3 – VEGLIA DEL DILETTO E SONNO INQUIETO DELLA CREATURA – Pino Stancari
Posted on ottobre 23rd, 2009 by Angelo
osted on Dicembre 14th, 2008 di Angelo | Edit
LA VEGLIA DEL DILETTO
E IL SONNO INQUIETO
DELLA CREATURA
di Pino Stancari
il sonno della creatura come educazione alla ricerca
In 2,7 riprende la parola il diletto:
Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle, per le cerve dei campi, non destate, non scuotete dal sonno l’amata finché essa non lo voglia.
La creatura amata è svenuta, è malata d’amore, si è addormentata, è in coma profondo e il diletto veglia al suo capezzale. E’ proprio lui che si rivolge al coro delle figlie di Gerusalemme garantendo il riposo necessario perché l’amata sia soccorsa nella sua malattia. Si sveglierà quando sarà finalmente in grado di sostenere l’impatto che per il momento l’ha travolta. Si tratta di quell’incontro con l’amore del diletto, con la gratuità di un evangelo che ha sorpassato ogni aspettativa ed ha messo in discussione l’atteggiamento della creatura in modo insopportabile per questa. Essa non è pronta, non sa reggere il contatto con un dono di amore così urgente, definitivo, assoluto. L’abbiamo incontrata a suo tempo mossa, agitata, inquietata per quella certa nostalgia che la rendeva vagabonda, ma intimamente consapevole di portare con sé la memoria di un dono di amore, perduto, ma ancora pienamente valido. La nostalgia dell’evangelo l’ha sostenuta nel corso della sua ricerca fino a quando il diletto si è presentato da se stesso nella sua improvvisa manifestazione di assoluta libertà, che è esattamente manifestazione di un amore assoluto. Di un amore sciolto rispetto a qualunque condizionamento, rispetto a qualunque precomprensione, rispetto a qualunque aspettativa. E c’è stato uno scambio di battute tra il diletto e la creatura; poi la creatura è venuta meno, è svenuta, è malata di amore. Così l’abbiamo lasciata.
Il diletto veglia, il versetto che chiude il primo poema apre anche il secondo; se si raggiunge l’ultimo versetto del secondo poema, si trova il medesimo versetto (2,7) che compare qui, 3,5:
Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle e per le cerve dei campi: non destate, non scuotete dal sonno l’amata finché essa non lo voglia.
Il versetto 2,7, che segna la transizione al secondo poema, non a caso lo chiude.
La creatura sta dormendo e nel corso del sonno, mentre il diletto veglia, sogna. E’ lei stessa che prende la parola, ma nel sogno, parla mentre dorme. La creatura sta affrontando le conseguenze di quello stato di impreparazione in cui si trovava e che non ha avuto altro sbocco che il crollo nel sonno. Il suo incontro con l’evangelo l’ha sbaragliata e il diletto veglia. Mentre la creatura sta dormendo, sta sognando, il diletto valorizza questo tempo in vista di particolari finalità pedagogiche che si è proposto fin dal primo momento, quando ha scongiurato il coro di non intervenire, quando ha preso su di sé la responsabilità di quel tempo. Quanto sarà lungo? Un giorno, una notte, una settimana, un mese, un anno, un secolo, un millennio, due millenni, tre millenni? Quanti millenni di addormentamento e di sogni? Si è preso lui l’impegno di custodire questo sogno e di trasformarne il significato: non è più il tempo della inedia, della sconfitta, della malattia e della caduta, della rinuncia, dell’abbandono; è il tempo nel corso del quale il diletto sta insegnando come il suo dono di amore raggiunge la creatura che non era in grado di riceverlo. Quel dono di amore la raggiungerà malgrado l’impreparazione che essa ha dimostrato.
Intanto la creatura dorme, si riposa. Questo sonno non serve a ritemprare le forze fisiche , ma è il tempo ed è lo strumento di cui il diletto si servirà per raggiungere la creatura amata nell’intimo. Per questo è possibile nel corso del sonno, quel che non è stato possibile nel corso della veglia: il primo incontro si è tradotto in una vicenda di malattia, di caduta e di addormentamento profondo; ma adesso, tramite il sogno, il diletto può raggiungere l’intimo della creatura amata, là dove essa, dormendo, si è ritirata. Il sonno, che le garantisce isolamento, le permette di affrontare l’impatto con l’evangelo, che non ha saputo reggere da sveglia. Quel sonno diventa l’occasione propizia per cui, indifesa, disarmata, essa è vegliata dal diletto. E’ proprio lui, che tramite i sogni, sta penetrando nell’intimo e sta educando dal di dentro quelle realtà interiori e profonde da cui dipenderà finalmente il risveglio, quando finalmente la creatura amata sarà in grado di rispondere all’amore del diletto con la propria libera decisione, quando sarà in grado di aderire all’evangelo nella sua inesauribile pienezza di grazia, di bellezza, di santità, di vita.
Secondo poema, la nostra creatura sogna.
ecco, viene!
Una voce! Il mio diletto!.
Prima non ce la faceva a stare alla presenza del diletto, adesso ne coglie la presenza quasi con disinvoltura. Vede in rapporto a un rumore che ha udito. Come spesso succede nei sogni: un suono, e attorno a quel suono si sviluppa il sogno, si vedono immagini e si elabora una vicenda. Il sogno è articolato, complesso, pieno di personaggi, con una sua scenografia elaboratissima. Il punto di partenza è quella voce. E’ una voce che chiama, che parla nella sua maniera inconfondibile: è il diletto. Nel sogno il diletto viene riconosciuto, viene visto, contemplato nel suo movimento. La creatura, sognando, parla di lui, lo riconosce, ma, non dimentichiamo, sta dormendo. Passano generazioni, secoli, millenni … questa creatura sta dormendo. Nel frattempo con il linguaggio del sogno parla del suo diletto.
Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline. Somiglia il mio diletto a un capriolo o ad un cerbiatto. Eccolo, egli sta dietro il nostro muro; guarda dalla finestra, spia attraverso le inferriate.
Il diletto avanza, corre. Le immagini esaltano la libertà di questa presenza, la sua agilità: le montagne sono l’appoggio di salti acrobatici che gli consentono di percorrere una distanza, di superare ogni asperità. La creatura è affascinata, incantata nell’osservare questa presenza quasi informe all’orizzonte, che poi si approssima. E’ proprio questo avvicinarsi del diletto che qui, nella sua visione, la creatura avverte in modo sempre più stringente: non soltanto viene, non soltanto salta, corre, ma si sta avvicinando a me. E sta stringendo lo spazio attorno a me, è interessato a me, non è un muro qualunque, è proprio il muro del nostro cortile, non è una finestra qualunque, è la finestra della nostra casa, non sono inferriate qualunque, sono proprio quelle che sono state poste per costruire l’elemento decisivo che impedisca l’ingresso degli indiscreti in casa nostra. Ebbene è lui che sta dietro il nostro muro, guarda dalla finestra, spia attraverso le inferriate. Come si avvicina, come penetra, come incalza! E’ il mio diletto, è proprio lui.
Quello che la creatura amata non era stata in grado di sostenere nella realtà della veglia, è ora una evidenza inequivocabile. Certo, è il linguaggio del sogno, linguaggio profetico, linguaggio di una creatura che si è ritirata nell’intimo per ripararsi, per cercare una sua autonomia, ma è proprio nell’intimità della sua vita che il diletto la sta inseguendo e la sta stringendo. Lì egli la raggiunge: la parola risuona in una chiamata inequivocabile, una chiamata per nome, così come il pastore chiama le sue pecore nel Vangelo secondo Giovanni. Quella voce chiama me, è ormai una eco che rimbomba dal di dentro di me stesso, là dove, nell’intimo, è già depositata una promessa. Quella voce che ha chiamato fin dall’inizio, adesso si fa riudire, ma nel contesto del sogno, dove suscita nell’intimo della creatura l’eco inconfondibile di una promessa seminata inizialmente e conservata per tutto questo tempo. Riaffiora in tutta la sua autenticità.
Questo sonno è il contesto di una pedagogia sapientissima. Il diletto si serve del sogno per educare una creatura fuggiasca, che sta battendo in ritirata: ha chiuso le orecchie, gli occhi, si è addormentata, ha voluto asserragliarsi nell’intimo di un cuore autonomo per se stesso. Ebbene il sogno diventa il modo che consente al diletto di rievocare nell’intimo stesso di quella creatura la presenza di una promessa che le fu assegnata fin dall’inizio e che è rimasta accantonata, forse dimenticata e che adesso riemerge. E’ una vocazione che la creatura constata essere il suo patrimonio più radicale, la sua identità più profonda. La voce del diletto le scaturisce dall’intimo, come testimonianza di una promessa che la sollecita nel dinamismo della speranza. E’ una vocazione che sembra essere del tutto eterogenea rispetto alla realtà del vissuto, eppure, quella vocazione è identificata come il motivo portante, la struttura costitutiva di tutta una esistenza: è una creatura che sta imparando a vivere di speranza, una speranza che è fondata su quella promessa. Questo avviene nel sonno.
Ora parla il mio diletto e mi dice. Alzati, amica mia, mia bella, e vieni!.
Alzati, amica mia, mia bella, e vieni! Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il fico ha messo fuori i primi frutti e le viti fiorite spandono fragranza. Alzati, amica mia, mia bella, e vieni!.
Il v. 14 fa parte di questo messaggio che il diletto invia alla sua creatura. Alzati, amica mia, impara a vivere nella speranza di chi appartiene a una promessa ancora non compiuta, eppure una promessa confermata. E’ la primavera, la campagna è in fiore. Alzati dunque e vieni, il fico ha messo i primi frutti.
Nel vangelo secondo Marco, Gesù giunto a Gerusalemme torna a Betania, poi ritorna a Gerusalemme e lungo la strada cerca un fico perché ha fame. L’evangelista Marco informa che non era il tempo dei fichi. Se non era il tempo dei fichi, perché cerca il fico? Il senso ha di quell’episodio lo possiamo cogliere rifacendoci alla lettura del Cantico dei Cantici. Il Fico ha messo fuori i primi frutti e le viti fiorite spandono fragranza: alzati amica mia e vieni. Questo è il tempo del diletto, questa è la campagna in fiore, per il diletto, che conferma la sua parola, il valore di quella promessa, il dono di quella vocazione che chiama la creatura a svegliarsi. Gesù constata, avvicinandosi a Gerusalemme, che il tempo della sua fame, la fame del diletto, non coincide con il tempo dei fichi. Gesù sta constatando che ancora c’è una distonia tra il tempo del Messia e il tempo del popolo messianico.
Ma la promessa è confermata. E’ ancora tempo da dedicare al sonno, sarà ancora necessaria una prolungata pedagogia tramite i sogni: l’evangelo eserciterà la sua efficacia risorgerà, rispunterà, germoglierà nell’intimo di quella creatura che sarà stata educata lungo lo svolgersi dei tempi e nella complessità degli spazi, secondo una misura di grazia provvidenziale che solo il diletto conosce. Ma intanto la promessa è confermata: Alzati, amica mia, mia bella e vieni.
ecco, vieni
E aggiunge:
O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è leggiadro.
Il diletto è determinato, insegue la sua creatura nelle zone più profonde ed impervie, là dove tenta di asserragliarsi, come questa colomba che va a cercare riparo nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi. Il diletto non cerca soltanto il riscontro di una promessa conservata e di una speranza irriducibile, ma invita la creatura a mostrare il proprio volto: mostrami il tuo viso. Non nasconderà più il proprio volto, non cercherà più il riparo ombroso e sepolcrale nelle fenditure della roccia, si mostrerà scoperto: mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è leggiadro. Non scappare più, non tirarti più indietro, non temere, non dubitare, non dimenticare il dono che ti è stato affidato, non fuggire dall’evangelo, non cercare di mascherarti, non darti un’altra voce, non parlare un’altra lingua, non rifarti ad altri criteri per interpretare la realtà del mondo. E’ solo la voce con cui il diletto ti ha chiamato che parla in te ed è il dono che hai ricevuto, il riferimento in base al quale tutto, della storia umana, diventa comprensibile, è la luce che cerca il modo di rispecchiarsi sul tuo volto che ti confermerà come creatura immagine del creatore, responsabile dell’universo intero. Non scappare più.
Ed è un richiamo così affettuoso e così intenso che la coinvolge dall’interno. Per quanto fugga, in qualunque anfratto roccioso andrà mai ad infilarsi questa creatura, scopre che il diletto l’ha preceduta. Non solo la insegue, ma l’ha già preceduta in qualunque profondità possa andare a rintanarsi, in qualunque nascondiglio voglia ancora isolarsi, scopre che la voce del diletto gli viene incontro, la presenza del diletto la incalza, la mano del diletto la stringe e la promessa la avvolge. Non c’è luogo più remoto, non c’è periferia più dispersiva, non c’è isolamento più eremitico in cui questa creatura umana non sia in grado ormai di constatare che il diletto la chiama, la stringe, è il diletto che le mostra il proprio volto, è il diletto che la conferma nella sua originaria vocazione. E’ il diletto che la sta evangelizzando per coinvolgerla in un unico disegno di amore di portata universale e definitiva.
Adesso è di nuovo la creatura che sta reagendo a suo modo. Il suo sonno non è sereno, certo.
le volpi e le vigne
Prendeteci le volpi, le volpi piccoline che guastano le vigne, perché le nostre vigne sono in fiore.
Questa immagine delle volpi che devastano il territorio è presente più volte nella letteratura profetica ed allude alle incursioni, che ebbero luogo in diversi tempi nella storia della salvezza, quando la terra di Israele fu invasa e devastata. Le citazioni a questo riguardo sono numerose. La reazione espressa dalla nostra creatura è quella di una essere che si sente messo in pericolo. Non è sicuro di sé, non sa come venire a capo di tanti e tanti interrogativi che ancora la attanagliano. Ma chi potrà tenere d’occhio queste volpi piccoline? Chi potrà tenerle a bada? Chi potrà impedire alle volpi di invadere, di devastare, di inquinare? Questa creatura è molto perplessa, è imbarazzata, si sente sproporzionata a quella dichiarazione così semplice e così intensa di un amore diretto che il diletto le ha rivolto. Non riesce a trovare in sé l’eco di quella voce. Ciò è vero con tutte le contraddizioni che noi sperimentiamo nel nostro vissuto personale, nel vissuto storico di Dio e nella storia dell’umanità intera. C’è una contraddizione per cui per un verso si aggrappa a quella speranza che la promessa ha suscitato in lei, ma nello stesso tempo è dubbiosa, è sospettosa, vuole scappare ancora. D’altra parte: più scappa e più scapperà, e più incontrerà il diletto.
Il mio diletto è per me e io per lui. Egli pascola il gregge fra i gigli.
Mentre è tutta presa da quell’imbarazzantissimo accenno alle volpi, dichiara che «il mio diletto è per me e io per lui. Egli pascola il gregge fra i gigli». Una dichiarazione questa che rinvia a quel duetto che leggevamo nel primo poema, quando, per l’appunto, la creatura aveva dimostrato di non essere capace di stare al passo. Adesso è lei stessa che dice: «Il mio diletto è per me e io per lui». Questo è il linguaggio dell’alleanza: Io sono il tuo Dio, tu sei il mio popolo; io sono per te, tu sei per me. E’ un linguaggio che sintetizza tutto un linguaggio di amore, tutta una storia di comunione: è la storia della salvezza, il mio diletto è per me ed io per lui. E’ un’appartenenza vicendevole, ormai definitiva, indissolubile. «Il mio diletto è per me e io per lui. Egli pascola il gregge fra i gigli. Prima che spiri la brezza del giorno». Alternanze di umore, di sentimenti, di pensieri, di immagini interiori, slanci, fremiti di speranza a cui vi ci si dedica con trasporto appassionato e poi, ecco, cedimenti, rallentamenti, ritrosie di ogni genere. Il diletto adesso è sparito o così è per la creatura amata. Nel sogno non lo trova più.
Prima che spiri la brezza del giorno e si allunghino le ombre, ritorna, o mio diletto, somigliante alla gazzella o al cerbiatto, sopra i monti degli aromi.
la scomparsa del diletto
Se ne è andato, non c’è più, non lo vede più, non lo riconosce più, almeno così sembra a lei. Quel che sta avvenendo adesso, nell’ambito del sogno continua a far parte dell’iniziativa pedagogica. Vorrebbe ritrovare nel sogno il contatto con quella presenza che ha contemplato e da cui ha ricevuto quel messaggio così commovente poco prima, ma non può. E’ vero che lei stessa ha dichiarato il suo imbarazzo, ha posto in evidenza il problema delle volpi e le insidie che la minacciano in tanti modi. Fatto sta che qui siamo alle prese con il crepuscolo, e poi il tramonto, le ombre si allungano, viene la notte. “Torna, o mio diletto“, ma il diletto non viene. E’ già passato un giorno, è già passato un secolo, un millennio, ne sono passati anche due, che sgomento! Sono passati già due millenni e ancora non ci siamo svegliati. «Ritorna, o mio diletto, somigliante alla gazzella o al cerbiatto, sopra i monti degli aromi». Vuole ricostruirsi il sogno. Come è buia la sera! E’ già sera, ed è subito il millennio, ed un altro millennio. Che sgomento! L’amata guarda verso occidente. I monti degli aromi sono i monti di Beter. A Gerusalemme a occidente tramonta il sole e a occidente c’è la testa di una collina che oramai mi impedisce di vedere il sole. “Ritorna o mio diletto“, ma il diletto non è tornato. Non è tornato, non è ancora tornato, sono passati due millenni e non è ancora tornato. Si, quella voce, si, quella promessa, quella speranza, si, quel fremito, quello slancio, si, quella certezza di una intimità di amore definitiva, quell’appartenenza indissolubile, si, eppure, vedete, è già sera. L’evangelo non è ancora qui. E’ un incubo. La nostra creatura sta passando da un sogno a un incubo, succede anche questo. E normalmente succede proprio quando il sonno si fa più leggero. Gli incubi vengono verso mattina, quando si è più vicini al risveglio, o al rischio di svegliarsi, perché se mi risveglio che cosa succederà? Meglio ritornare a sprofondare nel sonno. Un incubo. Forse me lo sto sognando io che il diletto viene, corre, salta, cerca me, che il diletto parla, canta, chiama, forse me lo sto sognando io, forse è un’illusione mia, forse sto veramente sognando. In realtà è proprio così: sto veramente sognando, ma è il sogno profetico di cui il diletto si serve per educare me e l’umanità intera in vista del risveglio, ma ancora sto annaspando in me stesso nel tentativo di riappropriarmi anche del mio sonno, anche del mio sogno. E se io sogno io sono il più disperato tra gli uomini, altro che testimone della speranza.
la ricerca del diletto
Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amato del mio cuore; l’ho cercato, ma non l’ho trovato.
Questa creatura si agita, ha invocato il ritorno del diletto, ma il diletto non è venuto, almeno lei non lo ha riconosciuto. Questo testo che cita altri testi che sono presenti nella letteratura profetica. E’ ansimante, affannata, è alla ricerca di chissà cosa, di chissà chi. Già, era abituata a fuggire, a rintanarsi, a nascondersi, adesso si butta all’impazzata in una ricerca che sembra senza limite per quanto riguarda il dispendio delle energie psichiche, affettive, fisiche, una ricerca che la impegna su tutti i fronti, su tutte le strade della vita, della storia, del mondo: l’ho cercato, ma non l’ho trovato.
“Mi alzerò e farò il giro della città; per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amato del mio cuore”. L’ho cercato, ma non l’ho trovato.
E’ un incubo. Anche questa storia da incubo quanti secoli dura, quanti millenni dura? Due millenni di sogno, due millenni di incubo; una vita di sogno, una vita di incubo. L’ho cercato e non l’ho trovato. Maria di Magdala nel vangelo secondo Giovanni, al cap. 20, cerca il corpo di Gesu, il Signore. Certamente Giovanni evangelista sta citando il cantico, il brano che leggiamo noi. Maria di Magdala, piange, strepita: dove l’avete messo, dove l’avete portato? Si rivolge al giardiniere, ma il giardiniere è il diletto. Dove l’hai portato? E’ lui, non se ne accorta, ma è lui, lo tratta come il giardiniere. E chi dev’essere se non esattamente il Signore del giardino. Ma intanto cerca, cerca a modo suo. Cerca come una forsennata, pronta ad affrontare tutti gli incontri, anche i più pericolosi. Precedentemente ci appariva dimessa, bisognosa di garanzie, di difese; adesso, invece, è in giro per tutte le strade e per tutte le piazze a cercarlo. «Mi hanno incontrato le guardie che fanno la ronda: “Avete visto l’amato del mio cuore?”». Si rivolge a tutti, è pronta ad affrontare qualunque contatto, qualunque novità, qualunque esperienza, anche più insolita e più originale. Non trova risposta, eppure: «trovai l’amato del mio cuore». E’ sempre così: l’amato si fa trovare, è lui che si presenta, come quel giardiniere nel racconto evangelico che chiama per nome Maria di Magdala. “Maria”, la chiamerà una voce: il mio diletto.
L’ha trovato, perché è lui, è sempre stato li. E’ lui che chiama, è lui che conferma la sua promessa, è lui che vuole educare nella speranza la sua creatura, è lui che vuole suscitare una fede incrollabile nell’amore che a quella creatura è stato donato. Fino a quando si risveglierà e sarà in grado di accogliere quel dono e di rispondere ad esso. Fino a quando l’evangelo la troverà corrispondente per una indissolubile comunione di vita, nella comunione tra il cielo e la terra, perché tutta la creazione è coinvolta in questa comunione di amore fra il diletto e la sua creatura. Certo. E’ sempre stato lì il diletto, come nel racconto evangelico: è il giardiniere, ma è sempre stato lì.
Trovai l’amato del mio cuore. E’ proprio questa la constatazione a cui ci sta conducendo il secondo poema, mentre la creatura dorme, sta sognando e sta passando attraverso fasi successive del sogno, e molteplici conferme, quelle di cui ha bisogno, per tutto il tempo che il diletto saprà provvidenzialmente disporre secondo le sue intenzioni, passando attraverso tutti gli incontri che sempre saranno docili al suo servizio di quella epifania del volto del diletto che egli stesso saprà esprimere.
di nuovo nel sonno
Questa creatura scopre che il diletto è sempre stato lì, ha posto la sua presenza al fondo delle cose, al fondo della vita, al fondo del cuore umano. E mentre ha sfiorato il risveglio ed ha sperimentato l’incubo, adesso di nuovo si sta immergendo in un sonno profondo, una chiarezza sempre più lucida per quanto riguarda la presenza del diletto, la fedeltà di quella chiamata iniziale, la qualità feconda dell’evangelo. Ma intanto questa creatura sta di nuovo sprofondando nel sonno.
Lo strinsi fortemente e non lo lascerò finché non l’abbia condotto in casa di mia madre, nella stanza della mia genitrice.
Già, perché ancora le cose stanno così: in verità era solo un incubo, adesso si sta di nuovo ritirando in se stessa, si sta di nuovo piegando, aggrovigliando, si sta di nuovo raggomitolando e rincattucciando nel suo spazio domestico, nella casa interna della casa. Ed è proprio in quel luogo, più interno che mai, che questa creatura vuole condurre con sé il diletto: l’ho stretto, non lo lascerò mai più, me lo voglio portare con me nella casa di mia madre. E guarda indietro e di nuovo sprofonda nel sonno.
Ho trovato l’evangelo, adesso lo stringo e non lo lascerò mai più, me lo porto con me nella stanza più interna. Lo custodirò nella cassa del corredo nuziale. La creatura torna indietro e ancora dorme e sogna. E il diletto veglia, non è frenato, non è catturato in nessun modo: è il diletto.
«Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle e per le cerve dei campi: non destate, non scuotete dal sonno l’amata finché essa non lo voglia».
Così come il poema aveva avuto inizio, così si conclude. E’ ancora il diletto che con la sua sapienza pedagogica si prende cura di questa creatura dormiente per educarla attraverso i sogni, perché di sogno in sogno, di incubo in incubo, finalmente impari a fidarsi della promessa che le è stata assegnata, impari a accogliere l’evangelo come chiamata a svegliarsi, per assumere una responsabilità autentica al servizio di quell’unico disegno di amore che è presente dall’eternità nel grembo del Dio vivente e che ci è stato rivelato.
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