6 – PER SEMPRE – Pino Stancari
Posted on ottobre 23rd, 2009 by Angelo
Posted on Dicembre 14th, 2008 di Angelo
PER SEMPRE
di Pino Stancari
tu sei bella, amica mia
Leggiamo il quinto poema (6,4-8,4). Siamo in ascolto della voce del diletto. Ancora una volta è il diletto che prende la parola, ma è come se questa voce provenisse da una profondità del tutto sconosciuta, è una voce dall’intonazione particolarmente delicata, che scaturisce dalla intimità del cuore. Quella creatura che si è fermata, scopre che il pastore l’ha seguita, l’ha considerata, l’ha accompagnata, l’ha raggiunta. In fondo a tutti i baratri in cui è sprofondata, in tutte le situazioni impervie, desolate, che ha attraversato, in tutte le forme di smarrimento di cui ha fatto esperienza: il diletto è il mio pastore. L’evangelo, che le era sfuggito, le si presenta adesso come il pastore della sua vita. Ed è presente proprio nella immediata oggettività del suo vissuto, se l’è ritrovato accanto, dinnanzi, se l’è ritrovato dentro il cuore. Nel cuore della creatura amata risuona l’eco di una voce: è il diletto. Ha veramente un timbro del tutto particolare, la voce che si fa udire adesso: è come se il diletto parlasse tra sé e sé ed esprimesse i suoi pensieri segreti, è come se veramente noi potessimo auscultare i battiti del cuore che testimoniano la sua fedele, irrevocabile tensione di amore per la creatura che finalmente ha potuto raggiungere.
«Tu sei bella, amica mia, come Tirza, leggiadra come Gerusalemme, terribile come schiere a vessilli spiegati».
Non c’è dubbio: è la voce del diletto, ma si esprime con una cordialità delicata, affettuosa: tu sei bella, amica mia. E’ la voce del diletto che risuona non tanto nelle orecchie, ma nel cuore stesso della creatura amata. E’ l’evangelo che le parla da dentro, di lei stessa, che le parla con il linguaggio del pastore che ha ritrovato la sua pecorella e la chiama per nome. Bella! E’ lo sguardo del diletto che coglie la bellezza della sua creatura, che le conferisce bellezza. Tu sei bella. E’ proprio sotto quello sguardo che la creatura acquista bellezza. E’ la premura così intensa e così inesauribile con cui il diletto si è dedicato alla ricerca della sua creatura che diviene dichiarazione di bellezza, attestato di un amore: tu sei bella, amica mia.
Questa bellezza viene messa in rapporto a un certo disegno storico, per quanto riguarda il popolo d’Israele, che fu caratterizzato dallo scisma tra le tribù del nord e quelle del sud. Tirza è il nome della prima capitale del regno del nord, regno d’Israele, mentre Gerusalemme è il nome della capitale del regno del sud, ossia del regno di Giuda. La bellezza della creatura amata viene messa in evidenza insieme con la ritrovata unità del popolo di Dio: Tu sei bella, amica mia, come Tirza, leggiadra come Gerusalemme. E’ una nota intrinseca, costitutiva di quella bellezza, così come lo sguardo del diletto la coglie e la mette in evidenza: l’unità del popolo di Dio ricomposto nella sua comunione originaria. E’ bellissima questa creatura, perché è creatura confermata nella comunione. E bisogna immediatamente aggiungere, 6,4b: terribile come schiere a vessilli spiegati.
Questa creatura, nella sua affascinante bellezza, appare dotata di una forza incontenibile, raffigurata con l’immagine di un esercito schierato a battaglia, un esercito che invade il campo e con il suo solo apparire sgomina qualunque avversario. Questa bellezza è fortissima. Essa ha tutte le caratteristiche di modestia, delicatezza, trasparenza, sobrietà che servono a caratterizzare il fascino di una fisionomia riconciliata; ma nello stesso tempo questa bellezza è poderosa, è travolgente, dotata di una energia guerriera che domina il campo della storia umana. E’ il diletto che dice questo tra sé e sé, con quel linguaggio interiore che è comprensibile soltanto dalla creatura amata: tu sei bella amica mia, tu sei dotata di una forza travolgente e vittoriosa. Sempre il diletto prosegue:
«Distogli da me i tuoi occhi: il loro sguardo mi turba. Le tue chiome sono come un gregge di capre che scendono dal Gàlaad. I tuoi denti come un gregge di pecore che risalgono dal bagno. Tutte procedono appaiate e nessuna è senza compagna. Come spicchio di melagrana la tua gota, attraverso il tuo velo».
Il diletto dichiara di essere intimamente percorso da un fremito di amore che è suscitato in lui dallo sguardo con cui la creatura amata gli si rivolge.
l’unica di sua madre
L’amore del diletto per la sua creatura rende qualitativamente superlativo l’amore che egli attende come risposta. E’ l’amore di Dio che vuole riscontrare la sua propria infinita pienezza in quella della creatura. Io sono turbato, dice il diletto, quando mi guardi. Nel vangelo secondo Giovanni, a più riprese, Gesù dichiara di essere turbato (cfr. Gv 11,33; 12,27; 14,1.27). Che debbo fare? Dire al Padre che allontani da me quest’ora? Ma è per quest’ora che sono venuto, per l’ora del turbamento è venuto.
Il diletto aggiunge:
«Sessanta sono le regine, ottanta le altre spose, le fanciulle senza numero. Ma unica è la mia colomba la mia perfetta, ella è l’unica di sua madre, la preferita della sua genitrice. L’anno vista le giovani e l’anno detta beata, le regine e le altre spose ne hanno intessuto le lodi».
Il diletto metta in evidenza l’unicità della creatura amata, questo vale per ogni persona, per ogni creatura in quanto è portatrice di un dono che è unico e insostituibile, nel senso che ogni creatura umana è amata in modo unico, eterno, irrevocabile. Quella colomba, che è sempre unica, è definita, ancora una volta, “la mia perfetta”. Con questo titolo si intende attribuire alla creatura amata la capacità di offrire il dono di sé stessa come corrispondenza di amore all’amore. E’ unica la mia colomba, la mia perfetta, unica in quanto amata in modo privilegiato, sempre. Questo vale per ogni creatura. Ed è unica in quanto è messa in grado di corrispondere all’amore del diletto con la offerta di sé; non ha più nient’altro da offrire, se non esattamente se stessa. Proprio il fatto di non avere più nient’altro da offrire all’evangelo che se stessa, fa di questa creatura quell’unico dono di amore che il diletto gradisce come perfetto per sé.
Tutto questo ad immagine di quel che avviene nella relazione tra una creatura generata dal grembo della madre e la propria madre. Un rapporto incondizionato: non si può non essere figli del grembo da cui si è stati partoriti. Non è più revocabile, non è più contestabile, non è più reinterpretabile in base a riferimenti alternativi: è così! Unico è l’amore del diletto per la sua creatura, ed è amore che attende quell’unica risposta in cui la creatura amata porgerà l’offerta di se stessa: ecco la sua perfezione; a questa perfezione la conduce l’evangelo, attraverso tutte le vicissitudini che noi conosciamo. Chiamata per nome dal pastore, la pecorella sta imparando a scandagliare la profondità del cuore in quel pastore che ormai è divenuto l’unico interlocutore della sua storia. Dire che il diletto, l’evangelo, è divenuto l’unico l’interlocutore della sua storia non significa affermare che la nostra creatura ormai si è estraniata dal resto del mondo.
L’anno vista le giovani e l’anno detta beata. Le regine e le altre spose ne hanno intessuto le lodi. Proprio quando questa creatura amata esprime la perfezione di quella adesione al diletto, di quella adesione all’evangelo, che diventa l’unico riferimento, proprio allora essa esprime una sempre più ampia, ricca, feconda capacità di comunicazione con le realtà del mondo. Sta sotto lo sguardo degli spettatori, acquista capacità di dialogo, di conversazione, di comunicazione, d’intesa, di collaborazione con la moltitudine delle creature di Dio nel tempo e nello spazio. L’anno vista e l’anno detta beata, le regine e le altre spose ne hanno intessuto le lodi.
Adesso interviene il coro. Fino a questo momento era il diletto, adesso è il coro che esprime il suo stupore perché si è trovato alle prese con questo spettacolo così imprevedibile.
fulgida come l’aurora
Il coro degli amici si era rivolto alla creatura amata, nel tempo della ricerca, nel tempo della immersione drammatica dentro alle oscurità del mondo con interrogativi petulanti, mirati a fornire, dal loro punto di vista, il loro modo di intervenire in favore della creatura amata: è inutile che tu cerchi, è inutile che tu vada inseguendo l’invisibile, l’irraggiungibile, chi sa mai chi è, chi sa mai dove si è nascosto?
Adesso il coro degli amici è sbalordito:
«Chi è costei che sorge come l’aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come schiere a vessilli spiegati?».
Tutto è avvenuto alla presenza del coro degli amici, che è stato spettatore di questa vicenda. Ha percepito, se non proprio distintamente, il risuonare di quella voce, ha percepito lo svolgersi di una conversazione nell’intimo della creatura amata. Si è reso conto, il coro degli amici, che quella creatura è entrata nel dialogo cuore a cuore con la presenza invisibile e santa del diletto. Si è consegnata nella unicità definitiva di una relazione assoluta, si è consegnata all’evangelo. Ma che è successo? Chi è costei? E il coro coglie la luminosità di questa presenza che adesso la creatura amata può manifestare per il suo modo di essere, per quel suo particolare coinvolgimento nella relazione cuore a cuore con i diletto.
Eppure è una pecorella smarrita in ascolto della voce del pastore. «Chi è costei che sorge come l’aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come schiere a vessilli spiegati?». La nota è di straordinaria luminosità, la luce rinvia qui all’antico racconto della creazione: la prima creatura è la luce, tutte le creature sono inserite nel contesto della luce, incastonate nella luce. Tutta la creazione viene illuminata in rapporto alla presenza di questa creatura che sorge come l’aurora, bella come la luna, fulgida come il sole. Di nuovo la forza di cui questa creatura da testimonianza al suo solo apparire. La bellezza della creatura amata illumina il mondo, illumina la storia umana e rende prezioso il valore di ogni creatura nel tempo e nello spazio: chi è costei che è totalmente identificata ormai alla creatura evangelizzata in quanto nell’evangelo ha il suo tutto?
Di nuovo la voce della creatura:
«Nel giardino dei noci io sono sceso (meglio tradurre con: io sono scesa), per vedere il verdeggiare della valle, per vedere se la vite metteva germogli, se fiorivano i melograni. Non lo so, ma il mio desiderio mi ha posto sui carri di Ammi-nadìb».
Che cosa sta dicendo qui, la creatura di se stessa? Fa riferimento a un giardino nel tempo in cui germogli già sono presenti sui rami degli alberi, ma ancora non sono sbocciati. Questa creatura ripetutamente scende nel giardino per vedere se è arrivata la primavera, se le gemme finalmente si aprono, se i germogli sbocciano, se le piante fioriscono. Si comporta in questo modo perché è determinata da una convinzione ineccepibile: la primavera viene. E’ una creatura in attesa della primavera.
Il coro nella sua domanda chiedeva: chi è costei che sorge come l’aurora? Quando la creatura parla di sé dice: io sono colei che discende, che discende insistentemente, ripetutamente, pazientemente. E’ una creatura che ha acquistato la capacità di aspettare, e che è determinata ormai da una speranza irriducibile, mossa da una spinta incontenibile; lo slancio la conduce ormai attraverso tutte le lungaggini, le contrarietà, le oscurità, i rigori dell’inverno. Perché? Perché viene la primavera e le gemme sono già al loro posto, ancora non sono sbocciate, ma sono già al loro posto. Questa creatura che scende nel giardino porta in se stessa i germogli che attraversano il tempo dell’inverno fino allo spuntare dell’immancabile primavera. Il v. 12 è praticamente intraducibile, incomprensibile, è il versetto più difficile di tutto il Cantico. Quello che riusciamo a comprendere è che la nostra creatura, ancora inesperta, non riesce a stabilire delle date, non può fare appello a dei criteri empirici per decifrare lo svolgimento degli eventi, è mossa da un desiderio intrattenibile, è portata da una spinta. Qui l’immagine dei carri di questo personaggio non meglio decifrabile che si chiama Amni-nadib. E’ portata dai carri, è posta sui carri di Amni-nadib, è e trascinata in una corsa inesauribile, proprio perché la spinta del desiderio che le si è acceso nell’intimo non si arresterà innanzi a ostacoli o contrarietà, quali che siano. Viene la primavera. E di quella primavera l’evangelo le ha impresso nell’intimo una consapevolezza irriducibile. Di nuovo il coro, 7,1:
la danzatrice
«Volgiti, volgiti, Sulammita, volgiti, volgiti: vogliamo ammirarti. Che ammirate nella Sulammita durante la danza a due schiere?».
Il coro è stupefatto, incantato; prende nuovamente la parola per dichiarare la propria ammirazione nei confronti di una creatura divenuta danzatrice. Sulammita probabilmente è il femminile di Salomone, il pacifico. Questa creatura è pacificata, tutto deriva da shalom, pace.
Questa creatura pacificata è impegnata nei passi, nei movimenti, nelle dinamiche che danno forma a una danza sempre più raffinata. E’ proprio vero: dopo tutto quello che è accaduto, questa creatura si presenta determinata nella speranza, nell’attesa, nella pazienza di chi si volge verso la prossima, immancabile primavera, per quanto non le si possa attribuire una data. Questa creatura è divenuta oramai esperta nella danza. Questa creatura che è passata attraverso le sue corse, i suoi affanni, le sue ricerche e le sue cadute, i suoi inseguimenti e i suoi smarrimenti, in maniera sempre più devastante e in maniera sempre più tragica, ha imparato a danzare. D’altronde, cosa è mai la danza se non un certo modo di cadere che trasforma l’evento rischiosissimo di chi scivola, precipita, sprofonda nel vuoto, in una evoluzione armoniosa, in un salto disinvolto. Si cade e si salta.
Quella caduta è trasformata in una evoluzione positiva che consente un progresso imprevedibile nell’arte del movimento e nella possibilità della comunicazione. La danza è un perfezionamento sempre più raffinato di quella che già è l’arte del camminare. Camminare è proprio questo cadere nel vuoto in modo tale che la caduta si trasforma in avanzamento. Il bambino impara a camminare cadendo, poi un passo dopo l’altro e la caduta è trasformata in una crescita. Dal camminare si giunge al salto, alla danza, all’armonia raffinata, disinvolta, movimento che pervade lo spazio, che attraversa i tempi.
Questa creatura è una creatura danzante: ha imparato a scendere e salire, ha imparato a vivere al ritmo della Pasqua: morte e resurrezione. Questa creatura danza: è l’evangelo che ha fatto di questa creatura che cade, che sprofonda, che si inabissa, una creatura che incontra il diletto e trova nell’incontro con il diletto lo slancio di un salto che la libera, che anzi la rende sempre più vivace e intraprendente in un disegno di vita che si dispiega nelle misure del tempo e dello spazio, senza limite. E’ la Pasqua del Signore, l’evento decisivo che sintetizza tutto nella storia umana ed è il segno definitivo di una danza definitiva, così come il Figlio è disceso ed è risalito, è morto ed è risorto.
Ora il ritmo della danza è stato imposto alla storia dell’umanità e la creatura amata si muove ormai a questo ritmo, cade e sale a questo ritmo, muore e risorge a questo ritmo. E’ creatura immersa nel vortice danzante che l’evangelo ha suscitato una volta per tutte nella storia degli uomini: «Volgiti, volgiti, Sulammita, volgiti, volgiti: vogliamo ammirarti. Che ammirate nella Sulammita durante la danza a due schiere?».
E adesso di nuovo il diletto parla di lei, 7,2-10. L’elogio parte dai piedi, perché è creatura danzante. In un’altra occasione il diletto era partito dal volto.
«Come son belli i tuoi piedi nei sandali, figlia di principe! Le curve dei tuoi fianchi sono come monili, opera di mani d’artista. Il tuo ombelico è una coppa rotonda che non manca mai di vino drogato. Il tuo ventre è un mucchio di grano, circondato da gigli. I tuoi seni come due cerbiatti, gemelli di gazzella. Il tuo collo come una torre d’avorio; i tuoi occhi sono come i laghetti di Chesbòn, presso la porta di Bat-Rabbìm; il tuo naso come la torre del Libano che fa la guardia verso Damasco. Il tuo capo si erge su di te come il Carmelo e la chioma del tuo capo è come la porpora; un re è stato preso dalle tue trecce».
Una dignità regale che attrae a sé l’affetto appassionato di un re. Sono molteplici i riferimenti alla configurazione geografica alla terra d’Israele, ma essi alludono ai confini della terra: località che stanno in zone dell’estremo nord e dell’estremo oriente, zone di passaggio che rinviano ad altri territori. La vitalità, la fecondità di cui dà prova la creatura divenuta danzatrice, esprime una singolare e inesauribile, apertura ecumenica. I laghetti di Chesbon, la porta di Bat-Rabbim, il Libano, Damasco, e così via. Come sono belli i tuoi piedi, vedete. E’ la bellezza di una creatura che ha imparato a morire e risorgere al ritmo dell’evangelo pasquale. E il diletto se ne compiace, e le conferisce una missione che è in grado di orientarsi in tutte le direzioni senza timore. E ancora:
«Quanto sei bella e quanto sei graziosa, o amore, figlia di delizie! La tua statura rassomiglia a una palma e i tuoi seni ai grappoli. Ho detto: “Salirò sulla palma, coglierò i grappoli di datteri; mi siano i tuoi seni come grappoli d’uva e il profumo del tuo respiro come di pomi”».
uniti per sempre
Il diletto manifesta ancora una volta la sua volontà di unione e in questo caso non è soltanto un’intenzione è la sua determinazione per quanto riguarda la scalata dell’albero. C’è in questi versetti un accenno per noi inconfondibile all’albero. E’ l’albero che fiorisce e porta frutto: tutta la liturgia del venerdì santo è impiantata sulla contemplazione di questo albero, albero fronzuto, albero fruttuoso, albero generatore di vita. Il diletto vuole montare su quell’albero, vuole sposare la sua creatura fino alla pienezza della comunione, là dove il diletto condivide la discesa, lo sprofondamento, l’inabissamento della sua creatura. E’ talamo nuziale l’albero su cui il diletto vuole salire per portare a compimento la sua intenzione d’amore.
E il versetto 10 aggiunge: «Il tuo palato è come vino squisito». Il diletto offre un bacio di amore, offre se stesso per una comunione d’amore sigillata nella comunione con la morte della creatura umana, perché questa comunione sia finalmente sorgente definitiva ed inesauribile della vittoria sulla morte; la vittoria dell’amore con cui il diletto ormai si coinvolge alla sua creatura. E’ la vittoria della creatura redenta e sposata, che ha imparato a danzare e a vivere al ritmo dell’evangelo: «Il tuo palato è come vino squisito».
Il rigo seguente riporta la voce della creatura: «che scorre dritto verso il mio diletto e fluisce sulle labbra e sui denti!». E’ la creatura che risponde e risponde finalmente con il suo sì, con il suo amen, con la sua adesione piena, risoluta, definitiva: «Il tuo palato è come vino squisito, che scorre verso il mio diletto: Io sono per te come tu sei per me”. E’ il sì della creatura che si consegna, della creatura che oramai si immerge nella comunione d’amore con il diletto che è stato innalzato sull’albero: Quando sarò innalzato attirerò tutto a me, dice il vangelo di Giovanni (12,32). La creatura prosegue:
«Io sono per il mio diletto e la sua brama è verso di me».
Il termine brama, (teshuka), è lo stesso dell’antico racconto del peccato in Gen 3: Dio rivolge alla donna e le dice: partorirai con il sudore della tua fronte, sarai sottoposta all’uomo e verso di lui sarà la tua brama. Qui tutto è ribaltato: è la brama del diletto per la creatura: è la creatura che dice: la tua brama è verso di me. Quella brama che in base alla sentenza pronunciata dal creatore nel giardino, segna lo stato di debolezza e di sudditanza in cui vive la donna, qui diventa la brama del diletto per me. “Vieni mio diletto, andiamo nei campi, passiamo la notte nei villaggi”. Questa creatura oramai è rassicurata, la relazione d’amore che la lega al diletto è continua, stabile, per cui sempre e dappertutto questo vincolo di amore sarà confermato, nei campi come nei luoghi abitati, nei villaggi come nelle città, di notte e di giorno, in qualunque momento e in qualunque occasione:
«Vieni, mio diletto, andiamo nei campi, passiamo la notte nei villaggi. Di buon mattino andremo alle vigne; vedremo se mette gemme la vite, se sbocciano i fiori, se fioriscono i melograni: là ti darò le mie carezze!».
Questa creatura si dedica alla missione che ha ricevuto nella storia umana al ritmo dell’evangelo pasquale. Questa creatura è a casa propria dappertutto, è puntuale in ogni momento, perché in ogni luogo e in ogni tempo il diletto è il compagno che la conferma nella pienezza di un amore indissolubile: Vieni, andiamo, vedremo, coglieremo il profumo:
«Le mandragore mandano profumo; alle nostre porte c’è ogni specie di frutti squisiti, freschi e secchi; mio diletto, li ho serbati per te».
Questa creatura non teme i tempi in cui non ci sarà frutta fresca, perché c’è la frutta secca, ogni specie di frutti squisiti, freschi e secchi, mio diletto, li ho serbati per te.
E finalmente:
«Oh se tu fossi un mio fratello».
Il canto della creatura amata si conclude con questa invocazione rivolta al diletto, ed è una invocazione che in maniera esplicita allude alla presenza del diletto nella carne del fratello. E’ una invocazione protesa verso l’incarnazione. Precedentemente il diletto aveva detto della creatura che è sua sorella, così l’ha interpellata, ma qui è la prima volta che la creatura dice del diletto: tu sei mio fratello. E’ creatura passata attraverso la Pasqua di morte e di resurrezione, è creatura che è oramai carne dalla sua carne, ossa dalle sue ossa, è creatura che oramai condivide la vita del diletto sigillato, così come i fratelli e le sorelle sono coinvolti in una relazione che non può essere più revocata. Non si può non essere fratelli e sorelle dei propri fratelli e delle proprie sorelle, non è possibile. Per il fatto stesso che ci sono, sono fratelli, i miei fratelli. E così
«se tu fossi un mio fratello, allattato al seno di mia madre! Trovandoti fuori ti potrei baciare e nessuno potrebbe disprezzarmi. Ti condurrei, ti introdurrei nella casa di mia madre; m’insegneresti l’arte dell’amore. Ti farei bere vino aromatico, del succo del mio melograno. La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia».
La creatura chiede al diletto di starle accanto nella fraternità della carne umana e proprio questa fraternità è sigillata in forza dell’appartenenza ad un unico grembo, che genera per la vita che non muore più. Il sepolcro, che accomuna nella morte, diventa grembo che genera per la vita che non muore mai. E questo fratello viene interpellato dalla creatura in rapporto all’insegnamento di quel maestro interiore che educa alla vita umana per una fecondità di amore. Questo è il linguaggio con cui si esprime Gesù durante l’ultima cena, secondo il vangelo di Giovanni, quando si rivolge ai discepoli e annuncia loro l’invio dello Spirito Santo che insegnerà loro, li renderà capaci di accogliere, di custodire, di assimilare il lascito dell’amore, il lascito con cui il fratello conferma per sé la comunione della sua vittoria con tutti gli uomini che muoiono. Così nel vangelo secondo Giovanni, il Signore risorto dice a Maria di Magdala: Va a dire ai miei fratelli che io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro.
Alla fine del quinto poema, la creatura si consegna, si abbandona:
«La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia».
Adesso non è uno svenimento, perché la creatura è malata, malata d’amore; adesso è un atto di consegna, un affidamento, adesso la creatura che ha imparato a danzare, ha imparato a morire. Non si sta semplicemente addormentando, sta consegnando la propria morte a colui che è fratello di tutti gli uomini chiamati a nascere nella comunione con lui per la vita che non muore più.
E finalmente il diletto chiude il quinto poema con questa dichiarazione:
«Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, non destate, non scuotete dal sonno l’amata, finché non lo voglia».
Un versetto che ci riporta ai versetti che concludevano il primo poema e il secondo poema (2,7 e 3,5). C’è una variazione: da parte del diletto la dichiarazione che egli ormai si fida della creatura che a lui si è affidata.
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