VITA DA LAICI “CHRISTIFIDELES” – Fatebenefratelli – A cura di Angulo
Posted on agosto 27th, 2009 by Angelo
Posted on Aprile 7th, 2009 di Angelo |
I religiosi eletti nel LXVI Capirolo Generale alla guida dell’Ordine F.B.F.
REVISIONE DEGLI STATUTI GENERALI
Madrid, Mercoledì 3 settembre 2008
Il LXVI Capitolo Generale dell’Ordine, celebrato a Roma nell’ottobre 2006, ha approvato la proposta di creare una commissione per la revisione degli Statuti Generali e dei punti delle Costituzioni che ne conseguono.
Fra Jesús Etayo, Consigliere Generale, ha presentato la prima stesura della revisione degli Statuti, frutto del lavoro della commissione istituita nel 2007, un tema che sarà affrontato in tutte le Conferenze Regionali. Ha poi illustrato i criteri seguiti per il lavoro che ha portato alla stesura del documento, e che tra gli altri sono stati: gli Statuti devono raccogliere norme generali, aperte e universali, che devono essere verificate e basate su fonti proprie e della Chiesa, i Collaboratori come parte integrante della famiglia ospedaliera, specialmente per quanto si riferisce alla missione dell’Ordine, la dimensione universale dell’Ordine, l’esperienza di altri istituti, la partecipazione dei Confratelli e l’incorporazione dei nostri documenti più recenti, come la Carta d’Identità, il libro sulla Spiritualità, le Dichiarazioni dei Capitoli Generali, il Progetto Formativo dei Fatebenefratelli e lo studio sullo Stato della Formazione nell’Ordine.
Ha poi continuato con la struttura degli Statuti, che si compone di un’introduzione e sei capitoli: Consacrazione, Collaboratori, Comunità, Formazione, Governo e Fedeltà alla nostra vocazione ospedaliera. Ha concluso con la spiegazione dei cambiamenti proposti e il lavoro di gruppo per l’esame e gli apporti del caso.
Il pomeriggio è stato dedicato ad una visita turistica alla città di Madrid, che dista circa 60 chilometri da Los Molinos, e la giornata si è conclusa con una cena tipica e uno spettacolo di musica e di flamenco.
I Christifideles Laici, come ora vengono chiamati i batezzati che non sono nè sacerdoti , nè religiosi, vivono da duemila anni nella posizione equivoca di chi ha la consapevolezzasa di non essere “né carne né pesce”.
Le ragioni storiche sono infinite, ma il passaggio ad una nuova consapevolezza non è né facile né imminente per il perdurare di pregiudizi, presenti a tutti i livelli e superabili solo attraverso la frequentazione reciproca e la mediazione della Parola di Dio.
Quello di seguito non è altro che una raccolta di punti di riflessione che andrebbero portati avanti INSIEME: RELIGIOSI E LAICI.
SPUNTI DI REVISIONE
STATUTI F.B.F. GENERALI 2008
PREMESSA
Il libretto degli “Statuti Generali” è uno dei tanti che, forse letto per intero appena uscito o magari anche solo sbirciato, finisce in uno scaffale e vi resta per anni, nuovo di zecca. Il fatto che non interessi più di tanto, deve celare una ragione che qui si vorrebbe smascherare: forse un certo modo di dire cose importanti ma con distacco burocratico. Se gli Statuti appaiono un codice di norme più che una lettera d’amore che, di tanto in tanto, si riprende volentieri in mano perché parla l’Amato ed è coinvolgente e passionale, l’interesse ovviamente vien meno.
Il nostro Santo Padre Agostino, Vescovo d’Ippona e dottore della Chiesa, in una preghiera , come del resto anche nella Regola, ci ricorda il movente gioioso della sequela: “Signore, rendici capaci di vivere con amore la nostra vocazione, da veri innamorati della bellezza spirituale, rapiti dal profumo di Cristo che esala da una vita di conversione al bene, stabiliti non come schiavi sotto una legge, ma come uomini liberi guidati dalla grazia”.
Questo lavoro è stato costruito a più mani e chi ne è interessato e lo condivide, non ha che da sottoscriverlo. Che, se altri hanno fatto di meglio, saremo i primi a scartare questa proposta e ad aderirvi gioiosamente, perché grande è il Signore.
In un primo momento si era tentato di rispondere punto per punto alla Bozza Statuti Generali 2008, come da istruzioni. Ma subito ci si è resi conto che i ritocchi avrebbero solo guastato la Bozza che ha una sua logica e regge su uno schema di fondo. Le varianti avrebbero finito per stravolgere più che migliorare il documento. Ed è proprio su tale impostazione che è subito nato il disaccordo. Disaccordo che non è tanto nelle norme dettagliate su una questione o su un’altra, di carattere squisitamente giuridico-regolamentare, ma sull’impostazione di fondo, la stessa della precedente edizione.
Dopo ripetute letture, la convinzione maturata è che i nuovi Statuti nascono vecchi e non si adeguano sufficientemente all’evolversi rapido delle situazioni. Le ragioni sono molteplici ma le maggiori criticità si notano proprio in quel “processo di collaborazione e di integrazione istituzionale con i laici “che, partendo da equivoci di fondo, è solo generatore di contraddizioni e difficoltà applicative.
Sull’identità dei laici bisogna fare chiarezza e non bisogna emarginarli. Per farlo, non mancano i pretesti, non sempre infondati: non sono preparati, hanno una debolezza d’identità vocazionale, ecc… Fosse davvero così, sarebbe un motivo in più per concentrare gli sforzi onde promuovere concretamente la loro maturazione. Mantenere lo status quo, significa rinunciare al mandato che ci affida la Chiesa, voce dello Spirito Santo. Le generiche buone intenzioni non bastano. Approvare uno Statuto che non si sa fino a che punto sia condiviso da religiosi e laici – almeno nella Provincia Lombardo-Veneta - e, successivamente, renderlo esecutivo, è quanto di meno auspicabile, in un contesto dai sensibilissimi nervi scoperti. Se dovesse accadere, rispecchierebbe una mentalità che stenta a morire: quella di calare le cose dall’alto, senza farle maturare a livello di base. In altre parole: la regola nasce a tavolino. Ad altri tocca viverla e realizzarla. Si è già verificato mille volte e non funziona.
A 20 anni dal Convegno di Brescia “RELIGIOSI E LAICI INSIEME PER SERVIRE”, momento indubbiamente Pentecostale, s’è perso il gusto di guardare il mondo, le persone, la vita, il lavoro, il denaro, la missione, l’impegno culturale e politico, ossia la Dottrina sociale della Chiesa, che è un guardare la realtà con lo sguardo di Cristo, alla luce del Vangelo. Il “dialogo” pluridirezionale sembra essersi spento e il fuoco, se la legna è umida, non s’accende.
Partendo da questa premessa, si è ritenuto di suggerire pochi punti chiave, da ribadire in premessa, perché ritenuti fondamentali e determinati il seguito. Essi hanno uno scopo propedeutico ed una intrinseca forza pedagogica propositiva che viene dalla Parola, la sola capace di suscitare le novità dello Spirito, la fantasia della carità e di riscaldare il cuore di noi discepoli, per certi versi, molto simile a quello dei due avviliti di Emmaus.
Pertanto, se le Commissioni lo riterranno, non avranno che da schematizzare le parti sviluppate, focalizzando i punti che contraddistinguono questo lavoro, incompleto per ragioni di tempo, ma sufficientemente indicativo dal punto di vista metodologico:
1. L’Introduzione… che parte con la benedizione di San Giovanni di Dio e l’invocazione della Trinità Santissima per il dono della saggezza.
2. Le pagine bibliche dimenticate…
3. Dove sono, Signore? …L’interrogativo di Giacobbe e di Giovanni di Dio, due smarriti in un tempo che assomiglia al nostro.
4. La strada…
5. Il Tempo - Kairòs, il tempo favorevole
6. Il Volto nei volti…
7. La Grazia…
8. Lo Spirito di Verità…
9. I Laici Christifideles… con particolare riguardo alla donna.
10. …
ARGOMENTI CHE DOVREBBERO FIGURARE NEGLI STATUTI
La Chiesa del Concilio Vaticano II indica tre grandi prospettive vocazionali per l’unica missione:
1. la ministerialità dei laici cristiani, i quali, pur coscienti dell’indole secolare della propria missione sono disposti alla testimonianza del servizio nella Chiesa;
2. la ministerialità dei consacrati, chiamati al carisma di una “vita-segno” del Cristo vergine, povero, obbediente e accogliente;
3. la ministerialità dei presbiteri, “ripresentazione sacramentale” del Cristo pastore e capo della sua Chiesa, nonché la ministerialità dei diaconi permanenti, coniugati compresi, segni della pluriforme diaconia di Cristo.
Ne consegue che, sia l’Ordine che la Provincia, devono assumere dei connotati ben visibili:
4. Una Provincia in ascolto, che colloca la Parola al centro della sua programmazione. L’ascolto si tramuta in servizio: “Il primo servizio che dobbiamo rendere ai fratelli è quello dell’ascolto. Chi non sa ascoltare il proprio fratello presto non saprà neppure ascoltare Dio, sarà sempre lui a parlare, anche con il Signore” (D. Bonhoeffer).
E’ un’amara constatazione: davanti al Testo Sacro si può restare inerti e muti o per indifferenza o per impreparazione.
In questo modo tante potenzialità contenute nelle Scritture, che sarebbero di speranza per il contesto in cui operiamo, rimangono inesplorate e improduttive. Questo è un buon motivo per incoraggiare ad acculturarsi. Qui, a tal proposito, va inserito il paragrafo 8 della Dei Verbum.
5. Una Provincia che si colloca in stato di missione per promuovere le menzionate tre prospettive vocazionali. I diaconato permanente di laici coniugati sono una possibilità da prendere in seria considerazione. Lo stesso dicasi per l’”ordo virginum”, tornato in auge dopo il concilio e da incrementare collaborando con il Vescovo nella Chiesa locale. Sono ministeri che possono avere una ricaduta benefica sui Centri di assistenza.
6. Un osservatorio Provinciale “caritas” permanente, in contatto con le caritas delle diocesi dove si è presenti. E’ lì che si percepisce il polso della Chiesa locale we del Territorio: l’ emarginazione, il disagio psichico, i malati che vivono a domicilio nell’anonimato…
7. Un “Sinodo” decennale della Provincia, syn (che significa: insieme), odòs (che significa: cammino), potrebbe essere un modo per sentirsi Chiesa viva, in stato di missione. Un tale organismo, farebbe capire immediatamente che il sinodo è un evento che ha il preciso scopo di permettere una partecipazione ampia di tutte le componenti della Famiglia Ospedaliera con le componenti ecclesiali e sociali dei territori interessati. Attraverso il Sinodo, cioè, il “cammino percorso insieme”, si potrebbe dar vita ad uno “Statuto Provinciale” che si ispiri a quello dell’Ordine ma lo adegui alle realtà locali. Un modo di partecipazione plenaria statuitaria, periodica e prestabilita, (possibilmente subito dopo il Convegno Ecclesiale Nazionale CEI), per verificare lo stato di salute della Comunità Terapeutica e del rapporto Chiesa locale -Territorio.
8. Il genio poliforme della donna: dimensione interiore e linguaggio della tenerezza. Una ricchezza enorme di cui dispone la Provincia e che magari non sa apprezzare a sufficienza. La donna, come Maria a Cana – bisogna scriverlo negli Statuti – restando talora nelle retrovie del silenzio, può sdrammatizzare scontri, tessere comunione, aiutare le persone a superare i guadi del disagio, illuminare decisioni più avvedute. La donna consacrata non è da meno: essa sa disegnare una sorprendente geografia della carità. Più ore di presenza di suore nei centri, più fermento della pasta, più carità in espansione. Facciamo parlare le donne consacrate. Quelle preparate a farlo non mancano.
9. Aprire a sacerdoti, religiosi e laici esterni: sono queste le forze capaci di contagio evangelico e di sostegno nel momento di debolezza diffusa che sperimentiamo. Noi siamo Chiesa ma la Chiesa è anche per noi. E dobbiamo umilmente lasciarci soccorrere e curare nel momento della fragilità.
10. Apprendere e sviluppare la mentalità di una nuova “Economia di Comunione”. Discorso difficile ma che va iniziato perché il mondo è già su un’altra rotta.
11. Contatto mensile con i Centri per mezzo di una “équipe” volante che si sposta, fornisce linee per un sentire comune nella Provincia, crea comunione, raccoglie le criticità locali, mantiene i contatti e stimola all’unità in una gioiosa carità.
…. Ecc…
STATUTI GENERALI ORDINE OSPEDALIERO DI SAN GIOVANNI DI DIO
BOZZA STATUTI 2008INTRODUZIONESiamo un Istituto di fratelli approvato dalla Chiesa come un Ordine Religioso per vivere e testimoniare il carisma dell’ospitalità. La nostra missione consiste nel manifestare la misericordia di Dio mediante il servizio ai poveri, ai malati e ai bisognosi.. Esistiamo per continuare l’opera iniziata da San Giovanni di Dio a Granada in Spagna nel sedicesimo secolo. La nostra identità di fratelli consacrati nell’ospitalità ci impegna ad incoraggiare, favorire e creare legami di fraternità con tutti coloro che desidera unirsi a noi per condividere la nostra spiritualità, il carisma e/o la missione come volontari, professionisti e benefattori. |
NUOVA PROPOSTA 2008INTRODUZIONEQuesto aggiornamento degli Statuti Generali ha preso forma “nel nome di nostro Signore Gesù Cristo e di nostra Signora la Vergine Maria sempre intatta. Dio prima di tutto e sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù” (Lett. S.Giovanni di Dio)Ti chiediamo, Padre, per la morte del tuo Figlio sulla croce, di donarci il tuo Santo Spirito perché apra il nostro cuore alla conoscenza della tua Parola.Donaci di non subire questa nuova esperienza che siamo chiamati a sperimentare nell’Ordine ma di viverla con la pazienza, minuto per minuto, e la certezza che tu ci conduci anche attraverso i momenti di silenzio, di aridità, di fatica, di deserto, perché tu sei più grande di noi e il nostro cuore trova soltanto in te il suo riposo. AMEN |
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Criterio abbandonato |
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INTRODUZIONE
Questo aggiornamento degli Statuti Generali ha preso forma “nel nome di nostro Signore Gesù Cristo e di nostra Signora la Vergine Maria sempre intatta. Dio prima di tutto e sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù” (Lett. S.Giovanni di Dio)
Ti chiediamo, Padre, per la morte del tuo Figlio sulla croce, di donarci il tuo Santo Spirito perché apra il nostro cuore alla conoscenza della tua Parola.
Donaci di non subire questa nuova esperienza che siamo chiamati a sperimentare nell’Ordine ma di viverla con la pazienza, minuto per minuto, e la certezza che tu ci conduci anche attraverso i momenti di silenzio, di aridità, di fatica, di deserto, perché tu sei più grande di noi e il nostro cuore trova soltanto in te il suo riposo. AMEN
La tentazione ricorrente nella vita consacrata postconciliare è quella di chiederci che cosa dobbiamo fare e di mettere insieme una lista di impegni, di propositi o elencare dei campi in cui metterci ad operare, dimenticando che la domanda vera cui tentare una risposta è un’altra: a quali condizioni c’è per la vita consacrata un futuro carico d’eternità.
“…voi avete il compito di invitare nuovamente gli uomini e le donne del nostro tempo a guardare in alto, a non farsi travolgere dalle cose di ogni giorno, ma a lasciarsi affascinare da Dio e dal Vangelo del suo Figlio. Non dimenticate che voi, in modo particolarissimo, potete e dovete dire non solo che siete di Cristo, ma che «siete divenuti Cristo»!
A queste sollecitazioni della Chiesa, segue un incoraggiamento da raccogliere:
“Voi non avete solo una gloriosa storia da ricordare e da raccontare, ma una grande storia da costruire! Guardate al futuro, nel quale lo Spirito vi proietta per fare con voi ancora cose grandi.” (Vita consacrata.110)
L’impegno post conciliare dev’essere coronato e rafforzato da un nuovo impeto (13). Ma se la rivitalizzazione passa attraverso l’intraprendenza, l’inventiva e la santità dei Fondatori (37), l’audacia e la creatività scaturiscono dalla familiarità con la pagina evangelica, molto pragmatica:
“Gesù disse loro anche questa parabola: “Nessuno strappa un pezzo di stoffa da un vestito nuovo per metterlo su un vestito vecchio, altrimenti si trova con il vestito nuovo rovinato, mentre il pezzo preso dal vestito nuovo non si adatta al vestito vecchio.
E nessuno mette del vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino li fa scoppiare: così il vino esce fuori e gli otri vanno perduti. Invece, per vino nuovo ci vogliono otri nuovi. Chi beve vino vecchio non vuole vino nuovo. Dice infatti: quello vecchio è migliore“. (Lc 5, 36-39)
Se il Concilio Vaticano II è nuova Pentecoste venuta a ravvivare lo spirito, la nostra presa di coscienza è di sentirci coinvolti ora nel ricreare generosamente strutture, metodi e prospettiva affinché il punto di convergenza sia lo Spirito. Se le strutture in cui operiamo non sono carismatiche, evangelizzatrici, fraterne, semplici, comunicative, chiare, trasparenti…vuol dire che, al di là delle buone intenzioni e della generosità personale, esiste qualcosa che non va.
San Giovanni di Dio a parte, nel passato abbiamo avuto singolari figure di innovatori. Due per tutte:
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il Padre Alfieri, per lunghi anni Priore Generale dell’Ordine,
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San Benedetto Menni, restauratore e fondatore.
Dai loro scritti e dalla loro esperienza dobbiamo attingere l’ardore “paolino” che li ha animati: “Guai a me se non evangelizzo” (1 Cor 9,16).
La rivitalizzazione di un orto passa attraverso due fasi principali:
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la bonifica del terreno
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la semina
Se è vero che le strutture si rinnovano attraverso architetti ed ingegneri, a noi vengono chiesti sapienza,vigilanza e discernimento:
“Se uno di voi decide di costruire una casa, che cosa fa prima di tutto? Si mette a calcolare la spesa per vedere se ha soldi abbastanza per portare a termine i lavori. Altrimenti, se getta le fondamenta e non è in grado di portare a termine i lavori, la gente vedrà e comincerà a ridere di lui e dirà: “Quest’uomo ha cominciato a costruire e non è stato capace di portare a termine i lavori”.
“Facciamo un altro caso: se un re va in guerra contro un altro re, che cosa fa prima di tutto? Si mette a calcolare se con diecimila soldati può affrontare il nemico che avanza con ventimila, non vi pare?2Se vede che non è possibile, allora manda dei messaggeri incontro al nemico; e mentre il nemico si trova ancora lontano gli fa chiedere quali sono le condizioni per la pace. (Lc 14, 28-32)
A rinnovare le persone è la semina:
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la riscoperta personale della Bibbia (quotidiana lectio divina),
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la vicinanza diretta, fisica, ai poveri ed ai malati,
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il ritorno costante alle fonti dell’Ordine,
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l’apertura mentale che avviene con la fatica dello studio ed il contatto con le scuole del sapere umano e teologico,
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il contatto con la Chiesa locale, i suoi giovani, i suoi malati (il frate che porta l’eucaristia a domicilio),
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la presenza nell’Università
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la promozione del Centro di ascolto e di condivisione (caritas)
LE PAGINE DIMENTICATE
In quel tempo Gesù disse: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando dài un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».
Gesù si rivolge al fariseo che l’aveva accolto in casa e lo esorta ad invitare, le prossime volte, coloro che non possono dargli una ricompensa. Ancora una volta rovescia completamente le regole abituali di questo mondo.
Alla cura meticolosa con cui si scelgono gli invitati di riguardo, Gesù contrappone la larghezza e la generosità nell’invitare coloro che non possono ricambiare, ed elenca poveri, ciechi, storpi e zoppi. Tutti costoro erano esclusi, ma Gesù li rende partecipi del banchetto che si deve preparare.
È una concezione nuova dei rapporti tra gli uomini che Gesù stesso vive per primo: le nostre relazioni vanno fondate non sulla reciprocità ma sulla totale gratuità, sull’amore unilaterale, appunto com’è l’amore di Dio che abbraccia tutti e particolarmente i poveri.
E la felicità, contrariamente a quanto si pensa ordinariamente, sta proprio nell’allargare il banchetto della vita a tutti gli esclusi senza pretendere una ricompensa. La ricompensa vera, infatti, è poter lavorare per questo.
Peraltro, solo in questa prospettiva si costruisce un mondo su basi solide e pacifiche. L’allargarsi della distanza tra chi sta alla tavola della vita e chi ne è escluso, mina alle radici la pace tra i popoli. Il messaggio del Vangelo è esattamente il contrario. Ma è un’altruità che salva il mondo dal cadere nel baratro della violenza.
Siccome molta gente andava con Gesù, egli si voltò e disse: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.
Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda un’ambasceria per la pace. Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.
Gesù, dopo una lunga sosta nella casa di uno dei capi dei farisei, riprende il cammino verso Gerusalemme. Molta folla lo segue, nota l’evangelista. L’entusiasmo di quelli che lo seguono è davvero sorprendente. Ed è comprensibile: come restare affascinati da un uomo così buono che cercava in ogni modo di consolare e di confortare tutti e particolarmente chi aveva problemi e bisogno di guarigione?
Gesù, di fronte a questa folla che gli andava dietro, sente però l’esigenza di chiarire cosa significa seguirlo, cosa significa essere suo discepolo.
Ne ha già parlato precedentemente quando ha detto: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso” (9,23). Tornarci sopra sta a dire l’importanza che egli attribuisce alla scelta della sequela. Gesù chiede un legame esclusivo con lui, più forte di quello che si ha con la propria famiglia.
L’evangelista Luca fa un lungo elenco di persone che non debbono essere amate più di lui. Può suonare strano l’elenco. Ma è assolutamente chiaro che la scelta di seguire Gesù viene prima di ogni affetto e di ogni affare. E’ la scelta più alta che l’uomo è chiamato a compiere.
Ed è in tale contesto che va compresa la parola “odiare”, ossia non preferire nessun altro.
La scelta di seguire Gesù in maniera così radicale comporta evidentemente tagli e divisioni da fare, a partire dall’interno del cuore di ciascuno. L’amore esclusivo per Gesù è il fondamento della vita del discepolo.
Se non c’è questo amore, che si esprime appunto nel seguirlo, nell’ascoltarlo, nel mettere in pratica il Vangelo, è come costruire una torre (la vita) senza fondamenta o come andare in battaglia senza un esercito adeguato. L’amore per Gesù è la sostanza del Vangelo ed è anche ciò che i discepoli debbono testimoniare al mondo. Questo amore è il sale della vita.
DOVE SONO, SIGNORE?
Per un certo verso, Giacobbe e Giovanni di Dio si assomigliano. Entrambi sono dei viandanti sbandati, hanno vissuto una situazione di smarrimento e di inquietudine, senza più riferimenti certi sui quali fondare il proprio cammino nella vita. Entrambi sono un po’ il simbolo dell’uomo fuggiasco, che non sa dove va e si smarrisce nell’oscurità della notte. Ma che Dio alla fine sottrae all’abbandono ed accompagna verso il destino che ha loro preparato.
Racconta il Libro della Genesi che “10Giacobbe partì da Bersabea e si avviò verso Carran. Capitò in un posto dove passò la notte perché il sole era già tramontato. Li prese una pietra, se la pose sotto il capo come guanciale e si coricò. Fece un sogno: una scala poggiava a terra e la sua cima raggiungeva il cielo; su di essa salivano e scendevano angeli di Dio. Il Signore gli stava dinanzi e gli diceva:
“Io sono il Signore,
il Dio di Abramo e di Isacco.
La terra sulla quale sei coricato,
la darò a te e ai tuoi discendenti:
14essi saranno innumerevoli,
come i granelli di polvere della terra.
Si estenderanno ovunque:
a oriente e a occidente,
a settentrione e a mezzogiorno;
e per mezzo tuo e dei tuoi discendenti
io benedirò tutti i popoli della terra.
15Io sono con te,
ti proteggerò dovunque andrai,
poi ti ricondurrò in questa terra.
Non ti abbandonerò:
compirò tutto quel che ti ho promesso”.
16Giacobbe si svegliò e disse: “Veramente in questo luogo c’è il Signore, e io non lo sapevo!”.
17Fu preso da spavento e disse: “Quant’è terribile questo luogo! Questa è certamente fa casa di Dio! Questa è la porta del cielo!”.
E’ da questa consapevolezza della presenza di Dio – non astratta ma concreta e personale – che deve iniziare anche il cammino dell’uomo che cerca Dio, sia esso consacrato o fedele laico, e che da Dio è già cercato.
Dio cerca per chiamare a sé, e questa chiamata è per tutti, indipendentemente da quello che uno è, da quello che uno fa, da dove uno viene.
Spesso, tuttavia, non ci si rende conto per che cosa si è chiamati, e – come i discepoli sulla barca che pescano tutta la notte “senza prendere nulla” (Gv 21,3) – si sperimenta l’amarezza della delusione e del fallimento, che tuttavia non è vana perché serve come salutare purificazione per capire, proprio attraverso l’insuccesso, che si è chiamati a qualcosa di più grande.
Come Giovanni di Dio, anche Giacobbe
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non ha la protezione della madre,
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ha dovuto abbandonare il padre senza poterlo nemmeno salutare,
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è stato costretto a sottrarsi a tutte le sue coordinate visibili,
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la sua situazione morale non è a posto,
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il peccato gli rimorde la coscienza.
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Finanziariamente ha perso tutto e cerca scampo senza poter contare sul denaro.
Persi i tre riferimenti che per la Bibbia sono costitutivi dell’uomo:
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Dio,
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la famiglia,
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le amicizie, la terra e il lavoro,
quasi un maledetto da Dio, si ritrova con la domanda bruciante nel cuore: dove sono? Quale sarà il mio avvenire?
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l simboli: > il sogno di Giacobbe; > “Granada sarà la tua croce” –
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la promessa: la discendenza, le nazioni…
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il risveglio: “Giacobbe si svegliò e disse: “Veramente in questo luogo c’è il Signore, e io non lo sapevo!”. (Gen 28,16). Giovani di Dio: “Lo farò io un ospedale come lo voglio io!”
C’è la presa di coscienza, che per Giovanni all’Eremo dei Martiri, poi la scoperta straordinaria di chi si vede al centro delle coordinate di Dio e reinterpreta tutta la sua vita – l’essere solo in viaggio, ramingo e povero – ed in fine la luce che mette chiarezza nei pensieri e coraggio nell’azione.
Entrambi, Giacobbe e Giovanni di Dio, assumono una nuova umanità , una missione, un impegno di cammino che affronteranno fiduciosamente. Due testimoni che ci fanno scuola
LA STRADA
L’inizio del cammino.
Prima di mettersi in viaggio è fondamentale conoscere due cose:
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la meta,
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l’itinerario.
Gli Statuti Generali intendono rispondere a questa esigenza. Dovendo talora attraversare zone desertiche, è sconsigliabile procedere senza mappa, la guida, la bussola. Siamo eredi di una storia che inizia con il Libro della Genesi e termina con le parole dell’Apocalisse: Maràn Athà
Dove c’è l’assunzione piena e completa di una “passione per Dio e di una passione per l’uomo” del nostro tempo lì c’è “vita consacrata”.
Se l’espressione è comunemente intesa come una scelta nel seguire il Signore attraverso una “vocazione di particolare consacrazione a Lui”, essa non può essere più limitata alla vita religiosa strettamente intesa, ma pensando anche a tutte quelle forme di vita che vivono in maniera totale e radicale il discepolato del Signore nei vari ambiti ecclesiali. Dunque, “vita consacrata” si ha nel presbiterato come nella vita religiosa; nella vita monastica come in quella missionaria; o in tutte quelle particolari forme di consacrazione laicale, nelle quali il Sì al Signore è totale, pur esplicandosi in ambiti di vita anche diversificati, rispetto alle più conosciute e classiche forme della vita religiosa.
Il Signore apre tante “strade” all’uomo. Il cantore di questa topografia divina è il secondo Isaia che, proponendo un messaggio in un momento storicamente travagliato agli uomini del suo tempo, finisce per indicare anche a noi la strada: “Fra poco farò qualcosa di nuovo, anzi ho già cominciato, non ve ne accorgete? Costruisco una strada nel deserto, faccio scorrere fiumi nella steppa“. (Is 43,19) “Non soffriranno più la fame o la sete, né il sole, né il vento caldo del deserto li colpirà. Li condurrò con amore, li guiderò a fresche sorgenti” (Is 49, 10-11).
Il Profeta mette in guardia anche dalla troppo facile confusione tra le scelte e i cammini umani e i sentieri di Dio: “Cercate il Signore, ora che si fa trovare. Chiamatelo, adesso che è vicino. Chi è senza fede e senza legge cambi mentalità; chi è perverso rinunci alla sua malvagità! Tornate tutti al Signore ed egli avrà pietà di voi! Tornate al nostro Dio che perdona con larghezza! Dice il Signore: “I miei pensieri non sono come i vostri e le mie azioni sono diverse dalle vostre” (Is 55, 6-8).
Chiamati a sperimentare la profezia, se il nostro padre Abramo è per eccellenza l’uomo di fede che percorre le strade che Dio gli indica (Gn 12, 1-5), in San Giovanni di Dio, nostro fondatore, scorgiamo il discepolo del Signore che ci ha preceduti nella testimonianza della sequela. La sua esistenza così movimentata ed apparentemente inconcludente, evidenzia come come tutti gli itinerari umani possono essere strade del Signore se percorsi con Gesù che è la “via” (Gv 14,6) e esperienze mortificanti, come ad Emmaus, quando il Signore è recepito come un passante qualsiasi col quale sfogare le proprie frustrazioni e delusioni.
Già negli Atti degli Apostoli il cristianesimo stesso è qualificato come la “via” (At 9,2; 18,25; 24,25). Ciò significa allora che noi, consacrati o donne e uomini Christifideles laici, nella misura in cui siamo discepoli autentici del missionario di Granada perché attratti dal suo esempio e desiderosi di continuare l’opera da lui iniziata, siamo in realtà discepoli del Maestro Divino, Via che porta alla Verità, generatrice di Vita Eterna.
Il Padre dei poveri ha sperimentato la missione attraverso la via dell’ospitalità, la stessa percorsa da Abramo, da numerosi servi del Signore e, in modo mirabile dalla Vergine Maria, la “sempre intatta”.
Ed è nel suo incontro con Elisabetta, proprio perché si sente accolta dalla sua parente e avverte di essere capita nel suo intimo segreto, cioè nella sua maternità per opera dello Spirito Santo, che prorompe nel canto di gioia. Un inno che, se esalta l’opera di Dio nella storia della salvezza, è anche profezia. Stranamente la Madre di Dio, usa una serie di verbi al passato: “Grandi cose ha fatto l’Onnipotente, ha spiegato la potenza del suo braccio, ha rovesciato i potenti, ha disperso i superbi, ha innalzato gli umili, ha soccorso Israele”. Come può la Benedetta pronunciare queste parole quando ha appena cominciato a sperimentare la grandezza di Dio in lei? Se ancora molti superbi non sono stati dispersi, né potenti sono stati rovesciati dai troni, né affamati sono stati ricolmati di beni e Gesù stesso non ha ancora proclamato beati i poveri, su che cosa si fonda questa incrollabile certezza?
Maria non esita a proclamare eventi che in parte si devono ancora verificare perché mettendosi dalla parte di Dio, nella certezza della sua fede, vede già il compimento delle promesse messianiche. Infatti l’Apostolo Paolo scriverà alla comunità degli ebrei che la fede è un possedere già le cose che si sperano (Eb 11),
La piena di Grazia Maria pone anche noi, chiamati a realizzare la profezia, sulle orme di un “già e non ancora” che ci coinvolge nella dimensione del Regno.
Paolo, apostolo non per chiamata diretta ma per vocazione come noi, quando scrive ai fratelli Ebrei, è memore del comando del Signore:
“Andate…annunciate…guarite…”(Mt. 10, 1-ss).
Nel vangelo di Matteo si legge che “1Gesù chiamò i suoi dodici discepoli e diede loro il potere di scacciare gli spiriti maligni, di guarire tutte le malattie e tutte le sofferenze.”
Fra le istruzioni che il Signore ha dato a coloro che considera “sale e luce del mondo“, c’è questa:
“7Lungo il cammino, annunziate che il regno di Dio è vicino. 8Guarite i malati, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, scacciate i demòni. Come avete ricevuto gratuitamente, così date gratuitamente.
9Non procuratevi monete d’oro o d’argento o di rame da portare con voi. 10Non prendete borse per il viaggio, né un vestito di ricambio, né sandali, né bastone. Perché l’operaio ha diritto di ricevere quel che gli è necessario.”
Le raccomandazioni che Paolo rivolge ai fratelli cristiani di origine ebraica che si lasciavano prendere dalla nostalgia per il culto fastoso del tempio di Gerusalemme ed erano tentati di disertare le assemblee cristiane per ritornare all’ebraismo, rivolge un caldo invito alla perseveranza nella fede e nella vita cristiana. Esse rappresentano la traccia anche per le Fraternità di accoglienza che siamo chiamati a costruire nel mondo:
“Continuate a volervi bene, come fratelli. Non dimenticate di ospitare volentieri chi viene da voi. Ci furono alcuni che, facendo così, senza saperlo ospitarono degl’angeli. Ricordatevi di quelli che sono in prigione, come se foste anche voi prigionieri con loro. Ricordate quelli che sono maltrattati, perché anche voi siete esseri umani”. (Eb 13,1,3).
L’Apostolo, nella medesima lettera, che dovrebbe essere parte integrante di questi Statuti, eco dello spirito di cui era animato San Giovanni di Dio, ai viandanti di oggi, servitori del Vangelo, aggiunge ancora alcune raccomandazioni importanti. Se a coloro che sono coniugati, pur essi mandati per la missione, egli rivolge un particolare monito: “Il matrimonio sia rispettato da tutti, e gli sposi siano fedeli (Eb 13, 4-8), a tutti, indistintamente, richiama la fedeltà di Dio:
“La vostra vita non sia dominata dal desiderio dei soldi. Contentatevi di quel che avete, perché Dio stesso ha detto nella Bibbia:
Non ti lascerò,
no“5n ti abbandonerò mai.
6E così anche noi possiamo dire con piena fiducia: Il Signore viene in mio aiuto,
non avrò paura.
Che cosa mi possono fare gli uomini?
7Ricordatevi di quelli che vi hanno guidati e vi hanno annunziato la parola di Dio. Pensate come sono vissuti e come sono morti, e imitate la loro fede. 8Gesù Cristo è sempre lo stesso, ieri, oggi e sempre. 9Non lasciatevi ingannare da dottrine diverse e strane. È bene che il nostro cuore sia fortificato dalla grazia di Dio e non da regole a proposito dei vari cibi: chi ubbidisce a quelle parole non ne ha mai avuto un vantaggio”.
Paolo suggerisce a tutti di vivere in stato di provvisorietà e lo motiva così: “14Perché noi non abbiamo quaggiù una città nella quale resteremo per sempre; noi cerchiamo la città che deve ancora venire. 15Per mezzo di Gesù, offriamo continuamente a Dio – come sacrificio – le nostre preghiere di lode, il frutto delle nostre labbra che cantano il suo nome.
16Non dimenticate di fare il bene e di mettere in comune ciò che avete. Perché sono questi i sacrifici che piacciono al Signore.
17Ubbidite a quelli che dirigono la comunità e siate sottomessi. Perché essi vegliano su di voi, come persone che dovranno rendere conto a Dio. Fate in modo che compiano il loro dovere con gioia; altrimenti lo faranno malvolentieri e non sarebbe un vantaggio nemmeno per voi.“
IL TEMPO
Questo è il Kairòs di Dio, il tempo opportuno, favorevole, che ci è stato accordato. Non siamo chiamati ad esprimere un giudizio severo e distaccato sul mondo della salute ma piuttosto ad immettere nelle pieghe di tanti drammi la luce della Parola di Dio, il calore della carità e la testimonianza della sua misericordia: “Il signore è vicino a chi ha il cuore ferito” (Sal 34,19).
Questo è anche il tempo dell’attenzione di Maria, come a Cana: “non hanno più vino” (Gv 2,1-5).
Siamo chiamati a imitarla nel suo atteggiamento davanti al messaggero celeste, portavoce dello Spirito: ascolta, si scuote, interroga, si domanda.
A noi oggi è chiesto un atteggiamento dialogico, semplice, istintivo e insieme delicato, attento, perfettamente proporzionato alla situazione di un mondo nuovo, imprevisto, inedito.
Negativo sarebbe il passare dalla paura alla rigidità, alla pretesa di prove dall’alto, quasi non bastassero il numero di santi che ci sono stati inviati negli ultimi tempi.
Ma a farci del male potrebbe contribuire anche un eccessivo e sconsiderato ottimismo che banalizza i problemi e minimizza le priorità da intraprendere.
Il distacco di Maria, attento e discreto, le permette di vedere ciò che nessuno di fatto vede e cioè che il vino è terminato.
Maria è modello di attenzione al momento umano dell’esistenza, è attenta alle situazioni, alle persone e alle cose. Sono gli atteggiamenti che deve tenere chi è chiamato a portare il Vangelo in un mondo che cambia.
I VOLTO NEI VOLTI
Come cristiani ed a maggior ragione, come consacrati, siamo chiamati a rivivere la Passione di Cristo, nella nostra carne e nella nostra sofferenza personale, alla quale rimanda anche San Giovanni di Dio in una sua lettera alla Duchessa di Sessa:
“Quando vi trovate angustiata, ricorrete alla Passione di Gesù Cristo nostro Signore e alle sue preziose Piaghe, e sentirete grande consolazione; considerate tutta la sua vita: che cosa è stata se non fatiche, per darci l’esempio?…”(I lett. 10)
Se nel mistero e nel simbolo eucaristico la Chiesa rivive la Passione di Cristo, nel mistero pasquale entra nel dolore infinito del Crocifisso Risorto per l’uomo peccatore, in quella solidarietà che Gesù ha pagato a caro prezzo.
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· E’ la sola capace di offrire parole credibili di conversione e di riconciliazione;
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· la sola capace di calarsi nelle situazioni più aberranti dell’esistenza.
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· E’ solidarietà che non dice semplicemente parole formali o esteriori bensì testimonia la comunione obbediente, pur se sofferta, con Dio e un a profonda solidarietà con le più terribili sofferenze umane.
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· La più atroce delle sofferenze è quella del peccato, cioè della solitudine dell’uomo che si sente abbandonato da Dio perché ha tolto gli occhi da lui.
La contemplazione del Volto dolente del Signore del Venerdì Santo, ci mette in atteggiamento di Chiesa che non è atterrita e sommersa dalle miserie del genere umano perché sa che la croce di Cristo, posta al centro della liturgia e della vita, è capace di prendere su di sé tutto il dramma, il dolore, il peccato dei volti sfigurati dell’uomo.
E’ nella croce di Gesù che Dio stesso ci assicura che neppure la morte può fermare il suo amore e che non c’è situazione umana, per quanto drammatica e opaca, che possa rimanere estranea all’immenso abbraccio della croce. Del resto, questa è la stessa promessa di Gesù: “Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32)
Oggi la Passione di Cristo passa per le case di una moltitudine che soffre:
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· del disoccupato, di chi pensa all’avvenire con crescente timore,
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· del sequestrato atteso con ansia e afflizione,
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· della vittima di una violenza assurda e spietata.
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· Ma passa anche per le case degli anziani, spremuti delle loro energie e messi da parte, in solitudine, che sono in troppi a lamentare.
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· Passa per le case di coloro che attendono giustizia senza riuscire ad ottenerla,
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· di quanti, per un qualunque motivo, hanno dovuto, abbandonare una patria senza riuscire a trovarne una nuovo o a sentirsi accolti, persone che forse non hanno neppure una casa e stanno magari vicino a noi.
Il mistero della croce si rinnova in tutti coloro che si sentono esclusi e che la società fa sentire tali. A cominciare dai sofferenti psichici.
Accanto all’irrefrenabile ondata del marcato disagio psichico giovanile ed accanto agli handicappati, esistono coloro a cui vengono indicate vie d’uscita che sono soluzioni di morte: drogati, disadattati, carcerati che, anche nei luoghi che dovrebbero essere di espiazione ma pure di redenzione, rimangono vittime di un clima di violenza che in passato hanno o possono aver contribuito a creare.
Questa Passione e questa sofferenza passa, infine, per il cuore dei molti che pensano inutile la loro fedeltà ed incompreso e vano il sacrificio al dovere quotidiano e che di questo dovere cadono vittime.
Le Fraternità dei discepoli di Giovanni di Dio, sparse in ogni latitudine, potrebbero estendere l’elenco dei disagi che affliggono donne e uomini del nostro tempo.
Se la passione del Signore insegna ad accorgersi di chi soffre ed a soccorrerlo, sprona a credere che possiamo anche essere annunciatori dell’alba del giorno di Pasqua. Il sapere che Cristo non vuole avere oggi altre mani che le nostre per farsi carico dei fratelli, fa di noi non solo dei samaritani ma anche dei profeti anonimi, come Isaia, donne e uomini che possiedono uno spirito nuovo e sono chiamati a dire parole nuove perché
“4Dio, il Signore mi ha insegnato
le parole adatte
per sostenere i deboli.
Ogni mattina mi prepara
ad ascoltarlo,
come discepolo diligente.
5Dio, il Signore, mi insegna
ad ascoltarlo,
e io non gli resisto
né mi tiro indietro.
6 Ho offerto la schiena
a chi mi batteva,
la faccia a chi mi strappava la barba.
Non ho sottratto il mio volto
agli sputi e agli insulti.
7Ma essi non riusciranno a piegarmi,
perché Dio, il Signore, mi viene in aiuto,
rendo il mio viso duro come la pietra.
So che non resterò deluso. (Is 9, 4-7).
La sofferenza del messaggero è quella che salva il popolo. La Buona Notizia che siamo chiamati a diffondere, ossia che “per le sue piaghe siamo stati guariti” (Is 53-5), non ci fa esitare perché ci riporta alla profezia del Magnificat: pur nell’apparente smentita della storia, mettendoci dalla parte di Dio, nella certezza della fede, come a Maria, ci è dato vede già il compimento.
IL CUORE
“Adamo, dove sei?”, dove sei finito?, si domanda sbalordito Dio di fronte alla condizione di morte in cui l’uomo è caduto col peccato.
E’ necessario partire da qui per capire l’iniziativa di salvezza che Dio attua per l’umanità; iniziando proprio da Maria, quale alba e primizia di un ricupero a quella dignità e destino che Lui stesso, Dio, si era proposto nel creare ogni uomo.
Maria diviene allora la pagina biblica – scritta in una vita non a parole – nella quale leggere con speranza la nostra stessa vicenda di uomini redenti; cioè rileggere la proposta di Dio e la nostra risposta.
1) KECARITOMÈNE, PIENA DI GRAZIA Quando l’angelo Gabriele giunge a Nazaret in casa di Maria, non la chiama per nome, ma “kecaritomène“, cioè “piena di grazia”, CARA A DIO, oggetto d’un amore personale, termine di un dono speciale. Il nome proprio di Maria davanti a Dio è:
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“tutto mio dono – kecaritoméne”.
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Ma anche tu allora, o uomo, chiunque tu sia, sei “kecaritomene”, sei CARO A DIO,
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sei uscito dal suo cuore prima che dal ventre di tua madre,
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sei amato da Lui “come se fossi l’unico” (sant’Agostino).
“Benedetto sia Dio – esclama san Paolo – Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo“.
Una benedizione che si concretizza in un progetto preciso: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo“. Anzi, “in lui siamo stati fatti anche eredi, perché fossimo a lode della sua gloria“.
Perché proprio questa è la soddisfazione più grande di Dio: averci partecipi di casa sua.
L’uomo stranamente schifa questo dono col dire di no a Dio:
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“Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?”; hai forse pensato di fare a meno di Me?
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“Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto“.
Quando si perde un padre, si trova un padrone: la padrona del mondo che è la morte, regalo del principe di questo mondo che è satana. -”Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe“; una drammatica lotta tra satana e l’umanità sconvolgerà tutta la storia dell’uomo: “tu le insidierai il calcagno”.
Anche se le prospettive alla fine sono positive: “essa ti schiaccerà la testa“, l’umanità ne uscirà vittoriosa!
Nel più autentico frutto della stirpe umana, in Cristo, questa battaglia si farà vittoriosa; l’uomo sarà liberato dal peccato, dal male e dalla morte; sarà reso capace di resistere a satana per riconciliarsi con Dio; riavrà fiducia in Dio e ancora la partecipazione alla natura divina. Per la prima volta proprio in Maria l’uomo si sente – gratuitamente, per pura misericordia – chiamato ancora “kecaritoméne”, mio amato figlio, mio perdonato figlio, mia pecora smarrita che sono venuto a cercare, mio figlio prodigo che sono pronto a riaccogliere in casa con più festa di prima!
Anche di Maria oggi è detto, come verità di fede, che è piena di grazia perché “preservata dal peccato ante previsa merita, cioè in previsione della croce di Cristo“. Immacolata non per merito suo, ma perché per prima – e per esprimere in modo vistoso la gratuità offerta poi a tutti – è stata preservata fin dal primo istante della sua vita, cioè dal concepimento, dall’onda del male (concepita immacolata, immacolata concezione).
In Maria leggiamo l’assoluta generosità e ospitalità di Dio che gioca sempre d’anticipo, prima cioè d’ogni nostro merito, d’ogni nostra stessa domanda. Dio ama sempre a credito.
2) IO SONO LA SERVA DEL SIGNORE
Prima di partire da lei, l’angelo Gabriele raccoglie un SI’ che è condizione decisiva per l’opera restauratrice di Dio: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1,38). Alla gratuità del dono di Dio, Maria risponde con il SI’ della FEDE.
Da “kecaritoméne” Maria diviene “credente”: “Beata te che hai creduto” (Lc 1,45), la chiamerà subito dopo la cugina Elisabetta.
L’altra grandezza di Maria sta proprio nella sua risposta totale a Dio; dirà di lei sant’Agostino che “Maria è più grande per essere stata discepola di Gesù che non per essere sua madre“. Del resto un giorno Gesù disse così: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 11,27).
Ogni dono di Dio richiede una riconquista. “Il Signore che ha fatto te senza di te, non salverà te senza di te” (sant’Agostino). Dio stima troppo la nostra libertà, perché ci possa dare una salvezza senza la nostra collaborazione. Maria ha percorso il suo cammino di fede fino ai piedi della croce. A dire che anche la nostra fede si deve tradurre in opere quotidiane, in scelte coerenti, e in obbedienza d’amore a Dio, fatta anche di prove.
E’ un SI’ faticoso da esprimere a Dio, dopo il no che diciamo nel peccato. E’ quello che noi chiamiamo: santificazione. Maria è immacolata anche perché non ha mai detto di no a Dio.
Divenendo così il nostro modello e la nostra garanzia.
Una creatura, corrispondendo pienamente al dono di Dio, ha realizzato in pieno il superamento del male e della morte. Questa è la formula vincente, questa è la partenza per ogni riforma della nostra storia di uomini inficiata di egoismo e divisione. “Dio ci ha scelti – dice Paolo – prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità“: immacolati perché diciamo di sì al Signore vivendo come Lui l’amore.
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