PRIMA DEL CARISMA IL LATTE – Angelo Nocent
Posted on agosto 17th, 2009 by Angelo
Prima del carisma il latte
“Io speriamo che me la cavo”
I tempi sono quello che sono. La pericolosa tentazione che ci assedia e che potrebbe farci soccombere, è la stessa che aveva colpito Israele nel deserto sinaitico: quella dello scoraggiamento, dell’inerzia, della nostalgia.
Il rischio è ancor più elevato se la tentazione prende quegli Ordini Religiosi plurisecolari le cui istituzioni, quali possono essere gli ospedali, non si prestano a quei facili, tempestivi e incalzanti mutamenti che spesso la politica socio-sanitaria impone con disinvoltura, indifferente alle difficoltà economiche che possono provocare certe decisioni, talvolta necessarie, spesso rispondenti alle sollecitazioni del mercato, giacché la sanità va facendosi sempre più boccone appetitoso.
Per chi si trova in simili frangenti, non indicherei tanto una Finanziaria quanto una ricetta sicura ed efficace: la Parola di Dio. Può far sorridere. Ma il suggerimento mi viene dalla Chiesa delle origini, ossia da quella raffinata omelia che è la Lettera agli Ebrei, dove si avverte la grande fede di Paolo che gli ha permesso di spostare montagne di difficoltà incontrate sulla sua strada di missionario. Perché “ la Parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12).
Per chi si abbandona alla lettura degli eventi con spirito di discernimento, quel “viva, efficace, tagliente” altro non è che lo Spirito. Quindi, la forza, la punta di diamante. E, per chi vive ed opera “sotto il segno dello Spirito”, sa di avere dalla sua parte il Pastore che dà sicurezza.
Il titolo è volutamente provocatorio. Preso in prestito dal best seller di Marcello D’Orta, rimanda alla conclusione di un tema in classe di un bambino napoletano delle elementari. Può suonare come una spiritosaggine. In realtà rispecchia molto bene un comune sentire in ambito sanità. Dal paziente alla lunga catena degli operatori sanitari, ogni tanto ognuno è tentato di pronunciare nel segreto della sua anima l’ ”io speriamo che me la cavo”: un misto di preghiera e di timore.
Fino a pochi anni fa l’Ospitalità, il carisma dei Fatebenefratelli, non era oggetto di approfondita riflessione teologica. Lo “spiritum hospitalitatis” era come un bene di famiglia che si tramandava di generazione in generazione e posto sotto la custodia del capostipite, l’intercessore San Giovanni di Dio: “impetra nobis spiritum hospitalitatis”. Poi il termine è entrato nell’ ordinario linguaggio ecclesiale come “accoglienza”, dal significato più riduttivo. Ad un certo punto s’è capito che l’argomento andava approfondito, supportato teologicamente. E, finalmente ha visto la luce il compendio della “Spiritualità dell’Ordine – cammino di ospitalità secondo lo stile di San Giovanni di Dio”, emanato dal Priore Generale P. Pasqual Piles.
L’elegante pubblicazione, alla quale bisognerebbe fare costante riferimento, corre il rischio dell’oblio. E ciò va impedito. I laici impegnati, se esistono, devono battere un colpo e appropriarsene. Perché bisogna evitare che si abusi del termine “ospitalità”, sempre sulle labbra, ma farcito da indigeste parole retoriche.
Nell’introduzione, Fra Pasqual è molto realista: “ci attendono nuove e preziose possibilità, ma anche nuove e terribili minacce. Ci troviamo di fronte ad un tempo che non dominiamo, e nel quale dobbiamo trovare nuovi cammini. In ogni caso, le ripercussioni di questo cambio d’epoca riguardano tutto in noi: spirito e corpo, individuo e società, dimensione profana e trascendenza. Le relazioni umane non sono più le stesse di prima. Scopriamo nuovi aspetti nel rapporto tra sesso maschile e sesso femminile che hanno impresso un nuovo stile alle relazioni tra uomo e donna (tanto nella famiglia, quanto nella società).
Tale constatazione viene molti anni dopo un’altra, ben più autorevole: Paolo VI il 29 giugno del 1972, festa dei santi Pietro e Paolo principi degli apostoli e protettori di Roma, pronunciò nell’omelia parole drammatiche alle quali solo pochi hanno dato peso: “Il fumo di Satana è entrato nel tempio di Dio […]. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. E’ venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio”.
Bene per tutti sarebbe il prendere atto che la sospirata “nuova ospitalità”, data sempre per imminente, stenta a decollare perché non è un nuovo modello di aereo destinato a solcare i cieli del pianeta salute ma un atteggiamento della mente e del cuore, toccati e trasformati da un Evento. Non un’idea astratta, ma una Persona viva, incontrata, affascinante, reale. Se si perde di vista la fonte da cui sgorga, la matrice che la genera, hai voglia…! Perché il suo terreno di coltura è uno solo: la koinonìa. Una volta assimilato il significato di del termine è come trovare la chiave di volta per aprire le porte di questa costruzione fatta di pietre vive. Le opzioni saranno conseguenti, consensuali e gioiose. O koinonìa o la fine di una storia.
Se le mie parole non persuadono,valgano le considerazioni folgoranti del Card. Biffi: “Il cristianesimo, in sé, non è una concezione della realtà, non è un codice di precetti, non è una liturgia. Non è neppure uno slancio di solidarietà umana, né una proposta di fraternità sociale. Anzi, il cristianesimo non è neanche una religione. E’ un avvenimento, un fatto. Un fatto che si compendia in una persona.
Oggi si sente dire che in fondo tutte le religioni si equivalgono, perché ciascuna ha qualcosa di buono. Probabilmente è anche vero. Ma il cristianesimo con questo non c’entra. Perché il cristianesimo non è una religione, ma è Cristo. Cioè una persona.
Io ho puntato su di lui la mia vita, l’unica vita che ho; e quindi sento il bisogno ogni tanto di contemplarne il mistero, di rinfrescare l’identikit di Cristo. Molte volte sentiamo parlare di Gesù Cristo, ma gli unici testi che ci parlano di Cristo sono i Vangeli. Perciò o si sta ai Vangeli, oppure si rinuncia a parlare di lui.” (Intervento a Granarolo).
Ma dire Vangelo equivale a Spirito Santo. Dunque, l’incontro non è con un libro ma con una Persona. La fase due è che questa “bella notizia” che mi scoppia nel cuore, ho bisogno di parteciparla ad altri. E, man mano scatta la koinonìa.
Ma cosa significa questa parola greca? La traduzione obbligata è “comunione” ma solo perché la lingua italiana non ha un corrispettivo e si fatica a coglierne il senso reale, profondo.
Dal verbo greco koinonèo, aver parte, partecipare, koinonìa indica la comunione, l’intimo legame e la relazione fraterna degli uomini tra di loro: si tratta di una relazione umana giuridico-sociologica di solidarietà, di corresponsabilità, di partecipazione che esprime una azione comune o il comune possesso di una cosa. Nel greco classico è riferita anche alla relazione tra la divinità e gli uomini.
In campo cristiano è usata per indicare il modo di vivere, gli atteggiamenti, le situazioni reciproche dei cristiani tra di loro e nella loro comune dipendenza in rapporto a Cristo. In questo contesto significa comunione di cuori e di beni, partecipazione ai bisogni dei fratelli, comunanza di vedute; ma soprattutto comunione con Cristo, partecipazione al suo Corpo e al suo Sangue, al suo Spirito, alle sue sofferenze, al perdono dei peccati, alla speranza di resurrezione. L’ansia apostolica è proprio qui che si origina
Si può stare “insieme per servire”, senza un costante impegno per tenere accesa la riflessione, darsi degli scopi, verificarne la rotta?
Una comunione e solidarietà necessitano di un progetto che abbia due finalità complementari: la produzione (il servizio, l’hospitalitas) ed il mantenimento (la coesione del gruppo, la relazione, la koinonia). Con quali mezzi?
Prima del carisma, il latte:
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una maturazione umana e cristiana adeguata alle esigenze socio-culturali dei nostri giorni;
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una coscienza e riflessione critica dentro gli eventi e le situazioni della nostra storia;
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una ispirazione evangelica di ricerca, di dialogo e di testimonianza nell’impegno personale ed ecclesiale nel proprio ambiente di vita e di lavoro;
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una esperienza comunitaria di fede, condotta sul piano della comunicazione più che su basi territoriali.
Gianfranco Ravasi può aiutarci a scoprirne il senso biblico e a radicarlo nella nostra mente perché diventi creativo.
non è ancora accaduto e le nubi che oscurano il cielo del pianeta salute, fanno presagi, se non tempi infausti e funesti, almeno difficili. No, non intendo indossare i panni del profeta di sventura. Preferirei essere un portatore di quelle certezze che posseggono gli uomini di fede, capaci di resistere a tutte le intemperie. Ho vissuto la primavera della Chiesa Conciliare e continuo a credere nelle speranze che l’ha animata, più forte delle delusioni che non sono mancate in questi anni.
Nel ’69, ossia proprio quarant’anni fa, nel clima post conciliare, ho letto, con grande interesse, oserei dire ruminato “Questa comunità che si chiama Chiesa” di Max Delespesse, edito dalla Jaca Book. L’ho ripreso in mano in questi giorni, ormai sfasciato, ingiallito, pieno di sottolineature e tenuto insieme da un elastico. Non so se quella volta mi ha fatto bene o male. Certamente mi ha influenzato e, riprenderlo in mano in questi giorni, equivale a rievocare un insieme di ricordi cari e nostalgici. Da allora tante cose sono cambiate ma altre sono rimaste ancora sospese.
Le conclusioni cui giungeva l’autore mi sembravano semplici, evidenti e di facile realizzazione. Sull’avvenire della vita religiosa sembrava che l’autore non avesse dubbi: “E’ come il cuore della Chiesa”, diceva. Ergo, verrebbe da dire: se si ferma il cuore, muore la Chiesa.
Ma, nella sua riflessione non mancavano le constatazioni amare e mi piacerebbe che il tempo le avesse dissipate: “Oggi tutto va velocemente ed è ora d’impegnarsi. E impegnarsi, per i religiosi, non vuol dire redigere nuove Costituzioni, ma ricercare nel concreto, il modo di divenire membro a pari titolo di una comunità ordinaria del popolo di Dio. Troppo spesso, durante le mie peregrinazioni, ho constatato che i religiosi e le religiose che lavoravano all’elaborazione dei nuovi statuti non sapevano quello che cercavano veramente. Non avevano un’idea precisa della meta da raggiungere, non avevano uno scopo. A volte non sapevano neppure ciò che rappresentavano ancora nella Chiesa attuale. Questo mi sembra grave. Ora lo scopo è
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la costruzione della comunità cristiana
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e la sua animazione per mezzo della presenza attiva di fratelli e sorelle consacrati, votati esclusivamente ad essa”.
Vorrei far notare che siamo nel 1969. Ma è stato cosi? Non si può generalizzare. Epperò bisogna ammettere che tante delle aspettative sono andate deluse. O attendono di andare in porto. Allora la parola d’ordine era “in comunione con i laici”. Un significato che va ben oltre l’attuale mortificante “collaboratori”, formula che permette di eludere certe domande imbarazzanti come ad esempio quella dei soldi, della condivisione dei beni. Infatti, le conseguenze derivanti della “comunione” sono riportate in Atti 4, 43. Se la Chiesa è teologicamente e storicamente una comunità, questa fusione la si capisce solo a partire dall’Eucaristia. Diversamente, tutto traballa perché si costruisce sulla sabbia del buon senso umano.
Di questa comunità-Chiesa si diceva: “ Dobbiamo dunque riunirci
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per ascoltare la Parola di Dio
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e per celebrare l’Eucaristia: è qui che troviamo il principio della nostra unità.
Ma dobbiamo anche riunirci
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per vivere insieme nella fede in Cristo resuscitato e presente tra noi;
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nella speranza del suo ritorno e della riunificazione definitiva;
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nell’amore che ci unisce a Dio e gli uni agli altri;
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nella povertà che ci fa condividere i beni di questo mondo, grazie alla coscienza che abbiamo di partecipare tutti allo stesso bene definitivo: il Regno dei Cieli.
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Solamente allora risponderemo alla nostra vocazione di Chiesa e diventeremo una luce per il mondo”.
Oggi, scorrendo l’indice, mi accorgo che i temi sono ancora di attualità; moltissimi i dilemmi ancora insoluti. Per esempio: Clero o Laicato? La risposta era: “No: comunità”. E ancora: Religiose e Religiosi nella Comunità-Chiesa come? La risposta: “Comunità complementari verso delle comunità integrate”.
Nell’editoriale di queste cronache alla prova, dove venivano riportate esperienze, la comunità chiamata ad interrogarsi, si formulava degli obiettivi del tipo:
“Il discorso che vorremmo fare quest’anno inizia proprio dalla necessità da parte nostra di porre chiaramente ed esplicitamente un’istanza che noi sentiamo improrogabile: la Chiesa e il mondo hanno bisogno che senza indugio i cristiani si impegnino in un tentativo comunitario veramente ecclesiale”.
La comunità cercava di definirsi, di intendersi sul senso di certi termini come “gruppo fraterno”, “gruppo organico”, “gruppo stabile”, “gruppo di persone… di responsabilità, di condivisione, di unità, di comunità perfetta, comunità totale, comunità-Chiesa, comunità primitiva, comunità familiari, confraternite…comunità di fede e di speranza…
Il sogno si è avverato?
Ognuno, in base alla sua esperienza, può dare la risposta. Personalmente, allora mi sono imbarcato su una zattera senza remi, in balia delle onde e del vento, per approdare su tante isole deserte dell’arcipelago Chiesa per poi ritrovarmi spiazzatoi al punto in cui sono.
La caratteristica di allora era quella di sempre: c’era chi scuoteva la testa e chi si buttava a capo fitto alla ricerca e realizzazione del nuovo, come api in cerca di polline sui fiori. Convivevano il pessimismo di alcuni, l’ottimismo di tanti, l’indifferenza di pochi.
Ma c’era nell’aria una grande speranza, contagiosa, corroborante. Oggi, per tante motivazioni, dilaga un certo pessimismo. Ma in certi ambienti viene contrabbandato come rassegnazione alla “volontà di Dio”. Magari si trattasse di fede. Ma la sensazione di diffusa impotenza è generatrice di una flebile rassegnata speranza che non è teologale, ma nell’ottica di quel famoso “io speriamo che me la cavo”.
Sull’avvenire della vita religiosa il Delespesse non nutriva dubbi: sempre presagio di infausti permangono all’orizzonte .
Il futuro dell’Ordine Ospedaliero, stante i documenti degli ultimi Capitoli Generali e dalle Circolari dei Priori Generali alle Province dei cinque continenti, è posto fiduciosamente nelle mani dei laici “collaboratori”. Cosa buona, anzi, lodevole.
Ma troppo bella per essere vera “sic et simpliciter”. Le buone intenzioni da sole non bastano. Né lo possono garantire gli inviati ai convegni internazionali dove, solitamente, sulle questioni di principio è facile raggiungere il consenso e l’unanimità. Ma, tra dire è il fare, l’ostacolo non è il mare ma le persone, ossia coloro che non hanno vissuto ma subito, giorno dopo giorno, il cambiamento epocale e generazionale. Non c’è qualcuno che può scegliere per tutti, distribuendo patenti carismatiche. San Giovanni di Dio insegna: la sua è una lenta, progressiva e travagliata conversione del terreno sassoso in umus fertile. La Grazia opera sulla natura e la parabola del seminatore non lascia dubbi. Matteo nel cap. 13, 1-23 è molto realista:
”Un contadino andò a seminare, 4e mentre seminava alcuni semi andarono a cadere sulla strada: vennero allora gli uccelli e li mangiarono. 5Altri semi invece andarono a finire su un terreno dove c’erano molte pietre e poca terra: questi germogliarono subito perché la terra non era profonda, 6ma il sole, quando si levò, bruciò le pianticelle che seccarono perché non avevano radici robuste. 7Altri semi caddero in mezzo alle spine e le spine, crescendo, soffocarono i germogli. 8Ma alcuni semi caddero in un terreno buono e diedero un frutto abbondante: cento o sessanta o trenta volte di più. 9Chi ha orecchi, cerchi di capire!”.
La conclusione mette in guardia: non c’è nulla di scontato. Si prendano ad esempio le sottolineature più o meno marcate di questi anni: ospitalità, insieme per servire, umanizzazione, umanizzare per umanizzarsi, l’uomo, l’ospedale moderno…La più importante, sembrerebbe la meno rimarcata: “Lasciatevi guidare dallo Spirito” (Circolare 24 Ott. 1996 Priore Generale Piles). Che non è un invito all’autogestione ma ad impostare la vita personale e istituzionale nella dinamica delle Scritture, della Lectio Divina. Quanta chiarezza potrebbe venire da un’attenta e costante riflessione di religiosi e laici sulla Chiesa degli Atti che pone ideali di grande respiro ma evidenzia anche le fragilità dei suoi membri, le stesse che riscontriamo nel nostro vivere associato.
Checché se ne dica, quando il carisma viene istituzionalizzato, inaridisce. viene a mancare, l’ambiente naturale, nel quale trovavano il loro spazio e si manifestavano, nella Chiesa primitiva, i carismi: quelle assemblee aperte, intrise di forte senso della presenza operante dello Spirito”.
“Al compiersi del giorno della Pentecoste…” (At 2,1).
Raniero Cantalamessa che da tempo ha le idee molto chiare e che non perde occasione per svolgere il servizio della Parola che si manifesta attraverso un suo particolare carisma, così ha parlato ai fratelli anglicani che lo avevano invitato a Londra, riferendosi all’espressione “Al compiersi del giorno della Pentecoste…” (At 2,1), così si è espresso:
“La Chiave di lettura è la prima parola: non si tratta di una fine “cronologica”, ma dell’avverarsi della promessa fatta più volte da Gesù (Lc 24,49; At 1,5-8) e dai profeti. È l’evento ultimo, segno sicuro di salvezza. Si viene a dire che il disegno salvifico di Dio non si compie solo nella morte-esaltazione di Cristo, ma che esso ha la sua piena e ultima attuazione nel dono dello Spirito. Facendo un parallelismo con l’A.T., Luca sottolinea alcuni elementi per descrivere la nascita del popolo escatologico.
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Il Cenacolo è visto come il nuovo Sinai, dove, tramite il dono dello Spirito, viene realizzata la nuova alleanza promessa.
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La nuova legge si identifica con il dono dello Spirito.
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L’esaltazione di Gesù “salito al cielo” è un parallelo con la salita al Sinai di Mosè per avere la legge e negoziare l’alleanza con Dio.
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Lo Spirito scende su “tutti”;
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la ricomposizione del gruppo, rappresenta il nuovo popolo di Dio (At 2,1-13).
C’è una intenzionalità negli Atti di allargare il gruppo, offrendo numeri sempre più grandi: i dodici, i centoventi, le lingue parlate…
Gli “Atti degli Apostoli” è il libro che descrive l’azione dello Spirito Santo nei primi 30 anni della vita della Chiesa. È presentato come l’anima della Chiesa, che manifesta questa presenza nei vari personaggi (Pietro, Paolo, Stefano, Barnaba…). Mostra anche che lo Spirito Santo qualche volta agisce con noi, e qualche volta contro di noi.
Con la presenza dello Spirito Santo dovremmo avere dei risultati sorprendenti; invece il lato umano della Chiesa a volte ostacola il lavoro dello Spirito. Basti pensare che abbiamo avuto 39 antipapi e 4 Papi contemporanei, per far finire anche l’organizzazione più perfetta.
“Di che cosa vive la Chiesa? Dello Spirito Santo” (Paolo VI), quindi niente paura.”
L’Ordine Religioso ieri
I rapidissimi cenni agli Atti degli Apostoli, servono a comprendere le fasi di una storia, vista da vicino, che è sacra e al contempo umana: i Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio raggiungono il riconoscimento pontificio in modo graduale:
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Nel 1572 sono riconosciuti ed approvati da San Pio V che li sottopone alla Regola di Sant’Agostino;
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nel 1586 vengono riconosciuti dal Papa Sisto V come vero e proprio Ordine Religioso.
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Nel 1592, Clemente VIII riduce l’Istituto allo stato iniziale di semplice congregazione, mettendo nuovamente i confratelli sotto la giurisdizione dei vescovi e permettendo loro di emettere solo il voto d’Ospitalità.
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Alcuni anni dopo quest’atto di retrocessione, Paolo V, nel 1611 in Spagna e nel 1617 in Italia, riporta nuovamente l’Istituto al grado d’Ordine.
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Per via di questa duplice e autonoma reintegrazione si costituiscono due congregazioni distinte che, pur coscienti di formare una sola famiglia, si sviluppano parallelamente per due secoli e mezzo.
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A causa soprattutto degli sconvolgimenti politici e delle leggi antireligiose del XIX secolo, la congregazione spagnola subì un duro colpo e praticamente scomparve con la morte del suo ultimo Superiore Generale, P. Giuseppe Bueno, nell’anno 1850.
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La restaurazione dell’Ordine in Spagna, realizzata specialmente da San Benedetto Menni, portò alla riunificazione dell’Istituto. Da quel momento l’Ordine, cosciente dell’eredità ricevuta nella Chiesa e con lo sguardo fisso al Cristo misericordioso del Vangelo, continua nel mondo la sua opera apostolica con i sofferenti.
Alla luce dei fatti, è lecito affermare che, – gli Atti insegnano – come son successe tante cose negli ultimi cinque secoli di storia dell’Ordine, anche nel 2000 può succedere di tutto.
Agostino il dimenticato padre della Regola
Smontato il congegno, messo fuori fase l’incastro, messo fuori asse, spostato, tutto cade. Tutto ciò che sta al centro è questo. Il coinvolgimento del temporale nell’eterno e dell’eterno nel temporale.
Tolto il coinvolgimento non c’è’ più niente. Non c’è più un mondo da salvare. Non ci sono più anime da salvare. Non c’è più alcun cristianesimo… Non c’è più né tentazione, né salvezza, né prova, né passaggio, né tempo, né niente. Non c’è più né redenzione, né incarnazione, e neanche la creazione…
Ci sono solo cocci senza nome, materiali senza forma, calcinacci e rovine…
Non vi è più il cristianesimo; non vi è più questa storia meravigliosa, unica, straordinaria, inverosimile, eterna temporale eterna, divina umana divina, quel punto d’intersezione, quell’incontro meraviglioso, unico, del temporale nell’eterno, e reciprocamente dell’eterno nel temporale, del divino nell’umano e mutualmente dell’umano nel divino… Ecco il cristianesimo. Il resto, diciamo che tutto il resto è ottimo per la storia delle religioni… Tutto il resto rimane un’eccellente materia di insegnamento.
Qui il Peguy ne ha per tutti, laici, presbiteri e consacrati:
“Ecco quello che dimenticano troppo, quello che perdono di vista di solito i nostri chierici, e coloro che vivono nella regola, e anche coloro che vivono nel secolo…
Non fanno altro che abolire, annullare, sopprimere, cancellare dalla faccia della terra, obliterare, distruggere (delea(n)tur), sopprimere (dalla creazione dunque, e anche dall’eternità) non soltanto forse quello che ne è, ciò che ne costituisce il succo e la linfa e il midollo, ma quello che comunque ne e’ una condizione essenziale e sine qua non…
Tolgono la chiave dalla porta; e la porta senza serratura e senza chiave resta solo una parete.
Tolgono il prezzo, ciò che costituisce la posta, della scommessa, il saldo, del gioco, tutto ciò che costituisce il premio e il valore e la posta stessa e l’oggetto della salvezza.
Tolgono, censurano il mistero stesso della creazione, e ci arrivano solo togliendo i pezzi grossi, i misteri essenziali.
Tolgono la creazione, l’incarnazione, la redenzione; il merito, la salvezza, il premio della salvezza; il giudizio e qualcos’altro; e naturalmente e soprattutto la grazia; più di ogni mistero il mistero e l’operare della grazia.
C’erano delle analogie sconvolgenti tra il tempo dei Romani e il nostro; tra il tempo romano e il tempo che è divenuto il tempo moderno; più che delle somiglianze, più che delle analogie singolari; come uno stesso andamento; una stessa indicazione; uno stesso avvio. Si può dire che nel mondo romano era tutto pronto, che tutto era pronto a partire, tutto era come allestito, realmente allestito… affinché il mondo moderno partisse allora, invece di oggi; si trattava dello stesso disordine dello stesso tipo di disintelligenza. Era tutto preparato. Ma venne Gesù. Doveva fare tre anni. Fece i suoi tre anni. Ma non perse i suoi tre anni, non li usò per frignare e per invocare i mali dei tempi. Eppure c’erano i mali dei tempi, del suo tempo. Arrivava il mondo moderno, era pronto. E lui tagliò (corto). Oh, in modo molto semplice. Facendo il cristianesimo. Mettendoci in mezzo il mondo cristiano. Non incriminò, non accusò nessuno. Salvò. Non incriminò il mondo. Salvò il mondo”.
Proprio TEMPI del 15 gennaio 2009 , riporta un testo inedito del filosofo cattolico Romano Amerio che Don Divo Barsotti definì un vero cristiano. Egli fu colui che ha teorizzato meglio la disanima della crisi del cattolicesimo novecentesco in una semplice constatazione: “Separare l’amore, la carità dalla verità, non è cattolico. (…)
Difatti l’amore procede dalla conoscenza. Quando si dice che l’amore non procede dalla conoscenza si fa dell’amore un valore senza precedenti, invece c’è un valore che precede l’amore ed è la conoscenza. Quindi questo avvaloramento indiscreto dell’amore implica una distorsione del dogma trinitario” L’amore è preceduto dal Verbo, è preceduto dalla cognizione, e non si può fare dell’ amore un assoluto, il teorizzatore.
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