodologico da rispettare rigorosamente.
L’unico enunciato è questo: la realtà di ciascun uomo e di tutti gli uomini, il destino di ciascun uomo e di tutti gli uomini – in quanto uomini nella loro condizione reale, storica – sono plasmati da quell’avvenimento unico, dal tentativo dell’uomo di essere come Dio…
Si può dire che questo racconto enuncia in termini di grande semplicità e forza che essere uomo nell’effettiva condizione storica significa necessariamente essere peccatore: l’uomo non può conoscere il fondo del proprio essere senza risalire a questo dato primordiale…
Il discorso sul peccato – prendendo atto dei dati che ci consentono di giungere alla conoscenza di noi stessi e del nostro porci di fronte alla realtà che sta fuori di noi, in noi e sopra di noi – è così decisivo che, se non ce ne rendiamo conto secondo verità, superando tutte le nostre incertezze e le nostre approssimazioni, non possiamo pensare di essere illuminati sul nostro cammino, e siamo invece ancora nell’oscurità…
L’esperienza dimostra che, quando si nega il significato essenziale del racconto del Genesi, l’uomo finisce col non avere più un orientamento su di sé e con l’ignorare se stesso. Si può anche dire che, quando si nega il peccato originale, inevitabilmente si è portati a dover negare i singoli peccati attuali in cui ogni uomo e anche noi personalmente cadiamo, o a non avere più le basi sicure per poter riconoscere.
Una volta individuata quella che ho chiamato la “compattezza teologica” di questo discorso, sarà facile vedere come essa si propone in termini di un’alternativa categorica che non consente smembramenti.
E’ ormai ora di passare al Nuovo Testamento.
Esso fa proprio il termine fondamentale prevalente della versione greca dei LXX e cioè “amartano” col significato che ha nel greco non biblico di “mancare il bersaglio”. C’è un altro verbo greco sinonimo di questo, “apotugcano”, il cui opposto è “tugcano” (cogliere, raggiungere).
Tutta la nostra vita è questo: da un lato siamo chiamati a centrare il bersaglio che è Cristo, dall’altro c’è il peccato, cioè il fallire il bersaglio.
Questo è molto importante perché ci conferma che nel Nuovo Testamento, come nell’Antico, il peccato ha sempre in sé, intrinseca, la sanzione.
Nell’Antico, ancor più che nel Nuovo, il peccato può avere anche delle sanzioni estrinseche: calamità, catastrofi cosmiche, sconfitte del popolo di Dio, malattie, deviazioni di ogni genere: sanzione estrinseca è la morte stessa, stipendio del peccato.
Ma nell’Antico come nel Nuovo Testamento il peccato ha in sé una sanzione intrinseca che è precisamente quella di far fallire il bersaglio, di non raggiungere Dio – il Dio dell’alleanza e del patto – e quindi di non cogliere Dio, di non cogliere Cristo…
Se una cosa è peccato – in conformità al paradigma fondamentale della Scrittura – è inutile che tentiamo di ridurne la portata e le conseguenze o di metterci in una prospettiva dalla quale si possa sperare che non tutto è perduto.
Il peccato infatti resta inevitabilmente un fallire Dio, un mancare allo scopo, un uscire dalla nostra strada cioè dalla strada di Dio verso di noi; quindi un rimanere sicuramente fuorviati, quanto a noi, se non c’è un nuovo intervento divino.
Quante volte questo è riproposto nel Nuovo Testamento!
Le parabole classiche che abbiamo ben presenti nell’anima non ci dicono altro che questo. Basterà richiamare alcuni testi che distribuisco secondo una certa classificazione.
Nel Nuovo Testamento il termine amartia ( peccato ) si presenta con tre sensi: uno che non è tipico del Nuovo Testamento, gli altri due che vi ricevono un’accentuazione tutta propria.
a ) In un primo senso il termine si riferisce a singoli atti di peccato; i testi che si potrebbero citare al riguardo sono infiniti: praticamente tutti i Sinottici, gli Atti, le Lettere pastorali ecc. In questi brani con assoluta prevalenza il peccato, o meglio i peccati al plurale, sono sempre singoli atti di peccato.
b ) In un secondo senso, molto diverso e caratteristico del Nuovo Testamento – almeno nel modo forte con cui viene proposto – il peccato non è più inteso come singolo atto, ma come dimensione dell’uomo storico e perciò come dimensione universale di tutti gli uomini. Questo si riscontra non solo nei testi in cui è più esplicito il rapporto con il peccato di Adamo, ma anche in molti altri. E’ specifica del Nuovo Testamento la trasformazione di questo senso del peccato sino alla sua universalizzazione come ostilità a Dio che è propria dell’uomo storico universale.
Potremmo dire che in genere, salvo tre o quattro testi che fanno eccezione, questo è il senso del peccato che si trova abitualmente nel quarto vangelo e negli scritti giovannei. Possiamo leggere qualche passo:
“Di nuovo dunque Gesù disse loro; Io me ne vado e voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato. Dove vado io voi non potete venire” ( Gv 8,21 ).
Come in altri testi di Giovanni, la parola è presa al singolare e denuncia una condizione globale – non un singolo atto – da cui l’uomo non può uscire, così come non si può mettere nella via di Dio e arrivare all’appuntamento con lui: “dove vado io voi non potete venire”.
“Gli risposero, gridandogli ( al cieco nato ): “Sei nato nei peccati da capo a piedi e ci vuoi far da maestro?”( Gv 9,34 )
Si testimonia qui, fra l’altro, una partecipazione a questa dottrina da parte del tardo giudaismo. Io non ho esaminato questo capitolo 9 come avrei dovuto, esso è però importante come ponte di passaggio dalla dottrina dell’Antico Testamento a quella del Nuovo:
“E, uditolo, alcuni farisei che erano con lui, gli domandarono: “Siamo forse ciechi anche noi”: Gesù rispose: “Se foste ciechi, non avreste colpa; invece voi dite: Noi vediamo. Il vostro peccato dunque rimane” ( Gv 9,40 ).
Prestate attenzione al fatto che anche qui si parla di peccato e non di peccati, evidentemente si considera una condizione complessiva e globale che interessa non un uomo, rispetto a una singola azione, ma tutti in ordine a tutto.
Importantissimo a questo proposito è il discorso della seconda parte di Gv 15:
“Ma tutto questo faranno contro di voi a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato. Se non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero colpa, ma ora non hanno scusa del loro peccato. Chi odia me, odia anche il Padre mio” ( Gv 15,21-23 ).
Il concetto di peccato qui viene ancora più esplicitamente riportato al concetto di odio a Dio, che si specifica e si personalizza nell’odio a Cristo:
“Se non avessi fatto fra loro opere che nessun altro mai fece, sarebbero senza colpa; ma ora, anche dopo averle vedute, hanno odiato me e il Padre mio. Ma ciò è avvenuto affinché si adempisse la parola scritta nella legge: Mi odiarono senza ragione” ( Gv 15,24-25 ).
L’odio è sempre inspiegabile e ancor più l’odio a Dio. Per questo aspetto il peccato è puro mistero: “mi odiarono senza ragione”.
Con la ragione non potrei mai rendermi conto di quella che è la dimensione del peccato, né della sua portata oggettiva, né delle sue motivazioni profonde, né dello spirito al quale nel peccato io partecipo.
Veramente si può dire di esso che è un odio senza ragione, una partecipazione a uno spirito contrario allo spirito della verità e della vita. Se cerco di razionalizzare il discorso non potrò mai veramente cogliere la nozione biblica di peccato…
A conclusione possiamo affermare che, fuori dal Cristo e dalla sua morte e risurrezione, l’uomo vive e muore non nei peccati, ma nel peccato. Ed è per questo che Giovanni, proprio nell’esordio del suo Evangelo, dirà di Cristo che egli è colui che è venuto a togliere il peccato del mondo ( cf. Gv 1,29 )…
C ) Passiamo ora al terzo senso del termine peccato nel Nuovo Testamento.
Finora abbiamo detto: non un singolo peccato, ma condizione globale dell’uomo e dell’umanità, tanto che si può stabilire un’equazione: uomo e umanità uguale a peccatore e peccato.
Come c’è una personalità unitaria sovrannaturale dell’umanità intera nella giustizia di Dio, così nel Nuovo Testamento c’è inevitabilmente un’indicazione verso una personificazione del peccato.
A questo si riferiscono i testi nei quali si parla di peccato al singolare e con l’articolo determinativo.
La tendenza alla personificazione del peccato si fa più evidente nei capitoli 5,6 e 7 dell’Epistola ai Romani.
Potremmo esaminare gli elementi di questa personificazione: il peccato che nasce con la legge, il peccato che muore con l’avvento e la morte di Cristo, il peccato che signoreggia nelle membra del corpo di peccato, che regna nella carne dell’uomo ( l’uomo totale nella sua condizione di creatura inferma e degradata è cioè ancora soggetto al peccato) e così via.
Ora abbiamo considerato tutti questi elementi con uno sguardo fuggitivo. Mi pare particolarmente significativo un testo di Giovanni:
“Gli opposero: “Noi siamo progenie di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno; come dunque dici tu: sarete liberi”?. Rispose loro Gesù: “In verità vi dico: chi fa il peccato è schiavo del peccato”. ( Gv 8,33-34 ).
È un’affermazione forte, che tende a riproporre l’esistenza di due sfere, di due domini che si contendono la realtà dell’uomo, e il fatto che non si dà possibilità di sottrarsi all’uno se non accettando di essere totalmente sotto il dominio dell’altro.
Queste due sfere non sono semplicemente di carattere psicologico, ma hanno una loro realtà, un’effettiva consistenza ontologica, tale che obiettivamente si può parlare di due domini.
Quando non si è nel dominio di Dio e totalmente attaccati a lui, inevitabilmente si ricade nel dominio di queste forze di cui cominciamo a individuare la possibilità di personalizzazione. Il peccato è qualcosa di ulteriore, che sta dietro all’atto.
Se abbiamo capito cos’è il peccato e come non possiamo rapportarlo al nostro concetto di illecito o di lecito, ne deriva che lo stato oggettivo del peccato rispetto a Dio resta, nonostante l’ignoranza.
È il capovolgimento della posizione ellenistica, platonica, socratica, e mostra come il peccato sia una condizione oggettiva, globale dell’uomo, da cui egli esce solo per un contatto diretto con Dio, con Cristo, e non per effetto di una diminuzione della sua responsabilità come noi la concepiamo. Solo quando Dio mi recupera, mi rigenera, mi ricostruisce, solo quando mi comunica il suo Spirito Santo e crea in me un cuore nuovo, io esco dalla condizione di peccato…
La salvezza non è altro che il realizzarsi di un’iniziativa misericordiosa di Dio – che si chiama perdono, misericordia, riconciliazione – la quale si concreta in una spoliazione dell’uomo vecchio, ossia in un procedimento di distruzione e di morte da un lato, e in una rigenerazione e ricreazione dell’uomo nuovo nello Spirito di Dio dall’altro, quindi in un procedimento effettivo di nuova creazione e di risurrezione.
Non sono persuaso che la dimensione del peccato, nei termini auspicabili secondo una riflessione più profonda sul Nuovo Testamento, ci sia stata in secoli o in situazioni in cui si parlava del peccato in termini molto impegnati e, se volete, molto colorati.
Non possiamo considerarci viventi nella dimensione reale del cristianesimo se non affrontiamo con estrema serietà l’ argomento.
Lo stesso discorso dell’immensa gioia della pacificazione in Cristo e della riconciliazione nostra in lui nella sua morte e risurrezione, non ha senso se non è adeguatamente compresa tutta la dimensione del peccato. La dimensione della gioia è infatti correlativa e coestensiva a quella del peccato.
Solo misurando l’infinita dimensione del peccato rispetto a Dio, all’uomo e all’umanità, si può coestensivamente capire l’illimitata dimensione della gioia escatologica che il Cristo ha donato portandoci l’escaton, l’ultimo evento che è appunto la riconciliazione dal peccato.
In fondo è un medesimo discorso, con una stessa estensione, che richiede che entriamo completamente nel gioco.
Il peccato nella prospettiva biblica, e particolarmente secondo il Nuovo Testamento, investe la totalità della persona in tutte le sue espressioni, esteriori e interiori, sia che si esauriscano nella pura soggettività, sia che incidano ledendoli, sui rapporti con gli altri.
In questo senso il peccato non è solo una di queste modalità o di questi aspetti, ma peccato sono tutte queste modalità e tutti questi aspetti.
È cosa ovvia che non metterebbe conto di essere sottolineata se questo non fosse oggi troppo dimenticato, anzi addirittura contestato.
La prospettiva del peccato che va più di moda è quella che lo considera esclusivamente, o quasi, in quanto porta lesioni ad altri.
Questa concezione rientra in una mentalità che risente della visione del mondo oggi particolarmente affermata da certe posizioni dottrinali egemoniche.
Risente della necessità di recuperare una dimensione essenziale del cristianesimo, trascurata nei secoli passati, relativa al senso comunitario del piano di salvezza del Signore e della sua realizzazione nell’incarnazione e nella comunità cristiana.
Tutto questo ci rende giustamente più attenti alla dimensione comunitaria del peccato.
Nel concreto però della nostra pratica quotidiana riguardo a questo ricupero ci sono un’accentuazione delle conseguenze e un modo di esprimersi che prescindono dagli elementi più propri della visione cristiana e della sua dimensione comunitaria, e si contaminano invece con una visione eminentemente sociologica, ricavata dalla cultura dominante, la quale non conosce altra dimensione del male che quella che si manifesti concretamente lesiva della situazione altrui. In questo modo ha sempre meno rilievo quella dimensione del male che è priva di un’espressione sociale e che si presenta come mancanza di fronte a Dio, senza che si concreti nella lesione di un altro soggetto.
Sappiamo bene che di questo tipo di mancanze ce ne sono; nell’elenco che il Nuovo Testamento ci pone sotto gli occhi troviamo peccati a una dimensione e peccati a due dimensioni.
Tutti hanno in comune l’essenza fondamentale del peccato, la separazione da Dio; alcuni la realizzano con un atto interiore o che comunque non ha ripercussioni dirette nei confronti del prossimo, altri invece la realizzano con un atto che implica lesione agli altri.
Anche se c’è un più o un meno, tutto è da presentare all’occhio di Dio e tutto può essere peccato di fronte a lui. Del resto non abbiamo bisogno di insistere perché questo è l’evangelo.
L’evangelo ci insegna che ci sono dei peccati interni che non si consumano in nessun atto, e che ci sono dei peccati i quali non implicano nessuna conseguenza per gli altri, ma sono peccati, e ci insegna soprattutto che è nell’interno che il peccato deve essere cercato.
“Ora, egli diceva: “Quello che esce dall’uomo invece è ciò che contamina l’uomo. Infatti dal di dentro, dal cuore degli uomini, escono i cattivi pensieri: dissolutezze, latrocini, assassinii, adulteri, cupidigie, cattiverie, frode, impudicizia, invidia, diffamazione, orgoglio, stoltezza. Tutte queste cose malvagie vengono dal di dentro e contaminano l’uomo” ( Mc 7,20 -23 ).
È la nostra carne, nel senso della nostra personalità carnale, ad essere impregnata di peccato in tutte le sue cellule, in tutte le sue dimensioni sia individuali che collettive.
Quindi soltanto un’immersione totale, un battesimo nel sangue e nello Spirito di Cristo può restaurare l’integrità e l’unità del nostro essere e presentarci al cospetto di Dio nella pienezza delle nostre dimensioni, per le opere buone per le quali Dio ci ha creato in Cristo Gesù. Il peccato non è in rapporto alle cose o ai singoli soggetti, ma è in rapporto a Dio e all’incontro personale con lui.
Più precisamente, da quando l’evangelo è predicato, il peccato è in rapporto a Cristo, alla sua persona, alla totalità della donazione nostra al suo servizio, al nostro perfetto e totale aderire a lui, al porci completamente sotto il suo dominio.
G.Dossetti
Il peccato – parte 2
Scrive Dossetti:
Gli atti che vengono a comporre la condizione di peccato non sono valutabili razionalmente secondo le categorie naturali o secondo quelle delle attuali scienze umane; questi atti si rapportano a Dio solo, al Dio che si rivela, al Dio dell’elezione e dell’alleanza.
Di conseguenza solo Dio può operare il recupero degli “sviati sulla via”, ma occorre un suo nuovo intervento, che non è qualitativamente diverso da quello della rivelazione iniziale e dell’alleanza.
In altre parole si tratta come di una nuova generazione. E’ quello che possiamo constatare nella dottrina che ci presenta il più grande dei salmi penitenziali:
“Purificami con issopo e sarò mondo,
lavami e diventerò più bianco della neve.
Parlami di gaudio e di allegrezza
E le ossa che hai infrante esulteranno.
Distogli la tua faccia dai miei peccati
e cancella tutte le mie iniquità”.
Sono tutte operazioni di Dio; ed ecco la nuova generazione:
“Un cuore puro crea per me, o Dio,
e uno spirito retto rinnova nel mio interno.
Non mi scacciare dalla tua faccia
e il tuo santo Spirito non togliere da me” ( Sal 50, 9-13 )
Allora si capisce come già il Miserere, per presentimento evangelico, ponga questa nuova creazione, questo nuovo intervento di Dio, nella sfera del miracolo e quindi della gioia che l’evento divino inevitabilmente produce.
“Parlami di gaudio e di allegrezza”, è un preannunzio di Lc 15: la gioia che si fa in cielo è più grande per un solo peccatore ritrovato che per novantanove pecorelle che sono rimaste nell’ovile ( cf Lc 15,7 ).
Si tratta anche qui non di una semplice emozione, ma di una gioia divina, escatologica.
A questo punto si dovrebbe inserire una riflessione sul capitolo terzo del Genesi. Mi limito solo a qualche considerazione metodologica rispetto a questo testo che è così fortemente attaccato dalla pubblicistica odierna, quella in vena di facili successi. Solo chi non ha capito cosa vuol dire la grande compattezza teologica di quel racconto può distinguere e tentare di separarne i membri, come oggi abitualmente si fa nella nuova esegesi, mentre si tratta di un unico enunciato in sé indivisibile, da prendere quindi nella sua totalità senza insinuare delle distinzioni. Questo mi sembra il criterio metodologico da rispettare rigorosamente.
L’unico enunciato è questo: la realtà di ciascun uomo e di tutti gli uomini, il destino di ciascun uomo e di tutti gli uomini – in quanto uomini nella loro condizione reale, storica – sono plasmati da quell’avvenimento unico, dal tentativo dell’uomo di essere come Dio…
Si può dire che questo racconto enuncia in termini di grande semplicità e forza che essere uomo nell’effettiva condizione storica significa necessariamente essere peccatore: l’uomo non può conoscere il fondo del proprio essere senza risalire a questo dato primordiale…
Il discorso sul peccato – prendendo atto dei dati che ci consentono di giungere alla conoscenza di noi stessi e del nostro porci di fronte alla realtà che sta fuori di noi, in noi e sopra di noi – è così decisivo che, se non ce ne rendiamo conto secondo verità, superando tutte le nostre incertezze e le nostre approssimazioni, non possiamo pensare di essere illuminati sul nostro cammino, e siamo invece ancora nell’oscurità…
L’esperienza dimostra che, quando si nega il significato essenziale del racconto del Genesi, l’uomo finisce col non avere più un orientamento su di sé e con l’ignorare se stesso. Si può anche dire che, quando si nega il peccato originale, inevitabilmente si è portati a dover negare i singoli peccati attuali in cui ogni uomo e anche noi personalmente cadiamo, o a non avere più le basi sicure per poter riconoscere.
Una volta individuata quella che ho chiamato la “compattezza teologica” di questo discorso, sarà facile vedere come essa si propone in termini di un’alternativa categorica che non consente smembramenti.
E’ ormai ora di passare al Nuovo Testamento.
Esso fa proprio il termine fondamentale prevalente della versione greca dei LXX e cioè “amartano” col significato che ha nel greco non biblico di “mancare il bersaglio”. C’è un altro verbo greco sinonimo di questo, “apotugcano”, il cui opposto è “tugcano” (cogliere, raggiungere).
Tutta la nostra vita è questo: da un lato siamo chiamati a centrare il bersaglio che è Cristo, dall’altro c’è il peccato, cioè il fallire il bersaglio.
Questo è molto importante perché ci conferma che nel Nuovo Testamento, come nell’Antico, il peccato ha sempre in sé, intrinseca, la sanzione.
Nell’Antico, ancor più che nel Nuovo, il peccato può avere anche delle sanzioni estrinseche: calamità, catastrofi cosmiche, sconfitte del popolo di Dio, malattie, deviazioni di ogni genere: sanzione estrinseca è la morte stessa, stipendio del peccato.
Ma nell’Antico come nel Nuovo Testamento il peccato ha in sé una sanzione intrinseca che è precisamente quella di far fallire il bersaglio, di non raggiungere Dio – il Dio dell’alleanza e del patto – e quindi di non cogliere Dio, di non cogliere Cristo…
Se una cosa è peccato – in conformità al paradigma fondamentale della Scrittura – è inutile che tentiamo di ridurne la portata e le conseguenze o di metterci in una prospettiva dalla quale si possa sperare che non tutto è perduto.
Il peccato infatti resta inevitabilmente un fallire Dio, un mancare allo scopo, un uscire dalla nostra strada cioè dalla strada di Dio verso di noi; quindi un rimanere sicuramente fuorviati, quanto a noi, se non c’è un nuovo intervento divino.
Quante volte questo è riproposto nel Nuovo Testamento!
Le parabole classiche che abbiamo ben presenti nell’anima non ci dicono altro che questo. Basterà richiamare alcuni testi che distribuisco secondo una certa classificazione.
Nel Nuovo Testamento il termine amartia ( peccato ) si presenta con tre sensi: uno che non è tipico del Nuovo Testamento, gli altri due che vi ricevono un’accentuazione tutta propria.
a ) In un primo senso il termine si riferisce a singoli atti di peccato; i testi che si potrebbero citare al riguardo sono infiniti: praticamente tutti i Sinottici, gli Atti, le Lettere pastorali ecc. In questi brani con assoluta prevalenza il peccato, o meglio i peccati al plurale, sono sempre singoli atti di peccato.
b ) In un secondo senso, molto diverso e caratteristico del Nuovo Testamento – almeno nel modo forte con cui viene proposto – il peccato non è più inteso come singolo atto, ma come dimensione dell’uomo storico e perciò come dimensione universale di tutti gli uomini. Questo si riscontra non solo nei testi in cui è più esplicito il rapporto con il peccato di Adamo, ma anche in molti altri. E’ specifica del Nuovo Testamento la trasformazione di questo senso del peccato sino alla sua universalizzazione come ostilità a Dio che è propria dell’uomo storico universale.
Potremmo dire che in genere, salvo tre o quattro testi che fanno eccezione, questo è il senso del peccato che si trova abitualmente nel quarto vangelo e negli scritti giovannei. Possiamo leggere qualche passo:
“Di nuovo dunque Gesù disse loro; Io me ne vado e voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato. Dove vado io voi non potete venire” ( Gv 8,21 ).
Come in altri testi di Giovanni, la parola è presa al singolare e denuncia una condizione globale – non un singolo atto – da cui l’uomo non può uscire, così come non si può mettere nella via di Dio e arrivare all’appuntamento con lui: “dove vado io voi non potete venire”.
“Gli risposero, gridandogli ( al cieco nato ): “Sei nato nei peccati da capo a piedi e ci vuoi far da maestro?”( Gv 9,34 )
Si testimonia qui, fra l’altro, una partecipazione a questa dottrina da parte del tardo giudaismo. Io non ho esaminato questo capitolo 9 come avrei dovuto, esso è però importante come ponte di passaggio dalla dottrina dell’Antico Testamento a quella del Nuovo:
“E, uditolo, alcuni farisei che erano con lui, gli domandarono: “Siamo forse ciechi anche noi”: Gesù rispose: “Se foste ciechi, non avreste colpa; invece voi dite: Noi vediamo. Il vostro peccato dunque rimane” ( Gv 9,40 ).
Prestate attenzione al fatto che anche qui si parla di peccato e non di peccati, evidentemente si considera una condizione complessiva e globale che interessa non un uomo, rispetto a una singola azione, ma tutti in ordine a tutto.
Importantissimo a questo proposito è il discorso della seconda parte di Gv 15:
“Ma tutto questo faranno contro di voi a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato. Se non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero colpa, ma ora non hanno scusa del loro peccato. Chi odia me, odia anche il Padre mio” ( Gv 15,21-23 ).
Il concetto di peccato qui viene ancora più esplicitamente riportato al concetto di odio a Dio, che si specifica e si personalizza nell’odio a Cristo:
“Se non avessi fatto fra loro opere che nessun latro mai fece, sarebbero senza colpa; ma ora, anche dopo averle vedute, hanno odiato me e il Padre mio. Ma ciò è avvenuto affinché si adempisse la parola scritta nella legge: Mi odiarono senza ragione” ( Gv 15,24-25 ).
L’odio è sempre inspiegabile e ancor più l’odio a Dio. Per questo aspetto il peccato è puro mistero: “mi odiarono senza ragione”.
Con la ragione non potrei mai rendermi conto di quella che è la dimensione del peccato, né della sua portata oggettiva, né delle sue motivazioni profonde, né dello spirito al quale nel peccato io partecipo.
Veramente si può dire di esso che è un odio senza ragione, una partecipazione a uno spirito contrario allo spirito della verità e della vita. Se cerco di razionalizzare il discorso non potrò mai veramente cogliere la nozione biblica di peccato…
A conclusione possiamo affermare che, fuori dal Cristo e dalla sua morte e risurrezione, l’uomo vive e muore non nei peccati, ma nel peccato. Ed è per questo che Giovanni, proprio nell’esordio del suo Evangelo, dirà di Cristo che egli è colui che è venuto a togliere il peccato del mondo ( cf. Gv 1,29 )…
C ) Passiamo ora al terzo senso del termine peccato nel Nuovo Testamento.
Finora abbiamo detto: non un singolo peccato, ma condizione globale dell’uomo e dell’umanità, tanto che si può stabilire un’equazione: uomo e umanità uguale a peccatore e peccato.
Come c’è una personalità unitaria sovrannaturale dell’umanità intera nella giustizia di Dio, così nel Nuovo Testamento c’è inevitabilmente un’indicazione verso una personificazione del peccato.
A questo si riferiscono i testi nei quali si parla di peccato al singolare e con l’articolo determinativo.
La tendenza alla personificazione del peccato si fa più evidente nei capitoli 5,6 e 7 dell’Epistola ai Romani.
Potremmo esaminare gli elementi di questa personificazione: il peccato che nasce con la legge, il peccato che muore con l’avvento e la morte di Cristo, il peccato che signoreggia nelle membra del corpo di peccato, che regna nella carne dell’uomo ( l’uomo totale nella sua condizione di creatura inferma e degradata è cioè ancora soggetto al peccato) e così via.
Ora abbiamo considerato tutti questi elementi con uno sguardo fuggitivo. Mi pare particolarmente significativo un testo di Giovanni:
“Gli opposero: “Noi siamo progenie di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno; come dunque dici tu: sarete liberi”?. Rispose loro Gesù: “In verità vi dico: chi fa il peccato è schiavo del peccato”. ( Gv 8,33-34 ).
È un’affermazione forte, che tende a riproporre l’esistenza di due sfere, di due domini che si contendono la realtà dell’uomo, e il fatto che non si dà possibilità di sottrarsi all’uno se non accettando di essere totalmente sotto il dominio dell’altro.
Queste due sfere non sono semplicemente di carattere psicologico, ma hanno una loro realtà, un’effettiva consistenza ontologica, tale che obiettivamente si può parlare di due domini.
Quando non si è nel dominio di Dio e totalmente attaccati a lui, inevitabilmente si ricade nel dominio di queste forze di cui cominciamo a individuare la possibilità di personalizzazione. Il peccato è qualcosa di ulteriore, che sta dietro all’atto. 87 metà
Se abbiamo capito cos’è il peccato e come non possiamo rapportarlo al nostro concetto di illecito o di lecito ne deriva che lo stato oggettivo del peccato rispetto a Dio resta, nonostante l’ignoranza.
È il capovolgimento della posizione ellenistica, platonica, socratica, e mostra come il peccato sia una condizione oggettiva, globale dell’uomo, da cui egli esce solo per un contatto diretto con Dio, con Cristo, e non per effetto di una diminuzione della sua responsabilità come noi la concepiamo. Solo quando Dio mi recupera, mi rigenera, mi ricostruisce, solo quando mi comunica il suo Spirito Santo e crea in me un cuore nuovo, io esco dalla condizione di peccato…
La salvezza non è altro che il realizzarsi di un’iniziativa misericordiosa di Dio – che si chiama perdono, misericordia, riconciliazione – la quale si concreta in una spoliazione dell’uomo vecchio, ossia in un procedimento di distruzione e di morte da un lato, e in una rigenerazione e ricreazione dell’uomo nuovo nello Spirito di Dio dall’altro, quindi in un procedimento effettivo di nuova creazione e di risurrezione.
Peccato e gioia escatologica
Non sono persuaso che la dimensione del peccato, nei termini auspicabili secondo una riflessione più profonda sul Nuovo Testamento, ci sia stata in secoli o in situazioni in cui si parlava del peccato in termini molto impegnati e, se volete, molto colorati.
Non possiamo considerarci viventi nella dimensione reale del cristianesimo se non affrontiamo con estrema serietà l’ argomento.
Lo stesso discorso dell’immensa gioia della pacificazione in Cristo e della riconciliazione nostra in lui nella sua morte e risurrezione, non ha senso se non è adeguatamente compresa tutta la dimensione del peccato. La dimensione della gioia è infatti correlativa e coestensiva a quella del peccato.
Solo misurando l’infinita dimensione del peccato rispetto a Dio, all’uomo e all’umanità, si può coestensivamente capire l’illimitata dimensione della gioia escatologica che il Cristo ha donato portandoci l’escaton, l’ultimo evento che è appunto la riconciliazione dal peccato.
In fondo è un medesimo discorso, con una stessa estensione, che richiede che entriamo completamente nel gioco.
Il peccato nella prospettiva biblica, e particolarmente secondo il Nuovo Testamento, investe la totalità della persona in tutte le sue espressioni, esteriori e interiori, sia che si esauriscano nella pura soggettività, sia che incidano ledendoli, sui rapporti con gli altri.
In questo senso il peccato non è solo una di queste modalità o di questi aspetti, ma peccato sono tutte queste modalità e tutti questi aspetti.
È cosa ovvia che non metterebbe conto di essere sottolineata se questo non fosse oggi troppo dimenticato, anzi addirittura contestato.
La prospettiva del peccato che va più di moda è quella che lo considera esclusivamente, o quasi, in quanto porta lesioni ad altri.
Questa concezione rientra in una mentalità che risente della visione del mondo oggi particolarmente affermata da certe posizioni dottrinali egemoniche.
Risente della necessità di recuperare una dimensione essenziale del cristianesimo, trascurata nei secoli passati, relativa al senso comunitario del piano di salvezza del signore e della sua realizzazione nell’incarnazione e nella comunità cristiana.
Tutto questo ci rende giustamente più attenti alla dimensione comunitaria del peccato.
Nel concreto però della nostra pratica quotidiana riguardo a questo ricupero ci sono un’accentuazione delle conseguenze e un modo di esprimersi che prescindono dagli elementi più propri della visione cristiana e della sua dimensione comunitaria, e si contaminano invece con una visione eminentemente sociologica, ricavata dalla cultura dominante, la quale non conosce altra dimensione del male che quella che si manifesti concretamente lesiva della situazione altrui. In questo modo ha sempre meno rilievo quella dimensione del male che è priva di un’espressione sociale e che si presenta come mancanza di fronte a Dio, senza che si concreti nella lesione di un altro soggetto.
Sappiamo bene che di questo tipo di mancanze ce ne sono; nell’elenco che il Nuovo Testamento ci pone sotto gli occhi troviamo peccati a una dimensione e peccati a due dimensioni.
Tutti hanno in comune l’essenza fondamentale del peccato, la separazione da Dio; alcuni la realizzano con un atto i9nteriore o che comunque non ha ripercussioni dirette nei confronti del prossimo, altri invece la realizzano con un atto che implica lesione agli altri.
Anche se c’è un più o un meno, tutto è da presentare all’occhio di Dio e tutto può essere peccato di fronte a lui. Del resto non abbiamo bisogno di insistere perché questo è l’evangelo.
L’evangelo ci insegna che ci sono dei peccati interni che non si consumano in nessun atto, e che ci sono dei peccati i quali non implicano nessuna conseguenza per gli altri, ma sono peccati, e ci insegna soprattutto che è nell’interno che il peccato deve essere cercato.
“Ora, egli diceva: “Quello che esce dall’uomo invece è ciò che contamina l’uomo. Infatti dal di dentro, dal cuore degli uomini, escono i cattivi pensieri: dissolutezze, latrocini, assassinii, adulteri, cupidigie, cattiverie, frode, impudicizia, invidia, diffamazione, orgoglio, stoltezza. Tutte queste cose malvagie vengono dal di dentro e contaminano l’uomo” ( Mc 7,20 -23 ).
È la nostra carne, nel senso della nostra personalità carnale, ad essere impregnata di peccato in tutte le sue cellule, in tutte le sue dimensioni sia individuali che collettive.
Quindi soltanto un’immersione totale, un battesimo nel sangue e nello Spirito di Cristo può restaurare l’integrità e l’unità del nostro essere e presentarci al cospetto di Dio nella pienezza delle nostre dimensioni, per le opere buone per le quali Dio ci ha creato in Cristo Gesù. Il peccato non è in rapporto alle cose o ai singoli soggetti, ma è in rapporto a Dio e all’incontro personale con lui.
Più precisamente, da quando l’evangelo è predicato, il peccato è in rapporto a Cristo, alla sua persona, alla totalità della donazione nostra al suo servizio, al nostro perfetto e totale aderire a lui, al porci completamente sotto il suo dominio.
Racconti di un pellegrino russo
“Per grazia di Dio sono uomo e cristiano, per azioni gran peccatore, per condizione un pellegrino senza tetto, della specie più misera, sempre in giro da paese a paese. Per ricchezza ho sulle spalle un sacco con un po’ di pane secco, nel mio camiciotto la santa Bibbia, e basta”.
Così inizia il libro: con un ritratto che il narratore fa di se stesso. Il racconto è tutto centrato su di un’unica figura, non per amore di protagonismo, ma per significare l’unica vita che ha valore davanti a Dio. Come è e come dovrebbe essere ogni uomo che cerca solo l’obbedienza alla volontà del Signore?
“Per grazia di Dio sono uomo e cristiano.
Innanzitutto c’è la consapevolezza che è già una grazia di Dio essere venuti al mondo, non come creature qualsiasi, ma come uomini, cioè creature fatte ad immagine e somiglianza del Creatore.
Portiamo il nome di cristiani, perché morti in Adamo, siamo stati rigenerati in Cristo, non per merito nostro, ma semplicemente per suo amore.
“Per azioni gran peccatore.”
Benché fatti nuovi, giustificati e santificati nel nome Suo, in tutto questo di nostro c’è solo il peccato.
“Per condizione un pellegrino senza tetto.”
Non è possibile rimanere nella novità di vita portata dal Cristo se non come pellegrini e viandanti su questa terra. La nostra patria è nei cieli e non ci è consentito di mettere radici su questa terra.
“Della specie più misera, sempre in giro da paese a paese”
In questo mondo ci sono anche i pellegrini di lusso che vanno in giro come turisti ricchi e sfaccendati. Noi cristiani siamo della specie più misera. Andiamo da paese a paese non perché non ci basta la nostra terra, ma perché non abbiamo alcuna terra, dove posare il capo.
“Per ricchezza ho sulle spalle un sacco con un po’ di pane secco”
La nostra ricchezza materiale? Il minimo indispensabile per vivere: il pane quotidiano che ogni giorno chiediamo al Signore e che ci è da Lui donato.
Dove lo teniamo questo pane? Non in luogo sicuro: lo portiamo sempre sulle nostre spalle come un peso che ci costa fatica e come un bene che tutti ci possono contendere e portare via.
Ogni giorno siamo nella condizione di dover dire al Padre: dacci oggi il pane quotidiano.
“Nel mio camiciotto la santa Bibbia, e basta”.
La nostra ricchezza spirituale?
La Parola di Dio, che teniamo nascosta, vicino al nostro cuore, perché non cada lontano dal nostro ascolto.
“E basta.”
Non c’è altro da dire e da aggiungere: tutto qui il senso di una vita in Cristo.
Il racconto che sta per iniziare non si può intendere né vuole essere accolto all’infuori di questa breve premessa, che ne manifesta il suo fondamento ed il suo fine.
“La ventiquattresima domenica dopo la Trinità sono entrato in chiesa per pregare mentre si recitava L’Ufficio; si leggeva L’Epistola dell’Apostolo ai Tessalonicesi, in quel passo dove è detto: Pregate incessantemente. Quella parola penetrò profondamente nel mio spirito, e mi chiesi come sarebbe stato possibile pregare senza posa dal momento che ognuno di noi deve occuparsi di tanti lavori per sostentare la propria vita. Ho cercato nella Bibbia ed ho letto coi miei occhi proprio quel che avevo inteso: Bisogna pregare incessantemente, pregare con lo spirito in ogni occasione, pregare in ogni luogo alzando mani pure.
Non siamo all’inizio di un cammino spirituale.
Cristo è già stato scelto come l’unico bene della vita: per suo amore si rinuncia a tutto quanto si possiede. La casa, la terra, la famiglia, le ricchezze sono già state gettate alle spalle e si vive come stranieri e pellegrini in questo mondo. La Parola di Dio è sempre sulle nostre labbra e vicino al nostro cuore. Se dunque si può dire “e basta” cosa manca per una fedeltà a Dio più piena e completa?
Uno spirito di preghiera continua.
Non si tratta di un qualcosa in più e di diverso rispetto alla normalità della vita cristiana, ma di una conquista dello spirito necessaria per alimentare e sostenere il tutto, per non ritornare sui passi di un tempo e per custodire con gioia i doni di Dio.
Avevo un bel riflettere, non sapevo proprio cosa decidere. Che fare? Pensavo. Dove trovare qualcuno che mi possa spiegare quelle parole? Andrò nelle chiese dove predicano uomini di grande fama, e forse là troverò quel che cerco. E mi misi in cammino. Ho ascoltato molte prediche magnifiche sulla preghiera. Erano però istruzioni sulla preghiera in generale: che cosa è la preghiera, perché è necessario pregare, quali sono i frutti della preghiera. Ma come arrivare a pregare veramente, su questo, nemmeno una parola… Così frequentando le prediche non sono riuscito ad avere quel che desideravo. Allora ho smesso di andare alle prediche e ho deciso di cercare con l’aiuto di Dio un uomo sapiente ed esperto, che mi sapesse spiegare quel mistero dal quale il mio spirito era rimasto invincibilmente attratto. Quanto tempo ho camminato! Leggevo la Bibbia e chiedevo se non si potesse trovare in qualche luogo un maestro spirituale o una guida saggia e piena di esperienza…
Una volta mi fu detto che in un villaggio viveva da molti anni un signore che si occupava di salvare l’anima sua: egli ha una sua cappella, non si muove mai e senza posa prega Dio e legge libri spirituali. A queste parole non camminai più, ma mi misi addirittura a correre verso il villaggio; vi giunsi e mi diressi subito alla casa di quel signore.
-Che vuoi da me? – mi chiese.
- Ho sentito dire che siete un uomo pio e saggio; per questo vi chiedo in nome di Dio di spiegarmi che cosa vuol dire questa espressione dell’Apostolo: Pregate incessantemente, e come sia possibile pregare in questo modo. Ecco quel che voglio capire e pure non ci so arrivare da solo. Il signore rimase qualche istante in silenzio, mi guardò con attenzione e disse:
- La preghiera è lo sforzo ininterrotto dello spirito umano per giungere a Dio. Per riuscire in questo benefico esercizio, conviene chiedere spesso al Signore di insegnarci a pregare incessantemente. Prega di più e con più zelo; la preghiera ti farà capire da sé come può diventare incessante; per questo ci vuole molto tempo… Ma non aveva saputo spiegare nulla.
Ripresi la mia via; pensavo leggevo, riflettevo come meglio potevo a quel che mi aveva detto quel signore, e pure mi era impossibile comprendere; ma avevo tanta voglia di arrivarci che le mie notti passavano senza sonno.
Finalmente il pellegrino giunge ad un eremo dove può parlare con un vecchio starets.
Vedete, padre, è un anno ormai che, ascoltando leggere l’ufficio, ho inteso questo comando dell’Apostolo: Pregate incessantemente. Non sapendo come interpretare questa espressione, mi sono messo a leggere la Bibbia. E anche in essa, in molti passi, ho trovato il comando di Dio: bisogna pregare senza posa, sempre in ogni occasione, in ogni luogo, non solo durante il lavoro quotidiano, non solo quando si è svegli, ma anche nel sonno: “Io dormo, ma il mio cuore è desto”…Mi sono messo a frequentare le chiese… ho ascoltato le prediche sulla preghiera; ma ascolta ascolta non ho mai sentito dire come si fa a pregare senza posa… Ho letto spesso la Bibbia e vi ho trovato quel che avevo sentito; ma non sono ancora riuscito a comprendere quello che vorrei sapere. Così da quel tempo io continuo ad essere incerto ed inquieto. Lo starets fece il segno di croce e si mise a parlare:
Ringrazia Dio, fratello caro, perché ti ha rivelato un’attrazione così viva verso l’incessante preghiera interiore. Vedi in questo la chiamata di Dio e calmati, pensando che così l’accordo tra la tua volontà e la volontà divina è stato pienamente provato; egli ti ha dato di comprendere che né la saggezza di questo mondo, né un desiderio vano di conoscenza possono guidare alla luce celeste – l’incessante preghiera interiore – ma la povertà di spirito e l’esperienza attiva nella semplicità del cuore. Ecco perché non fa meraviglia che tu non abbia inteso nulla di profondo sull’azione di pregare e che non abbia potuto imparare come giungere a questa attività perpetua… Molti commettono un grande errore quando pensano che i mezzi preparatori e le buone azioni generano la preghiera, mentre in realtà la fonte delle opere e di tutte le virtù è proprio la preghiera. Essi erroneamente scambiano i frutti o le conseguenze della preghiera con i mezzi per arrivarci, e così ne diminuiscono la forza. E’ un punto di vista completamente opposto alla Scrittura perché l’apostolo Paolo così parla della preghiera: “Ti raccomando prima di tutto che si facciano preghiere”. Così L’Apostolo pone la preghiera al di sopra di tutto: Ti raccomando, prima di tutto, che si facciano preghiere.
Al cristiano si chiede di compiere molte opere buone, ma l’opera della preghiera è al di sopra di tutte le altre, perché senza di essa non si può trovare la via che conduce al Signore, conoscere la verità, crocifiggere la carne con le sue passioni e i suoi desideri, essere illuminati nel cuore dalla luce di Cristo e unirsi a lui nella salvezza. Tutto questo non può avvenire senza il primato di una preghiera frequente. Dico “frequente”, perché la perfezione e la correzione della nostra preghiera non dipendono da noi, come ancora dice l’Apostolo: “Non sappiamo quel che bisogna domandare”. Solo la frequenza è lasciata in nostro potere come mezzo per raggiungere la purezza della preghiera, che è la madre di ogni bene spirituale. “Acquista la madre ed avrai una discendenza”, dice sant’Isacco il Siriaco, insegnando che bisogna acquisire prima la preghiera per poter mettere in pratica tutte le virtù…
Per non separarmi da quel saggio vecchietto e soddisfare tutto il mio desiderio, mi affrettai a dirgli:
-Vi prego, venerando padre. Spiegatemi cos’è la preghiera incessante e come la si può imparare; vedo che voi ne avete un’esperienza profonda e sicura. Lo starets accolse la mia domanda con bontà e mi invitò a rimanere con lui: – Vieni da me, ti darò un libro dei Padri che ti farà comprendere in modo chiaro che cosa sia la preghiera e te la farà imparare con l’aiuto di Dio. Entrammo nella sua cella e lo starets mi rivolse queste parole: – La preghiera di Gesù, interiore e costante, è l’invocazione continua ed ininterrotta del nome di Gesù con le labbra, con il cuore e con l’intelligenza, nella certezza della sua presenza in ogni luogo, in ogni tempo, anche durante il sonno. Si esprime con queste parole: Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me!”.
Chi si abitua a questa invocazione ne riceve gran consolazione e prova il bisogno di dire sempre questa preghiera; dopo un po’ di tempo, non si può vivere senza, ed essa scorre in lui come da sola.
Comprendi ora cos’è la preghiera incessante?
-Lo comprendo benissimo padre! In nome di Dio, insegnatemi ora come arrivarci! – esclamai pieno di gioia. – Come s’impari la preghiera, lo vedremo in questo libro, che si chiama Filocalia, e contiene la scienza completa e particolareggiata dell’incessante preghiera interiore esposta da venticinque Padri; è così utile da essere considerato la guida essenziale della vita contemplativa e, come dice il beato Niceforo, “ conduce alla salvezza senza pena e senza dolore”…
Lo starets aprì la Filocalia, scelse un passo di san Simeone il Nuovo Teologo e cominciò. “Rimani assiso nel silenzio e nella solitudine, piega il capo, chiudi gli occhi; respira più dolcemente, guarda con l’immaginazione nell’intimo del tuo cuore, raccogli la tua intelligenza, ossia il tuo pensiero, dalla testa al cuore. Scandisci respirando: “ Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me”, a voce bassa, o anche soltanto con la mente. Sforzati di cacciar via ogni pensiero, sii paziente e ripeti spesso questo esercizio”…
Per una settimana mi esercitai nella solitudine del mio orticello allo studio della preghiera interiore, seguendo esattamente i consigli dello starets. Da principio, tutto pareva andare bene. Ma poi sentii una gran pesantezza, pigrizia, noia, un sonno invincibile e i pensieri si abbatterono su di me come nuvole. Andai dallo starets pieno di preoccupazione e gli esposi il mio stato. Mi accolse con bontà e mi disse:
Fratello caro, è la lotta che conduce contro di te il mondo oscuro, perché non c’è nulla che esso tema tanto quanto la preghiera del cuore. Ma il nemico non agisce che secondo la volontà ed il permesso di Dio, nella misura che a noi è necessaria. E’ certamente opportuno che la tua umiltà venga ancora messa alla prova; è troppo presto per arrivare e con uno zelo eccessivo alle soglie del cuore, perché correresti il rischio di cadere nell’avarizia spirituale. Ti leggerò ora quel che dice in proposito la Filocalia.
Lo starets cercò tra gli insegnamenti del monaco Niceforo e lesse: “Se malgrado tutti gli sforzi, fratello, non puoi entrare nella regione del cuor, come io ti ho consigliato, fa’ quel che ti dico e, con l’aiuto di Dio, troverai quello che cerchi. Tu sai che la ragione di ogni uomo sta nel petto… A questa ragione leva via dunque ogni pensiero ( lo puoi se vuoi ) e ripeti “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me”. Cerca di sostituire con questa invocazione interiore ogni altro pensiero, ed alla fine questo ti aprirà certamente la soglia del cuore: l’esperienza lo garantisce”.
-Vedi quel che insegnano i Padri in questo caso- mi disse lo starets. – Perciò devi accettare questo consiglio con fiducia e recitare finchè puoi la preghiera di Gesù. Ecco qua un rosario che ti servirà per recitare tremila preghiere al giorno, per cominciare. In piedi, seduto, sdraiato o in cammino, tu dirai sempre, senza posa: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me!” dolcemente e senza fretta. E recita esattamente tremila preghiere al giorno senza aggiungere o saltarne alcuna. Potrai così arrivare all’incessante attività del cuore. Accolsi con gioia le parole dello starets e tornai alla mia capanna. Mi misi a fare per filo e per segno quel che mi aveva insegnato. Per due giorni ci fu qualche difficoltà, poi questo divenne così facile che quando non dicevo la preghiera, sentivo il bisogno di riprenderla ed essa scorreva facile e leggera senza più l’applicazione costretta dell’inizio…
Dopo un po’ di tempo, su consiglio dello starets il pellegrino passa da tremila a seimila preghiere al giorno.
Per tutta una settimana rimasi nella mia capanna solitaria a recitare ogni giorno le mie seimila preghiere senza preoccuparmi di niente altro e senza dover lottare contro le distrazioni… Che avvenne? Mi abituai così bene alla preghiera che, se mi fermavo anche solo un istante, sentivo un vuoto come se avessi perduto qualcosa; non appena ricominciavo la mia preghiera, mi sentivo di nuovo leggero e felice. Se incontravo qualcuno, non avevo voglia di parlare, desideravo soltanto stare in solitudine e recitare la preghiera, tanto mi ero abituato nel giro di una settimana.
Lo starets che non mi vedeva ormai da dieci giorni venne da me egli stesso, a sentire mie notizie; gli spiegai quel che mi accadeva. Mi ascoltò, poi disse: – Eccoti abituato alla preghiera. Vedi, bisogna ora conservare quest’abitudine e rafforzarla; non perdere tempo, e con l’aiuto di Dio impegnati a recitare dodicimila preghiere al giorno; rimani in solitudine, alzati un poco prima, coricati un poco più tardi e vieni a trovarmi due volte ogni mese… Così, per cinque giorni, eseguii fedelmente le dodicimila preghiere ed insieme con l’abitudine acquistai anche la gioia ed il gusto della preghiera. Un mattino per tempo fui, si può dire, svegliato dalla preghiera.
Cominciai a dire le mie orazioni del mattino, ma la lingua mi si inceppava e non avevo altro desiderio che quello di recitare la preghiera di Gesù. Non appena cominciai, divenni tutto gioioso, le mie labbra si movevano da sole e senza sforzo. Passai tutta la giornata in letizia. Ero come tagliato fuori da tutto e mi sentivo in un altro mondo; terminai senza difficoltà le mie dodicimila orazioni prima della fine della giornata.
Andai a visitare lo starets e gli raccontai ogni cosa nei più minuti particolari. Alla fine egli mi disse:
-Dio ti ha dato il desiderio di pregare e la possibilità di farlo senza fatica. E’ un effetto naturale, prodotto dall’esercizio e dall’applicazione costante, come una ruota che si fa girare intorno a un perno; dopo una spinta essa continua a girare su se stessa, ma per far sì che il movimento duri bisogna ungere il meccanismo e dare nuove spinte. Tu vedi ora quali facoltà meravigliose il Dio amico degli uomini ha dotato la nostra natura sensibile, e hai conosciuto le sensazioni straordinarie che possono nascere anche nell’anima peccatrice, nella natura impura che non è illuminata ancora dalla grazia. Ma quale grado di perfezione, di gioia e di rapimento non raggiunge l’uomo, quando il signore vuole rivelargli la preghiera spirituale spontanea e purificare l’anima sua dalle passioni? E’ uno stato inesprimibile e la rivelazione di questo mistero è un anticipo della dolcezza celeste. E’ il dono che ricevono coloro che cercano il Signore nella semplicità di un cuore che trabocca d’amore!…
Obbedendo a questa regola, passai tutta l’estate a recitare senza posa la preghiera di Gesù e fui veramente sereno. Durante il sonno, sognavo a volte di star recitando la preghiera. E durante la giornata, quando mi capitava di incontrare delle persone, esse mi parevano così care come se fossero state membri della mia famiglia. Le distrazioni si erano placate e io non vivevo che con la preghiera; cominciavo ad indurre il mio spirito ad ascoltarla e a volte il mio cuore ne riceveva un senso di calore e di gioia immensi. Quando mi succedeva di entrare in chiesa, il lungo servizio della solitudine mi pareva breve e non mi stancava più come un tempo. La mia solitaria capannuccia mi pareva un palazzo meraviglioso, e non sapevo come ringraziare Dio di aver mandato a me povero peccatore, uno starets dagli ammaestramenti così preziosi.
Una riflessione a questo punto.
La preghiera è dunque il risultato di un esercizio continuo, che segue regole precise, innesco di un meccanismo che una volta avviato procede da solo per forza propria, senza sforzo alcuno e volontà nostra? Non sembra proprio così.
La preghiera del cuore è la preghiera dei semplici, ma semplici davanti a Dio non sono tutte le persone prive di sovrastrutture intellettuali: i semplici sono i puri di cuore, ovvero coloro che hanno libero il loro cuore da ogni altro padrone che non sia Cristo Gesù.
Vi è dunque un cammino di conversione per arrivare alla preghiera del cuore.
Innanzitutto dobbiamo essere alla sequela di Cristo, con tutto ciò che essa comporta. Soltanto allorché sono create le condizioni per essere discepoli e si cammina sulla strada segnata da Gesù si può cercare il modo perché questo cammino proceda spedito, confortato dalla gioia, che viene da un cuore visitato ogni giorno dal Signore.
La preghiera del cuore non dice e non può dire nulla a coloro che non sono di Cristo. Una vita nascosta in Gesù va custodita, coltivata, accresciuta, fatta bella e resa gioiosa da una adesione continua, incessante, al Sua amore.
Un rapporto d’amore si definisce innanzitutto in relazione alla Parola che lo fonda e alla Parola che lo sostiene. Abbiamo visto quale potenza di conversione ci sia offerta nell’ascolto della Parola di Dio. Abbiamo pure parlato di un ritorno della Parola al suo fondamento eterno per bocca dell’uomo, allorché prega con la stessa Parola.
Bonhoeffer ci ha illuminato riguardo all’importanza della preghiera fatta con i salmi. E’ Gesù stesso che ci ha insegnato a pregare nel Padre Nostro.
Abbiamo visto come ogni insegnamento riguardo alla preghiera non può che riguardare il suo contenuto, cioè ciò che si deve chiedere, non la sua forma.
Non esiste dunque un problema del come pregare che interessi il suo aspetto più propriamente tecnico- pratico ovvero quali modalità e strategie possiamo o dobbiamo mettere in atto per una preghiera vera e fruttuosa? La preghiera del cuore è forse la risposta ad una simile domanda?
Non sembra proprio.
Non si può far propria la preghiera del pellegrino russo, se prima non si è fatti simili a lui nella fede.
Il racconto comincia da e con un uomo spoglio di ogni bene, senza terra e senza dimora, che si accontenta del pane quotidiano e che non lascia spazio a nessun ascolto se non alla Parola di Dio.
Ma non è ancora tutto: non basta essere di Cristo, bisogna dimorare in Cristo.
L’ascoltare la Parola ed il dire la Parola ci pongono in Gesù; ma come rimanere ?
C’è bisogno per questo non della semplice preghiera, ma di una preghiera incessante che continuamente, in ogni momento della giornata ci riporti al Cristo e ci rifondi in Lui, come in un’eterna generazione al suo amore, che non è mai data una volta per tutte, ma che si rinnova continuamente in un atto perenne, senza sosta, senza tempo.
Il Cristo, che è la Parola, tutto ha fatto in noi e per noi, ma come rimanere sempre in Lui?
Attraverso un moto del cuore che non può conoscere la stanchezza dell’ascoltare e del dire la Parola, ma che si autofonda nella Parola in modo immediato, in virtù del suo essere perennemente presente davanti a Dio, come desiderio del Figlio suo, in ogni momento della giornata, quando si veglia, ma anche quando si dorme. Non può essere un semplice moto dell’anima, perché l’anima come psiche segna delle battute d’arresto e di stanchezza. Bisogna scendere nel più profondo del nostro cuore per trovare in esso lo Spirito di Dio, per aderire al suo moto, al suo sentimento, per lasciarlo esprimersi liberamente, senza porre i freni della nostra volontà.
Il problema non è formale, ma riguarda la sostanza, la nostra realtà più profonda fatta ad immagine di Dio. Allorché abbiamo pregato con Cristo ed in Cristo di liberarci dallo Spirito del Maligno, è lo Spirito santo che fa sentire in noi la sua voce e la sua potenza di rigenerazione.
Dopo che abbiamo pregato il Padre con le parole del Figlio dobbiamo lasciar pregare in noi lo Spirito Santo: è lo Spirito la garanzia di una preghiera che non viene mai meno, ma si pone davanti a Dio come perenne gloria al suo nome. Per noi è solo questione di volontà, di desiderio di essere ogni momento con Dio e davanti a Dio. Allorché lo spirito Santo ha avuto da noi via libera sulla nostra volontà, può agire ed operare in essa a suo piacimento: è Lui stesso che suscita in noi la preghiera del cuore. Bisogna volere ogni momento il Signore, ma allorché si vuole è lo stesso Spirito che mette in noi le sue radici, perché la volontà nostra non venga meno. La volontà genera altra volontà: più si vuole e più è fatto semplice il volere. Non siamo lasciati soli in balia dei mutamenti della nostra psiche: veniamo rafforzati dallo Spirito.
Niente di meccanico dunque nella preghiera del cuore e neppure un dono dato ad arbitrio agli uni e negato agli altri, ma operazione dello Spirito Santo, che trovata la sua naturale dimora, dal profondo della creatura innalza l’inno di amore al Creatore.
Il cammino in Cristo non è agevole, ma è reso più facile dalla presenza dello Spirito, perché anche noi possiamo dire come l’Apostolo che sovrabbondiamo di gioia in ogni tribolazione.
Ed ora eccomi pellegrino, recitando senza posa la preghiera di Gesù che mi è più cara e più dolce di ogni altra cosa al mondo. Talvolta percorro più di settanta verste in un giorno e non mi accorgo di camminare; sento soltanto che recito la preghiera.
Quando un freddo violento mi colpisce, recito la preghiera con maggiore attenzione e ben presto mi sento caldo e confortato: Se la fame si fa troppo insistente, invoco più spesso il nome di Gesù Cristo e non mi ricordo più di aver avuto fame. Se mi sento male e la schiena o le gambe mi dolgono, mi concentro nella preghiera e non sento più dolore. Quando qualcuno mi insulta, non penso che alla benefica preghiera di Gesù; immediatamente collera o pena svaniscono e dimentico tutto. Il mio spirito è diventato semplice, veramente. Non mi do pena di nulla, nulla mi occupa, nulla di quanto è esteriore mi trattiene; vorrei essere sempre in solitudine; per abitudine, non ho che un bisogno solo: recitare senza posa la preghiera, e quando lo faccio divento allegro. Dio sa che cosa si compie in me… Aspetto l’ora di Dio sperando nella preghiera del mio starets defunto.
Alcune considerazioni riguardo alla preghiera del cuore.
L’invocazione incessante del nome di Gesù espresso nella formula: “Signore, Gesù abbi pietà di me” ha avuto grande fortuna nella chiesa d’Oriente, al punto che le è stato riconosciuto un valore teologico molto grande, ricco di significati e valenze, portatore di ogni grazia così come illustrato ampiamente nel testo pubblicato sul forum nicomos, fattoci pervenire da un fratello carmelitano.
Più semplicemente vorremmo sottolineare che si tratta di una preghiera che è adempimento pieno di quanto suggerito e comandato da Gesù nel Padre nostro.
“Sia santificato il tuo nome”. Viene prima di tutto il resto, come ciò che è considerato prioritario, quasi una conditio sine qua non perchè ci possa essere una autentica preghiera a Dio.
Sappiamo quale importanza fosse data dagli ebrei al nome di Dio. Il nome di Dio non è un semplice accostamento di suoni, non una parola come le altre, ma la Parola per eccellenza, la cui invocazione e pronuncia ci mette direttamente in rapporto con la Persona.
Se nelle parole si può distinguere il significante ( lettere e suoni ) ed il significato ( ciò o colui che si vuole significare), per quel che riguarda il nome di Dio, Javè, non si può porre questa distinzione. E’ un nome unico ed esclusivo, che non si può pronunciare se non per aderire in maniera immediata e senza riserva all’Essere significato. Pronunciando il nome di Dio, noi accogliamo la sua persona così com’è, e come ci è dato conoscere. Un essere la cui invocazione comporta di per sé l’accettazione dei suoi comandi, di ogni sua volontà ed alla fine del suo eterno progetto d’amore in Cristo. Nominare invano il nome di Dio, significa innanzitutto invocarLo in maniera sbagliata e vuota, cioè senza intima adesione a quello che Egli è veramente in se stesso e a quello che vuole essere per ognuno di noi. Niente di magico dunque nell’invocazione e nella proclamazione del nome di Dio, ma rapporto diretto con la sua persona e con la sua opera redentrice. E’ il modo più semplice, più immediato non solo per entrare in contatto con Dio, ma anche per entrare nel flusso di grazia che da Lui proviene.
Il nome divino che gli Ebrei invocavano non aveva volto alcuno. Si diceva che nessuno poteva vedere Dio e vivere. Ciò che anticamente era considerato impossibile diviene possibile e reale in Cristo e per Cristo. In Cristo il Dio invisibile si rende visibile, nella forma della carne e del sangue. E’ superato quell’abisso che separa il Creatore dalla creatura, è abbattuta la barriera di divisione tra l’uomo e Dio.
Nello spirito della Nuova Alleanza l’invocazione del nome di Dio, non può essere che invocazione del nome di Gesù, non perché abbiamo a morire, ma perché abbiamo vita eterna.
“Signore Gesù, abbi pietà di me”.
Non si può invocare il Signore se non chiamandolo col nome di Gesù, perché in Lui e per Lui ci è data ogni conoscenza vera e fondata di Dio Padre. Qualsiasi invocazione al nome di Dio, che si metta fuori o sopra o semplicemente accanto a quella di Gesù, è sbagliata. E’ un prodotto del Maligno, è falsità ed inganno dai quali dobbiamo essere liberati.
Riflettano coloro che mettono il Dio dei Cristiani sullo stesso piano di un qualsiasi altro Dio.
Se il nome di Dio non si può pronunciare se non in maniera unica ed esclusiva, ciò significa che vi è un solo Dio che è degno di questo nome, ed è quello che ci ha rivelato il Figlio suo.
Non si può invocare Dio se non per bocca del Figlio, non si può conoscere altro Dio all’infuori di Colui che è stato rivelato dal Cristo, non c’è salvezza e vita eterna in Dio se non quella che il Figlio ci ha guadagnato, non c’è altra via di salvezza se non quella indicata da Gesù.
Santificare il nome di Dio significa dunque invocare l’unico vero Dio, in cui il nome s’identifica tout court con il suo Essere. Si può anche invocare un Dio in cui significante e significato non si identificano in assoluto, nel senso che il nome pur avendo la stessa forma significante, porta un significato diverso: non quello rivelatoci dal Figlio, ma quello creato ad arbitrio dall’uomo.
Non dobbiamo pregare un nostro Dio, ma il nostro Dio, quello vero che sta nei cieli.
Come si possa andare a braccetto con musulmani ed ebrei, ignorando Cristo, ognuno che ha senno può ben comprendere.
Se già nell’invocazione “Signore, Gesù Cristo”, vi è una potenza redentrice, quanto segue rende la preghiera pregna di ogni vero significato, “abbi pietà di me”.
Dopo aver rivolto la nostra preghiera all’unico vero Dio, dopo aver accolto in Cristo colui che ci ha svelato il suo volto, noi poniamo nel Figlio suo Salvatore, tutta la nostra vita.
Perché Egli abbia pietà di noi peccatori.
Non ci può essere salvezza se non nel nome di Cristo: non sono salvi se non coloro che invocano il Salvatore, non nella presunzione di una ricompensa dovuta per i propri meriti, ma di un dono fatto, per la semplice confessione del proprio peccato.
I racconti di un pellegrino russo, se pur brevi, sono ricchi di significato.
Ci sembra doveroso sottolineare un altro aspetto di questo scritto: l’importanza da esso attribuita alla lettura della Parola di Dio. Non quella dotta ed artificiosa, frutto dello studio e dell’erudizione, riservata ai pochi, ma quella semplice ed immediata, quella che ripete il testo letterale, quella che è fatta ogni giorno con la proclamazione, quella che non ama i commentari degli esperti, ma segue le vie del proprio ascolto.
E’ diffusa convinzione tra i cristiani d’oggi che la Bibbia sia difficile da comprendere e che non si possa leggerla da soli, senza l’aiuto di qualcuno che ne sa di più.
Si rinuncia così ad un rapporto personale con la Scrittura e si lascia la lettura ai preti ed ai frati.
Nel migliore dei casi si va alla caccia dei commentari di moda, di scritti che hanno presunzione e fama di novità e di verità. Tutto si risolve in complesse analisi storico- letterali, sinossi, studi antropologici…: vere e proprie dorature ed infiorature del testo, con l’uso di un linguaggio aulico che tutto vuol dire, e che nulla dice della propria fede. E’ difficile trovare scritti esegetici edificanti, in cui risalti un rapporto vivo con la Parola.
E’ possibile venire fuori dai lacci di una lettura così compromessa e compromettente ed accostarsi in maniera diversa alla Parola di Dio?
I racconti di un pellegrino russo ci aiutano, riportando la nostra attenzione verso il concretamente vissuto, verso ciò che altri hanno conosciuto e sperimentato riguardo alla Parola.
Fino all’anno mille in tutte le case di cristiani si leggeva quotidianamente la Parola. Questa consuetudine è poi venuta meno ed ha lasciato posto ad altre forme di spiritualità.
Ciò che è tramontato presto nella chiesa d’occidente è sopravissuto più a lungo nella chiesa orientale, dove ai tempi del nostro pellegrino, in alcune famiglie ancora si leggeva la Bibbia, tutti i giorni. Certo è questione dei pochi, ma sono proprio i pochi che molto spesso portano luce ai molti.
C’è una forma di lettura accessibile a tutti ed a tutti richiesta, portatrice di grazia dal cielo? Certamente! E’ la lettura intesa come semplice proclamazione, senza nulla aggiungere e senza nulla togliere.
Lasciamo parlare il nostro pellegrino.
“Ci sedemmo a tavola. Il capitano cominciò il suo racconto: – dalla mia giovinezza in poi ho sempre servito nell’esercito e mai nella guarnigione. Conoscevo bene il servizio e i miei capi mi consideravano un soldato modello. Ma ero molto giovane ed altrettanto giovani erano i miei amici; per mia disgrazia, imparai a bere e mi abbandonai a tal punto a questo piacere che finii per ammalarmi. Quando non bevevo, ero un ottimo ufficiale, ma anche una sola goccia di alcol voleva dire sei settimane di letto. Mi sopportarono un bel po’, ma alla fine avendo io insultato un capo dopo aver bevuto, fui degradato e condannato a prestar servizio tre anni in guarnigione; mi minacciavano pene anche più severe se non avessi rinunciato a quel vizio. In quella misera situazione ebbi un bel cercare di frenarmi, di farmi curare, non potei liberarmi dalla passione del bere, e fu deciso allora di inviarmi al battaglione di disciplina. Quando ne fui informato, mi abbandonai alla disperazione. Un giorno che ero seduto nella camerata e ruminavo queste cose, ecco viene un monaco a questuare per una chiesa. Ognuno dava quel che poteva. Arrivato vicino a me, mi chiese: Perché sei così triste? Parlai un poco con lui e gli raccontai le mie disavventure. Il monaco mostrò molta comprensione per i miei guai e mi disse: “A mio fratello è successo lo stesso, e se l’è cavata in questo modo: Il suo padre spirituale gli diede un vangelo e gli ordinò di leggerne un capitolo ogni volta che avesse sentito desiderio di bere; e se il desiderio tornava, doveva leggere il capitolo successivo. Mio fratello mise in pratica il consiglio e di lì a qualche tempo la passione di bere cessò. Da quindici anni non assaggia una bevanda alcolica. Fa’ lo stesso e ne proverai il beneficio anche tu. Ho un Vangelo, se vuoi te lo porterò”. A queste parole gli dissi: “Cosa vuoi che faccia il tuo Vangelo, se i miei sforzi ed i mezzi medici non sono serviti a nulla?”. Parlavo così perché non avevo mai letto il Vangelo.
“non parlare così, replicò il monaco. Ti assicuro che ne ricaverai un bene”.
L’indomani infatti il monaco mi portò questo vangelo che ora vedi: Lo aprii, lo guardai, lessi qualche frase e dissi: “Non lo voglio, non ci capisco nulla, non ho l’abitudine di leggere i caratteri dei libri di chiesa”. Il monaco continuò a persuadermi dicendo che nelle parole del Vangelo c’è già una forza benefica, perché sono parole che Dio stesso ha pronunciato. “ Non importa se tu non capisci nulla, basta che tu legga con attenzione. Un santo ha detto: Se tu non capisci la parola di Dio, i diavoli però capiscono quel che tu leggi e tremano, e certamente il desiderio di bere è pure l’opera dei demoni. E ti dico anche questo: Giovanni Crisostomo scrive che anche il posto in cui viene tenuto il Vangelo sgomenta gli spiriti delle tenebre e serve di ostacolo ai loro complotti”.
Ora non ricordo bene; mi pare di aver dato qualcosa a quel monaco; presi il suo Vangelo e lo ficcai in un baule con le cose mie, ma ben presto lo dimenticai completamente. Qualche tempo dopo giunse il momento di bere; morivo dalla voglia e aprii il mio baule per prendere il denaro e correre alla mescita. Mi cadde sotto l’occhio il Vangelo e mi tornò in mente immediatamente tutto quello che il monaco mi aveva detto. Lo aprii e cominciai a leggere il primo capitolo di Matteo. Lessi fino in fondo, senza capirci nulla. Ma mi ricordai di quel che aveva detto il monaco: non importa se non capisci, basta che tu legga con attenzione. Bene, dissi tra me, leggiamone un altro capitolo. La lettura mi sembrò più chiara. Ecco già il terzo; non l’avevo cominciato che squillò il segnale della ritirata. Non c’era più modo di uscire dalla caserma, e rimasi senza bere.
Il mattino dopo, mentre stavo per uscire a cercare un po’ di acquavite, mi dissi: “E se leggessi un altro capitolo del Vangelo? Stiamo un po’ a vedere”. Lessi e non mi mossi di là. Un’altra volta ancora mi venne la voglia di bere dell’alcol, ma mi misi a leggere e mi sentii rinfrancato. Ne fui tutto riconfortato, e a ogni richiamo del mio vizio, mi precipitavo su un capitolo del Vangelo. Più il tempo passava e meglio andavano le cose. Quando ebbi finito i quattro Vangeli, la mia passione per l’alcol era completamente scomparsa; ero diventato di sasso a tal riguardo. Ed ecco, da più di vent’anni non assaggio più una bevanda alcolica… Ebbene, vedi, dopo la mia guarigione, mi sono ripromesso di leggere ogni giorno, per tutta la mia vita, uno dei quattro Vangeli per intero, e non c’è ostacolo che valga…
-E che cosa vale di più, la preghiera di Gesù o il Vangelo? Chiese il capitano.
- Sono una cosa sola, risposi. Il Vangelo è come la preghiera di Gesù, perché il nome divino di Gesù Cristo racchiude in sé tutte le verità evangeliche. I padri dicono che la preghiera di Gesù è la sintesi di tutto il Vangelo…
Quasi in conclusione un ritratto per intero del nostro pellegrino.
Considerato il livello molto alto di spiritualità, la povertà assoluta che accompagna l’ esistenza di quest’uomo che nulla possiede all’infuori del Signore, si potrebbe pensare ad una figura ideale, creata apposta come modello di santità: un modello da ammirare, non imitabile e mai imitato da alcuno. Quale persona sceglierebbe di sua spontanea volontà una simile condizione di vita, dove la povertà rasenta lo stato di miseria, dove non c’è nulla che possa piacere all’uomo? Non una casa, non un lavoro, non una donna ed una famiglia qualsiasi, uno stato permanente di invalidità, nessuna speranza di vita migliore.
Se tutto dipendesse da noi nessuno certamente si muoverebbe in questa direzione, ma è Dio stesso che ci previene con il suo amore e crea le condizioni necessarie per diventare la nostra perla preziosa in confronto alla quale tutto il resto è nulla e merita di essere perduto.
Perché il pellegrino non ha affatto scelto di essere povero di tutto, per essere ricco in Cristo, ma è il Signore stesso che lo ha spogliato di ogni bene per farne un suo peculiare possesso.
Da piccolo è un bambino che conosce presto la morte dei genitori, ma che non è abbandonato a se stesso. Il nonno , un vecchio stimato e benestante, si prende cura di lui e del fratello. Nella casa del nonno può così godere di una certa agiatezza e ricevere un’educazione ed un’istruzione religiosa. In famiglia si legge spesso la Bibbia, di cui il vecchio possiede un’edizione. Poi gli eventi cominciano a precipitare. All’età di sette anni, il fratello in stato di ubriachezza gli dà uno spintone e lo fa cadere sulla stufa. Il piccolo rimane ustionato gravemente al braccio sinistro e ne perde l’uso.
Non potrà mai fare lavori manuali. Ed è ancora il nonno che lo salva dalla disperazione, insegnandogli a leggere e a scrivere, per garantirgli in futuro una qualche possibilità di lavoro.
Ma lasciamo a lui la parola nel racconto finale che fa della propria vita.
“Quando compii i diciassette anni, morì la nonna. Il nonno mi disse: – Eccoci qui in casa senza una donna, e come possiamo fare noi, uomini soli? Tuo fratello è un buono a nulla. Voglio trovarti una moglie. Io cercai di spiegargli che con la mia infermità non mi sentivo portato verso quella via, ma il nonno insistette e mi diede in moglie una brava ragazza. Aveva vent’anni. Passò un anno ed il nonno si ammalò seriamente. Mi chiamò, mi disse le sue ultime parole di saluto ed aggiunse:
-Ti lascio la casa e tutto quello che ho; vivi facendo il tuo dovere, non ingannare mai alcuno, e prega Dio più di tutto; è da Lui che ci viene ogni cosa. Non riporre la tua speranza che in lui, va’ in chiesa, leggi la Bibbia e ricordati di noi nelle tue preghiere. Tieni mille rubli d’argento, serbali, non spenderli per sciocchezze, ma non essere avaro, sii largo coi poveri e con le chiese di Dio…
Quali dunque le prospettive per il futuro? Quelle di una semplice e modesta vita in Cristo che, benché segnata da una menomazione, può ancora tuttavia scorrere con una certa serenità e tranquillità . Una casa, una sposa ed il proposito di un’esistenza nel timore di Dio, nell’osservanza dei suoi comandamenti e nell’amore verso i poveri e la chiesa.
Molti cristiani sono paghi di una simile salvezza: costa un po’, ma non più di tanto. Ma ciò che appaga il cuore dell’uomo non sempre è conforme al disegno d’amore che Dio ha su di noi. Se noi ci accontentiamo del minimo, Dio vuol darci il più ed il meglio, ma deve far sentire su di noi il peso della sua mano.
“Mio fratello era geloso della mia eredità, perché ora la locanda era mia; cercò di molestarmi in tutti i modi ed il diavolo lo spinse fino al punto da decidere di farmi fuori. Una notte infatti, mentre dormivamo e non c’ erano viaggiatori di passaggio, egli entrò nella dispensa e vi appiccò il fuoco, dopo aver preso tutto il denaro che era conservato in una cassapanca. Ci svegliammo quando ormai la casa era in fiamme ed avemmo appena il tempo di saltare dalla finestra così come stavamo. Tenevamo la Bibbia sotto il guanciale e la portammo con noi. Guardavamo la nostra casa bruciare e ci dicevamo: “Sia ringraziato Dio! Abbiamo salvato la Bibbia, potremo almeno consolarci nella sventura”. Così tutto il nostro patrimonio fu bruciato e mio fratello sparì dal paese. Qualche anno dopo, egli si vantò dopo aver bevuto, e fu così che venimmo a sapere chi aveva rubato il denaro ed appiccato il fuoco alla casa.
Rimanemmo completamente spogli, senza nemmeno i vestiti, come dei mendicanti; in qualche modo, tra prestiti e buona voglia, mettemmo in piedi una capannetta e vivemmo come dei poveri diavoli. Mia moglie era imbattibile nel filare, tessere e cucire. Prendeva commissioni dai vicini e lavorava giorno e notte per darmi da mangiare. Per via del mio braccio, io non ero in grado nemmeno di intrecciare delle scarpe di corteccia. Il più delle volte, essa filava o tesseva ed io, seduto al suo fianco, leggevo la Bibbia; lei stava ad ascoltare e talvolta si metteva a piangere. Quando io le chiedevo: “Perché piangi? Grazie a Dio, ce la caviamo lo stesso , essa rispondeva: Sono commossa perché quel che è scritto nella Bibbia è scritto così bene”.
Ci ricordavamo anche delle raccomandazioni del nonno; digiunavamo spesso, leggevamo ogni mattino l’inno acatista e la sera facevamo ognuno un migliaio di inchini davanti alle icone per non cadere in tentazione. Vivemmo così tranquillamente un paio d’anni. Ma state a sentire il più strano: non sapevamo nulla della preghiera interiore fatta nel cuore, non ne avevamo nemmeno sentito parlare, pregavamo soltanto con la lingua, facevamo i nostri inchini come due grulli, e pure il desiderio di pregare stava là, quella lunga preghiera esteriore non ci pareva difficile, la compivamo anzi con piacere. Aveva certamente ragione quel maestro che una volta mi disse che all’interno dell’uomo esiste una preghiera misteriosa, e nemmeno lui sa come si produce, ma essa incita ciascuno a pregare secondo quello che può e che sa.
Dopo le sofferenze dell’infanzia, dopo una menomazione permanente, una breve pausa di pace nella casa dei nonni e finalmente la possibilità di avere una famiglia propria ed un lavoro con cui vivere dignitosamente. La storia poteva terminare qui, con una fine umanamente più lieta ed accettabile. Di sofferenze ed umiliazioni quest’uomo ne ha già passate abbastanza e la perdita di tutti i beni terreni sembra un castigo o una correzione eccessiva per un povero invalido che non è mai venuto meno alla fede in Cristo.
Ma ora eccolo letteralmente buttato sulla strada senza beni materiali. Gli restano soltanto la Bibbia e la sua sposa. Benché poveri e miseri i due cercano di ricostruire una vita nella comunione fraterna, condividendo ogni gioia e dolore, ma soprattutto l’amore e l’attaccamento alla Parola di Dio.
Due persone riunite in nome di Cristo sono già una chiesa, piccola fin che si vuole, ma sufficiente a se stessa, dove l’uno e l’una si possono rispecchiare non semplicemente nell’amore del creatore, ma anche in quello della creatura. Molte volte la Chiesa si trova ed è trovata piccola, non per scelta dell’uomo, ma per volontà di Dio. Non sempre è possibile comunicare con i più: ci basti coloro che il Signore ci ha dato.
E potrebbe già essere un esempio di fede molto grande quello che è vissuto nell’amore coniugale fra i due, anche se manca la gioia dei figli, che rallegrano non solo la mensa materiale, ma anche quella spirituale. Ma la storia non è ancora finita. Dio non si accontenta di aver preso quasi tutto, alla fine vuole il tutto.
“Dopo due anni di una simile vita, mia moglie prese un febbrone, e il nono giorno, dopo aver fatto la comunione, morì. Rimasi solo e non ero in grado di far nulla; non mi restava che andare a mendicare per le vie del mondo. Ma avevo vergogna a chiedere l’elemosina; per di più, ero così infelice pensando a mia moglie che non sapevo più dove cacciarmi. Quando entravo nella capanna e vedevo un suo vestito o uno di quei fazzoletti che essa portava sul capo, mi mettevo a singhiozzare e cadevo quasi svenuto. Se avessi continuato a vivere così nella nostra casa, non avrei potuto più sopportare il dolore, vendetti allora la capanna per venti rubli e distribuii ai poveri le vesti di mia moglie e le mie. Per via della mia infermità, mi fu dato un passaporto valido per sempre, presi la mia cara Bibbia e me ne andai seguendo lo sguardo dei miei occhi. Giunto sulla strada mi chiesi: dove andrò ora? Andrò prima a Kiev, mi inchinerò davanti ai santi di Dio, e chiederò loro di aiutarmi nella mia sventura”. Dopo che ebbi presa tale decisione, mi sentii molto meglio e giunsi a Kiev più sereno. E ora sono tredici anni che io cammino senza posa: ho visitato molte chiese e monasteri, ma ora vado specialmente per le steppe e per i campi. Non so se il Signore mi permetterà di arrivare fino alla santa Gerusalemme. La volontà di Dio forse giudicherà venuto il tempo di seppellire le mie ossa di peccatore.- E che età hai? – Trentratre anni. – L’età di Cristo!
Quasi alla fine del racconto veniamo a conoscere per intero la storia di quest’uomo.
Dio lo ha arricchito di ogni dono spirituale e gli ha dato la grazia di uno spirito di preghiera continua. Ma prima c’è la spoliazione di tutto, anche delle cose che l’uomo può reputare di per sé buone e giuste come avere un lavoro ed una famiglia.
Non possiamo immaginare povertà più grande: nessun bene materiale, nessun affetto e sostegno umano, ma quel che è peggio una vita invalidata per cui non c’è più autonomia e garanzia per il futuro, ma si vive per l’elemosina altrui.
Può sembrare una follia chiamare beato un simile uomo. Eppure in questa situazione di povertà voluta e creata da Dio, il Signore manifesta la pienezza del suo amore.
Riflettano tutti coloro che si trovano ad essere poveri, senza averlo scelto. Il Signore tutto provvede per il bene dei suoi eletti. Non c’è esistenza più grande e gradita a Dio di quella che si presenta come piccola e bisognosa di tutto e di tutti. In un tempo in cui la fede si risolve nel fare, in un attivismo sterile e cieco, va recuperata, l’offerta del nostro cuore a Dio. E’ questo che il Signore innanzitutto ci chiede. “Perché il nostro cuore è fatto per Dio e non avrà pace finchè non troverà riposo in Dio”. E’ in questo spirito che, nel tempo che ci sarà ancora dato, dobbiamo camminare insieme al pellegrino russo verso la Gerusalemme celeste, per ritrovarci in quel regno dove finalmente saremo in Cristo un cuor solo ed un’anima sola.
Un fraterno abbraccio da
Cristoforo
Don Umberto Neri
La parola di Dio e l’Eucaristia
Sintesi di una corso di esercizi spirituali predicato a Marola nel 1977 da Don Umberto Neri.
Per capire il rapporto tra la Scrittura e l’Eucaristia occorre renderci conto che non si tratta di due realtà così eterogenee, così assolutamente diverse, su due piani diversi – la Scrittura da una parte e l’Eucaristia dall’altra – come sarebbero inevitabilmente se la Scrittura fosse un libro e l’Eucaristia fosse un sacramento. Che L’Eucaristia sia un sacramento, più o meno bene, un po’ lo sappiamo. Che la Scrittura non sia un libro, ma un sacramento, che il libro sia soltanto il segno di una realtà sacramentale, che è il suo vero significato, la sua vera portata, questo rischiamo di saperlo un pochino meno. Il libro è il segno , il luogo, attraverso il quale Dio, ci parla. Quando?Quando noi prendiamo contatto con questo libro leggendolo o ascoltandolo.
Dio ci comunica lo Spirito, mediante il Cristo, parlandoci. Dio lo incontriamo in quanto Colui che si rivela a noi, ci dice del suo mistero, e ci assume nella comunione, nella familiarità con lui, mediante questo colloquio pieno di amore e di luce.
Questa è la realtà specifica, differenziata della Scrittura rispetto agli altri sacramenti. Questo colloquio non è soltanto una proclamazione di idee, ma è un attingerci profondamente da parte di Dio, ci tocca nell’intimo, ci comunica un’esperienza, ci trasmette anzi la sua vita attraverso la sua Parola. E la Parola comunica lo Spirito, anzi, come ogni locuzione e discorso di Dio, la Scrittura è un discorso creatore, che crea e realizza ciò che esprime. Dio non parla descrivendo la realtà come uno scrittore o un poeta, Dio parla creando la realtà. La sua Parola è prima delle cose e fa sussistere le cose. Dio dice ed il mondo è. Quindi la Scrittura è il discorso con il quale Dio, parlandoci e rivelandoci se stesso, ci comunica di sé e del nostro mistero, l’esperienza più profonda e, insieme, realizza in noi la sua volontà, ciò che ci dice. Non ci comunica soltanto delle buone idee, ma delle energie, quindi delle potenze. Costituisce in noi delle realtà che sono poste in atto dalla Parola creatrice. E questa è una cosa immensa se è così, ed è così. Altrimenti non sarebbe parola di Dio e non si potrebbe propriamente dire che la Scrittura è cristiana…
Ecco: “Non ci sentivamo forse ardere il cuore dentro di noi, quando egli ci parlava? ( Lc. 24,32 ).
Certo, spesso è così, dovrebbe essere sempre così e sempre di più così, ma anche quando non è così come un’esperienza sensibile, si compie, si realizza un mistero. Come talvolta anche il nostro ricevere la Comunione è purtroppo qualcosa che ci lascia un pochino freddi: ci sembra di essere uguali a prima, ma non siamo uguali a prima. Si è realizzato in noi qualcosa di straordinario, d’immenso, nel più profondo io, che non sempre la nostra sensibilità umana, la nostra psicologia, riesce a cogliere, a percepire.
L’uomo non è fatto soltanto di anima e corpo: è fatto anche di Spirito, secondo san Paolo, e in questa profondità dello Spirito, la sua stessa anima intelligente, la sua sensibilità, la sua stessa affettività non sempre riesce ad entrare. Siccome noi non sappiamo cosa chiedere, è lo Spirito di Dio, che in modo ineffabile e misterioso prega in noi il Padre. C’è dentro di noi una preghiera, per esempio, che noi non sentiamo. Cosa strana, ma è così. Come c’è dentro di noi una dimensione, una realtà che Dio crea, anche se tanto spesso noi perdiamo il contatto con questa realtà e ne percepiamo
soltanto qualche bagliore, qualche segno, qualche sintomo. Straordinario: la nostra vita è tutta lì dentro, è tutta nel profondo…
Importante è capire la Scrittura come un sacramento, anche perché questo ci illumina sul nostro modo di leggere, come deve essere: un atto di culto…
Cambierebbe tutto se noi ricevessimo la Scrittura con l’energia in atto della nostra fede…
L’efficacia del nostro contatto con la Scrittura dipende, dall’energia con cui, mossi dallo Spirito, mettiamo in atto la nostra fede, dall’attualità della nostra fede, dalla dimensione di questa conoscenza per dono, e non conoscenza di testa, di intelligenza, di cultura: è dalla fermezza e dall’assolutezza con cui riconosciamo il Cristo Signore e ci assoggettiamo a Lui, come salvati dal suo mistero…
Il rapporto con la Scrittura non è un’esperienza intellettualistica, ma è un’esperienza spirituale. E ciò con cui capiamo la Scrittura non è la nostra cultura, ma è la nostra fede…
Ecco, il panorama io lo vedo con gli occhi, la Scrittura la leggo con la fede; le parole io le ascolto con le orecchie, la Scrittura l’ascolto con la fede. La fede è l’organo di lettura e di ascolto della Scrittura. La fede nella sua attualità, nella sua potenza radicale e nella sua qualità.
La Scrittura è un unico libro
Se la Scrittura, per sua natura, è un sacramento, essa possiede una sua essenziale unità. E’ un dono, un dono che Dio ci fa di se stesso. Quindi non è tanto una serie di cose che Dio ci dice, quanto piuttosto è, questo libro, il luogo nel quale Dio sempre ci fa lo stesso dono. Ogni volta che la leggo, da qualsiasi parte la legga, si realizza sempre il mistero essenziale della Scrittura; se la Scrittura è questa che io dicevo, è Dio che mi parla ed io entro in comunione con lui. E’ Dio che mi illumina, è Dio che mi vivifica, è Dio che mi rigenera, è Dio che mi crea, è Dio che mi tocca, è Dio che mi risana… Allora si potrebbe dire: basta leggerne un pezzetto. Io scelgo un bel capitolo che mi interessa e leggo sempre quello. In un certo senso si potrebbe dire così, nel senso che in ogni pagina Dio mi rivela lo stesso contenuto essenziale della Scrittura che è Gesù… Cioè Cristo Gesù è il contenuto di ogni pagina, di ogni versetto della Scrittura e, al tempo stesso, è la chiave per interpretarlo, per cui a rigore non posso dire di aver capito una determinata frase della Bibbia finché non ho trovato il suo contenuto: Gesù… quindi a rigore, basterebbe una pagina della Scrittura o un versetto. Però la Scrittura è, come dicono i Padri, un libro solo, un unico libro, cioè un discorso coerente che Dio ci rivolge. Comunicazione di grazia, rivelazione del mistero, certo, ma attraverso un discorso, attraverso un parlare, una serie di parole e di frasi fra loro collegate in modo coerente. E’ un discorso unico, un unico e lungo discorso, con il quale Dio mi dice una cosa.
Un discorso in sé coerente con le parti che si richiamano una con l’altra, che si suppongono l’una con l’altra, che si connettono l’una con l’altra secondo connessioni logiche dalle quali io non posso prescindere per capire il discorso, e dunque per cogliere anche in pienezza il dono che Dio, attraverso questo discorso, mi fa…
E comunque se perdo una parola, perdo, cari miei, un tesoro straordinario… perché ogni parola ha un senso particolare, per cui, legato con le altre parole, mi rivela, mi disvela pienamente il mistero ineffabile e sublime del Cristo Gesù; per cui basta una parola, ma guai se perdo una parola! Se perdo una parola perdo qualcosa d’importante, in qualche modo essenziale per cogliere la pienezza del discorso che Dio mi rivolge e per capirlo al livello più profondo.
Ascolto integrale della Scrittura
Questa unità della Scrittura ha questa duplice implicanza: da un lato che tutta la Scrittura dice sempre la stessa cosa, quindi ogni versetto contiene tutto, dall’altro che essendo un discorso unitario non posso perdere nemmeno una battuta del discorso, se non voglio rischiare di capire parzialmente o comunque senza dubbio, se non voglio perdere qualcosa del dono connesso.
Questa unitarietà della Scrittura in questo duplice senso fa sì che sia essenziale per una vita cristiana compiuta l’ascolto integrale della Scrittura… Io non posso ritenermi esente dal compito di ascoltare una sola delle parole che Dio mi rivolge. E perché me le rivolge? Oltretutto è veramente una grandissima mancanza di riguardo. Perché Dio mi parla, se nessuno di noi lo ascolta? Sono parole sue, piene di tesori, sono parole d’oro quelle che dice e le lasciamo cadere a terra. Se non fosse un sacramento e non fosse così come ho detto, potrebbe bastare riassumere il contenuto, ma siccome è un sacramento, il sacramento lo si riceve ascoltandolo, e il sacramento di questo discorso unitario lo si accoglie in pienezza ascoltandolo tutto.
Una seconda conseguenza del discorso è questa: questa Parola è inconfondibile con le altre parole, come questo libro è inconfondibile con gli altri libri, evidentemente di natura tutta sua, tutta diversa ed io non posso ascoltare la Scrittura mettendola insieme, mescolandola, tentando di omogeneizzarla con discorsi con cui non può stare, con parole rispetto alle quali è di natura essenzialmente diversa. Non posso mettere insieme la Scrittura ed i discorsi dell’uomo per ricavarne una specie di sintesi… E’ un discorso a sé stante, inconfondibile, incomponibile con degli altri, se no facciamo dei pasticci abominevoli, veramente. Meno che mai posso confrontare la Scrittura con i discorsi ed il buon senso dell’uomo, pretendendo di sottoporla a questo giudizio dell’uomo o di dire: “questo si va bene; questo è giusto; questo qui, beh, insomma, è un pochino rozzo a dir la verità”. Non è possibile, non è possibile! Se è parola di Dio l’uomo non può giudicarla. La Scrittura ha sempre ragione, ha ragione a priori non dopo che io ho verificato che, effettivamente sì, sembrava che non avesse ragione, ma poi aveva ragione.
Non dopo che io ho verificato che effettivamente aveva ragione, ma nella percezione di fede, nel modo con cui deve ascoltarla un credente la Scrittura ha ragione a priori. Prima di qualsiasi verifica, è lei che esamina, è lei un test, è lei la pietra di paragone che non può essere quindi sottoposta a nessun paragone ulteriore, a nessun esame ulteriore. E’ lei che esamina, è lei che approva e che condanna, è la Verità: la tua parola è verità.
Basta, adesso veniamo un pochino al tema più direttamente: il rapporto fra la Scrittura e l’Eucarestia. Prima di tutto, ecco cosa voglio dire riguardo a questo rapporto. La tesi che svolgo un pochino è molto semplice, elementare, ed è questa: questo rapporto è essenziale e non si può fare nessuna Eucarestia senza la Scrittura – come evidentemente, non si può fare nessuna Scrittura senza Eucaristia – forse è il caso che dica anche questo.
Non si può fare nessuna Eucarestia senza la Scrittura, perché prima di tutto l’Eucaristia non è interpretabile, comprensibile – quindi non è possibile vivere il rapporto con l’Eucaristia secondo il disegno di Dio come l’Eucaristia di Gesù e non come un pasticcio inventato dagli uomini – senza la Scrittura, senza essere fortemente e costantemente illuminati dalla Parola di Dio contenuta nelle Scritture. Se no, appena si perde il rapporto con la Scrittura, si deforma il rapporto con l’Eucaristia e l’Eucaristia si corrompe nelle nostre mani, come, come, ecco, quando togliamo certi alimenti dal frigo, dopo poco vanno a male. Tolta dal “contenitore” della Scrittura l’Eucaristia si guasta subito…
Che cos’è l’Eucaristia
L’Eucaristia è l’offerta del Cristo al Padre per la salvezza del mondo nella quale noi siamo inseriti essendo uniti al Cristo mediante lo Spirito Santo, finchè il Cristo ritorni.
L’offerta del Cristo al Padre: che cos’è questa offerta? Chi ci dice che cos’è questa offerta? Il mistero pasquale del Cristo, la sua morte e la sua resurrezione, il suo donarsi a Dio realizzandosi e portando a compimento tutti i sacrifici dell’antica legge. L’offerta del Cristo. Chi è il Cristo? Chi ci dice chi è il Cristo?… Chi ce lo dice se non la Scrittura… Se io non capisco chi è il Cristo, se non so chi è il Cristo, se non lo conosco nel suo mistero personale, come posso capire l’Eucaristia…
Chi mi dice chi è il Cristo se non chi me lo rivela e chi me lo può rivelare – “nessuno conosce il Figlio se non il Padre e colui al quale il Padre abbia voluto rivelarlo” – se non Dio che mi parla realizzando in me attraverso la sua Parola la conoscenza di questo mistero, del suo Unigenito?…
L’offerta del Cristo al Padre per la salvezza. Ma che cos’è la salvezza? Che cos’è la liberazione che il Cristo compie? Chi me lo dice, chi me lo fa toccare con mano, chi me lo spiega se non la Scrittura?… Che cos’è il mondo agli occhi di Dio? Quali potenze operano nel mondo, qual è il mistero della iniquità presente nel mondo e qual è il mistero dell’amore con cui Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito? Chi me lo dice se non la Scrittura?… Siccome non sono cose che si tocchino con la nostra esperienza umana e che si attingano con la nostra testa, con il nostro cervello, con la nostra riflessione umana, se non mi sono rivelate in un atto di grazia, di un’operazione di grazia compiuta da Dio, io le perdo subito, non le capisco, non le posso interpretare. Il mondo come mi appare è soltanto il velo che nasconde il mistero che contiene. E la salvezza del mondo non posso neppure sperarla se Dio non mi rivela in che cosa consiste. E io ho bisogno di essere continuamente rigenerato dalla banalità delle mia esperienza umana che continuamente scade, confrontandosi con le apparenze contro le quali si urta, dalla illuminazione di Dio che squarcia il velo del mistero.
La nostra offerta a Dio
A questa Eucaristia, a questa offerta noi siamo associati, essendo uniti al Cristo nello Spirito Santo e compiendo questa offerta di noi insieme con l’offerta del Cristo, fino al suo ritorno…
E’ per questo che Dio ci ha convocati, perché noi siamo una sola cosa con l’offerta che il Cristo fa di sé per la salvezza del mondo: questo è il mistero della chiesa.
Ma come posso conoscerla se non attraverso la Scrittura, se non attraverso questo discorso unitario così profondo e così intimamente illuminante che mi dà di comprendere cose del tutto al di là della mia portata, e che mi dà di vivere cose del tutto al di là della gettata del mio sguardo?
Finché egli venga
Perché se non è celebrata con questo anelito e con questo desiderio del ritorno di Cristo l’Eucaristia non è nulla. Ma chi tiene desta in noi la tensione verso il ritorno del Cristo Gesù? Chi mi fa vivere in questo mondo come straniero e pellegrino, se non la Parola di Dio che mi illumina sul senso della vita e della morte, della storia, del tempo e dell’eternità?..
E’ inevitabile, se si perde il contatto con la Scrittura, che l’Eucaristia sia deformata, perché non si reggono questi elementi senza questa illuminazione costante di Dio…
C’è una seconda cosa che vorrei dirvi. La Scrittura è necessaria non soltanto come premessa alla celebrazione dell’Eucaristia, ma come presente nella stessa celebrazione, se l’Eucaristia deve essere, vuole essere quello che il Signore ha voluto che sia. Perché è l’Eucaristia il luogo dell’annuncio. E’ nell’Eucaristia dove deve compiersi l’annuncio della salvezza, mediante la proclamazione della Parola di Dio – perché non c’è altra parola che possa annunciare la salvezza, e non c’è altro Vangelo, se non quello che Dio stesso ha pronunciato con la sua Parola – è nell’Eucaristia che deve compiersi questo annuncio alla Chiesa, al mondo, alle potenze, agli angeli.
“Ogni volta che celebrate l’Eucaristia annunciate la morte del Signore finché egli venga” ( 1 Cor. 11,26 ). Il luogo quindi della proclamazione della Parola è l’Eucaristia. Quando io svuoto l’Eucaristia di questo contenuto la deformo radicalmente, la impoverisco di un elemento essenziale e ne faccio un’altra cosa rispetto a quello che il Cristo aveva voluto che fosse: non è più l’Eucaristia del Cristo… La specificità di ogni celebrazione dell’Eucaristia deve essere data proprio dal particolare testo della Scrittura, annunciato in quella stessa celebrazione. Ed è anche per questo che l’Eucaristia deve celebrarsi continuamente, perché la Scrittura possa risuonare, nella sua totalità, alle orecchie della chiesa, del popolo, e perché l’annuncio, che è il compito della chiesa – “Andate ed annunciate” – possa compiersi in pienezza.
Per cui dovrebbe essere tutta la Scrittura ad entrare in qualche modo nella celebrazione dell’Eucaristia, perché la Chiesa possa realizzare il suo ufficio, per cui è stata costituita, al quale è stata deputata, che è quello di annunciare il vangelo a tutto il creato.
Sì, ma l’annuncio lo faccio fuori. No! Perché abbiamo detto che l’annuncio fatto a chi ancora non ha fede è solo la premessa dell’annuncio, perché la Parola risuona propriamente soltanto a colui che è la Chiesa stessa e i destinatari primari dell’annuncio sono coloro che sono battezzati, i credenti.
La proclamazione della Scrittura all’interno della celebrazione dell’Eucaristia è essenziale perché ciò che nell’Eucaristia costituisce il dono più prezioso è la comunione con Dio mediante l’unione col Cristo: diventiamo una sola cosa con lui per essere attraverso di lui e in lui una sola cosa con Dio… Il Dio nel quale noi ci immergiamo mediante l’Eucaristia non è un Dio muto – sono gli dei delle genti che sono muti, che hanno bocca e non parlano – e la comunione, la comunicazione di sé che si realizza con noi non sarebbe compiuta se non fosse anche la Parola che Dio, il nostro sposo, ci rivolge… Quindi se io faccio la Comunione senza ascoltare la Parola, la mia stessa Comunione è incompiuta, perché non è così totale, così piena, così efficace, così consolante, così rigenerante, così adeguata alla mia realtà di figlio – sono un figlio, quindi Dio mi può parlare – come è invece la Comunione che si realizza con anche l’ascolto della Parola del Signore.
L’ascolto personale della Scrittura
Il contatto personale con la Scrittura è qualcosa di insostituibile, perché è vero che è la chiesa che viene illuminata sul suo cammino attraverso l’annuncio, ma è vero anche che ciascuno di noi ha, pur condividendo con i propri fratelli la stessa direzione, la stessa meta e la stessa provenienza – ciascuno di noi ha un suo itinerario di grazia, come ciascuno ha i propri problemi, le proprie difficoltà, le proprie lotte, le proprie intenzioni ed i propri doni.
A ciascuno di noi, quindi, la Parola di Dio deve risuonare in un modo particolare, per ciascuno di noi, singolarmente, ci deve essere un ascolto personale e differenziato della Parola unica che annuncia sempre lo stesso mistero, perché in ciascuno di noi risuoni in modo particolare e perché, per ciascuno di noi sia la sorgente della luce, “lampada ai miei passi è la tua Parola” ( Sal 118/119,105 ). Lo dice Israele, ma lo dice anche ogni singolo figlio d’Israele: “ai miei passi”, e perché in ciascuno di noi si realizzi il piano di Dio secondo quella peculiarità che ci contraddistingue gli uni dagli altri, e la volontà di Dio a ciascuno di noi, in modo proprio personale, inconfondibile diventi manifesta. E le potenze che ciascuno di noi ha, siano dalla Parola di Dio suscitate e ravvivate. Abbiamo dei doni? Chi li ravviva? Chi ce li fa comprendere? Chi ce li fa amare? Chi ci consente di realizzare le potenze che abbiamo dentro di noi, se non quella Parola che Dio rivolge a ciascuno in particolare, uno per uno?
Il nostro itinerario, la nostra vocazione, certo, è la comune vocazione cristiana; ma in quanti modi infinitamente diversi si realizza questa vocazione cristiana comune, secondo la diversa collocazione nel mondo, nella storia, nell’ordine stesso dei doni di grazia ricevuti e delle stesse lotte che si devono affrontare da parte di ciascuno. Quindi un ascolto personale, da parte di ciascuno della Scrittura, è insostituibile.
Questo ascolto personale, certo, si realizza in qualche misura già nell’ascolto che noi facciamo della Scrittura, facendo parte dell’assemblea, perché poi il Signore dice, a ciascuno di noi, anche nell’annuncio comune, alcune cose particolari. Però ci deve essere anche come compito proprio, del tutto personale, del tutto particolare, nella nostra giornata e nella nostra vita, perché è l’illuminazione quotidiana della Parola, di cui ciascuno di noi ha bisogno per la realizzazione quotidiana del suo compito di vivere cristianamente.
Non possiamo fare quello che piace a Dio sempre, se non sentiamo incessantemente che cosa il Signore a ciascuno dice, e se non mettiamo la nostra vita sotto il raggio di luce della Parola di Dio e in questo modo, quindi, se non la sottoponiamo all’ubbidienza personale, quotidiana alla Parola di Dio. E’ molto comodo, in fondo, per sottrarsi all’obbedienza, chiudersi le orecchie o non ascoltare Dio che ci parla. Non possiamo dire “io obbedisco”, quando abbiamo fatto di tutto per metterci in una stanza acusticamente isolata e non sentire nessuna parola che ci indica ciò che dobbiamo fare. Vivere nell’obbedienza, – ed è la vocazione del cristiano – vivere nell’obbedienza a Dio, Signore, è possibile soltanto quando tutta la nostra vita sia dominata dalla Parola che ci guida, che ci indica il cammino da percorrere. Come anche realizzare personalmente il nostro compito è possibile soltanto quando siamo sostenuti, incoraggiati, confortati, cioè riceviamo forza dalla Parola per percorrere il nostro cammino. L’individuazione dei rischi che noi corriamo, del nostro peccato e degli inganni che abbiamo dentro di noi, è possibile soltanto se ciascuno di noi si mette sotto la luce della Parola, anzi si sottopone al taglio della “spada a due tagli” della Parola di Dio che discerne l’intimo dell’uomo. Quindi il compito di un ascolto personale è insostituibile. L’ascolto personale si fa personalmente, incontrando la Parola di Dio con un certo spazio quotidiano: ogni giorno si riprende in nostro cammino cristiano. Non ci può essere un giorno senza la benedizione dell’ascolto della Parola di Dio, perché sarebbe come un giorno vissuto nella tenebra.
Santa Teresina di Lisieux
L’infanzia
Difficile fare un ritratto esauriente e fedele di santa Teresina.
La mole degli scritti non è indifferente e dà l’idea di una santità molto ricca e complessa, lontana da quella semplicità naturale, ingenua, spontanea che si vorrebbe attribuirle.
Un cuore semplice, cioè puro e senza doppiezze non è mai prodotto della natura, ma della grazia del Signore. E neppure giova insistere sul contesto familiare in cui la piccola è vissuta: padre e madre di spiritualità monastica, cinque sorelle improntate allo stesso stile di vita.
Leggendo in maniera superficiale gli scritti di Teresina potrebbe sembrar che fin dalla nascita tutta la sua vita sia stata nelle mani del Signore, come una creatura naturalmente santa.
Se la santità è un dono è anche una conquista: quella che passa non attraverso lo sforzo dell’uomo ma attraverso l’obbedienza alla volontà di Dio. Perché la fede di Teresina fin dai primordi si può dire autenticamente fondata?
Perché nasce dall’ascolto. La fede vien dall’ascolto e l’ascolto dalla Parola di Dio. Ma come può essere tutto questo inteso da chi è ancora troppo piccolo per comprendere la Parola di Dio, così come è data attraverso le sacre Scritture?
Come può ascoltare Dio l’anima di una bambina?
Attraverso un rapporto immediato con la voce del Signore, che fin dall’inizio della vita e di ogni vita dice ad ognuno quello che si può fare e quello che non si deve fare.
E’ lo stato del primo Adamo, quando ancora non possiede una lingua, eppure è in grado di intendere la parola di Dio ed il suo comando, tramite la semplice voce.
L’ascolto della voce di Dio è nascosto nell’interiorità dell’io e in quanto tale celato agli occhi della carne. Vi sono tuttavia manifestazioni esteriori di per sé visibili e valutabili come espressione di un cuore vero.
Innanzitutto l’obbedienza a tutto e a tutti a cominciare dai genitori. Fin da piccola Teresina è saldamente fondata nella sottomissione agli adulti e pienamente consapevole e rea confessa dei propri errori e peccati.
Così la descrive la madre: “ E’ una bambina che si emoziona facilmente. Appena ha fatto un piccolo maldestro, bisogna che lo sappiano tutti. Ieri aveva fatto cadere senza volere un pezzetto di tappezzeria, era in uno stato da far pietà, poi bisognava dirlo subito a Papà; lui arrivò quattro ore dopo, nessuno ci pensava più, ma lei corse da Maria: “svelta, dì a papà che ho strappato la carta”. Rimane lì come un criminale in attesa della sentenza, ma ha nella sua testolina l’idea che le sarà perdonato più facilmente se lei stessa si accusa”.
Accusare se stessi già nella prima infanzia è esattamente l’opposto di ciò che ha fatto Adamo nei primordi dell’esistenza. Richiamato dalla voce di Dio, invece di confessare il proprio peccato scarica su altri e su altro ogni propria colpa e responsabilità.
Il cuore insensibile alla voce di Dio è un cuore duro, non si emoziona facilmente e non è scosso dai propri peccati. Il cuore obbediente a Dio accusa se stesso di ogni colpa per prevenire il richiamo del Signore. E non si tratta affatto di una virtù o predisposizione naturale: è opera del Signore e frutto della sua grazia, che agisce sullo spirito di ribellione per renderlo docile al suo volere.
“Quanto al furicchio, non si sa come butterà. E’ un cosino tanto piccino e tanto stordito! E anche più intelligente di Celina, ma meno dolce assai, e soprattutto di un’ostinazione quasi invincibile; quando dice “no” niente da fare; la metti in cantina tutta una giornata, lei ci dorme piuttosto che dire di sì. Però ha un cuore d’oro, ed è tanto carezzevole e molto franca; è curioso vederla quando mi corre dietro per farmi le sue confessioni – Mamma ho dato una spinta a Celina, una sola, e le ho dato un colpetto, ma non lo faccio più. ( così per tutto quello che fa )… Ritorno alle lettere nelle quali Mamma le parla di Celina e di me, è il miglior modo per farle conoscere il mio carattere. Ecco un brano nel quale i miei difetti brillano di vivo splendore: “Celina si diverte con la piccina al gioco dei cubi, bisticciano di quando in quando, Celina cede per avere una perla della sua corona. Sono costretta a correggere quella povera piccolina che va in furie paurose; quando le cose non vanno secondo le sue idee, si rotola per terra come una disperata credendo tutto perduto, ci sono momenti in cui è più forte di lei, ne è come soffocata. E’ una bambina molto nervosa, eppure è deliziosa ed intelligentissima, si ricorda di tutto”… Ma Gesù vegliava sulla sua piccola fidanzata, ha voluto che tutto volgesse al bene di lei; perfino i difetti che, repressi per tempo, le sono serviti per crescere nella perfezione… Poiché avevo amor proprio ed anche amor del bene, appena cominciai a pensare seriamente ( e ho cominciato piccina piccina ), bastava che mi dicessero: questo non è bene, che io non me lo facevo ripetere due volte… Vedo con piacere dalle lettere di mamma che, crescendo, le davo più consolazione. Avevo soltanto buoni esempi intorno a me: naturalmente volevo seguirli. Ecco ciò che scriveva nel 1876: “Perfino Teresa vuol prendere parte a fare delle “pratiche”. E’ una bimba incantevole, fina come l’ombra, molto vivace; ma il cuore è sensibile”.
L’incapacità a mentire ben manifesta un cuore che si riflette in Dio per essere da Lui plasmato, senza nulla sottrarre al suo sguardo ed alla sua correzione.
“La piccina … non direbbe una bugia per tutto l’oro del mondo… Non parla che di Dio, non mancherebbe alle sue preghiere per niente al mondo. Vorrei che tu la vedessi recitare una favoletta, non ho mai visto una cosa tanto gentile, trova da sé l’espressione ed il tono, ma soprattutto quando dice. “Bimba piccina dalla testa bionda, dove credi che sia Dio?”, quando è a: Lassù nel cielo blu” volge in alto lo sguardo con una espressione di angelo. Non ci stanchiamo di farglielo dire, tanto è bello, c’è nello sguardo di lei un che di celeste che rapisce…”
Un cuore sincero è un cuore puro ed un cuore puro è tale solo perché fisso o fissato in Dio.
Coloro che poco o mai parlano di Dio, hanno il pensiero rivolto altrove: non ascoltano la sua Parola e non sentono il desiderio di parlare di Lui e con Lui.
L’interesse che molti bambini dimostrano per Gesù e le domande che fanno al riguardo sono segni di un rapporto vivo con il Creatore, ancora aperto alle possibilità dell’ascolto.
Certamente il contesto familiare in cui vivono i fanciulli ha il suo peso, ma tra il sentire parlare di Gesù e il parlare di Gesù ci passa pur sempre una libera adesione dell’individuo.
I genitori possono dare il giusto indirizzo, ma nessun cuore viene recapitato là dove non vuole andare.
Ascoltare la voce del Signore è dunque prerogativa dei bambini e di tutti coloro che per ragioni diverse rimangono bambini nella psiche, come i disabili intellettivi. Il loro rapporto con Dio è tutto nell’immediatezza del sentire la voce: non conosce la mediazione che passa attraverso la parola. Ma a parte queste anime piccole e gradite a Dio, la maggior parte degli uomini conosce una naturale crescita in Dio da un rapporto tramite la voce ad uno tramite la Parola.
La Parola apre nuove possibilità d’ascolto, permette uno sviluppo verso l’età matura, in cui Dio non si fa semplicemente sentire, ma vuole essere cercato attraverso l’invocazione della nostra parola. La voce del Signore s’impone da sola perché il suo tono è maggiore, la Sua parola va cercata perché nascosta dietro una nostra naturale sordità, che ogni giorno deve superare se stessa ed i propri limiti per udire la parola che esce dalla bocca di Dio. Più si cresce, più è fatta grande la libertà dell’uomo. Più la libertà creata si fa grande, più Dio abbassa il tono della sua voce perché l’uomo accresca la propria volontà di ascolto, mettendo a tacere la propria parola.
Da un rapporto immediato con Dio si passa ad un’altro mediato dalla ricchezza e complessità della Parola. Ed è in questa fase di crescita dell’essere creato, che l’ascolto di Dio diviene sempre di più desiderio di conoscere la Sua parola. Perché mentre la voce di Dio si fa flebile nel cuore, sale prepotentemente nel cuore la parola dell’uomo che è parola del Maligno. Ed allora dove trovare un ascolto di Dio fondato se non nella conoscenza della sua Parola rivelata? E’ nella Bibbia e non più semplicemente nel nostro cuore che troviamo una reale presenza di Dio. E’ nell’ascolto della Sua parola che ci è offerta la possibilità di un dialogo e di una crescita in Lui e per Lui.
Teresina e le Sacre Scritture
Nessuna meraviglia che Teresina dimostri un precoce amore per la Parola di Dio. E’ la naturale conseguenza di un ascolto che vuol adeguarsi ad un cammino di crescita. Si ama presto la Parola di Dio, allorchè presto il cuore si apre all’ascolto della Sua voce.
Tutti gli scritti di Teresa sono pieni di citazioni della Parola di Dio. Vi fu un periodo della sua vita segnato da una particolare predilezione per L’imitazione di Cristo ed uno assai breve in cui si interessò agli scritti di san Giovanni della Croce. Ma in seguito Teresa rivolse interamente il proprio cuore soltanto alla Sacra Scrittura.
“La mia cara Imitazione non mi lasciava mai… Quante luci ho attinto dalle opere di san Giovanni della Croce. All’età di 17 e 18 anni non avevo altro nutrimento spirituale: ma più tardi tutti i libri mi lasciarono nell’aridità… In questa impotenza mi soccorsero la santa Scrittura e L’Imitazione, ma soprattutto il Vangelo, nel quale scopro sempre luci nuove, sensi nascosti e misteriosi…
Non trovo più niente nei libri fuorchè nel Vangelo… Poiché i miei desideri mi facevano soffrire un vero martirio, aprii le lettere di san Paolo per cercare qualche risposta…
Come sono luminose, come sono profumate le tracce che Gesù ha lasciato! Basta che getti gli occhi sul Santo Vangelo e subito respiro i profumi della vita di Gesù…”
Teresina non solo comprese l’importanza di una conoscenza globale della Parola di Dio, ma anche la necessità di una lettura che penetra nella profondità più nascosta della Parola, così come è resa possibile soltanto da una conoscenza del testo originale.
“Se fossi stato prete, avrei imparato l’ebraico ed il greco, e non mi sarei accontentata del latino: così avrei conosciuto il vero testo dettato dallo Spirito Santo”.
Desiderio condiviso da noi che cerchiamo di seguire il testo letterale della Parola, ma ai tempi di Teresina, quanti camminavano sulla stessa lunghezza d’onda e potevano vantare una ricerca così profonda del vero senso delle Scritture?
In tempi di traduzioni molto approssimative ed imperfette della Parola da parte dei dotti della chiesa, quale richiamo da parte di una giovane di modesta cultura!
A diritto e giustamente Teresina va annoverata fra i dottori della chiesa, per il suo amore unico ed esclusivo alla Parola, così come è stata scritta.
Cristo unico maestro e direttore spirituale
Teresa fu consapevole di aver ricevuto da Dio singolari illuminazioni per la comprensione dei misteri della vita spirituale.
“Sono inondata di luci… già il buon Dio mi istruiva in segreto sulle cose del suo amore… se degli scienziati fossero venuti ad interrogarmi, sarebbero stati senza dubbio stupiti al vedere una bambina di quattordici anni che comprendeva i segreti della perfezione… da due anni a questa parte, ho compreso tanti misteri che prima mi erano nascosti… possiamo dire, senza vantarci, che abbiamo ricevuto grazie e luci particolarissime. Siamo nella verità: vediamo le cose come stanno…”
Teresina non ebbe un direttore spirituale così come è comunemente inteso soprattutto da persone consacrate.
Altro maestro non ha avuto all’infuori di Cristo.
“Dio non si serviva di intermediari, ma agiva direttamente… ( parole rivoltelle dal p. Pichon: ) “Figlia mia, Nostro Signore sia sempre il vostro Superiore ed il vostro Maestro di noviziato”. Lo fu di fatto: e anche “mio direttore”… il mio cuore si volse ben presto al Direttore dei direttori: e fu lui a istruirmi in questa scienza nascosta agli scienziati e ai sapienti, e che si degna di rivelare ai più piccoli… il buon Dio voleva mostrarmi che egli solo era il direttore della mia anima…
Gesù non ha bisogno di libri né di dottori per istruire le anime: egli, il Dottore dei dottori, insegna senza strepito di parole… i tuoi segreti di amore, tu solo me li hai insegnati”…
Come intendere questo andare in controtendenza di Teresina rispetto alla comune mentalità monastica? Può considerarsi come l’eccezione, e come un modello da ammirare e non da imitare oppure vi è qualcosa di più e di diverso? In un tempo in cui la direzione spirituale perde il suo significato di semplice aiuto per una migliore intelligenza delle cose di Dio, la scelta di Teresina appare pienamente consapevole e responsabile.
Vi è un solo mediatore tra Dio e l’uomo ed è Gesù. La direzione spirituale come forma di mediazione porta con sé la possibilità di un equivoco e di una sovrapposizione di un mediatore umano fallibile, all’unico vero mediatore che è mandato dal cielo.
Il direttore spirituale può essere un aiuto, ma può anche commettere in quanto uomo gravi errori e condurre su vie non illuminate e non adeguate. Meglio affidarsi all’unica guida sicura data e confermata da Dio Padre. Vi è un solo direttore spirituale per tutti ed è Cristo Gesù, così come si fa conoscere attraverso l’ascolto della sua Parola. Non si tratta di presunzione, ma di piena fiducia e di abbandono totale all’unico maestro.
Come si ama Dio
Quale il segreto per un amore perpetuo verso il Signore?
Restare bambini. Per la maggior parte degli uomini lo spirito della fanciullezza è presto superato e messo da parte e c’è bisogno di un ritorno che è poi un diventare. Perché solo la grazia del Signore può farci recuperare la semplicità di un piccolo, allorchè l’abbiamo perduta.
In Teresina vediamo una piccolezza preservata e custodita nell’intero arco della sua pur breve vita.
Per quale ragione il vero amore al Padre è quello dei bambini?
Il bambino non ha vita propria, non vive per sé, ma si identifica nell’Altro. In Lui pone ogni suo diletto, speranza, fiducia. Nelle braccia del Padre si sente sicuro, protetto, pienamente appagato, non teme di nulla. Il bambino non si pone tanti perché riguardo a quello che fa il Padre o gli viene da Lui comandato. E’ sereno, tranquillo, convinto che colui che gli ha dato la vita ha il potere di custodirla e portarla a buon fine.
“Le chiesi, la sera, che cosa intendesse per “restare bambino piccolo dinanzi a Dio” ( è la sorella Madre che riferisce ) , mi rispose:
E’ riconoscere il proprio nulla, sperare tutto da Dio misericordioso, come un bambinello attende tutto dal suo babbo; è non inquietarsi di alcunché, non guadagnare ricchezze. Anche i poveri danno al bambino quanto gli è necessario, ma appena egli cresce, il padre non vuole più mantenerlo, e gli dice: Lavora! Ora può bastare a se stesso. E’ per non sentirmi dire così che ho preferito non crescere; mi sentivo incapace di guadagnarmi la vita, la vita eterna del Cielo! Perciò, sono rimasta sempre piccola, senz’altra occupazione che cogliere i fiori dell’amore e del sacrificio, e offrirli al Signore, per suo piacere.
Essere piccoli vuol dire anche non attribuire affatto a noi stessi le virtù che pratichiamo, non crederci capaci di nulla, ma riconoscere che Dio misericordioso pone il tesoro della virtù in mano al suo bimbo, perché questi se ne serva quando ne ha bisogno; ma il tesoro è sempre Dio. Infine è non perdersi d’animo per le proprie mancanze, perché i bimbi cadono spesso, ma sono troppo piccini per farsi troppo male”.
Non c’è amore più pieno ed assoluto di quello di un bambino nei confronti del padre.
Ma viene anche il tempo dell’età adulta e l’amore che è rimasto bambino si arricchisce di significati e di immagini nuove. Come rappresentare un piccolo innamorato, se non stretto fra le braccia del suo genitore? E qual immagine più adeguata per l’età adulta di quella dell’amore sponsale?
Se Teresina vuol crescere è soltanto per diventare la sposa di Cristo: non per rompere con il primitivo amore, ma per viverlo nel suo naturale svolgimento ed epilogo finale. Perché la chiamata di ognuno di noi è all’eterno matrimonio con il Figlio di Dio.
L’immagine è tipica della Scrittura e rende nel migliore dei modi l’idea dell’anima innamorata, che perde se stessa nell’Amore per l’Altro, tutta intenta a riamare con l’amore di cui si sente amata. E’ un amore fedele, pieno, assoluto, esclusivo, che non ammette altri amori che possano stare sopra o semplicemente accanto. Soltanto nello sposalizio con Cristo è reso possibile l’adempimento del primo e più grande comandamento: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze.
In Cristo, l’amore impossibile diventa possibile in virtù del vincolo che ci unisce a Lui. E non si deve pensare che il problema interessi soltanto le anime consacrate: tutti siamo chiamati ad essere sposi di Cristo. Il matrimonio terreno è soltanto un’immagine di quello eterno: l’immagine tramonta, la realtà resta.
L’anima innamorata pone nell’Altro ogni propria gioia e compiacimento, non trova in sé alcuna grazia ed alcuna bellezza, vive dell’Altro e per l’Altro. Gesù è tutto e noi siamo niente, Gesù è il giusto ed il santo, noi siamo dei peccatori. Non c’è altra ricchezza all’infuori di quella che è donata.
La nostra piccolezza è beata, non dobbiamo sfuggirvi, ma acconsentire a restare poveri, perché il Signore ci doni gratuitamente e ci ami senza merito alcuno.
“Il merito non consiste nel fare né nel dare molto, ma piuttosto nel ricevere, nell’amare molto… quando Gesù vuole prendere per sé la dolcezza del dare, non sarebbe gentile rifiutare… Bisogna acconsentire a restare povero e senza forza: ed è questo il difficile… Basta riconoscere il proprio nulla ed abbandonarsi come un bambino nelle braccia del buon Dio… se il Cielo mi colmava di grazie, non era perché le meritassi… Gesù voleva far risaltare in me la sua misericordia; poiché ero piccola e debole, si abbassava verso di me… cantare con il salmista, che la sua misericordia è eterna… sono soltanto una piccolissima anima che il buon Dio ha colmato di grazie: ecco che cosa sono… prega che resti sempre piccola, piccolissima… chiedi a Gesù che sia felice di essere dovunque la più piccola, l’ultima… pregate perché il grano di sabbia diventi un atomo visibile solo agli occhi di Gesù… lo zero… il piccolo zero”.
Ogni gesto, ogni atto di fede, ogni scelta altro non è che risposta all’amore infinito di Cristo, a tutti donato gratuitamente. Nessun volontarismo, nessun desiderio di guadagnarsi in qualche modo il Paradiso. Gesù ha già dato ed ha già fatto tutto per noi. Dobbiamo abbandonarci al suo amore nella piena consapevolezza del nostro niente.
“Non voglio far credere che facessi delle penitenze: purtroppo non ne ho mai fatta nessuna… sono costretta ad avere un rosario di pratiche:… sono presa in reti che non mi piacciono… Non voglio accumulare meriti per il cielo… niente meriti! Fare piacere al buon Dio. Se avessi accumulato dei meriti, mi sarei disperata… è proprio questo che fa la mia gioia: poiché non avendo nulla, riceverò tutto dal buon Dio… nel mio piccolo niente non c’è nulla da far valere… lo so bene: tutte le nostre giustizie non hanno ai tuoi occhi alcun valore… non voglio dare per ricevere… L’abbandono: è Gesù che fa tutto, e io non faccio nulla… bisogna perdere il tuo piccolo nulla nel suo infinito tutto.
Diventare una cosa sola con Cristo nell’abbraccio della croce
Se la nostra gioia è quella di lasciarci amare da Gesù nella piccolezza più assoluta, quale la risposta ad un amore assoluto e gratuito?
Noi non siamo capaci di amare Gesù come siamo da Lui amati, ma allorchè afferriamo il suo amore siamo da Lui stesso rapiti e trasformati a sua immagine e somiglianza.
Non si può essere sposi di Gesù, se non facendo propri i suoi sentimenti ed i suoi voleri. E’ volontà di Dio che tutti gli uomini giungano a salvezza: per questo ha mandato dal cielo sulla terra il Figlio suo. Se la sposa non può avere la bellezza e la grazia dello sposo, può tuttavia far propria la sua volontà, e diventare sua imitatrice, amando come Egli ama e desiderando ciò che Lui desidera L’amore vero è condivisione: condividere l’amore di Gesù vuol dire prendere parte alla sua opera di redenzione.
“Più mi sento bruciata dalle tue fiamme divine, più mi sento assetata di donarti delle anime… tu lo sai, o mio Dio, tutto ciò che desidero è farti amare…Vorrei illuminare le anime come i profeti, i dottori, ho la vocazione di essere apostolo. Vorrei percorrere la terra, predicare il tuo nome e piantare sul suolo infedele la tua croce gloriosa; ma, o mio Diletto, una sola missione non mi basterebbe: vorrei nello stesso tempo annunciare il Vangelo nelle cinque parti del mondo e fino alle isole più lontane. Vorrei essere missionaria non solo per qualche anno, ma vorrei esserlo stata fin dalla creazione del mondo ed esserlo fino alla fine dei secoli. “
Ci sono cose che si vorrebbe fare per la salvezza dell’umanità che non si possono attuare, se non in modo parziale. Ma al di là del fare e dell’operare c’è una dimensione dell’amore, accessibile a tutti e senza limite alcuno: la sofferenza. Abbracciando la croce del Cristo la fedeltà e l’offerta all’Amore misericordioso trovano il loro suggello ed il loro adempimento ultimo.
“La mia vocazione è l’amore:io non sono che una bambina impotente e debole, tuttavia la mia debolezza stessa mi dà l’audacia di offrirmi come vittima al tuo amore, o Gesù. L’amore mi ha scelta come olocausto: me, debole ed imperfetta creatura. Questa scelta non è degna dell’Amore? Sì, perché l’Amore sia pienamente soddisfatto, bisogna che si abbassi fino al nulla e che trasformi in fuoco questo nulla”… Ecco la mia preghiera: io chiedo a Gesù di attirarmi nelle fiamme del suo amore e di unirmi così strettamente a sé, che egli viva ed operi in me… Risolsi di tenermi in spirito ai piedi della croce, per ricevere la divina rugiada che ne scorreva, comprendendo che avrei poi dovuto spargerla sulle anime… Gesù mi fece comprendere che mediante la croce voleva donarmi delle anime… Solo la sofferenza può generare delle anime a Gesù… Sono in un sotterraneo molto buio chiedo che le mie tenebre servano a illuminare le anime… Dico al Signore che sono contenta di non godere di questo bel cielo sulla terra, perché egli l’apra per l’eternità ai poveri non- credenti… Sì, mio Amato, ecco come si consumerà la mia vita… Non ho altro mezzo per provarti il mio amore, se non gettare fiori, cioè non lasciarmi sfuggire alcun piccolo sacrificio
Voglio soffrire per amore ed anche gioire per amore, e così getterò fiori dinanzi al tuo trono; non ne troverò uno senza sfogliarlo per te… poi, lanciando i miei fiori, canterò, e continuerò a cantare anche quando dovrò cogliere i fiori tra le spine, ed il mio canto sarà tanto più melodioso quanto più le spine saranno lunghe e pungenti…
Ti ringrazio, mio Dio per tutte le grazie che mi hai concesso, in particolare di avermi fatto passare attraverso il crogiuolo della sofferenza. Con gioia ti contemplerò l’ultimo giorno, mentre porti lo scettro della croce; poiché ti sei degnato di farmi partecipe di questa croce tanto preziosa, spero di somigliarti in Cielo e di vedere brillare sul mio corpo glorificato le sacre stimmate della tua Passione… dopo l’esilio sulla terra, spero di venire a godere di te in Patria, ma non voglio accumulare meriti per il cielo, voglio operare per il tuo solo Amore, con l’unico scopo di farti piacere, di consolare il tuo sacro Cuore e di salvare anime, che ti ameranno eternamente. Al crepuscolo di questa vita, comparirò davanti a te con le mani vuote, poiché non ti domando, Signore di contare le mie opere. Tutte le nostre giustizie hanno macchie davanti ai tuoi occhi. Voglio quindi vestirmi della tua giustizia, e ricevere dal tuo Amore il possesso eterno di te stesso. Non voglio alcun altro trono e nessuna altra corona che Te, mio Diletto.
Ai tuoi occhi il tempo non è nulla, un solo giorno è come mille anni, tu puoi quindi in un istante prepararmi per comparire davanti a Te… Affinché io possa vivere in un atto di amore perfetto, mi offro come vittima d’olocausto al tuo amore misericordioso, supplicandoti di consumarmi senza posa, lasciando traboccare nella mia anima i flutti di tenerezza infinita, che sono racchiusi in te, perché io diventi martire del Tuo Amore, o mio Dio…
Teresina vive in questo mondo come in una terra d’esilio: il suo cuore brama l’unione eterna con l’eterno sposo. Non è il rifiuto della vita, ma di una vita che il peccato ha portato lontano dal Cristo.
Essere per sempre con Cristo, nella gloria del Padre: non c’è altra gioia e non può esserci altra aspettativa.
E tutto questo attraverso una esistenza umile e semplice, che non cerca l’apparire ma soltanto l’essere conforme a verità.
Cosa ha fatto in definitiva santa Teresina di grande? Nulla, agli occhi del mondo: tutto davanti a Dio. Essere di Cristo vuol dire vivere in Lui e per Lui, abbracciare il suo amore fino alla consumazione totale. La vera fede ha una dimensione interiore che solo Dio può valutare e conoscere. “Come sono felice di essere per sempre prigioniera al Carmelo. Non ho nessuna voglia di andare a Lourdes per avere delle estasi. Preferisco la monotonia del sacrificio! Che felicità essere così ben nascosti che nessuno pensi a noi”.
Intendano coloro che sono alla caccia di opere straordinarie o di manifestazioni miracolose della santità. La fede è semplice obbedienza alla volontà di Dio. E’ desiderio di una vita nascosta in Cristo.
Non c’è bisogno di andare lontano per trovare Cristo: è nel silenzio più profondo del tuo cuore. Non cercare altra fede all’infuori di quella che viene dall’ascolto della parola di Dio. Non desiderare altra sofferenza se non quella che ti è data dal Cristo. Non fare opera alcuna se non quella che è volontà di Dio.
Un fraterno abbraccio a tutti da Cristoforo e Teoforo
Ma, che senso ha
per dei laici
obbedire ad una Regola?
Anche i nuovi movimenti ecclesiali che previlegiano l’aspetto dinamico, spontaneo, carismatico del loro associarsi, avvertono l’utilità di alcune “tracce” (regola) di comportamento e stanno sperimentandole sotto varia nomenclatura.
Noi abbiamo mantenuto un nome così impegnativo (la Regola) sia per segnalare la serietà dell’impegno richiesto, sia per ricordare che riceviamo dalla Chiesa uno strumento volto a liberarci dalla dipendenza dei nostri e degli altrui sbalzi di umori e progetti e valorizzare sia i doni personali che le potenzialità del carisma DELLA COMUNITA’ DI S.ORSOLA in una vita di Fraternità, posta quale segno di Chiesa.
LINEE SPIRITUALI DELLA REGOLA
In sintesi: per poter rispondere alla vocazione di questo movimento RADICATI NELLA CARITA’ bisogna rispondere alle richieste di conversione che Pietro stesso ci rivolge come negli Atti degli Apostoli al cap. 2
14 Allora Pietro, levatosi in piedi con gli altri Undici, parlò a voce alta così: «Uomini di Giudea, e voi tutti che vi trovate a Gerusalemme, vi sia ben noto questo e fate attenzione alle mie parole:
15 Questi uomini non sono ubriachi come voi sospettate, essendo appena le nove del mattino.
16 Accade invece quello che predisse il profeta Gioele:
17 Negli ultimi giorni, dice il Signore,
Io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona;
i vostri figli e le vostre figlie profeteranno,
i vostri giovani avranno visioni
e i vostri anziani faranno dei sogni.
18 E anche sui miei servi e sulle mie serve
in quei giorni effonderò il mio Spirito ed essi
profeteranno.
19 Farò prodigi in alto nel cielo
e segni in basso sulla terra,
sangue, fuoco e nuvole di fumo.
20 Il sole si muterà in tenebra e la luna in sangue,
prima che giunga il giorno del Signore,
giorno grande e splendido.
21 Allora chiunque invocherà il nome del Signore
sarà salvato.
22 Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete -,
23 dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso.
24 Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere.
.
25 Dice infatti Davide a suo riguardo:
Contemplavo sempre il Signore innanzi a me;
poiché egli sta alla mia destra, perché io non vacilli.
26 Per questo si rallegrò il mio cuore ed esultò la mia lingua; ed anche la mia carne riposerà nella speranza,
27 perché tu non abbandonerai l’anima mia negli inferi, né permetterai che il tuo Santo veda la corruzione.
28 Mi hai fatto conoscere le vie della vita,
mi colmerai di gioia con la tua presenza.
29 Fratelli, mi sia lecito dirvi francamente, riguardo al patriarca Davide, che egli morì e fu sepolto e la sua tomba è ancora oggi fra noi.
30 Poiché però era profeta e sapeva che Dio gli aveva giurato solennemente di far sedere sul suo trono un suo discendente,
31 previde la risurrezione di Cristo e ne parlò:
questi non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne vide corruzione.
32 Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni.
33 Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire.
34 Davide infatti non salì al cielo; tuttavia egli dice:
Disse il Signore al mio Signore:
siedi alla mia destra,
35 finché io ponga i tuoi nemici
come sgabello ai tuoi piedi.
36 Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!».
37 All’udir tutto questo si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?».
38 E Pietro disse: «Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito Santo.
39 Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro».
40 Con molte altre parole li scongiurava e li esortava: «Salvatevi da questa generazione perversa».
41 Allora coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno si unirono a loro circa tremila persone.
42 Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere.
43 Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli.
44 Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune;
45 chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.
46 Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore,
47 lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo.
48 Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati.
.
BASI SCRITTURISTICHE
DELLA REGOLA
«Che cosa dobbiamo fare, fratelli?»
1. PENTITEVI: contrizione del cuore. All’udir tutto questo si sentirono trafiggere il cuore.
2. CIASCUNO DI VOI SI FACCIA BATTEZZARE: rinnovo delle Promesse Battesimali.
3. RICEVERETE IL DONO DELLO SPIRITO: camminare nello Spirito Santo attraverso una nuova effusione nello Spirito.
4. SALVATEVI DA QUESTA GENERAZIONE PERVERSA: distacco dal mondo. Non amare il mondo né le cose del mondo. Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in terno. (1 Gv 2: 15-17)
5. CONFESSIONE FREQUENTE: Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità. 7 Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato. 8 Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. 9 Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa. 10 Se diciamo che non abbiamo peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi.
6. TEMPIO INTERIORE : sviluppare la dimensione contemplativa nella propria vita costruendo giorno per giorno la propria interiorità, “19 O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? 20 Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!” (1 Cor 6: 19-20)
7. CONSACRAZIONE A GESU’: 1 Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. (Rom 12: 1)
8. VITA NELLO SPIRITO: 9 Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. 10 E se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a causa della giustificazione. 11 E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. (Rom 8: 9-11)
9. METANOIA: 2 Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto. (Rom 12: 2)
10. VITA NELLA FEDE: camminate dunque nel Signore Gesù Cristo, come l’avete ricevuto, ben radicati e fondati in Lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, abbondando nell’azione di grazie.
11. STUDIO: badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo.
12. CONVERSIONE CONTINUA: dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici [23]e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente [24]e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera. (Ef 4: 22-24)
13. PENITENZA- ASCESI: [25]Perciò, bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perché siamo membra gli uni degli altri. [26]Nell’ira, non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira, [27]e non date occasione al diavolo. [28]Chi è avvezzo a rubare non rubi più, anzi si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi si trova in necessità. [29]Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto, parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano. [30]E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, col quale foste segnati per il giorno della redenzione. [31]Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità. [32]Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo.
14. RESISTENZA: 10]Per il resto, attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza. [11]Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo. [12]La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. (Ef 6:10-12)
15. COSTANZA-STABILITA’: [14]State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, [15]e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace.
16. LECTIO DIVINA: [16]Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; [17]prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio.
17. PREGHIERA CONTINUA – PREGHIERA DEL CUORE [18]Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi. (Ef 6:14-20)
18. CONSACRAZIONE SOPRATTUTTO VISSUTA ALLA MADONNA: 25] Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala. [26]Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco il tuo figlio!». [27]Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!». E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa.
19. FEDELTA’ ALL’EUCARESTIA: [48]Io sono il pane della vita. [49]I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; [50]questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. [51]Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
[52]Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». [53]Gesù disse: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. [54]Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. [55]Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. [56]Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. [57]Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. [58]Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno». (Gv 6:52-58)
20. FEDELTA’ ALLA CHIESA: 16]Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. [17]Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano. [18]E Gesù, avvicinatosi, disse loro: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. [19]Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, [20]insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». (Mt 28: 16-20)
[15]Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». [16]Gli disse di nuovo: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci le mie pecorelle». [17]Gli disse per la terza volta: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi vuoi bene?, e gli disse: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecorelle. [18]In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi». (Gv 21:15-18)
LA REGOLA
IN PRATICA
1. Sviluppare la dimensione contemplativa dell’essere umano aprendosi al dialogo con Dio.
2. Trattarsi come fratelli, con piena carità e con atti concreti di fraternità.
3. Meditare giorno e notte la Parola del Signore vegliando in essa.
4. Pregare insieme o soli più volte al giorno.
5. Celebrare ogni giorno l’Eucaristia .
6. Lavorare con le proprie mani, come Paolo apostolo.
7. Purificarsi da ogni traccia di male .
8. Vivere da poveri, fino a sostenere i fratelli nel bisogno con i propri beni, secondo possibilità.
9. Amare la Chiesa e tutte le Genti .
10. Conformare la propria volontà con quella di Dio ricercata nella fede, con il dialogo e con il discernimento.
I CINQUE PUNTI
1. Conversione personale.
2. Siamo ancora lontani dall’incontro con Dio nel nostro cuore.
3. Trascorrere più tempo possibile nella preghiera e nell’adorazione a Gesù Cristo nel Santissimo Sacramento Dell’altare.
4. Il desiderio della vita eterna.
5. Pensare che tutto passa e solo Dio rimane.
PROPOSITI
-
la preghiera del cuore
-
l’Eucarestia
-
la confessione mensile
-
la lettura della Bibbia
-
il digiuno
=========================================
Un nuovo movimento spirituale
trasversale
a tutti gli Ordini e Movimenti ecclesiali
RADICATI
NELLA CARITA’
Collocazione del Movimento
nella
Chiesa Cattolica
Esso non va a collocarsi nel novero degli altri ordini, movimenti, associazioni, gruppi parrocchiali della Chiesa ma li attraversa tutti quanti, cogliendo un minimo comun denominatore di tutti, che deve essere il “proprio” del Cristianesimo, il fondamento, la sola cosa necessaria, e si assume il compito di viverlo per tutti ed a nome di tutti in profondità e radicalmente “ Vivere in profondità, nel silenzio, e nell’umiltà le radici del Cristianesimo “.
Per questo possono far parte del movimento tutti: sacerdoti, laici e religiosi, appartenenti anche a qualunque altro ordine, associazione o movimento. Il movimento non fa iscrizioni e quindi non è configurabile né per mezzo del numero di aderenti, né per mezzo di tessere di iscrizione, né per mezzo di gerarchie o di cariche. Ognuno, che intende fare un percorso comune col Movimento, si impegna solamente ad assimilarne la spiritualità, che è quella della Chiesa primitiva, della Comunità del portico di Salomone, come è descritto negli Atti degli Apostoli.
Il fondamento è Cristo, il mezzo è Cristo, il fine è Cristo, ricercato, ascoltato, incarnato, pregato, adorato nelle profondità del proprio cuore, per viverlo come centralità là, nella situazione e nel luogo dove ciascuno è chiamato, e nella Chiesa Cattolica (1Cor 7:20 : ” Ciascuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato” ). Il movimento rappresenta una corrente di vita interiore che attraversa tutta la Chiesa e la corrobora dall’interno ed in profondità, umilmente, silenziosamente, senza visibilità e senza pretendere di modificare le strutture esistenti, senza influenzare le varie regole o spiritualità degli ordini o dei movimenti esistenti, e senza crearne delle altre.
La diffusa effettiva ignoranza della fede cristiana e del suo nucleo vitale, la tentazione di ridurre quel messaggio al livello di una ideologia o della mera dimensione sociologica, ci spinge a cercare una risposta che per essere intelligente non deve perdersi nelle questioni secondarie, ma saper cogliere l’essenziale ed il proprio del Cristianesimo, evidenziando coraggiosamente la differenza da ciò che è altro ( “è la differenza che porta l’idea”, aveva ammonito profondamente Aristotele ).
Anche noi abbiamo bisogno, e non certo in via subordinata, di una testimonianza vissuta, capace di proporre una libera e degna forma di esistenza.
Siate radicati nella Carità
[7] Ben radicati e fondati in Lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, abbondando nell’azione di grazie.
[8] Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo.
( Colossesi – Capitolo 2 )
Qual è la Vocazione ed il Compito Unico del movimento nella Chiesa Cattolica? Ristabilire Il primato di Dio e dell’anima nell’uomo contemporaneo e Portare Gesù a Regnare nei cuori riconsiderando la centralità dell’ “Incarnazione” del Verbo!.
La cultura del consumismo vorrebbe trascinare tutti in un attivismo senza respiro e nel conseguente vortice senza fine, spesso fine a se stesso od in una pseudo gratificazione religiosa o magico-religiosa, forse avulsa dall’impegno della Conversione-a-Cristo ed al suo Vangelo.
Qualche volta si arriva al compromesso fino al sincretismo livellante, che porge all’umanità globalizzata metodi di meditazione più o meno trascendentale, filosofie orientali, religioni monoteiste, morali sociali, superstizioni antiche e nuove tese all’incontro col divino.
Tutto questo però senza un Mediatore tra l’uomo e Dio e senza un vero riconoscimento del peccato e dei peccati dell’umanità, delle sue conseguenze storiche, e spesso negando il mistero dell’iniquità, del male, introdotto e propugnato dal signore della morte: Satana (il vero nemico di Dio e dell’umanità).
Va riconquistato lo spirito della “povertà beata”, lo spirito del silenzio, del deserto e della penitenza. Va ,dunque, operato un rovesciamento: le cose che prima contavano per il mondo e per me, ora non contano più. Le cose che prima sembravano non aver valore, ora per me valgono in assoluto.
La povertà beata fa scoprire all’uomo ciò che di fatto è, all’interno della storia dell’umanità e nelle profondità di se stesso: un essere limitato, incapace di farsi relmente del bene, dipendente, bisognoso, un vuoto che deve essere riempito da un altro.
Senza lo Spirito di Povertà, la povertà non è però una Beatitudine, ma una maledizione, un’occasione di rivolta, di odio, di invidia, di violenza e di lotta sociale. Dalla povertà reale allo Spirito di Povertà c’è di mezzo lo Spirito Santo.
Va fatta esplicita rinuncia all’autosalvezza ed al groviglio dei nostri sentimenti e risentimenti: odii, rancori, pregiudizi, invidie, tristezze, stanchezze, scoraggiamenti, punti di vista, presunzioni, orgogliose rivendicazioni, autosoddisfazioni, ritrosie, critiche, gelosie, discussioni, separazioni, maldicenze, chiacchiericcio dispersivo, ricerca delle cariche e dei primati, assunzione di incarichi di comando o prestigio,…al fine di ottenere da Dio una sicura semplicità di spirito, una perenne letizia, una costante imperturbabilità di sentimenti, un’umile perseveranza, nell’attenzione amorosa alla presenza continua di Gesù nel Cuore, al Centro dell’Anima e della Coscienza, dove Egli deve permanentemente Regnare, fuggendo da ogni intimismo e psicologismo, per servire Gesù nel Cuore con semplicità ma anche nella realtà di tutto il nostro essere “anima e corpo”, nella preghiera interiore continua, ma anche nella concretezza della vita quotidiana, nella continua ricerca del servizio al prossimo, nella fattiva carità fraterna,la quale rimane come condizione unica di verifica dell’autenticità della nostra preghiera) e della nostra conversione e sulla quale ogni giorno ci dobbiamo esaminare davanti a Dio ed ai fratelli.
[17] Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani nella vanità della loro mente, [18] accecati nei loro pensieri, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro, e per la durezza del loro cuore. [19] Diventati così insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza, commettendo ogni sorta di impurità con avidità insaziabile. [20] Ma voi non così avete imparato a conoscere Cristo, [21] se proprio gli avete dato ascolto e in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, [22] per la quale dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici [23]e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente [24] e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera. [25] Perciò, bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perché siamo membra gli uni degli altri. [26] Nell’ira, non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira, [27] e non date occasione al diavolo. [28] Chi è avvezzo a rubare non rubi più, anzi si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi si trova in necessità. [29] Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto, parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano. [30] E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, col quale foste segnati per il giorno della redenzione. [31] Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità. [32] Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo.
( Efesini – Capitolo 4 )
La scure va posta alla radice dell’albero: nel senso che l’albero della mia vita che non ha dato e non dà buoni frutti va decisamente abbattuto e va posta una radice nuova; Radix: (ecco cosa significa), l’albero ha bisogno di una nuova radice.
La radice nuova è anche quella vecchia, quella di sempre: Gesù Cristo, solo Gesù Cristo, unicamente Gesù Cristo, e la nostra vita è vissuta in Cristo, con Cristo, per Cristo:
[10] Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un sapiente architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento come costruisce. [11] Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. [12] E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, [13] l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. [14] Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; [15] ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco. [16] Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? [17] Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi.
( Corinzi 1 – Capitolo 3 )
Ed ecco cosa significa
essere
“Radici nella Radice“
NON PIU’ IO
MA CRISTO
[20] Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me.
Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me. ( Galati Capitolo 2 ).
Minime sono le radici dell’albero: sepolte vive, sepolte benché siano vive, vive anche se sono sepolte e nascoste, infatti se non fossero sepolte e nascoste finirebbero presto di essere vive.
1] Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; [2] pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. [3] Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! [4] Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria.
( Colossesi – Capitolo 3 )
Se queste radici non fossero vive e sepolte, avremmo presto finito di ammirare le verdi foglie dell’albero e di gustarne i saporosi frutti.
Le radici sono sepolte e sembrano di nessun conto ed inutili, nessuno se ne ricorda, sembrano senza vita tanto sono prive di brillanti colori, mentre sono informi, grezze, ricoperte di terra, prive di una qualche bellezza per attrarre l’ammirazione; eppure senza di esse la vita dell’albero sarebbe una vita effimera, al massimo durevole per una stagione,…non certo vita eterna…!
La radice lavora umilmente e continuamente, nascosta, misteriosa, silenziosa, inappariscente, di un lavoro tutto “interiore”.
Questa è la vocazione dei minimi, vivere nell’interiorità, la vita spirituale, permanentemente in uno stato di conversione e di preghiera continua, per contribuire a garantire un’ Abbondante e Vera Linfa all’Albero della Chiesa.
Questa vocazione la si può vivere ovunque, in qualunque situazione o stato. L’importante è tendere alle cose più piccole, più semplici, meno appariscenti, meno nobili, più interiori….alle cose , appunto, minime; valorizzando le cose minime, apparentemente insignificanti, ciò che gli uomini spesso scartano o reputano mezzi inutili o marginali, fino a farle diventare gli ingredienti di una profondissima vita di santità, utile per la Chiesa. Poiché, questo è lo scopo ultimo: l’Utilità per la Chiesa!
Si tratta di utilizzare tutto ciò che è più semplice, più piccolo, più facile, più nascosto. Le radici non hanno splendore e non hanno voce, sono silenziose, mute. Le fronde stormiscono quando il vento fa agitare le tremule e leggiadre e verdi foglie, fa dondolare i rami e scuote i fiori brulicanti di api e di pollini e di nettare, ma le radici non hanno voce che si possa udire, né canto, né poesia.
Esse sono in grado di strappare ed assorbire acqua e sali anche da un terreno ostile e perfino dalla dura roccia del nostro cuore di pietra, per trasformarli in linfa; e debbono continuamente difendersi contro gli attacchi degli abitatori ostili di quel modo, buio e nascosto, dove il sole e l’aria non possono penetrare.
Esse sono impegnate infatti in una lotta aspra e continua contro i nemici oscuri, di un mondo di tenebra, che dentro di noi, nel terreno del nostro cuore, come tignole, erodono l’anima di chi non è preparato, abituato e temprato al rude combattimento spirituale:
10] Per il resto, attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza. [11] Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo. [12] La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. [13] Prendete perciò l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. [14] State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, [15] e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. [16] Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; [17] prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio. [18] Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi, [19] e anche per me, perché quando apro la bocca mi sia data una parola franca, per far conoscere il mistero del vangelo, [20] del quale sono ambasciatore in catene, e io possa annunziarlo con franchezza come è mio dovere.
( Efesini – Capitolo 6 )
La nostra vita, nel Movimento , è “dura battaglia”, è “milizia”, è “tirocinio”. Dobbiamo imparare attraverso le “cose patite” l’obbedienza della Fede: Dobbiamo attraversare e superare numerose “tentazioni” e “prove” interiori ed esteriori.
Le verità di fede devono diventare per ognuno di noi “fatti di fede”, una “scelta del cuore”, un “atteggiamento dello spirito”. Imparare l’obbedienza della Fede è il compito di tutta la vita.
Chi partecipa al Movimento è, dunque, un “eremita nella città”, vive una vita nel deserto, pur essendo immersi nel caos della vita moderna quotidiana; è una vita eremitica, tutta chiusa nel silenzio e nella solitudine della propria “cella interiore” ( vedi punto 194 ). Si vive nel deserto pur vivendo nel cuore del mondo, quasi una sintesi degli opposti ( vedi punto 80 ).
Questa “ nuova forma di vita eremitica, “ fà di tutta la vita una LITURGIA DI LODE a Dio, riducendo i bisogni allo stretto necessario.
Si Vive in povertà, col potere di non aver potere, sperimentando così il supremo potere: quello di poter vivere solo per Dio, (questa è l’obbedienza); non avendo altro desiderio se non quello di vivere per Cristo, con Cristo ed in Cristo quanto rimane ancora da vivere.
Questo “eremita nel mondo” è testimone dello Spirito, nel vuoto e nel silenzio interiore, che è l’immagine dell’immensità, e quando avrà messo a nudo anche il vuoto della ragione, Dio avrà modo di entrare nella coscienza per risvegliarla ed illuminarla.
[1] Vi esorto dunque io, il prigioniero nel Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, [2] con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, [3] cercando di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. [4] Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; [5] un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. [6] Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti. ( Efesini – Capitolo 4 )
Viviamo in un tempo di secolarizzazione massificata, ed anche noi ci troviamo nelle condizioni di formulare la domanda: ”Qual è il proprio del Cristiano?”.
Filed under: GLOBULI ROSSI NEL POPOLO DI DIO, LA MIA REGOLA DI VITA