THOMAS SANKARA: “Terra degli uomini liberi e integri”
Posted on agosto 28th, 2009 by Angelo
Posted on Gennaio 27th, 2009 di Angelo |
Thomas Sankara:
in Burkina Faso, ha sognato e costruito la “terra degli uomini liberi e integri”
“Vogliamo essere gli eredi di tutte le rivoluzioni del mondo e di tutte le lotte di liberazione dei popoli del Terzo Mondo”
AFRICA
Sankara e il sogno africano
La storia di un’esperienza rivoluzionaria in uno dei Paesi più poveri dell’Africa: il Burkina Faso. Una rivoluzione senz’armi fatta di coraggio e speranza, imboccando una via autonoma di sviluppo osteggiata sistematicamente
da Banca Mondiale e FMI.
Presidente per quattro anni del Burkina Faso, alla ricerca del riscatto per un intero continente.
Un ricordo di Thomas Sankara.
Carlo Batà
“L’Africa agli africani!”, urlava a un mondo sordo Thomas Sankara alla metà degli anni Ottanta. La guerra fredda era agli sgoccioli, le speranze sorte dopo l’affrancamento dal dominio coloniale – il 1960 era stato dipinto come l’anno dell’Africa tra proclami e belle parole – erano state ormai strozzate da decenni di sfruttamento economico, disarticolazione sociale e inerzia politica. Le multinazionali invadevano le ricche terre d’Africa, mentre gli Stati del Nord del mondo imponevano condizioni commerciali che impedivano lo sviluppo dei Paesi africani, schiacciati tra debito estero e calamità naturali.
Il 4 agosto 1983, in Alto Volta, iniziava l’esperienza rivoluzionaria di Thomas Sankara, capitano dell’esercito voltaico giunto al potere con un colpo di stato incruento e senza spargimento di sangue. Il Paese, ex colonia francese, abbandonò subito il nome coloniale e divenne Burkina Faso, che in due lingue locali, il moré e il dioula, significa “Paese degli uomini integri”. Ed è dall’integrità morale che Sankara partì per tagliare i ponti con un triste passato e con deprimente presente. Pochi dati illustrano quanto grave fosse la situazione: tasso di mortalità infantile del 187 per mille (ogni cinque bambini nati, uno non arrivava a compiere un anno), tasso di alfabetizzazione al 2%, speranza di vita di soli 44 anni, un medico ogni 50.000 abitanti.
“Non possiamo essere la classe dirigente ricca in un Paese povero”, era solito ripetere Sankara, che visse un’infanzia di miseria (“Quante volte i miei fratelli e io abbiamo cercato qualcosa da mangiare nelle pattumiere dell’Hotel Indépendance”) e povero, come gli altri burkinabè, è sempre rimasto. Le auto blu destinate agli alti funzionari statali, dotate di ogni comfort, vennero sostituite con utilitarie, ai lavori pubblici erano tenuti a partecipare anche i ministri.
Sankara stesso viveva in una casa di Ouagadougou, la capitale del Paese, che per nulla si differenziava dalle altre; nella sua dichiarazione dei redditi del 1987 i beni da lui posseduti risultavano essere
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una vecchia Renault 5,
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libri,
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una moto,
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quattro biciclette,
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due chitarre,
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mobili
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e un bilocale con il mutuo ancora da pagare.
“È inammissibile”, sosteneva, “che ci siano uomini proprietari di quindici ville, quando a cinque chilometri da Ouagadougou la gente non ha i soldi nemmeno per una confezione di nivachina contro la malaria”.
Negli stessi anni i suoi omologhi si trinceravano in lussuose ville o agli ultimi piani dei migliori hotel, lontani anni luce dai bisogni quotidiani della popolazione. Per esempio il presidente della Costa d’Avorio, Felix HouphouëtBoigny, aveva fatto costruire in pieno deserto una pista di pattinaggio su ghiaccio per i propri figli. Quando alcuni capi di Stato si offrirono per donare a Sankara un aereo presidenziale, la risposta fu che era meglio fare arrivare in Burkina Faso macchinari agricoli. E la terra burkinabè non è mai stata particolarmente fertile, inaridita dall’Harmattan, il vento secco proveniente dal deserto del Sahara che lambisce i confini settentrionali del Paese.
Per ridare impulso all’economia si decise di contare sulle proprie forze, di vive re all’africana, senza farsi abbagliare dalle imposizioni culturali provenienti dall’Europa: “Non c’è salvezza per il nostro popolo se non voltiamo completamente le spalle a tutti i modelli che ciarlatani di tutti i tipi hanno cercato di venderci per anni”. “Consumiamo burkinabè”, si leggeva sui muri di Ouagadougou, mentre per favorire l’industria tessile nazionale i ministri erano tenuti a vestire il faso dan fani, l’abito di cotone tradizionale, proprio come Gandhi aveva fatto in India con il khadi.
Le magre risorse vennero impiegate per mandare a scuola i bambini e le bambine – nel 1983 la frequenza scolastica era attorno al 15% – e per fornire cure mediche ai malati, organizzando campagne di alfabetizzazione e di vaccinazione capillare contro le infermità più diffuse come la febbre gialla, il colera e il morbillo. L’obiettivo era di fornire 10 litri di acqua e due pasti al giorno a ogni burkinabè, impedendo che l’acqua finisse nelle avide mani delle multinazionali francesi o statunitensi e cercando finanziamenti che fossero funzionali allo sviluppo idrogeologico del Paese, non al profitto di pochi uomini d’affari.
Il Burkina Faso divenne un esempio per le altre nazioni, governate da élite corrotte e supine ai dettami provenienti dagli istituti economici internazionali. Se un piccolo Paese, condannato anche dalla geografia (il deserto avanzava verso sud di sette chilometri all’anno mangiandosi campi coltivati; esiste un solo corso fluviale e non c’è alcuno sbocco sul mare) riusciva a levare il proprio grido di dolore e di insofferenza e a dimostrare che i problemi che affliggevano l’Africa si potevano risolvere, cosa avrebbero potuto fare Paesi con immense risorse naturali? Il 15 ottobre 1987 Sankara, che a dicembre avrebbe compiuto 38 anni, veniva ucciso: troppo scomodo, troppo generoso, troppo attento alle esigenze della povera gente. Quando i giovani africani cominciarono a chiedere ai propri governanti di seguire l’esempio di Sankara, il complotto prese forma e coinvolse chi, in Burkina Faso, in Africa e in Europa, non poteva tollerare la sua indisciplina e la sua semplicità.
In quattro anni Sankara aveva invitato i Paesi africani a non pagare il debito estero per concentrare gli sforzi su una politica economica che colmasse il ritardo imposto da decenni di dominazione coloniale. Dominazione che era anche culturale: “Per l’imperialismo”, affermava, “è più importante dominarci culturalmente che militarmente. La dominazione culturale è la più flessibile, la più efficace, la meno costosa. Il nostro compito consiste nel decolonizzare la nostra mentalità”.
Ecco così spiegato l’impulso dato al Festival Panafricaine du Cinéma de Ouagadougou (Fespaco), la più importante rassegna continentale, con il fine di sviluppare la cinematografia locale a scapito di quella europea, uno dei tanti strumenti per legittimare la superiorità dei “bianchi” e l’inferiorità degli Africani. Nel 1986, durante i lavori della 25esima sessione dell’Organizzazione per l’Unità Africana (OUA) tenutasi a Addis Abeba, Sankara espresse in modo molto semplice perché il pagamento del debito doveva essere rifiutato: “Noi siamo estranei alla creazione di questo debito e dunque non dobbiamo pagarlo. […] Il debito nella sua forma attuale è una riconquista coloniale organizzata con perizia. […] Se noi non paghiamo, i prestatori di capitali non moriranno, ne siamo sicuri; se invece paghiamo, saremo noi a morire, possiamo esserne altrettanto certi”.
Sempre a Addis Abeba, Sankara invocò il disarmo, proponendo ai Paesi africani di smettere di acquistare armi e di dissanguarsi in dispute fomentate dall’estero per protrarre l’arretratezza e la dipendenza del continente. L’invito era di adottare misure a favore dell’occupazione, della tutela ambientale, della pace tra i popoli, della salute. A New York, qualche mese prima, davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Sankara aveva tuonato contro l’ipocrisia di chi fornisce aiuti ai Paesi in via di sviluppo (mentre per altre vie si inviano armi) e contro l’egoismo di chi, per esempio, si rifiuta di investire nella ricerca contro la malaria – che in Africa provoca ogni anno milioni di morti – solo perché è una malattia che non riguarda i Paesi del nord del mondo. “Ci sentiamo una persona sola con il malato che ansiosamente scruta l’orizzonte di una scienza monopolizzata dai mercanti di armi. […] Quanto l’umanità spreca in spese per gli armamenti a scapito della pace!”.
Sankara espresse la convinzione che per eliminare i lasciti coloniali fosse indispensabile avviare un processo di unione di tutti gli Stati (dal Maghreb al Capo di Buona Speranza) del continente, che doveva diventare un’entità politica coesa e rispettata sul piano internazionale: “Mentre moriamo di fame e nel nostro Paese ci sono migliaia di disoccupati, altrove non si riescono a sfruttare le risorse della terra per mancanza di manodopera. Se ci fosse maggiore cooperazione, potremmo arrivare all’autosufficienza alimentare e non dovremmo più dipendere dagli aiuti internazionali”.
Primo passo era la fine dell’apartheid in Sudafrica, dove la minoranza “bianca” godeva in realtà del sostegno economico dei Paesi occidentali. Sankara ebbe parole di rimprovero per tutti, a partire da François Mitterrand: “Che senso ha organizzare marce contro l’apartheid, mentre si producono e si vendono armi al Sudafrica?”.
Forse non è un caso che Sankara venne ucciso quattro giorni dopo che a Ouagadougou si era tenuta una Conferenza panafricana contro l’apartheid. Il “Président du Faso”, come viene ancora oggi ricordato dai burkinabè, si è sacrificato dimostrando che è possibile rispondere, all’africana, ai problemi dell’Africa, con chiarezza e talvolta ingenuità, come quando chiese che “almeno l’1% delle somme colossali destinate alla ricerca spaziale sia destinato a progetti per salvare la vita umana”.
Dinanzi alle Nazioni Unite Sankara liberò davanti al mondo intero, ponderando con attenzione ogni singola parola, il grido di dolore di miliardi di esseri umani che soffrono sotto un sistema crudele e ingiusto: “Parlo in nome delle madri che nei nostri Paesi impoveriti vedono i propri figli morire di malaria o di diarrea, senza sapere dei semplici mezzi che la scienza delle multinazionali non offre loro, preferendo investire nei laboratori cosmetici o nella chirurgia plastica a beneficio del capriccio di pochi uomini e donne il cui fascino è minacciato dagli eccessi di assunzione calorica nei loro pasti, così abbondanti e regolari da dare le vertigini a noi del Sahel”.
Note:
[[Img3079]]Carlo Batà
L’ Africa di Thomas Sankara
Edizioni ACHAB
Verona 2003, pagg. 157
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Discours de THOMAS SANKARA a ADDIS ADEBA17 min
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Quella che mi accingo a raccontarvi è, prima di tutto, la storia di un uomo, ma è anche la storia di un sogno. Il sogno di una nazione libera, di un popolo libero, ma libero davvero e non solo sulla carta. “Un popolo che ha fame e sete non sarà mai un popolo libero!” diceva Sankara per esemplificare il concetto.
Premetto, inoltre, che questa sarà una trattazione di parte. Non tenterò di essere distaccato e fintamente obiettivo. Thomas Sankara mi ha affascinato sin dal primo momento che ho sentito parlare di lui. Sappiate che le parole che seguono sono mediate da questa ammirazione per l’uomo, il politico e la sua storia. Le parti evidenziate in grassetto sono citazioni tratte da discorsi o interviste di Sankara. Spero che la lettura di queste righe vi stimoli la voglia di approfondire la conoscenza di quest’uomo. A questo scopo alle fine dello scritto troverete qualche suggerimento.
La storia di Thomas Sankara potrebbe essere liquidata in modo superficiale con poche, vaghe parole: “Nel 1983 in Burkina Faso Thomas Sankara, un giovane capitano dell’esercito, sale al potere dopo l’ennesimo di una lunga serie di colpi di stato. Vi rimarrà sino al 1987, anno del suo assassinio da parte di alcuni suoi compagni di governo”.
Parole queste che, pur contenendo qualche grossolana imprecisione, risultano pressoché corrette, ma che non bastano a restituirci la storia di un testimone così importante per l’Africa contemporanea.
Il percorso umano ed ideale di Thomas Sankara è complesso e sfaccettato come lo è quello di ciascun essere umano; mentre quello politico è, a mio parere, di difficile comprensione per chiunque cerchi di interpretarlo attraverso strumenti culturali tipicamente europei.
Vale la pena sottolinearlo: il pensiero politico-culturale europeo non è l’unico esistente al mondo e non è detto che sia applicabile per la comprensione di ogni accadimento mondiale.
Vale dunque la pena leggere in maniera più approfondita le parole sopra scritte. Si incomincia con la seguente macroscopica imprecisione: “Nel 1983 in Burkina Faso…” Se, nel 1983, avessimo aperto un qualsiasi atlante geografico non vi avremmo trovato traccia del Burkina Faso. Nessun errore: il Burkina Faso, nel 1983, non esisteva! Avreste trovato, sopra la Costa d’Avorio, lo stesso territorio ma un’altro nome: Alto Volta, un’ex-colonia francese indipendente dal 1960, il cui nome coloniale rimanda all’alto corso del fiume Volta.
Il 4 agosto 1984 Sankara, ed il governo da lui presieduto, ribattezzeranno il Paese Burkina Faso, nome che, nell’intreccio delle due lingue più parlate del Paese, potremmo tradurre come Paese degli uomini integri (nel senso morale del termine).
“…dopo l’ennesimo di una lunga serie di colpi di stato…”
Come già scritto l’Alto Volta raggiunge l’indipendenza dalla Francia nel 1960 (il 5 agosto). Ne diviene primo presidente Maurice Yaméogo, il leader dell’Unione Democratica Voltaica. Rimarrà alla guida del Paese per poco più di cinque anni. Nei primi giorni del 1966 un colpo di stato militare porta al potere il tenente colonnello Sangoulé Lamizana (ex-generale delle truppe coloniali francesi). Rimarrà al potere fino al 1980, deposto anch’egli da un colpo di stato militare guidato dal colonnello Saye Zerbo.
“Colpo di stato” non suona bene alle nostre orecchie europee. “Colpo di stato militare” ancora meno. Personalmente mi fa pensare ai vari golpe che hanno portato a sanguinarie dittature militari in America Latina negli anni ’60 e ’70; alla marcia su Roma; a Francisco Franco in Spagna; alla rivolta militare contro Gorbaciov nel ’91; al tentativo di imprigionare Chavez e di sostituirlo alla presidenza del Venezuela nel 2002.
Alle nostre orecchie europee non può suonare bene “Colpo di stato” anche in caso di situazioni meno fascisteggianti di quelle sopra elencate. Non può suonare bene perché “Colpo di stato” significa rimozione di un governo (qualunque esso sia) con l’utilizzo di vie di forza, violente o meno, ma comunque non democratiche e la sua sostituzione con un nuovo governo nominato, e spesso e volentieri formato, da chi ha guidato l’azione di forza.
Qualche volta ad azioni di questo genere diamo un nome differente: rivoluzione. Parola con un suono solitamente più dolce alle nostre orecchie poiché sottende, almeno idealmente, una lotta contro forme di oppressione e disuguaglianza.
La fine, almeno formale, della colonizzazione in Alto Volta, come altrove in Africa, lascia un Paese privo di classe dirigente e dalla struttura socio-politica tutta da costruire seguendo – credo sia giusto sottolinearlo – strumenti tipicamente europei: dall’idea stessa di democrazia nelle sue varie declinazioni alla struttura del governo, ai diritti e doveri delle persone all’interno della società, all’esistenza di strutture che ben poco hanno a che spartire con l’organizzazione africana della vita comune. Fra queste ultime, una ricoprirà tuttavia un ruolo di primo piano nelle vicende del paese: il Sindacato, rimasto unico tipo di opposizione dopo che Yaméogo, subito dopo l’indipendenza, aveva messo fuori legge i partiti d’opposizione.
Val la pena ricordare che l’Alto Volta era uno dei Paesi più poveri del mondo sia sulla carta, a guardare le statistiche internazionali, sia nella realtà. “Un Paese di sette milioni di abitanti, più di sei milioni dei quali sono contadini; un tasso di mortalità infantile stimato al 180 per mille e un tasso di analfabetismo del 98%, se definiamo alfabetizzato chi sa leggere, scrivere e parlare una lingua; un’aspettativa di vita media di soli 40 anni; un medico ogni 50.000 abitanti; un tasso di frequenza scolastica del 16%”.
La povertà estrema delle zone rurali, l’impoverimento dei dipendenti pubblici (parte minimalissima della popolazione, ma vero perno delle organizzazioni sindacali), l’economia in mano ai poteri neocoloniali, la corruzione dilagante, le lotte per accaparrarsi scampoli di potere e altre concause determinarono l’instabile situazione politico-istituzionale dei primi anni ottanta.
Nel 1981 Saye Zerbo nomina segretario di stato per l’informazione Thomas Sankara. E’ un giovane Capitano dell’esercito (32 anni all’epoca). Eroe suo malgrado per essere stato comandante vittorioso in alcune battaglie della guerra che Alto Volta e Mali combatterono, nel 1974, per il controllo di un pezzo di terra di confine, la Striscia di Agocher. “Io contesto la necessità politica ed umana di questa guerra”; “Se dobbiamo combattere, facciamolo, coscientemente e per volontà comune, per sopprimere le frontiere tra due popoli uniti da tutto e non per rafforzarle”.
Alla prima riunione del consiglio dei ministri cui partecipa, Sankara si presenta in bicicletta. E’ uno dei tanti, piccoli gesti quotidianamente eclatanti che spiegheranno più di mille parole la sua Politica e che lo renderanno famoso anche fuori dal Paese di cui, un paio d’anni dopo, diverrà presidente.
Nel maggio 1982 si dimette dall’incarico, in disaccordo con la politica del governo. Fra le cause delle dimissioni: lo scioglimento del principale sindacato del Paese e l’arresto del suo segretario, la sparizione del denaro che la cooperazione olandese aveva versato per la costruzione della diga di Korsimoro e la distribuzione fra i ministri, i funzionari di governo ed i loro parenti di un convoglio di aiuti umanitari desinati alla popolazione.
“Non posso contribuire a servire gli interessi di una minoranza” disse in televisione per motivare le sue dimissioni.
Si dimettono con lui dal governo altri due giovani sottufficiali Herni Zongo e Blaise Compaoré, amici di Sankara da lungo tempo. Tutti e tre sono arrestati e chiusi in prigione.
Ma chi sono questi giovani sottufficiali?
Sankara, Zongo e Compaoré sono i leader carismatici di una parte dell’esercito. Esercito piccolo (6000 uomini) ma influente, come abbiamo visto, sulla vita politica del Paese.
Thomas Sankara nasce quando ancora l’Alto Volta è una colonia francese, il 21 dicembre 1949, terzo di dieci fratelli. La madre Marguerite è di stirpe Mossi, il padre Joseph, di etnia Puel, era stato soldato dell’esercito coloniale francese. “Metà dei bambini nati nel mio stesso anno sono morti entro i primi tre mesi di vita. Io ho avuto la fortuna di sfuggire alla morte e di non cadere vittima di nessuna di quelle malattie che quell’anno fecero più vittime di quanti fossero i nati. Sono stato poi uno dei sedici bambini su cento che hanno potuto andare a scuola, altro enorme colpo di fortuna”
Il giorno dell’Indipendenza del Paese, nella scuola frequentata da Sankara nasce uno scontro fra gli studenti voltaici e quelli francesi dopo che alcuni di questi ultimi hanno bruciato la bandiera voltaica che aveva sostituito quella francese, solitamente esposta nel cortile. La polizia coloniale individua nel giovane Thomas (11 anni) l’ispiratore della risposta all’offesa subita (anche se probabilmente la polizia la definì rivolta, o sommossa, o chissà come). Il padre di Sankara finisce in galera per espiare le “colpe” del figlio. Non era la prima volta né sarà l’ultima viso che la vita di Sankara bambino è costellata di altre piccole storie di ribellione contro ogni genere di sfruttamento e prevaricazione.
Nei primi anni dell’indipendenza l’ex-colonia francese, ora stato sovrano, ha bisogno di formare ufficiali per il suo nuovo esercito. A 17 anni Sankara entra alla scuola militare preparatoria, anche perché chi, come lui, è figlio di una famiglia povera non ha altro modo di proseguire gli studi. Completerà la sua preparazione militare in giro per l’Africa e poi in Francia. Ed in questo spostarsi da una caserma all’altra viene a contatto con alcuni movimenti di miliari nazionalisti che stanno, in quegli anni, nascendo in alcuni Paesi africani.
“Militare” è un’altra parola che per il nostro orecchio europeo ha un suono contrastante. Per alcuni è una parola che evoca profondi aspetti positivi, per altri meno. Comunque “Militare” richiama l’utilizzo delle armi e della violenza, qualcosa dunque di potenzialmente non democratico (ed anche su quest’ultimo aggettivo ci sarebbe da discutere un bel po’). Per quel che riguarda la formazione dei militari ed il loro ruolo nella società Sankara, che militare era, disse che “Un militare senza formazione politica non è che un potenziale criminale”.
Sarà una rivolta dei sottufficiali dell’esercito (la prima ad aver successo nella storia africana) a rovesciare il governo di Saye Zerbo, a liberare Sankara, Zongo e Compaoré ed a nominare Jean Baptiste Ouédraogo (sottufficiale anch’esso ma anche dottore pediatra) presidente e lo stesso Sankara capo del governo.
“Forza di carattere, coraggio, dedizione al lavoro, probità e onestà” dovranno essere le caratteristiche dei suoi ministri, annuncia nel discorso d’insediamento.
Elenco qui di seguito alcune delle decisioni prese dal nuovo governo. Decisioni che forse faranno sorridere (o preoccupare) chi le leggerà quassù oltre il Mediterraneo, ma che a mio parere riassumono l’idea che si governa anche attraverso l’esempio degli stessi governanti.
Riduzione dello stipendio dei militari e dei funzionari pubblici. Denuncie pubbliche (via radio) dei funzionari statali scoperti a far altro durante l’orario di lavoro. Ministri e dirigenti che rispondono (sempre via radio) alle domande dei cittadini. Adesione, per quel che riguarda la politica internazionale, al gruppo dei Paesi non allineati.
Ma anche questo governo non durerà: dall’insediamento di Sankara come primo ministro (1/2/83) al colpo di stato (anch’esso, sempre, militare) che lo destituisce (17/5/83) passano poco più di tre mesi.
Sankara è di nuovo in prigione, con lui Zongo e Lingani, altro giovane sottufficiale che aveva guidato la rivolta precedente. Compaoré riesce, invece, a fuggire ed a rifugiarsi a Pô, cittadina in cui si trova la caserma dei paracadutisti. Compaoré ne è il comandante da quando ha sostituito in quel ruolo lo stesso Sankara al tempo del suo primo incarico nel governo di Saye Zerbo, due anni prima.
Ci si potrebbe sbizzarrire studiando questo ultimo colpo di stato (il terzo in quattro anni, il quarto in 23 anni di indipendenza). Non lo faremo. Ci soffermeremo solamente a ricordare alcuni fatti dalla cronaca di quei giorni e a porci qualche domanda.
Fatto uno. Due settimane prima del colpo di stato il presidente libico Gheddafi atterra ad Ouagadougou (la capitale dell’Alto Volta) per una visita a sorpresa al primo ministro Sankara
Fatto due. Il governo Sankara aveva da subito stretto rapporti diplomatici con la Libia e ne aveva ricavato, fra l’altro, 30.000 tonnellate di cemento e la promessa di un prestito di 3 miliardi e mezzo di franchi cfa.
Fatto tre. Nei giorni precedenti il colpo di stato, ai confini meridionali dell’Alto Volta si erano svolte manovre militari congiunte dell’esercito del Togo e di truppe francesi di stanza nella regione.
Fatto quattro. Il giorno del colpo di stato è presente a Ouagadougou Guy Penne, consigliere per gli affari africani dell’allora presidente francese Francoise Mitterandt. Si tratta di uno degli uomini più influenti per quel che riguarda lo scacchiere geopolitico africano di quegli anni, tanto da meritarsi l’appellativo di Monsieur Afrique.
Domanda uno. E’ possibile che avvenga un colpo di stato sotto gli occhi di una tale autorità, senza che questi ne sappia nulla anticipatamente?
Fatto cinque. La Francia sta combattendo in Ciad una dura guerra che la vede, al fianco delle truppe ciadiane, contrapposta alla Libia
Fatto sei. I governi precedenti quello di Sankara avevano sempre appoggiato la Francia ed i suoi alleati nella regione.
Fatto sette. Pochi giorni dopo il colpo di stato il governo francese concorda col nuovo governo dell’Alto Volta, presieduto dal capo di stato maggiore dell’esercito il colonnello Yorian Gabriel Somé, un prestito di 21 miliardi di franchi cfa.
Domanda due. Cosa mai avrebbe avuto da guadagnarci la Francia dalla rimozione del governo Sankara?
E qui dovrei domandarmi io: cosa dico quando dico Francia? Quali erano e di chi erano gli interessi che potevano essere messi a repentaglio dal neonato governo di un piccolo e poverissimo Paese dell’Africa nera?
E chi, in Alto Volta, aveva tornaconto a che il governo ed il progetto politico del giovane capitano Sankara e dei suoi fosse definitivamente accantonato?
Mi piace pensare, con un esercizio che non ha niente di storico ed è tutto legato alla mia fantasia, che lo stesso Sankara avrebbe risposto che questo interesse, in Alto Volta come nel resto del mondo, sta in tutti coloro che sono privilegiati. In quelli che vivono per il proprio tornaconto parassitando il bene comune, costringendo alla miseria, e dunque alla morte, altri esseri umani.
“Crediamo che il mondo sia diviso in due classi antagoniste: gli sfruttati e gli sfruttatori”;
“Non possiamo esimerci dalla ricerca ad oltranza della giustizia sociale”.
Confronta le parole di Sankara con quelle di don Milani
Sankara non rimarrà per molto in carcere. Ouédraogo – rimasto presidente – lo rimette in libertà dopo grandi manifestazioni di piazza animate soprattutto dai più poveri, i diseredati che hanno eletto quel giovane capitano dall’aria onesta e dal parlare diretto loro speranza per una vita più degna.
Che cosa sarà passato per la testa di Sankara nelle settimane che seguirono la sua scarcerazione? Forse è solo un esercizio romanzesco chiederselo, ma mi piace farlo. Avrà pensato, anche solo per un momento, di poter diventare presidente dell’Alto Volta? Avrà pensato, anche solo per un momento, di poter mettere in pratica le sue idee di rivoluzione trasformandole in leggi e disegni politici? O avrà, forse, pensato che tutto sarebbe finito di lì a poco? Che lì sarebbero finiti i suoi sogni, i desideri di riscatto un popolo e forse anche la sua vita, dato che l’omicidio di avversari politici non è pratica rara in momenti concitati della storia delle nazioni.
Noi sappiamo come continuò questa storia. Sappiamo che Compaoré tornò ad Ouagadougou alla testa dei paracadutisti di Pô e mise a segno “l’ennesimo” colpo di stato portando al potere il gruppo di sottufficiali capeggiato da Sankara, che fu nominato presidente.
Era il 4 agosto 1983: iniziava la rivoluzione burkinabé.
“Noi siamo quello che siamo, cioè un regime che si consacra anima e corpo al benessere del proprio popolo. Chiamate ciò come volete, ma sappiate che non abbiamo bisogno di etichette. La nostra è una rivoluzione autentica, diversa dagli schemi classici”.
Sankara ed i suoi si definirono rivoluzionari in quanto miravano ad un cambiamento radicale della società. Una società che non avrebbe più visto sfruttati e sfruttatori, ma che avrebbe dovuto vedere la felicità per tutti i suoi componenti. Perché la felicità, che è un bene comune, o è di tutti o non è di nessuno. E fu nell’attuazione politica di quest’idea che Sankara diede, probabilmente, il meglio di sé, dimostrandosi politico capace e ricco di idee.
Quando dice felicità Sankara intende qualcosa di molto concreto. Intende poter mangiare almeno due volte al giorno tutti i giorni ed avere a disposizione almeno dieci litri d’acqua pura tutti i giorni. E due pasti al giorno e dieci litri d’acqua furono assicurati, investendo nello scavo di pozzi, nella costruzione di piccole dighe, nell’aiuto economico e tecnico a quel 90% della popolazione che viveva nelle zone rurali. E tutto questo in pochissimo tempo.
Ma felicità significa anche potersi curare quando si sta male senza veder morire i propri figli per malattie facilmente curabili, andare a scuola, potersi dedicare alle proprie passioni, non essere schiavizzati da leggi e regole tradizionali, non dover vivere in un ambiente distrutto dall’incuria e dall’incedere del deserto. “La nostra rivoluzione è e deve essere l’azione collettiva di rivoluzionari per trasformare la realtà e migliorare concretamente la situazione delle masse del nostro Paese. La nostra rivoluzione avrà avuto successo solo se, guardando indietro, attorno e davanti a noi, potremmo dire che la gente è, grazie alla rivoluzione, un po’ più felice perché ha acqua potabile, un’alimentazione sufficiente, accesso ad un sistema sanitario ed educativo, perché vive in alloggi decenti, perché è vestita meglio, perché ha diritto al tempo libero, perché può godere di più libertà, più democrazia, più dignità”.
Confronta con la situazione dell’Africa 20 anni dopo (2005)
E questa rincorsa verso la felicità avrebbe avuto al suo centro i contadini, e cioè la stragrande maggioranza degli abitanti del Paese. Un Paese che avrebbe dovuto cercare di essere autosufficiente e non più vittima delle più disparate forme di neo-colonialismo. Un cambiamento rappresentato simbolicamente nel cambio del nome della nazione, anch’esso eredità coloniale. Il 5 agosto 1984, primo anniversario della rivoluzione, nasceva il Burkina Faso.
L’idea che sta alla base del governo di Sankara è semplice e credo che tutti noi saremmo pronti, seduta stante, a sostenerla: non è giusto che qualcuno muoia di fame e privazioni mentre qualcun altro può permettersi di sprecare o gozzovigliare.
Saremmo pronti, però, ad accettare le ovvie conseguenze di questo ragionamento? Saremmo pronti, cioè, a rinunciare ad una parte di ciò che noi consideriamo nostro per condividerla con chi ha meno? Saremmo pronti ad essere un po’ più poveri perché qualcuno sia meno misero?
(leggi nel sito lo speciale sulla Globalizzazione e Nuovi stili di Vita)
Queste sono alcune delle domande che Sankara pone a noi oggi, a più di vent’anni dagli avvenimenti in questione. (E temo che le mie risposte sarebbero titubanti e piene di “ma”, “se”, “però”.)
Ma sono anche alcune delle domande che Sankara poneva ai suoi concittadini ed a se stesso. Le risposte che riuscì a darsi, ed a dare al suo popolo, sono quelle politiche che trasformarono un Paese miserabile nella splendida anomalia del Burkina Faso della rivoluzione.
La rivoluzione proseguirà, accelerandole, quelle politiche di austerità intraviste nei pochi mesi in cui Sankara fu primo ministro: stipendi tagliati; viaggi aerei in seconda classe e rimborsi spese molto contenuti per i politici in viaggi diplomatici; ben pochi privilegi per i governanti che dovrebbero essere i servitori del popolo e non i suoi sfruttatori. Sankara stesso si muoveva per Ouagadougou in bicicletta – ed era presidente! – ed i suoi averi ammontavano alla sua casa ed a una piccola automobile. “Non possiamo essere la classe dirigente ricca di un paese povero”.
Questo non piacque (e non credo ci sia da stupirsene) a chi su quella situazione di privilegio aveva costruito la propria vita: ex-governanti e funzionari pubblici, i professori ad esempio che con Sankara sosterranno un lungo scontro. “E’ inammissibile che ci siano uomini politici proprietari di ville che affittano a caro prezzo agli ambasciatori stranieri, quando a quindici chilometri da Ouagadougou la gente non ha il denaro per comprare nemmeno una confezione di nivachina per curare la malaria”.
Sarà presa posizione contro i furti perpetrati dai governi precedenti, giudicati da tribunali popolari istituiti ad hoc. Tribunali che, probabilmente ci farebbero gridare allo scandalo se assistessimo, noi oggi, ad uno di quei processi dove l’imputato era posto dinnanzi alla giuria senza la mediazione di alcun avvocato. E davanti al nostro restar scandalizzati Sankara risponderebbe: “Pensiamo che se un avvocato difende un cliente (si tratta proprio di termini mercantili) questo cliente potrà essere difeso veramente solo se paga lautamente l’avvocato. Il miglior avvocato sarà quindi riservato a chi paga di più. Ciò significa che più si ruba, più denaro si ha per meglio difendersi. Ma se non si hanno i soldi per difendersi?”
Saranno imposti periodi di lavoro comunitario ad alcune fasce della popolazione, ad esempio gli studenti universitari, in alcune importanti campagne sociali: dalla vaccinazione di massa contro le malattie infantili alla costruzione di opere pubbliche.
Uno dei sogni di Sankara, l’abbiamo già detto, è un Paese che ce la possa fare da solo, un paese veramente indipendente in quanto autosufficiente.
Mangiare quel che si produce e vestire con tessuti locali sono due importanti mobilitazioni sociali volte a garantire la sussistenza al popolo del Burkina Faso, a rilanciare alcuni rami dell’economia e ad incominciare così a smarcarsi il più possibile dalle importazioni straniere che incidevano negativamente non solo sul debito pubblico.
“Dobbiamo accettare di vivere all’africana, perché è il solo modo di vivere liberamente, il solo modo di vivere degnamente.”
“Il nostro paese produce cibo sufficiente per nutrire tutti i burkinabè. Ma, a causa della nostra disorganizzazione, siamo obbligati a tendere la mano per ricevere aiuti alimentari, che sono un ostacolo e che introducono nelle nostre menti le abitudini del mendicante. Molta gente chiede dove sia l’imperialismo: guardate nei piatti in cui mangiate. I chicchi di riso importato, il mais, ecco l’imperialismo. Non c’è bisogno di guardare oltre.”
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Potremmo andare avanti per molte righe, forse pagine, elencando le politiche di Sankara presidente. Sia quelle che portarono ad immediati benefici a quelle che fallirono, per errori del governo o perché bloccate quando ancora non avevano dato frutti consolidati.
Fra le prime sicuramente le già ricordate politiche alimentari e sanitarie. Va registrato che in soli quattro anni la vita media in Burkina Faso passò da 44 a 50 anni. Ancora fra le prime le politiche scolastiche che, con la costruzione di centinaia di scuole pubbliche e l’obbligo scolastico, portarono milioni di persone a scuola. All’inizio degli anni 80 l’analfabetismo raggiungeva più del 90% della popolazione.
“Una delle condizioni per lo sviluppo è la fine dell’ignoranza. (…) L’analfabetismo deve essere incluso fra le malattie da eliminare il più presto possibile dalla faccia della Terra”.
Fra le seconde le politiche a favore della donna e contro pratiche e tradizioni che la tenevano (e la tengono!) ai margini della società e che ne umiliano la dignità.
“Se la rivoluzione perde la lotta per la liberazione della donna, avrà perso il diritto ad una trasformazione positiva della società”; “Il peso delle tradizioni secolari della nostra società ha relegato le donne al rango di bestie da soma.
Le donne subiscono due volte le conseguenze nefaste della società neo-coloniale: provano le stesse sofferenze degli uomini e, inoltre, sono sottoposte dagli uomini ad ulteriori sofferenze. La nostra rivoluzione si rivolge a tutti gli oppressi e gli sfruttati e quindi si rivolge anche alle donne”.
Va inoltre ricordato che Sankara fu il primo leader africano a scagliarsi contro le mutilazioni genitali femminili, tanto in uso anche in Burkina Faso, condannandole pubblicamente a più riprese.
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Le politiche di controllo statale della cooperazione internazionale, così da evitare la creazione di squilibri e ingiustizie causate dall’assuefazione agli aiuti umanitari spesso “inutili ed imbevuti di colonialismo”, ricercando solo “l’aiuto che aiuta a far velocemente a meno dell’aiuto” e non quello che “serve alle imprese del Nord e ad esperti pagati in un mese cifre che basterebbero ognuna a costruire una scuola”. “La politica degli aiuti è servita fino ad oggi solo ad asservirci, a distruggere la nostra economia. L’origine di tutti i mali del Paese è politica. E la nostra risposta non può essere che politica”.
Le politiche ambientali di salvaguardia del territorio e di riforestazione, contro l’avanzare del deserto ed a favore di una buona agricoltura di sussistenza. “La distruzione impunita della natura continua. Noi non siamo contro il progresso, semplicemente chiediamo che esso non significhi anarchia e criminale disprezzo per i diritti degli altri Paesi”.
Le politiche per trasformare le forze armate (di cui Sankara stesso fa parte, è bene ricordarlo!) in un corpo sempre meno militare e sempre più al servizio “civile” della popolazione. “Una rivoluzione non si fa per prendere il posto dei vecchi governanti che si depongono”; “Il nuovo soldato deve vivere e soffrire fra la gente cui appartiene”.
Le politiche internazionali per la richiesta della cancellazione del debito estero dei Paesi impoveriti. “Quelli che ci hanno prestato il denaro sono gli stessi che ci hanno colonizzato, sono gli stessi che hanno gestito per tanto tempo i nostri stati e le nostre economie. Loro hanno indebitato l’Africa. Noi siamo estranei alla creazione di questo debito e dunque non dobbiamo pagarlo”.
Quelle contro l’imperialismo e di sostegno alle lotte di liberazione dei popoli.
“L’imperialismo, attraverso le multinazionali, il grande capitale e la potenza economica è un mostro senza pietà, dotato di artigli, corna e denti velenosi. E’ spietato e senza cuore”;
“Per l’imperialismo è più importante dominarci culturalmente che militarmente. (…) Il nostro compito consiste nel decolonizzare la nostra mentalità”
Quelle per la rivitalizzazione del fronte dei Paesi non allineati.
“Il Movimento dei non allineati significa rifiutare di essere il terreno dello scontro fra elefanti che calpestano tutto impunemente”.
Le politiche per il disarmo.
“Ogni volta che un paese africano acquista armi lo fa contro gli africani. Dobbiamo trovare una soluzione al problema degli armamenti. Sono un militare e ho con me un’arma. Eppure propongo il disarmo, perché io porto l’unica arma che ho, mentre altri hanno nascosto tutte quelle che hanno” “Abbiamo l’obbligo di considerare la lotta per il disarmo un obiettivo permanente come presupposto essenziale al nostro diritto allo sviluppo”.
Le politiche contro il razzismo all’interno del Burkina Faso e, a livello internazionale, contro l’apartheid in Sudafrica.
“Dobbiamo combattere l’apartheid non perché siamo neri, bensì semplicemente perché siamo uomini e non animali e ci opponiamo alla classificazione degli uomini in base al colore della pelle”.
Come ho già scritto non tutte queste politiche funzionarono o furono efficaci, ma sta di fatto che durante gli anni della rivoluzione il Burkina Faso ha incominciato una via che sembrava andare in una direzione di vera autosufficienza. Il Burkina Faso stava diventando un esempio molto osservato dai popoli dell’Africa di metà anni 80 (non di secoli fa, è sempre bene tenerlo presente).
Questo esempio di Paese ribelle terminò di esistere il 15 ottobre 1987 quando un colpo di stato (!) vi pose fine assassinando il presidente Sankara.
“Sarei felice se fossi stato utile, se fossi stato un pioniere: quello che sembra oggi un sacrificio, domani sarà un normale e semplice comportamento.
(…) Ho detto a me stesso che trascorrerò la vecchiaia in qualche libreria a leggere, sempre che prima, visto che abbiamo molti nemici, non abbia incontrato una fine violenta. Una volta accettata questa realtà, è solo questione di tempo”.
Da pochi mesi era incominciato il quinto anno della rivoluzione burkinabè. Un anno che sarebbe dovuto essere un anno diverso. Un anno che, in qualche modo, avrebbe dovuto rompere con una certa tradizione rivoluzionaria novecentesca che vuole le avanguardie a guidare e il popolo a seguire.
“Abbiamo deciso di prenderci il tempo, il tempo necessario a trarre lezione dalla nostra attività passata”; “Dobbiamo fare del quinto anno di rivoluzione un anno di valutazione critica del nostro lavoro”.
Sembra anzi che ci sia un profondo desiderio di portare nuove esperienze all’interno della rivoluzione, così da renderla ancora più proprietà del popolo.
“Dovremo considerare l’espressione arricchente, variegata e multiforme di tanti diversi pensieri ed attività. Abbiamo bisogno di pensieri e attività intensi e pieni di sfumature, tutti insieme coraggiosamente e sinceramente nel rispetto della necessità di critica e autocritica e tutti diretti verso uno stesso, luminoso obiettivo, che non può essere altro che la felicità dei burkinabè.
Dovremo stare in guardia contro un tipo di unità sterile, monolitica, paralizzante e infeconda.”.
A guidare il colpo di stato furono Zongo, Lingani e, soprattutto, il suo “amico fraterno” Blaise Compaoré, che da allora è presidente del Burkina Faso. Dissero che Sankara era stato eliminato perché era pronto a tradire la rivoluzione (?), ma fu qualcun altro a tradire quel sogno.
Gli anni che seguirono furono anni di epurazioni, omicidi e torture nel tentativo di cancellare ogni traccia della rivoluzione. Nel 1989 Lingani e Zongo furono condannati a morte, ed uccisi, con l’accusa di aver tramato per assassinare il presidente. Piccola postilla: Compaoré è stato democraticamente rieletto presidente anche nel 2005 con l’80% circa dei voti.
“La democrazia è il popolo. La scheda elettorale e l’apparato per votare non significano automaticamente l’esistenza della democrazia”.
Dal 1987 allora il Burkina Faso è tornato ad essere quello che qualcun altro ha deciso che debba essere: un Paese poverissimo, miserabile in alcuni casi, ultima (o penultima) ruota del carro di un mondo globalizzato dominato dal dio del libero mercato.
“Imperialismo, un sistema di sfruttamento che non si presenta solo nella forma brutale di coloro che con dei cannoni vengono ad occupare un territorio, ma più spesso si manifesta in forme più sottili, un prestito, un aiuto alimentare, un ricatto. Noi stiamo combattendo il sistema che consente ad un pugno di uomini sulla terra di dirigere tutta l’umanità.”
Perché fu ucciso Sankara?
E’ una domanda alla quale non mi sento di rispondere. Fatelo voi. E’ il compito che lascio a chi avrà avuto la pazienza di arrivare a leggere fino a questa riga. Come lascio a voi il compito di farvi un’idea del come pochi mesi dopo l’assassinio di Sankara il Burkina Faso fosse tornato in condizioni sociali ancora peggiori di quelle antecedenti la rivoluzione (suggerimento, vedi: privatizzazioni, FMI e BM)
“Potete citarmi un solo caso in cui il FMI e il suo aiuto non abbiano prodotti effetti negativi?”; “Abbiamo detto al FMI: quello che chiedete noi l’abbiamo già fatto. Abbiamo ridotto i salari dei funzionari, risanato l’economia. Non avete niente da insegnarci. Ci è sembrato di capire che quello che il FMI cerca va ben al di là di un controllo sulla gestione: è un controllo politico.
Certo che abbiamo bisogno di denaro, di capitali freschi, ma non al prezzo di un’abbondanza artificiale, di un consumo improduttivo a cui si abbandonerebbe sicuramente una classe dirigente prigioniera del suo confort e di questo stesso FMI.
Abbiamo quindi rifiutato i prestiti della Banca Mondiale per alimentare progetti che non abbiamo scelto.”
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Del Burkina Faso della rivoluzione (agosto 83-ottobre 87) cosa rimane oggi?
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Della speranza tutta africana suscitata da quell’esperimento tutto africano di governo cosa è rimasto oggi?
Sicuramente la commozione di un mio amico senegalese (immigrato in Italia) che sentendomi fare il nome di Sankara mi racconta le speranze che il suo agire aveva alimentato in lui ed altri, allora, giovani di Dakar.
Oppure le parole di un conoscente congolese (Repubblica Democratica del Congo) che proprio ispirandosi a Sankara, racconta, incominciò ad occuparsi di politica e società (ed oggi è prete e missionario).
E soprattutto le sue idee ed il suo esempio.
“Per ottenere un cambiamento radicale bisogna avere il coraggio d’inventare l’avvenire. Noi dobbiamo osare inventare l’avvenire”.
Cosa leggere per approfondire
Dal mensile dei Missionari Comboniani Nigrizia
* «È sempre tra noi» 01/10/2000
Il capitano Thomas Sankara: capo di stato, leader nazionale, ma soprattutto un mito ancora vivo, speranza per molti “pellegrini” non solo del paese degli uomini integri, ma per tutta l’Africa occidentale.
* Orgoglio africano 01/10/1997
Dieci anni fa, il 15 ottobre 1987, veniva assassinato a Ouagadougou il presidente Sankara. Aveva 38 anni, il capitano che aveva “osato inventare l’avvenire” di un paese, il Burkina Faso, che le classifiche confinano regolarmente tra gli ultimi del pianeta.
Che io sappia esistono questi libri in italiano su Sankara:
L’Africa di Thomas Sankara – Le idee non si possono uccidere
Carlo Batà Edizioni ACHAB – Verona – 2003
Il presidente ribelle – Discorsi di Thomas Sankara
a cura di Marinella Correggia Edizioni Manifestolibri – Roma – 1997
Thomas Sankara – Una speranza recisa
Aluisi Tosolini Edizioni EMI – Bologna – 1988
Burkina Faso – La storia di Thomas Sankara
Marinella Correggia Campagna Globalizza-azione dei popoli – Esperienze n° 1
Vi rimando, inoltre, al primo dei testi citati per una vasta bibliografia sia in inglese che, soprattutto, in francese.
Per quel che riguarda il multiforme universo della rete internet vi segnalo il sito – in lingua francese – http://www.thomassankara.net/ interamente dedicato al nostro, dove potrete reperire molto materiale, fra cui i testi dei suoi discorsi (anch’essi, ovviamente, in francese).
Concludo segnalandovi l’esistenza di un disco “The Thomas Sankara CD” autore Ganaian, edito dalla ilmanifestoCD, costo euro 8,00. Come recita la pubblicità del disco stesso “Appassionato tributo alla figura del presidente ribelle del Burkina Faso Thomas Sankara assassinato dai suoi avversari politici nel 1987. I discorsi di denuncia incentrati sullo sfruttamento dei popoli, sono campionati e posti su basi musicali etniche ed elettroniche che ne accentuano la forza sociale. Eugenio Finardi offre un’intensa interpretazione nell’unica reale “canzone” del CD”.
E mi sento quasi obbligato a chiudere con una citazione utilizzata come chiusa anche da altri che hanno scritto brevi testi su Sankara. E’ una frase di Sennen Andriamirado, giornalista del Madagascar. “E’ morto Sankara, un presidente non come gli altri. E’ stato forse un incidente della storia. Però, un incidente felice”.
(testo a cura di Leo – leggi altri suoi contributi nel sito)
* approfondisci la situazione di altri paesi africani
* leggi come la Campagna WNairobiW tenta oggi di lottare contro il debito e in favore di politiche di urbanizzazione nelle megalopoli africane
da http://www.giovaniemissione.it
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