7 – L’EVANGELO, LA CHIESA, LA STORIA – Pino Stancari
Posted on ottobre 23rd, 2009 by Angelo
Posted on Dicembre 14th, 2008 di Angelo
L’EVANGELO, LA CHIESA, LA STORIA
di Pino Stancari
ascesa e risalita
La creatura amata, di cui il Cantico dei Cantici ci ha descritto l’avventura, incontra il diletto. E’ il mistero del Dio vivente che le viene incontro, che si impone come protagonista di quella avventura. E’ l’evangelo che attraversa la storia umana, rivela la presenza di Dio e instaura nella relazione con gli uomini una novità dinamica. L’evangelo prende, trascina, travolge, converte.
Il quinto poema ci ha posto dinanzi a questa realtà nel suo valore di pienezza, di maturità. La creatura umana è redenta, il cuore umano è trasformato, il senso della storia umana si illumina in rapporto alla presenza di Dio che si è rivelato. L’opera compiuta da Dio nella storia degli uomini, la rivelazione della sua misericordia, della sua volontà di redenzione e di salvezza, ha un valore universale: nessuno è escluso, nessuno è dimenticato, nessuno è abbandonato a se stesso.
L’immagine è quella di una creatura che danza, quella danza ci ha catturato e sorpreso, ci ha commosso e lasciati imbarazzati. La creatura ha ormai scoperto quale sia il ritmo che scandisce il passo nello svolgersi degli eventi sia per quanto riguarda la grande storia degli uomini, che per quanto riguarda il vissuto personale di ognuno di noi. L’evangelo conferisce un ritmo pasquale alla storia umana e al vissuto di ogni creatura. Il Figlio ha compiuto l’opera redentiva e ora la creatura umana dimostra di essere coinvolta in quel ritmo della storia: è la pasqua del Figlio, è la pasqua del Signore, è l’evento in cui tutto si ricapitola.
Alla fine del quinto poema abbiamo lasciato la creatura ormai fiduciosamente abbandonata alle braccia del diletto. Nel primo poema quella creatura era svenuta, ammalata di amore, non era predisposta per sostenere quell’incontro con il diletto che l’avvolgeva nella intensa e inesauribile potenza del suo amore.
Era stata poi presa in braccio, il diletto è stato in veglia al capezzale dell’amata. Quel tempo del sonno era diventato il tempo del sogno, e nel sogno quella creatura è stata accompagnata, progressivamente liberata, affinché acquisisse la libertà interiore che finalmente le consentirà di rispondere all’amore del diletto.
Alla fine del quinto poema la creatura amata, che ancora una volta si addormenta, si trova in una situazione diversa: non è più malata d’amore, essa ha dimostrato di essere pronta ad offrire la risposta che il diletto attendeva. Adesso questa creatura si affida, si abbandona, si consegna. Dorme. Si è immersa nell’abbraccio che il diletto le ha offerto fin dall’inizio e a cui finalmente può corrispondere. Questa creatura che si addormenta discende e risale, è ormai pronta a morire per risorgere, nei ritmi della sua vicenda non ha altro interlocutore se non colui che ha compiuto il passaggio decisivo, ha operato la svolta definitiva, ha conferito alla storia umana quel dinamismo per cui là dove le creature vanno incontro alla morte, vanno incontro al diletto, e là dove le creature stanno scendendo fino a sprofondare nell’abisso sono prese in braccio, sono sollevate, innalzate per essere glorificate nella comunione con il vittorioso sulla morte.
«Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, non destate, non scuotete dal sonno l’amata, finché non lo voglia».
chi è colei?
Il v. 5 si apre con un interrogativo che dobbiamo senz’altro attribuire alla voce del coro. Il coro, spettatore dell’intera vicenda, ci invita a contemplarne l’esito: la creatura evangelizzata è ormai pronta per affidarsi all’amore che riceve e ad offrire la libertà della propria risposta fino a morire e a risorgere nella pienezza dello Spirito Santo, in comunione con il Figlio, benedetto per la gloria del Padre.
«Chi è colei che sale dal deserto, appoggiata al suo diletto?».
L’interrogativo formulato dal coro rievoca momenti della storia della salvezza esemplari: l’esodo, il viaggio attraverso il deserto fino al Sinai e poi fino alla terra della promessa; il ritorno dall’esilio, in una fase successiva, quanto mai drammatica e sconvolgente: la terra invasa e devastata, la popolazione deportata, il popolo di Dio disperso nei territori dei pagani. Chi è colei che sale dal deserto? Questa traversata del deserto per risalire è la chiave interpretativa di tutta la storia umana.
Questa è la storia dell’umanità che precipita fino alla morte? Storia di smarrimento, di schiavitù e di esilio? Storia di perdizione? Non è così, questa è storia di ritorno, questa è storia di risalita, questa è la storia della conversione. Non c’è deserto che possa chiudersi come un sepolcro vittorioso, non c’è zona oscura che possa inghiottire insieme la sorte definitiva della storia, degli uomini e della vocazione. Il creatore è donato a ciascuna delle sue creature. C’è una creatura che sale dal deserto: è creatura amata, redenta. L’evangelo fa di questa creatura un testimone che porta in sé i frutti della vittoria conseguita dal diletto. Questa creatura evangelizzata, e redenta, che sale dal deserto, ha acquisito ormai una fisionomia missionaria.
Questa missione è essa stessa scandita dal ritmo dell’evangelo pasquale. E’ l’essere presente di una creatura che porta in sé il frutto della redenzione e ne è divenuta ormai testimone, ha acquisito prerogative missionarie, è il suo stesso essere presente nella storia degli uomini che attira l’attenzione ed acquista una valenza sacramentale. Essa diviene criterio rivelativo di tutto quello che riguarda l’umanità nella sua interezza, un criterio che attrae a sé lo sguardo del coro e attrae a sé l’interesse, la curiosità e anche il sospetto di tutti gli uomini che in qualche modo sono interessati, disinteressati, scandalizzati a questa vicenda.
L’epilogo ci aiuta a mettere a fuoco il dato ormai presente nella storia umana, il dato nuovo e significativo della vita cristiana con le responsabilità che competono a ciascuno e che competono al popolo cristiano nella sua interezza. La presenza di quella comunità di credenti non è più identificabile altrimenti che in rapporto al diletto a cui quella comunità appartiene; alle braccia del diletto quella creatura è appoggiata, presente nella storia umana come testimone dell’evangelo. Non ha altra ragione d’essere, non ha altro motivo per comparire sotto lo sguardo degli uomini, per essere causa di interessamento o anche di disagio.
Il testo dell’epilogo prosegue a partire dall’interrogativo con il quale è intervenuto il coro, sono due battute che raccolgono la dichiarazione con la quale il diletto, proprio lui, spiega quale sia l’identità di quella creatura che sale dal deserto. Quella creatura non dice più niente, quel che ha potuto esprimere nell’amen della sua risposta esaurisce ogni sua ulteriore possibilità di commento. Non ha più niente da dire, in qualche modo non ha più niente da fare, ha semplicemente da essere, da stare, da aderire in modo corrispondente a quanto ha dichiarato, a quanto è divenuta oramai la novità della sua vita. Il diletto parla di lei:
risvegliata
«Sotto il melo ti ho svegliata; là, dove ti concepì tua madre, là, dove la tua genitrice ti partorì».
Il diletto risponde alla domanda del coro rivolgendosi alla creatura amata in modo pubblico, anche il coro ascolta, anche noi possiamo inserirci in questa sua comunicazione. Il diletto parla: tu sei la creatura risvegliata. La definisce così, è una definizione veramente esemplare. A noi sembrava la creatura dormiente, morente, destinata a precipitare, proiettata verso una consunzione delle forze fino all’esaurimento. Tu sei risvegliata: io ti ho risvegliato! E’ il risveglio nel senso di una rigenerazione, di una nuova nascita: ti ho risvegliata là dove ti concepì tua madre, là dove la tua genitrice ti partorì, tu sei creatura nata per quella vita nuova, piena, definitiva, che oramai è vita non più prigioniera della morte, non più condizionata dalla morte, non più sottoposta al giudizio della morte.
Il Cantico dei Cantici in questo versetto 8,5 ci offre in modo misterioso, ma veramente significativo e illuminante per noi, una profezia del battesimo. Tu sei creatura risvegliata: è un risveglio battesimale. E’ il risveglio della creatura umana che, anche se vecchia, rinasce. Nel vangelo secondo Giovanni al capitolo 3, Nicodemo chiede come può un uomo rinascere? Deve forse rientrare nel grembo di sua madre per essere partorito una seconda volta? Un uomo quando è vecchio può soltanto scendere nel sepolcro e li essere abbandonato a se stesso. Gesù spiega a Nicodemo che si rinasce dall’acqua e dallo Spirito Santo. Creatura che rinasce. Il battesimo è il segno della vita nuova, posto proprio là dove la morte già si fa avanti per vantare i suoi propri diritti. Un affogamento nell’acqua, in qualche modo una morte anticipata e provocata: il battesimo, un tuffo nell’acqua, un’immersione che già è premonizione di morte. Là dove questa creatura, che sia appena nata o già adulta non importa, va incontro al naufragio che l’uccide, questa creatura nasce perché appartiene al diletto, perché appoggiata al diletto, perché incontra il Signore vivente, vittorioso, glorioso, amico degli uomini, il redentore dei peccatori.
Il battesimo è il segno posto in modo tale da inquadrare tutto lo svolgimento di una vita umana, che per quanto ancora sia condizionata dalla necessità di morire, è già intrinsecamente dotata di una potenza di vita che non muore più. Questa creatura appartiene al diletto, perché questa creatura è già morta in anticipo. Il battesimo è già un conferimento di morte che rivela la potenza di amore del diletto, vittorioso sulla morte. Questa creatura che muore si sveglia, è rigenerata, nasce dall’acqua e dallo Spirito Santo.
La sigillata
La seconda battuta della risposta. Il diletto si rivolge alla sua creatura con un’ulteriore chiarimento:
«Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio perché forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma del Signore! Le grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo. Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio dell’amore, non ne avrebbe che dispregio».
Il diletto dice alla sua creatura: tu sei creatura sigillata. Bisogna riflettere sulla sigillatura, ossia la confermazione. Tu sei creatura confermata. E’ il linguaggio dell’alleanza: io sono il tuo Dio e tu sei il mio popolo, io sono per te e tu sei per me. E’ un linguaggio che sintetizza tutto un linguaggio di amore, che sintetizza tutta una storia di comunione: è la storia della salvezza: il mio diletto è per me ed io per lui. Un’appartenenza vicendevole, ormai definitiva, indissolubile. Una sigillatura che impregna di unguento, di profumo, di quella comunicazione vitale che è propria di un amore vissuto nell’intimo.
Il risveglio di cui il diletto ha parlato determina l’orizzonte all’interno del quale l’esistenza, il cammino di questa creatura umana si svolgerà. E’ creatura che nella morte nasce per la vita che non muore più. E così andrà morendo per testimoniare il dono d’amore che la sta svegliando, la sta rigenerando, la sta reintroducendo nella vita che non muore.
Il diletto dice della sua creatura: tu sei confermata. Questo significa che tu ti consumi per un servizio d’amore. Quali che siano le forme, i luoghi e i momenti del tuo vissuto, per quanto le situazioni possano dimostrarsi cangianti, creative, originali, tu sei creatura sigillata. In ogni luogo e in ogni momento, in ogni situazione c’è un dono di amore che ti riguarda, c’è una responsabilità di amore che ti impegna, c’è un servizio di amore che ti è affidato.
Sembra una fiaba: è mai possibile che nella storia degli uomini ci sia una presenza che è intrinsecamente determinata da una motivazione d’amore assoluta? E’ possibile questo? Che ogni tanto ci sia qualche atto di amore, che in qualche luogo e in qualche modo anche l’amore trovi i suoi spazi e le sue manifestazioni, questo è possibile, ma qui è un’altra cosa: una creatura è sigillata. E’ la missione della chiesa.
L’esperienza dell’incontro con il diletto conferisce alla quotidianità della nostra vicenda umana la fecondità di un amore eterno. Perché eterna è la fecondità. Vedete «forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma del Signore!». Un amore eterno, che avvampa nella profondità degli inferi, che conferisce anche alla morte una preziosa affascinante bellezza: è possibile morire per amore.
la fiamma del Signore
Qui compare un’espressione: “una fiamma del Signore”, in ebraico risuona l’abbreviazione YA, che sta per il nome del Signore. In tutto il Cantico dei Cantici il nome del Signore non è mai citato. Qui è la prima ed unica volta in cui compare il nome del Signore, e siamo alla fine: fiamma di YA. Un’abbreviazione ma inconfondibile. E’ il nome del Signore. E’ come se tutto il Cantico dei Cantici fosse un sepolcro vuoto in cui la presenza non è più reperibile con quella concretezza di documentazione che normalmente fa capo al nome del Signore. Ebbene, proprio il sepolcro vuoto è rivelazione per noi di una potenza d’amore che fa di quel ricettacolo della morte un grembo fecondo per generare. Potenza d’amore che fa della nostra quotidianità il contesto adatto in cui tutto di noi, della nostra vita confermata, cresimata, sigillata, tutto della chiesa in quanto è depositaria della missione che la identifica, tutto si realizzi ormai come servizio d’amore.
ancora non ha seni
Ci sono tre appendici brevissime, vale la pena di leggerle, non fanno parte del Cantico dei Cantici, sono delle aggiunte, ma da diversi punti di vista ci permettono di mettere a fuoco alcune considerazioni ricapitolative di tutto il percorso che abbiamo compiuto.
Prima appendice: 8,8-10: «Una sorella piccola abbiamo, e ancora non ha seni. Che faremo per la nostra sorella, nel giorno in cui se ne parlerà?».
Questa è la situazione: una sorellina che crescerà e i fratelli sono in pensiero per lei in quanto è ancora piccola. Ma prima o poi qualcuno si interesserà a lei: che faremo? Questa figura femminile ha un valore simbolico: rappresenta la situazione in cui si trova la città per eccellenza, la città di Gerusalemme. La città è piccola e indifesa, la situazione è stata sperimentata in modo molto doloroso dopo il rientro dall’esilio. Che faremo con questa sorellina nel giorno in cui si parlerà di lei. Ed ecco i fratelli dicono:
«Se fosse un muro, le costruiremmo sopra un recinto d’argento; se fosse una porta, la rafforzeremmo con tavole di cedro».
Sono risoluti, ci penseremo noi a difenderla. Risponde la sorellina:
«Io sono un muro e i miei seni sono come torri! Così sono ai suoi occhi come colei che ha trovato pace!».
Io sono una creatura pacificata, perché non siete voi che mi tenete d’occhio e non sono gli occhi di possibili aggressori o di qualcuno che vuole insidiarmi, che m mettono in difficoltà. Sono gli cocchi del diletto che mi vedono, che mi riconoscono, e sono gli occhi che illuminano, sono gli occhi che conferiscono bellezza, sono gli occhi dell’amico, dell’amante, del diletto. E ai suoi occhi io sono come colei che ha trovato pace, e nella mi pacificazione sono inattaccabile, sono inespugnabile, perché io sono esposta agli sguardi del diletto, sento quegli occhi con cui egli mi guarda. Nessuno potrà turbare la pace che ormai mi è stata conferita e che mi rende ormai adulta come quella città è ben raccolta dentro la cinta delle sue mura e svettante lungo le merlature delle sue torri.
la vigna di Salomone
Seconda appendice, 8,11-12: «Una vigna aveva Salomone in Baal-Hamòn». Qui è l’immagine della vigna. E’ evocato il re Salomone, che tra le altre imprese aveva compiuto anche questa: organizzare la coltivazione di terreni precedentemente riarsi irrigati in modo tale che è stato possibile piantare delle vigne. «Egli affidò la vigna ai custodi; ciascuno gli doveva portare come suo frutto mille sicli d’argento».
E adesso: «La vigna mia, proprio mia, mi sta davanti». Nel primo poema la creatura amata mentre arrancava, sudata, oscura, desolata, alla ricerca del diletto, aveva dichiarato (1,6) di essere venuta meno al suo dovere, così come i suoi fratelli glielo avevano imposto: non aveva custodito la sua vigna: «la vigna mia, proprio la mia vigna, io l’ho trascurata. E così ho contrariato i miei fratelli, i figli di mia madre”. Era in questo modo che la creatura ricapitolava l’antefatto disastroso. Adesso: «La vigna mia, proprio mia, mi sta davanti: a te, Salomone, i mille sicli e duecento per i custodi del suo frutto!».
Succede che quella vigna, che secondo il programma di Salomone dovrebbe rendere mille sicli d’argento, quella vigna mia mi sta davanti, donata per amore, mia proprietà. Questa vigna mia, proprio mia, rende mille sicli per Salomone, e poi duecento sicli per i custodi, e poi .. Una ricchezza inesauribile: non c’è più misura che possa determinare il tornaconto di chi fa programmi a riguardo di questa vigna. Ormai siamo entrati nel circuito si relazioni gratuite, per cui tutti i calcoli elaborati da Salomone sono radicalmente superati, ormai è ben altra economia quella che è stata instaurata. Questa vigna è mia: accontentiamo Salomone con i mille sicli e ce ne sarà per tutti i custodi. Questa immagine della vigna e dei custodi, verrà ripresa da Gesù in una parabola.
nei giardini
Terza appendice, 8,13-14: «Tu che abiti nei giardini i compagni stanno in ascolto fammi sentire la tua voce».
Prima il diletto e poi la voce della creatura. E’ un dialogo ridotto ai suoi termini essenziali, il diletto e la sua creatura. Siamo nel giardino, sono anche convocati degli osservatori, i compagni stanno in ascolto. Il diletto chiede alla creatura amata di fargli udire la voce. E’ un invito sollecito e affettuoso. E’ quasi una implorazione. Il diletto già altre volte ci era apparso nei panni di un mendicante: parlami, dimmi qualche cosa, fammi udire la tua voce, e falla udire agli amici che sono in ascolto, perché festeggiano, tu ormai sei entrata in esso, dimori in esso. C’è anche una certa trepidazione in questa richiesta, è come se ci trovassimo dinanzi a una pista di un circo e c’è il domatore che dice: adesso vedete che la belva feroce alza la zampetta. La bestia feroce è domata, addomesticata: fammi udire la tua voce, apri la tua bocca e io ci infilo la testa dentro. Ed ecco la risposta:
«Fuggi, mio diletto, simile a gazzella o ad un cerbiatto, sopra i monti degli aromi!».
In 2,17 la creatura amata aveva implorato il diletto così: ritorna o mio diletto, sui monti degli aromi. Qui dice: fuggi. Mentre dice questo, compie il gesto di chi lascia la presa, è una creatura che non stringe più, è una creatura che non si aggrappa al diletto per trattenerlo: va’, mio diletto.
Questo significa che questa creatura è pronta ad abbandonarsi senza più pretendere alcuna garanzia di sicurezza: va’, non ti trattengo più. E’ l’atto con il quale questa creatura dimostra di essere veramente matura, così come già il diletto ce la voleva presentare: fammi udire la tua voce, mostra ciò di cui sei capace, danne dimostrazione. Gli amici attendono solo questo. Ed è creatura che si fida, non ha più nessuna pretesa, non vuole più afferrare, possedere e trattenere nulla e nessuno perché si fida dell’amore. Per questo dice: fuggi, va’. Si fida dell’amore che il diletto le ha manifestato. Nel vangelo secondo Giovanni, nel giardino, il Signore dice a Maria di Magdala: non mi trattenere, perché io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro. Siamo qua: sali al Padre e, non trattenendoti, noi siamo ormai affidati a te, nella totale gratuità dell’amore per cui il Padre tuo è Padre nostro, il Dio tuo è Dio nostro. E così sia.
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