SAN GIOVANNI DI DIO NEL QUINTO CENTENARIO DELLA NASCITA – Di Angelo Nocent – 1995
Posted on agosto 29th, 2009 by Angelo
Posted on Giugno 30th, 2009 di Angelo
SAN GIOVANNI DI DIO
Nel v° centenario della nascita
Di Angelo Nocent –
1995
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Cinque secoli fa, l’otto Marzo 1495, nasceva a Montemor o Novo, in Portogallo, Giovanni Cidade, l’attuale San Giovanni di Dio.
Qual è il modo possibile di lettura di una vita così insignificante, (se si esclude l’ultimo decennio) quale appare quella del Santo, e lo straordinario messaggio che si tramanda nei suoi figli spirituali?
Tralasciando [qui] la biografia, [Nei fratelli vedeva Gesù] resta, comunque, la straordinaria figura di un uomo qualsiasi, che ha fatto di tutto nella vita e che, improvvisamente, a quarantacinque anni, rompe i confini della nostra visione terrena e conquista di colpo un’altra dimensione. Tutte le volte che si scandagliano gli atteggiamenti di questo innamorato pazzo di Dio e dei suoi simili, si registra un primo atto di profonda umiltà, un atto che davvero lo prostrava fisicamente ai piedi della croce del Salvatore.
D’altra parte, l’efficacia di questo suo atteggiamento è confermata dal fatto che in nessun momento veniva sfiorato il pericolo di mettersi come esempio, di proporsi, di fare scuola. Al contrario, si deve aggiungere che, più andava avanti in quest’opera di totale dedizione a Dio e al prossimo, più si allargava e si arricchiva il suo spirito di umiltà. Prova ne sia che non si è mai sognato di fondare un ordine religioso, bensì di sopperire con tutti i mezzi alle necessità di coloro che incontrava sul suo cammino. (*) Bisogna ammettere che di strada ne ha fatta tanta e tutta a piedi, nel vero senso della parola.
Rileggere trent’anni dopo – come sto facendo – le lettere di chi ha affascinato la mia giovinezza, è come scoprire un tesoro dimenticato in un vecchio baule riposto in solaio. Tali, infatti, mi appaiono i suoi scritti, i pochi rimasti. [lettere di san giovanni di dio] Devo riconoscere che allora, pur attratto dal Santo, le sue lettere mi apparivano prolisse, datate, non più di tanto rivelatrici del suo animo. Erano i tempi avvincenti del Concilio Vaticano II e del vino nuovo in fermento nelle nostre coscienze. Dei vecchi libri di spiritualità si faceva volentieri senza e, nel tentativo di eliminare la bigiotteria poteva succedere di scartare involontariamente anche pietre preziose. Oggi, proprio grazie al Concilio, tralasciando le considerazioni stilistiche sulla prosa che risente inevitabilmente del tempo, esse mi appaiono rivelatrici di una spiritualità essenziale, robusta, capace di resistere ai mutamenti delle variabili storiche.
L’itinerario spirituale di uno dei più curiosi scherzi della Grazia manifestatisi nel XIV secolo e tutt’ora palese negli eredi spirituali, i Fatebenefratelli, è attuale perché la sua risposta alla chiamata assomiglia a quella di Abramo, nostro padre nella fede. Ma anche a quella di Paolo di Tarso. Ed è un peccato che nessuno abbia tentato una lettura della sua vita alla luce delle Scritture.
Il nostro Patriarca è un vero discepolo del Signore Gesù la cui esperienza umana andrebbe riletta non soltanto accostandola alla parabola del Buon Samaritano, come s’è fatto fin’ora. Tale è certamente il motivo dominante della sua conversione ma il suo poema sinfonico di carità è costellato di passaggi meno sottolineati ma altrettanto interessanti.
La sua è un’esistenza tempestata di divine chiamate fin dalla fanciullezza che, apparentemente, sfociano in vicoli ciechi. La conversione si manifesta in forme che il senso comune definisce follia, cioè malattia mentale. Quest’uomo fatto a suo modo, quasi inimitabile, frequenta case principesche e tuguri, l’arcivescovado ma anche il carcere, il manicomio e le case di prostituzione. E’ un persistente indebitato per Dio fin sul letto di morte, sempre in affanno per onorare gli impegni e farsi aprire nuovo credito, ogni volta con l’acqua alla gola e col rischio di insolvenza che puntualmente svanisce per mani caritatevoli di nobili soccorritori. Lascia debiti in eredità ai primi discepoli che resteranno contagiati nei secoli dalla stessa malattia. I primi discepoli? Nessuno può immaginarlo: si tratta di gente strappata alla galera, al facile guadagno, all’odio, alla vendetta e segnata, come lui, nel profondo, dal marchio indelebile della carità inarrestabile.
E’ uomo di grandi intuizioni e animato dal senso pratico, ma segue umilmente anche la direzione spirituale ed i consigli del Santo Giovanni d’Avila e mantiene costanti legami con il suo Vescovo. Nel suo ospedale l’altare è al centro della corsia. Il Vangelo è il metro di valutazione e di giudizio degli avvenimenti. Preghiera e penitenza sono le quotidiane sue armi di difesa interiore ed esterna. L’ospitalità, l’accoglienza, la condivisione sono pane quotidiano. I doni dello Spirito, la sua unica ricchezza.
Uno sforzo di lettura approfondita in tali direzioni, lo renderebbe ancor più attuale nel nostro contesto storico, per certi versi molto simile al suo.
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Si pensi al terzo mondo che i paesi progrediti si ritrovano in casa, incapaci di risposte adeguate, un fiume in piena che nessuno riesce ad arginare.
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O alla pestifera droga, destinata chissà fino a quando a mietere giovani vite, avvilite esistenze.
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O ancora agli ospedali che sembrano aver proprio dimenticato la lezione profetica del Santo e riducono il malato a caso clinico e la struttura a deficit amministrativo da colmare.
La nostra sanità ed assistenza sociale occidentale, perenne mediatrice di interessi contrapposti e alla ricerca di consenso, avrebbe davvero bisogno della fantastica incoscienza di un San Giovanni di Dio. Infatti, ciò che accade sotto i nostri occhi smarriti non è che l’inevitabile risultato derivante dalla limitata prospettiva ottica di cui dispone l’uomo psichico, ossia l’uomo laicizzato e secolarizzato, rispetto alla vastità di orizzonti che si aprono all’uomo pneumatico ( 1 Cor. 2,14-15).
La dimensione spirituale e divina della persona, gratuito dono di Dio, abbraccia tutto ciò che nell’uomo è iscritto e all’uomo appartiene a partire non dalla sua psiche ma dai desideri dello Spirito secondo i disegni di Dio (Rom. 8,26-27). Nessun progresso scientifico o tecnico può mai sperare di giungere a scoprire le profondità divine dell’uomo. La sapienza laica di questo mondo (1 Cor.2,6) può al massimo concepire di liberare l’uomo mediante la umanizzazione del mondo, della società, delle sue strutture, delle relazioni sociali e internazionali, “ ma quel che nasce da carne è carne, e quel che nasce dallo Spirito è Spirito “ (Gv. 3,6). I risultati sono sotto gl’ occhi di tutti.
Si dirà che ognuno è figlio del suo tempo e che San Giovanni di Dio è un caso irripetibile. Ma forse no: la sua lezione è ripetibilissima. A patto di restare con lo sguardo assorto, in attesa di una rivelazione che appartiene soltanto allo Spirito e al cuore.
L’uomo d’oggi, il vecchio piccolo dio di se stesso che consuma l’esistenza in tragiche contraddizioni, talvolta si pone una domanda fondamentale e importante: è possibile riscattare attraverso i nostri atti terreni la lezione di Cristo? E se sì, in che modo dobbiamo regolarci? La tendenza a spegnere il fuoco interiore per accontentarsi di una religione intesa soltanto come ragione ed esaltazione dell’uomo è sempre in agguato.
l segreto del cristianesimo è questo: i discepoli di Cristo devono diventare non divini come Dio ma umani come Dio.
Giovanni di Dio è l’uomo che non ha alcuna illusione e presunzione di imitare Cristo. Egli sa, per esperienza interiore, di essere in Cristo Gesù (Fil.2,1,5. Il quarantacinquenne sradicato, proveniente da un paese insignificante del Portogallo, accostabile a un altro paese un tempo irrilevante, Betlemme, ha potuto mettere in atto un’esplosione nucleare di carità i cui effetti perdurano, semplicemente perché si è lasciato trascinare nell’umanità di Dio. Ecco descritta la miopia umana di allora e di ogni tempo che vede nella sua conversione i sintomi della follia di un esaltato schizofrenico, invece di magnificare Colui “che innalza i miseri”. Di qui l’estrema attualità della sua proposta di “dare per darsi”, il fascino di questa storia d’amore tra un uomo e il suo Dio e, nello stesso tempo l’evidenza della nostra tragica cecità .
Il rischio dei Fatebenefratelli oggi è di lasciare in piedi lo scenario delle grandi strutture ospedaliere mentre il palcoscenico si svuota delle voci significative e creative indispensabili.
Il punto vero da difendere è quello della sostanza e della continuità della fede. Sul resto permane un grande margine di confusione che può produrre rotture e devastazioni locali e storiche anche oggi come in passato. Giocare d’astuzia sui numeri del silenzio e delle troppo facili allusioni non paga. Sta in noi cercare il Vangelo. Epperò il confronto spirituale interiore tra il nuovo e la tradizione s’impone.
La misura dell’eterno, la conferma di una speranza che va ben oltre l’attualità e il contingente, sono ben presenti nel vecchio cristianesimo, quello di Giovanni di Dio, di cui si è tentati di cantare la morte e la sconfitta.
Nella sua tomba si conserva una luce di vita, un segno eterno di attesa che nessuna riforma umana, pur auspicabile, necessaria, urgente, riuscirà mai a sostituire. Giovanni si è presentato a Dio in tutta la sua fragilità di uomo ma anche in tutta la coscienza dell’ultima, della sola verità: Cristo, e Cristo crocifisso.
Strumenti essenziali d’ogni vera rivoluzione cristiana sono sempre due: carità e preghiera. Giovanni di Dio li ha usati per compiere il miracolo, per noi così ovvio, dell’ospedale moderno di cui, a buon diritto è ritenuto l’ideatore.
Ma di quale ospedale? Quello sotto i nostri occhi, più che un gioiello di famiglia, sembra un’eredità lapidata.
Angelo Nocent
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