DALL’ANGOSCIA ALLA SANTITA’: San Giovanni di Dio – Gabriele Russotto o.h.
Posted on agosto 25th, 2009 by Angelo
SAN GIOVANNI DI DIO
DALL’ANGOSCIA ALLA SANTITA’
Di Gabriele Russotto o.h.
I. ORIGINE E INFANZIA DI SAN GIOVANNI DI DIO
San Giovanni di Dio nacque nel 1495 a Montemoro-Novo, nella diocesi di Evora, in Portogallo, sotto il regno di Giovanni II, « il principe perfetto », mentre i « re cattolici », Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, governavano la Spagna ed il Papa Alessandro VI occupava la cattedra di san Pietro a Roma. Tutti i suoi biografi sono d’accordo su questa data fissata in base alla sua morte, avvenuta l’8 marzo 1550, all’età di cinquantacinque anni. Ma le loro opinioni sul giorno ed il mese di questa nascita differiscono. Giovanni, ignorandoli forse lui stesso, non li ha fatti conoscere ai suoi compagni; d’altra parte, mancano i documenti che avrebbero permesso di fissarli in modo sicuro.
Nel 1623, infatti, su istanza del Padre Domenico de Mendoza, giudice nella causa di beatificazione di Giovanni di Dio, don José de Melo, arcivescovo di Evora, istruì il processo nella sua diocesi ed incaricò Giovanni-Battista Viegas, notaio ecclesiastico, di cercare l’atto di battesimo del servo di Dio a Montemoro-Novo. Dopo un’inchiesta condotta sui luoghi, il delegato constatò che i più antichi libri parrocchiali risalivano al 1542.
Il documento ricercato era dunque scomparso e non c’era alcuna speranza di ritrovarlo.
Parimenti, non si sa quasi nulla di certo sulla prima parte della vita di Giovanni di Dio, fino alla sua misteriosa venuta in Spagna, all’età di otto anni, nel 1503. Giovanni stesso non ha dovuto ritenere un gran che di questo periodo. Cosa ha potuto dirne a coloro che gli stavano intorno?
Il suo primo biografo, Francisco de Castro, si accontenta di scrivere nella sua opera, pubblicata nel 1585: Di nazionalità portoghese, nacque nella cittadina di Montemor-o-Novo, da genitori di media condizione, né poveri né ricchi, con i quali visse fino all’età di otto anni.
E’ troppo poco, ma i suoi biografi del XVII secolo non hanno tralasciato, secondo l’usanza dell’epoca, di colmare questo vuoto con leggende e racconti meravigliosi.
De Castro, il fatto va notato, non cita nemmeno il nome di famiglia di Giovanni. Perché? Il seguito della biografia sembra tuttavia confermare che esso era noto.
Checché ne sia, al processo di beatificazione di Giovanni di Dio, che ebbe luogo, a partire dal 1622, in Portogallo ed in Spagna, un testimone, Andrès Alvarez Cidade, tessitore a Montemor-o-Novo, fece la seguente deposizione: Molte volte, nella sua vita, ho udito mio padre, Andrès Lorenzo Cidade, affermare di essere cugino del padre di Giovanni di Dio, Andrès Cidade. Io stesso ho ben conosciuto Blas Cidade. Quell’uomo, rimasto celibe, era il fratello del padre del santo. Andrès
Cidade viveva lavorando la sua proprietà e non esercitava alcun altro mestiere. Questa testimonianza sommaria sembra probabile.
La partenza di Giovanni Cidade all’età di otto anni pone un altro problema di difficile soluzione.
All’insaputa dei suoi genitori, Giovanni fu allora condotto da un giovane studioso a Oropesa, in Spagna.
A questo riguardo i biografi hanno formulato delle opinioni più o meno fantasiose.
Si trattava di un rapimento, come lo ritengono alcuni? La cosa sembra impossibile. Un ragazzo di otto anni non si lascia rapire senza difendersi e gridare; ciò fa supporre una connivenza fra il giovane ed il bambino.
Due ipotesi, verosimili, possono essere avanzate. Secondo la prima il giovane, buon parlatore, sarebbe riuscito a convincere il piccolo Giovanni ad accompagnarlo e lo avrebbe portato via. Una seconda ipotesi sembra più probabile. Affascinato dalle meravigliose storie narrate dal viaggiatore accanto al focolare, Giovanni avrebbe deciso di seguirlo a sua insaputa e senza avvisare i genitori. Si tratterebbe, di conseguenza, di una fuga simile a quella di Teresa de Ahumada, la futura santa Teresa d’Avila che, più tardi, all’età di sette anni, lasciò la famiglia insieme al fratello Rodrigo, alla ricerca del martirio tra i Mori. In questo caso, ad una svolta della strada, il giovane avrebbe scorto il figlio di coloro che caritatevolmente lo avevano ospitato e che lo seguiva senza aver attirato la sua attenzione. Cosa avvenne allora tra il giovane ed il bambino? Perché, come più tardi lo zio di Teresa, non ricondusse subito il piccolo fuggiasco dai suoi genitori? Nessuna spiegazione naturale sembra imporsi. Occorre scorgervi una intenzione della Provvidenza? Essa guida talvolta attraverso vie straordinarie gli strumenti privilegiati della sua opera in questo mondo.
Laggiù, a Montemor-o-Novo, i genitori angosciati cercano a lungo il piccolo Giovanni, ma ahimè! senza risultato. Non lo rivedranno più sulla terra. Sua madre è distrutta dalla prova e in capo a venti giorni muore di dolore. Suo padre, nel vedersi privato di tutto ciò che aveva di più caro al mondo, entra nel convento di S. Francesco di Enxobrigas, a Lisbona, per indossare l’abito religioso e terminare i propri giorni nel raccoglimento e nella preghiera.
Ecco quindi Giovanni Cidade, a otto anni, privato per sempre degli affetti e delle gioie della famiglia. Solo al mondo, egli avrà, fino a più di quaranta anni, un’esistenza assai tormentata, sia esteriormente che internamente. Le prove, di ogni genere, si moltiplicheranno sotto i suoi passi. Ma a questa rude scuola, con la grazia di Dio, egli plasmerà un cuore misericordioso e forte che gli permetterà di adempiere, più tardi, nonostante i molteplici ostacoli, la sua missione di carità verso i poveri, gli ammalati e gli abbandonati.
Il. AVVENTURE GIOVANILI
Giovanni Cidade non rivedrà più, su questa terra, né suo padre né sua madre. Troppo giovane, per esaminare persino la possibilità di una tale disgrazia, egli crede confusamente, senza dirselo può darsi, che tornerà a Montemor-o-Novo per abbracciare i genitori. Tutt’al più ha dolorosamente sentito, durante i primi giorni del viaggio, la mancanza delle tenerezze e delle cure materne.
La strada è dura per i suoi piedi di bimbo. Ha un’idea della distanza che lo separa da Madrid, prima meta del viaggio? I nostri pellegrini raggiungono dapprima Evora, poi Elvas e attraverso Badajoz arrivano in Spagna. Si dirigono quindi verso Merida, passando attraverso oliveti e campi arati. Tosto, lungo strade flancheggiate da olmi, attraverso lecceti, pascoli e lande, essi salgono le falde della Sierra de Maranica, volta a sud, attraversano l’Escurial, Zorita ed arrivano a Nostra Signora di Guadalupe, uno dei più famosi pellegrinaggi spagnoli, che essi non potevano mancare di visitare. Per quanto brevi siano state le tappe, il piccolo Giovanni era molto indebolito. Egli ha ancora il coraggio di attraversare il colle di San Vincenzo, di discendere il versante nord della Sierra e di attraversare il Tago al ponte dell’Arcivescovo; ma, ad Oropesa, è esausto e non può andare oltre. Costretto a separarsi dal piccolo Giovanni, il giovane lo abbandonò o lo affidò a qualcuno? Lo ignoriamo.
In ogni caso fu raccolto da Francesco, detto Majoral, intendente delle mandrie del conte di Oropesa, don Fernando di Toledo. Quell’uomo dabbene si occupò dell’educazione del bambino. Dotato di una natura docile e di una intelligenza sveglia, Giovanni imparò a leggere, a scrivere ed acquisì come i ragazzi della sua età, una istruzione religiosa elementare. Poi fu incaricato di portare le provviste ai pastori di Francesco il Majoral. Aveva quasi quindici anni quando il padrone gli affidò la custodia di un gregge nei pascoli irrigati dal Tago, nei dintorni di Oropesa.
La solitudine ed il silenzio della campagna favoriscono la riflessione. Giovanni ha raggiunto l’età in cui si comincia a prendere coscienza della propria personalità, in cui non ci si contenta più delle idee e delle direttive di coloro che ci stanno accanto, in cui si cerca persino di eludere la loro influenza, talvolta troppo invadente. Egli avverte il bisogno, come ogni giovane, di ritornare al suo passato per rispondere ai suoi quesiti spontanei, di pensare seriamente al suo avvenire allo scopo di preparano meglio. I suoi sogni di bambino, a cosa hanno approdato? Perché ha seguito quel giovane di cui non ha più udito parlare? Francesco il Majoral si è mostrato buono con lui, ma non era suo
padre. Da un giorno all’altro può esserne separato e sarà solo allora, straniero in quella terra di Spagna. Non dovrebbe, ora che è grande e forte, ritornare al più presto in patria, accanto ai suoi genitori, a Montemor-o-Novo? Molti quesiti si pongono al suo spirito inquieto. Normalmente, sembra, Giovanni avrebbe dovuto, pur mostrandosi riconoscente a Francesco il Majoral, fargli ammettere che era suo dovere ritornare in Portogallo. Rimase tuttavia ad Oropesa. Senza dubbio sfuggiva così alla pesante prova che sarebbe stata per lui, alla sua età, la scoperta del focolare distrutto involontariamente dal suo errore?
Egli svolgeva d’altronde nel miglior modo il suo lavoro.
Tali erano la sua attività e la sua precisione in tutte le cose, che egli era amato dal suo padrone e benvoluto da tutti.
Divenuto uomo, Giovanni abbandona i greggi per entrare al servizio diretto del conte di Oropesa in qualità di palafreniere. A questo proposito egli confiderà più tardi ai suoi compagni il seguente importante ricordo:
Quando ero al servizio del conte di Oropesa mi capitava di provare un vivo dolore nel vedere i cavalli delle sue scuderie, grassi e lucenti, ornati di ricchi finimenti, ed i poveri magri, coperti di stracci e privi di cure. Mi dicevo: Vediamo, Giovanni, non sarebbe meglio che ti preoccupassi di curare e nutrire i poveri di Gesù Cristo che queste bestie dei campi? E
aggiungeva sospirando: Che Dio mi conceda, un giorno, di realizzare questo desiderio!
Prime aspirazioni « verso la sua futura opera ».
Si può dire che Giovanni Cidade fosse già pronto a seguire l’eccezionale vocazione a cui Dio lo aveva predestinato? Non proprio! Un difetto, del quale indubbiamente non aveva coscienza, il suo difetto dominante, l’amor proprio, lo rendeva allora del tutto incapace.
Avevano lodato troppo, a quanto sembra, sia a Montemor-o-Novo che ad Oropesa, la sua viva intelligenza, le sue attitudini e la sua precoce virtù; Giovanni gradiva quegli elogi. Non era persino desideroso di ottenerne? Il fatto è che, per guarirlo, Dio permise che quell’invadente amor proprio fosse per lui il principio di gravi tentazioni.
Dopo il trattato di Noyon, 13 agosto 1516, la Francia e la Spagna vivevano in pace, nonostante profonde cause di dissenso; ma in seguito all’elezione all’impero germanico – 28 giugno 1519 – di Carlo Quinto, preferito al suo rivale Francesco I, le relazioni tra i due monarchi si deteriorarono e presto le ostilità si scantenarono su tre fronti, nelle Fiandre, nel Milanese ed in Navarra. A noi, qui, interessano soltanto le operazioni concernenti il nord della Spagna, giacché permettono di fissare con precisione l’arruolamento volontario di Giovanni Cidade in una compagnia spagnola, datandolo ad un periodo posteriore a quello ritenuto dai suoi primi biografi e, dopo di loro, dai suoi biografi francesi.
Poiché Carlo Quinto era impegnato a calmare la Germania, allora agitata da violenti fermenti a
causa delle dottrine che Lutero iniziava a predicare, e delle gravi insurrezioni di « comuneros » si erano avute in Castiglia e a Valenza, nei primi del 1521, Francesco I ne profittò per prendere l’offensiva. Dietro suo ordine Francesco di Foix valica i Pirenei e si impedronisce di Pamplona, nonostante l’eroica difesa del capitano Inigo de Loyola, il futuro sant’Ignazio, ferito nel combattimento; ma il 30 giugno 1521 è sconfitto a Noain. Per compensare questa sconfitta l’ammiraglio francese Guglielmo Gouffier di Bonnivet si impadronisce di Behobia e della fortezza di Fontarabia, il 16 ottobre 1521.
Sul momento, Carlo Quinto, alle prese con enormi difficoltà in Germania e in Spagna, non poté reagire. Superatele, concluse un’alleanza con Enrico VIII d’Inghilterra e decise di riconquistare Fontarabia. Per questa impresa egli convocò le Cortes a Palencia, nel gennaio 1523, ed ottenne un primo sussidio di 400.000 ducati d’oro. Poi fece delle leve di soldati in tutta la Spagna. Giovanni Cidade fu uno di quelli che s’arruolarono sotto la bandiera dell’imperatore.
Divenuto uomo, Giovanni decise, a 22 anni, di andare in guerra. Si arruolò in una compagnia di fanteria, agli ordini del capitano Giovanni Ferrus. Quest’ultimo era stato inviato dal conte d’Oropesa, al servizio dell’imperatore, per soccorrere Fontarabia.
In realtà, nato nel 1495, Giovanni aveva allora 28 anni. Si tratta probabilmente di un errore; ma può anche darsi che de Castro ringiovanisca il suo eroe per giustificare questo arruolamento piuttosto inopportuno giacché, egli dice,
Giovanni prese questa decisione poiché desiderava vedere il mondo e godere la libertà.
Giovanni fa buon viso allo scaltro assoldatore; è un uomo troppo bello, gli assicurano, per restare palafreniere: La sua alta statura, il suo vigore, lo rendono molto pia atto a fare il soldato (Govea).
L’imprudente cede così ad un motivo di vanagloria ed anche a quel desiderio di avventura dei giovani di tutti i tempi, ben più sentito in quell’epoca di prodi cavalieri e di arditi « conquistadores » e abbraccia volontariamente la carriera delle armi. E’ lontana Oropesa da Fontarabia, non meno di seicentoquaranta chilometri. Ma cos’è ciò, insiste Govea, per Giovanni Cidade, l’ardente giovane avido di gloria e di libertà che, ingannato indubbiamente dal demonio, ha abbandonato tanto volentieri la vita tranquilla dei campi per la carriera pericolosa delle armi?
Fante nella compagnia del capitano Giovanni Ferrus, il nuovo arruolato attraversa con essa tutta la vecchia Castiglia, probabilmente lungo le cattive strade che congiungevano allora le antiche città di Avila, di Segovia e di Burgos. Marce penose, certamente, su quegli altipiani aridi, dal clima estremo; a fianco di alcune contrade fertili si incontrano delle immense distese deserte, incolte, coperte di eriche e di ginestre, solcate da magri e rari fiumi, interrotte da forre profonde – secche il più delle volte – ma dove talvolta scendono impetuosi torrenti devastatori.
Infine, dopo le difficili tappe, la compagnia di Giovanni Ferrus oltrepassa l’Ebro e giunge in territorio basco. Qui si ha il concentramento dell’armata che deve tentare di riprendere Fontarabia, una delle chiavi del regno, alle truppe francesi solidamente trincerate nella celebre fortezza, dopo la sconfitta di Navarra.
La lotta fu aspra, fin dagli inizi; la guarnigione resisteva a tutti gli attacchi condotti dalle truppe della regione; e gli Spagnoli, giunti in aiuto, dovettero rinunciare ad impadronirsene altrimenti che per fame. La resa ebbe luogo il 25 marzo 1524.
Che ne era di Giovanni Cidade tra quei rozzi mercenari che, secondo de Castro,
avidi di godersi della libertà, si lanciavano a briglia sciolta lungo il cammino molto largo ma spinoso dei vizi?
Dio solo lo sa.
De Castro avanza discretamente che egli vi sopportò molte prove e cadde in molti pericoli.
In un ambiente in cui si mescolavano, secondo il costume dell’epoca, mercenari, predatori, vagabondi e prostitute, cosa non poteva accadergli?
In questa situazione scabrosa, il Signore permise che una duplice disgrazia colpisse l’imprudente « arruolato » per ricondurlo a sé.
Mentre Giovanni si trovava, dice de Castro, di fronte alla città assediata, le provviste vennero a mancare, sia a lui che ai suoi compagni. Allora, da uomo deciso, egli si offrì di andare a cercare dei viveri nelle vicine fattorie. Per recarvisi e tornare più in fretta, inforcò una cavalla presa ai Francesi. Ora, quando la bestia fu a circa due leghe dall’accampamento dal quale proveniva, riconoscendo il terreno che era solita calpestare, si imbizzarrì e si lanciò verso la sua scuderia, nonostante gli sforzi di Giovanni, sprovvisto di briglia, che la guidava con una semplice cavezza. Essa scendeva così in fretta il pendio della montagna che Giovanni fu subito gettato sulle rocce, dove rimase privo di parola, di conoscenza, come morto, perdendo sangue dalla bocca e dal naso; e in quel grande pericolo, nessuno era lì per vederlo e soccorrerlo.
Ritornato in sé, tormentato dal dolore della caduta, si accorge del non minore pericolo che corre di essere fatto prigioniero. Allora si alza da terra come può, si getta in ginocchio e, con gli occhi volti al cielo, si mette ad invocare la Vergine Maria, suo abituale rifugio: « Madre di Dio, assistetemi, aiutatemi, e pregate il vostro divin figlio di liberarmi dal pericolo di cadere nelle mani dei miei nemici ». Dopo la preghiera raccoglie tutte le sue forze, prende un bastone da terra ed appoggiandosi ad esso si trascina pian piano verso il luogo in cui l’attendevano i compagni. Essi, vedendolo arrivare in uno stato tanto pietoso, pensano ad uno scontro con il nemico e l’interrogano in merito. Giovanni racconta loro l’avventura capitatagli con la cavalla. Lo fanno coricare in un letto, lo coprono per farlo sudare e, in capo a qualche giorno, egli è guarito e in forma.
Dopo quest’incidente, lo sfortunato soldato non mancò di riflettere seriamente sulla sua vita. Tuttavia, una prova ancora più crudele stava per piombare su di lui.
Il capitano gli aveva affidato da custodire alcuni armamenti sottratti ai soldati francesi: ora, per negligenza, Giovanni si dimenticò di prendere le precauzioni necessarie e glieli rubarono. Messo al corrente del furto, il capitano provò un tale sdegno che, senza ascoltare le suppliche di molti soldati in favore del loro compagno, ordinò di impiccano subito ad un albero. Per fortuna passò di lì una persona ragguardevole e molto rispettata dal capitano. Dopo aver udito ciò che era accaduto, egli pregò l’ufficiale di rinunciare all’esecuzione, ma di allontanare il colpevole dall’esercito.
Nella sua condanna a morte, Giovanni Cidade aveva voluto vedere una manifestazione della giustizia divina nei suoi riguardi. Egli attribuì del pari alla infinita bontà di Dio la grazia insperata di cui fu oggetto e, subito fuori del campo, prostrato ai piedi di una croce, si mise ad implorare il perdono dei suoi peccati e della sua ingratitudine, giacché aveva riconosciuto le proprie miserie e debolezze.
In questo momento, dice Saglier, inizia per Giovanni una vita di espiazione e di tormenti interiori, che non durerà meno di dieci anni. Riuscirà di solito a non lasciar trapelare le lacerazioni del suo cuore e le angosce della sua coscienza; ma, talvolta, il dolore sarà cosi violento da traboccare e portarlo ad eccessi tali di penitenza, nei quali si potrà scorgere della buia. Questa ansietà persistente spiega anche quell’inquieto bisogno di cambiamento che lo perseguita nelle sue occupazioni successive anche quando vi prodiga tesori di carità e di abnegazione.
Allora, Giovanni Cidade si trovava presso Fontarabia, assolutamente privo di tutto e non sapendo cosa fare. De Castro riferisce:
Dopo aver riflettuto sui rischi della vita militare e sul misero salario offerto dal mondo a chi lo scorta nel modo più servile, Giovanni si decise a ritornare dal suo padrone Francesco il Majoral, ad Oropesa.
Ci si fa un’idea della dura realtà che nascondono queste parole, veramente troppo distaccate? I seicento-quaranta chilometri percorsi con la sua compagnia, in sicurezza e ben fornito, il pover’uomo doveva ora rifarli da solo, senza denaro, lungo quelle cattive strade di Castiglia, abissi di fango in inverno, afferma, forse con un po’ di esagerazione, un cronista del XVI secolo; e dove, in estate, le bulere di polvere che sollevano i viaggiatori e la più piccola brezza sono cosi dense che accecano gli occhi e nascondono persino il sole (Robert Gaguin, 1425-1502).
E’ a brandelli, esausto e moralmente distrutto che Giovanni arrivò ad Oropesa. Che umiliazione per lui presentarsi in quello stato dinanzi al suo benefattore e antico padrone, al quale dovette confessare le proprie spiacevoli disavventure! Egli è disorientato e pur cosciente del proprio fallimento su tutta la linea.
Malgrado tutto, Francesco il Majoral lo accolse con comprensione, e Giovanni Cidade riprese le proprie occupazioni assolvendole come meglio poteva; ma il cuore non c’era più. Il rimorso, il turbamento e persino il desiderio di riparare non gli concedevano più riposo. Talvolta gli accadeva di pensare ancora che sarebbe stato meglio curare e nutrire i poveri che ingrassare le bestie. In realtà, non si decide a niente. La sua decisione è in sospeso. Essa attende l’occasione. Questo uomo generoso è un impulsivo. Ora, degli avvenimenti esterni di estrema gravità stanno presentandosi: essi lo getteranno di nuovo nell’avventura.
Giovanni Cidade era tornato ad Oropesa da due anni, quando nel 1527 si apprese che Solimano Il il Magnifico, sultano dei Turchi, era penetrato in Ungheria. Dopo aver sconfitto Luigi Il lagellone a Mohàcs, nell’agosto 1526, si era impadronito di Buda. Più tardi, aveva posto l’assedio a Vienna. Per fortuna, la milizia della città, aiutata soltanto da quattro compagnie di veterani spagnoli di stanza sul posto, resistette vittoriosamente ai venti assalti consecutivi delle truppe di Solimano, che dovette infine togliere l’assedio (1529).
Nonostante questa sconfitta, Solimano restava una minaccia per l’Europa cristiana, e non tardò a riunire nuovi eserciti e una flotta, con lo scopo di attaccare per terra e per mare. Per affrontare i Turchi e contenere la loro prossima offensiva, Carlo Quinto iniziò, nel gennaio 1532, a preparare una crociata. A tal fine, egli concluse una tregua con i protestanti tedeschi ed ottenne il loro aiuto contro il comune nemico; si procacciò anche il concorso dei Polacchi, dei Moravi, dei Cechi e degli Stati italiani; soprattutto imparti degli ordini in Spagna, al fine di reclutare uomini in tutto il paese. La causa era bella, il cuore cavalleresco di Giovanni Cidade si infiamma per quella nuova crociata; gli sembra che Dio ve lo chiami. Senza dubbio, a giudizio di de Castro e di Govea, persone mature, egli dimentica un po’ troppo le sue sventure di Fontarabia; ma è poi vero? Non vi è piuttosto nell’animo inquieto del vecchio soldato, mescolato a slanci generosi mai assopiti ed ai rimpianti lancinanti dei propri errori, il desiderio più o meno cosciente di vedersi riabilitato dall’ingiusta degradazione di cui era stato vittima? Adesso, era un uomo di trentasette anni, ben consolidato nella virtù; poteva legittimamente aver fiducia di comportarsi ormai da buon soldato.
Arruolato agli ordini del capitano don Fernando di Toledo e destinato al suo servizio personale, il nostro crociato si dirige con la compagnia verso Barcellona. La truppa è trasportata per mare a Genova, poi si avvia verso il lago di Garda, dove arriva nell’agosto 1532. E’ qui che tutta la fanteria imperiale si concentra, per raggiungere in successive tappe Verona, Rovereto, Trento, Bolzano, Bressanone e da ultimo Innsbruck, il 17 agosto. Essa discende l’Inn con battelli, passa per Braunau e sbarca a Linz sul Danubio, in settembre.
Da parte sua, venuto da Adrianopoli con un potente esercito, Solimano Il passa per Belgrado ed entra in luglio a Buda, da dove avanza lentamente fino a Meige, ad una dozzina di leghe da Vienna.
I due eserciti entrano in contatto e si hanno alcuni combattimenti; ma gli Imperiali per paura della cavalleria turca e i Turchi, per paura dell’artiglieria imperiale e soprattutto della fanteria spagnola, nessuno prese impegni decisivi. Tuttavia, non potendo prendere in considerazione una campagna in inverno, Solimano ripiegò su Belgrado e Carlo Quinto, rimasto padrone del terreno, entrò a Vienna il 24 settembre 1532. Il giorno successivo l’imperatore, passò in rivista tutte le truppe presso le mura della città e Giovanni Cidade poté scorgere Carlo Quinto mentre sfilava a cavallo dinanzi all’esercito schierato a battaglia.
In combattimento Giovanni si era fatto notare per l’audacia ed il valore; si era conquistato la stima dei suoi capi.
Nessun dubbio che in quell’occasione egli assaporò una delle rare gioie umane della sua vita. Egli aveva sfruttato il suo bisogno di prodigarsi fino all’estremo limite, ma anche fino al successo, e per quale causa! L’infamia che intaccava la sua reputazione, da quei tristi giorni di Fontarabia, era stata ben lavata; e, in mezzo all’entusiasmo generale, felice per aver combattuto in maniera utile per Dio e la cristianità, come non avrebbe sentito allontanarsi, almeno per un certo tempo, il peso del rimorso che lo opprimeva?
L’esercito spagnolo dell’imperatore trascorse l’inverno del 1532 in Italia e si imbarcò a Genova, nell’aprile 1533, sulle galere di Andrea Doria, per prendere terra verso il 28 d’aprile nel porto di Palamos, vicino a Barcellona.
Tuttavia, don Fernando Alvarez di Toledo, insieme alla compagnia di cui faceva parte Giovanni Cidade, non si servì della stessa strada per il ritorno. Incaricato verosimilmente di consegnare un messaggio a Maria d’Austria, sorella dell’imperatore e reggente dei Paesi Bassi, il conte raggiunse le Fiandre attraverso la Germania e, compiuta la missione, noleggiò una nave per la Spagna e sbarcò, dice de Castro, nel porto di La Coruna. Come spesso accade, il biografo non indica la data dell’avvenimento; ma secondo i calcoli del padre Raphaèl Saucedo esso avvenne verso la metà del 1533.
San Giacomo di Compostella è lì vicino. Secondo Govea, della cui testimonianza non si ha qui alcuna ragione di sospettare, la compagnia di don Alvarez di Toledo vi si recò in pellegrinaggio, poi si sciolse.
Allora Giovanni Cidade, libero da ogni obbligo militare, crede di dover realizzare finalmente il desiderio che nutriva da tanto tempo di rivedere i genitori ed il paese natio.
A Montemor-o-Novo, la croce lo attende ancora in uno dei suoi aspetti più penosi, ma essa lo staccherà completamente dal mondo e lo farà consacrare per sempre al servizio di Dio.
III. SULLA VIA DEL DISTACCO
Al ritorno dalla sua campagna d’Austria, Giovanni Cidade ha trentotto anni. Più di un quarto di secolo è trascorso dalla sua partenza dal focolare paterno. Dei suoi, non ha mai ricevuto nemmeno la più piccola notizia e sembra che neppure lui abbia dato, durante questo lungo periodo, alcun segno di vita ai suoi genitori.
Negligenza colpevole – gli stessi suoi primi biografi lo ammettono – certamente meno grave di quanto non sarebbe ai giorni nostri in cui è cosf facile spostarsi e inviare corrispondenze, mentre nel XVI secolo i viaggi erano difficili e la posta inesistente. Occorreva essere ricco per permettersi dei corrieri privati. Quanto ai messaggeri occasionali, soprattutto tra le piccole città straniere, essi erano rari e molto incerti.
In gioventù, quando era pastore ad Oropesa, Giovanni aveva d’altronde pensato di ritornare a Montemoro-Novo, suo paese natio, ma non trovò mai occasioni favorevoli per un simile viaggio. Più tardi, dopo le umilianti avventure di Fontarabia, come avrebbe osato presentarsi dinanzi ai genitori? La crociata contro i Turchi gli aveva restituito l’onore. Quali che fossero stati i suoi torti, egli poteva dunque sperare al suo arrivo in paese, in un generoso perdono e in un accoglienza favorevole.
Così supera, fiducioso e con passo sostenuto, i seicento chilometri che separano San Giacomo di Compostella da Montemor-o-Novo. Attraverso la Galizia raggiunge la frontiera portoghese, attraversa le province di Minho, del Duero, di Beira, senza dubbio lungo la strada litoranea che unisce le antiche città di Tuy, Porto e Coimbra alle rive del Tago e alle pianure dell’Alemtejo. Infine, il viaggiatore raggiunge Montemor-o-Novo. Impaziente, egli affretta allora il passo e, guidato dai ricordi indelebili di gioventù, si dirige senza esitare verso la casa paterna. Era sempre la stessa. E mentre con mano nervosa bussa alla porta di casa, il suo cuore si gonfia per l’emozione e batte a ritmo accelerato nel suo petto di figlio fuggitivo, malgrado tutto inquieto. Di botto aprono. Quale sorpresa! Il volto che gli si presenta gli è estraneo. Non sa che pensarne.
Nessuno lo riconosce, nessuno può dargli delle informazioni, poiché lui non conosce nemmeno il nome dei suoi parenti.
Passando di casa in casa, egli incontra finalmente un vecchio dignitoso, è suo zio. Dopo aver parlato al nuovo venuto, dopo aver ascoltato i ricordi conservati dei suoi genitori e dopo aver esaminato i lineamenti del suo volto, il patriarca lo riconosce e l’interroga su quanto gli era occorso dopo la partenza dal paese. Giovanni gli narra tutte le sue avventure; ma pone anche delle domande. Figlio mio, gli risponde lo zio, vostra madre, debbo confessarvelo, è morta pochi giorni dopo che vi rapirono al suo affetto. La vostra assenza le procurò un dolore ed una pena tanto più intensi in quanto ignorava chi vi aveva tratto seco, dove eravate stato portato, voi cosi giovane, e in che modo. Così, ne siamo persuasi, il dispiacere ha abbreviato prematuramente i suoi giorni ed è stato la causa principale della sua morte. Quanto a vostro padre, rimasto vedovo e senza figli, entrò poco dopo in un monastero di Lisbona, dove ricevette l’abito di san Francesco e finì santamente i suoi giorni. Di conseguenza, figlio mio, se volete riposare in questo paese e rimanere a casa mia, io vi accolgo molto volentieri. Sarete per me come un figlio fin tanto che vivrete in mia compagnia. Giovanni provò un vivo dolore per la morte dei genitori, principalmente perché a suo avviso egli era stato la causa delle loro sventure. Lo manifestò col pianto e con il rammanco, al punto da provocare le lacrime dello zio che egli ringraziò della gentilezza e dei benefici. Poi, vedendosi orfano e solo, sconosciuto dai suoi congiunti a causa della prolungata assenza, esclamò: Caro zio, poiché è piaciuto a Dio di chiamare a sé i miei genitori, è mio proposito non rimanere in queste zone, ma cercare dove servire Nostro Signore lontano dal mio paese, secondo l’affascinante esempio di mio padre. Per di più, sono stato tanto cattivo e colpevole che debbo occupare la mia vita, dono del Signore, a fare penitenza e a servirlo. Ho fiducia che il mio Signore Gesù mi accorderà la grazia di realizzare Irancamente questo desiderio.
Accordatemi dunque la vostra benedizione e chiedete con insistenza al buon Dio di condurmi per mano. Che il Signore vi ricompensi per la benevolenza usatami e per la buona accoglienza nella vostra casa! Lo zio gli diede allora la sua benedizione. Si abbracciarono versando copiose lacrime ed il buon vecchio, con gli occhi al cielo, aggiunse: Giovanni, partite in pace. Nostro Signore, lo spero, vi concederà la grazia di realizzare completamente i vostri eccellenti desideri e le preghiere dei vostri genitori vi aiuteranno molto per andare più tardi a tener loro compagnia.
E’ sembrato utile ripresentare qui per intero il testo di de Castro, che è indubbiamente una trascrizione letterale delle confidenze fatte da Giovanni ai suoi compagni. Esso ci pone di fronte alla realtà dei fatti, delle idee e delle reazioni degli uomini del XVI secolo.
Se ne può concludere: alla rivelazione dolorosa quanto inattesa della morte dei genitori, lo sfortunato Giovanni ha provato un intenso shock emotivo. Il suo passato gli è apparso nelle tinte più cupe e la sua coscienza tormentata gli rimprovera adesso di essere un parricida. Perché non è morto, si dice, sul patibolo di Fontarabia e sotto le scimitarre dei Turchi! Sul punto di cadere nella disperazione, Giovanni si volge per fortuna verso il cielo, e il Signore si serve di questa nuova prova per distaccano completamente dal mondo.
Appena riposato dalle lunghe peregrinazioni, Giovanni riprende perciò la strada. Lasciando l’Alemtejo, attraversa la provincia dell’Algrave, oltrepassa la frontiera spagnola, entra in Andalusia e procede fino alla regione di Siviglia. Qui, divenuto temporaneamente più calmo, si occupa come pastore per guadagnarsi la vita e avere il tempo per riflettere, presso donna Eleonora di Zuniga, proprietaria di un gregge nella campagna sivigliana. Una tappa molto breve, osserva de Castro:
Poiché Giovanni ignorava ancora per quale strada Dio doveva condurlo al suo servizio (benché gli avesse accordato la volontà di seguirlo), rimaneva triste, senza tranquillità né riposo, non avendo più voglia di sorvegliare le pecore. Dopo aver trascorso alcuni giorni al servizio di quella dama, rifletteva dunque sul modo di abbandonare il mondo. D’un tratto, fu preso da un vivo desiderio di raggiungere le coste africane, di vedere quel paese e di soggiornarvi. Per porre in atto senza indugio il proprio progetto, si congedò dalla sua padrona e si diresse verso Gibilterra.
Nella vita di Giovanni Cidade le situazioni diventano sempre meno stabili, l’inquietudine si accentua. Egli non sa bene ciò che lo orienta verso l’ignoto ma vi corre. E’ stato influenzato dai preparativi allora effettuati in Spagna per la spedizione d’Africa? E’ possibile. Il 30 maggio 1535, Carlo Quinto parte da Bercellona alla testa di questa spedizione, impadronendosi di Tunisi il 2 luglio dello stesso anno. E’ precisamente il periodo in cui Giovanni Cidade si reca a Ceuta.
A questo fine aveva raggiunto Gibilterra. Un piccolo veliero della marina portoghese stava salpando.
Per salire a bordo Giovanni non esita ad offrire i propri servigi ad un condannato politico, il conte d’Almeida che viene condotto in esilio a Ceuta con la moglie e le quattro figlie per ordine del re Giovanni III. Costui, dice de Castro, prometteva di trattarlo bene e di pagarlo lautamente.
Dopo un’ottima traversata, i proscritti, aiutati dal loro servitore, si stabiliscono come possono nella fortezza portoghese; ma ben presto, minati dal dispiacere, dalle privazioni e dal clima, il conte, sua moglie e le figlie si ammalano. Rimasto l’unico sano, Giovanni si prodiga verso di loro e, grazie alle sue cure, tutti guariscono; ma i medici ed i farmaci hanno esaurito le risorse del gentiluomo.
Egli si vede nella peggiore miseria, al punto da essere costretto ad implorare l’aiuto di Giovanni; magro aiuto, ma tuttavia il migliore che gli si offriva in simili circostanze.
Così il conte, durante un colloquio segreto, si decide a svelargli tutta la sua miseria, tanto più dolorosa in quanto doveva provvedere ai bisogni delle giovani e delicate figlie, allevate nell’abbondanza. Di conseguenza supplicava Giovanni, in mancanza di altri aiuti, di prestare la sua opera nei lavori di fortificazione, eseguiti allora a Ceuta per ordine del re. Con il salario che avrebbe percepito, tutti avrebbero cosi mangiato.
Dopo aver ascoltato queste ragioni, tanto commoventi in sé stesse, ma soprattutto per un cuore già disposto ad intraprendere qualsiasi cosa per servire Nostro Signore, Giovanni vi acconsentì volentieri. Non scorgeva aperta dinanzi a sé una carriera conforme ai propri desideri? Così, per tutto il tempo che rimase presso il gentiluomo, Giovanni Cidade lavorò alle fortificazioni, dando ogni sera di buon grado il salario guadagnato per assicurare il sostentamento di quelle ragazze e dei loro genitori.
Se accadeva che Giovanni, perché impedito, non andasse al lavoro, o che pur avendo lavorato non gli avessero dato il salario, quel giorno non si mangiava e si sopportava questa privazione con pazienza, senza dire niente a nessuno. Questa opera era così bella e gradita al Signore che lo stesso Giovanni più tardi confessava: Nostro Signore, nella sua grande misericordia, mi ha dato l’occasione di adempierla per qualche tempo al fine di aiutarmi a meritare le grazie di cui poi mi ha colmato.
Questa citazione di de Castro, eco veritiera delle confidenze di Giovanni ai suoi compagni, ci mostra tutto ciò che vi era di nobile e generoso nella sua personalità tanto complessa. Nonostante i penosi lavori e le sicure privazioni che la sua vita di abnegazione gli procurava, Giovanni provava una gioia intensa; era come un balsamo sulle sue ferite nascoste. Mai si era dedicato prima ad un’opera tanto conforme ai suoi gusti.
Il coraggioso sterratore si dedicava da molti mesi alle sue attività tanto faticose quanto confortanti, quando un nuovo pericolo lo assalì.
Incaricato nel 1536 di costruire delle nuove fortificazioni a Ceuta, il governatore della piazza, don Nuno Alvarez Norena, non cessava di sollecitare i lavori al fine di poter resistere agli imminenti attacchi del pirata Khaìr-Ed-Din, detto Barbarossa. Per ottenere i rendimenti richiesti, i capisquadra cominciarono a maltrattare a parole e in vie di fatto i lavoratori addetti alle fortificazioni, come se si trattasse di schiavi. Questi non potevano, essendo in zona di frontiera, servirsi della propria libertà e rifugiarsi in territorio cristiano; ma alcuni di essi, non potendo sopportare più tali sevizie e peraltro predisposti, come si può supporre, si decisero a passare dalla parte dei Mori della vicina città di Tetuan e a farsi musulmani.
Tra essi vi era un compagno di lavoro di Giovanni Cidade, suo compatriota ed amico. Giovanni ne provò un vivo dolore e, secondo de Castro:
non faceva altro che piangere e gemere: Oh povero me, gridava, quale conto renderò per questo fratello! Egli ha preferito allontanarsi dal grembo della nostra Santa Madre Chiesa piuttosto che accettare un po’ di sofferenza!
Questo avvenimento riaccese le angosce del povero Giovanni. A sentirlo, solo i suoi peccati e le sue infedeltà avevano attirato quella disgrazia. In tal modo egli era ancora una volta sulla china della disperazione e pronto a cadere nell’apostasia come il suo amico.
Per fortuna, tra i suoi terrori, non aveva cessato di invocare il Signore e, senza indugiare troppo, aprì
la sua anima ad un padre francescano. Quel sacerdote illuminato e prudente comprende il suo stato, lo consola facendo del suo meglio e, ritenendo troppo pericoloso il di lui soggiorno in Marocco, gli ordina di ritornare al più presto in Spagna, dopo averlo rassicurato che avrebbe vegliato sui suoi protetti.
Per obbedire al rappresentante di Dio, Giovanni Cidade si congedò a malincuore dal conte e dai suoi, non senza aver loro promesso di offrire al cielo in loro favore il suo penoso sacrificio e preghiere ancora più insistenti.
Desolati per aver perso un tale benefattore, i proscritti non mancarono di attribuire al suo credito presso Dio il perdono del re Giovanni III. Sua Maestà li richiamò dall’esilio anzi tempo e li reintegrò nei loro beni.
IV. IL VENDITORE AMBULANTE DI LIBRI E DI IMMAGINI
Per mettersi al sicuro dalle tentazioni di apostasia, Giovanni Cidade lascia dunque il Marocco, dove ha appena compiuto nei confronti del conte d’Almeida uno dei più commoventi atti di carità di tutta la sua vita.
Quando raggiunge Gibilterra, verso la fine del 1537 e dopo aver affrontato nella traversata dello stretto una tempesta nella quale aveva rischiato di naufragare, Giovanni ha quarantadue anni.
Così, il suo primo pensiero allo sbarco è di recarsi in chiesa e qui, secondo de Castro, ringrazia Dio per averlo liberato dalla tentazione di apostasia e dal pericolo corso in mare. Non sono forse i miei peccati e la mia infedeltà alla grazia le cause di tutte queste disgrazie?, egli pensa. E dal profondo del suo cuore ferito sgorga, umile e supplichevole, questa preghiera che egli da allora non cesserà più di ripetere: Signore, concedi la pace alla mia anima e fammi conoscere la – strada che debbo seguire per giungere a te.
Come è tormentata la vita di quest’uomo! Quanti paesi ha percorso dalla sua giovinezza! Su quale stato cadrà alla fine la sua scelta? La morte lo ha sfiorato più volte. La sua coscienza inquieta oscilla tra la filiale fiducia in Dio e la nera disperazione; agli atti di eroismo si avvicendano in lui inaspettate debolezze.
Natura ricca, cuore sensibile e pieno di generosità, ma accessibile all’amor proprio ed un po’ presuntuoso talvolta, Giovanni Cidade aveva indubbiamente bisogno, per diventare malleabile sotto la mano di Dio e capace di adempiere la sua missione, di essere profondamente lavorato dalle umiliazioni, dall’inquietudine e dalla sofferenza, nostre grandi maestre quaggiù.
Già assiduo nella preghiera, Giovanni Cidade forse non aveva che una fede assai poco illuminata e nozioni assai vaghe sulle condizioni e i doveri del cristiano? In quel tipo di vita errante e sempre occupata, quali potevano essere stati i suoi progressi al riguardo?
Tale sembra essere stato, d’altra parte, il sentimento del suo direttore francescano di Ceuta. Egli non si accontentò, in effetti, di farlo uscire da una situazione per lui troppo pericolosa, ma gli raccomandò la lettura del Vangelo e dei libri spirituali allo scopo di illuminare la sua intelligenza, di infiammare il suo cuore e armarlo per la lotta.
Con la solita foga, Giovanni si affretta a seguire quell’ottimo consiglio. Ogni giorno si reca al lavoro là dove ne trova e, siccome si accontenta di poco cibo, fa delle economie sul salario per procurarsi delle opere di spiritualità. Si immerge nella loro lettura per ore intere ed impara cosi ad apprezzare questi amici sinceri, benefici, che offrono allo spirito ed al cuore tutto l’alimento di cui essi hanno bisogno.
La sua anima così docile e ben preparata deriva da quella nuova occupazione un tale profitto che, stimolata dalla sua generosità, brucia per il desiderio di condividerlo con il prossimo. Come spiegare diversamente, in un uomo apparentemente poco portato ad una simile attività, il suo desiderio, appena giunto in Spagna, di dedicarsi all’apostolato tramite il buon libro?
Nel suo entusiasmo, egli crede di avere finalmente scoperto la propria vera vocazione, il mezzo tanto desiderato per lavorare al servizio di Dio e per la salvezza dei fratelli. Con i suoi risparmi acquista delle Bibbie, La Vita di Cristo di Ludolfo di Sassonia, L’imitazione di Cristo, la Legenda aurea di Giacomo da Varazze, abecedari e immagini di carta, per rivenderli agli uni ed agli altri, mentre percorre i villaggi vicini.
Ai bambini soprattutto e agli ignoranti, distribuisce delle belle immagini: predica viva, concreta, semplice e tanto alla loro portata. « Suvvia, gridava, che nessuno si privi di un simile aiuto! Le immagini! Basta guardarle pér ravvivare incessantemente la devozione; esse risvegliano l’attenzione, fissano i ricordi. E, nel vendere gli abecedari, incitava i genitori ad insegnare la dottrina cristiana ai loro figli » (de Castro).
In poco tempo, il piccolo commercio prospera. L’improvvisato venditore ambulante ci sa fare nel raccomandare la sua merce. Tutti i libri che pone in vendita, li legge; prima di tutto per accertarsi che siano buoni, e poi per poterne rendere conto all’acquirente. Non si scorge il vantaggio che ne trae egli stesso, con il suo spirito avido di sapere e l’anima assetata di perfezione?
Il cardinale Ximenes de Cisneros (1436-1517) aveva fatto tradurre in spagnolo, fin dagli inizi del XVI secolo, la Bibbia, la Vita di Cristo di Ludolfo di Sassonia, la Legenda aurea di Giacomo da Varazze, l’Imitazione di Cristo, le Lettere di san Girolamo e di santa Caterina da Siena, ecc.
« Di proposito egli acquista alcuni romanzi cavallereschi (le opere del marchese di Mantova, i poemi di Garciloso de la Vega, ecc.) che pone bene in vista sul banco per attirare i giovani. E quando qualcuno si avvicina per acquistarne uno, egli coglie l’occasione per sconsigliare un simile acquisto e proporre in sua vece qualche libro utile ed edificante » (de Castro).
Se riesce a farsi ascoltare, il suo zelo lo spinge a spiegare il modo di leggere con profitto e se si accorge che « il costo elevato di un buon libro frena il desiderio dell’acquirente, si affretta a cederlo sotto costo) non esitando, osserva de Castro, a collocare il guadagno spirituale dell’altro al di sopra del proprio guadagno temporale ». I suoi modi sono così avvincenti, umani ed affabili verso tutti, che molti acquistano volentieri delle opere poco attraenti in sé stesse, ma presentate con grazia ed amicizia.
« Cosi, in poco tempo, Giovanni poté aumentare il proprio guadagno spirituale e temporale; poiché oltre alla buona azione compiuta col piegare molte persone alla lettura di buoni libri – è noto che ne risulta un gran bene – egli accresceva il suo stock di volumi, al punto da possederne molti e di pregio. Era una gran fatica, gli sembrò allora, muoversi da un punto all’altro con quel fardello sulle spalle; così, riferisce de Castro, decise di andare a Granata e di stabitirvisi: prese domicilio e mise su bottega alla porta di Elvira ».
Senza saperlo, l’umile Giovanni favoriva l’opera iniziata dal suo contemporaneo Luigi da Granata. Dal 1534, infatti, l’illustre domenicano, dai pulpiti della città, dinanzi a giovani uditori guadagnati con l’eloquenza, non cessava di levarsi contro le letture romanzesche e di denunziare l’ignoranza comune in materia religiosa. Egli proponeva, come principale rimedio a questo male, la lettura dei Vangeli, di piccoli trattati semplici di dottrina e di pietà. Lui stesso, abbandonando il latino contro l’uso del tempo,, ne aveva tradotti o composti alcuni in spagnolo e si sforzava di dif~onderli tra la popolazione.
Un’uguale comprensione dei bisogni del suo tempo non è riscontrabile in Giovanni Cidade, che non possedeva né il genio né la scienza di Luigi da Granata? Indubbiamente il Signore lo stava chiamando alla sua vocazione di carità; ma il suo apostolato « tramite il buon libro » ne è stato la preparazione. Nel santificare, infatti, una professione che lo ha fatto onorare per molto tempo, in Italia e in Spagna, come patrono dei librai, Giovanni di Dio, convinto dell’importanza delle sane e pie letture nella formazione dell’uomo e del cristiano, non cessò si servirsi lui stesso di questo grande mezzo di perfezione e lavorò con tutte le sue forze per propagarlo attorno a se.
Acquisi cosi un capitale solido di conoscenze varie dal quale più tardi, quando tutto il suo tempo sarà preso dall’esercizio della carità, saprà trarre profitto non solo per sé, ma anche per l’istruzione dei suoi fratelli, dei suoi malati, dei suoi amici e per il buon andamento delle sue opere. Le sei lettere di Giovanni di Dio a noi pervenute, il cui valore reale fa rimpiangere la perdita di tante altre, ne sono la testimonianza.
V. LA DRAMMATICA RINUNZIA
Verso la fine del 1538, Giovanni Cidade, allora quarantatreenne, si era dunque stabilito a Granata e aveva impiantato una modesta libreria accanto alla porta di Elvira. La sua ingegnosità, il suo abile richiamo e la sua bonomia sorridente, uniti alle largizioni sempre più ampie in favore dei bambini e dei poveri, gli attirarono ben presto, come a Gibilterra, una vasta clientela che lui orientava con zelo e successo verso le buone e sane letture. Tutto sembrava sorridere al nuovo venuto. Una onesta agiatezza prometteva di unirsi, in lui, ad una vita di apostolato ricca di avvenire e di merito. Era la prospettiva della felicità.
Se un tale sentimento sfiorò per qualche tempo il cuore di Giovanni, fu come un lembo di cielo sereno tra le apprensioni che, da più di dieci anni, tormentavano la sua coscienza quasi senza tregua. Infatti, l’inquietudine non tardò a risvegliarsi nel profondo del suo essere, strappandogli nuovamente il grido di angoscia: Signore, dona la pace alla mia anima e fammi conoscere la strada che debbo percorrere per arrivare a te. Il Signore alla fine io esaudirà, e in che modo!
Da grande peccatore l’aveva già fatto giusto! Lo farà grande penitente e provveditore dei suoi poveri.
Il 20 gennaio 1539, giorno della festa di san Sebastiano, grandi solennità si svolgono nell’eremo « de los Martires », innalzato in cima alla città, di fronte all’Alhambra. Tutta Granata è qui per celebrare la gloria del soldato martire e implorare il « liberatore della peste » perché preservi la città dal terribile flagello che infierisce nel paese.
Di fronte a questo uditorio entusiasta ed aperto a gravi pensieri, l’oratore della festa, Giovanni d’Avila, l’apostolo dell’Andalusia, esalta il perfetto imitatore di Gesù in vita ed in morte; egli insegna che ciascuno deve ancorarsi nella volontà di soffrire e persino di morire piuttosto che commettere il peccato, che è il flagello più pericoloso. Nell’uditorio, l’emozione è al culmine. Il lavoro della grazia si manifesta. Molti piangono gli errori commessi e si percuotono il petto. Giovanni Cidade, qui giunto come gli altri, non può contenersi; i suoi peccati, tante volte deplorati, gli si presentano in un compendio impressionante. Sotto la violenza del pentimento e della netta convinzione della sua indegnità di fronte a Dio, egli prorompe in singhiozzi e grida con tutte le forze: Misericordia, mio Dio, misericordia!
Questa improvvisa esplosione dei suoi tormenti di coscienza attira su lui tutti gli sguardi.
Come fuori di sé, Giovanni esce di chiesa, implorando sempre la misericordia divina. Disprezzando se stesso, si getta a terra, batte la testa contro i muri, si strappa la barba e le sopracciglia. Tutti ritengono che ha perso la ragione. Lo additano, gli inveiscono contro, i bambini lo trattano da pazzo; lui, senza sembrare che vi badi, scende di corsa verso la città e giunge alla sua bottega, seguito dai ragazzini e dai curiosi, attratti dal grido sinistro, lanciato ora da ogni parte: Loco! Loco! (Al pazzo! Al pazzo!).
E’ per Giovanni l’ora della grande rinunzia. Il poco denaro che possiede lo dà a chiunque viene, senza riservare per sé neppure un soldo. Immagini, libri ed oggetti di pietà sono distribuiti in un momento. Quanto alle opere profane, la principale attrattiva del suo commercio, colto da non so quale rimorso, le strappa con le mani e perfino coi denti, le calpesta e la gente se ne disputa i pezzi. Come san Francesco d’Assisi, si privò anche dell’abito dandolo ad un mendicante.
Egli dà tutto, trattiene solo una camicia ed un paio di pantaloni, per coprire la propria nudità. Cosi spogliato, a piedi nudi e a capo scoperto, se ne va per le vie principali di Granata, gridando: Nudo, voglio seguire Gesa Cristo nudo, e rendermi completamente povero in suo onore.
Si trattava qui, senza dubbio, di uno shock nervoso che accompagnava e raddoppiava, come per un risvolto patologico, la straordinaria manifestazione della contrizione di Giovanni di Dio. Luigi da Granata, il Bossuet della Spagna del XVI secolo, sembra ammetterlo lui stesso quando, rivolgendosi ai detrattori di Giovanni di Dio, dichiara che essi ignorano quanto intensa sia talvolta la risonanza corporea degli shock dell’anima e non considerano quale sia, in certe circostanze, la forza del pentimento (Granat. oper., tomo III).
Per fortuna, chiamato o venuto da solo, Giovanni d’Avila si fa vedere in quel momento nei pressi della cattedrale. Appena lo vede, Giovanni Cidade lo raggiunge e, gettandosi ai suoi piedi, gli fa con i segni della più viva contrizione la confessione dei propri errori ed il racconto di tutta la sua vita. Cosa accadde di poi tra il sacerdote ed il suo penitente? E’ il segreto di Dio. Si può pensare, tuttavia, che quel saggio direttore lo ascoltò con pazienza e simpatia, che gli accordò il perdono in nome del Signore e gli fece udire delle parole di conforto e di pace. Cosa poteva fare di più in quella circostanza?
Calmato momentaneamente, ma sempre turbato, Giovanni non tarda a seguire la sua idea di espiazione, legata al suo bisogno incoercibile di movimento. De Castro lo afferma:
Appena lasciato il Padre d’Avila, Giovanni si reca in piazza di Bibarrambla, dove c’era un pantano. Egli vi si immerge, vi si rotola e con la bocca coperta di fango comincia a confessare, a voce alta, tutti i suoi peccati: Sono stato, grida, un grandissimo peccatore dinanzi a Dio! L’ho offeso in questo… e in quello…
Cosa merita il traditore che ha agito cosi? Che tutti lo picchino, lo maltrattino, lo considerino
E’ chiaro che Giovanni fece allora una enumerazione precisa dei suoi peccati, che de Castro non poteva ripetere.
come l’uomo piu’ vile del mondo, ed infine lo gettino nel fango, nella fogna dei rifiuti! Nel vedere quella scena gli spettatori sono persuasi che ha perso la ragione; ma lui, tutto infiammato di amore di Dio, desideroso di morire per Lui, di essere schernito, disprezzato, appena uscito dal pantano e tutto coperto di fango, comincia a percorrere le vie della città saltellando e gesticolando come un insensato. I ragazzini ed il popolino gli corrono dietro canzonandolo e gettandogli addosso terra e fango. Con molta pazienza e persino con gioia, come se avesse assistito ad una festa, Giovanni sopporta tutto, senza far male ad alcuno, felice di appagare il suo desiderio di soffrire qualcosa per Colui che egli ama tanto. Tra le mani porta una croce di legno che offre a tutti da baciare, e se qualcuno gli dice: « Giovanni, bacia la terra per amor di Dio », tosto egli obbedisce, anche se c’è molto fango e l’ordine proviene da un bambino.
Questa descrizione tanto precisa in tutti i dettagli si ispira, è certo, alle testimonianze oculari, ma l’interpretazione dei fatti reca il segno di un sacerdote del XVI secolo. Per il biografo, infatti, Giovanni, molto cosciente, agisce con decisione, simulando la follia. Ora, la cosa non è del tutto semplice. Che l’uomo conservi la propria lucidità, che acconsenta anche a degli impulsi morbosi che appagano i suoi profondi desideri di espiazione, non c’è dubbio; ma sono degli impulsi che lo trascinano e, sul momento, egli è incapace di resistervi: ecco il segno dell’affezione nervosa. De Castro continua:
Egli si abbandona con ardore tale a quegli eccessi, che cade spesso a terra sfinito, disfatto dalla stanchezza, dagli spintoni e dalle botte… Appena lo videro in quello stato, due notabili di Granata, mossi a compassione lo presero per mano, lo strapparono a quell’assembramento chiassoso e lo condussero all’ospedale regio, dove venivano raccolti e curati i pazzi della città. Questi notabili pregarono il direttore di accettare Giovanni, per farlo curare. Mettetelo, gli dicono, in una camera dove non possa vedere alcuno, perché si riposi; in tal modo forse guarirà dalla follia che ha contratto.
Richiesta molto prudente da parte di queste persone di buon senso. Ma Giovanni Cidade era ormai consegnato ai professionisti dell’epoca, che avevano i loro metodi di trattamento. Ed ecco il quadro presentatoci da de Castro:
Il direttore aveva visto Giovanni mentre circolava per la città ed era al corrente del suo comportamento. Lo ricevette dunque subito ed ordinò ad un infermiere di portarlo dentro. Nei suoi abiti a brandelli, lo sventurato, coperto di ferite ed ecchimosi prodotte dalle botte e dalle pietre, si trovava in uno stato così pietoso che si presero cura di lui senza indugiare. Dapprima gli diedero un buon vitto per rimetterlo e ristorarlo; ma vennero presto al trattamento principale, offerto in quel luogo alle persone della sua specie: frustate, messa ai ferri e altri simili procedimenti dolorosi e punitivi, destinati a far perdere loro la furia e a favorire il loro ritorno al buon senso. Fu così che gli infermieri legarono Giovanni per i piedi e le mani, lo denudarono e, con una buona corda piegata in due, gli somministrarono una scarica di colpi. Ma la sua malattia consisteva nell’essere ferito d’amore per Gesù Cristo. Cosi, per incitare gli infermieri ad assestargli più colpi, a trattarlo più brutalmente e permettergli di testimoniare un maggiore amore a Nostro Signore, Giovanni li incoraggia dicendo: Fratelli miei, colpite questa carne traditrice nemica del bene; è stata lei la causa di tutto il mio male; poiché le ho obbedito è giusto che paghiamo tutti e due, giacché tutti e due abbiamo peccato!
Al contrario, quando vedeva flagellare gli altri malati mentali, suoi compagni, apostrofava gli infermieri in questi termini:
O traditori, nemici della virtù! Perché trattate tanto male e con tanta crudeltà questi poveri infelici, miei fratelli, che si trovano in questa casa di Dio in mia compagnia? Non sarebbe meglio aver compassione delle loro prove, tenerli puliti e dar loro da mangiare con maggior carità ed affetto di quanto fate? I « re cattolici » hanno assegnato, infatti, per assolvere questo compito, il vitalizio necessario.
Quando gli infermieri udirono queste parole,. credettero di trovarsi in presenza di un pazzo
aggravato da malignità. Di conseguenza, desiderosi di guarirlo da ambo i mali, gli somministrarono colpi più crudeli e numerosi di quelli che erano soliti infliggere alle persone giudicate semplicemente pazze…
Appena seppe che Giovanni Cidade si trovava all’ospedale regio, il d’Avila, che conosceva la causa del suo disordine mentale, mandò subito uno dei suoi discepoli a fargli visita. Giovanni ritenne come un gran favore ed un potente conforto l’iniziativa di Giovanni d’Avila; lo faceva visitare, si ricordava di lui, dimenticato da tutti in quella prigione. Il solo che, dopo Dio, lo ricordava e lo consolava nelle sue prove. Il povero afflitto ne piangeva di gioia, giacché era cosciente della grazia che il Signore gli accordava.
Nel frattempo gli infermieri dell’ospedale avevano gran cura del loro paziente e quando lo vedevano turbato non mancavano di somministrargli la flagellazione come agli altri, evidentemente nell’intento di guarirlo, e sempre Giovanni la accoglieva con allegria. Di fronte ad un analogo trattamento inflitto ai suoi simili, gridava: Che Gesù Cristo mi accordi la grazia di possedere un giorno un ospedale dove io possa accogliere i poveri abbandonati e gli infelici privi di ragione, per servirli come desidero!
La sua dolorosa prova, del resto, andrà a termine rapidamente; riferisce difatti de Castro:
Dopo alcuni giorni trascorsi nell’ospedale, Giovanni cominciò a mostrarsi tranquillo, quieto, e a dichiarare: Benedetto sia il Signore, io mi sento in buona salute e libero da ogni angoscia. Il direttore e tutta l’amministrazione provarono una grande soddisfazione nel vederlo più calmo e nel sentirlo affermare che stava meglio. Subito gli tolsero i ferri e gli permisero di circolare liberamente per la casa. Ed egli senza attendere che ve lo invitassero, si mise a servire i malati con dedizione, strofinando, scopando e pulendo le stanze.
Se è vero che, per meglio comprendere quelli che soffrono e circondarli di una più calda simpatia, come pure di cure più sollecite, nulla sostituisce un’esperienza personale, non si può dubitare che Giovanni Cidade abbia ricevuto in quell’ospedale la migliore preparazione alle sue future attività.
Ed ecco la conclusione che dà de Castro a questa parte della vita di Giovanni di Dio. Essa è, per noi, del maggiore interesse.
Giovanni si dedicava ancora alle sue occupazioni quando un giorno, seduto sulla soglia del-
l’ospedale, vide passare davanti all’edificio un corteo di cavalieri, di religiosi ed un folto clero, che conducevano ed accompagnavano il corpo dell’imperatrice, sposa di Carlo Quinto deceduta in quei giorni, nella cappella reale di Granata, per dargli sepoltura. Quello spettacolo impressionò vivamente Giovanni e consolidò in sé la ferma risoluzione di uscire senza indugio dall’ospedale, per realizzare i suoi buoni desideri:
servire Nostro Signore nei suoi poveri mendicando per il loro mantenimento, raccogliere gli abbandonati e i viandanti; quell’anno, infatti, la terra aveva dato poco e non c’erano ancora nella città degli ospizi che accogliessero i bisognosi. Avendo preso tale decisione, Giovanni si reca dal direttore e gli dice: Fratello mio, che Nostro Signore vi ricompensi per la beneficenza e la carità che mi avete testimoniato in questa casa di Dio, per tutto il tempo che sono stato malato! Ora, che il Signore ne sia benedetto, mi sento bene e in grado di lavorare! Per amor di Dio e se è conforme alla sua volontà, lasciatemi dunque uscire! – Avrei voluto, rispose il direttore, vedervi rimanere ancora qualche giorno in questa casa, per completare la vostra convalescenza e farvi riprendere le forze, giacché siete ancora debole a causa delle passate sofferenze. Ma poiché desiderate assolutamente andarvene, ritiratevi con la benedizione di Dio. Portate però con voi questo mw scritto, al fine di potervi recare liberamente dove volete ed anche perché le persone che vi incontreranno non vi riconducano qui, ritenendo che non. siate guarito dalla vostra passata malattia. Giovanni ricevette il biglietto in tutta umiltà, contento di essere confermato nell’opinione che tutti l’avevano ritenuto un vero pazzo.
Una volta di più, come ben si nota, pur riferendo fedelmente i fatti, de Castro li interpreta a modo suo. Per lui, è evidente, Giovanni Cidade ha recitato la parte del folle. Ora, contro questa opinione illogica, si leva la descrizione cosi viva dello stesso de Castro, che descrive Giovanni Cidade impegnato in atteggiamenti e attività esplosive, incoercibili e non dirette e calcolate come lo sarebbero necessariamente degli atti simulati; inoltre, conviene prendere alla lettera le parole di Giovanni che non mentiva: « Fratello mio, che Nostro Signore vi ricompensi per la carità che mi avete testimoniato in questa casa di Dio, per tutto il tempo che sono stato malato. Ora, mi sento bene e in grado di lavorare; per amor di Dio, lasciatemi dunque uscire! ».
In breve, la Vita di Giovanni di Dio secondo il suo contemporaneo de Castro, letta attentamente ed interpretata secondo i criteri scientifici moderni, come anche le testimonianze concordi dei notabili di Granata, del direttore dell’ospedale regio e del paziente stesso, ci permettono di dedurre molto verosimilmente: No, Giovanni di Dio non ha simulato la follia. Egli è stato malato come lo esprime lui stesso in termini moderni e dignitosi: « He estado enfermo ».
VI. BAEZA E NOSTRA SIGNORA DI GUADALUPE
Poco prima di essere dimesso dall’ospedale, Giovanni aveva ricevuto la visita di un discepolo di Giovanni d’Avila. Quella visita lo aveva grandemente riconfortato, come nota de Castro. Essa dimostra anche che Giovanni d’Avila continuava a seguire da lontano quell’eccezionale penitente che la Provvidenza gli aveva affidato. Ora, lo stesso evento che aveva spinto Giovanni Cidade a chiedere la dimissione dall’ospedale fu anche l’occasione per un nuovo incontro con il suo Padre spirituale. Infatti, nonostante il silenzio di de Castro su questo punto, sappiamo da un manoscritto inedito della biblioteca del duca di Gore, a Granata, pubblicato da Manuel Gomez Moreno nel 1950, che il lunedì successivo ai funerali dell’imperatrice Isabella, si celebrò ancora in Granata una messa solenne per la defunta, presieduta dall’arcivescovo del luogo, durante la quale il Padre d’Avila prese la parola.
Giovanni Cidade, libero da due giorni, si trovava certamente nell’uditono e dopo la cerimonia si intrattenne con il suo Padre spirituale. Quest’ultimo si accorse con soddisfazione che il suo penitente, finalmente tranquillizzato, restava sempre animato dai medesimi sentimenti di contrizione. Inoltre, Giovanni gli manifestò il suo desiderio di servire i poveri e gli ammalati per amor di Gesù Cristo.
Fin lì, il ruolo del Padre d’Avila, dopo aver confermato Giovanni nella sua conversione a Dio, tendeva piuttosto a moderare gli ardori e l’impetuosità dei suoi sentimenti di pentimento, attendendo che il tempo venisse a ristabilire progressivamente il suo equilibrio nervoso un po’ scosso.
Raggiunto questo primo scopo, bisognava assicurare a Giovanni Cidade un riposo occupato e corroborante, poi un tempo di riflessione, di formazione e di preghiera. Questo pensò il prudente direttore, che invitò il suo penitente ad accompagnarlo a Baeza, dove l’organizzatore dei funerali imperiali non tardò a farli accompagnare.
Piccola città della provincia di Jaén, ad una quarantina di chilometri a Nord-Est di Granata, Baeza è situata al confine dell’Andalusia e della Mancia. Di aspetto tipicamente castigliano, ricca di monumenti d’arte, essa è appollaiata su una collinetta che domina la vallata del Guadalquivir.
Giovanni d’Avila vi risiedeva in modo abituale dal 1538, e vi diresse per alcuni anni il collegio dei ragazzi della SS. Trinità, presso la chiesa dello Spirito Santo. In quella istituzione egli poté affidare alcune occupazioni materiali al suo protetto, riservandogli un tempo sufficiente per la lettura della Sacra Scrittura, di libri spirituali e per numerosi incontri, nel corso dei quali lo fortificava nell’amor di Dio, nelle credenze della nostra fede, nella pratica dell’orazione e delle virtù.
A questo riguardo, un testimone verace al processo di beatificazione di Giovanni di Dio, Luca Coronado, scrittore ecclesiastico sessantenne della vicina città di Ubeda, ha riferito di aver sentito dire da Antonio de Vega, libraio a Baeza, che Giovanni Cidade aveva soggiornato per qualche tempo al collegio della SS. Trinità, in compagnia di Giovanni d’Avila.
Lo stesso Antonio de Vega, allora insegnante di letteratura ai ragazzi, era in contatto quotidiano con Giovanni ed aveva notato che il nuovo venuto non si coricava nel suo letto ed accendeva la lanterna due o tre volte nel corso della notte per pregare. Antonio de Vega aveva anche ammirato la grande pazienza di Giovanni ed il suo amore per la sofferenza. Egli trovava la sua felicità – annota ancora de Vega – nei biasimi, nelle offese e nelle prove. Era felice quando i giovani alunni lo schernivano e lo disapprovavano con fischi. Se riceveva una scarpata, un colpo sulla nuca, si affrettava a parlarne al Padre d’Avila come di un guadagno inaspettato.
In breve, i quattro o cinque mesi che Giovanni trascorse presso il suo direttore furono cosi ben impiegati che quest’ultimo lo giudicò atto a realizzare finalmente il suo grande desiderio di servire i poveri e gli ammalati per amore di Gesù Cristo. Prima di intraprendere quest’opera Giovanni volle, tuttavia, d’accordo con il suo direttore, compiere un pellegrinaggio a Nostra
Signora di Guadalupe per chiederle soccorso ed assistenza.
Da Baeza a Guadalupe ci sono all’incirca trecento-sessanta chilometri, una distanza moderata per il nostro uomo, buon camminatore. Uno dei suoi ultimi biografi spagnoli non ha intitolato la sua opera La Perpetua Andadura, « La marcia perpetua », proprio per sottolineare uno degli aspetti più salienti di quella vita?.
Sembra che Giovanni abbia intrapreso il viaggio verso la metà di ottobre 1539. Gli furono sufficienti una ventina di giorni per raggiungere Guadalupe. Il pellegrinaggio lo fece con un gran freddo, secondo de Castro, senza denaro e costretto a mendicare il nutrimento. Tuttavia, aggiunge il biografo,
per non restare inoperoso, rimase sempre fedele alla seguente abitudine: quando giungeva in una località per prender cibo o fermarvisi, portava sulle spalle un fascio di legna e andava all’ospedale, se ce n’era uno, a lasciarvelo per i poveri; dopo chiedeva quanto gli bastava per nutrirsi in modo austero.
Fin dalla giovinezza, Giovani conosceva Nostra Signora di Guadalupe, la regina della montagna di Villuercas. L’aveva visitata prima del suo arrivo ad Oropesa, non lontana di lì. Può darsi che ci sia ritornato dopo? In ogni caso, ne aveva sentito parlare molto. Questo santuario, situato ai confini dell’Estrema-dura e della Castiglia, accanto ad un monastero eretto verso il 1369 ed appartenente ai Fratelli di san Girolamo, è uno dei luoghi più celebri della Spagna.
Qui, alcuni anni prima, degli esploratori e dei « conquistadores » famosi erano venuti a confidare i loro sogni e i loro progetti avventurosi alla Vergine di Guadalupe, prima di introdurre il suo nome e la sua devozione nelle terre del Nuovo Mondo, da loro conquistate per la corona di Spagna. Oggi, un umile pellegrino entra in chiesa in ginocchio, venera la Vergine miracolosa e, per suo tramite, espone i propri bisogni a Nostro Signore e lo ringrazia di tutti i suoi benefici.
Pieno di fiducia, prega Nostra Signora di benedire i suoi progetti di dedizione ai poveri, ai malati a tutti gli uomini per amore di Dio.
Il pellegrino rimase a Guadalupe alcuni giorni, vi si confessò e comunicò. Egli risiedeva nell’ospedale retto dai Fratelli di san Girolamo nelle dipendenze del monastero e prendeva parte ai lavori e alle cure nelle sale. Seguendo i consigli del previdente maestro d’Avila, si informò anche sull’organizzazione e sul funzionamento dei diversi servizi, per prepararsi alla sua opera futura.
Giunse il momento del suo ritorno. Giovanni raggiunse direttamente Baeza per rendere conto al suo direttore delle peripezie del pellegrinaggio. Il maestro d’Avila lo ricevette con gioia e gli diede, secondo de Castro, le seguenti istruzioni:
Fratello Giovanni, è necessario che ritorniate a Granata, dove siete chiamato da Dio; e Lui, che conosce le vostre intenzioni ed i vostri desideri, vi indicherà il modo in cui dovrete servirlo. Abbiatelo sempre presente, in tutte le vostre azioni; considerate che vi guarda e lavorate come in presenza di un si grande Signore. Arnvando a Granata prendete subito un confessore, come già vi avevo detto. Che egli sia il vostro Padre spirituale. Non fate nulla di importante senza il suo parere. Quando si presenterà qualcosa per la quale riterrete di aver bisogno dei miei consigli, scrivetemi là dove mi trovo. Mi comporterò verso di voi, in ogni cosa, come vi sono obbligato dalla carità, con l’aiuto di Nostro Signore.
Il lettore avrà notato quanto siano ferme e precise le direttive impartite da Giovanni d’Avila al suo diretto. L’ascetismo dell’apostolo dell’Andalusia è improntato ad una nota aspra e severa, che gli ispira delle formule sorprendenti: Sottoponete il vostro corpo al dolore e fatelo vivere sulla croce! E ancora: Non desidero consolazioni per i miei figli, ma pene e frustate.
Queste osservazioni, suggerite dall’introduzione fatta da Jacques Cherprenet alla traduzione dell’opera Audi Filia del beato Giovanni d’Avila, ci permetteranno di interpretare con cautela le tre lettere, piuttosto severe, del maestro d’Avila a Giovanni di Dio, allorché saranno citate nelle loro parti essenziali nel corso del racconto.
Allora, munito delle istruzioni del suo direttore e dopo essersi congedato da lui, Giovanni Cidade si pose in viaggio alla volta di Granata.
VII. A GRANATA AL SERVIZIO DEI POVERI
Giovanni Cidade arrivò a Granata verso la fine di novembre 1539. Aveva quarantaquattro anni. Il suo primo soggiorno in questa città, benché breve, aveva avuto su di lui un’importante ripercussione. Può riassumersi così: una dozzina di settimane, al massimo, nella bottega presso la porta d’Elvira; alcune ore drammatiche di una sconvolgente conversione; un breve e mortificante periodo di malattia all’ospedale regio seguito da tre mesi di convalescenza consacrati al servizio dei malati mentali che si trovavano nell’ospedale. Era la fine della sua lunga e mortificante vita privata, assai poco nota all’intorno. D’ora innanzi egli entrava nella vita pubblica, che durò appena undici anni, ma fu sufficiente a questo sconosciuto per diventare una delle glorie della Spagna del secolo d’oro, il « Padre dei poveri ».
Situata ai piedi della Sierra Nevada che raggiunge i 3.478 metri, Granata gode di un clima privilegiato, trovandosi a 700 metri d’altitudine. Gaia, ridente ed animata, si stende nel cuore della fertile « Vega de Granada » (il frutteto di Granata), alla confluenza del Genil e del Darro., che diffondono la fecondità ed offrono le loro acque cristalline alle numerose fontane e canali della città. Per sette secoli Granata fu sotto il dominio musulmano. Con esso aveva acquisito una grande prosperità nell’agricoltura, nell’industria, nelle seterie e si era arricchita di magnifici monumenti: l’Alhambra, il Generalife, le mura d’Albaicin, ecc. Riconquistata nel 1492 dai « re cattolici », Ferdinando ed Isabella, quarantotto anni soltanto prima dell’arrivo di Giovanni Cidade, si trovava ancora in un periodo di transizione e di decadenza. L’islamismo vi era sempre presente, ma soprattutto sotto l’aspetto di convertiti più o meno volontari, soprannominati moriscos. D’altra parte, cristiani, ebrei, moriscos e avventurieri vivevano fianco a fianco in mezzo a molte miserie.
Per portarvi rimedio, Giovanni si prodigherà senza misura. Gli inizi, secondo de Castro, non furono brillanti. Fin dal primo giorno di presenza, Giovanni, dopo aver ascoltato la messa, si diresse verso la montagna per raccogliere un fascio di legna. Ritornando con quel fascio, provò un vivo senso di vergogna ad entrare cosi in Granata. Vinto da essa, non osò oltrepassare la porta di « Los Molinos », molto distante dal mercato della città, e diede la legna ad una povera vedova in cambio di un po’ di cibo. Vergognandosi della propria viltà, il giorno successivo, dopo aver ascoltato la messa, durante la quale implorò con insistenza l’aiuto del Signore contro il rinascente amor proprio, Giovanni si recò a raccogliere un altro fascio di legna sulla montagna. Ora, nel ritornare in città con il carico, cominciò a provare la stessa vergogna della vigilia. Questa volta, con l’aiuto della grazia divina, passò oltre e per stimolarsi si mise ad inveire contro il proprio corpo: Cosi,signor asino, per dignità, per puntiglio d’onore, ti rifiuti di entrare a Granata carico di legna. Subito porterai questa legna fino alla piazza principale. Si, abbasso questa alterigia, abbasso quest’orgoglio! Di fatto, vi si reca. Subito è riconosciuto. I curiosi lo attorniano. I burloni esclamano: Come, Giovanni, eccoti ora un boscaiuolo! A cosa ti è servito il soggiorno in ospedale? E’ incredibile! Non la smetti di cambiar mestiere! Per nulla sconcertato, Giovanni sopporta tutto con gioia e con il sorriso: Ma si, continua lui; è come al gioco di « birlimbao », con la sua nave e le tre galere: più ci si lambicca il cervello, meno lo si comprende. E i giochi di parole si succedevano da ambo le parti. In breve, pieno di allegria, egli rispondeva a tutti con spirito; finalmente uno spettatore acquistò il fascio a buon prezzo. Col denaro ricevuto, Giovanni si procurò alcuni viveri che poi divise con i poveri che si trovavano sulla piazza.
In realtà, molte persone erano persuase che vi erano ancora in Giovanni tracce della sua vecchia malattia. Ma lui, senza curarsi di questi giudizi e delle beffe, continuò ogni giorno a raccogliere un carico di legna, che poi vendeva sulla piazza di Bibarrambla. Qui egli trovava sempre l’acquirente, giacché il freddo infieriva. Del denaro cosi guadagnato, riservava solo una piccola parte per i suoi bisogni ed il resto lo distribuiva ai poveri che erano lungo le strade, sulle piazze e, di sera, sotto le logge dei palazzi, sotto i portici delle case borghesi. Egli stesso si stabiliva in mezzo a loro durante le poche ore concesse al sonno ogni notte. Infatti, se Giovanni dedicava molte ore del giorno ai suoi poveri, una parte della notte pregava e si abbandonava all’orazione. Si alzava di buon mattino e non tralasciava mai la messa. Più volte, nel corso della giornata, visitava a lungo il Signore presente nel tabernacolo delle chiese. In Giovanni Cidade era avvenuta una vera trasformazione. La grazia lo aveva rinnovato e, appoggiato su una solida umiltà, vi corrispondeva del suo meglio. Il crescente amore per Cristo lo spingeva, sempre più, a dedicarsi agli infermi ed ai bisognosi.
Senza dubbio, dividere il frutto del proprio lavoro con i poveri aveva il suo valore. Ma alla vista di tante miserie e sofferenze, Giovanni capiva bene che la sua generosità non era proporzionata ai bisogni. Ne aveva il « cuore infranto ». Cosi rifletteva davanti al Signore sui mezzi per apportare un aiuto più efficace a tutti quegl’infelici.
D’altra parte, la regolarità, la costanza con cui continuava a confortare i poveri, il suo spirito di pietà, la sua pazienza, attirarono la benevolenza delle persone e le raccomandazioni del maestro d’Avila gli portarono dei nuovi benefattori. Questi ultimi, con il concorso del Padre Portillo, che Giovanni aveva scelto come direttore spirituale, gli offrirono il denaro per acquistare un locale dove avrebbe riunito i poveri e li avrebbe cosi curati più facilmente ed in modo più assiduo. La sua fede nella Provvidenza cresceva sempre più; cosi, conformemente alla certezza datagli da Giovanni d’Avila, il Signore gli aprì le vie. Attraversando un giorno il mercato del pesce, vicino alla cattedrale dove si recava a pregare, scorse di fronte al mercato, sulla via Lucena, una casa disabitata. Vi entra, la visita e l’affitta subito. Per arredare le stanze dell’unico piano, egli acquista alcune stuoie, dei cuscini e delle vecchie coperte dove i suoi protetti, poveri ed infermi che egli radunava per l’addietro attorno alla piazza di Bibarrambla, avrebbero potuto riposare in modo più confortevole, giacché non poteva ancora far meglio, né aveva altro rimedio da portar loro.
La stanza di sotto, più spaziosa, era riservata ai viandanti poveri, che vi trascorrevano la notte su dei banchi, attorno ad un grande camino dove si accendeva un bel fuoco quando faceva freddo.
Più tardi, un sacerdote della cappella reale gli donò trecento reali. Giovanni ne approfittò per acquistare quarantasei letti modesti, composti ciascuno di una stuoia, due coperte ed un capezzale sormontato dalla croce. Impiegò il rimanente denaro per l’acquisto di una parte dei mobili e degli utensili necessari ad un piccolo ospizio e asilo notturno. Poté cosi realizzare una migliore ripartizione dei suoi protetti ed una classificazione sommaria. Da notare che, contrariamente all’uso corrente, egli non ammetteva che un solo occupante per letto.
Per assicurare la sussistenza ai suoi assistiti, Giovanni non mancava, un po’ prima della chiusura del vicino mercato, di andare a sollecitare i pescivendoli, che gli cedevano volentieri per i suoi poveri i pesci invenduti che non potevano essere conservati. Giovanni ne faceva delle buone zuppe e, talvolta, quando il ricavato della questua era abbondante, delle succulente « pietanze alla marinara » tanto apprezzate dagli abitanti delle coste. Ben presto trovò anche altri benefattori tra i rivenditori di generi alimentari della piazza di Bibarrambla.
Evidentemente queste collette non potevano bastare:
così Giovanni percorreva ogni sera, uno dopo l’altro fino all’una di notte, alcuni quartieri della città. Egli camminava, con una gerla sulla schiena, due grosse marmitte ai lati, sorrette da una corda passata sulle spalle, e mendicava gridando: Qualcuno vuole fare del bene a se stesso? Fratelli miei, per amor di Dio, fate del bene a voi stessi!. Questo nuovo modo di chiedere l’elemosina suscitava la sorpresa e la curiosità e gli procurò subito delle grandi risorse, tanto la sua carità era comunicativa. « La sua voce commovente, dotata dal Signore di una virtù speciale, arrivava al cuore di tutti » (De Castro). Alcuni davano denaro, altri il pane, la carne, o i legumi. Quando era carico di provviste rientrava, preparava i pasti, aiutato all’inizio soltanto dai più validi tra i suoi assistiti; poi distribuiva a ciascuno il necessario, chiedendo a tutti di pregare per i loro benefattori.
L’opera di Giovanni non tardò a farsi conoscere, i poveri si presentavano da sé. Egli avrebbe desiderato non rifiutarne alcuno, ma, oltre al fatto che la casa non poteva ospitare più di un certo numero, alcuni poveri viziosi abusarono dei suoi benefici. Si udirono dei reclami. D’altra parte, delle persone prudenti non vedevano senza timore la presenza di donne e ragazze povere ospitate anch’esse da Giovanni. Sorsero delle critiche e delle lamentele, tanto che il Padre Portillo credette di dover porre delle riserve riguardo all’accettazione dei soggetti scandalosi e delle donne. Da parte sua, Giovanni si allarmava per una severità ritenuta eccessiva e contraria al precetto divino della carità. Nella sua perplessità, ricorse ai consigli del Padre d’Avila, esponendogli in una lettera, in tutta semplicità, le proprie difficoltà ed i propri dubbi.
Fratello mio, gli rispose il maestro d’Avila, mi avete dato una grande consolazione eseguendo esattamente ciò che avevamo deciso insieme riguardo all’obbedienza che dovete al Padre Portillo circa la direzione dei poveri. Se agite sempre cosi vi troveremo, tutti e due, un grande conforto. Al contrario, temo molto che il diavolo vi inganni, se vi comportate secondo le vostre proprie idee. In fatti, quando egli non può ottenere che qualcuno faccia il male, si sforza di fargli fare il bene in modo disordinato; ora, senza ordine, nulla può sussistere… Così, fratello mio, abbiate cura di sotto-mettervi al parere altrui, ed il diavolo non vi ingannerà… Passando ai consigli pratici, ecco ciò che aggiunge il Padre d’Avila: State attento che le donne che vi sforzate di attirare al servizio di Dio non vi causino dei grandi imbarazzi e delle gravi spese. Sarebbe meglio non tenerle, ma maritarle appena possibile, o metterle al servizio di qualche dama, altrimenti rischierebbero di perdersi. Non accettate pia nel vostro ospedale soggetti litigiosi, lo diffamerebbero; benché vi sembri che sia una mancanza contro la carità scacciare qualcuno per questa ragione. Infatti, spesso il timore di far torto a qualcuno è la causa della perdita di molti. Quando una parte del corpo è in cancrena la si asporta per salvare il resto del corpo. E sarebbe crudeltà, non compassione, agire diversamente… Se voleste comportarvi seguendo il vostro parere, cadreste nell’errore e Dio vi punirebbe. Dio non vi ha chiamato per dirigere, ma per essere diretto; non potete servirlo che obbedendo. E in questo caso, non avete nulla da temere, poiché Dio non vi chiederà conto di ciò che avrete fatto dietro consiglio altrui. Il maestro termina con questo augurio: Se dunque mi amate e volete obbedirmi, obbedite al Padre Portillo, che vi do per Padre in vece mia. Ascoltate tutto ciò che vi dirà, come se ve lo dicessi io stesso… finché Dio voglia che ci rivediamo.
Una risposta cosi piena dello spirito di Dio e così ricca di esperienza portò i suoi frutti. Giovanni ringraziò Dio di avergli dato un tale maestro. Egli capì meglio il modo di vedere del Padre Portillo e si ripromise di essergli sempre più docile; in particolare, mostrò una maggiore fermezza nei confronti dei perturbatori e si contentò di soccorrere i poveri ed i malati che l’ospizio poteva ospitare. In breve, la sua carità, sempre molto attiva, divenne più prudente e sottomessa. Assiduo nel lavoro, aveva tuttavia il volto abitualmente allegro e la sua conversazione era tanto dolce quanto seria. I benefattori che visitavano la casa la trovavano in tanto buon ordine ed i poveri vi erano cosf ben curati, che essi si meravigliavano di un simile risultato ottenuto da un uomo solo.
Tra i suoi primi protettori vi fu don Sebastiano Ramirez de Fuenleal, vescovo di Tuy e presidente della cancelleria di Granata dal 1538 al 1540. Quest’uomo di grande virtù apprezzava molto la dedizione ed il savoir-faire di Giovanni. Gli offrì generose elemosine e lo invito più volte alla sua tavola. Sebbene gli avesse dato anche degli abiti convenevoli, Giovanni, che li scambiava subito – secondo l’abitudine – con quelli del primo povero incontrato, si presentava da don Ramirez in stracci. Il prelato non osava rimproverargli la grande carità, ma pensava tuttavia che il suo abito troppo dimesso potesse essere un ostacolo per l’adempimento dell’opera a cui Dio lo destinava. Servendosi della propria autorità e della fiducia ispiratagli, don Sebastiano riusci a convincerlo ad abbandonare per sempre gli abiti cenciosi. Li sostitui con una tunica, dei calzoni di tela ed un cappotto di sargia color cenere, abito che, senza essere religioso, lo avrebbe distinto dal resto degli uomini. Parimenti, sapendo che si chiamava Giovanni, il prelato gli disse che d’ora innanzi si sarebbe chiamato « Giovanni di Dio ». – « Oh si, rispose lui, se piace a Dio! ».
Questa specie di presa di abito, della quale non si può con esattezza fissare l’epoca, ebbe tuttavia luogo prima del 28 gennaio 1540, data della promozione di don Sebastiano Ramirez alla sede arcivescovile di Leon.
Né il prelato, né il servo dei poveri avevano intenzione di istituire una nuova congregazione religiosa; così, don Ramirez non impose delle regole per coloro che volevano inserirsi nel servizio dell’ospedale. Da parte sua, Giovanni di Dio non lasciò altro fondamento alla sua opera che l’esempio della propria carità e penitenza. Tuttavia, non appena videro Giovanni di Dio rivestito del nuovo abito, molte persone caritatevoli, senza abbandonare il proprio stato, vennero nei momenti liberi ad aiutarlo nelle cure mediche; altre si occupavano dei vestiti e della biancheria, mentre i poveri più validi lo aiutavano nei lavori domestici. In realtà, in base agli studi cronologici del Padre Saucedo, fu solo verso la fine del 1545 che Giovanni di Dio attirò con il proprio esempio i suoi primi due discepoli permanenti.
Il lavoro abituale compiuto da Giovanni di Dio per raccogliere le elemosine, mantenere la casa e curare i poveri, costituiva una penitenza ed una mortificazione appena tollerabili, con le sole forze naturali, da un uomo robusto. Nondimeno, secondo de Castro, non si contentava di tutto quel lavoro faticoso ma, con numerosi atti di austerità, mortificava la propria carne. Mangiando poco e di una sola pietanza, egli consumava dei cibi grossolani. I giorni di precetto osservava il digiuno prendendo un magro cibo a mezzogiorno e privandosi dello spuntino la sera. I venerdf stava a pane ed acqua e si dava tremende discipline…
Coperto con un pezzo di vecchia coperta, dormiva su una stuoia poggiata per terra con una pietra per cuscino o, altre volte, nella carretta di un paralitico deceduto, messa in uno stretto bugigattolo sotto una scala. Camminava scalzo e a capo scoperto con ogni tempo. Tuttavia, aveva pietà delle più lievi sofferenze del suo prossimo, come se vivesse egli stesso con grande larghezza di mezzi.
VIII. SVILUPPO DELL’OSPEDALE
All’inizio, la casa di carità impiantata nel dicembre 1539 in via Lucena, di fronte al mercato del pesce, si presentava piuttosto come un asilo notturno o un piccolo ospizio. Giovanni di Dio, badando a ciò che gli sembrava più urgente, assicurava un ricovero ai poveri, validi o infermi leggeri, venuti da sé o raccolti nei pressi della piazza di Bibarrambla. Nella primavera successiva, un buon numero di essi si sparpagliò nelle campagne granatesi; Giovanni di Dio ne approfittò per sostituire progressivamente le stuoie con dei veri letti con materassi, lenzuola e coperte, nelle stanze del primo piano. Egli poté così, come negli altri due ospedali della città, ospitare i malati e gli invalidi che giacevano abbandonati sulle piazze e lungo le strade. Li portava per mano o appoggiati al suo braccio, e non esitava a prendere i più deboli sulle spalle.
A tal proposito de Castro riporta un aneddoto che possiamo cosi riassumere: una sera d’inverno, buia e tempestosa, Giovanni di Dio rientrava sul tardi all’ospedale, avendo in mano un cesto pieno di viveri e sulla schiena un povero trovato gemebondo sulla « Plaza Nueva ». Saliva con fatica il pendio di « los Gomeles ». All’improvviso si abbatte un acquazzone spaventoso, il rivolo si trasforma in un torrente impetuoso ed atterra Giovanni di Dio con il suo carico. Al rumore della caduta in acqua e alle grida del povero, un avvocato si affaccia alla finestra del suo pian terreno. Egli vede e sente Giovanni di Dio mentre si picchia col bastone e si castiga: Cosi, signor asino, stupido, fiacco, pigro, inetto, non hai forse mangiato oggi? Allora perché non lavori? I poveri ti attendono e questo moribondo, in che stato l’hai messo? A queste parole egli si rialza e, con un vivo sforzo, si ricarica il malato, afferra il cesto e, con l’aiuto del bastone e l’acqua a mezza gamba, si trascina fino all’ospedale dove giunse sfinito. Il giorno dopo l’avvocato, testimone e relatore dell’accaduto, interrogò Giovanni di Dio sulla caduta; costui rispose come se non si ricordasse di nulla.
Agiva sempre così per evitare la sufficienza.
Altri malati venivano da soli o introdotti da persone caritatevoli che si occupavano di loro.
Il primo pensiero di Giovanni di Dio, nel riceverli, era di lavare loro i piedi e persino tutto il corpo all’occorrenza.
Poi dava loro della biancheria pulita e li metteva a letto, mettendo in una stanza i febbricitanti, i feriti nella seconda, gli invalidi nella terza. La grande sala del pian terreno rimaneva sempre a disposizione dei viandanti e dei poveri ambulanti.
Ogni giorno, su invito di Giovanni di Dio, alcuni medici visitavano i malati gratuitamente. Per l’assistenza spirituale, alla quale rivolgeva un’attenzione particolare, Giovanni aveva fatto ricorso a degli zelanti sacerdoti. Egli intendeva curare le anime mentre curava i corpi. E quando curava i corpi, era anche per salvare le anime. Attraverso i corpi, alle anime!, ripeteva spesso.
Restava da distribuire le medicine ai malati e da medicare le piaghe dei feriti; Giovanni di Dio se ne incaricava per una buona parte; ma è credibile che, fino all’arrivo dei compagni di vita, egli facesse ricorso per un aiuto non soltanto a delle persone di buona volontà, ma anche ad ausiliari retribuiti. In tal modo, i compiti di Giovanni di Dio non cessavano di aumentare. Le solite questue di porta in porta non potevano più bastare. Fu allora che egli si preoccupò di ottenere dei soccorsi più importanti, necessari per il buon andamento della casa di carità, rivolgendosi alle persone ragguardevoli di Granata, che lo avevano finalmente notato e capito, tanto apparivano evidenti la sua perseveranza, l’ordine delle sue imprese ed i loro costanti progressi. Fece, inoltre, appello a dei nobili ricchi dell’Andalusia e delle province circostanti, quasi tutti figli spirituali del maestro d’Avila, in occasione dei loro passaggi o soggiorni a Granata.
Fu così, particolarmente, che approfittò della pre senza in città del marchese di Tarifa, don Pedro Enriquez, per chiedergli l’elemosina. Quando Giovanni di Dio si presentò alla sua residenza, il marchese stava giocando con degli altri signori, e gli consegnarono venticinque ducati.
Per il questuante era veramente un guadagno inaspettato e, nel ringraziare Dio, pensava a come avrebbe potuto impiegare questa forte somma. Ora, continua de Castro, mentre Giovanni di Dio camminava con questi pensieri, il marchese di Tarifa, che aveva sentito parlare tanto della sua grande carità, volle – per scherzo – metterlo alla prova. Dopo essersi rapidamente travestito, con passo rapido raggiunse Giovanni e, fermandoglisi dinanzi, gridò: Fratello Giovanni, io sono un cavaliere di alto grado, straniero e povero, qui in causa; provo immense difficoltà a mantenere il mio onore. In formato della vostra carità, vi prego di aiutarmi, affinché non offenda Dio. Avendo considerato il suo atteggiamento, Giovanni gli rispose: Io mi do a Dio, tutto ciò che ho è vostro. E portando la mano alla borsa, consegna, senza esitazione, i venticinque ducati in questione. Il marchese li prende, ringrazia e, tutto meravigliato, va a raggiungere gli altri signori per raccontare loro il fatto. E tutti, ammirando una simile carità, celebrarono l’avvenimento come meritava. Allorché c’erano tanti poveri da soccorrere, egli si mostrava così prodigo verso uno solo! Che fiducia nella Provvidenza! Questa fiducia non fu delusa. Il marchese, infatti commosso da tale prodigio, mandò a dire a Giovanni, il mattino seguente, di non assentarsi poiché voleva recarsi a visitare l’ospedale.
Appena giunto, il marchese comincia a scherzare con il sant’uomo e a dirgli: Eh dunque, fratello Giovanni! mi hanno detto che vi hanno derubato ieri sera. – Io mi do a Dio, ma no! Non mi hanno derubato! Poi, dopo uno scambio di parole amabili e divertenti, il marchese riprende: Ora, fratello mio, perché non possiate negare il furto, Dio mi ha permesso di ritrovare la somma derubata: eccoli, i vostri venticinque ducati e, inoltre, centocin quanta scudi d’oro che vi do come elemosina. Un’altra volta, state attento a ciò che fate! Infine, ordinò di portargli centocinquanta pani, quattro montoni e otto pollastri e di fornirgli ogni giorno lo stesso quantitativo, per tutto il tempo che sarebbe rimasto a Granata.
Talvolta, le sue migliori collette avvenivano in modo sorprendente. Un giorno, di buon’ora, racconta in sostanza de Castro, allo scopo di cercare da mangiare per i suoi poveri, Giovanni scendeva lungo la strada de « los Gomeles », mentre un cavaliere la risaliva. Senza volere, il questuante urta col suo cesto la cappa del cavaliere e gliela fa cadere dalle spalle. Questi, molto irritato, si volta e grida: Ah! Furfante, briccone! Non potreste guardare dove camminate? – Scusatemi, fratello mio, rispose Giovanni con molta pazienza, non sono stato attento. Il marchese, nel sentire quel « voi », quel « fratello », diventò ancora più furioso e, voltandosi, gli dà uno schiaffo sul viso. – Ho sbagliato, l’ho ben meritato, datemene un altro!, replica Giovanni. Ma siccome gli parla ancora in seconda persona, il cavaliere grida ai suoi domestici: Correggete questo villano maleducato! Essi eseguivano l’ordine davanti alle persone che si raggruppavano, quando uscì un vicino, Giovanni della Torre. Cosa accade, fratello Giovanni di Dio?, egli grida. A questo appello l’aggressore, prostrato, si getta ai piedi della sua vittima ed afferma che non si rialzerà prima di averglieli baciati. Giovanni di Dio si affretta a rialzarlo e, tutto commosso, si abbracciano l’un l’altro. In compenso, il questuante ricevette cinquanta ducati d’oro per i suoi poveri.
In un’altra circostanza, sempre secondo de Castro, Giovanni di Dio andava al palazzo della vecchia Inquisizione per chiedere l’elemosina; ora, mentre camminava lungo una vasca piena d’acqua, un arzillo paggio gli si avvicinò e’ con un colpo secco, lo fece cadere nell’acqua. Senza il minimo lamento usci dall’acqua e, tutto allegro, ringraziò il giovane bricconcello. Numerosi in quel momento, i testimoni che, pieni di ammirazione, gli distribuirono grandi offerte e furono poi annoverati fra i benefattori della sua opera.
Cosi trascorsero gli anni in cui Giovanni non aveva ancora dei compagni che lo seguissero. Nel frattempo, oppresso com’era dai lavori e dai pensieri, attraversò un periodo di difficoltà non solo di carattere materiale, ma anche morale, e si decise a consultare il maestro d’Avila.
Ho ricevuto la vostra lettera, gli risponde il suo direttore, e non desidero che mi diciate di non meritare che vi riconosca come figlio, perché siete cattivo, poiché per la stessa ragione io non meriterei d’essere vostro Padre, in quanto sono pia cattivo di voi e quindi pia degno d’essere disprezzato. Pure, il Signore ci tiene per suoi, benché siamo tanto deboli; ecco perché dobbiamo imparare ad essere misericordiosi gli uni verso gli altri ed a sopportarci con carità, come egli fa con noi. Fratello mio, ci tengo molto: rendete un conto esatto a Nostro Signore di tutto ciò che vi ha dato, poiché il servo buono e leale deve guadagnare cinque talenti con gli altri cinque che gli sono stati consegnati… Fate ciò che vi ordineranno, senza dimenticare voi stesso. Vi servirebbe poco l’aver tratto tutti gli altri dal fango, se ci rimaneste voi stesso. E’ per questo che vi esorto di nuovo a riservarvi un po’ di tempo per pregare il Signore, per ascoltare tutti i giorni la messa e, la domenica, la predica; in ogni caso astenetevi dal trattare molto con le donne: sapete bene che esse servono al diavolo come trappola per far cadere i servi di Dio. Voi sapete come David peccò per averne guardata una. Suo figlio Salomone peccò per amore di molte e perse talmente il buon senso che collocò degli idoli nel tempio del Signore. E poiché noi siamo molto pia deboli di loro, guardiamoci dal cadere. Profittiamo della lezione. Non dobbiamo ingannarci, dicendo che desideriamo loro essere utili, poiché, sotto i buoni desideri, si trovano i pericoli quando manchiamo di prudenza, e Dio non vuole che io procuri il bene altrui a spese della mia anima.
A proposito delle necessità di cui mi parlate, ve l’ho già scritto: ce ne sono ovunque, e quando ci mettiamo a chiedere ci viene risposto: « E’ già un grave compito provvedere alle necessità del vicinato ».
Pensavo che il duca di Sesa vi avesse mandato un regalo, giacché dicevano che l’avevate pregato. Se non vi ha mandato niente, chiedeteglielo nuovamente e ve lo mander& giacché vi ama molto a causa della vostra dedizione ai poveri… Mi rallegro della carità che avete trovato nella casa di cui mi parlate… Abbiate sempre una ferma fiducia in Gesa Cristo, affinché Egli vi colmi delle sue grazie, e vigilate per non concedere al demonio la gioia di farvi cadere nel peccato e che Dio, vedendo la vostra penitenza per il passato ed il desiderio di comportarvi sempre meglio per il futuro, vi conduca per mezzo del suo Spirito Santo! Amen.
Questa lettera è stimolante sotto molti aspetti; ma non si può far a meno di constatare la sua fermezza ed insistenza. A giudizio del’ maestro d’Avila, Giovanni di Dio, nonostante tutte le sue virtù, aveva indubbiamente bisogno di queste rigorose raccomandazioni. Quale lezione per noi, che non possediamo né la viva carità di Giovanni di Dio, né il suo coraggio, né la sua generosità.
IX. I PRIMI COMPAGNI DI GIOVANNI DI DIO
Verso la fine del 1545, Giovanni di Dio annoverava tra i benefattori della sua opera un certo Antonio Martin. Nato il 25 marzo 1500 a Mira, presso Cuenca, nella Nuova Castiglia, da coltivatori agiati, Antonio ed il suo giovane fratello Pedro ricevettero un’educazione cristiana. Ma la madre, rimasta vedova ancor giovane, li allevò con una indulgenza e una debolezza eccessive, poi si risposò. Ciò non piacque ai giovani che, chiesta la loro parte di eredità, abbandonarono la casa paterna. Antonio, dallo spirito altero e audace, divenne guardacoste, poi doganiere a Valenza. Suo fratello Pedro, più equilibrato ma anche più ostinato, si mise al servizio di ricchi proprietari a Guadafortuna, nella provincia di Granata. Col suo savoir-faire si guadagnò la stima dei padroni che, nel giro di alcuni anni, ritennero di colmario di favori proponendogli la loro figlia in matrimonio. Ora, con loro profonda delusione, egli, che nutriva altri progetti, rifiutò l’offerta con disprezzo. Tale comportamento, in quel paese e a quell’epoca, era reputato come un affronto che doveva essere lavato con il sangue. L’unico figlio della famiglia, Pietro Velasco, incaricato di salvare l’onore, assassinò freddamente Pedro Martin.
Messo al corrente dell’accaduto, Antonio Martin, pieno di collera ed assetato di vendetta, si dimette dall’incarico di doganiere e, con i suoi risparmi, acquista senza scrupoli la gerenza di una casa di prostituzione a Granata, allo scopo di perseguire più facilmente l’omicida. Ottiene dapprima la sua incarcerazione, poi raddoppia gli sforzi per strappare al giudice la condanna a morte di Pietro Velasco. Il fatto faceva scalpore a Granata. Giovanni di Dio seguiva con dolore le peripezie del processo, tanto più che Antonio Martin continuava a mostrarsi generoso verso i poveri. Una sola via d’uscita a questo dramma, egli si diceva: la conversione di questo battezzato. Egli si ripromette di pagarne il prezzo. Ogni volta che sollecitava un dono da Antonio, non mancava di aggiungere, con insistenza, che era per amor di Dio e che in cambio avrebbe pregato e fatto pregare i suoi poveri per il loro benefattore. Antonio Martin accettava volentieri; Giovanni ne concludeva con ragione che le sue elemosine costituivano degli atti di misericordia aventi il valore di preghiere. Accompagnate da quelle dei poveri avrebbero ottenuto dal Signore delle grazie di conversione.
Con fiducia quindi Giovanni di Dio, dopo aver trascorso una parte della notte in suppliche, unite a cruente flagellazioni, se ne va il mattino seguente alla ricerca di Antonio Martin. Lo trova in via Colcha. Immantinente si getta in ginocchio ai. suoi piedi e, tirando dalla veste il crocefisso che portava sempre con sé: Ecco, fratello Antonio, gli dice, Colui che vi perdonerà, se voi perdonate; ma se voi vendicate il sangue di vostro fratello su colui che lo ha versato, il Signore vendicherà su voi il proprio sangue che versate ogni giorno con i vostri peccati. Penetrato da una grazia straordinaria, mentre ascoltava il patetico appello di Giovanni di Dio, Antonio Martin cade a sua volta in ginocchio e grida: Fratello Giovanni, non soltanto io perdono, ma per amor di Dio mi do a voi ed ai vostri poveri.
Rimaneva da passare ai fatti. Senza indugiare Antonio Martin, accompagnato da Giovanni di Dio, si reca alla prigione dove era detenuto Pietro Velasco e, non appena si trova in, sua presenza, gli si butta al collo, lo assicura del suo perdono e i due mortali nemici si abbracciano benedicendo la bontà del Signore. Poi, volgendosi verso Giovanni di Dio, si impegnano tutti e due a servire i poveri in sua compagnia per amore di Gesù Cristo.
Il cancelliere, chiamato appositamente, prende nota della riconciliazione e il giorno dopo il tribunale restitui la libertà a Pietro Velasco che, dalla prigione, passò subito alla casa di carità di via Lucena. Giovanni di Dio si affrettò a far confezionare un abito simile al suo per i suoi nuovi compagni e, fin dal giorno dopo, li condusse con sé a raccogliere i doni in natura e le elemosine per i poveri.
La consacrazione di questi due uomini a Dio ed al servizio dei poveri fu totale e definitiva. Antonio Martin successe a Giovanni di Dio, fondò a Madrid l’ospedale di « Nostra Signora dell’amore di Dio » e morì venerato da tutti in quella città, all’età di cinquantatré anni. Da parte sua; Pietro Velasco morì santamente, dopo ventidue anni di vita ospedaliera.
Giovanni di Dio ricevette inoltre tra i suoi compagni: Simone d’Avila, un borghese di Granata per molto tempo suo detrattore, e Domenico Piola, un banchiere avaro, entrambi suoi convertiti. Infine Juan Garcia, un uomo serio e senza storia, offrì spontaneamente i propri servigi all’ospedale. Tutti rimasero ferventi e fedeli.
Si presentarono altri postulanti? E’ possibile; ma Giovanni di Dio poneva delle condizioni severe per l’ammissione dei nuovi compagni. Ne abbiamo, quale prova, una lettera indirizzata a Luigi Battista, un giovane che aveva una qualche intenzione di andare a vivere con lui nell’ospedale. Eccola nelle sue parti essenziali.
In nome di Nostro Signore Gesu Cristo e di Nostra Signora la Vergine Maria sempre pura. Dio prima e sopra ogni cosa che è al mondo! Dio vi guardi, fratello mio in Gesù Cristo e figlio amatissimo, Luigi Battista. Ho ricevuto la vostra lettera inviata da Jaen; essa mi ha procurato una grande gioia… Tuttavia, i vostri mal di denti mi hanno molto afflitto, poiché ogni vostro dolore mi rattrista ed il vostro benessere, al contrario, mi rallegra… Cosa rispondervi in questa lettera scritta alla sprovvista?… Non lo so. Tale è la mia fretta che non ho quasi il tempo di pregare Dio di illuminarmi su questa questione. Sarebbe necessario raccomandarla molto a Nostro Signore Gesù Cristo… Nel vedervi spesso tanto debole, in particolare per ciò che riguarda la castità, non so cosa dirvi… Se fossi sicuro che la vostra presenza in questa casa gioverebbe alla vostra anima ed al bene del prossimo, vi ordinerei di venire subito; ma temo che sia altrimenti. Sarebbe meglio per voi trascorrere ancora un po’ di tempo nella prova, finché siate ben disposto, avvezzo a soffrire ed a fare del bene, nonostante le contrarietà dei giorni più cattivi… Voi errate qua e là come una barca senza remi; spesso, da parte mia, sono soggetto al dubbio, come un uomo senza giudizio. Siamo quindi in due a non sapere che fare, ma Dio, che conosce ogni cosa, può venire in nostro aiuto. Che ci faccia la grazia di illuminarci tutti e due! Voi mi sembrate essere ancora come la pietra che rotola. Sarebbe bene, invece, che iniziaste a mortificare la vostra carne, a sopportare le miserie della vita: fame, sete, disonori, obbrobri, dispiaceri, pene, noie, il tutto per Dio poiché se veniste qui dovreste sopportare tutto ciò per suo amore.
Per tutto ciò che vi accade, in bene o in male, dovete rendere grazie a Dio. Ricordatevi di Nostro Signore Gesù Cristo e della sua santa Passione. Egli ha reso il bene per il male… Venendo qui, dovreste obbedire e lavorare molto più di quanto abbiate fatto; dedicarvi tutto alle cose di Dio, prodigarvi senza sosta per il servizio dei poveri… Deciso a venire qui, dovreste lavorare con profitto per Dio e, per ciò, spendere bene la vostra « pelle » e le vostre forze. Rammentate san Bartolomeo: scorticato vivo, portò la sua pelle stille spalle. Non venite dunque qui con l’intenzione di condurre una vita tranquilla, ma per lavorare: i lavori più penosi sono il retaggio del figliolo più amato. Venite se pensate che è qui ciò che avete di meglio da fare e se Dio ve lo ispira. Se, al contrario, vi sembra vantaggioso vagabondare ancora per il mondo e cercare qualche situazione in cui possiate servir Dio, fate in tutto come vi piacerà sull’esempio di coloro che vanno nelle Indie a cercar fortuna…
Ogni giorno della vostra vita, abbiate lo sguardo rivolto a Dio ed ascoltate la messa sempre per intero. Con fessatevi spesso; e se è possibile, non vi addormentate mai la sera nella coscienza del peccato mortale. Amate Nostro Signore Gesù Cristo sopra tutto ciò che è al mondo, poiché qualunque sia il vostro amore per lui, Egli vi ama di più. Abbiate sempre la carità: dove non c’è carità non c’è Dio, benché egli sia in ogni luogo… Non ho più nulla da dirvi, tranne che augurarvi che Dio vi guardi, vi salvi e vi ponga come tutti, sulla via del suo santo servizio. Termino, ma non cesso di pregare per voi e per tutti gli uomini. Il rosario, posso affermarvelo, mi ha sempre fatto un gran bene. Spero che Dio mi accorderà la grazia di recitarlo più spesso che potrò e ch’Egli desidera.
Fratello Giovanni di Dio, il più piccolo di tutti, pronto a morire se Dio lo vuole, ma che attende in silenzio, spera in Dio e desidera servire Nostro Signore Gesù Cristo, di cui è lo schiavo. Amen Gesù! Uno schiavo meno bravo degli altri uomini, sono molte volte furfante e traditore. Me ne pento indubbiamente molto, ma dovrei pentirmene di più. Che Dio abbia la bontà di perdonarmi e di salvare tutti!
Si vede da questa lettera che, pur lasciando quell’indeciso perfettamente libero della sua scelta, Giovanni di Dio, alternativamente affettuoso e leggermente ironico, si sforza tramite consigli pieni di saggezza di istradarlo sulla retta via e lo ragguaglia in modo chiaro sui suoi compiti presenti e persino futuri, nel caso succedesse di raggiungerlo; e qui, in verità, le esigenze sono molto pesanti! Contemporaneamente, leggendolo, ci si può render conto delle sue solide virtù e del suo costante pensiero di salvezza di tutti gli uomini. Fatto curioso e che si riscontra in tutte le sue lettere: quando desidera dare un consiglio che riguardi una devozione utile ma non obbligatoria, preferisce darlo in modo indiretto. come qui: Il rosario mi ha fatto un gran bene…
Con l’arrivo di nuovi compagni, la casa di carità di via Lucena prosperò sempre più; le elemosine aumentarono e permisero di procurarsi tutti i mobili e le comodità desiderabili. Disgraziatamente, l’inverno del 1545-1546 danneggiò gravemente il tetto e l’edificio dell’ospedale. Ne abbiamo un’eco nella lettera scritta da Giovanni di Dio alla duchessa di Sesa, verso la fine del 1546.
Sorella mia in Gesù Cristo, le dice, ho delle grosse preoccupazioni. Occupato a rimettere a nuovo tutta la casa rovinata ed aperta alla pioggia, mi mancano i mezzi per pagare questi lavori; cosi mi sono deciso a scrivere al conte di Feria e al duca d’Arcos, a Zafra. Il maestro d’Avila si trova li attualmente; sarà per me un buon mediatore presso di loro e spero che quei signori mi invieranno dei soccorsi per liberarmi dei debiti… Questa lettera menzionava un viaggio circolare effettuato, verso la primavera dello stesso anno, nella bassa Andalusia. Così, egli scrive, virtuosa duchessa, non appena vi ho lasciata (a Cabra) mi sono recato ad Alcaudeta a far visita a donna Francesca; da lì ho raggiunto Alcala dove, per quattro giorni, sono stato molto stanco. Mi sono anche indebitato di tre ducati per venire in aiuto di alcuni poveri molto indigenti. Tutte le persone ragguardevoli della città erano in rivolta contro il corregidor (primo magistrato); rimessomi sono dunque partito per Granata, senza fare la questua ad Alcala. Dio sa in che miseria i poveri mi attendevano!
Sorella mia in Gesù Cristo, buona duchessa di Sesa, l’elemosina che mi avete fatto gli angeli l’hanno già registrata in cielo, nel libro della vita. L’anello è stato così ben impiegato che con il denaro ricevuto ho fatto vestire due poveri coperti di piaghe ed ho acquistato una coperta. Si, quell’elemosina è alla presenza di Dio ed intercede per voi. Quanto al camice ed ai candelieri, li ho posti subito sull’altare a nome vostro. Sarete quindi ricordata in tutte le messe e preghiere che qui si diranno. Nostro Signore abbia la bontà di ricompensarvi in cielo di tutti questi benefici!
In sostanza, se si eccettuano i doni in natura, questo primo viaggio gli aveva fruttato ben poco per i suoi poveri di Granata. Nella stessa lettera Giovanni di Dio fa allusione ad un viaggio più recente. L’altro giorno, di passaggio per Cordova, ho trovato, nel percorrere la città, una casa in cui regnava la più profonda miseria. Vi erano qui due ragazze i cui genitori, paralitici da dieci anni e malati, dovevano stare a letto.
A vederli cosi poveri e mal curati, mi si è spezzato il cuore: mal vestiti e pieni di insetti, avevano per letto alcuni fastelli di paglia. Li ho soccorsi come ho potuto, ma non secondo il mio desiderio, poiché avevo fretta di andare a trovare il maestro d’Avila per affari. Egli mi ordinò allora di partire subito e di tornare a Granata.
Nella fretta, raccomandai quegli infelici ad alcune persone; ma esse li hanno dimenticati, o non hanno voluto o potuto aiutarli. I miei protetti mi hanno scritto una lettera ed ho il cuore infranto per quanto mi dicono… Cosi, buona duchessa, il mio desiderio, se piace a Dio, è di vedervi approfittare di questa occasione per fare l’elemosina, che quelle persone hanno persa. Occorrerebbero quattro ducati: tre per quelle poverette, allo scopo di permettere loro l’acquisto di due coperte e due gonne. Un’anima, infatti, vale più di tutti i tesori del mondo; e non è necessario che quelle ragazze pecchino per cosi poco. L’altro ducato servirebbe ad Angulo, il mio compagno, per il suo viaggio di andata e ritorno a Zafra. Mi aspetto che ritorni con qualche soccorso.
L’intralcio di tutte queste pratiche, viaggi e successive domande ci svela un uomo che si prodiga senza misura, che ottiene molto, ma è sempre tentato di distribuire sul posto, a dei nuovi bisognosi, le somme primitivamente destinate alla casa di carità di Granata.
Si comprende meglio, allora, perché il Padre d’Avila, al corrente delle sue generosità incoercibili, gli ordinava di ritornare a Granata al più presto.
X. L’OSPEDALE DI VIA DE « LOS GOMELES »
Giovanni di Dio si dedicava da sei anni al servizio dei poveri allorché don Pedro Guerrero fu promosso alla sede arcivescovile di Granata, il 23 novembre 1546. Amico intimo del Padre Giovanni d’Avila, questo prelato, grande teologo ed abile controversista, si fece notare nel concilio di Trento. A Granata si mostrò pastore zelante e pio: riformò l’università della città, fece prosperare le istituzioni religiose e, dopo trenta anni di un vescovato pieno di buone opere, morì come un santo, il 2 aprile 1576.
Poco dopo la sua entrata in carica, don Pedro Guerrero sentì parlare dell’ospedale di Giovanni di Dio e del bene che procurava alla città. Così, appena si presentò un ‘occasione favorevole, vi si recò per una visita approfondita. Non si limitò a considerare lo stato materiale dell’edificio e l’ordine interno del suo funzionamento; ma volle intrattenersi a lungo con il suo fondatore. Già informato sul suo spirito e sulla sua condotta, si rese conto da sé che si trattava di un uomo straordinario animato dallo spirito di Dio ed infiammato d’amore per i malati e per i poveri. Gli assicurò la sua protezione e, non contento di lodare la sua opera, gli rimise una forte elemosina per il mantenimento ed il miglioramento dell’ospedale.
La visita e l’approvazione del nuovo arcivescovo accrebbero ancora la reputazione della casa di carità di via Lucena. Vi portavano malati da ogni parte. Era un favore esservi ammessi; disgraziatamente, il numero dei posti disponibili era troppo ridotto. I benefattori di Giovanni di Dio lo incoraggiavano a procurarsi un locale più ampio. Ora che un maggior numero di compagni lo aiutava nei compiti ospedalieri, il progetto diventava realizzabile, ed egli si mise alla ricerca di una casa più ampia.
Ora, verso la fine del 1546, i Carmelitani lasciarono il loro convento situato ai margini di una foresta presso l’Alhambra e all’inizio de « los Gomeles » che scende verso la città, per stabilirsi nelle vicinanze del santuario di Nostra Signora de la Cabeza. Giovanni di Dio venne ad esaminare questo convento sconsacrato, in compagnia di Antonio Martin, e lo trovò adatto per l’uso che voleva farne; così iniziò le pratiche necessarie per acquistano. Secondo il Padre Saucedo, l’acquisto ebbe luogo nei primi giorni del 1547. Giovanni poté realizzarlo grazie al concorso dei suoi benefattori ed in particolare di don Pedro Guerrero, che gli accordò in quell’occasione la somma di 1.500 ducati.
In possesso del nuovo immobile, Giovanni di Dio vi fece effettuare le riparazioni più urgenti ed i lavori necessari per adattare i locali alla loro nuova destinazione. Al piano terra collocò un’ampia stanza riservata ai viaggiatori ed ai mendicanti, che potevano trascorrervi la notte. Essa aveva nel mezzo un focolare per riscaldarli e, tutt’intorno, dei grandi banchi disposti in modo tale che vi si potessero coricare e dormire. V’erano anche delle stuoie per i meno validi. Al primo piano molte sale furono disposte, destinate ciascuna ad un genere di malati. Senza dubbio Giovanni di Dio fa allusione a questa organizzazione nella sua seconda lettera alla duchessa di Sesa: Del lavoro che ho iniziato, non posso venire a capo, poiché occupato a rimettere a nuovo tutta la casa, ho ancora molti poveri. Grandi sono le spese che si fanno qui e bisogna provvedere a tutto senza proventi, ma Gesù Cristo vi provvede ed io, io non faccio niente. Vorrei – andare a Zafra ed a Siviglia, ma non posso prima della fine di questo lavoro, per paura che venga fatto male…
Disponendo presso la sua corrispondente di un deposito di grano ricevuto in elemosina, egli l’avvisa circa l’invio di Angulo, per vendere il grano, poiché, egli dice: ho grande bisogno di denaro per il lavoro in corso e per pagare alcuni debiti che mi cavano gli occhi. Poi, ricordandosi delle nuove elargizioni ottenute dalla duchessa, in seguito alla sua lettera precedente, aggiunge: Sorella mia in Gesù Cristo, che Nostro Signore vi renda in cielo l’elemosina dei quattro ducati che avete rimesso ad Angulo, per quelle poverette e le spese del viaggio…
Mia amatissima sorella, buona duchessa di Sesa, inviatemi un altro anello o qualche altra cosa che io possa impegnare. Il primo anello è stato cosi bene impiegato che voi lo possedete già in cielo. Se l’umilissima governante e tutte le signore e signorine della vostra casa hanno qualche piccolo oggetto d’oro o d’argento, che me li mandino. Io mi ricorderò di loro. Buona duchessa, mi rammento spesso dei regali che mi avete fatto a Cabra e di quei buoni panini senza crosta che mi davate da distribuire. Che Dio vi accordi il cielo e vi faccia partecipe di tutti i suoi beni! Amen Gesù.
Quando i lavori di restauro e di adattamento nel nuovo ospedale di via de « los Gomeles » furono terminati, i malati della casa di carità di via Lucena vi furono condotti o trasportati. Molti testimoni al processo di beatificazione di Giovanni di Dio, specialmente Alonso Lopez Pocasangre, falegname ottantenne, attestarono che Giovanni di Dio, Antonio Martin e Pietro Velasco vi trasportarono sulle spalle i poveri malati invalidi, fino ai letti preparati in precedenza. Vi trasportarono anche, allo stesso modo, i letti, i materassi, i mobili, gli utensili e gli efletti.
Essendo aumentato il numero dei posti, arrivò un maggior numero di malati e di poveri. Cosi Giovanni di Dio può scrivere alla duchessa di Sesa: Più pesanti da un giorno all’altro sono i miei debiti e più numerosi i miei poveri, dei quali molti si presentano mal vestiti, mal calzati, coperti di piaghe e di pidocchi. Ho bisogno di uno o due uomini, soltanto per scottare questi insetti in un catino d’acqua bollente. E questo lavoro durerà tutto l’inverno, fino al mese di maggio. Voi lo vedete, sorella mia in Gesù Cristo, le mie difficoltà aumentano ogni giorno e sempre più.
Ecco come Giovanni di Dio descrive il suo nuovo ospedale in una lettera indirizzata, un po’ più tardi, a Gutierre Lasso de la Vega:
La città è grande e, siccome fa molto freddo in questi periodi invernali, i poveri affluiscono in questa casa di Dio. Tra malati, sani, persone di servizio e viaggiatori, vi sono più di centodieci persone. E’ un ospedale generale; cosi, vi si riceve di solito ogni specie di malati e di persone. Vi sono paralitici, monchi, eczematosi, muti, alienati, tignosi, vecchi e molti bambini, senza parlare dei molti viaggiatori e passanti che qui si fermano ed ai quali si dà il fuoco, l’acqua, il sale e gli ùtensili necessari per preparare il cibo. E per tutto questo non vi sono entrate, ma Gesù Cristo provvede a tutto. Ogni giorno occorrono quattro ducati e mezzo e talvolta cinque, per fornire la casa di pane, carne, pollame e legna, senza contare le spese extra per medicine ed abiti. Quando le elemosine non sono sufficienti per provvedere a tutte queste necessità, io prendo a credito. Talvolta, ci capita anche di digiunare.
Ecco come mi trovo qui indebitato e prigioniero per Gesù Cristo solo. Devo più di duecento ducati per camicie, mantelli, scarpe, lenzuola, coperte e molte altre cose necessarie in questa casa di Dio, e per il cibo dei bambini che vi vengono abbandonati.
Così, mio carissimo ed amatissimo fratello in Gesù Cristo, al pensiero dei miei pesantissimi debiti, mi capta spesso di non osare di uscire dalla casa. Ed alla vista delle sofferenze di tanti poveri, miei fratelli e miei simili, ai cosi grandi bisogni corporali e spirituali, mi sento tanto triste di non poterli soccorrere. Però ripongo la mia fiducia in Gesù Cristo soltanto; egli mi libererà dai debiti, poiché conosce il mio cuore… Conosco il vostro grande amore per Nostro Signore e la vostra pietà per i suoi figli poveri, il che mi spinge ad esporvi i loro ed i miei bisogni…
E dopo alcune considerazioni personali di carattere religioso, espone in questi termini il servizio che attende da don Gutierre Lasso:
Fratello mio in Gesù Cristo, io mando per portarvi questa lettera questo giovane messaggero. Ecco il perché: un giovane nativo di Malaga è deceduto in questo ospedale e gli ha lasciato in eredità alcuni beni, presi da un’eredità consistente in vigneti ed in rendite… Desidero che questi beni vengano venduti, poiché ho bisogno di denaro ed il reddito annuo è minimo. Per amore di Nostro Signore, se conoscete qualcuno che voglia acquistarli, vendeteli subito, a patto che nessuno vi perda, né l’acquirente né i poveri, e che tutto avvenga rapidamente. Il latore della presente se ne tornerebbe subito con il denaro. E’ un uomo che gode della mia fiducia. Egli ha con sé la mia procura ed i documenti riportati da quel paese… Per amore di nostro Signore, vi raccomando quest’affare.
Con il denaro chc esso renderà, dobbiamo acquistare degli abiti per i poveri, che pregheranno Dio per l’anima del loro bene fattore. Dovrò, inoltre, pagare la carne e l’olio; i fornitori non intendono più farmi credito, poiché devo loro molto. Io li faccio pazientare dicendo che quanto prima mi porteranno un po’ di denaro da Malaga… Scusatemi se vi causo tante fatiche; esse, un giorno, saranno la vostra gloria in cielo.
XI. LE OPERE SOCIALI DI GIOVANNI DI DIO
Nostro Signore aveva dotato il suo servo di un’abbondante ed intensa carità, da cui scaturivano delle opere meravigliose, tanto che alcuni spiriti superficiali lo consideravano come un prodigo ed un dissipatore. Essi non capivano che Il Signore l’aveva introdotto nella cella del vino. Qui, lo aveva colmato di carità e l’aveva inebriato del suo amore tanto da non poter rifiutare nulla à chi gli chiedeva in nome di questo amore, ritenendosi come debitore di ben altro.
Così viveva nella tensione, propria dei santi, di donarsi in mille modi, per amore di Colui che si era mostrato tanto magnanimQ e largo nei suoi confronti. Gli esseri spirituali sono cosi’ fatti: arricchiti dei beni del cielo, si ritengono tanto fortunati e ricchi che, secondo loro, sono sempre obbligati a dare a tutti, illustrando cosf il detto della Scrittura: V’è più gioia nel dare che nel ricevere (Atti, ’20, 35).
Dopo aver accordato alcune ore al sonno, Giovanni di Dio iniziava la sua giornata con la preghiera e l’assistenza alla prima messa del mattino.
Poi, allo spuntar del giorno, da un angolo dal quale tutti quelli dell’ospedale potessero sentirlo, gridava: Fratelli miei, rendiamo grazie a Nostro Signore! Anche gli uccellini lo fanno, e recitava le quattro preghiere prescritte da nostra Santa Madre Chiesa (il Credo, il Pater, l’Ave Maria e la Salve Regina). Subito dopo, il cappellano si avvicinava ad una finestra, in modo che tutti potessero udirlo, ed esponeva i principi della dottrina cristiana, poi poneva delle domande. Vi rispondeva chi poteva. Nella sala comune del piano terra, un altro sacerdote faceva la stessa cosa, rivolgendosi ai viandanti. Giovanni di Dio veniva poi a salutarli, prima della loro partenza. A coloro che erano inai vestiti, egli distribuiva degli abiti. Alle persone giovani, in buona salute, egli diceva: Coraggio, fratelli miei! Andiamo a servire i poveri di Gesù Cristo! Con loro si recava nella vicina foresta, lungo il Darro, a raccogliere della legna; e ciascuno ritornava con un fascio per i poveri. Per molto tempo egli ebbe cosi’ dei giovani che, con entusiasmo e buona volontà, portavano ogni giorno della legna.
Ritornando dalla foresta, Giovanni trovava molte persone ad attenderlo. Seduto in mezzo a loro, ascoltava ognuno con pazienza mentre esponevano le proprie necessità e non mandava via nessuno senza averlo confortato con un dono o una parola. Egli faceva l’elemosina a chiunque lo implorasse in nome di Gesù Cristo. Talvolta, alcuni gli dicevano: Fate attenzione, costui chiede senza necessità. – Egli non m’inganna, rispondeva, la cosa riguarda lui; io gli do per amor di Dio.
Tutti i poveri e i bisognosi venivano da lui, ed egli li soccorreva tutti: vedove, orfani, litiganti, soldati licenziati, poveri contadini. Nessuno veniva a lui senza che il Signore gli accordasse poco o molto, per rimediare a quella nuova necessità. Quando non gli rimaneva più nulla, scriveva dei biglietti di raccomandazione ai benefattori dei quali conosceva la generosità.
Non contento di essere il buon Samaritano per coloro che gli si presentavano spontaneamente, Giovanni di Dio cercava i poveri nascosti e ritrosi, le ragazze poste negli orfanotrofi, le donne sposate che soffrivano in segreto, le religiose e le « beate » povere e, con molta attenzione e carità, procurava loro il necessario.
In favore di queste ultime, intercedeva presso le signore ricche ed influenti. Egli stesso acquistava loro le derrate indispensabili, per evitar loro di uscire e permettere di conservare il raccoglimento nella solitudine. Dopo aver dato loro il necessario, si sforzava di sottrarle all’ozio, cercando presso i negozianti, per le une della seta da lavorare, per le altre della lana, del lino, della stoffa da filare. Assicuravano cosf il loro mantenimento. Sedendosi poi un poco, le incoraggiava al lavoro e rivolgeva loro una breve esortazione spirituale per persuaderle ad amare Dio e la virtù, adducendo in merito delle ragio ni tanto convincenti, quanto semplici, che vivono ancor oggi nel ricordo di coloro che le hanno sentite. Inculcava loro anche la speranza che agendo così, non soltanto avrebbero ottenuto la grazia del Signore, ma il necessario non sarebbe mancato loro mai, tanta era la fede che aveva in questo detto del Vangelo: « Cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto vi sarà dato in soprappiù » (Mt. 6, 33).
Beninteso, contro queste iniziative non mancarono i critici.
Alcuni di essi « urlavano » e « mormoravano »:
tutto questo è un briciolo di follia che gli è rimasto dal tempo in cui percorreva le strade come demente. Senza indugio, queste opere cadranno: esse non possiedono delle basi! Nello stesso tempo essi lo tenevano d’occhio, lo spiavano nelle case in cui entrava, si informavano circa le sue parole ed i suoi atti. Essi lo osservavano anche di nascosto. Ma considerando la sua condotta esemplare, le sue conversazioni edificanti e le sue azioni lodevoli, essi rimanevano sorpresi, confusi e condannati al silenzio. Alcuni si dimenticavano del loro progetto, lo glorificavano e gli offrivano l’elemosina. Inoltre, uno di essi, Simone d’Avila, divenne ‘suo degno discepolo, come è già stato detto.
Nella sua attività sociale, come in quella ospedaliera, Giovanni di Dio aveva quale scopo principale la gloria e l’onore di Nostro Signore.
Mai procurò un bene temporale a qualcuno senza fornirgli allo stesso tempo un rimedio per l’anima, servendosi – per questo – di sante e calde raccomandazioni. Egli avviava, d’altionde, tutti sulla via della salvezza, insegnando più con l’esempio che con le parole il dovere di prendere la propria croce e di seguire Gesù Cristo.
E a questo proposito, il biografo riporta un aneddoto riferitogli da una persona degna di fede. Eccolo, riassunto in poche parole.
Una giovane signora, molto bella, era venuta a Granata per un processo di famiglia, che minacciava di toglierle ogni bene. Giovanni di Dio la incontrò presso un avvocato, in occasione di una consultazione. Dopo aver considerato il suo atteggiamento e il suo comportamento, gli sembrò che fosse in grande pericolo di offendere Dio. Prendendola in disparte, la interrogò. Costei lo mise al corrente della propria situazione e miseria. Giovanni di Dio le propose una soluzione vantaggiosa sotto tutti i punti di vista. Vi farò ammettere, le disse, in una casa dove vi sono molte signore; vivrete in loro compagnia, pur avendo un appartamento a parte, dove vi installerete a vostro gusto e secondo la vostra condizione. Io mi incarico di assicurare il vostro mantenimento e di seguire il vostro processo con sollecitudine. Vi chiedo soltanto di aver cura del vostro onore e di non offendere Dio. La signora acconsentf di buon grado. Giovanni di Dio mantenne le sue promesse. Di tanto in tanto andava a trovarla per tenerla al corrente delle sue cose. Ora, una sera, un po’ tardi, mentre girava nei dintorni per la questua, entrò nell’appartamento della signora. Quale non fu la sua sorpresa vedendola vestita con una ricercatezza insolita! Senza nutrire alcun sospetto, approfittò dell’occasione per parlarle dei pericoli del mondo e del conto da rendere al giudizio divino. La sua parola fu tanto avvincente e persuasiva, che strappò le lacrime a quella forestiera. Dopo la partenza di Giovanni di Dio, un giovane gentiluomo – che si era nascosto al suo arrivo ed aveva udito tutto -chiese perdono alla signora per l’appuntamento propostole. Da quel giorno il gentiluomo cambiò completamente condotta e divenne un modello di onestà per tutta la città. E’ da lui indubbiamente – o da uno dei suoi congiunti – che de Castro apprese questa conversione, dovuta all’influenza di Giovanni di Dio.
Giovanni dedicava i suoi pomeriggi a diverse opere di carità e di misericordia e, la sera, quando ritornava molto tardi in ospedale con il ricavato della questua, per quanto grande fosse la sua stanchezza, non andava mai a coricarsi senza aver visitato tutti i malati – iascuno in particolare. Egli chiedeva loro come avevano trascorso la giornata, come stavano, di che cosa avevano bisogno. Li consolava e testimoniava a tutti il più vivo interesse. In breve, i suoi modi affabili sollevavano i corpi e al tempo stesso ricreavano gli spiriti. Per terminare, faceva un giro nelle vicinanze della casa e nei dintorni e prodigava soccorso e conforto ai poveri timidi che l’attendevano nell’ombra.
XII. UN APOSTOLATO DIFFICILE MA FRUTTUOSO
Chiamato particolarmente da Dio a praticare le opere di Marta (occupazione tipica della maggior parte del suo tempo), Giovanni di Dio non dimenticava quelle di Maria. Tutto il tempo che gli restava, lo dedicava all’orazione ed alla meditazione… chiedendo a Nostro Signore il perdono e la capacità di rimediare ai bisogni che scorgeva… Egli sapeva che l’orazione è il fondamento, l’ancora di ogni vita spirituale, il mezzo per condurre a buon fine tutti i nostri affari con Dio e senza il quale tutto il resto apporta poco appoggio.
Giovanni di Dio era, in particolare, molto devoto alla passione di Gesù Cristo, fonte della nostra redenzione. Egli voleva che ciò che aveva recato profitto a lui, recasse profitto anche al suo prossimo. Ecco perché il venerdì, giorno in cui concedeva al suo corpo soltanto un po’ di pane ed acqua, al punto da esserne estenuato, aveva l’abitudine di recarsi alla casa pubblica delle donne per cercare di strapparne qualcuna agli artigli del demonio.
Entrando, egli seguiva la donna che gli sembrava la più perduta, la meno ben disposta ad uscire da lì, e le diceva: Figlia mia, tutto ciò che ti darebbe un altro, te lo darò io ed ancor più. Ti prego soltanto di ascoltare due parole, qui nel tuo appartamento. Entrandovi con lei, le ordinava di sedersi, mentre egli si gettava in ginocchio per terra davanti al suo crocifisso. Cominciava allora ad accusarsi dei suoi peccati e piangendo amaramente, ne implorava il perdono di Nostro Signore con tali accenti che provocava di solito anche in lei contrizione e dolore dei propri peccati. La disponeva in tal modo all’attenzione. Iniziava allora, per commuoverla, a recitare la Passione di Gesù Cristo, poi le diceva:
Considera, sorella mia, quanto sei costata a Nostro Signore ed osserva ciò ch’egli ha sofferto per te. Non vorrai essere la causa della tua personale perdizione. Considera che vi è una ricompensa eterna per i buoni ed un castigo eterno per coloro che vivono nel peccato come te… Non provocare più il Signore per timore che Egli ti abbandoni completamente come lo meritano i tuoi peccati, e ti lasci cadere come una pietra dura e pesante nel più profondo dell’inferno. Il Signore gli ispirava tali parole ed altre ancora. Sebbene alcune, ostinate nei loro vizi, non lo prendevano in alcuna considerazione, altre, con l’aiuto di Dio, si pentivano, si piegavano alla penitenza e gli dicevano: Fratello mio, Dio sa che uscirei volentieri da qui per servire i poveri nell’ospedale, ma sono indebitata e non mi lasceranno uscire. Giovanni rispondeva con giovialità: Figlia mia, abbi fiducia nel Signore. Egli che ha illuminato la tua anima, ti darà il rimedio per il corpo. Coni prendi bene che dovrai servirlo e non più offenderlo e formula un fermo proposito di morire piuttosto che tornare al peccato. Attendimi qui, giacché tornerò senza indugio.
Subito, si affrettava ad andare alla ricerca di signore di alto ceto, sulle quali sapeva di poter contare, e diceva loro: Sorelle mie in Gesù Cristo, sappiatelo: c’è una prigioniera del demonio, aiutatemi, per l’amore di Dio, a redimerla e strappiamola a quella miserabile schiavitù. Messe al corrente di queste miserie, quelle persone erano così caritatevoli, che raramente egli se ne andava senza aver ottenuto da loro la somma necessaria. Quando, però, non la trovava o vi era urgenza, si impegnava per iscritto a pagare il debito della donna nei confronti del mediatore…
Egli conduceva subito queste donne all’ospedale dove venivano curate le altre persone, abbanonatesi in precedenza allo stesso traffico, e mostrava loro le conseguenze infelici della loro perseveranza in quel vile mestiere… Poi, si sforzava di conoscere le loro intenzioni. Alcune, più illuminate dal Signore sul valore della vita, volevano riflettere e far penitenza. Egli le conduceva al monastero delle « pentite » e dava loro il necessario. Per altre, meno decise a « raddrizzare il timone » e piuttosto inclini al matrimonio, cercava la dote e le maritava. Ne maritò molte. Così, soltanto con le elemosine riportate allora dal suo viaggio a Corte, fece celebrare le nozze di sedici convertite alla fede, come lo testimoniano oggi alcune di esse ancora in vita, rimaste vedove ed oneste.
Esercitando questa delicata opera di carità, Giovanni di Dio subì molte mortificazioni e dolori e manifestò l’eroica pazienza che Nostro Signore gli aveva accordato. Così, secondo la testimonianza di de Castro, quando Giovanni strappava una donna a quell’ambiente, le ostinate, le indurite protestavano, lo diffamavano, l’ingiuriavano, l’accusavano di agire con cattive intenzioni. Egli non rispondeva, e sopportava tutto con pazienza. Inoltre, se qualcuno riprendeva queste donne, rimproverava loro la cattiveria, la scortesia, Giovanni replicava: « Lasciatele stare, non dite loro niente; esse mi conoscono, sanno chi sono e mi trattano come merito ».
Un aneddoto molto curioso, per altro più da ammirare che da imitare, raccontato prolissamente da de Castro e qui compendiato, ci mostra il suo zelo ardente per la salvezza di queste anime riscattate, egli lo sapeva, ad un prezzo inestimabile.
Un venerdì, egli era entrato in una casa pubblica. Subito quattro donne, che si erano messe d’accordo, gli si avvicinarono spontaneamente per farlo partecipe della loro decisione di correggersi in questi termini:
Siamo di Toledo. Se ci conducete là potremo sistemare le nostre cose, e vi promettiamo di abbandonare allora la nostra vita cattiva. Giovanni di Dio accettò subito, preparò la cavalcatura per queste persone e tutto ciò che era necessario al viaggio poi, insieme a loro, si pose in cammino, andando a piedi, accompagnato da Angulo, un servo dell’ospedale, uomo saggio e di buona condotta, morto da poco, commenta de Castro, e dal quale aveva avuto questo racconto.
Ora, mentre camminavano, le persone ed i viandanti, alla vista di quei due uomini in simile compagnia, li schernivano, li fischiavano… Di fronte a tali insulti, Giovanni di Dio taceva e soffriva con molta pazienza. Angulo, al contrario, si irritava e diceva a Giovanni:
A che pro questo viaggio in simile compagnia, causa di tanti oltraggi? Ma quando, passando da Almagro, una di esse fugge ed arrivando a Toledo altre due scappano, il servo, con maggior veemenza, comincia ad interrogarlo con asprezza: Che follia, questo viaggio! Non ve l’avevo detto? Non ci si può fidare di questa razza depravata. Il santo uomo rispondeva con dolcezza: Fratello Angulo, tu non rifletti. Vediamo. Se vai a Motril a cercare quattro panieri di pesce e per via tre si guastano, tu li gétti indubbiamente, ma getti forse quello buono? Siccome delle quattro donne ce ne rimane una che persevera nelle sue buone intenzioni, abbi pazienza e torniamo con lei a Granata. La mia speranza è in Dio; se costei rimane, non avremo fatto un viaggio inutile ed il nostro guadagno non sarà meschino. E fu così; grazie a Giovanni di Dio quella donna sposò un uomo dabbene e visse in modo esemplare.
Se normalmente le donne così strappate alla casa pubblica e sposate, testimoniavano la loro riconoscenza a Giovanni di Dio, una di loro si mostrava molto indiscreta ed esigente. Non appena aveva bisogno di qualcosa, veniva a chiederla e, per appagare il suo desiderio, Giovanni di Dio si sforzava di darle soddisfazione. Il fatto si ripeteva spesso. Ora, una volta che lei chiedeva ancora, egli dovette confessare la propria completa miseria, pregandola di ritornare un altro giorno. Ma lei, impaziente, si irrita e comincia ad insultarlo dicendo: Uomo cattivo! Santo ipocrita! – Avrai due reali se vai in piazza a divulgare ciò ad alta voce – si affrettò lui a risponderle. E siccome quella continuava con alte grida a diffamano, egli disse: Presto o tardi bisogna che ti perdoni; perciò ti perdono subito.
Questa pazienza produsse un buon frutto, perché la stessa donna, il giorno dei funerali del santo, camminava in mezzo alle altre che egli aveva strappato alla cattiva vita, e alzando la voce lungo le strade, si lamentava, confessava i propri grandi torti ed errori, ed esaltava gli immensi favori di Giovanni di Dio.
Infine, questo apostolo della carità era cosi umile che amava confessare e raccontare i propri errori e non parlava mai delle buone azioni e delle lodi ricevute. Egli si serviva anche dell’astuzia per volgere le conversazioni a propria confusione. Ne risultava una grande edificazione per il prossimo; ma fuggiva ogni vanagloria, come tigna avvelenata della vita spirituale.
XIII. LA OUESTUA ALLA CORTE DI SPAGNA
Le spese richieste per tutte le opere intraprese da Giovanni di Dio erano considerevoli e, non bastandovi più le elemosine raccolte in città, egli aveva fatto ricorso ai signori dell’Andalusia. Costoro lo aiutarono facendo del loro meglio. Fin da giovane, il duca di Sesa si occupò dei poveri del suo ospedale e a più riprese rimborsò tutti i suoi debiti. Inoltre, in occasione di tutte le grandi feste nel corso dell’anno, gli faceva pervenire camicie, abiti e scarpe per vestire e calzare i bisognosi. La duchessa sua moglie agiva allo stesso modo, come abbiamo notato nelle lettere citate. Il cavaliere Guttierre Lasso, Rodrigo Diaz de Vivar, il duca di Cabra e molti altri si mostravano altrettanto generosi nei suoi confronti. Nondimeno, tutti questi soccorsi si rivelarono inferiori ai bisogni sempre crescenti.
Ora, secondo de Castro, Giovanni di Dio viveva nell’angoscia, da un lato per non poter venire in aiuto ai postulanti, ai poveri, e dall’altro, per essere incapace di pagare i suoi debiti. A suo avviso, lo stato di tormento e di imbarazzo sembrava fosse inerente alla sua amministrazione. Da qui a dedurre l’incapacità a continuare la sua opera e la necessità di rinunziarvi, ci correva poco. Questa tentazione insinuante sembra peraltro sia stata favorita da uno strano individuo che gli aveva proposto di assumersi il peso del suo ospedale e di soddisfare i suoi creditori, per permettergli di impegnarsi in un’altra impresa, più alla sua portata. E’ anche vero che dei benefattori competenti, e in particolare l’arcivescovo don Pedro Guerrero, molto convinti del valore e del saper fare di Giovanni di Dio, gli consigliavano un viaggio a Corte, per ottenere l’appoggio del principe Filippo, reggente di Spagna in assenza del padre Carlo Quinto, ed avere dai grandi che gli erano accanto importanti elargizioni.
Di fronte a questa alternativa, non sapendo che decisione prendere, ricorse ancora una volta al maestro Giovanni d’Avila, esponendogli in modo dettagliato le sue preoccupazioni. La sua lettera, come le precedenti, ci è nota solo in base alla risposta di Giovanni d’Avila.
Eccola:
Ho ricevuto la vostra lettera. Non crediate che la sua lunghezza mi irriti; per chi ama molto, nessuna lettera può sembrare lunga. Rendetevi intanto tale che io sia soddisfatto delle vostre notizie e se volete non affliggermi, sforzatevi di operare bene. E’ con gli atti e non con le parole che si testimonia l’affetto. Considerate, fratello mio, quanto sono costate a Nostro Signore le grazie che vi ha accordato e quale cura dovete avere di una gemma acquistata a prezzo del suo sangue. Cosa sarebbe dunque se lasciaste calpestare dai porci questa perla che Lui vi ha dato per rendervi simile agli angeli? Cosa sarebbe se perdeste questa bellezza di cui ha ornato la vostra anima per renderla più piacevole e più bella del sole stesso? Piuttosto morire che essere sleale verso Nostro Signore! Ma per restare fedele, bisogna mostrarsi prudente, come ha detto Nostro Signore perché, per mancanza di prudenza, l’uomo commette mille infrazioni che dispiacciono a Nostro Signore e Lo obbligano a castigarlo. Cosi, un solo errore deve servire da lezione per la vita. Un cane bastonato non ci ritorna due volte, né un uccello nella gabbia da cui è scappato. I saggi traggono vantaggio dagli errori degli altri e gli stolti dai propri. Che diremo di coloro che non si correggono dopo averne commessi molti? Essi meritano l’abbandono del Signore e la propria perdizione. Chi ha ricevuto dei doni da Dio è tenuto a stare attento ed a lavorare per la Sua gloria, perché Egli l’ha strappato all’inferno e gli ha dato la sicurezza del cielo. Più andiamo avanti nella vita e più dobbiamo sforzarci di diventare migliori; perché poco ci servirebbe aver bene iniziato, se finiamo male. Che serve ad un cacciatore l’aver preso un uccello con molta fatica, se poi lo lascia fuggire per ‘non più rivederlo?
Nostro Signore è più offeso nel vedere che un’anima, acquistata e purificata da Lui, lo abbandona per darsi al demonio, che degli errori di tante altre, che non gli appartengono. Del pari, il demonio si rallegra maggiormente di guadagnare delle anime ferventi, che di dominare sulle cattive di sempre. Così, fratello mio, dobbiamo avere gli occhi volti verso lo stendardo della Croce, per non dare questo dispiacere a Nostro Signore e questo piacere al demonio di abbandonare la strada che abbiamo cominciato a seguire e della quale ci resta tanto poco da percorrere.
Implorate di tutto cuore Nostro Signore, non dimenticate di pregare e di ascoltare la messa; ve ne troverete bene. Osservate dove mettete i piedi per assistere gli altri senza danneggiarvi. Che la vostra anima non cessi di nutrirsi, perché se camminate affamato, scoraggiato e malato, a che vi servirà tutto il bene prodigato agli altri? Nostro Signore ci ha detto infatti: « Che serve all’uomo guadagnare l’universo se perde la sua anima?)? (Mt. 16, 26). Non piacerete mai tanto a Dio quanto conservando la vostra anima pura in sua presenza, e la più grande opera di misericordia da compiere è di conservare la vostra anima benaccetta a sua Maestà. Così, vegliate e pregate secondo la parola di Gesù Cristo, per eludere le sorprese del demonio: egli ci tende mille tranelli per farci cadere.
Il progetto di recarvi a Corte per chiedere l’elemosina ai signori di Castiglia, allo scopo di non indebitarvi qui, mi sembra eccellente. Ma state attento, là e altrove, a servire Nostro Signore al fine di possedere un giorno la gloria, per la quale vi ha creato. Che Egli sia sempre il vostro sostegno e la vostra forza! Amen.
Quel personaggio disposto a pagare i vostri debiti ed a rendervi cosi libero per un altro compito, doveva essere il demonio sotto forma umana. Cercava di ingannarvi e di persuadervi che potevate, senza offendere Dio, abbandonare la strada per la quale egli vi ha chiamato. Non per nulla san Paolo ha detto: « Che ciascuno resti fedele alla chiamata che ha ricevuto da Dio! » (Ef. 4, 1). Se Dio vuole che lo serva come cameriere, il voler guardare i maiali sarebbe un peccare contro di lui. Dovrei renderGli conto di tutto ciò che avrei potuto guadagnare in quell’altra occupazione. Cosi, fratello mio, se un essere risplendente, che si definisce angelo di Dio, vi apparisse ed ordinasse di rinunciare alla vostra abituale occupazione, ritorcetegli che è un demonio e che non volete per nessun conto abbandonare la strada su cui Dio vi ha posto, poiché il Vangelo ce lo insegna: « Chi persevererà fino alla fine sarà salvo » (Mt. 24, 13). Leggete e rileggete questo versetto e che Dio vi guardi da ogni male. Amen.
Per il momento non ho abiti da inviarvi, ma dirò delle messe per voi: esse vi copriranno meglio.
A prima vista, ci si potrebbe meravigliare che il maestro Giovanni d’Avila si dilunghi tanto sulle esigenze di una vita spirituale vera e sulle precauzioni da prendere per preservarla da ogni insidia, mentre risponde assai brevemente a due angosciosi quesiti di Giovanni di Dio. Non vuole egli, una volta di più, rammentargli in cosa consiste l’essenziale della vita cristiana, la condizione assolutamente necessaria di tutte le altre attività, fossero pure molto importanti? La fiducia e la fedeltà date da Giovanni di Dio al suo caro maestro erano degne di questo schietto linguaggio. Egli non aveva esposto i propri dubbi e le proprie tentazioni per essere adulato, ma per conoscere la volontà di Dio e camminare nell’obbedienza. Fornito di direttive tanto nette e tanto chiare, Giovanni di Dio senti un nuovo vigore e decise di dedicarsi al servizio dei poveri con la più viva determinazione fino alla morte.
Un fatto, ad un tempo doloroso e confortante, venne a rinforzare l’impressione prodotta da questa lettera su Giovanni di Dio: la morte del suo confessore dell’epoca, il Padre Domenico de Alvarado, dell’Ordine di N.S. della Mercede (Mercedari), amico ed emulo di Giovanni d’Avila. Seguendo le sue esequie, il 6 aprile 1548, Giovanni di Dio esclamava testimoniando le sue buone opere: Padre Domenico, voi godete già della visione di Dio, in possesso della ricompensa alle vostre fatiche. Queste sono terminate, ma la vostra gloria non avrà fine. Come siete felice per aver si bene impiegato la vostra vita! Ricordatevi di questo poveretto che vi deve tanto.
Subito dopo questo 6 aprile 1548, Giovanni di Dio prese i provvedimenti per questo lungo viaggio a Corte, che allora era a Valladolid. De Castro precisa:
Lasciò nell’ospedale il suo amico e compagno Antonio Martin, per vegliare sui poveri fino al suo ritorno.
Poi si mise in viaggio a piedi, come di consueto, a capo nudo e scalzo.
In linea d’aria, 500 Km. separano Granata da Valladolid; ma l’itinerario scelto da Giovanni di Dio doveva, secondo José Cruset, superare i 700 Km.
De Castro non ci dice nulla circa il viaggio d’andata. Sappiamo però che Giovanni di Dio passò per Toledo e vi si fermò alcuni giorni. Durante questo periodo sarebbe stato ospite di donna Leonor de Mendoza, parente prossima della sua benefattrice, la duchessa di Sesa. Questa dama gli fece grandi elemosine che, unite al frutto delle sue questue, gli permisero di fondare un piccolo asilo notturno di cui ci parla il p. Gabriele Russotto nell’opera L’Ordine ospedaliero di Giovanni di Dio, Roma, p. 18 3. Da Toledo, anziché raggiungere Valladolid passando per Madrid, che è la strada più breve, Giovanni di Dio si dirige verso Salamanca, dove la sua presenza si protrae per alcuni giorni. Infatti, al processo di beatificazione di Giovanni di Dio, un testimone, Pedro Hernandez di Salamanca, afferma di averlo conosciuto in quella città, 70 anni or sono: Egli percorreva le strade e chiedeva l’elemosina dicendo: « Fate del bene a voi stessi! ». Ciò che raccoglieva lo dava ai poveri dell’ospedale San Bernardo. Vi si recava lui stesso per curare i malati, per pulirli e carezzarli, col volto sorridente ed allegro. Molte persone ed il testimone stesso accorrevano all’ospedale, soltanto per vedere l’affetto con ciii Giovanni curava i sofferenti. Altri due testimoni della città, Jeronimo Hernandez Franco e Juan de Prado fornirono delle testimonianze analoghe, e quest’ultimo aggiunge che alla partenza di Giovanni di Dio per Valladolid, molti ne soffrirono, ed i poveri gli assegnarono il nome di « Padre dei Poveri ».
Da Salamanca a Valladolid ci sono poco più di 100 Km. De Castro non ci dice nulla su questa terza parte del viaggio; ma si può affermare con verosimiglianza che Giovanni arrivò a Corte verso la fine di maggio, o i primi di giugno 1548. A quell’epoca, Carlo Quinto si trovava in Germania, e continuava le trattative con i principi protestanti, sforzandosi di riconciliarli con la Chiesa cattolica e di consolidare l’impero. Restavano a Corte il principe, presunto erede e reggente di Spagna, di 21 anni, sua sorella, l’infante Maria, promessa all’arciduca Massimiliano d’Austria, e la più giovane, l’infante Giovanna, futura sposa del principe reale del Portogallo.
Avvisata da sua figlia, la duchessa di Sesa, benefattrice e corrispondente di Giovanni di Dio, dell’arrivo di quest’ultimo a Valladolid, donna Maria de Mendoza considerò come un grande favore l’alloggiano in casa sua e provvedere ai suoi bisogni. Questa dama, vedova del grande commendatore Francisco de los Cobos, godeva di una grossa fortuna, ma si faceva notare per le sue virtù e la sua carità verso i bisognosi. Ella fondò ospedali, dotò conventi bisognosi e distribuì, nel corso di tutta la sua vita, elemosine quotidiane proporzionate alla propria ricchezza. Giovanni di Dio ricevette delle elargizioni, tanto da questa signora che da altre persone della città, e si mise subito a soccorrere i poveri del posto. Immediatamente, si trovò tanto occupato come a Granata.
Da parte sua, il conte di Tendilla, don Luis Hurtado de Mendoza, figlio di donna Maria de Mendoza, giovane signore intelligente e virtuoso, in grazia a Corte, si affrettò a introdurre Giovanni di Dio a palazzo e a presentarlo al principe reggente Filippo. Il postulante, rivolgendosi al principe con tutta semplicità, gli disse - secondo de Castro:
Signore, ho l’abitudine di chiamare tutti gli uomini « fratelli miei in Gesù Cristo », ma voi siete mio re e mio signore ed io sono tenuto ad obbedirvi. Come volete che vi chiami? – « Come vorrete! » – Vi chiamerò dunque « buon principe ». Dio voglia accordarvi un regno prospero, la gràzia di vivere e di morire bene, affinché possiate – un giorno – godere della vita eterna!
Queste parole, sgorgate dal fondo del cuore, furono tanto gradite al principe che si abbassò per rialzarlo, lo prese per mano e l’introdusse nel suo studio. Giovanni espose allora in modo semplice lo scopo del suo viaggio e lo stato del suo ospedale. Molto interessato, il principe Filippo gli pose diversi quesiti e, soddisfatto delle risposte, gli fece rimettere un’offerta degna del suo nome.
Giovanni di Dio visitò, quasi ogni giorno, anche le infanti, sorelle del principe reggente, e ricevette da loro e dalle loro dame d’onore molti doni e gioielli. Ora, tutte queste elemosine egli le distribuiva ai bisognosi di Valladolid, con sorpresa di coloro che erano al corrente dello scopo del suo viaggio. Perciò gli dicevano: Fratello Giovanni di Dio, perché non conservate il denaro per i vostri poveri di Granata? – Fratelli miei, rispondeva lui, dare qui o dare a Granata, è sempre fare del bene per Dio, che si trova in ogni luogo.
Per fortuna, donna Maria de Mendoza, il conte di Tendilla e gli altri suoi benefattori, persuasi che non vi erano altri mezzi per impedirgli di distribuire sul posto le elemosine ricevute e tornare a Granata a mani vuote, decisero di comune accordo di offrirgli, a titolo di dono, delle lettere di cambio pagabili soltanto a Granata. Queste lettere gli avrebbero permesso di soddisfare i creditori e di assistere i poveri del suo ospedale.
Giovanni di Dio trascorse cosi alcuni mesi a Valladolid, fino al periodo in cui si iniziarono a preparare i festeggiamenti a Corte ed in tutta la città, in occasione delle prossime nozze dell’infanta Maria con l’arciduca Massimiliano d’Austria.
Si rimise quindi in viaggio ai primi di settembre del 1548. Durante il viaggio di ritorno, più diretto e di circa 500 Km., de Castro riferisce che Giovanni di Dio sopportò grandi sofferenze. Camminando infatti scalzo, lungo strade piene di sassi ed accidentate, aveva i piedi screpolati ed aperti in più parti in seguito alle cadute. Provava anche una forte sensazione di scottature su tutto il corpo, poiché non portava la camicia ed i suoi abiti ruvidi e spessi erano placcati su di lui come pece. Inoltre, aveva la pelle del volto, del capo e del collo spellata dal sole, sofferto a capo scoperto.
Pur in questo stato, camminava con passo svelto, animato dal desiderio di rivedere al più presto i suoi malati ed i suoi poveri e di portare sollievo ai loro affanni. Spossato dalle fatiche e dalle sofferenze, arrivò finalmente, con gioia degli abitanti di Granata e della contrada, con allegrezza soprattutto dei suoi assistiti, che attendevano con impazienza il loro padre e consolatore.
Giovanni di Dio si affrettò a riscuotere i mandati, pagò una parte dei suoi debiti e provvide ai nuovi bisogni, specialmente in favore delle sedici donne da lui convertite, alle quali diede le doti attese.
Infine, rimase ancora debitore di più di 400 ducati e, per soddisfare i propri impegni, rinnovò i prestiti.
Il suo cuore non sopportava di veder soffrire i poveri senza soccorrerli e provava fino all’angoscia il vivo desiderio di pagare i debiti. Conciliare questi due desideri sembrava impossibile, poiché egli dava senza esitare ogni suo avere, quando gli si presentava qualche indigenza.
XIV. L’INCENDIO ALL’OSPEDALE REGIO
C’era a Granata un grande ospedale, fondato 50 anni prima dai « re cattolici » Ferdinando ed Isabella, dopo la conquista della città, fino allora in possesso degli Arabi. Vi si curava ogni genere di malati poveri, compresi quelli mentali, « i più poveri tra i poveri ». Costruito con magnificenza in una vasta pianura chiamata « el campo », esso esiste ancor oggi. Si nota, al primo piano, nella parte rimasta intatta, una cameretta con al centro una finestra di un metro quadrato, munita all’esterno di sbarre verticali che non nascondono né il sole né il panorama. Qui alloggiò Giovanni di Dio durante il suo breve shock nervoso. Appena guarito, egli aveva esercitato nell’ospedale, per un periodo di tre mesi, un lavoro come aiuto infermiere. Ne conosceva dunque le sale, le scale e tutti i passaggi.
Ora, il 3 luglio 1549, alle il del mattino, in piena estate, mentre il sole inondava di luce e di calore la città in festa, un incendio scoppiò in questo ospedale – ed ecco in quale circostanza. Un certo Rojas, amministratore principale dell’ospedale, offriva quel giorno uno splendido banchetto in onore di donna Magdaiena, figlia di don Pedro de Bobadilla.
Per arrostire allo spiedo un’intera giovenca farcita di porcellini, pernici, fagiani e diverse spezie, i cuochi allestirono un enorme fuoco nel camino più grande. Disgraziatamente, una scintilla accese una trave costituita da un intero pino, facilmente combustibile, ed il fuoco si propagò. Subito vengono suonate le campane a martello, ci dice Anton Rodriguez, e si fa richiamo ai muratori, ai falegnami ed ai carpentieri, in particolare a Giovanni de Ratia, che accompagno come apprendista sui luoghi del sinistro.
Da parte sua, Giovanni di Dio arriva al più presto.
Il suo zelo, stimolato dalla grandezza del pericolo intravisto, si mostra cosi efficace che, quasi da solo, salva portandoli sulle spalle gli ammalati che non sono potuti fuggire con i propri mezzi. Poi getta dalle finestre, con un’agilità sovrumana, tutti i letti e gli abiti che può afferrare. Infine, dopo aver posto tutti i malati al sicuro, raggiunge, con una scure, la sommità dell’edificio, lì dove il pericolo è maggiore, per aiutare a tagliare l’armatura in legno del tetto ed impedire cosi al fuoco di propagarsi. Vi si trova, quando un’enorme fiamma uscita da un lato ed una seconda dall’altro lo prendono in mezzo. Nello stesso tempo gli spettatori vedono alzarsi un denso fumo. Tutti pensano, senza possibile dubbio, che le fiamme hanno incendiato e consumato il salvatore. « E subito la voce della sua morte eroica corre tra la folla con la stessa rapidità con cui il vento ravviva le fiamme. Da ogni parte si levano lamenti e grida ». Ora, nel momento in cui uno meno se lo aspetta, lo si vede venir fuori dalle fiamme, scendere rapidamente una scala rimasta intatta ed uscire sano e salvo, senza alcuna lesione. Però le sue sopracciglia e ciglia erano state bruciacchate dalle fiamme, segno evidente del miracolo operato in suo favore da Nostro Signore.
Presenti all’incendio dell’ospedale, il marchese di Mondejar, capitano generale, il marchese di Ceraldo « corregidor » della città, il consiglio dei ventiquattro e molte altre autorità, hanno reso testimonianza di quegli avvenimenti tragici e prodigiosi.
Anton ‘Rodriguez, l’apprendista citato più sopra, conferma i fatti con semplicità ingenua:
Arrivato di corsa, ho visto Giovanni di Dio che entrava ed usciva in mezzo alle fiamme, portando sulle spalle i malati impotenti, poi gettare dei letti dalle finestre. Faceva delle cose prodigiose e volevo raggiungerlo per aiutarlo, ma la paura di diventare preda delle fiamme mi inchiodava sul posto. Mentre Giovanni di Dio circolava cosi nell’interno, si alzarono – tutt’ad un tratto – delle fiamme cosi vive, che lo circondarono da tutte le parti. Tutti credemmo, con grande dolore, che era stato bruciato. Ma subito Giovanni di Dio usci di tra le fiamme, indenne e senza ferite. Eravamo tutti contenti. Il fuoco, persa la sua forza, fini con lo spegnersi.
Donna Luisa de Ribera, 47° testimone, dà una versione analoga, ma aggiunge: nel momento in cui Giovanni di Dio era scomparso agli sguardi, il marchese di Ceraldo aveva alzato la voce, chiedendo di cercare il benedetto padre Giovanni di Dio, poiché la sua persona e la sua salute erano più importanti di dieci ospedali. Ma il fuoco era cosi intenso che nessuno osava avventurarvisi. In capo ad una mezz’ora, quando tutti lo credevano ridotto in cenere, Giovanni di Dio usci indenne, con l’abito intatto e senza bruciature; soltanto le sopracciglia e le ciglia erano bruciacchiate.
Questo fatto prodigioso, attestato da molti testimoni, da specialisti del fuoco e da autorità di altissimo rango, può essere considerato come un vero miracolo. E’ a giusto titolo che la Chiesa perpetua il ricordo di questa azione eroica nell’ufficio divino della festa di san Giovanni di Dio. Dapprima, nella lettura del secondo notturno: Giovanni di Dio si gettò nel fuoco, per salvare i malati, rimase in mezzo alle fiamme divenute gigantesche e ne uscì finalmente indenne per la protezione divina e con ammirazione di tutti gli abitanti… insegnando la carità, mostrò cosi che il fuoco esterno aveva minor forza su di lui del fuoco che lo bruciava internamente. Poi, nell’orazione del giorno: Signore Dio nostro, a Giovanni che bruciava del tuo amore, tu permettesti di passare senza danno attraverso le fiamme e con lui facesti nascere nella tua Chiesa una nuova famiglia religiosa; per la stia preghiera e per suoi meriti, brucia i nostri vizi col fuoco della tua carità e degnati per sempre di guarirci…
Sotto il baldacchino del Bernini, una grandiosa tela raffigurante questo prodigio ornava l’altare principale di San Pietro in Roma, in occasipne della cànonizzazione di Giovanni di Dio, il 19 ottobre 1690.
XV. GLI ULTIMI ANNI DI GIOVANNI DI DIO
La dedizione instancabile di Giovanni di Dio verso i poveri e i sofferenti, le sue virtù palesi a tutti, la sua condotta eroica in occasione dell’incendio dell’Ospedale Regio, produssero una viva impressione sui suoi contemporanei. Nonostante le sue proteste, ormai tutti lo chiamavano « il santo ».
Molte persone non si contentavano più di ammirare, esse volevano imitare. Accorrevano all’ospedale per prendere parte ai lavori di Giovanni di Dio e dei suoi compagni, esercitaavano con essi la carità e la misericordia. Da parte loro, religiosi ed ecclesiastici cooperavano con zelo alla sua opera ospedaliera, portando ogni giorno ai poveri ed ai malati i soccorsi e le consolazioni del loro ministero. Parimenti, i laici ragguardevoli e le grandi dame della città non attendevano più le visite del questuante; andavano loro stessi in ospedale a portare le elemosine e a prestare aiuto in qualche modo.
In questo periodo, la nascente compagnia dei Gesuiti si diffondeva rapidamente in Spagna. Chiamati dal maestro d’Avila e dall’arcivescovo don Pedro Guerrero, molti di essi si stabilirono a Granata, dove fu loro affidato il primo collegio dell’Università e la cura degli esercizi spirituali. Secondo il Padre Antonio Astrain, s.j., questi religiosi si stabilirono nella città solo dopo il 1551. Al contrario, se ci riferiamo al Padre Orlandini s.j., alcuni di essi vi soggiornarono già dal 1548, se non altro temporaneamente. Nella sua storia della Compagnia, questo Padre scrive:
Vi era allora a Granata, tra gli altri, un celebre ospedale diretto da uno chiamato Giovanni di Dio, uomo pio e devoto; dei membri della nostra compagnia si premurarono di recarvisi per offrire la loro assistenza spirituale ai malati, ma anche per prestare loro delle cure corporali, La loro carità, egli prosegue, non rifiutava alcun genere di servizio, per quanto sudicio e ripugnante sembrasse. Seguendo il loro esempio, dei nobili e dei borghesi si misero a servire i poveri. Qui si vedevano, sia il governatore della città, i membri del consiglio dei ventiquattro, i nobili cavalieri di san Giacomo o del Toson d’oro con i loro brillanti costumi, sia i canonici ed i maggiori prelati ed altre importanti personalità del clero; talvolta dei celebri dottori in teologia o in diritto canonico e civile, e molti altri cittadini di alto ceto. Essi si avvicinavano ai letti ed ai giacigli; e, a capo scoperto, servivano i malati. Molti si inginocchiavano e baciavano il bordo del piatto che porgevano, altri mettevano con affetto materno il cibo in bocca ai più sofferenti, altri sventolavano un fazzoletto al capezzale dei malati per allontanare le mosche… Spazzavano il pavimento, vuotavano i vasi da notte, scavavano le fosse per i morti, trasportavano i cadaveri e li deponevano in terra. Niente costava loro troppo: in questi lavori di carità trovavano la loro gioia e la loro felicità…
I Padri gesuiti non tralasciavano alcuna occasione per incoraggiare questo movimento di carità con le loro esortazioni ed i loro esempi. Il Padre Giovanni Battista Sancio, in particolare, amava raggruppare i visitatori nel cortile dell’ospedale e, negli eloquenti sermoni di carità, era tanto più persuasivo in quanto l’esempio era li davanti agli occhi e l’occasione a portata di mano. Un giorno, nella festa di san Martino, dopo aver rilevato il merito delle opere di misericordia, esaltò la carità di questo santo taumaturgo. Non aveva egli, nel cuore dell’inverno, tagliato una parte del suo mantello per rivestirne un povero incontrato sul suo cammino? Poi, facendo un quadro toccante dei bisogni dell’ospedale, esclamò: «Poco tempo fa, in questo luogo in cui vi parlo, spiegavo la miseria e le privazioni dei poveri malati; tutt’ad un tratto uno slancio di carità colse l’assemblea! Tutti offrirono a gara non soltanto il denaro e l’oro, ma anche gli abiti, di cui si spogliavano per darli. Una carità tanto generosa e sollecita è dunque impossibile al giorno d’oggi, e non potrò trovare qui un cuore abbastanza cristiano da imitare un si nobile esempio, per insegnare a tutti che, a Granata e nel nostro tempo, la carità è abbastanza viva ed eroica, da presentare un altro san Martino? ». A queste parole, un sacerdote si porta in mezzo all’assemblea e depone ai piedi del predicatore un bellissimo mantello; costituiva tutta la sua ricchezza, poiché valeva più di tutto il resto del suo abbigliamento. Questo gesto fu il segnale di una gara straordinaria: i doni si accumularono, li gettavano da vicino, da lontano; li facevano passare di mano in mano, si pigiavano intorno al predicatore. In poco tempo si ammucchiarono davanti a lui: monete d’oro e d’argento, anelli preziosi, mantelli, mantiglie di ogni genere di stoffa, giacche e casacche ornate di galloni o di trine, budrieri e monili pieni d’oro, abiti di ogni genere, di cui ciascuno si spogliava con una sollecitudine sorprendente. Non cessavano di dare. L’oratore, vedendo aumentare a dismisura la quantità di oggetti offerti, pensò bene di por fine alla riunione.
In occasione del Natale, la sua parola non ebbe minor effetto. Quell’uomo apostolico vi faceva ammirare la bontà di Dio che, per amore degli uomini, aveva voluto nascere sulla terra e mostrarsi a noi. Da qui colse l’occasione per chiedere ai suoi uditori se, nel vedere il bimbo Gesù che si offriva a loro, non pensassero che fosse giusto dargli anche qualche cosa in cambio. Ebbene!, aggiunse, si vedrebbe quale è il vostro cuore verso Gesù che nasce se, avendoLo sotto gli occhi nella mangiatoia, lo lasciaste con indifferenza nudo, tremante per il freddo, o se, toccati da quanto egli soffre, vi affrettaste a coprirlo e riscaldarlo. E come! egli prosegui, il luogo in cui siamo, nel cuore dell’inverno, è diverso dalla stalla in cui Gesù, nei suoi poveri, non ha nulla per coprirsi, né per riscaldarsi? Non lo sentite mentre grida ad ognuno di noi: « In verità vi dico che quanto avete fatto a uno dei più piccoli tra questi miei fratelli, l’avete fatto a me » (Mt. 25, 40)?
Questi sentimenti, sviluppati in modo grave e toccante, infiammarono i numerosi uditori. Sacrificavano senza difficoltà gli oggetti più preziosi. Nessuno volle andarsene senza aver dato abbondantemente. Inoltre, le verità udite fecero un’impressione profonda nell’animo di molti. Essi vollero da quel momento riconoscere ed onorare pubblicamente Gesù Cristo nella persona dei poveri. Si videro alcuni di questi cristiani pieni di fede che, dopo aver fatto l’elemosina a qualche mendicante incontrato per strada, si mettevano in ginocchio a baciargli i piedi in mezzo alle strade ed alle piazze più frequentate.
Questo illustre Padre Sancio, nota ancora il Padre Orlandini, predicando un’altra volta nello stesso ospedale, segnalò tra parentesi, e senza troppo insistere, la mancanza di lenzuola per seppellire i morti. Subito alcuni buoni cittadini abbandonarono il luogo senza far rumore, corsero a casa a raccogliere un grosso carico di lenzuola, per poi deporli ai piedi del Padre predicatore.
I Padri gesuiti apportarono dunque un prezioso aiuto a Giovanni di Dio, ed egli ne fu loro molto riconoscente. C’era, anche qui, una testimonianza della stima della sua opera caritatevole ed una giusta ricompensa del suo zelo ospedaliero, ora da tutti apprezzato.
Tuttavia, i suoi lavori eccessivi e senza posa, pur avendo prematuramente rovinato le sue forze, non potevano fermarlo. Egli ebbe ancora il coraggio, agli inizi del 1550, di fare una questua nella regione di Malaga, a 100 Km. da Granata, come dimostra l’ultima lettera da lui scritta al cavaliere Guttierre Lasso.
La presente è per informarvi del mio arrivo qui in perfetta salute, grazie a Dio, con più di 50 ducati. Aggiunti a quelli che voi avete laggia, ammontano, io credo, quasi a cento. Dopo il mio ritorno, mi sono indebitato di 50 ducati o più. Né questa somma che ho portato, né quella che ho presso di voi basteranno, poiché ho pia di 150 persone da mantenere e, ogni giorno, Dio provvede a tutto. Se quindi ai 25 ducati che avete laggia, poteste aggiungere qualche cosa in pia, il tutto sarebbe necessario… Questi 25 ducati, fatemeli pervenire subito, poiché ce li ho di debito e ben più: perciò resto in attesa. Come sapete ve li ho rimessi una sera nel vostro giardino degli aranci, in un sacchetto di tela, mentre passeggiavamo tutt’e due. Verrà un giorno, lo spero nel Signore, in cui passeggerete nel giardino celeste! Il mulattiere ha molta fretta, non posso quindi scrivervi a lungo; d’altra parte ho tanto lavoro qui, che non ho il tempo di un « Credo » di respiro.
Inviatemi subito quel denaro, per carità; ne ho urgente bisogno. Per amore di Nostro Signore, raccomandatemi alla tanto nobile, virtuosa e generosa schiava di Òesa Cristo, vostra sposa… Saluterete anche da parte mia il vostro figlio l’arcidiacono, che è stato con me a chiedere la santa elemosina… Porgete i miei saluti alle vostre figlie e figli ed a tutti quelli che vorrete… A Malaga, raccomandatemi al vescovo e presentategli i miei omaggi, come pure a tutti quelli che vorrete e vedrete, obbligato come sono di pregare per tutti…
Questo viaggio a Malaga fu l’ultimo che egli fece all’esterno. Ma a dispetto della propria magrezza e debolezza, egli andava sempre, la sera, ad implorare l’deosina in città e si sforzava di essere tutto a tutti durante il giorno.
Per soprappiù, ci rivela de Castro, in seguito ad un grosso sforzo, contrasse una grave ernia. Questa infermità troppo trascurata gli causava dei dolori fortissimi. Egli peraltro faceva di tutto per dissimularli, per evitare un dolore ai suoi poveri.
Ora accadde, in quel periodo, che il Genil si ingrossasse moltissimo in seguito a piogge torrenziali. Dissero a Giovanni di Dio che il fiume in piena trascinava molta legna e tronchi d’albero. Immediatamente decise di andare a raccoglierli insieme ai validi dell’ospedale, per permettere ai poveri di accendere il fuoco e riscaldarsi, poiché l’inverno era molto rigido: nevicava e gelava. Tra gli indigenti venuti a prendere della legna, c’era un ragazzo. Questi si avventurò con imprudenza nel fiume, fu trasportato dalla corrente e annegò nonostante gli sforzi di Giovanni di Dio per soccorrerlo: portato molto lontano dai flutti, egli non poté afferrano. Il buon Padre ne provò un grande dolore; prese freddo, cadde ammalato e dovette mettersi a letto.
Ora, in quel frattempo, alcune persone dallo zelo indiscreto, poco illuminate e sottovalutando il modo elevato di agire di Giovanni di Dio, si recarono dall’arcivescovo don Pedro Guerrero e lo informarono che all’ospedale si trovavano persone di ogni sorta. Alcune, capaci di lavorare, potrebbero certamente lavorare per guadagnarsi da vivere, se non fossero ospitate. Parimenti, vi si scorgevano delle donne sconvenienti: esse disonoravano Giovanni di Dio e si mostravano prive di riguardo per il bene che prodigava loro. Queste persone pregarono dunque l’arcivesco di porre rimedio a quei disordini, dal momento che ne aveva il potere.
Dopo aver ascoltato le loro lagnanze, l’arcivescovo, da buon pastore, fece chiamare Giovanni di Dio, di cui ignorava la malattia, per chiedergli spiegazioni.
Non appena ricevuto l’ordine, il malato si alza e si reca come può, ed al più presto, dal suo superiore.
Giunto davanti all ‘arcivescovo, gli bacia la mano, riceve la sua benedizione e dice: « Cosa ordina mio buon Padre, mio Prelato? » – « Fratello Giovanni, gli notifica l’arcivesco, ho appreso che nel vostro ospedale si trovano uomini e donne che danno il cattivo esempio, perniciosi: essi vi causano molto dolore per via della loro cattiva educazione. Cacciateli quindi subito e ripulite l’ospedale da simili persone affinché i poveri dimorino in pace e tranquillità e voi stesso non siate afflitto e maltrattato da quelle persone ».
Dopo aver ascoltato attentamente le parole del suo arcivescovo, Giovanni di Dio gli risponde con umiltà e dolcezza: Padre mio e buon Prelato, io solo sono cattivo, incorreggibile, inutile; merito di essere buttato fuori dalla casa di Dio. Quanto ai poveri dell’ospedale, essi sono tutti buoni e non conosco vizi in alcuno di loro. Dio non sopporta d’altra parte i buoni e i cattivi? Non fa risplendere il suo sole su tutti, ogni giorno? Non c’è quindi motivo di allontanare dalla sua casa gli abbandonati e gli afflitti.
La risposta di Giovanni di Dio piacque molto all’arcivescovo. Egli constatava l’amore paterno e tenero che Giovanni nutriva per i suoi poveri. Per difenderli non rigettava su di sé gli errori che venivano loro imputati? Di conseguenza don Pedro Guerrero, nella sua saggezza, giudicò che si poteva – senza timore – aver fiducia in quell’uomo dabbene. Lo benedisse e, nel congedarlo, aggiunse: Fratello Giovanni, andate in pace, benedetto da Dio e comportatevi nell’ospedale come a casa vostra; ve lo permetto.
Confortato da queste parole, Giovanni di Dio tornò all’ospedale; ma di giorno in giorno il suo male si aggravò. A brevi intervalli sentiva i brividi e la febbre. Capì che la sua vita era in pericolo.
Con l’aiuto di Nostro Signore, Giovanni di D’io compi un ultimo sforzo. Prendendo con sé un segretario, un registro in bianco e l’occorrente per scrivere, si recò in città, e andando da coloro ai quali doveva qualcosa, fece registrare la somma dovuta ed il nominativo del creditore. Poi, al ritorno, fece copiare il tutto sopra un secondo registro. Uno se lo pose sul petto, e ordinò che l’altro fosse custodito nell’ospedale. Se Dio lo chiamava a sé, in caso di perdita del primo registro, il secondo sarebbe sempre rimasto in deposito. Si potrebbero pagare i debiti, noti cosf chiaramente.
Terminato questo lavoro, Giovanni di Dio ritornò nella sua cella e si coricò molto stanco. A partire da quel momento, incapace di uscire, egli si sforzava di portar soccorso ai poveri che facevano ricorso a lui, inviando biglietti di raccomandazioni. E’ in questo periodo, febbraio 1550, che egli scrisse o dettò la sua ultima e lunga lettera alla duchessa di Sesa. Citata qui in parte, essa costituisce una specie di testamento particolare, che ben rivela le idee ed i sentimenti del santo.
Che questa lettera sia rimessa all’umile e generosa donna Maria de los Cobos y Mendoza, sposa del nobile e virtuoso signore don Gonzalo Fernandez di Cordova, duca di Sesa, mio fratello in Nostro Signore Gesù Cristo. In nome di Nostro Signore Gesù Cristo e di Nostra Signora la Vergine Maria sempre pura. Dio prima di tutto e al di sopra di tutto ciò che è al mondo! Amen Gesù!
Il mio grande e costante afletto per voi ed il vostro umile marito, il buon duca, fa si che non posso dimenticarvi; ancor pia che vi sono obbligato, vostro debitore. Non mi avete sempre aiutato e soccorso nelle mie difficoltà e necessità? La vostra carità, le vostre elemosine benedette, hanno nutrito e vestito i poveri di questa casa di Dio e molti altri all’esterno. Voi avete sempre bene agito come buoni mandatari e cavalieri di Gesù Cristo. E’ ciò che mi spinge a scrivervi questa lettera, poiché non so se vi rivedrò e parlerò ancora. Che Gesù Cristo vi visiti e vi parli!
Il grande dolore che accuso mi impedisce di pronunziare la minima parola, e non so se potrò terminare questa mia lettera. Vorrei tanto vedervi; pregate dunque Nostro Signore di concedermi la salute, se è suo volere. Egli sa che ne ho bisogno per salvarmi e fare penitenza dei miei peccati. Se vuole accordarmi questa grazia, appena rimesso verrò a trovarvi…
Mia cara sorella in Gesa Cristo, pensavo di farvi una visita, durante le feste natalizie, ma il Signore ha disposto molto meglio di ciò che meritavo. O buona duchessa, Gesù Cristo vi ricompensi in cielo delle elemosine che mi avete fatto e della carità che mi avete sempre testimoniato! Possa egli ricondurvi sano e salvo il buon duca, vostro generosissimo ed umilissimo sposo, e concedervi dei figli di benedizione; spero in Gesù Cristo che sarà cosi.
Ricordatevi bene di ciò che vi ho detto un giorno a Cabra. Riponete la vostra fiducia in Gesa Cristo solo e da Lui sarete consolata, benché ora sopportiate grandi dolori; perché alla fine avrete maggior felicità e gloria, se li sopportate per amor suo.
O buon duca, o buona duchessa, siate benedetti da Dio, voi e tutti i vostri posteri! Poiché non posso vedervi, vi mando da qui la mia benedizione, indegno peccatore come sono. Dio, che vi ha creati, vi accordi anche la grazia della salvezza! Amen Gesa! La benedizione di Dio Padre, l’amore del Figlio e la grazia dello Spirito Santo siano sempre in voi, in tutti gli uomini ed anche in me! Amen Gesù!
Gesù Cristo vi consoli e vi assista! Poiché per amor suo, voi mi avete aiutato e soccorso, sorella mia in Gesù Cristo, buona ed umile duchessa! Se piace a Nostro Signqre di togliermi dalla vita presente, ho lasciato qui. degli ordini perché al suo ritorno da Corte, dove è andato, il mio compagno Angulo (io ve lo raccomando, giacché lui e sua moglie sono molto poveri) vi rimetta le mie armi: sono tre lettere in filo d’oro su raso rosso. Le conservo dacché sono entrato in lotta con il mondo; custoditele bene unitamente a questa croce, per darle al buon duca, quando Dio ve lo ricondurrà sano e salvo.
Esse sono su raso rosso, per rammentarvi sempre il sangue prezioso che Nostro Signore ha sparso in favore di tutto il genere umano e la sua santissima Passione. In fatti, non v’è contemplazione più sublime di quella della Passione di Gesù Cristo; e chiunque è fedele a questa devozione non si perderà, con l’aiuto divino.
Le lettere sono tre, poiché ci sono tre virta che ci conducono al cielo. La prima è la fede: per essa, noi crediamo in ciò che crede e stima la nostra santa Madre Chiesa, osserviamo i suoi comandamenti e li mettiamo in pratica. La seconda è la carità: carità nei riguardi della nostra anima anzitutto, puri ficandola con la confessione e la penitenza; poi carità verso i nostri simili, volendo per loro tutto ciò che desideriamo per noi stessi. La terza è la speranza in Gesù Cristo solo, perché per le difficoltà e le infermità sopportate in questa vita per amor suo, ci conceda la gloria eterna, considerando i meriti della sua santa Passione e la sua grande misericordia.
Le lettere sono in oro: l’oro, questo metallo cosi prezioso da risplendere ed aver il colore che lo rende pregiato, viene dapprima separato dalla terra e dalla ganga d’origine, poi immerso nel fuoco, dove finisce di decantarsi e purificarsi. Cosi conviene che l’anima, gioiello di grandissimo valore, si distacchi dalle gioie e dai piaceri carnali della terra, non si attacchi che a Gesù Cristo, riceva la sua ultima purificazione nel fuoco della carità, in mezzo alle tribolazioni, ai digiuni, alle austere penitenze, per diventare preziosa agli occhi di Nostro Signore e risplendere davanti, alla maestà divina.
Questa stoffa ha quattro angoli, simboli di altre quattro virta, compagne fedeli delle tre precedenti e che sono: la prudenza, la giustizia, la temperanza e la fortezza. La prudenza ci spinge a pensare ed operare in tutto con circospezione, saggezza e secondo i consigli delle persone pia anziane e con maggior esperienza. Con la giustizia ci regoliamo secondo l’equità e diamo a ciascuno ciò che gli appartiene: a Dio ciò che è di Dio, al mondo ciò che è del mondo. La temperanza ci insegna ad essere moderati nel mangiare, nel bere, nel vestire e in tutto ciò che è necessario per il sostentamento del nostro corpo. In fine, sotto il dominio della fortezza, siamo fermi e felici nel servizio di Dio, mostriamo un volto giovale nelle difficoltà, nelle fatiche, nelle malattie, come nella prosperità e nelle consolazioni, e rendiamo grazie a Gesù Cristo in ambo i casi.
Sulla parte posteriore di questa stoffa, una croce a forma di X rammenta che chiunque desidera salvarsi deve portare la sua croce secondo la volontà divina e la grazia ricevuta. Tutti, infatti, mirano allo stesso scopo, ma ciascuno procede per la strada su cui il Signore lo conduce.
Tutto questo, buona duchessa, voi lo sapete meglio di me e nondimeno provo piacere a parlarne con qualcuno che mi comprende…
Cara sorella in Gesù Cristo, il male mi fa soffrire molto e non mi permette pia di scrivere; desidero riposarmi un po’, per potervi scrivere in seguito pia a lungo, perché non so se ci rivedremo ancora. Gesù Cristo sia con voi e la vostra famiglia…
Questa frase, rimasta incompiuta, è probabilmente l’ultima scritta da Giovanni di Dio, poco prima di morire.
XVI. MORTE DI GIOVANNI DI DIO
Gli abitanti di Granata non vedevano più Giovanni di Dio percorrere le strade per la questua. Meravigliati, essi si informarono e quando seppero che era malato al punto di non poter lasciare il letto, si affrettarono a procurargli il necessario e a dare ai poveri ed agli ammalati i loro doni abituali. Da parte loro, le persone ipiù ragguardevoli della città gli testimoniarono il più vivo interesse, gli prodigarono dei soccorsi e si preocicuparono a buon diritto della continuità della sua opera. Essi impegnarono in particolare il fratello Martin, primo compagno del santo, ad assicurargli la tranquillità ed il riposo richiesti dalla malattia ed a sostituirlo provvisoriamente nella direzione dell’ospedale.
Messa al corrente della malattia di Giovanni di Dio, donna Ossorio, sposa di Garcia de Pisa, membro del gran consiglio dei ventiquattro, venne anche a visitarlo. Questa cristiana tanto esemplare, benefattrice abituale dell’ospedale, constatò la gravità del suo stato e lo scarso sollievo che egli riceveva in quel luogo. Circoni Questo capitolo si ispira al racconto di de Castro, semplificandolo. Sono testuali soltanto la frasi in corsivo. dato da poveri, ai quali non sapeva rifiutare nulla, egli non poteva riposarsi. Ella lo pregò dunque caldamente di accettare il trasferimento nella sua casa; lo avrebbe curato, sarebbe rimasto a letto in una camera riscaldata e silenziosa. Fino allora dormiva sulle tavole, col suo cesto come cuscino, e si era in febbraio.
Egli ebbe un bello scusarsi, supplicare che non lo separassero dai suoi poveri,, in mezzo ai quali voleva morire ed essere sepolto. Infine, tuttavia, donna Ana Ossorio, munita di un ordine preciso dell’arcivescovo, riuscì a convincerlo dicendo: « Avete predicato a tutti l’obbedienza, dovete obbedire ora che vi si chiede di farvi curare per delle serie ragioni e per amore di Gesù Cristo ».
Donna Ana Ossorio fece dunque venire una portantina, per condurlo via. Ve lo misero, ma i poveri, sentendo che volevano portar via il loro Padre, la circondarono per opporvisi, tanto lo amavano. Di fronte alla sventura, queste povere persone brandivano le loro uniche armi: gemiti e singhiozzi cosi strazianti che nessun cuore avrebbe potuto rimanervi insensibile. Sconvolto, Giovanni di Dio esclama: « Dio lo sa, fratelli miei, io desideravo morire in mezzo a voi; ma poiché egli vuole che io muoia senza vedervi, che sia fatta la sua volontà! ». Ed impartendo a tutti la sua benedizione, aggiunge:«Fratelli miei, rimanete in pace e, se non ci rivedremo più, pregate per me Nostro Signore».
A queste parole, le grida di desolazione aumentano e provocano in Giovanni di Dio un’emozione così violenta che egli sviene sulla portantina.
Ritornato in sé, lo portano subito dalla dama, per non causargli ulteriore dolore. La casa dei « Pisas »
si trova al numero 22 (oggi 16) di via « Convalecencia », sotto la « Torre de la Vela ». I vicini assistono all’arrivo del povero uomo allo stremo delle forze. Molto in fretta, dunque, la notizia si diffonde a Granata.
Donna Ana Ossorio lo riceve personalmente. E’ un onore per lei averlo nella sua casa. I suoi domestici si affrettano attorno a Giovanni di Dio che è sfinito. Lo trasportano con precauzione in una camera spaziosa del primo piano. Il copriletto di seta verde è stato tolto, il letto è pronto per accogliere il malato. Delicatamente gli tolgono l’abito ruvido e povero e gli fanno indossare un’ampia camicia da notte, nella quale le sue membra indolenzite saranno a loro agio. Per la prima volta indubbiamente, da oltre dieci anni, egli può riposare e dormire tranquillo, troppo debole d’altronde per provare il minimo affanno. I medici verranno; essi somministreranno i loro farmaci più o meno efficaci. A nulla servirà questo riposo; esso procurerà solo una tregua. Infatti la malattia è molto grave, e a quell’epoca – a quanto sembra – senza rimedio. Tutta l’élite di Granata si preoccupa per la salute di quest’uomo senza titoli, senza dignità, senza pretese, ma la cui carità eroica ha conquistato il cuore di tutti. Alla cattedrale, nelle chiese, ma soprattutto nei monasteri e nei conventi, incessanti preghiere si alzano al cielo in favore di questo oscuro straniero, dal cuore magnanimo, inviato da Dio per galvanizzare la cristianità andalusa e castigliana e, quanto prima, per edificare tutta la Chiesa.
Riposatosi un po’, molte persone importanti vennero a visitarlo, riempiendolo di leccornie, in una gara di cortesia. Egli non le assaggiava, ma ringraziava ed apprezzava la carità che li spingeva a fargli del bene. Contemporaneamente, del resto, gli impedivano di vedere i poveri; c’era là un portiere che proibiva loro di entrare poiché, nel vederli, egli piangeva e soffriva. Egli otteneva, se non altro, di far distribuire loro le leccornie ricevute.
Nonostante tutte le cure, il male si aggravava di giorno in giorno. Quando l’arcivescovo apprese che Giovanni di Dio si avvicinava alla fine venne a visitarlo, a consolarlo con sante parole ed incoraggiarlo per il grande viaggio. Prima di lasciarlo, gli disse queste parole: « Se c’è qualcosa che vi addolora, fatemene partecipe; se posso vi porterò rimedio ». – « Padre mio e buon pastore, rispose lui, tre cose mi danno pensiero. La prima: aver servito così poco Nostro Signore, mentre ho ricevuto tanto. La seconda: i bisognosi, le persone uscite dal peccato, dalla via cattiva ed i poveri ritrosi che ho preso a mio carico. L’ultima: questi debiti che ho contratto per Gesù Cristo ». E gli rimette il registro sul quale erano annotati. Il prelato riprese:
« Fratello mio, mi dite che non avete servito Nostro Signore. Ebbene! abbiate fiducia nella sua misericordia. Egli supplirà con i meriti della sua Passione a ciò che vi è mancato. Per quanto concerne i poveri, io li ricevo e prendo a carico mio, com e mio dovere. Quanto ai vostri debiti, fin d’ora li assumo e vi prometto di pagarli, come avreste fatto voi. Di conseguenza, rimanete in pace e non vi preoccupate di nulla. Pensate soltanto alla vostra salvezza e raccomandatevi a Nostro Signore ». Giovanni di Dio trasse un grande conforto dalla visita e dalle promesse del suo prelato. Gli baciò la mano di nuovo e ricevette la benedizione. Poi, dopo aver rivolto al malato qualche parola di consolazione, l’arcivescovo se ne andò e, strada facendo, si recò a visitare l’ospedale.
Molto indebolito, Giovanni di Dio, nel corso della serata di venerdf 7 marzo, ricevette in piena conoscenza il sacramento della penitenza (cosa che faceva d’altronde molto spesso), e gli fu portato Nostro Signore che lui adorò, poiché il suo stato non gli permetteva pia di comunicarsi. Chiamando allora il suo compagno, Antonio Martin, gli affidò i malati, i bisognosi ed i poveri ritrosi e gli comunicò le sue ultime raccomandazioni, poi chiese di rimanere solo per dormire un po’: il suo ultimo riposo su questa terra!
Il sabato 8 marzo, infatti, una mezz’ora dopo il mattutino, arrivato alla fine e rattristato di morire così in quel letto, a suo parere troppo confortevole, Giovanni di Dio, stimolato dalla sua ardente carità, concentra le rimanenti energie, si alza, si trascina come può e sorreggendosi al tavolino rettangolare, si inginocchia per terra. Stringe il crocifisso al petto ansante e; dopo un piccolo momento di silenzio, pronuncia con voce chiara e intelligibile: « Gesù, Gesù, mi rimetto nelle vostre mani! » e rende l’anima al suo Creatore, all’età di 55 anni, l’8 marzo 1550, dopo aver servito i poveri per undici anni nel suo ospedale.
Accadde allora, continua de Castro, una cosa degna d’ammirazione, non riferita di alcun altro santo, tranne di san Paolo, primo eremita: dopo la morte il suo corpo restò fermamente in ginocchio, senza cadere, per la durata di un quarto d’ora. E sarebbe rimasto in quella posizione fino ad ora, se non fosse stato per la semplicità dei presenti. Vedendolo così, essi pensarono che era disdicevole che il corpo si irrigidisse in ginocchio. Per seppellirlo gli fecero perdere quella forma, non senza difficoltà. Molte dame di alto rango e quattro sacerdoti assistettero alla sua morte e tutti rimasero ammirati, rendendo grazie a Nostro Signore per aver concesso al suo servo un genere di morte in completa armonia con la vita.
Secondo una persona che gli fu molto devota, riferisce ancora de Castro, Giovanni di Dio diceva talvolta che sarebbe morto tra il venerdi ed il sabato. Fu così: morì una mezz’ora dopo la mezzanotte. Egli diceva anche che molti avrebbero portato il suo abito a servizio dei poveri, attraverso il mondo intero, e ciò sta per aver inizio, conclude de Castro.
Nella nostra epoca, quella predizione si è pienamente realizzata, giacché san Giovanni di Dio è il patriarca dei figli e delle figlie che continuano la sua opera nelle cinque parti del mondo.
XVII. LE ESEOUIE DI GIOVANNI DI DIO
Fin dal sabato mattina, 8 marzo, donna Ana Ossorio si premurò di annunciare all’arcivescovo, don Pedro Guerrero, la morte di Giovanni di Dio e di consultarlo riguardo le disposizioni da prendere per le esequie.
Questa nobile dama, convinta di avere sotto il proprio tetto il corpo di un santo, volle onorarlo, dopo la sua morte, con sollecitudine maggiore di quella prodigatagli durante la malattia. Ella fece esporre il corpo sopra un letto meraviglioso, ornato con quanto aveva di più sontuoso, in una grande sala. Furono allestiti tre altari, dove sacerdoti secolari e regolari, venuti spontaneamente da tutti i punti della città, celebrarono la messa, senza interruzione, dal sabato mattina fino al mattino di lunedì dieci, giorno fissato per le esequie. Da parte loro, dei fedeli pregavano, senza posa, dinanzi al corpo.
Alla morte di Giovanni di Dio si compì con esattezza ciò che Cristo nostro Redentore ha detto nel suo Vangelo: « Chiunque si abbasserà sarà innalzato » (Mt. 23, 12).
Per tutto il tempo che servì Nostro Signore, egli si sforzò di umiliarsi, di disprezzarsi, di tenersi all’ultimo posto con tutti i mezzi possibili. Da parte sua, Nostro Signore, realizzando pienamente la sua parola, innalzò ed onorò Giovanni di Dio in vita ed in morte: Infatti fecero al suo corpo il pia sontuoso seppellimento che sia mai stato fatto per quello di un principe, di un imperatore o di un monarca di questo mondo.
Se alle esequie di certi principi hanno assistito tante persone altrettanto ragguardevoli e persino di più, i sentimenti che animavano gli uni e gli altri differivano molto. Ora, sono i sentimenti quelli che misurano il vero onore reso. Coloro che assistono alle esequie dei principi lo fanno spesso per adulare i loro successori e piacer loro o anche, talvolta, perché vi sono costretti (i complimenti del mondo non sono di solito di questo tipo?). Per le esequie di Giovanni di Dio fu tutt’altra cosa. Egli era così povero, così’ umile! Non possedeva niente sulla terra. Le persone accorse per onorarlo non potevano dunque essere sospettate di nessuna di quelle tre concupiscenze che, secondo san Giovanni, seducono gli uomini del mondo.
Nondimeno, il giorno in cui si apprese della morte e delle esequie di Giovanni di Dio, una folla di persone di ogni condizione venne in fretta, senza esservi convocata.
Di primo mattino, il lunedì, le strade e le piazze vicine alla casa mortuaria potevano a stento contenere la folla in continuo aumento. La partenza ha luogo alle nove. Si depone la bara aperta sopra una barella riccamente ornata. Quattro gentiluomini della più alta nobiltà: don Enriquez de Ribera, marchese di Tarifa, don Rodrigue Pacheco, marchese di Ceraldo, don Pedro Bobadilla e don Juan de Guevara, la mettono in spalla e si portano fino alla strada. Qui sorse una contestazione per sapere chi doveva allora prenderlo in carico. Il venerabile Padre Carcamo, dei frati minori, ed altri Padri del suo Ordine, si presentano subito:
è a noi, essi dicono, che spetta di portare questo corpo giacché, da vivo, egli ha imitato completamente il nostro Padre san Francesco in povertà, penitenza e rinunzia. Viene quindi lasciato loro per un buon tragitto poi, di quando in quando, gli altri religiosi di tutti gli Ordini si danno il cambio in quel servizio, fino all’arrivo a Nostra Signora della Vittoria.
A causa della moltitudine che si accalca lungo il passaggio, il Corregidor e le guardie civili sono costretti a fare largo ed a canalizzare la folla.
Ecco l’ordine del corteo. In testa, i poveri dell’ospedale di Giovanni di Dio, le donne da lui maritate, le ragazze povere e le vedpve, sue protette: tutti con una candela in mano. « Essi piangono e gridano i benefici e le elemosine da lui ricevuti ». Vengono poi le numerosissime confraternite della città, secondo il loro Ordine, con le loro fiaccole, le loro croci e i loro stendardi. Poi, mescolati insieme e portando dei ceri, i chierici ed i religiosi di tutti gli Ordini. Seguono la croce della parrocchia ed il suo clero, il capitolo dei canonici e i dignitari della Chiesa con la loro croce; infine l’arcivescovo ed i cappellani della cappella reale. Viene poi il corpo e appresso, il Corregidor, il gran consiglio dei ventiquattro i giurati della città, i cavalieri ed i signori, tutti gli ufficiali ed avvocati della cancelleria reale ed un’infinità di persone: esse esprimono il loro dolore. Non solo i vecchi cristiani, ma anche i moriscos piangono, narrano nella loro lingua araba il bene, le elemosine ed il buon esempio di Giovanni di Dio e, con grandi grida, ripetono mille benedizioni.
Le campane della Chiesa maggiore, di tutte le parrocchie e di tutti i monasteri della città suonano a morto. Esse sembrano, quasi fossero dotate di ragione voler esprimere un sentimento diverso da quello solito.
Quando il corteo raggiunge la piazzetta davanti all’entrata di Nostra Signora della Vittoria, la bara viene fermata. Vi è ressa, infatti, per entrare’ in chiesa e la folla spinge; non si può più avanzare; si rimane fermi per molto tempo… Allora la massa, nella sua ardente devozione verso Giovanni di Dio, che essa non rivedrà mai più, si sforza di guardare, di toccare il corpo, di prenderne qualche reliquia: alcuni fanno toccare i grani del rosario, altri dei libri di preghiere e diversi oggetti per loro consolazione. Quegli appassionati si serrano tanto fitti attorno al corpo, i loro pianti e le loro grida sono così veementi, che non li si può allontanare in alcun modo, né con la preghiera né con la forza. Se Dio non avesse badato a farli allontanare, avrebbero ridotto a pezzi anche la bara, per prenderli come ricordi.
Finalmente, i portatori possono introdurre il corpo in chiesa; i religiosi Minimi rimasti in convento con a capo il loro superiore generale, allora a Granata, lo ricevono, io portano e io pongono ‘sopra un ricco catafalco innalzato nel coro. Questo Padre generale presiede All’ospedale dei compagni di Giovanni di Dio, non vi era chiesa in cui poteva essere sepolto; costoro accettarono dunque l’offerta della famiglia Pisa: si inumò Giovanni di Dio nella tomba di quella famiglia, situata in una cappella laterale della chiesa di Nostra Signora della Vittoria.
Nei due giorni successivi si cantò ancora la messa con la stessa solennità; vi fu la predica alla presenza di una grande folla e si celebrarono molte altre messe. A Granata non si predicò per pia di un anno senza fare allusione a Giovanni di Dio ed alla sua vita, sia per addurre una prova alla tesi avanzata, sia per fornire un esempio al popolo.
Venti anni dopo quel giorno, scrive de Castro, alcuni cavalieri, desiderosi di vedere il corpo di Giovanni di Dio, entrarono nella tomba e lo trovarono intatto. Senza traccia di corruzione, tranne sull’estremità del naso. Ne rimasero meravigliati, poiché non ci si era preoccupati di imbalsamarlo.
Su quella tomba appena chiusa, i numerosi amici di Giovanni di Dio, certi della sua autorità presso il Signore, vennero ad implorare la sua intercessione ed a sollecitare delle grazie spirituali e temporali. Ben presto, vi furono molti miracoli e la reputazione di santità del defunto si diffuse sempre più.
Questi eventi portarono i discepoli diretti di Giovanni di Dio a tendere verso due obiettivi: ottenere che il corpo del servo di Dio fosse loro restituito ed iniziare le pratiche per ottenere la sua beatificazione.
Qui ci interessa solo il primo obiettivo. Esso fu raggiunto gradualmente. Il 6 settembre 1625, il nunzio apostolico ordinò di estrarre il corpo di Giovanni di Dio dalla tomba della famiglia Pisa-Ossorio e di collocarlo da solo sotto l’altare della stessa cappella.
Poi, dopo molte pratiche presso i superiori generali dei Minimi ed un intervento della Santa Sede, il padre Ferdinando d’Estrella, priore generale dei fratelli ospedalieri di Spagna, il 28 novembre 1664, ottenne la traslazione del corpo di Giovanni di Dio nella modesta chiesa ad una sola navata, acquistata da Antonio Martin nel 1552, annessa al nuovo ospedale che si intitola a Giovanni di Dio.
Un secolo più tardi, essendo stato ingrandito l’ospedale di Giovanni di Dio, il padre Alfonso di Gesù Ortega, priore generale dei fratelli ospedalieri di Spagna, iniziò la costruzione di una nuova e magnifica chiesa di stile corinzio. Iniziata nel 1735, essa fu ultimata nel 1741. Un « camarin », situato dietro e al di sopra dell’altare principale, ospita un’urna in argento massiccio contenente i resti di Giovanni di Dio.
Il 20 dicembre 1920, il papa Benedetto XV concesse a questa chiesa il titolo di basilica minore.
XVIII. L’UOMO – IL SANTO
All’epoca in cui de Castro iniziò la biografia di Giovanni di Dio, verso il 1580, trent’anni dopo la morte del suo eroe, v’erano ancora a Granata molte persone che l’avevano conosciuto. L’autore avrebbe quindi potuto darcene un autentico ritratto fisico. Egli non ne sentì il bisogno. Leggendolo si apprende, senz’altro, che Giovanni di Dio, all’inizio della sua opera ospedaliera e sociale, era un uomo solido e vigoroso.
Al contrario, verso il 1620, quando Govea, suo secondo biografo, abbozzò la sua opera, i testimoni diretti della vita di Giovanni di Dio erano diventati molto rari ed anziani. Tuttavia Govea, più sensibile di de Castro all’aspetto esteriore del santo ospedaliero, si sforzò di descriverlo facendo del suo meglio: Era, egli dice, un uomo grande, dalla barba e dai capelli neri, dalla corporatura atletica e atto a diventare un soldato.
Checché ne sia dell’esattezza di questa descrizione, essa ha ispirato, è un dato incontestabile, tutti gli scultori e pittori del XVII secolo incaricati di raffigurare Giovanni di Dio. Gli scultori: Augustin Ruiz, Diego de Mora, Pedro de Mena (1620-1693) e José Risueno (1665-1732), come i pittori dello stesso periodo: Herrera el Viejo (1576-1656), José de Ribera (1588-1656), Francisco Zurbaran (1598-1662), Murillo (1617-1682) pongono dinnanzi ai nostri occhi un Giovanni di Dio molto grande, reso ancor più alto da un abito religioso che gli arriva fino ai piedi. Ora, Giovanni di Dio non portò mai un simile abito. Esso fu dato ai suoi discepoli dal papa san Pio V il 1° gennaio 1572, 22 anni dopo la morte del santo. Tuttavia, Govea non poteva ignorare la deposizione di Antonio Rodriguez, 17° testimone al processo di beatificazione di Giovanni di Dio, nel 1622, tre anni prima della pubblicazione della sua opera. Ora, cosa dichiara Antonio Rodriguez, un tempo portinaio presso l’arcivescovado di Granata, abituato quindi a causa delle sue mansioni a squadrare le persone? « Antonio Martin era un uomo grande, aveva in capo un berretto rosso, e Giovanni di Dio un uomo pia piccolo, vigoroso, magro e minuto di volto. Egli andava scalzo, portava soltanto calzoni di tela ed un mantello di stoffa grossolana, stretto da una cintura e che arrivava sopra il ginocchio. Aveva la barba e i capelli corti e camminava a capo scoperto. Entrambi soccorrevano i poveri con grande carità ».
Questa descrizione è del tutto conforme ad una scultura in legno anteriore al 1579. In base a questa opera, Giovanni di Dio in ginocchio appare di una statura appena sopra la media e indossa un abito corto un po’ speciale ma non religioso, che gli era stato imposto da don Sebastiano Ramirez di Fuenleal, prima del 20 gennaio 1540.
Ecco perché anche il busto di Giovanni di Dio (eccezion fatta dell’abito) attribuito a Pedro Raxis (1580-1616), e soprattutto la testa di Giovanni di Dio scolpita policroma da Alonso Cano (1601-1667), ci sembrano avvicinarsi maggiormente alla realtà.
Sintetizzando i dati precedenti, si può, a quanto pare, figurarsi così Giovanni di Dio all’inizio della sua vita ospedaliera: di statura leggermente superiore alla media, egli è agile, ben fatto, il volto magro e bruno, la barba e i capelli bruno scuri, la fronte ampia e libera, gli occhi neri e penetranti; l’insieme del volto, dall’aspetto meditativo, riflette una certa tristezza compassionevole e, a tratti, un’angoscia difficilmente contenuta.
Del resto, i diversi episodi della vita di Giovanni di Dio ci hanno già permesso di cogliere da vicino molti aspetti del suo temperamento, del suo carattere, della sua vita psicologica e morale. Uno studio sistematico, fatto con obiettività dal Padre Vincente Parra Sanchez s.j., secondo il metodo rigoroso di Sheldon, arricchisce ulteriormente la nostra documentazione
Tenendo conto di tutti questi dati, Giovanni Cidade, in gioventù, sembra dotato di un temperamento emotivo, estroso, talvolta persino impulsivo. Di una viva sensibilità, egli è naturalmente affabile con tutti. Pronto nel decidersi, egli ama il rischio, l’avventura, la vita libera e fugge la costrizione. E’ accessibile all’amor proprio, alla vanagloria, che lo portano ad iniziative rischiose e persino ad eccessi sanciti da gravi prove fisiche e morali. Queste prove, considerate sempre più da Giovanni come conseguenze dei suoi errori, determineranno in lui dei rimorsi cocenti, mantenendolo a lungo in uno stato di contrizione e di pentimento gradatamente accentuato. Una tale disposizione porterà, lo si è constatato, ad un passeggero crollo nervoso, ma emergerà a più riprese sotto forma di angosce, più o meno vive, nel corso della sua vita ospedaliera.
Giovanni Cidade prenderà così peraltro coscienza della propria debolezza e miseria. Con la grazia del Signore, esse lo porteranno verso un’umiltà profonda, radicale, che gli permette ben presto di sopportare tutte le vessazioni, senza strappargli il minimo lamento, il più piccolo gesto di impazienza. Ancor più, essa gli farà ricercare e persino comprare gli insulti: Se dici ciò in piazza, avrai due reali! (p. 116).
Questa umiltà gli diverrà connaturale; essa consumerà le tracce del suo amor proprio, della sua vanagloria di gioventù, la sorgente di tutte le sue disgrazie di altri tempi. Di qui anche quel bisogno costante di rivolgersi ad una direzione spirituale fissa, quella ricerca perseverante del meglio, nell’unione con Dio, la preghiera, il sacrificio, la penitenza, il digiuno e, in partico lare, con quel grido ripetuto senza posa: Signore, concedi la pace alla mia anima e fammi conoscere la strada che devo seguire per arrivare a te.
In fondo, egli realizza in anticipo quanto scriveva più tardi alla duchessa di Sesa. L’oro, questo metallo tanto prezioso, da risplendere ed avere lo splendore che lo fa ammirare, viene dapprima separato dalla terra e dalla ganga originale, poi immerso nel fuoco, dove termina di decantarsi, di purificarsi. Così conviene che l’anima, gioiello di grandissimo valore, si distacchi dalle gioie e dai piaceri carnali della terra, si attacchi a Gesù Cristo solo, riceva la propria purificazione nel fuoco della carità, tra le tribolazioni, i digiuni, le austere penitenze, per diventare preziosa agli occhi di Nostro Signore e risplendente dinnanzi alla maestà divina.
D’ora in poi, basterà che la grazia lo inviti a seguire una strada perché egli vi si inoltri con ardore. Nulla lo ferma. Rimarrà sempre libero in tutte le sue opere ma, spontaneamente, porrà la propria libertà sotto il dominio della grazia. Gli atti realizzati avranno la duplice caratteristica di essere soprannaturali ed umani, di dipendere da Dio e dalla libera volontà dell’uomo.
Questa vita di unione con Dio si manifesterà con orazioni mentali sempre più prolungate e giaculatorie sempre più frequenti. Il Padre Parra Sanchez osserva che, nelle sue sei lettere, Giovanni di Dio cita il nome di Gesù o del Signore 175 volte!
Così ravvivato, il suo amore per Dio si proietterà naturalmente sul suo prossimo e, in particolare, sui poveri ed i sofferenti. Fedele discepolo ed imitatore di Gesù Cristo, egli bruciava dall’unico desiderio di amarlo sopra ogni cosa e di servirlo nella persona di tutti gli uomini, senza eccezione. In breve, è stato detto di Giovanni di Dio in una formula spagnola molto espressiva: Egli aveva un cuore di pietra per se stesso, un cuore quasi materno per il prossimo ed un cuore di fuoco vivo per Dio.
Non si tratta qui di sviluppare la sua concezione della spiritualità. Questo lavoro è già stato fatto in
modo notevole. Sembra tuttavia interessante citare alcuni estratti delle sue lettere, in cui espone ai suoi corrispondenti, in tutta semplicità, ciò che ritiene necessario per ogni cristiano. Queste citazioni avranno inoltre il vantaggio di rivelarci i punti principali delle sue preoccupazioni e del suo apostolato diretto.
Noi abbiamo tre doveri verso Dio, egli scrive alla duchessa di Sesa. Amarlo, servirlo, adorarlo. Amarlo sopra ogni cosa che è al mondo, poiché egli è il nostro Padre celeste; servirlo, egli è Nostro Signore, non per desiderio di gloria con la quale deve gratificare i suoi fedeli, ma per la sua sola bontà; infine adorarlo, perché è il nostro creatore e dobbiamo avere sulle labbra il suo santo nome solo per rendergli grazie e benedirlo.
Buona duchessa, tre occupazioni devono riempire le vostre giornate: la preghiera, il lavoro e le cure da prodigare al vostro corpo.
La preghiera. – Rendete grazie a Gesù Cristo appena vi alzate, al mattino, per i suoi continui favori e benefici nei vostri confronti. Egli vi ha creato a sua immagine e somiglianza. Ci ha fatto la grazia di essere cristiani. Implorate anche la sua misericordia, il suo perdono e pregate Dio per tutti.
Il lavoro. Dobbiamo dedicarci a qualche occupazione corporale onesta per meritare il pane che mangiamo ed anche per imitare Gesa Cristo, che ha lavorato fino alla morte. Niente, del resto, genera pia peccati dell’ozio.
Le cure del corpo. – Come il mulattiere cura e mantiene la propria bestia per servirsene, così conviene che diamo al nostro corpo ciò che è necessario, affinché non ci vengano meno le forze per servire Nostro Signore.
Mia amatissima e carissima sorella, vi prego per amor di Gesù Cristo, abbiate sempre dinnanzi allo Spirito queste tre verità: l’ora della morte, a cui nessuno può sfuggire, le pene dell’inferno, la gloria e l’infinita felicità del paradiso.
La morte, infatti, pensateci bene, distrugge tutto, ci spoglia di tutto ciò che ci ha dato questo miserabile mondo, ci lascia portar solo un pezzo di tela usata e mal cucita. Se moriamo in stato di peccato, i piaceri di breve durata, i divertimenti tanto passeggeri, dovranno essere espiati nel fuoco dell’inferno. La gloria e la felicità, al contrario, Nostro Signore li riserva ai propri servitori. Sono felicità che l’occhio non ha mai visto, che l’orecchio non ha mai udito e che il cuore dell’uomo non ha mai provato.
Rivolgendosi a persone sposate, Giovanni di Dio non dimentica di rammentare loro la dignità del loro stato, e prodiga eccellenti consigli.
Noi tutti tendiamo allo stesso scopo, ciascuno, èvero, seguendo la strada scelta da Dio… Alcuni sono religiosi, altri chierici, altri eremiti, ed altri infine sono sposati. Così, in ogni stato, ci si può salvare se lo si vuole… è una ragione per incoraggiare gli uni e gli altri… Ciascuno deve abbracciare lo stato in cui Dio lo chiama.
Quanto ai padri e alle madri, essi non devono preoccuparsi e tormentarsi troppo a questo proposito, ma pregare Dio di concedere a tutti i loro figliuoli lo stato di grazia. Quando Dio vorrà, uno si sposerà e l’altro canterà messa, e di tutto questo io non so nulla, Dio sa tutto… E’ Lui che conosce meglio ciò che occorre fare dei vostri figli e figlie e, qualunque cosa Egli decida, voi dovete ritenerla per fatta e ben fatta.
Non può tuttavia tacere con loro’ ciò che gli stava maggiormente a cuore e, in modo indiretto, termina con una lezione di fede e di carità fraterna: « Che il Signore mi faccia la grazia di professare e di credere tutto ciò che crede la nostra santa Madre Chiesa) io lo professo e credo fermamente. Come lei lo professa e crede, così io lo professo e credo: da ciò non voglio allontanarmi, vi ho posto il mio sigillo, lo chiudo con La mia chiave… Se considerassimo la grandezza della misericordia divina, mai cesseremmo di fare il bene quando lo possiamo; poiché, dando ai poveri per amor suo ciò che egli stesso ci ha dato, è il centuplo ciò che egli ci promette nella sua beata eternità. O beato beneficio, o beati interessi! Chi non darebbe tutto ciò che possiede a questo benedetto creditore che, con noi, fa un così buon affare e ci prega a braccia aperte di convertirci, di piangere i nostri peccati, di fare la carità alle nostre anime e poi ai nostri simili; poiché come l’acqua estingue il fuoco, cosE la carità soffoca il peccato ».
Non si può dare una conclusione più sicura a questo esposto di queste righe di Pio XII indirizzate al
Padre Ephrem Blandeau, allora priore generale dell’Ordine di san Giovanni di Dio, in occasione del IV centenario della morte del santo. « Voi conoscete perfettamente i grandi ostacoli e le molteplici difficoltà che egli ha dovuto superare nella sua natura per giungerè alla pratica delle virta cristiane. Egli le acquistava solo al prezzo di uno sforzo quotidiano e di una lotta senza pietà. Guidato e sostenuto in questa via dalla grazia, sotto l’impulso di una volontà che non ammetteva cedimenti, egli sali sempre con passo pia rapido fino alla vetta della pia alta santità. Egli si è trasformato a! punto da suscitare l’ammirazione generale e diventare l’angelo tutelare dei malati e dei poveri. Voi sapete anche con quale soavità si sforzò di porre rimedio con tutti i mezzi ad ogni sorta di miserie, di infermità e di angosce. Stimolato dall’amore divino, non si accontentava di guarire le malattie del corpo, di dare, in base ai suoi mezzi, il pane agli affamati, gli abiti ai poveri in stracci, un ospedale ai vecchi ed agli abbandonati; ma dispensava anche alle loro anime la luce celeste ed i divini conforti, per innalzarli alla speranzà della beatitudine eterna. Ecco la sacra eredità che egli vi ha lasciato ».
XIX. GLORIFICAZIONE DI GIOVANNI DI DIO
La morte di Giovanni di Dio ebbe una risonanza straordinaria in Spagna e in Portogallo. All’unanimità fu lodata la sua azione. Il popolo lo chiamò « Padre dei poveri », i grandi di Spagna la « meraviglia di Grata » e l’opinione pubblica « l’onore del suo tempo ».
Sulla sua tomba e in diverse regioni si moltiplicarono i miracoli dovuti alla sua intercessione. Il processo di beatificazione, iniziato fin dal 1622, fu attivamente seguito, poi esaminato e discusso dai membri della Congregazione dei Riti, su domanda del relatore, il cardinale Pietro Maria Borghese, proponente la causa. Costoro decisero all’unanimità, il 28 giugno 1630, che si poteva con tutta certezza, col consenso di Sua Santità, concedergli il titolo di beato.
Messi al corrente di questa importante decisione, Ferdinando Il, imperatore di Germania, Filippo IV, re di Spagna, Isabella di Francia, sua sposa, la regina madre Maria dei Medici, che aveva introdotto in Francia i fratelli di Giovanni di Dio (1601), numerosi altri principi ed i superiori dei religiosi ospedalieri, si affrettarono a pregare il pontefice di procedere alla beatificazione.
Consentendo a tutte queste domande, Urbano VIII, con lettera apostolica del 21 settembre 1630, dichiarò beato l’umile fratello Giovanni di Dio.
La beatificazione fu celebrata tanto a Roma e in Italia che a Granata, a Montemor-o-Novo e in tutta la penisola iberica con grande magnificenza. In nessun luogo, tuttavia, queste feste furono tanto brillanti come a Parigi. Messer Giovanni di Loyac, sacerdote, protonotario della Santa Sede, consigliere, elemosiniere e predicatore ordinario del Re e abate di Nostra Signora di Gondon, nella sua opera « Il trionfo della Carità nella vita del Beato Giovanni di Dio », apparso a Parigi, presso Antonio Chrétien, nel 1661, ce le riporta con dovizia di dettagli, con compiacenza e candore deliziosi. Li riassumiamo qui; tuttavia i testi più significativi saranno riportati senza alcuna modifica.
La bolla di beatificazione di Giovanni di Dio fu pubblicata a Parigi nel gennaio 1631, ma la solennità fu differita all’8 marzo successivo.
Maria dei Medici, reggente e madre del re Luigi XIII, prima di partire per la Piccardia, incaricò l’abate di Loyac e il Padre Priore della Charité de Paris di preparare le solennità per quel giorno.
Le decorazioni della chiesa della Carità, scrive l’abate di Loyac, furono cosi ricche e belle che non si sapeva ciò che si doveva maggiormente ammirare, se i preziosi addobbi che l’ornavano, o la loro ingegnosa disposizione. Tutte le pareti erano ricoperte da tappezzerie d’oro e di seta. In mezzo alla navata, un candeliere alto dodici piedi (3 m. e 90) e una circonferenza di trenta quattro (11 m. e 20) serviva da base all’immagine del beato, cosi naturale da farlo sembrare pia un uomo vivo che non il suo ritratto. Questo deliere era pieno di cosi tante candele, che la loro luce offuscava la luce del giorno. Esso era sorretto dalle sette opere di misericordia corporale, raffigurate in atteggiamenti cosi devoti e magnifici che non vi era niente da desiderare. Una balaustrata di colonne di marmo, di diaspro, d’oro, di lapislazzoli divideva la navata dall’altare principale e sosteneva un’arcata in cui erano raffigurate le principali azioni del santo uomo…
Questa augusta pompa iniziò il venerdi, 7 marzo, con l’esposizione del SS. Sacramento, fatta dal vescovo di Mende, assistito dai vescovi di Betlemme e di Dardania…
Diversi cori cantarono i vespri e l’abate Berthier, divenuto dopo vescovo di Montauban, fece un’eloquente omelia. Il sabato, giorno della festa, la « celebrità »ricominciò con un melodioso concerto di campane…
La chiesa era piena fin dall’alba. Il Padre Bernardo, detto il sacerdote povero, celebrò la messa del mattino e comunicò tutti i religiosi ed i poveri che dovevano assistere alla processione…
I cento svizzeri del Re erano venuti per impedire la confusione, il disordine in chiesa, nell’ospedale e lungo le vie per le quali doveva passare la processione… La processione usci di chiesa verso le nove e percorse tutte le strade principali di questo grande sobborgo òcittà di Saint-Germain-des-Prés, in questo ordine.
Un ufficiale delle Guardie e dodici svizzeri del re precedevano la croce, portata da un religioso che indossava un camice, con due accoliti a lato che portavano le candele. Veniva poi l’abate di Rostaing, figlio del marchese di Rostaing, che indossava un rocchetto e portava uno stendardo sul quale erano scritte, a caratteri d’oro, le seguenti parole « Domine salvum fac regem ». Venti poveri vestiti a nuovo, in grigio, ed aventi ciascuno ‘una candela nella mano sinistra ed un rosario nella destra, seguivano lo stendardo con molta modestia. Dietro a loro c’erano sei bambini di bell’aspetto, vestiti da angeli, che portavano delle candele accese, con emblemi composti in onore del beato.
Avanzavano poi con un accompagnamento identico, che Giovanni di Loyac non si stanca di enumerare al punto da suscitare l’ilarità, altri otto stendardi…. Poi, per ultimo, lo stendardo del beato Giovanni di Dio portato dall’abate Bernardo, il sacerdote povero, circondato dai religiosi.
Venivano poi cinquanta cantori, divisi in diversi cori, che riempivano l’aria di una melodia così piacevole e devota, che si restava ugualmente sorpresi del fascino delle loro voci e della loro modestia. Ottanta ecclesiastici, tutti con ricchi piviali, seguivano a due a due, poi quattordici diaconi con tuniche ed infine il vescovo di Mende, assistito dai vescovi di Betlemme e di Dardania…, seguito da una folla innumerevole.
Dopo questa processione, il pio prelato celebrò pontificalmente la Messa cantata. Il pomeriggio furono cantati i vespri alla presenza della regina Anna d’Austria e delle principesse della Corte. Verso sera, si fece una processione nelle infermerie…
Il giorno dopo, domenica, il re Luigi XIII venne di buon mattino ad ascoltare la messa, adorò a lungo il SS. Sacramento, con la solita devozione, e tornò attraverso le infermerie… Il vescovo di Mende celebrò pontificalmente la Messa cantata verso le dieci…
Alle tredici, i cardinali di Richelieu e de la Valette, accompagnati dal nunzio del Papa, dagli arcivescovi di Parigi, di Bordeaux, di Rouen e da circa altri quaranta prelati, vennero ad ascoltare i vespri e la nostra predica – la predica di Loyac, abate di Gondon -, che ebbe tanto successo per bontà divina che dopo due giorni il re ci onorò dell’incarico di suo predicatore ordinario… Sua Eminenza de Richelieu, protettore ed insigne benefattore di questo Ordine, condusse, dopo la predica, la sua compagnia nelle infermerie e si occupò a lungo a consolare ed esortare i malati, offrendo a tutti i prelati del suo seguito l’esempio di una singolare pietà..2.
La sera ci furono i fuochi artificiali nel cortile dell’ospedale. Erano cosi belli che i parigini dicevano di non averne mai visti di tanto ingegnosi.
Queste solennità della beatificazione di Giovanni di Dio ebbero in Francia un prolungamento storico
troppo poco conosciuto. In occasione della pace dei Pirenei, firmata dal Cardinale Mazarino, ministro di Luigi XIV, e da don Luigi de Haro, ministro di Filippo IV, il 7 novembre 1659, nell’isola dei Fagiani sulla Bidassoa, Filippo IV, quale pegno prezioso di quella pace appena giurata e conclusa, offri’ ad Anna d’Austria, la regina madre, sua sorella, una preziosa reliquia del beato Giovanni di Dio.
La nostra piissima regina, scrive l’abate di Loyac, la trovò racchiusa in un magnifico reliquiario d’argento dorato e cesellato… Non appena Sua Maestà ebbe ricevuto la cassa che conteneva il prezioso pegno della conclusione e della stabilità della pace, andò nel suo oratorio per renderne grazie a Dio, e mandò a dire ai superiori della « Carità di Parigi » di venire a trovarla al castello del Louvre. Quando il fratello Dauphin Ville, vicario generale e provinciale di Francia, accompagnato dal fratello Angelo Papillon, priore del « convento-ospedale della Carità » furono arrivati, Sua Maestà volle aprire la cassa in lòro presenza… Mentre aprivano quella cassa, a forma di piramide e chiusa a chiave, il re (Luigi XIV) entrò nella stanza, accompagnato dal fratello, dal principe duca d’Enghien e dal conte d’Harcourt. La regina disse al vescovo di Amiens di prendere il reliquiario racchiuso in un ricco astuccio di marocchino rosso cremisi, tutto tempestato di chiodini d’oro. Quel degno vescovo, avendolo aperto, vi trovò una reliquia tratta dal braccio destro del beato Giovanni di Dio e che è l’osso che i medici ed i chirurghi chiamano radio. Avendola presa con riverenza, le loro Maestà si prostrarono e la venerarono profondamente. Poi la regina consegna ai suddetti fratelli Dauphin Ville ed Angelo Papillon la dichiarazione autentica che il re cattolico, suo fratello, aveva allegato al suo dispaccio, perché la facessero tradurre dallo spagnolo in francese: il che facemmo (de Loyac). Quando questi buoni religiosi riportarono l’originale spagnolo a Sua Maestà, ella donò loro il reliquiario e la reliquia… l’incomparabile regina desiderava che i religiosi e i poveri di quest’ospedale avessero la consolazione e il vantaggio di conservare nella loro chiesa il prezioso pegno della conferma pubblica della stabilità della pace.
Dopo la beatificazione di Giovanni di Dio, la devozione del popolo nei suoi confronti, lungi dal diminuire, aumentò di giorno in giorno e il Signore operò nuovi miracoli per intercessione del suo servo. E’ per questo che lo studio della sua causa fu ripreso nel 1667, sotto il pontificato di Clemente IX. Nel mese di ottobre di quell’anno, il papa in persona presiedette la Sacra Congregazione dei Riti, dove udì la relazione di molti miracoli attribuiti all’intercessione del beato. Questi fatti, in seguito esaminati più da vicino, furono tutti riconosciuti e dichiarati autentici. Tuttavia, sotto il pontificato successivo, il relatore della causa, il cardinale Gaspare Carpini, ne ammise soltanto due. Uno era avvenuto a Napoli e riguardava la pronta guarigione di Giovanni Marino, paralizzato alle cosce ed alle gambe da sette anni… Il secondo era accaduto a Roma e concerneva Isabella Arcelli, guarita istantaneamente da « pustole maligne e da tumori pestilenziali sulle spalle », senza alcuna traccia di cicatrici. Dopo aver sentito il rapporto del cardinale Gaspare Carpini, sui due processi verbali redatti a Napoli e a Roma, e dopo aver ascoltato le osservazioni dei consultori ed il parere dei cardinali preposti alla Sacra Congregazione dei Riti, il papa Innocenzo XI, il 13 giugno 1679, dichiarò, che si poteva – con tutta certezza – procedere alla canonizzazione del beato Giovanni di Dio, secondo l’ordine della santa romana Chiesa e la disposizione dei sacri canoni. Innocenzo XI morì prima di aver celebrato tale canonizzazione. Essa subi di conseguenza un certo ritardo.
Il nuovo papa Alessandro VIII si trovò di fronte ad una causa istruita e pienamente giustificata e, dopo aver sentito il parere dei cardinali, cedette alle sollecitazioni di Leopoldo I, imperatore di Germania, di Carlo Il, re di Spagna, di Pietro Il, re del Portogallo, di Giovanni Sobieski, re di Polonia e dell’intero Ordine dei fratelli del beato Giovanni di Dio.
Circondato da cardinali, patriarchi, arcivescovi e vescovi presenti in san Pietro, dalla Corte romana e da un popolo entusiasta, il Papa procedette, il 16 ottobre 1690, alla canonizzazione di Giovanni di Dio, cantò il Te Deum, celebrò solennemente la messa e benedisse i presenti.
In quello stesso giorno furono canonizzati i beati Lorenzo Giustiniani, Giovanni da Capestrano, Giovanni di San Facondo e Pasquale Baylon.
Alessandro VIII mori il 1° ebbraio 1691, dopo aver preparato la bolla di canonizzazione di Giovanni di Dio, ma senza averla spedita. Il suo successore Innocenzo XII la pubblicò il 15 luglio 1691, quarto giorno dalla sua elezione al supremo pontificato.
In base a questa bolla, il questuante di Granata fu iscritto nel catalogo dei santi e menzionato nel martirologio romano nei seguenti termini: Granata, in Spagna, san Giovanni di Dio, fondatore dell’Ordine dei fratelli ospedalieri che servono i malati; egli si è distinto per la compassione verso i poveri e il disprezzo di se stesso.
In occasione della canonizzazione di Giovanni di Dio, grandi solennità furono celebrate in tutte le case dell’Ordine. Alla « Carità di Parigi », esse ebbero luogo il 16 agosto 1691: L’illustrissimo signor Carlo Legoux de la Berchère, vescovo di Lavaur e nominato arcivescovo d’Albi, vestito dei suoi paramenti pontificali ed assistito dai suoi ufficiali, iniziò con la lettura della bolla d’Innocenzo XII e del permesso dell’arcivescovo di Parigi. Poi benedisse lo stendardo del santo, i cui quattro lati erano sorretti dai Reverendi Padri Mathias Godé, provinciale e vicario generale, Blaise Chappus, priore della « Carità di Parigi », Barnabé Lancelot, priore della « Carità di Senlis » e Lazare Richer, priore della « Carità di Charenton ». Infine furono cantati i vespri e la benedizione ed il prelato officiò pontificalmente. Questa solennità si protrasse per otto giorni e si concluse con la benedizione, dopo di che si innalzò lo stendardo sulla volta della chiesa.
Leone XIII, col breve « Dives in misericordia » del 22 giugno 1886, dichiarò san Giovanni di Dio e san Camillo de Lellis patroni dei malati e degli ospedali.
Infine, il 28 agosto 1930, il papa Pio XI, con il breve « Expedit piane », nominò solennemente san Giovanni di Dio e san Camillo de Lellis celesti patroni delle associazioni cattoliche degli infermieri, come anche degli infermieri ed infermiere di tutti i tempi e di tutti i luoghi.
Così termina questa biografia compilata in base a documenti irrefutabili, tuttavia scarsi ed insufficientemente utilizzati per far rivivere, come converrebbe, la personalità cosi ricca ed interessante di san Giovanni di Dio.
Ci resta solo da esprimere una preghiera ed un augurio.
Una preghiera: quella che la Chiesa pone sulle nostre labbra nel giorno onomastico del santo. Signore, Dio nostro, a san Giovanni di Dio che ardeva del tuo amore, hai permesso di attraversare senza danno le fiamme e, da lui hai fatto nascere nella tua Chiesa una nuova famiglia religiosa; per la sua preghiera e per i suoi meriti, brucia i nostri vizi col fuoco della tua carità e degnati per sempre di guarirci, per Gesù Cristo tuo Figlio…
Un augurio: quello del nostro Ordine, delle congregazioni e confraternite ospedaliere, delle associazioni di infermieri ed infermiere. Che seguendo l’esempio di san Giovanni di Dio, molti giovani continuino a mettersi al servizio di Dio nella persona dei malati e dei poveri!
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