GIUSEPPE LAZZATI SERVO DI DIO -
Posted on agosto 16th, 2009 by Angelo
Posted on Luglio 13th, 2009 di Angelo
Signore, ti ringraziamo perché
fra i segni innumerevoli della Tua benevolenza,
ci doni quello di scoprirTi:
-
– nei volti che ci rivelano un profondo ininterrotto colloquio
interiore con Te, Padre sommamente amato
-
– nei pensieri che ci introducono soavemente
alla conoscenza più profonda e vitale
delle supreme Verità:
Un Dio “totalmente altro” e insieme coinvolto
nelle vicende dell’uomo e del mondo
-
– nei comportamenti che dicono
ricerca appassionata, risposta generosa di amore
a Te e al Tuo disegno di salvezza universale,
nelle alterne vicende della vita,
nelle ore liete e in quelle della prova e del dolore.
Ti ringraziamo, Signore,
per averci dato di scorgerti
nel volto, nei pensieri, nei comportamenti
di Giuseppe Lazzati.
Dona alla Tua Chiesa, a noi,
di poterlo sempre meglio guardare
ed imitare come modello,
di poterlo presto pregare come santo.
Amen
La gioventù (dal 1909 al 1927)
Lazzati è nato a Milano il 22 giugno 1909 ed è stato battezzato nella chiesa di S. Gottardo al Corso il 25 giugno.
Dei suoi anni giovanili, nella Milano di Porta Ticinese, Lazzati non ha quasi mai parlato. Nel 1915 inizia le scuole elementari. Nel 1918 si trasferisce ad Alassio con la famiglia, dove frequenta la quarta elementare e la prima ginnasio. Nel 1920 torna a Milano.
In quell’anno, Lazzati ha undici anni, e la madre, lo iscrive, come i fratelli, all’Associazione studentesca «Santo Stanislao», perchè possa completare la propria formazione spirituale.
L’esperienza associativa avrebbe lasciato in Lazzati un segno profondo e permanente sul piano della formazione spirituale, grazie anche all’incontro con un sacerdote che possedeva uno straordinario carisma e una grande capacità educativa: don Ettore Pozzoni, che Lazzati ha avuto come catechista al suo ingresso nell’Associazione.
Importantissimi per Lazzati sono stati gli esercizi annuali che la «Santo Stanislao» richiedeva ai suoi iscritti. Lazzati vi ha partecipato per la prima volta nel 1922, all’età di tredici anni non ancora compiuti.
Il 1926 ha segnato un momento importante della vita di Lazzati: l’8 luglio è morto suo padre, che aveva appena cinquant’ anni.
Il diciassettenne Giuseppe si è visto così indotto a impegnarsi per il proprio sostentamento con l’impartire ripetizioni, concorrere con successo ad alcune borse di studio e svolgere l’attività di aiutante-economo della «Santo Stanislao».
Anche per questo il suo legame con l’Associazione è divenuto più stretto ed egli ha acquisito un ruolo più significativo di quello di un socio. Con il 1927, infatti, Lazzati cominciava a pubblicare sul «Bollettino» dell’Associazione articoli e note in cui offriva sintesi ragionate delle conferenze tenute nella «Santo Stanislao».
Che il suo legame e il suo ruolo nell’Associazione sia cresciuto nel tempo è anche suggerito dal fatto che, dopo il giugno 1927, conseguita brillantemente la maturità, anziché confluire in altra associazione come suggeriva lo statuto associativo, Lazzati ha continuato a vivere nella «Santo Stanislao» rimanendo a disposizione dei soci minori.
Presidenza diocesana della Gioventù di AC
Lazzati è ancora sotto le armi quando, quasi contemporaneamente, diventa assistente del Prof. Ubaldi, col quale si era laureato il 21 ottobre 1931, e si sente chiamare a impegnarsi nella Gioventù Cattolica milanese da una persona a cui non può dire di no: don Ettore Pozzoni, il suo primo catechista alla Santa Stanislao. Don Pozzoni era Assistente diocesano della Gioventù Cattolica e aveva bisogno di qualcuno che si occupasse, su base diocesana, degli studenti iscritti all’associazione.
È Lazzati stesso che ci ha lasciato una testimonianza del processi di… iniziazione cui lo sottopose don Pozzoni.
«Fu all’inizio degli anni Trenta che don Ettore… venne a pescarmi per introdurmi nell’ambiente della Federazione giovanile di Azione Cattolica, ambiente a me del tutto ignoto per una separazione e, si può dire, estraneità voluta da mons. testa tra la “Santo Stanislao” e l’Azione Cattolica. Fu così che mi trovai a dovermi occupare degli studenti presenti nelle associazioni giovanili e la cosa avvenne sotto lo stimolo e con il sostegno di don Ettore che -lui solo sa il perché – voleva fare del chiuso e timido studente universitario il continuatore dell’organizzazione della Gioventù Cattolica ambrosiana».
Ma il progetto non era quello di avere un nuovo Delegato diocesano degli studenti per aiutarlo in quel settore associativo. Il suo progetto, chiamando Lazzati, era più ambizioso anche se lazzati non ne sapeva nulla; fare di lui il Presidente della Federazione diocesana della Gioventù Cattolica. Progetto che matura non molto dopo nell’Assemblea federale del 13 maggio 1934 che elegge Lazzati Presidente Diocesano.
L’impegno nella Azione Cattolica sarà molto importante per Lazzati. Egli vi sarà impegnato attivamente fino alla deportazione nei Lager tedeschi nel settembre 1943.
È in questo periodo che Lazzati si rivela un vero leader e dimostra di avere uno speciale carisma educativo. Ed è a partire da quegli anni che, per oltre mezzo secolo, Lazzati ha approfondito una doppia intuizione: quella della responsabilità dei laici nella Chiesa e nel mondo e quella del valore cristiano nella realtà secolare.
Della sua esperienza di Presidente Diocesano della Gioventù di Azione Cattolica ha lasciato una bella testimonianza Mons. Pietro Zerbi che lo conobbe allora. Egli ha scritto: “Volendo indicare i tratti fondamentali ed anche i punti di forza della presidenza di Lazzati, comincerei dalla fede. La sua opera di formazione dei giovani cominciò sempre di lì. Voleva una fede forte e consapevole, nutrita di studio teologico, proporzionato alla cultura del singolo si intende – ma seria e approfondita. Come tutti i formatori di anime giovanili, egli aveva perfettamente capito che quello, e solo quello, è il problema fondamentale, risolto il quale tutti gli altri si sciolgono, mentre là dove manca tale premessa, nulla sta in piedi a lungo andare”.
E ancora: “Quando rievoco, prima di tutto per me, una personalità di cristiano, mi piace conoscere, se la cosa è possibile, come pregava; come parlava con Dio, prima che con gli uomini. Posso annotare pochissimo su questo punto; anzi, una cosa sola: l’impressione ricevuta da Lazzati immerso in solitaria preghiera, che ebbi più di una volta alle “quattro giorni”, è una delle più vive e profonde che lui abbia avuto. Non so se mi sia mai accaduto di vedere un uomo pregare così. La parola umana qui non può soccorrere, né mi piace indugiare su questo tema, che si presta alle facili, generiche, esteriori esaltazioni, oppure può indurre alla pretesa di penetrare là dove non è consentito a uomo. Dirò soltanto che non mi meraviglierei di sapere, un giorno, che egli era giunto, nell’orazione, ad un grado molto alto di unione con Dio”.
Gli anni del “Lager” (dal 1943 al 1945)
Lazzati ha ricordato quella dura prova in uno scritto apparso dopo la sua morte:
«Il mattino del 9 settembre 1943, agli ufficiali radunati in Merano nella caserma del 5° Alpini, un ufficiale chiedeva, ad uno ad uno, se sceglievano di essere fedeli al giuramento di fedeltà fatto nel momento in cui erano entrati a far parte dell’esercito o di aderire alle formazioni fasciste. La seconda scelta li avrebbe fatti rientrare nelle loro case, la prima significava la deportazione.Il “sì” alla prima scelta suonò come grido di libertà e caricati sui camion – i soldati e sottufficiali già marciavano inquadrati dai Tedeschi verso lnnsbruck – cominciò quella deportazione che di Lager in lager si sarebbe conclusa con il rientro a Milano il 31 agosto 1945.
lì lager era per tutti una realtà di cui non si aveva esperienza, forse solamente qualche conoscenza indiretta o informazione giornalistica; ma si presentò subito nella sua tragica veste che veniva a dare un singolare peso al sì pronunciato nella caserma di Merano. E non è da meravigliarsi troppo se, dopo le prime settimane di un’esperienza subumana, ricca solamente di pesanti privazioni – da quella della libertà a quella di sufficienti mezzi di sussistenza, di assistenza, di qualche mezzo di informazione e cultura – i meno saldi psicologica-mente tendessero a perdere adeguate misure di controllo della propria dignità, coerente volontà, chiarezza di coscienza».
L’opera politica (dal 1940 al 1953)
“Il cristiano e la città in Giuseppe Lazzati” di Armando Oberti
1. Pensare politicamente Sulle origini di questo progetto le informazioni più puntuali sono quelle che ci ha consegnato mons. Carlo Colombo, che ha raccontato come, nei primi mesi del 1940, due giornalisti cattolici – Raimondo Manzini, allora direttore a Bologna de «l’Avvenire d’Italia», e mons. Busti, direttore a Milano de «l’Italia» – sollecitarono il rettore dell’Università Cattolica, padre Gemelli, ad incoraggiare nell’ambiente accademico una seria riflessione sull’atteggiamento che i cattolici italiani avrebbero dovuto assumere nei confronti della guerra. l’ingresso dell’Italia nel conflitto bellico troncò bruscamente l’incipiente dibattito nell’Ateneo milanese; ma un gruppo di giovani professori continuò ad incontrarsi per discutere ancora su varie tematiche socio-politiche.
A casa di Umberto Padovani, docente di filosofia della religione, si incontrarono più volte i suoi colleghi Dossetti, Fanfani, Vanni Rovighi, Bontadini, lo stesso Colombo, talvolta anche La Pira che viveva già a Firenze. Tra loro anche Lazzati.
Essere più puntuali su quel laboratorio non è possibile, perché tutte le documentazioni degli incontri di casa Padovani, conservate dapprima da Dossetti, furono poi dallo stesso Dossetti bruciate sulle colline reggiane, durante i mesi della militanza partigiana.
Circa l’esperienza maturata da Lazzati in quegli incontri è possibile, comunque, fare due considerazioni. Anzitutto Lazzati in quell’occasione, confrontandosi con i suoi amici sulle dottrine di Aristotele e di Tommaso d’Aquino e leggendo Maritain, si formò un’idea alta e non strumentale della politica, intesa da lui come la più nobile attività degli uomini (di tutti gli uomini), capace di realizzare quel bene comune che è da intendere quale condizione per il massimo sviluppo possibile di ogni persona.
In tal senso la politica si configurò, nel pensiero del giovane Lazzati, come impegno obbligatorio dei cristiani, chiamati da Dio ad ordinare le realtà terrene secondo la loro natura ma sempre in vista dell’integrale umanizzazione dell’uomo. Inoltre Lazzati, in quegli incontri clandestini, si convinse che i cattolici italiani – per varie ragioni storiche, che dall’ostruzionismo fascista alla partecipazione democratica nella vita politica risalivano al non expedit pontificio post-unitario – erano assolutamente impreparati all’impegno politico e che, quindi, dovevano apprendere finalmente a «pensare politicamente».
Era una valutazione in cui gli amici di casa Padovani si autoincludevano, ma nutrendo la consapevolezza e il desiderio di superare l’impasse «[…].
Il giudizio comune degli amici con i quali allora si lavorava, Dossetti, Fanfani, La Pira, era quello di non impegnarci direttamente nell’azione politica. Di non farlo perché non eravamo preparati, non tanto e non solo come singole persone, ma come ambiente cattolico: i cattolici non erano preparati a seguirci sulla strada che andavamo ipotizzando.
Era necessario un lungo, paziente e capillare lavoro di preparazione culturale, non solo di vertice, ma alla base, la quale certamente solo così avrebbe potuto recepire il frutto del nostro lavoro e il significato delle proposte politiche che venivamo facendo».
Lazzati si andava convincendo che l’azione deve essere necessariamente preceduta e preparata dalla formazione; di più: che la formazione è essa stessa azione e impegno di tipo politico. In tal senso, il progetto lazzatiano dimostra, sin dall’inizio, una valenza e uno scopo formativi.
Dopo l’armistizio del 1943 i «professorini» di casa Padovani si dispersero. Dossetti partecipo alla resistenza partigiana; La Pira andò a Roma; Fanfani si rifugiò in Svizzera; Lazzati fu internato in Germania. Ed è nel lager che Lazzati comincia a realizzare il suo progetto.
Negli anni più terribili della guerra, trascorsi in prigionia, egli concepisce l’architettura concettuale della «civitas humana» e la propone gia ai soldati, internati insieme con lui, in piccoli incontri formativi che nutrivano la grande speranza di preparare, nonostante tutto, un futuro migliore.
In morte di Lazzati, Alessandro Natta, ha ricordato quell’esperienza: «Subito trovammo, pur partendo da culture diverse, il terreno e lo scopo di un’opera comune e solidale: quella dell’incoraggiamento morale e della maturazione politica dei tanti prigionieri che, travolti dalla sconfitta e dall’umiliazione nazionale, penavano a darsi ragione degli avvenimenti e a recuperare un ideale e una speranza.
[..] Poi il dialogo tra noi si fece più stringente attorno al tema grande e inedito di quale Italia costruire sulle ceneri della disfatta. Lui cattolico, io laico e già comunista e altri compagni di differenti convinzioni filosofiche e politiche, ci confrontammo, con entusiasmo di costruttori, sui caratteri, i fondamenti, i fini di una nuova comunità nazionale».
Dopo la fine della guerra, i clandestini di casa Padovani uscirono allo scoperto e si ritrovarono tutti impegnati nell’agone politico. Anche Lazzati fu prima pressantemente invitato e poi convinto ad entrare in politica dai suoi giovani colleghi, soprattutto da Dossetti.
Ma gli rimase sempre il dubbio di non essere al proprio posto, tanto da conservare l’impressione di essere stato in quell’occasione quasi «acchiappato da loro e trascinato con loro» come ebbe a confessare pubblicamente in seguito – perché gli pareva di «non tenere così fede al primitivo proposito formativo».
La perplessità tuttavia – non lo impacciò nella militanza politica. Consapevole di scegliere non «una posizione comoda, ma una irta di difficoltà in tutti i sensi», Lazzati si dimise da presidente diocesano della Gioventù di Azione cattolica e si candidò nelle file della Democrazia cristiana per le amministrative di Milano, risultando subito eletto; al primo congresso nazionale del partito, nell’aprile 1946, venne eletto consigliere nazionale, quattordicesimo dei sessanta eletti, e quindi membro della direzione nazionale; il 2 giugno 1946 fu eletto anche all’Assemblea costituente.
Il 18 aprile 1948 fu eletto alla Camera dei deputati e quindi nominato vicepresidente del gruppo parlamentare democristiano e assegnato alle commissioni per l’agricoltura e l’alimentazione prima e per l’istruzione e le belle arti dopo.
Ricordando le ragioni della sua opzione politica, Lazzati spiegò in seguito che essa «non fu scelta spontaneamente ma quasi di necessità»: «sia pure con libera adesione, dovetti cedere nel momento in cui il mio Paese, uscito prostrato, politicamente ed economicamente, dalla tragica vicenda della guerra e della liberazione dal giogo della dittatura fascista, si trovò di fronte al compito immane della ricostruzione. Rientravo da due anni di prigionia e trovavo gli amici, universitari come me, con i quali ci si era culturalmente preparati a quel compito costruttivo, impegnati a un servizio politico diretto cui costringeva l’urgenza e la durezza dell’ora, in vista di assicurare che non andasse nuovamente perduto, sotto segno opposto, quel supremo bene di libertà che si era, faticosamente e ad alto prezzo, riconquistato».
Il periodo della Costituente lo vide protagonista della travagliata ricostruzione del Paese, giocando egli un ruolo importantissimo non solo all’interno dell’Assemblea, ma anche e soprattutto in seno al gruppo dossettiano, personificando il punto di riferimento sicuro e il termine di confronto critico circa la coerenza di quanto il gruppo portava avanti in sede di elaborazione della Carta Costituzionale con i motivi ideali e con i propositi di fondo che costituivano la spinta politico-culturale fondante il gruppo stesso.
In tal senso, se a Dossetti veniva riconosciuta la leadership politica, a Lazzati veniva riconosciuta una leadership etico-religiosa, certamente meno evidente e documentabile, ma non meno importante.
Per Lazzati, insomma, restava prioritario l’impegno a formare a «pensare politicamente».
Tanto più che, durante le campagne elettorali, aveva constatato non solo l’assenza di preparazione politica tra i cattolici, ma anche l’ingenua convinzione diffusa che fosse sufficiente essere buoni cristiani per divenire bravi ed efficaci politici.
A chi gli mostrava questa ingenuità, Lazzati faceva presente la necessità di saper governare, che non si acquisisce con la sincerità dei sentimenti religiosi, ma con la conoscenza tecnica di regole e di meccanismi amministrativi ben precisi («Il bello – commentava – è che un bravo cristiano può mandare in malora un comune, se non sa cosa vuoi dire fare un bilancio»).
Presidenza diocesana della Gioventù di AC
Lazzati è ancora sotto le armi quando, quasi contemporaneamente, diventa assistente del Prof. Ubaldi, col quale si era laureato il 21 ottobre 1931, e si sente chiamare a impegnarsi nella Gioventù Cattolica milanese da una persona a cui non può dire di no: don Ettore Pozzoni, il suo primo catechista alla Santa Stanislao. Don Pozzoni era Assistente diocesano della Gioventù Cattolica e aveva bisogno di qualcuno che si occupasse, su base diocesana, degli studenti iscritti all’associazione.
È Lazzati stesso che ci ha lasciato una testimonianza del processi di… iniziazione cui lo sottopose don Pozzoni.
«Fu all’inizio degli anni Trenta che don Ettore… venne a pescarmi per introdurmi nell’ambiente della Federazione giovanile di Azione Cattolica, ambiente a me del tutto ignoto per una separazione e, si può dire, estraneità voluta da mons. testa tra la “Santo Stanislao” e l’Azione Cattolica. Fu così che mi trovai a dovermi occupare degli studenti presenti nelle associazioni giovanili e la cosa avvenne sotto lo stimolo e con il sostegno di don Ettore che -lui solo sa il perché – voleva fare del chiuso e timido studente universitario il continuatore dell’organizzazione della Gioventù Cattolica ambrosiana».
Ma il progetto non era quello di avere un nuovo Delegato diocesano degli studenti per aiutarlo in quel settore associativo. Il suo progetto, chiamando Lazzati, era più ambizioso anche se lazzati non ne sapeva nulla; fare di lui il Presidente della Federazione diocesana della Gioventù Cattolica. Progetto che matura non molto dopo nell’Assemblea federale del 13 maggio 1934 che elegge Lazzati Presidente Diocesano.
L’impegno nella Azione Cattolica sarà molto importante per Lazzati. Egli vi sarà impegnato attivamente fino alla deportazione nei Lager tedeschi nel settembre 1943.
È in questo periodo che Lazzati si rivela un vero leader e dimostra di avere uno speciale carisma educativo. Ed è a partire da quegli anni che, per oltre mezzo secolo, Lazzati ha approfondito una doppia intuizione: quella della responsabilità dei laici nella Chiesa e nel mondo e quella del valore cristiano nella realtà secolare.
Della sua esperienza di Presidente Diocesano della Gioventù di Azione Cattolica ha lasciato una bella testimonianza Mons. Pietro Zerbi che lo conobbe allora. Egli ha scritto: “Volendo indicare i tratti fondamentali ed anche i punti di forza della presidenza di Lazzati, comincerei dalla fede. La sua opera di formazione dei giovani cominciò sempre di lì. Voleva una fede forte e consapevole, nutrita di studio teologico, proporzionato alla cultura del singolo si intende – ma seria e approfondita.
Come tutti i formatori di anime giovanili, egli aveva perfettamente capito che quello, e solo quello, è il problema fondamentale, risolto il quale tutti gli altri si sciolgono, mentre là dove manca tale premessa, nulla sta in piedi a lungo andare”. E ancora: “Quando rievoco, prima di tutto per me, una personalità di cristiano, mi piace conoscere, se la cosa è possibile, come pregava; come parlava con Dio, prima che con gli uomini.
Posso annotare pochissimo su questo punto; anzi, una cosa sola: l’impressione ricevuta da Lazzati immerso in solitaria preghiera, che ebbi più di uan volta alle “quattro giorni”, è una delle più vive e profonde che lui abbia avuto. Non so se mi sia mai accaduto di vedere un uomo pregare così. La parola umana qui non può soccorrere, nè mi piace indugiare su questo tema, che si presta alle facili, generiche, esteriori esaltazioni, oppure può indurre alla pretesa di penetrare là dove non è consentito a uomo. Dirò soltanto che non mi meraviglierei di sapere, un giorno, che egli era giunto, nell’orazione, ad un grado molto alto di unione con Dio”.
Gli anni del “Lager” (dal 1943 al 1945)
Lazzati ha ricordato quella dura prova in uno scritto apparso dopo la sua morte:
«Il mattino del 9 settembre 1943, agli ufficiali radunati in Merano nella caserma del 5° Alpini, un ufficiale chiedeva, ad uno ad uno, se sceglievano di essere fedeli al giuramento di fedeltà fatto nel momento in cui erano entrati a far parte dell’esercito o di aderire alle formazioni fasciste. La seconda scelta li avrebbe fatti rientrare nelle loro case, la prima significava la deportazione.Il “sì” alla prima scelta suonò come grido di libertà e caricati sui camion – i soldati e sottufficiali già marciavano inquadrati dai Tedeschi verso lnnsbruck – cominciò quella deportazione che di Lager in lager si sarebbe conclusa con il rientro a Milano il 31 agosto 1945.
Lì lager era per tutti una realtà di cui non si aveva esperienza, forse solamente qualche conoscenza indiretta o informazione giornalistica; ma si presentò subito nella sua tragica veste che veniva a dare un singolare peso al sì pronunciato nella caserma di Merano. E non è da meravigliarsi troppo se, dopo le prime settimane di un’esperienza subumana, ricca solamente di pesanti privazioni – da quella della libertà a quella di sufficienti mezzi di sussistenza, di assistenza, di qualche mezzo di informazione e cultura – i meno saldi psicologica-mente tendessero a perdere adeguate misure di controllo della propria dignità, coerente volontà, chiarezza di coscienza».
L’opera politica (dal 1940 al 1953)
“Il cristiano e la città in Giuseppe Lazzati” di Armando Oberti
1. Pensare politicamente Sulle origini di questo progetto le informazioni più puntuali sono quelle che ci ha consegnato mons. Carlo Colombo, che ha raccontato come, nei primi mesi del 1940, due giornalisti cattolici – Raimondo Manzini, allora direttore a Bologna de «l’Avvenire d’Italia», e mons. Busti, direttore a Milano de «l’Italia» – sollecitarono il rettore dell’Università Cattolica, padre Gemelli, ad incoraggiare nell’ambiente accademico una seria riflessione sull’atteggiamento che i cattolici italiani avrebbero dovuto assumere nei confronti della guerra. l’ingresso dell’Italia nel conflitto bellico troncò bruscamente l’incipiente dibattito nell’Ateneo milanese; ma un gruppo di giovani professori continuò ad incontrarsi per discutere ancora su varie tematiche socio-politiche.
A casa di Umberto Padovani, docente di filosofia della religione, si incontrarono più volte i suoi colleghi Dossetti, Fanfani, Vanni Rovighi, Bontadini, lo stesso Colombo, talvolta anche La Pira che viveva già a Firenze. Tra loro anche Lazzati.
Essere più puntuali su quel laboratorio non è possibile, perché tutte le documentazioni degli incontri di casa Padovani, conservate dapprima da Dossetti, furono poi dallo stesso Dossetti bruciate sulle colline reggiane, durante i mesi della militanza partigiana.
Circa l’esperienza maturata da Lazzati in quegli incontri è possibile, comunque, fare due considerazioni. Anzitutto Lazzati in quell’occasione, confrontandosi con i suoi amici sulle dottrine di Aristotele e di Tommaso d’Aquino e leggendo Maritain, si formò un’idea alta e non strumentale della politica, intesa da lui come la più nobile attività degli uomini (di tutti gli uomini), capace di realizzare quel bene comune che è da intendere quale condizione per il massimo sviluppo possibile di ogni persona.
In tal senso la politica si configurò, nel pensiero del giovane Lazzati, come impegno obbligatorio dei cristiani, chiamati da Dio ad ordinare le realtà terrene secondo la loro natura ma sempre in vista dell’integrale umanizzazione dell’uomo. Inoltre Lazzati, in quegli incontri clandestini, si convinse che i cattolici italiani – per varie ragioni storiche, che dall’ostruzionismo fascista alla partecipazione democratica nella vita politica risalivano al non expedit pontificio post-unitario – erano assolutamente impreparati all’impegno politico e che, quindi, dovevano apprendere finalmente a «pensare politicamente».
Era una valutazione in cui gli amici di casa Padovani si autoincludevano, ma nutrendo la consapevolezza e il desiderio di superare l’impasse «[…].
Il giudizio comune degli amici con i quali allora si lavorava, Dossetti, Fanfani, La Pira, era quello di non impegnarci direttamente nell’azione politica. Di non farlo perché non eravamo preparati, non tanto e non solo come singole persone, ma come ambiente cattolico: i cattolici non erano preparati a seguirci sulla strada che andavamo ipotizzando.
Era necessario un lungo, paziente e capillare lavoro di preparazione culturale, non solo di vertice, ma alla base, la quale certamente solo così avrebbe potuto recepire il frutto del nostro lavoro e il significato delle proposte politiche che venivamo facendo».
Lazzati si andava convincendo che l’azione deve essere necessariamente preceduta e preparata dalla formazione; di più: che la formazione è essa stessa azione e impegno di tipo politico. In tal senso, il progetto lazzatiano dimostra, sin dall’inizio, una valenza e uno scopo formativi.
Dopo l’armistizio del 1943 i «professorini» di casa Padovani si dispersero. Dossetti partecipo alla resistenza partigiana; La Pira andò a Roma; Fanfani si rifugiò in Svizzera; Lazzati fu internato in Germania. Ed è nel lager che Lazzati comincia a realizzare il suo progetto.
Negli anni più terribili della guerra, trascorsi in prigionia, egli concepisce l’architettura concettuale della «civitas humana» e la propone gia ai soldati, internati insieme con lui, in piccoli incontri formativi che nutrivano la grande speranza di preparare, nonostante tutto, un futuro migliore.
In morte di Lazzati, Alessandro Natta, ha ricordato quell’esperienza: «Subito trovammo, pur partendo da culture diverse, il terreno e lo scopo di un’opera comune e solidale: quella dell’incoraggiamento morale e della maturazione politica dei tanti prigionieri che, travolti dalla sconfitta e dall’umiliazione nazionale, penavano a darsi ragione degli avvenimenti e a recuperare un ideale e una speranza.
[..] Poi il dialogo tra noi si fece più stringente attorno al tema grande e inedito di quale Italia costruire sulle ceneri della disfatta. Lui cattolico, io laico e già comunista e altri compagni di differenti convinzioni filosofiche e politiche, ci confrontammo, con entusiasmo di costruttori, sui caratteri, i fondamenti, i fini di una nuova comunità nazionale».
Dopo la fine della guerra, i clandestini di casa Padovani uscirono allo scoperto e si ritrovarono tutti impegnati nell’agone politico. Anche Lazzati fu prima pressantemente invitato e poi convinto ad entrare in politica dai suoi giovani colleghi, soprattutto da Dossetti.
Ma gli rimase sempre il dubbio di non essere al proprio posto, tanto da conservare l’impressione di essere stato in quell’occasione quasi «acchiappato da loro e trascinato con loro» come ebbe a confessare pubblicamente in seguito – perché gli pareva di «non tenere così fede al primitivo proposito formativo».
La perplessità tuttavia – non lo impacciò nella militanza politica. Consapevole di scegliere non «una posizione comoda, ma una irta di difficoltà in tutti i sensi», Lazzati si dimise da presidente diocesano della Gioventù di Azione cattolica e si candidò nelle file della Democrazia cristiana per le amministrative di Milano, risultando subito eletto; al primo congresso nazionale del partito, nell’aprile 1946, venne eletto consigliere nazionale, quattordicesimo dei sessanta eletti, e quindi membro della direzione nazionale; il 2 giugno 1946 fu eletto anche all’Assemblea costituente.
Il 18 aprile 1948 fu eletto alla Camera dei deputati e quindi nominato vicepresidente del gruppo parlamentare democristiano e assegnato alle commissioni per l’agricoltura e l’alimentazione prima e per l’istruzione e le belle arti dopo.
Ricordando le ragioni della sua opzione politica, Lazzati spiegò in seguito che essa «non fu scelta spontaneamente ma quasi di necessità»: «sia pure con libera adesione, dovetti cedere nel momento in cui il mio Paese, uscito prostrato, politicamente ed economicamente, dalla tragica vicenda della guerra e della liberazione dal giogo della dittatura fascista, si trovò di fronte al compito immane della ricostruzione. Rientravo da due anni di prigionia e trovavo gli amici, universitari come me, con i quali ci si era culturalmente preparati a quel compito costruttivo, impegnati a un servizio politico diretto cui costringeva l’urgenza e la durezza dell’ora, in vista di assicurare che non andasse nuovamente perduto, sotto segno opposto, quel supremo bene di libertà che si era, faticosamente e ad alto prezzo, riconquistato».
Il periodo della Costituente lo vide protagonista della travagliata ricostruzione del Paese, giocando egli un ruolo importantissimo non solo all’interno dell’Assemblea, ma anche e soprattutto in seno al gruppo dossettiano, personificando il punto di riferimento sicuro e il termine di confronto critico circa la coerenza di quanto il gruppo portava avanti in sede di elaborazione della Carta Costituzionale con i motivi ideali e con i propositi di fondo che costituivano la spinta politico-culturale fondante il gruppo stesso.
In tal senso, se a Dossetti veniva riconosciuta la leadership politica, a Lazzati veniva riconosciuta una leadership etico-religiosa, certamente meno evidente e documentabile, ma non meno importante.
Per Lazzati, insomma, restava prioritario l’impegno a formare a «pensare politicamente».
Tanto più che, durante le campagne elettorali, aveva constatato non solo l’assenza di preparazione politica tra i cattolici, ma anche l’ingenua convinzione diffusa che fosse sufficiente essere buoni cristiani per divenire bravi ed efficaci politici.
A chi gli mostrava questa ingenuità, Lazzati faceva presente la necessità di saper governare, che non si acquisisce con la sincerità dei sentimenti religiosi, ma con la conoscenza tecnica di regole e di meccanismi amministrativi ben precisi («Il bello – commentava – è che un bravo cristiano può mandare in malora un comune, se non sa cosa vuoi dire fare un bilancio»).
Il rettorato
L’Istituto Secolare Cristo RE
“GIUSEPPE LAZZATI: UNA SCELTA E UNA PROPOSTA DI VITA” di
Armando Oberti
Continuando ad essere fedele all’impegno tipico dell’«Associazione Santo Stanislao» di partecipare ad un corso annuale di esercizi spirituali, Giuseppe Lazzati nel mese di maggio del 1931 frequentò un corso presso la casa dei passionisti in Gravate.
Predicatori eccezionali: padre Agostino Gemelli e mons. Francesco Olgiati. Fu l’occasione per un approfondimento della scelta dello stato di vita e per una conseguente decisione così formulata:
« 1 maggio 1931 – 10 venerdì del mese. Ho scelto come mio stato la vita del celibato. Sento in ogni momento la grandezza e la sublimità di questa grazia di Dio giacché, grazie alla castità, potrò unirmi più a Lui, cui consacro anima e como, ed esercitare apostolato più largo ed efficace. Debbo però ricordare che su tale via si deve camminare nella preghiera continua e nel sacrificio. M’assistano la grazia di Dio e la Mamma celeste!»
La scelta allora fatta comportò l’adesione al «Sodalizio Missionari della Regalità», fondato da Gemelli nel 1929, un’associazione di laici consacrati all’apostolato.
Di quel periodo conosciamo pochi dati.
Lazzati nel 1931 iniziava il noviziato arrivava nel 1934 alla consacrazione. Dopo l’interruzione del 1932 dovuta al servizio milltare, riprendeva a frequentare regolarmente anno dopo anno il corso di esercizi spirituali. Un momento cruciale per l’associazione gemelliana è il 1937. In quell’anno prevale nel sodalizio la posizione di coloro – di cui è pensabile Lazzati possa esser stato il leader – che ritengono che il sodalizio stesso debba essere sostanzialmente luogo di formazione, teso a sostenere e stimolare la vita interiore degli associati per l’esercizio di un apostolato laicale da esercitare ciascuno là dove si trova a vivere e operare senza essere legato a nessuna opera e a nessuna specifica formula di Apostolato: né l’Università cattolica, nè l’Azione cattolica, quindi. Gemelli accetta nel 1937 il prevalere di questa posizione. Ma la riflessione successiva lo porta a ritenere che tale posizione produce un vero e proprio snaturamento del suo progetto. Così, a neppure un anno di distanza pone a tutti i membri del sodalizio un vero e proprio aut aut.
Che Lazzati sia stato uno dei principali,sostenitori della linea risultava prevalente nel 1937 è suggerito dal fatto che il 19 maggio 1938 Gemelli gli scrisse una lettera accompagnando la bozza di una circolare che intendeva inviare ai sodali.
In tale circolare, poi spedita a tutti i sodali il 30 maggio 1938 Gemelli riconosceva che l’anno precedente aveva accettato
« [...] le osservazioni di coloro tra voi che affermavano che il sodalizio non deve essere legato alle opere, ma provvedere esclusivamente alla vita interiore dei singoli. E per la stessa indulgenza e debolezza io mi sono lasciato trascinare da molti di voi a deformare l’idea ispiratrice del sodalizio.»
Gemelli, costatato che la linea prevalsa finiva per non risultare più funzionale a ciò che riteneva dovesse essere quella ispiratrice e istitutrice dell’associazione, richiamava chiaramente gli scopi specifici del sodalizio così concludendo: « Invito tutti coloro oggi sono nel nostro pio sodalizio ad un esame di coscienza indispensabile e che si concreta in una questione: «Io ho, o non ho, la vocazione per questo sodalizio? […] Non si tratta di accettare la materialità di un articolo o di uno statuto. Questo sarebbe un’impostura e un tradimento. Si tratta dì avere lo stato d’animo che permetta di vivere lo statuto secondo lo spirito che lo informa. [...] Per la festa del sacro Cuore, giorno 24 giugno, attendo le vostre risposte.» Gemelli, indubbiamente, aveva colto il problema di fondo. La diversità tra la sua idea, il suo progetto e l’idea di Lazzati supponeva l’esistenza di due vocazioni differenti.
Due vocazioni distinte che, peraltro, in generale, supponevano e facevano riferimento a due modalità diverse di vivere la laicità cristiana e rivelavano, in profondità, due modi di concepire il laicato cristiano.
È in quei pochi giorni – tra il 19 maggio ed il 24 giugno 1938 – che intercorrono tra la circolare di Gemelli e la risposta di Lazzati che si consuma uno dei momenti critici, decisivi, per Lazzati.
Conoscendo Lazzati, è evidente che non è in quei giorni di maggio-giugno 1938 che egli costruisce una linea di pensiero e un progetto di vita, sintesi di un modo di concepire e di praticare la vita cristiana.
Tale linea era già formata in lui. Esistevano già in lui convinzioni profonde ed egli sapeva esprimerle in modo convincente. La maturità a Lazzati era tale già allora da aver indotto l’associazione di Gemelli a un mutamento di rotta.
Quei pochi giorni costituiscono, però, un momento decisivo perché è allora che Lazzati decide – e Dio sa con quanto sforzo spirituale e con quanta tensione interiore – che la linea che è venuta costruendosi come comprensione non semplicemente a una propria vocazione, ma, molto di più, di una propria vocazione come componente di un piano, di un’economia (il piano e l’economia della creazione e della redenzione), non è né componibile né compatibile con quella indicata e voluta da Gemelli per il sodalizio da lui creato. Una decisione difficile non solo spiritualmente e intellettualmente, perché si tratta di dire no a un uomo Gemelli – con il quale ha da tempo un rapporto stretto, profondo e che ha avuto un ruolo specialissimo nella sua scelta della laicità consacrata.
Si tratta di dire no a una linea seguita da un gruppo col quale ha condiviso un’esperienza spirituale e intellettuale di grande profondità.
Decisione difficile anche umanamente, perché con tali persone egli dovrà continuare ad avere un rapporto frequente sia nel suo impegno nell’Università, sia nel suo impegno apostolico nell’Azione cattolica. Si tratta di dire un no – e Lazzati ne è consapevole – che coinvolgerà anche altri. Altri che, come lui, sono parte del sodalizio e che, avendo fiducia in lui e sentendolo come punto di riferimento, si uniranno al suo no. Mi pare di poter dire, ragionevolmente, che tutti questi elementi spirituali, psicologici, pratici, debbono essere stati vagliati in profondità da Lazzati in quei giorni.
Verso la Casa del Padre
Nei primi mesi del 1984 i medici hanno riscontrato un tumore e quindi sono intervenuti. All’uscita dalla clinica Lazzati ha ricevuto un telegramma del Crd. Casaroli con espressioni di partecipazione da parte del Santo Padre. Nuovamente ricoverato nel maggio 1986 è stato raggiunto la mattina del giovedì santo da una telefonata del Santo Padre. La mattina del giorno di Pentecoste il 18 maggio 3.22 è venuto a mancare dopo momenti edificanti narrati da P. Bonato che in quei giorni si trovava in clinica per un triduo per le Suore. Punto centrale sta in queste parole di Bonato: «Al termine della confessione mi prese la mano e me la strinse fortemente dicendomi: “Padre, permetta che le baci la mano, intendo baciare la Chiesa“».
Viene sepolto nell’eremo di San Salvatore, sopra Erba, in provincia di Como. Ecco il testamento spirituale che Giuseppe Lazzati ci ha lasciato: «Amate Gesù Cristo, il Sovrano cui abbiamo consacrato la vita, che per primo ci ha amati e si è dato a noi; amatelo appassionatamente, a fatti non a parole, fatti suoi seguaci in vera povertà, in amabile castità, in feconda obbedienza; dandovi per lui, che è dire per la diffusione del suo Regno, senza misura che non sia quella suggerita dalla soprannaturale virtù della prudenza, e nei modi che il vostro amore per lui vi suggerirà, fino alle estreme conseguenze, per usare le parole di papa Paolo VI. Amate la Chiesa, mistero di salvezza del mondo, nella quale prende senso e valore la nostra vocazione che di quel mistero è una singolare manifestazione. Amatela come la vostra Madre, con un amore che è fatto di rispetto e di dedizione, di tenerezza e di operosità. Non vi accada mai di sentirla estranea o di sentirvi estranei a lei; per lei sia dolce lavorare e, se necessario, soffrire. Che se in essa dovreste a motivo di essa soffrire, ricordatevi che vi è Madre: sappiate per essa piangere e tacere.
Amate l’Istituto come quello nel quale la vostra vita prende tutto il suo rilievo e custoditene il carisma con il quale lo Spirito lo ha suscitato nella Chiesa e che ne costituisce tutta la sua ragion d’essere. Tale carisma è la forma secolare della vostra consacrazione: la secolarità! Che l’amore di novità non ve lo faccia perdere; che l’amore per esso vi renda capaci di aggiornare le forme senza intaccarne la sostanza quando esigenze di particolari situazioni lo rendessero necessario.
Amatevi tra voi con sincerità di cuore e aiutatevi, portando gli uni i pesi degli altri, a realizzare la vostra vocazione così che la vostra luce splenda, sotto la custodia dell’umiltà, a testimoniare nel mondo la presenza e la forza dell’Amore, fattia tutti servi, tanto più grandi fossero le responsabilità cui potete essere chiamati.
Perché tutto questo sia, abbiate cure di coloro che il Signore chiama e vi dona e non badate a sacrifici per farne veri servi di Cristo Re, forti, fedeli, ardimentosi.
Questi miei ultimi desideri affido alla Madonna, Regina dell’Istituto, perché il suo aiuto, che non mancherò di supplicare con voi, ve ne faciliti l’attuazione e in grazia della sua protezione ci sia dato, dopo il combattimento sostenuto e il servizio reso a Cristo, alla Chiesa, al mondo, di ritrovarci tutti insieme con lei, «in fine senza fine» nel Regno del Figlio suo e Re nostro.
Christe Rex, adveniat Regnum tuum, per Mariam!»
Storia del quartiere ticinese
Struttura urbanistica milanese e i quartieri
Le mura della Milano medievale erano scandite da sei porte principali e da dodici (o tredici) porte minori (Pusterle).
Il centro della città era costituito dal Palazzo della Ragione, che si trova nell’attuale piazza Mercanti, e che al tempo era difeso da mura, dotate a loro volta di sei porte disposte in direzione delle corrispondenti porte della città.
Le sei porte sono:
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Porta Romana,
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Porta Ticinese,
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Porta Vercellina,
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Porta Comasina,
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Porta Nuova,
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Porta Orientale (Porta Venezia).
Le pusterle sono:
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Pusterla di S. Eufemia,
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Pusterla della Chiusa,
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Pusterla dei Fabbri,
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Pusterla di S. Ambrogio,
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Pusterla Giovia,
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Pusterla delle Azze,
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Pusterla di S. Marco e Beatrice,
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Pusterla del Borgonuovo,
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Pusterla di S. Andrea,
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Pusterla Monforte,
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Pusterla Tosa,
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Pusterla del Bottonuto.
La linea che univa le porte al centro della città costituiva l’asse intorno al quale si sono organizzate le sei zone storiche della città, che prendono originariamente il nome dalle rispettive porte. I “sestrieri” (non, quindi, in senso proprio “quartieri”) si estendevano fino alla cerchia delle mura. Successivamente essi si sono estesi anche al di fuori delle mura, estendendo il triangolo ideale fino ai confini della città e dissolvendosi progressivamente verso la periferia milanese. L’evoluzione urbanistica della città ha ovviamente profondamente alterato il senso di questa partizione ed il suo significato. I tentativi compiuti dall’amministrazione comunale nel corso degli anni di creare una struttura basata su “zone” si è sovrapposta sia alla partizione storica che all’autocoscienza dei cittadini stessi. Tuttavia diversi quartieri milanesi hanno sviluppato nel corso degli anni una propria configurazione caratteristica (anche se articolata) che giustifica l’utilizzo della partizione storica.
Porta Ticinese
Il Sestriere Porta Ticinese (”Porta Cicca”) prende il nome dalla porta Ticinese, che si apre in direzione di Pavia (”Ticinum”), e può essere rappresentato come un triangolo che ha per vertice piazza Mercanti e come lati la linea che univa il vertice alla Pusterla de’ Fabbri (all’incrocio tra Via Cesare Correnti e via De Amicis) e la linea che si estende fino alla Pusterla di S. Eufemia, verso Corso Italia. Nel corso degli anni la delimitazione del quartiere si è estesa verso la periferia seguendo il corso dei Navigli, Corso S. Gottardo e le zone limitrofe, includendo il più tardo rione di Porta Genova. Esistono tuttavia diverse delimitazioni dei confini del quartiere. La partizione storica più rigorosa parte dal Centro e giunge fino alle mura comunali. Una seconda partizione tende ad escludere la zone di Via Torino e a far cominciare il quartiere Ticinese al Carrobbio, per farla giungere tuttavia fino alle mura esterne, in corrispondenza della “Porta Marengo” di P.za XXIV maggio, fatta erigere in onore di Napoleone tra il 1799 ed il 1814. Una partizione più ampia coinvolge l’intera zona compresa tra il Carrobbio e la circonvallazione esterna.
Gli elementi urbanistici fondamentali del quartiere sono costituiti dalla Basilica di S. Lorenzo e dal suo colonnato, dalla Basilica di S. Eustorgio, e dalle “porte” Ticinesi all’inizio e al termine del Corso di Porta Ticinese, oltre che dalla darsena e dai navigli (Naviglio Grande e Pavese) che rappresentano l’ultimo tratto scoperto della cerchia dei navigli che fino ai primi decenni del Novecento circondava Milano.
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