02 – LE CONFESSIONI DI PAOLO..LA CONOSCENZA DI GESU’ – C.M.Martini
La conoscenza di Gesù
Vogliamo cercare di approfondire l’episodio di Damasco così come Paolo stesso lo approfondisce in alcune lettere. Confessiamo la nostra titubanza nel penetrare il mistero di Dio in un’altra persona, anche se Paolo è figura emblematica per tutto il cristianesimo.
Confessiamo volentieri anche la nostra incapacità di cogliere il senso dei testi. Il Signore ci usi misericordia e ci faccia cogliere qualcosa di quella indescrivibile luce che ha avvolto e trasformato la vita dell’Apostolo.
Ci rivolgiamo direttamente a te, apostolo Paolo. Tu vedi con quanta presunzione pretendiamo di penetrare nel mistero della tua vita che tu stesso hai ripensato in tanti anni. Se lo facciamo è perché vogliamo conoscerti attraverso la conoscenza di ciò che Dio ha fatto in te, conoscere chi è Dio, chi è Gesù Cristo, chi è Gesù per noi. Noi sappiamo che tu, apostolo Paolo, non sei indifferente di fronte al nostro desiderio; anzi è il tuo desiderio. Tu hai vissuto per questo, hai sofferto e sei morto per questo. È per la tua sofferenza e per la tua morte che ora ti preghiamo. Apri i nostri occhi come il Signore ha aperto i tuoi, perché comprendiamo la potenza di Dio in te e la potenza di Dio in noi. Donaci di comprendere ciò che tu eri prima della conversione, ciò che noi eravamo prima che Dio ci chiamasse, ciò che noi siamo di fronte alla chiamata di Dio.
Ci rivolgiamo anche a te apostolo Matteo perché, uscendo da ciò che crediamo di sapere o di avere già capito, entriamo nella terra sconfinata che è la Parola di Dio.
In questa terra sconfinata troviamo il nutrimento, l’acqua e la manna che ci fanno camminare, il fuoco che ci riscalda e ci illumina, ascoltiamo la Parola di Dio, vediamo il lampo della sua gloria.
Anche a noi sia concesso, come a Paolo e a Matteo, di portare il tuo messaggio con coraggio e con libertà di parola e di spirito.
Ascolta, o Padre, la preghiera che ti facciamo insieme con gli Apostoli Paolo e Matteo, insieme con Maria, Madre di Gesù. Per Cristo nostro Signore. Amen.
Per comprendere la ricchezza dell’azione divina in Paolo, per capire ciò che lui ha detto della sua esperienza a cui fanno riferimento milioni di uomini, occorre aggiungere ai testi già citati le tre descrizioni della sua conversione che si trovano negli Atti degli Apostoli al cap. 9 (in terza persona) e ai capitoli 22 e 26 in forma autobiografica.
La descrizione del cap. 26 è la più ricca di spunti autobiografici, la più distesa e diffusa. Essa può servire come punto di partenza per chiarire quali domande fare a Paolo, ascoltare le risposte che ci dà, sulla base del testo degli Atti e di quelli delle lettere già evocate. È l’ultimo discorso che Paolo fa in sua difesa di fronte ad Agrippa, a Cesarea.
Recentemente sono stati scoperti i resti del palazzo imperiale: ed è proprio là, presso il mare, dove oggi le onde si infrangono sui ruderi delle costruzioni romane, che Paolo ha parlato di sé: «Anch’io credevo un tempo mio dovere – aveva un forte senso del dovere – di lavorare attivamente contro il nome di Gesù il Nazareno, come in realtà feci a Gerusalemme; molti dei fedeli li rinchiusi in prigione con l’autorizzazione avuta dai sommi sacerdoti, e quando venivano condannati a morte, anch’io ho votato contro di loro – il caso cui si riferisce è evidentemente quello di Stefano e l’approvazione da lui data alla sua morte, anche se non ha buttato le pietre -. In tutte le sinagoghe cercavo di costringerli con le torture a bestemmiare e, infuriando all’eccesso contro di loro, davo loro la caccia fin nelle città straniere» (At 26, 9-11).
Qui si pongono dei problemi di critica storica. Non sembra che il sinedrio, a quel tempo, avesse il potere di andare aldilà delle sinagoghe della Palestina e nelle sinagoghe stesse aveva un potere limitato, non certo quello di uccidere. La stessa uccisione di Stefano è probabilmente un atto inconsulto, frutto di sommossa popolare e al di fuori del diritto. Le sinagoghe potevano interrogare, flagellare, imporre alcune penalità ed è in questo ambito che Paolo aveva operato all’inizio. Gli storici sono quindi dubbiosi davanti alla dizione « città straniere ». Forse Paolo si è fatto dare delle lettere di raccomandazione e poi, con uno zelo superiore a quello di quasi tutti gli altri, si è recato in queste città per convincerle a perseguitare i cristiani. È un uomo dotato di grande inventiva nel perseguire ciò che gli sembra giusto: «In tali circostanze, mentre stavo andando a Damasco con autorizzazione e pieni poteri da parte dei sommi sacerdoti, verso mezzogiorno vidi sulla strada, o re, una luce dal cielo, più splendente del sole, che avvolse me e i miei compagni di viaggio» (At 26, 12-13).
Le parole sono da considerare con attenzione: «una luce dal cielo ». Su questo Paolo ha molto riflettuto e ci ritornerà scrivendo ai Corinti: «Quel Dio che ha detto: Sia la luce, è lo stesso che ha rifulso nei nostri cuori» (2 Cor 4, 6).
Il Dio della creazione che ha creato ogni luce gli si è manifestato con una luce ancora più grande: Paolo collega tutte le grandi opere creative di Dio nell’Antico Testamento con ciò che in lui è avvenuto. Una profonda illuminazione la cui sorgente è la gloria del Cristo stesso, alla luce del quale tutto il resto impallidisce.
« Tutti cademmo a terra e io udii dal cielo una voce che mi diceva in ebraico: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Duro è per te recalcitrare contro il pungolo. E io dissi: Chi sei, o Signore? E il Signore rispose: lo sono Gesù, che tu perseguiti. Su, alzati e rimettiti in piedi; ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora. Per questo ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando ad aprir loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di Satana a Dio e ottengano la remissione dei peccati e l’eredità in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me» (At 26, 14-18).
Mettendo insieme questo testo con gli altri, possiamo fare a Paolo alcune domande:
- Da dove ti ha fatto uscire il Signore a Damasco, e dove eri quando la Parola di Dio ti ha raggiunto? – Verso quale direzione ti ha portato questo avvenimento fondamentale della tua vita?
- Come è avvenuto questo passaggio, cioè la tua pasqua dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce, dalla non-conoscenza di Dio alla conoscenza di Dio?
Suggerisco qualche risposta.
Dove eri quando la Parola ti ha raggiunto?
La risposta è nel testo autobiografico della lettera ai Filippesi, dove Paolo afferma che la Parola di Dio lo ha colto mentre era in pieno possesso di valori fondamentali, a lui cari, e conquistati, in parte, a caro prezzo: «sebbene io possa confidare anche nella carne » (Fil 3, 4). Sono le realtà che vengono all’uomo dalla sua natura, dalla sua storia, dalla forza delle sue mani: «io più di lui ». Appartengono alla storia gloriosa di Paolo:
- circonciso l’ottavo giorno: non come i pagani, chiamati con disprezzo gli incirconcisi, nel senso di maledetti, abbandonati, quelli di cui Dio non sembra curarsi;
- della stirpe di Israele: del popolo eletto, luce delle nazioni;
- della tribù di Beniamino: conosco il mio passato, i miei antenati, il legame che mi riporta al figlio di Giacobbe;
- ebreo da ebrei: i possessi ricevuti, cioè padre, madre, nonni, tutti di questa gloriosa generazione;
- fariseo quanto alla legge: cioè ebreo della stretta osservanza, del rigore morale più assoluto, che più conosce la legge, che più vive le tensioni spirituali profonde del giudaismo. Fariseo era nome glorioso che sottolineava l’impegno di vita vissuta nell’ambito della legge, con una grande carica morale interiore.
- Quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’ osservanza della legge. È la stessa parola di lode che viene applicata a Giuseppe: uomo giusto. Così vengono anche descritti i genitori di Giovanni Battista, Zaccaria ed Elisabetta: erano entrambi giusti. La massima lode che si può fare dal punto di vista biblico, Paolo la applicava a sé.
- Irreprensibile: «Chi di voi mi convincerà di peccato? », avrebbe potuto dire;
- Non c’era in me niente che mi si potesse rimproverare dal punto di vista della legge: noi sappiamo quanto fossero minuziosi i comandamenti, le prescrizioni cerimoniali, e complicati i rituali. Anche oggi il pasto ebraico è molto complicato, con tante prescrizioni di cibi, alcune mescolanze da evitare, alcuni cibi da verificare all’origine. È tutta un’attenzione che richiede una grande tensione spirituale.
Paolo è colto quindi in una situazione in cui possiede tradizioni, impegno personale, zelo, giustizia: un insieme di grandi beni che gli è immensamente caro, di cui fa l’elenco con profonda commozione. Bisogna avere conosciuto gli ebrei per sentire con quanta intensità, anche oggi, dicono di essere ebrei, confessano la loro stirpe e la loro tradizione. È qualcosa che entra nella carne come una seconda natura, un modo di essere irrinunciabile. Il caso più tipico è quello di Simone Weil. Ella ha intuito in una maniera profondissima i misteri del Battesimo, dell’Eucaristia, della preghiera, ha scritto delle pagine forse tra le più belle sulla vita cristiana, sul lavoro, sulla contemplazione; ma non è mai giunta al Battesimo, perché le sembrava di non poter rinunciare al suo essere ebrea. Pur intuendo profondamente la bellezza della realtà cristiana, morendo dalla voglia di nutrirsi dell’Eucaristia, nella quale vedeva davvero il culmine della storia e della creazione, è stata fino all’ultimo bloccata dalla pienezza delle cose che le sembrava di possedere e dal bisogno di solidarietà con il suo popolo martoriato.
Paolo usa, sempre nella lettera ai Filippesi, una espressione che riferiste a Gesù, ma che certamente, a questa luce, acquista un sapore autobiografico: «Gesù Cristo, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio». Il testo greco sembra voler dire « non considerò come preda », cioè come oggetto di possesso avido, da tenersi con bramosia. Così Paolo viveva la sua realtà: un tesoro geloso che non poteva consegnare a nessuno. La risultanza di questo possesso era la grande cura nel difenderlo, il grande zelo nel promuoverlo, la grande violenza contro tutti quelli che potevano attentare al tesoro.
Ciò spiega la sua intolleranza verso i cristiani e il bisogno di sterminarli, perché coglieva, giustamente, che essi andavano proprio alla radice di quel tesoro.
Possiamo capire allora anche le autoaccuse che si farà e che vengono riferite nella prima lettera a Timoteo: «Ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento» (1 Tim 1, 13). Non un bestemmiatore nel senso che si rivolgeva contro Dio, ma nel senso che, senza saperlo, – ed è qui tutta la sua conversione, il dramma che lui vive – si rivolgeva contro Cristo, Figlio di Dio, per la difesa del suo tesoro. Ora è comprensibile che descriva la sua vita come vissuta nel peccato perché, in realtà, – e se ne accorgerà sempre più – il suo atteggiamento verso Dio era profondamente sbagliato. Non considerava Dio come Dio, autore e origine di ogni bene; ma al centro di tutto c’era il suo possesso, la sua verità, i tesori che gli erano stati affidati. Un atteggiamento esteriormente irreprensibile ma che interiormente era di una possessività esasperata, tale da turbare in radice il suo rapporto con Dio, padre e creatore.
È lo stravolgimento che viveva senza saperlo e dal quale scaturirà la sua comprensione nuova del Vangelo, della grazia, della misericordia, dell’iniziativa divina, dell’attività di Dio.
Egli viveva non il Vangelo della grazia, ma la legge dell’autogiustificazione che gli faceva dimenticare di essere un pover’uomo, graziato da Dio non perché fosse qualcosa in sé, ma perché Dio lo amava.
Il dramma di Paolo è un dramma sottile, difficile, quale lo può vivere un uomo profondamente religioso e minacciava di diventare distorsione radicale dell’immagine di Dio in lui.
Ecco da dove viene Paolo e la sua violenza ideologica. La violenza ideologica, frutto di fanatismo e dell’incapacità di capire gli altri se non come sottomessi a se stessi, non è scomparsa ai nostri giorni. Ancora l’uomo cerca una salvezza propria, cerca una giustizia e un’autogiustificazione che porta ad ogni genere di aberrazioni, pago di un possesso in cui ci si crede totalménte padroni, e non servi, della verità.
La situazione di Paolo è istruttiva a riguardo di alcune delle perversioni più profonde. Quelle che affronterà Gesù nel Vangelo quando dirà: «I peccatori vi precedono nel Regno di Dio ». Vuol dire che chi commette dei peccati perché, ad esempio, si ubriaca o si lascia vincere dalla sensualità, commette peccato, certo, ma è sempre, in qualche modo, conscio di fare il male: ha bisogno di comprensione, di aiuto e di misericordia per superare la propria debolezza e confessa di essere fragile. Paolo invece non avrebbe mai confessato di essere fragile e debole. Ed è questo il peccato che Gesù attacca nei farisei: quella perversione fondamentale per cui l’uomo si fa salvezza di se stesso e, credendo di essere giunto all’apice della perfezione, giunge alle più gravi aberrazioni della violenza.
Verso quale direzione ti ha portato il Signore?
Paolo stesso ci fa comprendere nella lettera ai Filippesi e nella lettera ai Galati il significato di questa direzione.
a) Prima di tutto il Signore lo ha portato verso un totale distacco da ciò che prima gli era sembrato sommamente importante: «Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ormai tutto io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3, 7-8).
Lo ha portato verso la percezione che tutto questo non vale niente di fronte a Cristo: non in sé, ma di fronte a Cristo.
Lo ha portato ad una visione completamente nuova delle cose. Non a un cambiamento morale immediato, ma ad una illuminazione: egli parla di rivelazione, perché mettendosi da un punto di vista nuovo, quello di Cristo, tutte le cose gli appaiono diverse. Egli giudica la sua vita in maniera così nuova che l’esclamazione che meglio riassume la sua risposta interiore alla parola di Gesù sulla via di Damasco è: ho sbagliato tutto. Ho creduto valido ciò che non lo era e mi sono lasciato trascinare ad un modo di agire violento e, alla fine, ingiusto. lo che mi gloriavo della mia giustizia sono diventato giustiziere degli innocenti.
Mentre Gesù gli chiede: «Perché mi perseguiti? », capisce, d’un colpo, che ha confuso, miserevolmente, la verità delle cose. È comprensibile il terribile choc di Paolo che, non attraverso un ragionamento, ma attraverso una presa di contatto della verità, capisce che è tutto da rifare, da ribaltare dall’alto in basso. Analogamente Matteo al cap. 13 descrive il mercante che, avendo trovato una perla preziosa, si accorge che tutto il resto non vale niente; così come l’uomo che, avendo trovato il tesoro nascosto nel campo, comprende che tutto il resto non ha alcun significato.
Quello che è avvenuto in Paolo è una tale rivelazione dell’essere di Gesù che gli ha fatto cambiare giudizio e atteggiamento su ciò che era e su ciò che faceva: una rivelazione che ha capovolto il suo atteggiamento interiore.
b) Il secondo modo che esprime « verso quale direzione » lo troviamo soprattutto in un capitolo della lettera ai Galati: «Si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunzi assi in mezzo ai pagani» (Gal 1, 15). È la missione che viene affidata a Paolo. È sconvolgente per Paolo che le due cose avvengano insieme: nello stesso momento in cui Gesù gli fa capire: «hai sbagliato tutto», gli dice: «tutto ti affido», ti mando.
Il Dio del V angelo e della misericordia è Colui che nell’istante in CUI mi fa capire che ho sbagliato tutto su di lui, perché ho messo me stesso al suo posto, mi dimostra la sua misericordia nel perdonarmi e mi dà fiducia nel chiamarmi al suo servizio, affidandomi la sua stessa Parola.
Questo istante riassume per Paolo tutto ciò che egli sapeva di Dio in maniera sbagliata. L’oscuro diventa chiaro, il violento diventa misericordioso.
Come è avvenuto questo passaggio?
Vogliamo capire che cosa gli è stato rivelato e perché Paolo parla di rivelazione, prima che di conversione.
- Tutto gli è stato donato: non c’è stato da parte sua sforzo, meditazione, esercizi spirituali, lunghe preghiere, digiuni. Tutto gli è stato donato, perché egli fosse per tutti i popoli segno del Dio misericordioso, la cui iniziativa precede sempre la nostra ricerca.
Sarebbe bello rianalizzare il v. 15 del cap. 1 della lettera ai Galati che usa un linguaggio antico testamentario per descrivere ciò che è avvenuto in Paolo:
« Quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio… ». Il soggetto della conversione non è Paolo: è Dio. Tutto il peso è dalla parte di Dio, lui è l’autore della conversione.
Come per la creazione « Dio disse e fu fatto », così per la conversione l’iniziativa è Sua, al di là di ogni nostro merito, di ogni nostro desiderio o pensiero.
Dio ci chiama e si compiace di manifestare a noi suo Figlio.
Questo è il primo aspetto del « come»: per grazia, per dono, perché piacque a Dio.
- Tutto gli è stato dato, nella conoscenza di Gesù. Abbiamo già visto, infatti, che Paolo descrive la conversione in termini di incontro (1 Cor 15, 8). Cristo è la rivelazione dell’iniziativa divina e misericordiosa per me. Cristo è l’incontro tra Paolo e Dio.
Poniamoci anche noi alcune domande
- Che cosa c’è in me di affine, di diverso o di analogo, all’esperienza di Paolo?
Come posso cogliere nella mia vita l’azione preveniente di Dio che mi fa essere ciò che sono?
- Come e in quale maniera Gesù, che è stato per Paolo la rivelazione della misericordia divina, è per me il punto di riferimento fondamentale per comprendere chi sono, che cosa sono, da dove vengo, a che cosa sono chiamato?
- Quali sono i possessi che mi impediscono di cogliere con libertà l’iniziativa divina verso di me?
Dobbiamo farci queste domande con amore: se le poniamo con spirito possessivo o autogiustificativo, risponderemo in fretta e non riusciremo a vedere in profondità la storia della nostra vita sotto lo sguardo di Dio. Ma se ci interroghiamo con amore e misericordia potrà emergere ciò che in noi è l’opera di Dio e ciò che in noi è la resistenza di Paolo all’opera di Dio.
Concludiamo rileggendo il racconto di 1 Tim 1,15 ss: « Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io ».
Il peccato fondamentale dell’uomo, che è alla radice di tutti i peccati è non riconoscere Dio come Dio, il non riconoscersi come dono suo, come frutto del suo amore: è l’atteggiamento satanico di opposizione dell’uomo a Dio. Paolo ha vissuto questo atteggiamento sotto colore di possesso di cose buone, ha vissuto il rifiuto della bontà di Dio su di lui. Tutti noi ci portiamo dentro l’incapacità a riconoscere Dio come Dio. « E di questi il primo sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua longanimità, a esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna ».
È la giustificazione del nostro corso di Esercizi su Paolo che è stato ed è segno per altri, per la storia e per il mondo.
«Al Re dei secoli incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli ». Dio. solo, unico meritevole di onore e di gloria per ciò che ha operato e opera in noi, ci conceda di vivere con questa lode nel cuore.
Filed under: Martini - Le confessioni di Paolo