GIOVANNI PAOLO II VISTO DA VICINO – AA.DD.
Servo di Dio GIOVANNI PAOLO II, Papa
(18/05/1920 – 02/04/2005)
Karol Józef Wojtyła, divenuto Giovanni Paolo II con la sua elezione alla Sede Apostolica il 16 ottobre 1978, nacque a Wadowice, città a 50 km da Kraków (Polonia), il 18 maggio 1920. Era l’ultimo dei tre figli di Karol Wojtyła e di Emilia Kaczorowska, che morì nel 1929. Suo fratello maggiore Edmund, medico, morì nel 1932 e suo padre, sottufficiale dell’esercito, nel 1941. La sorella, Olga, era morta prima che lui nascesse.
Fu battezzato il 20 giugno 1920 nella Chiesa parrocchiale di Wadowice dal sacerdote Franciszek Zak; a 9 anni ricevette la Prima Comunione e a 18 anni il sacramento della Cresima. Terminati gli studi nella scuola superiore Marcin Wadowita di Wadowice, nel 1938 si iscrisse all’Università Jagellónica di Cracovia.
Quando le forze di occupazione naziste chiusero l’Università nel 1939, il giovane Karol lavorò (1940-1944) in una cava ed, in seguito, nella fabbrica chimica Solvay per potersi guadagnare da vivere ed evitare la deportazione in Germania.
A partire dal 1942, sentendosi chiamato al sacerdozio, frequentò i corsi di formazione del seminario maggiore clandestino di Cracovia, diretto dall’Arcivescovo di Cracovia, il Cardinale Adam Stefan Sapieha. Nel contempo, fu uno dei promotori del “Teatro Rapsodico”, anch’esso clandestino.
Dopo la guerra, continuò i suoi studi nel seminario maggiore di Cracovia, nuovamente aperto, e nella Facoltà di Teologia dell’Università Jagellónica, fino alla sua ordinazione sacerdotale avvenuta a Cracovia il 1̊ novembre 1946, per le mani dell’Arcivescovo Sapieha.
Successivamente fu inviato a Roma, dove , sotto la guida del domenicano francese P. Garrigou-Lagrange, conseguì nel 1948 il dottorato in teologia, con una tesi sul tema della fede nelle opere di San Giovanni della Croce (Doctrina de fide apud Sanctum Ioannem a Cruce). In quel periodo, durante le sue vacanze, esercitò il ministero pastorale tra gli emigranti polacchi in Francia, Belgio e Olanda.
Nel 1948 ritornò in Polonia e fu coadiutore dapprima nella parrocchia di Niegowić, vicino a Cracovia, e poi in quella di San Floriano, in città. Fu cappellano degli universitari fino al 1951, quando riprese i suoi studi filosofici e teologici. Nel 1953 presentò all’Università cattolica di Lublino la tesi: “Valutazione della possibilità di fondare un’etica cristiana a partire dal sistema etico di Max Scheler”. Più tardi, divenne professore di Teologia Morale ed Etica nel seminario maggiore di Cracovia e nella Facoltà di Teologia di Lublino.
Il 4 luglio 1958, il Papa Pio XII lo nominò Vescovo titolare di Ombi e Ausiliare di Cracovia. Ricevette l’ordinazione episcopale il 28 settembre 1958 nella cattedrale del Wawel (Cracovia), dalle mani dell’Arcivescovo Eugeniusz Baziak.
Il 13 gennaio 1964 fu nominato Arcivescovo di Cracovia da Papa Paolo VI, che lo creò e pubblicò Cardinale nel Concistoro del 26 giugno 1967, del Titolo di S. Cesareo in Palatio, Diaconia elevata pro illa vice a Titolo Presbiterale.
Partecipò al Concilio Vaticano II (1962-1965) con un contributo importante nell’elaborazione della costituzione Gaudium et spes. Il Cardinale Wojtyła prese parte anche alle 5 assemblee del Sinodo dei Vescovi anteriori al suo Pontificato.
I Cardinali, riuniti in Conclave, lo elessero Papa il 16 ottobre 1978. Prese il nome di Giovanni Paolo II e il 22 ottobre iniziò solennemente il ministero Petrino, quale 263° successore dell’Apostolo. Il suo pontificato è stato uno dei più lunghi della storia della Chiesa ed è durato quasi 27 anni.
Giovanni Paolo II ha esercitato il suo ministero con instancabile spirito missionario, dedicando tutte le sue energie sospinto dalla sollecitudine pastorale per tutte le Chiese e dalla carità aperta all’umanità intera. I suoi viaggi apostolici nel mondo sono stati 104. In Italia ha compiuto 146 visite pastorali. Come Vescovo di Roma, ha visitato 317 parrocchie (su un totale di 333).
Più di ogni Predecessore ha incontrato il Popolo di Dio e i Responsabili delle Nazioni: alle Udienze Generali del mercoledì (1166 nel corso del Pontificato) hanno partecipato più di 17 milioni e 600 mila pellegrini, senza contare tutte le altre udienze speciali e le cerimonie religiose [più di 8 milioni di pellegrini solo nel corso del Grande Giubileo dell’anno 2000], nonché i milioni di fedeli incontrati nel corso delle visite pastorali in Italia e nel mondo. Numerose anche le personalità governative ricevute in udienza: basti ricordare le 38 visite ufficiali e le altre 738 udienze o incontri con Capi di Stato, come pure le 246 udienze e incontri con Primi Ministri.
Il suo amore per i giovani lo ha spinto ad iniziare, nel 1985, le Giornate Mondiali della Gioventù. Le 19 edizioni della GMG che si sono tenute nel corso del suo Pontificato hanno visto riuniti milioni di giovani in varie parti del mondo. Allo stesso modo la sua attenzione per la famiglia si è espressa con gli Incontri mondiali delle Famiglie da lui iniziati a partire dal 1994.
Giovanni Paolo II ha promosso con successo il dialogo con gli ebrei e con i rappresentati delle altre religioni, convocandoli in diversi Incontri di Preghiera per la Pace, specialmente in Assisi.
Sotto la sua guida la Chiesa si è avvicinata al terzo millennio e ha celebrato il Grande Giubileo del 2000, secondo le linee indicate con la Lettera apostolica Tertio millennio adveniente. Essa poi si è affacciata al nuovo evo, ricevendone indicazioni nella Lettera apostolica Novo millennio ineunte, nella quale si mostrava ai fedeli il cammino del tempo futuro.
Con l’Anno della Redenzione, l’Anno Mariano e l’Anno dell’Eucaristia, Giovanni Paolo II ha promosso il rinnovamento spirituale della Chiesa.
Ha dato un impulso straordinario alle canonizzazioni e beatificazioni, per mostrare innumerevoli esempi della santità di oggi, che fossero di incitamento agli uomini del nostro tempo: ha celebrato 147 cerimonie di beatificazione – nelle quali ha proclamato 1338 beati – e 51 canonizzazioni, per un totale di 482 santi. Ha proclamato Dottore della Chiesa santa Teresa di Gesù Bambino.
Ha notevolmente allargato il Collegio dei Cardinali, creandone 231 in 9 Concistori (più 1 in pectore, che però non è stato pubblicato prima della sua morte). Ha convocato anche 6 riunioni plenarie del Collegio Cardinalizio.
Ha presieduto 15 assemblee del Sinodo dei Vescovi: 6 generali ordinarie (1980, 1983, 1987, 1990; 1994 e 2001), 1 assemblea generale straordinaria (1985) e 8 assemblee speciali (1980, 1991, 1994, 1995, 1997, 1998 [2] e 1999).
Tra i suoi documenti principali si annoverano 14 Lettere encicliche, 15 Esortazioni apostoliche, 11 Costituzioni apostoliche e 45 Lettere apostoliche.
Ha promulgato il Catechismo della Chiesa cattolica, alla luce della Tradizione, autorevolmente interpretata dal Concilio Vaticano II. Ha riformato i Codici di diritto Canonico Occidentale e Orientale, ha creato nuove Istituzioni e riordinato la Curia Romana.
A Papa Giovanni Paolo II, come privato Dottore, si ascrivono anche 5 libri: “Varcare la soglia della speranza” (ottobre 1994); “Dono e mistero: nel cinquantesimo anniversario del mio sacerdozio” (novembre 1996); “Trittico romano”, meditazioni in forma di poesia (marzo 2003); “Alzatevi, andiamo!” (maggio 2004) e “Memoria e Identità” (febbraio 2005).
Giovanni Paolo II è morto in Vaticano il 2 aprile 2005, alle ore 21.37, mentre volgeva al termine il sabato e si era già entrati nel giorno del Signore, Ottava di Pasqua e Domenica della Divina Misericordia.
Da quella sera e fino all’8 aprile, quando hanno avuto luogo le Esequie del defunto Pontefice, più di tre milioni di pellegrini sono confluiti a Roma per rendere omaggio alla salma del Papa, attendendo in fila anche fino a 24 ore per poter accedere alla Basilica di San Pietro.
Il 28 aprile successivo, il Santo Padre Benedetto XVI ha concesso la dispensa dal tempo di cinque anni di attesa dopo la morte, per l’inizio della Causa di beatificazione e canonizzazione di Giovanni Paolo II. La Causa è stata aperta ufficialmente il 28 giugno 2005 dal Cardinale Camillo Ruini, Vicario Generale per la diocesi di Roma.
fonte: www.vatican.va
Tre anni fa si spegneva Giovanni Paolo II, al termine di un declino fisico vissuto con una fede e un coraggio impressionanti. E davvero la morte del Papa venuto da “lontano” colpì moltissime persone in tutto il mondo, come subito fu evidente dalle reazioni moltiplicatesi nei giorni successivi e poi dalla celebrazione dei funerali. Tanto che alcuni storici hanno ricordato quelle che seguirono, in circostanze del tutto diverse, la morte di Pio IX e, in tempi più vicini, l’agonia di Giovanni XXIII.
La stessa fede e lo stesso coraggio avevano del resto caratterizzato tutta la vita di Karol Wojtyla e hanno poi segnato il suo lunghissimo pontificato, urbi et orbi: così come davanti “alla città e al mondo”, da piazza San Pietro, risuonarono il 16 ottobre 1978 le parole vigorose del cinquantottenne cardinale arcivescovo di Cracovia appena eletto Papa e quelle gravi del sostituto della Segreteria di Stato che il 2 aprile 2005 ne annunciarono la morte.
Prete dal carisma indiscusso, nominato già da Pio XII vescovo a soli trentotto anni, poi da Paolo VI promosso, ancora giovane, metropolita della storica sede polacca e quindi creato cardinale, Wojtyla è stato un vero protagonista della seconda metà del Novecento. E, “avvicinandosi il terzo millennio”, tertio millennio adveniente, come “pastore universale della Chiesa” ha saputo – con una visione mistica e politica – accompagnare i fedeli cattolici e i cristiani, ma più in generale credenti e non credenti, in un arco di tempo segnato da mutamenti rapidi e inattesi: dalla crisi e dal crollo del comunismo europeo all’imporsi del fenomeno mondiale che va sotto il nome di globalizzazione. Con una nuova attenzione alle donne, alle quali per la prima volta dedicò diversi documenti e interventi.
Così la critica serrata all’ideologia materialista e disumana del comunismo da parte del Papa venuto dalla Chiesa del silenzio – che ora grazie a lui aveva ripreso a parlare – andò di pari passo e fu seguita da quella al materialismo pratico delle società ricche sempre più scristianizzate, povere di ideali ma pervasive con i loro avvilenti modelli di vita. Di fronte a nuove guerre e alla crescita dei fondamentalismi religiosi, in particolare quello islamico, la predicazione di Giovanni Paolo II riprese e rafforzò l’opera di pace della Santa Sede, ininterrotta almeno da oltre un secolo, ponendo la Chiesa cattolica all’avanguardia della difesa dei diritti umani e cercando un’intesa tra le grandi religioni. E dinnanzi alle minacce per la vita umana nascoste nelle biotecnologie Papa Wojtyla individuò e denunciò i pericoli per la dignità dell’essere umano.
Soprattutto, sulle vie indicate dai predecessori e dai concili, appassionato di Cristo e devoto alla Madre di Dio, Giovanni Paolo II ha percorso i cinque continenti senza stancarsi – e senza lasciarsi intimorire dall’attentato che nel 1981 lo ridusse in fin di vita – per dare visibilità e infondere coraggio alla Chiesa. Che per questo, iniziando da Benedetto XVI, è grata a Papa Wojtyla, prega per lui e alla sua preghiera si affida nella comunione dei santi.
g. m. v.
(©L’Osservatore Romano – 2 aprile 2008)
Il 2 aprile di tre anni fa moriva Giovanni Paolo II
E LA CHIESA DEL SILENZIO PARLO’
Giornalista e scrittore, l’autore del volume Jean-Paul II - edito da Gallimard (Paris, 2003) e tradotto in italiano per Baldini Castoldi Dalai Editore (Milano, 2004) – ha tracciato un profilo del Pontefice soffermandosi in particolar modo sul ruolo da lui esercitato sullo sviluppo della recente storia europea.
E LA CHIESA DEL SILENZIO PARLO’
Giornalista e scrittore, l’autore del volume Jean-Paul II - edito da Gallimard (Paris, 2003) e tradotto in italiano per Baldini Castoldi Dalai Editore (Milano, 2004) – ha tracciato un profilo del Pontefice soffermandosi in particolar modo sul ruolo da lui esercitato sullo sviluppo della recente storia europea.
di Bernard Lecomte
Se Giovanni Paolo II ha lasciato il ricordo di un pastore eccezionale, di un uomo dalla grande fede, di un intellettuale fuori dal comune, resterà nella storia anche come un Papa molto “politico”, soprattutto per il ruolo esercitato sulla fine del comunismo in Europa. Certo, il Papa polacco non ha mai lanciato “crociate” contro l’uno o l’altro regime: “Non faccio politica” ha detto un giorno a un giornalista, “io parlo del Vangelo. Ma se parlare della giustizia, della dignità umana, dei diritti dell’uomo, è fare politica, allora siamo d’accordo!”.
Oggi tutti gli storici concordano che se il Papa eletto nell’ottobre del 1978 fosse stato italiano, spagnolo o francese, il corso della storia, sul finire del ventesimo secolo, sarebbe stato diverso.
Appena eletto, in effetti, si vede il nuovo Pontefice moltiplicare segni, gesti e iniziative in direzione dell’Est. Durante la messa per l’inizio del ministero petrino, domenica 22 ottobre 1978, dopo aver lanciato il suo famoso “Non abbiate paura!”, il Papa slavo pronuncia saluti particolari in ceco, slovacco, russo, e così via. Chi nota allora che egli invia la sua berretta di cardinale al santuario della Porta dell’Aurora, a Vilnius, capitale della cattolicissima Lituania? Chi osserva che riceve, in primo luogo, il cardinale Frántisek Tomásek, primate di Boemia e futuro padrino della “rivoluzione di velluto” cecoslovacca? “Santità, non dimentichi la Chiesa del silenzio!” gli dice una donna ad Assisi, il 5 novembre 1978. Giovanni Paolo II le risponde: “Non c’è più Chiesa del silenzio, perché parla con la mia voce!”.
Il nuovo Papa non ha elaborato alcun progetto, non ha fomentato alcun complotto, per rovesciare il sistema sovietico. È tuttavia portatore di un’esperienza particolare: quella di un sacerdote, di un vescovo, di un cardinale venuto dall’altra parte della “cortina di ferro”. Il suo discorso è tanto originale quanto sovversivo: contrariamente alla maggior parte dei responsabili occidentali di allora, egli è convinto che la divisione dell’Europa in due sia un incidente politico e che il marxismo-leninismo non sia altro che una parentesi della storia.
Il cammino spirituale e l’insegnamento morale di Giovanni Paolo II sono stati altrettanti incoraggiamenti per i cristiani dell’Est, come i grandi temi che hanno presto costituito l’armatura del suo discorso politico e sociale:
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- innanzitutto il primato della “cultura”, che ha colpito tanto le menti nel discorso all’Unesco del 2 giugno 1980, e quell’insistere sul risuscitare la storia confiscata, di tutti i popoli sottomessi; – la permanenza della “nazione”, cellula primaria della comunità internazionale, la cui esistenza e la cui sovranità non devono dipendere dal beneplacito di qualche entità superiore;
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- l’opzione per “l’Europa” in quanto associazione di nazioni che custodiscono la loro storia, le loro specificità e anche le loro radici cristiane, ben diversa, quindi, dall’Europa conflittuale di Yalta e di Helsinki;
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- infine l’insistenza per i “diritti dell’Uomo”, tema centrale dell’insegnamento di Giovanni Paolo II fin dalla sua prima enciclica, Redemptor hominis, la lotta per le libertà individuali e soprattutto per la più intima: la libertà religiosa.
Il Papa non si è accontentato di tradurre tali temi in omelie a Roma, ma li ha portati, a volte personalmente, nei quattro angoli dell’Europa. Innanzitutto con i suoi viaggi, a cominciare dalla straordinaria visita pastorale in Polonia nel giugno del 1979, che in qualche modo diede il via all’esperienza di Solidarnosc. Poi, per interposta persona: basti ricordare la missione del cardinale Agostino Casaroli inviato a rappresentare il Papa nelle cerimonie del millenario della Chiesa russa, nel giugno del 1988. Infine, mediante innumerevoli incontri in Vaticano, dalla prima udienza concessa al ministro Andrei Gromyko (gennaio 1979) al caloroso incontro con il dissidente Andrei Sakharov (febbraio 1989).
Il più sorprendente di questi incontri sarebbe stato, naturalmente, quello con Mikhail Gorbaciov, svoltosi in Vaticano il primo dicembre 1989, alcuni giorni dopo la caduta del Muro di Berlino, come uno straordinario simbolo della fine di un’epoca.
“Varsavia, Mosca, Budapest, Berlino, Praga, Sofia e Bucarest sono divenute le tappe di un lungo pellegrinaggio verso la libertà”, avrebbe detto il Papa dinanzi al corpo diplomatico, un mese dopo, prima che Gorbaciov stesso riconoscesse, in un articolo pubblicato nel febbraio 1992: “Nulla di quanto è accaduto in Europa sarebbe stato possibile senza questo Papa”.
(©L’Osservatore Romano – 2 aprile 2008)
Gli ultimi giorni nel ricordo filiale del cardinale Stanislaw Dziwisz
Gli ultimi giorni nel ricordo filiale del cardinale Stanislaw Dziwisz
E PENSAI: L’HO ACCOMPAGNATO
PER QUANTANT’ ANNI
E ORA? DALL’ALTRA PARTE
CHI LO ACCOMPAGNA ?
Martedì 1 ° aprile alle ore 18, nella basilica romana di Santa Maria in Trastevere, si è svolto l’incontro “Ricordando Karol. A tre anni dalla scomparsa di Giovanni Paolo II” con la partecipazione dei cardinali Camillo Ruini, vicario di Roma, e Stanislaw Dziwisz, arcivescovo metropolita di Cracovia, di monsignor Slawomir Oder, postulare della causa di beatificazione e canonizzazione di Karol Wojtyla, dello storico Andrea Riccardi, docente all’università di Roma Tre, e del giornalista Gianfranco Svidercoschi,. già vicedirettore del nostro giornale. In occasione della pubblicazione dell’edizione tascabile Bur del libro di Dziwisz Una vita con Karol. Conversazione con Gianfranco Svidercoschi, l’attore Piotr Adamczyk ha letto alcune pagine del volume e sono state proiettate parti della docu-fiction tratta dal libro e prodotta da Tba. Pubblichiamo un estratto dell’ultimo capitolo nel quale il segretario personale di Giovanni Paolo II racconta gli ultimi giorni di vita del Papa.
di Stanislaw Dziwisz
Per la prima volta dall’inizio del pontificato, Giovanni Paolo II, pur tornato in Vaticano, non poté presiedere i riti del Triduo pasquale. Il Venerdì Santo volle comunque seguire la Via Crucis al Colosseo da uno schermo televisivo sistemato nella cappella privata. Alla quattordicesima stazione prese nelle mani il crocifisso, come per unire il suo volto a quello di Cristo, la sua sofferenza a quella del Figlio di Dio morto in croce.
Interviste ai cardinali Giovanni Battista Re
e Leonardo Sandri, già sostituti della Segreteria di Stato
negli anni del pontificato di Karol Wojtyla
UNA VITA DONATA PER FAR RIENTRARE DIO IN QUESTO MONDO
di Mario Ponzi
“Il suo sforzo più grande? Far rientrare Dio in questo mondo”. Non ha dubbi il cardinale Giovanni Battista Re a proposito della caratteristica fondamentale del pontificato di Papa Wojtyla. Qualsiasi cosa dicano alcuni suoi presunti “profondi conoscitori”, Giovanni Paolo II ha influito tanto profondamente nella storia della nostra epoca perché ha saputo fedelmente interpretare “i grandi compiti che la Provvidenza divina gli ha riservato”. E se si è reso “protagonista” negli storici eventi che hanno portato al crollo del muro di Berlino, lo ha fatto certamente non per “motivi politici ma per motivi esclusivamente religiosi”. Il cardinale Re, a lungo diretto collaboratore di Papa Wojtyla, in questa intervista offre alcuni ricordi personali dell’esperienza maturata accanto a un Pontefice che egli stesso non esita a inserire tra “i giganti della storia”.
Tre anni fa moriva Giovanni Paolo II. Che cosa ricorda di quei giorni?
La malattia, l’agonia e la morte di Giovanni Paolo II hanno scosso il mondo e hanno fatto vivere a moltissime persone delle giornate che il trascorrere del tempo non ha fatto dimenticare. Mai si era vista una solidale vicinanza al Papa così ampia e convinta. Con l’esempio delle ultime settimane di malattia, l’amato Pontefice ha testimoniato che sia l’età avanzata, sia la malattia vanno accolte con serenità e ci ha insegnato che la vita è un dono che va vissuto fino in fondo, accettando quanto Dio dispone e sopportando con forza i disagi e le sofferenze che comporta. Papa Giovanni Paolo II ha vissuto la sua missione fino all’ultimo, cercando di non fare mancare del tutto la sua presenza ai riti della Settimana Santa di quell’anno e non nascondendo la debolezza del suo fisico. Il momento più drammatico della sua volontà di comunicare è stato vissuto in diretta televisiva il giorno di Pasqua (27 marzo 2005) quando egli, reduce dal decimo ricovero al Policlinico Gemelli, dopo l’intervento di tracheotomia, come tutti ricordiamo, ha cercato di farsi udire, ma chiaro è stato soltanto il gesto della benedizione. Col suo esempio, il compianto Papa ci ha insegnato come si percorre il cammino verso il mistero che ci attende quando per ciascuno di noi si apriranno le porte dell’eternità. È stato l’insegnamento ultimo di Giovanni Paolo II e il punto più alto del suo magistero, perché tutto il suo pontificato ha mirato a questo: indicare la via che conduce al cielo, alla salvezza eterna. Ed è stato un insegnamento da grande Papa.
Che cosa l’ha impressionata di più in quei giorni?
Il fatto che il Papa Giovanni Paolo II non aveva per nulla paura della morte. Per lui la morte era come passare attraverso la porta che conduce all’incontro con Dio. Nonostante la sofferenza e i disagi per i suoi gravi problemi di salute, attese la morte con serenità.
Quale fu il suo ultimo incontro col compianto Papa?
Fu la sera della vigilia della sua morte: alle ore 20 di venerdì 1 aprile uscendo dall’ufficio passai all’appartamento pontificio. Monsignor Stanislao mi introdusse nella camera del Papa. Sua Santità era cosciente, respirava con grande fatica, ma era sereno in volto. Mi fissò, non parlò.
Il suo pontificato ha inciso nella storia?
Direi che Papa Giovanni Paolo II ha saputo influire da protagonista sul corso degli eventi. La Provvidenza divina gli ha riservato grandi compiti nella storia della nostra epoca. Tuttavia, anche se è vero che Giovanni Paolo II ha inciso nella storia e negli avvenimenti che hanno portato alla caduta del muro di Berlino, come ha rilevato lo stesso Gorbaciov, la prima e fondamentale caratteristica del suo pontificato è quella religiosa. Il movente di tutto il pontificato, la radice della sua incontenibile energia, il motivo ispiratore di tutte le iniziative è stato religioso: tutti gli sforzi del Papa miravano a fare rientrare Dio in questo mondo. La fedeltà al Vangelo ha poi portato Giovanni Paolo II a difendere col vigore del lottatore i grandi valori umani e cristiani. Difese tali valori con importanti encicliche e innumerevoli interventi, facendo sentire la sua voce anche nelle conferenze internazionali. In tutti gli angoli della terra ha seminato ragioni di vita e di speranza e ha rivendicato la dignità di ogni uomo e di ogni donna e il rispetto della libertà e dei diritti umani. Ha indicato a tutti la via della verità e dei valori morali come unica strada che può assicurare un avvenire più umano, più giusto, più pacifico. In questa nostra epoca, nella quale ha lasciato un segno incancellabile, è stato il più strenuo e appassionato tutore dei valori che danno senso alla vita e che fanno parte del patrimonio della civiltà cristiana. È stato un grande messaggero di pace e un instancabile operatore per una convivenza tra gli uomini e i popoli all’insegna dell’armonia e della collaborazione.
Alcuni hanno giudicato quel pontificato per i suoi aspetti di lotta al comunismo. Le sembra una valutazione corretta? L’elemento qualificante del pontificato di Giovanni Paolo II è stata la fedeltà al Vangelo.
È vero che egli era contro il comunismo, però il motivo non era politico, ma essenzialmente religioso: egli operò con coraggio contro il comunismo perché era un sistema che professava l’ateismo e perseguitava la Chiesa, e in pari tempo opprimeva l’uomo, negandogli piena libertà. Era un motivo religioso quello che ispirava il Papa e che faceva seguito alle parole vibranti da lui pronunciate nella prima celebrazione in Piazza San Pietro: “Non abbiate paura! Aprite le porte a Cristo!”.
Lei è stato per molti anni al suo fianco come assessore e poi sostituto della Segreteria di Stato: che cosa l’ha colpita di più?
Stando vicino a Papa Giovanni Paolo II colpiva la capacità che aveva di parlare alle folle e impressionava la ricchezza della sua umanità – il rapporto che stabiliva con le persone, il calore delle amicizie, la profondità del pensiero, la capacità di godere della bellezza della natura, della letteratura e dell’arte – ma ciò che sempre mi ha impressionato di più è stato il suo rapporto con Dio. Colpiva come egli si abbandonava alla preghiera: si notava in lui un trasporto che gli era connaturale e che lo assorbiva come se non avesse problemi e impegni urgenti che lo chiamassero alla vita attiva. Commuoveva la facilità e la spontaneità con le quali passava dal contatto umano con le folle al raccoglimento del colloquio intimo con Dio. Quando era raccolto in preghiera, ciò che succedeva attorno a lui sembrava non toccarlo e non riguardarlo. Egli si preparava ai vari incontri, che avrebbe avuto in giornata o nella settimana, pregando. Prima di ogni decisione importante Giovanni Paolo II vi pregava sopra a lungo. Più importante era la decisione, più prolungata era la preghiera.
Che cosa rimane della sua testimonianza nel cuore degli uomini e delle donne di oggi?
La sua fede, le sue certezze, il suo coraggio restano una testimonianza che parla al cuore di ogni uomo e di ogni donna, perché la sua vita è stata sempre in sintonia col suo messaggio. Questo Papa, sempre più debole e limitato nel suo fisico, è stato particolarmente forte nel suo coraggio, nella sua capacità di proclamare la verità sull’uomo e su Dio, nel donare se stesso. Molti hanno attinto da Giovanni Paolo II speranza e fiducia nella ricerca del senso della vita. Molti hanno appreso da lui la strada per ritrovare la via che conduce a Dio. Ora che ha varcato la soglia dell’eternità e contempla il volto di Dio, la sua luce non si è spenta ed egli continua a vivere nei cuori.
UN RESPIRO A DUE POLMONI: ORIENTE E OCCIDENTE
di Nicola Gori
È stato la voce di Giovanni Paolo II negli ultimi giorni in cui l’aggravarsi della malattia gli impediva di comunicare. Ed è stato anche colui che, la sera del 2 aprile 2005, vigilia della domenica della Divina Misericordia, annunciò in piazza San Pietro la morte del Pontefice. È legato anche a queste due esperienze il ricordo personale che il cardinale Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, conserva di Papa Wojtyla a tre anni dalla scomparsa. In questa intervista il porporato ripercorre gli anni in cui ha lavorato fianco a fianco con Giovanni Paolo II, soprattutto dal 2000 come sostituto della Segreteria di Stato, partecipando, tra l’altro, personalmente alla preparazione e allo svolgimento dei viaggi apostolici in varie parti del mondo.
Nel terzo anniversario del ritorno alla Casa del Padre di Giovanni Paolo II, quali sentimenti accompagnano il suo ricordo?
Nella messa di suffragio che Benedetto XVI presiede mercoledì 2 aprile in piazza San Pietro troveranno espressione la gratitudine che dobbiamo a Dio per averci dato in Giovanni Paolo II un segno così luminoso della vicinanza del Buon Pastore; l’affetto dei figli per il Padre che li ha amati fino al suo ultimo respiro; la speranza di rimanere sempre con Cristo, il Crocifisso Risorto, al quale egli aveva consegnato se stesso in modo incondizionato.
Sono questi i sentimenti che provo quando penso agli anni passati accanto al compianto Pontefice. Ritengo si tratti di una grazia speciale ricevuta dal Signore ed è confermata nella collaborazione che ho l’onore di poter offrire al suo Successore. La gratitudine, se è autentica, diventa atto di fede nel Cristo, nella santa Chiesa e nell’uomo, che costituivano i grandi valori ai quali Papa Wojtyla volle consegnare la sua esistenza di credente e di pastore. E rimane autentica se cerca sempre di accogliere l’esempio e il magistero da lui offerti tanto generosamente.
Cosa ritiene peculiare nella sua testimonianza?
L’adesione a Cristo. Egli la viveva in compagnia di Maria Santissima, a lode e gloria del Dio dell’amore e per la salvezza di tutti. Questa era la testimonianza che si percepiva soprattutto quando celebrava l’Eucaristia e nella sua devozione al sacramento dell’altare. Era impressionante assistere alla sua preparazione alla messa, e poi alla celebrazione e al ringraziamento. Disarmante e coinvolgente poiché il desiderio di imitare cresceva istintivamente nel cuore. Nella Eucaristia quotidiana trovavano novità e fecondità la sua parola e le sue opere.
Nel “perdersi eucaristico” di Cristo servo, nel suo farsi pane e bevanda di salvezza per ogni uomo, nella comunione che rinvigoriva il suo inserimento nel Corpo di Cristo e nel mistero della santa Chiesa, Giovanni Paolo II trovava la capacità di presentare a tutti, soprattutto ai sofferenti nel corpo e nello spirito, ai dubbiosi e agli stanchi sotto il profilo religioso, e con quale impeto ai giovani, il Cristo vivo, il Redentore misericordioso sempre amico dell’uomo.
La certezza, poi, che il Signore lo precedeva nel cuore di coloro ai quali come pastore si sentiva inviato rendeva costante e fiducioso il suo lavoro apostolico. Dava coraggio ai ministri della Chiesa, ma anche ai fedeli, questa sua convinzione di fede, dalla quale si avvertiva la verità di quanto dice la scrittura: “La nostra fede vince il mondo”. Tanto più eloquente divenne questa testimonianza nella lunga stagione della malattia fino al silenzio dell’addio.
Molti esaltano il suo servizio alla storia umana e la sua missionarietà.
Certo non si possono dimenticare la responsabilità missionaria che lo portò in ogni angolo della terra e la sensibilità ecumenica e interreligiosa. Come del resto la fedeltà alla tradizione e l’apertura alle novità dello Spirito felicemente intrecciate nel suo magistero e governo pastorale. E l’attenzione ai temi sociali; il servizio alla pace, alla giustizia, alla verità quali fondamenta della concordia e solidarietà mondiali. Potremmo continuare a lungo nell’elencare i suoi meriti.
Ma la peculiarità rimane il Cristo, amato in compagnia della Madre del Signore. Tutti i santi e i beati che egli nel lungo pontificato ha proclamato attestano questa peculiarità ed esaltano l’attualità della santità cristiana, quale vita pienamente salvata e perciò felicemente realizzata grazie a Cristo Signore.
Può farci dono di qualche “inedito” ricordo personale di Papa Wojtyla?
Abbiamo la responsabilità di non disperdere il suo carisma, ma aggiungo che dobbiamo custodirlo con la riservatezza di chi ama, di chi è riconoscente e di chi cerca di imitare. Certo, sento viva commozione e immensa riconoscenza al Signore e allo stesso Papa Giovanni Paolo II ricordando il compito che mi aveva affidato di prestare la mia voce alla sua parola, allorché sempre più sofferente avvertiva ormai impedita la capacità di comunicare.
Rimane indelebile nel mio animo la conclusione di un Angelus domenicale quando impartendo la benedizione a nome del Santo Padre scorgevo lo stesso Pontefice tracciare su di sé a fatica il segno di croce. Era padre e fratello, e, mentre percorreva la personale Via Crucis col suo Signore, voleva riversare su tutti la grazia del salvifico dolore di Cristo.
Ma c’è un altro pensiero per così dire “inedito” che vorrei lasciare e riguarda quella che ritengo una “speciale introduzione all’Oriente cristiano” ricevuta da Giovanni Paolo II. Dalla fine dell’Anno santo ho potuto condividere numerosi viaggi papali e in maggioranza erano compiuti in Paesi orientali. L’accurata preparazione delle tappe di ciascuno di essi e poi il loro svolgimento, con le celebrazioni e gli innumerevoli incontri aperti alle categorie più diverse e qualificate della comunità ecclesiale, ai fratelli di altre Chiese e comunità ecclesiali, di altre religioni, alle autorità civili, ai giovani, mi hanno disposto al servizio che Benedetto XVI mi avrebbe poi affidato come Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali Cattoliche.
Il servo di Dio Giovanni Paolo II mi ha personalmente dato prova della sua profonda venerazione per i tesori costituiti dalle tradizioni teologiche, liturgiche e disciplinari dei cattolici orientali e dalla testimonianza dei martiri cristiani antichi e contemporanei figli dell’Oriente. Egli ha allenato anche me al pieno respiro ecclesiale. La Chiesa deve respirare a due polmoni! La Chiesa ha bisogno dell’apporto dell’Oriente e dell’Occidente per continuare a glorificare il nome del Signore e parlare in modo convincente del Redentore misericordioso all’uomo contemporaneo. Papa Wojtyla ne era gioiosamente convinto!
Sentii che stava davvero arrivando il momento, il Signore lo chiamava…
A Pasqua, il Santo Padre desiderava almeno impartire la benedizione Urbi et orbi. Si era preparato con cura, poco prima della cerimonia aveva provato a ripetere la formula, e tutto sembrava andare bene. Ma poi, finito il discorso letto in piazza dal cardinale Sodano, il Papa alla finestra rimase come bloccato. Sarà stata la commozione, la sofferenza, ma non riuscì a dare la benedizione. Sussurrò: “Non ho voce”, e quindi, sempre in silenzio, fece un triplice segno di croce, salutò la folla, infine con lo sguardo fece capire che voleva rientrare.
Era profondamente scosso, amareggiato, e, nello stesso tempo, come esausto per lo sforzo che aveva tentato inutilmente di fare. La gente, giù, era commossa, lo applaudiva, lo chiamava, ma lui sentiva tutto il peso di quel gesto di impotenza, di sofferenza. Mi guardò negli occhi: “Sarebbe forse meglio che muoia, se non posso compiere la missione affidatami”. Cercai di replicare, ma lui aggiunse: “Sia fatta la tua volontà… Totus tuus“. Non erano parole di disperazione, ma di sottomissione alla volontà divina.
Mercoledì 30 marzo, il Papa si affacciò di nuovo, in piazza c’erano cinquemila ragazzi dell’arcidiocesi di Milano venuti per la professione di fede. Pensavamo, io per primo, che dovesse dare solo la benedizione. Ma, dopo averla impartita, fece un gesto con la mano, un gesto deciso, per chiedere che gli avvicinassimo il microfono. Voleva dire qualche parola, anche solo una parola, un ringraziamento, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono. Nell’allontanarsi dalla finestra, non ebbe neppure la reazione di insofferenza che aveva avuto a Pasqua. Ormai sapeva, era pronto…
Il giorno dopo, verso le 11, era in cappella per la celebrazione della Messa. All’improvviso il suo corpo venne squassato da qualcosa che gli era come scoppiato dentro. La febbre era quasi a quaranta, e i medici diagnosticarono subito che era subentrato un gravissimo shock settico con collasso cardiocircolatorio, dovuto a una infezione delle vie urinarie. Stavolta, però, niente ricovero. Ricordai al dottor Buzzonetti la ferma volontà del Papa di non tornare più in ospedale. Intendeva soffrire e morire a casa sua, presso la tomba di Pietro. E, a casa sua, i medici avrebbero potuto benissimo assicurargli le cure indispensabili.
Ora, perciò, Giovanni Paolo II era nella sua camera. Sulla parete di fronte al letto, un quadro di Cristo sofferente, legato con le corde. Una immagine della Madonna di Czestochowa. E, su un tavolino, la foto dei genitori. Al termine della Messa, celebrata lì, ci avvicinammo tutti a baciare la sua mano. “Stasiu”, disse accarezzandomi la testa. Poi le suore della casa, che chiamò tutte per nome, e infine i medici, gli infermieri.
Il venerdì fu una giornata di preghiera: la Messa, la Via Crucis, l’Ora Terza dell’Ufficio divino, e alcuni brani della Scrittura letti da un altro grande amico di Karol Wojtyla, padre Tadeusz Styczen. Le condizioni generali erano di una estrema gravità. Il Papa riusciva ormai a dire solo poche sillabe, con difficoltà.
E siamo arrivati al 2 aprile, sabato.
Vorrei poter veramente ricordare tutto.
Nella stanza c’era grande serenità. Il Santo Padre benedisse le corone destinate alla Madonna di Czestochowa nelle Grotte Vaticane, e altre due da mandare a Jasna Góra. Poi si congedò dai suoi più stretti collaboratori, cardinali, monsignori della Segreteria di Stato, responsabili di uffici, e volle salutare Francesco, incaricato delle pulizie nell’appartamento.
Era ancora pienamente cosciente, perché pur esprimendosi a fatica chiese che gli venisse letto il Vangelo di san Giovanni. Non era stato un nostro suggerimento, l’aveva chiesto lui. Anche per l’ultimo giorno, come aveva fatto per tutta la vita, voleva nutrirsi della Sacra Scrittura.
Padre Styczen cominciò a leggere Giovanni, un capitolo dopo l’altro. Ne lesse nove. E nel libro, alla fine, rimarrà il segno nel punto in cui era arrivata la lettura: e, insieme, il segno di quando si era conclusa la sua esistenza.
Ecco, nell’estremo momento, il Santo Padre era tornato a essere quello che fondamentalmente era sempre stato, un uomo di preghiera. Era un uomo di Dio, un uomo in intima comunione con Dio, e quindi la preghiera costituiva incessantemente come il “basamento” della sua vita. Quando doveva incontrare qualcuno, o prendere una decisione importante, scrivere un documento, fare un viaggio, prima si rivolgeva sempre a Dio. Prima, pregava. E anche quel giorno, prima di intraprendere l’ultimo grande viaggio, anche quel giorno recitò, con l’aiuto dei presenti, tutte le preghiere quotidiane; fece l’adorazione, la meditazione, e anticipò perfino l’Officio delle letture per la domenica.
A un certo punto, suor Tobiana “sentì” i suoi occhi; si avvicinò con l’orecchio alla bocca, e lui, con voce debolissima, appena percettibile, disse: “Lasciatemi andare dal Signore”. La religiosa uscì di corsa dalla camera, voleva raccontarcelo ma continuava a piangere.
Ci ho pensato soltanto dopo, ma è stato straordinario che le ultime parole le abbia dette a una donna.
Verso le 19 il Santo Padre entrò in coma. La stanza era illuminata solo da un piccolo cero acceso, che il Papa stesso aveva benedetto il 2 febbraio per la festa della Candelora.
Piazza San Pietro e tutte le strade adiacenti si erano andate affollando. C’era sempre più gente, e soprattutto c’erano sempre più giovani. Le loro grida – “Giovanni Paolo!”, “Viva il Papa!” – arrivavano fin su al terzo piano. Io sono convinto che le abbia sentite anche lui. Non poteva non sentirle!
Erano ormai quasi le 20, e improvvisamente avvertii dentro di me come un imperativo categorico: dovevo celebrare la Messa! E così cominciai a fare, assieme al cardinale Jaworski, all’arcivescovo Rylko e a due sacerdoti polacchi, Styczen e Mokrzycki. Era la Messa prefestiva della domenica della Divina Misericordia, una solennità tanto cara al Papa. Il Vangelo era sempre quello di Giovanni: “Venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse “Pace a voi!..”". Alla Comunione, riuscii a dargli, come viatico, alcune gocce del sangue preziosissimo di Gesù.
Erano le 21.37. Ci eravamo accorti che il Santo Padre aveva smesso di respirare. Ma solo in quel preciso momento “vedemmo” sul monitor che il suo grande cuore, dopo aver continuato a battere per qualche istante, si era fermato.
Il dottor Buzzonetti si chinò su di lui e alzando appena lo sguardo mormorò: “È passato alla casa del Signore”.
Qualcuno intanto aveva bloccato le lancette dell’orologio su quell’ora.
E noi, come se lo avessimo deciso tutti insieme, ci mettemmo a cantare il Te Deum. Non il Requiem, perché non era un lutto, ma il Te Deum, come ringraziamento a Dio per il dono che ci aveva dato, il dono della persona del Santo Padre, di Karol Wojtyla.
Piangevamo. Come si faceva a non piangere! Erano, insieme, lacrime di dolore e di gioia. E fu allora che si accesero tutte le luci della casa…
Poi, non ricordo più. Era come se fosse calato improvvisamente il buio. Il buio sopra di me, dentro di me. Sapevo bene quello che era successo, ma era come se, dopo, non riuscissi ad accettarlo. O non riuscissi a capirlo. Mi mettevo nelle mani del Signore, ma quando pensavo di avere il cuore sereno ripiombava il buio…
Finché è arrivato il momento del congedo.
C’era tutta quella gente. Tutte quelle persone importanti venute da lontano. Ma, soprattutto, c’era il suo popolo. C’erano i suoi giovani. C’erano quelle scritte, così significative e così impazienti. In piazza San Pietro c’era una grande luce. E adesso era tornata anche dentro di me.
Concludendo l’omelia, il cardinale Ratzinger ha fatto quell’accenno alla finestra, e ha detto che lui stava sicuramente là, a vederci, a benedirci. Anch’io mi sono voltato, non ho potuto fare a meno di voltarmi, ma non ce l’ho fatta a guardare in su.
Alla fine, quando sono arrivati sul sagrato, i sediari che portavano la bara l’hanno lentamente girata. Come per permettergli l’ultimo sguardo verso la sua piazza. Il congedo definitivo dagli uomini, dal mondo.
Ma anche da me?
No, da me no. In quel momento, non ho pensato a me. L’ho vissuto insieme con tutti gli altri. E tutti erano scossi, turbati. Ma per me è stata una cosa che non potrò mai dimenticare.
Intanto, il corteo stava entrando in basilica, dovevano portare la bara giù nella tomba.
E allora, proprio allora, mi è venuto di pensare…
L’ho accompagnato per quasi quarant’anni, prima dodici a Cracovia, poi ventisette a Roma. Sono stato sempre con lui, accanto a lui.
Ora, nel momento della morte, lui è andato da solo.
L’ho sempre accompagnato, ma da qui è andato da solo. E questo fatto, di non averlo potuto accompagnare, mi ha colpito tanto.
Sì, certo, lui non ci ha lasciati. Sentiamo la sua presenza, e anche le tante grazie ottenute tramite lui. E poi, io l’ho accompagnato fino a questo punto della Chiesa.
Ma, da qui, è andato da solo. E ora? Dall’altra parte, chi lo accompagna?
(©L’Osservatore Romano – 2 aprile 2008)
Giovanni Paolo II uomo di preghiera e di perdono LA MISERICORDIA IN EREDITA’
In qualità di giornalista vaticanista di agenzia, ho seguito giorno per giorno il lungo pontificato di Giovanni Paolo II. Mi restano molti ricordi. Alcuni personali, altri condivisi con tanti. Di fronte a Papa Wojtyla è stato difficile l’equilibrio informativo, senza adulazione e senza pregiudizio.
Ora che il tempo aiuta a leggere con passioni attenuate il suo non semplice pontificato, ci si rende conto di quanto l’imparzialità continui a essere importante per una lettura libera della sua eredità.
Giovanni Paolo II si è intrecciato in profondità con il mondo dei media come mai era prima capitato a un pontefice. È stato tanto mediatico che a volte si rischiava di lui un’immagine virtuale, lontana dalla realtà.
Non a caso più raramente si evidenzia ciò che lo ha reso indimenticabile: la prova di umanità e la straordinaria fede cristiana vissuta nella vita ordinaria. E in questo modo ha contribuito grandemente a svecchiare l’ufficio petrino e a concentrare i cattolici sull’essenziale. Se la sua capacità di comunicazione è stata enorme, tanto da raggiungere moltissimi anche lontani dalla Chiesa, ancora più grande mi è parsa la sua capacità di comunicare con il mistero cristiano. Ha lasciato un ricordo indelebile di un papa che prega, che perdona e sa chiedere perdono. Fin dai primi mesi di pontificato la sua preghiera apparve un punto di forza per intravedere con una certa attendibilità gli sviluppi futuri.
Trovai conferma a questa intima convinzione in un’intervista con padre Adam Boniecki, responsabile della prima edizione in lingua polacca de “L’Osservatore Romano”, una delle prime da lui rilasciate. Egli confermò che di Wojtyla non si sarebbe capito nulla senza cogliere il primato della preghiera nella sua vita e nel suo programma pastorale.
Un riscontro lo si ebbe in occasione dell’attentato del 13 maggio 1981 che portò il papa sull’orlo della morte prematura. Un uomo forte, che sprizzava vitalità e che il mercato informativo tentava di arruolare quale “sciatore di Dio”, era ridotto a persona debole e provata come ogni malato sul letto di ospedale. Le sue prime parole furono invece rivelatrici di un animo lontano dal personaggio vincente che piaceva ai media: non parlava di rivincita o di castigo esemplare. P
Perdonava l’aggressore e pregava per lui. Parole più potenti della pallottola che lo aveva quasi ammazzato. Nel clamore dell’incredibile attentato subito, il papa aveva il primo pensiero per il suo mancato assassino, considerandolo un fratello. Parlava di pregare e perdonare, due elementari componenti dell’essere cristiani.
Rimasi ugualmente colpito appena lo stesso pontefice uscì dalla cella di Ali Agca nel carcere di Rebibbia. Mi avvicinai a lui con il registratore, spezzando l’incantesimo del momento. Anche in quell’occasione, subito Giovanni Paolo II parlò di preghiera e di perdono con molta naturalezza e nessuna enfasi.
Tra le conseguenze della forza della sua vita spirituale, vorrei ricordare anche la sua estraneità alla strumentalizzazione politica. Mi è parso di cogliere la sua costante preoccupazione di dovere e volere incontrare le persone anziché i sistemi politici e di muoversi in piena coerenza con la dottrina sociale della Chiesa nella lettura degli eventi, alcuni straordinari, che ne segnarono il pontificato. Sono sempre restato meravigliato di quanto silenzio scendesse nei giornali occidentali intorno ai suoi interventi ordinari, attinenti la giustizia sociale, la pace e il primato della persona e del lavoratore rispetto al denaro e all’impresa.
Fuori dal mito che opposte letture hanno cercato di accreditare, Giovanni Paolo II è stato ancora più importante nella storia della Chiesa, perché ha contribuito con la sua umanità e la sua spiritualità a diffondere l’idea che anche oggi sia possibile essere cristiani vivendo una fede fondata sull’amore e la misericordia anziché sul rigorismo. Un anno prima che gli sparassero scrisse la sua seconda enciclica.
Parlava della misericordia. Quando venne pubblicata nessuno ebbe sentore che la fede nella misericordia sarebbe stata messa a dura prova nei successivi eventi del mondo e del pontificato. Stava per finire un’era.
Papa Wojtyla parlò di misericordia quando fu colpito, ne parlò alla caduta del muro, ne parlò evocando episodi amari di responsabilità ecclesiastiche. L’ha lasciata come sua eredità più duratura, raccolta da Benedetto XVI.
c. d. c.
(©L’Osservatore Romano – 2 aprile 2008)
In Papa Wojtyla la liturgia è stata comunicazione con il mistero cristiano Quel colloquio interiore
che precedeva ogni messa
Konrad Krajewski
Cerimoniere Pontificio
Ho conosciuto di persona Giovanni Paolo II nel 1998, anno in cui ho iniziato a lavorare nell’Ufficio delle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice.
Quando era il mio turno di assisterlo durante le celebrazioni, insieme con il maestro monsignor Piero Marini, rimanevo sempre colpito da ciò che accadeva nella sagrestia prima e dopo la celebrazione.
Quando il Papa veniva nella sagrestia e restavamo soltanto noi due, si metteva in ginocchio o, negli ultimi anni del Pontificato, rimaneva sulla sua sedia, e pregava in silenzio. Questa preghiera durava dieci, quindici o anche venti minuti e, durante i viaggi apostolici, perfino di più.
Sembrava che il Pontefice non fosse presente tra di noi. Quando il momento di preghiera sembrava protrarsi troppo a lungo, entrava monsignor Stanislaw Dziwisz, tentando di suggerire al Papa di prepararsi: spesso il Pontefice non rispondeva a questa chiamata.
A un certo momento, alzava la mano destra, e noi ci avvicinavamo per cominciare a vestirlo in assoluto silenzio. Sono convinto che Giovanni Paolo II, prima di rivolgersi alla gente, si rivolgeva – o, per dire meglio, parlava – a Dio. Prima di rappresentarLo, chiedeva a Dio di poter essere la Sua immagine vivente davanti agli uomini. Lo stesso accadeva dopo la celebrazione: appena deposte le vesti sacre, si metteva in ginocchio nella sagrestia, e pregava. Avevo sempre la stessa impressione, che non fosse presente tra di noi.
Di tanto in tanto, durante i viaggi, entrava il suo segretario e sfiorandolo con delicatezza lo esortava a uscire dalla sagrestia, perché la gente lo aspettava per salutarlo (presidenti, sindaci, autorità…), ma quasi mai il Papa reagiva: rimaneva sempre in profonda preghiera e di nuovo, a un certo momento, si alzava da solo, o dava a noi un segnale per essere aiutato.
Questi momenti di preghiera, prima e dopo l’azione liturgica, mi colpivano sempre profondamente. Quando lo assistevo, ponevo la mitra, passavo il fazzoletto, ero sicuro di toccare una persona non solo straordinaria, ma veramente santa.
Negli ultimi anni del Pontificato ero cerimoniere stabile del Pontefice: seguivo tutte le celebrazioni stando accanto al Papa, vedevo la sua sofferenza e le sue difficoltà in ogni movimento. Una volta, quando egli stava molto male, durante una celebrazione sul sagrato della basilica di San Pietro, inchinandomi, mi sono permesso di dire: “Santità, posso aiutarla in qualche modo? Forse qualcosa le fa male?”. Egli mi ha risposto: “Ormai tutto mi fa male, ma deve essere così…”. Ero sicuro e profondamente convinto che assistevo e toccavo una persona santa.
Mi sentivo così indegno di stare accanto a quest’uomo e di servirlo, che negli ultimi anni del suo Pontificato, prima di ogni celebrazione, andavo a confessarmi, anche se avevamo due o tre celebrazioni alla settimana.
Così facevo un po’ arrabbiare i confessori della basilica di San Pietro, ma sentivo profondamente il bisogno di essere totalmente “pulito” quando mi avvicinavo al Papa. Dopo tanti anni di servizio, e dodici viaggi all’estero, sono giunto a questa conclusione: tanti milioni di persone che partecipavano alle celebrazioni liturgiche presiedute dal Pontefice accorrevano per incontrare Gesù, che era rappresentato da Giovanni Paolo II, e presente proprio in lui, nella sua parola predicata, nei suoi gesti e nei suoi atteggiamenti liturgico-mistici. Per questo motivo la gente piangeva. Diceva: “Ha parlato solo a me, ha guardato me, ha cambiato la mia vita…”. Come era possibile ciò, quando qualcuno durante la celebrazione stava lontano dal Pontefice centinaia di metri o, addirittura, chilometri (come succedeva durante i viaggi)? Come poteva dire: “Ha visto me”, “ha parlato proprio a me”?
Anch’io, personalmente, devo testimoniare che la mia vita sacerdotale è cambiata totalmente, da quando ho cominciato a lavorare accanto a Giovanni Paolo II.
Vorrei ancora sottolineare alcuni momenti molto significativi, che mi hanno colpito profondamente durante l’ultima celebrazione del Corpus Domini presieduta dal Papa.
Ormai il Pontefice non camminava più. Il maestro delle celebrazioni e io lo abbiamo issato con la sedia sulla piattaforma della macchina appositamente preparata per la processione: davanti al Papa, sull’inginocchiatoio, era posto l’ostensorio con il Santissimo Sacramento.
Durante la processione il Pontefice si è rivolto a me in polacco, chiedendo di potersi inginocchiare. Sono rimasto imbarazzato da tale domanda, perché fisicamente il Papa non era in grado di farlo. Con grande delicatezza, ho suggerito l’impossibilità di inginocchiarsi, poiché la macchina oscillava durante il percorso, e sarebbe stato molto pericoloso compiere un gesto simile. I
l Papa ha risposto con il suo famoso dolce “mormorio”. Trascorso un po’ di tempo, all’altezza della Pontificia Università “Antonianum”, ha ripetuto di nuovo: “Voglio inginocchiarmi!”, e io, con grande difficoltà nel dover ripetere il rifiuto, ho suggerito che sarebbe stato più prudente tentare di farlo nelle vicinanze di Santa Maria Maggiore; e di nuovo ho sentito quel “mormorio”. T
uttavia, dopo qualche istante, giunti alla curia dei padri Redentoristi, ha esclamato con determinazione, e quasi gridando, in polacco: “Qui c’è Gesù! Per favore…”.
Non era più possibile contraddirlo. Il maestro è stato testimone di quei momenti. I nostri sguardi si sono incontrati, e, senza dire nulla, abbiamo cominciato ad aiutarlo a inginocchiarsi. Lo abbiamo fatto con grande difficoltà, e quasi lo abbiamo messo di peso sull’inginocchiatoio.
Il Papa si aggrappava al bordo dell’inginocchiatoio e cercava di sorreggersi; tuttavia le ginocchia non lo reggevano più, e abbiamo dovuto subito rimetterlo sulla sedia, tra difficoltà che non erano solo fisiche, ma erano dovute anche all’ingombro dei paramenti liturgici.
Avevamo assistito a una grande dimostrazione di fede: anche se il corpo non rispondeva più alla chiamata interiore, la volontà rimaneva salda e forte. Il Pontefice aveva mostrato, nonostante la sua grande sofferenza, la forza interiore della fede, che voleva manifestarsi attraverso il gesto di inginocchiarsi. Non contavano nulla i nostri suggerimenti di non compiere quel gesto.
Il Papa ha sempre ritenuto che, davanti a Cristo presente nel Santissimo Sacramento, bisogna essere molto umili ed esprimere questa umiltà attraverso il gesto fisico.
Infine, voglio sottolineare che, attraverso il mio semplice servizio al Romano Pontefice, anch’io sono diventato migliore, come uomo e come sacerdote.
Egli ci ha insegnato che “il vero amico è colui grazie al quale io divento migliore”: allora posso dire che, secondo tale definizione, Giovanni Paolo II era il mio vero amico.
Attraverso la sua testimonianza mi sono avvicinato ancora di più a quel Dio, che veniva rappresentato da Giovanni Paolo II. Ho potuto vedere come, durante la sua vita, egli si dedicava e si abbandonava totalmente a Dio in occasione delle celebrazioni liturgiche, e in tale stato di dedizione si è spento.
Quando è morto, io camminavo nelle logge vaticane, esercitando la mia funzione di Cerimoniere Pontificio, e piangevo. Forse per la prima volta nella mia vita di adulto non mi vergognavo delle lacrime. Tuttavia erano lacrime per me stesso: perché non sono come lui, perché non sono un santo sacerdote, perché non mi sono offerto fino in fondo al Signore, perché non sono totus tuus…
Non ricordo completamente che cosa pensavo portando l’evangeliario davanti alla semplice bara di Giovanni Paolo II. Volevo solo portarlo con dignità, così come si porta il più importante libro della vita: il libro della vita di Giovanni Paolo II.
Questo libro l’ho deposto con il maestro sulla bara, e sentivo come ero indegno di questo gesto. Mi sentivo così piccolo e così peccatore… Pregavo il Signore di poter portare il libro del Vangelo nella mia vita, così come lo aveva portato Giovanni Paolo II. E di non chiuderlo mai.
Da quando Giovanni Paolo II è tornato alla casa del Padre, ogni giorno vado a confessare nella chiesa di Santo Spirito in Sassia alle 15, l’”ora della misericordia” nella quale tanta gente canta la coroncina della misericordia e segue la Via Crucis. Mi è capitato parecchie volte di suggerire a diverse persone di andare alla tomba del servo di Dio Giovanni Paolo II a pregare.
Perché egli superava se stesso. Superava il proprio corpo, le proprie sofferenze. Quando si affacciava alla finestra, e ormai aveva smesso di parlare, tutti sapevamo che cosa avrebbe voluto dirci. Quando alzava con difficoltà la mano, facevamo subito il segno della croce, perché sempre lui ci benediceva. Mentre finivo di dire queste parole, tanti mi rispondevano: “Ma io vengo proprio dalle Grotte Vaticane, dalla tomba di Giovanni Paolo II, e perciò mi confesso. Non sapevo neppure che a quest’ora ci si potesse confessare…”.
(©L’Osservatore Romano – 2 aprile 2008)
DZIWISZ: GIOVANNI OPAOLO II IL PAPA DELLA VITA
La testimonianza: tanti chiedono la sua intercessione per il dono di una nuova nascita
AVVENIRE ON LINE 1 APRILE 2008
DAL NOSTRO INVIATO A CRACOVIA
LUIGI GENINAZZI
Miracoli. La scritta a caratteri cubitali sovrasta un gran*e ritratto di Giovanni Paolo II che copre l’intera facciata del palazzo arcivescovile.
È un Wojtyla nel pieno delle forze, sorridente, mentre viene sfiorato dalle mani dei fedeli. Domani, a tre anni dalla scomparsa del Papa polacco, i suoi connazionali torneranno a fare memoria di «Karol il Grande», ritrovandosi uniti ancora u*na volta nella commozione e nella preghiera. «È un momento di grazia che si ripete» ci dice il cardinale Stanislaw Dziwisz, testimone privilegiato di Karol Wojtyla cui è stato vicino come segretario personale per quasi quarant’anni. Di lui ama parlare spesso, gli facciamo notare all’inizio dell’intervista. «Sì, è vero – ribatte l’arcivescovo di Cracovia –. Ma per me la cosa più importante non è tanto parlare di lui, quanto piuttosto parlare con lui. Intendo ovviamente un dialogo non fisico ma spirituale. Ogni volta che ho un problema difficile da risolvere mi rivolgo al servo di Dio Giovanni Paolo II, chiedo il suo aiuto. È un’esperienza non solo mia. Tantissima gente fa lo stesso, prega Dio per la sua intercessione e ne riceve grazia».
Eminenza, allude a casi che si possono ritenere miracolosi?
Credo proprio di sì. Ed il fatto più sorprendente è che spesso si tratta del dono della nascita, del mistero di una nuova vita. Giovanni Paolo II è stato il Papa della difesa della vita, il Papa della famiglia. Ed ora ne vediamo gli straordinari effetti. Sono appena tornato da Gerusalemme e lì sono stato avvicinato da una signora polacca che mi ha raccontato di sua figlia. Aveva ricevuto la cresima dall’arcivescovo Wojtyla, poi si era sposata ma non poteva avere bambini. Recentemente si è recata a pregare sulla tomba di Giovanni Paolo II con quest’intenzione ed ora aspetta un figlio.
Un altro caso: una coppia di italiani, residenti a Milano. Anche loro dichiarati sterili dai medici. «Pregate Papa Wojtyla», ha consigliato loro un amico. Ma non erano molto praticanti e non l’hanno fatto. Ci ha pensato lui, è andato a inginocchiarsi davanti alla tomba del Papa chiedendo la grazia per questa coppia. Poche settima*ne dopo lei è ri*masta incinta. Ma sono soltan*to due esempi fra tanti di cui ho notizia.
Col passare del tempo i ricordi inevitabilmente tendono a sbiadire. Cosa resta della memoria di Wojtyla nel cuore della gente?
Io vedo che più passa il tempo più cresce il desiderio di conoscere meglio la sua figura ed il suo insegnamento. Adesso lo riscoprono in profondità, capiscono che tutto quel che diceva e faceva era in forza della sua comunione con Dio.
L’ultimo viaggio di Giovanni Paolo II in Polonia, nel 2002, era stato all’insegna della Divina Misericordia. E così pure la sua morte, alla vigilia della festa di Gesù Misericordioso istituita proprio da lui. Ci vede qualcosa di simbolico?
Prima del suo Pontificato questo tema non era molto diffuso nella Chiesa. È stato lui a metterlo in evidenza fin dall’encilcica «Dives in Misericordia». Ha mostrato che non c’è rimedio alla disperazione se non ci si affida all’abbraccio salvifico di Dio. «Qual è l’oggetto principale della sua preghiera?» gli domandò una volta lo scrittore francese André Frossard. E lui rispose: «Io prego affinché la misericordia di Dio avvoolga tutto il mondo». Alla radice di quest’atteggiamento credo ci fosse la sua esperienza contemplativa. Era un uomo sempre immerso nel mistero di Dio. Parlava come viveva. Da qui la forza del suo insegnamento.
Sembra però che alcuni temi tanto cari a Papa Wojtyla oggi siano un po’ dimenticati da una parte dell’opinione pubblica. Ad esempio, quando oggi si parla dell’Iraq, pochi si ricordano degli interventi di Giovanni Paolo II contro la guerra.
Tocca agli studiosi esaminare quei fatti e mettere in luce il suo grande impegno per la pace. Ma, a proposito dell’Iraq, ho notato una grande consonanza fra il grido di Giovanni Paolo II cinque anni fa e le parole pronunciate recentemente da Be*nedetto XVI dopo il brutale assassinio dell’arcivescovo caldeo di Mosul monsignor Rahho.
Nei rapporti tra cattolici e musulmani molte cose sono cam*biate dai tempi di Papa Wojtyla, non crede?
Giovanni Paolo II ha sempre considerato «lo scontro di civiltà » come un’autentica sciagura. Lui credeva nel dialogo, lo cercava a livello culturale e personale. E non perdeva occasione per praticarlo. Ma sempre con una chiara coscienza dell’identità cristiana. È rimasto memorabile il suo incontro coi giovani musulmani in Marocco. Mi ricordo che prima del viaggio si era riunito con vari esperti del mondo islamico che gli consigliarono di usare parole molto prudenti. E lui ribatté deciso: ah no, io sono il vicario di Cristo sulla terra e questo devo testimoniare!
È come andò l’incontro?
Allo stadio di Rabat pronunciò un discorso che suscitò grande ammirazione. I giovani lo applaudirono più volte ed io, pensando a quanto succedeva da noi sotto il regime comunista, ho temuto che fosse tutto orchestrato dall’alto. Invece scoprii che nessuno si aspettava una reazione così entusiasta. E poi al Cairo e a Damasco mi ricordo che i capi religiosi dell’islam lo accolsero come «un amico». Si sentivano stimati da lui. Ed a loro volta riconoscevano nel Papa« il leader spirituale del mondo». Così venne definito durante il suo viaggio in Siria.
Oggi sembra dominare un linguaggio diverso…
Possono cambiare toni e accenti ma la scelta rimane quella del dialogo schietto e non della contrapposizione ideologica. Ogni Papa ha il suo carisma e Benedetto XVI sa affrontare anche le situazioni più difficili con grande saggezza e profondità culturale. E più volte, in modo molto chiaro, ha ribadito la sua netta presa di distanza dalla logica dello scontro di civiltà.
Eminenza, ci sarà presto la beatificazione di Giovanni Paolo II?
Le cose procedono bene. Naturalmente occorre tempo perché ci sono tanti documenti da esaminare e tante testimonianze da raccogliere, non solo a Roma o in Polonia ma in tutto il mondo.
Noi, come arcidiocesi di Cracovia, non facciamo pressioni. L’ho detto anche al Santo Padre. La decisione tocca a Benedetto XVI che agisce sotto l’illuminazione dello Spirito Santo. Noi sempre preghiamo per questo.
DA: http://www.cattoliciromani.com/forum/showthread.php/servo_dio_giovanni_paolo_ii_papa-48.html?s=d95cda91
Giovanni Paolo II, papa del Sacro Cuore
Era il 3 giugno del 2005, giorno della festa del Sacro Cuore, quando suor Marie-Simon-Pierre guariva dal morbo di Parkison per intercessione di papa Giovanni Paolo II.
Un giorno memorabile se sarà questo il miracolo che farà beato papa Wojtyla. Tutto nasce da quel grande attaccamento alla devozione al Sacro Cuore che Giovanni Paolo ebbe in vita sua.
Come ricorda il Cardinal Dziwisz ne “Una vita con Karol” Bur Rizzoli, a pagina 83, le devozioni erano tra le preghiere che intessevano la giornata del Papa.
La consacrazione al Cuore dell’Immacolata ha costituito la sintesi di tutto il suo pontificato racchiuso in quel “Totus Tuus”, tutto tuo perchè si compia il dolce regno del Sacro Cuore, come riportato nell’atto di consacrazione composto San Massimiliano Kolbe.
Per chi vuol conoscere il pensiero del Papa sul Sacro Cuore c’è il libro di padre Drazek: “Il Cuore di Gesù nell’insegnamento del Papa Giovanni Paolo II” Edizioni ADP.
Giovanni Paolo II moriva proprio il 2 aprile del 2005, primo sabato del mese e festa liturgica della Divina Misericordia.
Il 2005 peraltro è l’anno delle date memorabili: suor Lucia, l’ultima veggente di Fatima, moriva appunto il 13 febbraio 2005 e il giorno 13 è la ricorrenza dell’apparizione della Madonna Santissima a Fatima.
La cosa terribile sta proprio nel miracolo fatto proprio in Francia a suor Marie-Simon-Pierre: la festa del Sacro Cuore è infatti il giorno in cui Cristo ha promesso tramite Santa Margherita Maria Alacoque di concedere ogni sorta di grazia in cambio della comunione riparatrice e dell’atto di riparazione.
Se il miracolo, che farà beato papa Wojtila, sarà questo, vorrà dire che il papa ci ha regalato la sua ultima catechesi sulla vita di fede richiamandoci appunto al culto del Sacro Cuore, alla consacrazione personale e alla riparazione, e alle famose rivelazioni di Paray le Monial e di Fatima.
A margine delle precedenti considerazioni aggiungo un passo enigmatico quanto affascinante in cui a parlare è Cristo stesso a Santa Faustina Kowalska: «Amo la Polonia in modo particolare e, se ubbidirà al Mio volere, l’innalzerò in potenza e santità. Da essa uscirà la scintilla che preparerà il mondo alla Mia ultima venuta» (dal Diario di Santa Faustina Kowalska, LEV, pagina 897).
Giovanni Paolo II era stato eletto il 16 ottobre del 1978, giorno in cui la Chiesa fa la memoria liturgica di Santa Edvige, patrona della Polonia, e di Santa Margherita Maria Alacoque, la veggente del Sacro Cuore.
Che il mondo si sia davvero riacceso al passaggio di quel povero dolce Cristo in terra?
Martedì 1 ° aprile alle ore 18, nella basilica romana di Santa Maria in Trastevere, si è svolto l’incontro “Ricordando Karol. A tre anni dalla scomparsa di Giovanni Paolo II” con la partecipazione dei cardinali Camillo Ruini, vicario di Roma, e Stanislaw Dziwisz, arcivescovo metropolita di Cracovia, di monsignor Slawomir Oder, postulare della causa di beatificazione e canonizzazione di Karol Wojtyla, dello storico Andrea Riccardi, docente all’università di Roma Tre, e del giornalista Gianfranco Svidercoschi,. già vicedirettore del nostro giornale. In occasione della pubblicazione dell’edizione tascabile Bur del libro di Dziwisz Una vita con Karol. Conversazione con Gianfranco Svidercoschi, l’attore Piotr Adamczyk ha letto alcune pagine del volume e sono state proiettate parti della docu-fiction tratta dal libro e prodotta da Tba. Pubblichiamo un estratto dell’ultimo capitolo nel quale il segretario personale di Giovanni Paolo II racconta gli ultimi giorni di vita del Papa.
“Il suo sforzo più grande? Far rientrare Dio in questo mondo”. Non ha dubbi il cardinale Giovanni Battista Re a proposito della caratteristica fondamentale del pontificato di Papa Wojtyla. Qualsiasi cosa dicano alcuni suoi presunti “profondi conoscitori”, Giovanni Paolo II ha influito tanto profondamente nella storia della nostra epoca perché ha saputo fedelmente interpretare “i grandi compiti che la Provvidenza divina gli ha riservato”. E se si è reso “protagonista” negli storici eventi che hanno portato al crollo del muro di Berlino, lo ha fatto certamente non per “motivi politici ma per motivi esclusivamente religiosi”. Il cardinale Re, a lungo diretto collaboratore di Papa Wojtyla, in questa intervista offre alcuni ricordi personali dell’esperienza maturata accanto a un Pontefice che egli stesso non esita a inserire tra “i giganti della storia”.
Tre anni fa moriva Giovanni Paolo II. Che cosa ricorda di quei giorni?
La malattia, l’agonia e la morte di Giovanni Paolo II hanno scosso il mondo e hanno fatto vivere a moltissime persone delle giornate che il trascorrere del tempo non ha fatto dimenticare. Mai si era vista una solidale vicinanza al Papa così ampia e convinta. Con l’esempio delle ultime settimane di malattia, l’amato Pontefice ha testimoniato che sia l’età avanzata, sia la malattia vanno accolte con serenità e ci ha insegnato che la vita è un dono che va vissuto fino in fondo, accettando quanto Dio dispone e sopportando con forza i disagi e le sofferenze che comporta. Papa Giovanni Paolo II ha vissuto la sua missione fino all’ultimo, cercando di non fare mancare del tutto la sua presenza ai riti della Settimana Santa di quell’anno e non nascondendo la debolezza del suo fisico. Il momento più drammatico della sua volontà di comunicare è stato vissuto in diretta televisiva il giorno di Pasqua (27 marzo 2005) quando egli, reduce dal decimo ricovero al Policlinico Gemelli, dopo l’intervento di tracheotomia, come tutti ricordiamo, ha cercato di farsi udire, ma chiaro è stato soltanto il gesto della benedizione. Col suo esempio, il compianto Papa ci ha insegnato come si percorre il cammino verso il mistero che ci attende quando per ciascuno di noi si apriranno le porte dell’eternità. È stato l’insegnamento ultimo di Giovanni Paolo II e il punto più alto del suo magistero, perché tutto il suo pontificato ha mirato a questo: indicare la via che conduce al cielo, alla salvezza eterna. Ed è stato un insegnamento da grande Papa.
Che cosa l’ha impressionata di più in quei giorni?
Sono questi i sentimenti che provo quando penso agli anni passati accanto al compianto Pontefice. Ritengo si tratti di una grazia speciale ricevuta dal Signore ed è confermata nella collaborazione che ho l’onore di poter offrire al suo Successore. La gratitudine, se è autentica, diventa atto di fede nel Cristo, nella santa Chiesa e nell’uomo, che costituivano i grandi valori ai quali Papa Wojtyla volle consegnare la sua esistenza di credente e di pastore. E rimane autentica se cerca sempre di accogliere l’esempio e il magistero da lui offerti tanto generosamente.
Cosa ritiene peculiare nella sua testimonianza?
La certezza, poi, che il Signore lo precedeva nel cuore di coloro ai quali come pastore si sentiva inviato rendeva costante e fiducioso il suo lavoro apostolico. Dava coraggio ai ministri della Chiesa, ma anche ai fedeli, questa sua convinzione di fede, dalla quale si avvertiva la verità di quanto dice la scrittura: “La nostra fede vince il mondo”. Tanto più eloquente divenne questa testimonianza nella lunga stagione della malattia fino al silenzio dell’addio.
Molti esaltano il suo servizio alla storia umana e la sua missionarietà.
Ma la peculiarità rimane il Cristo, amato in compagnia della Madre del Signore. Tutti i santi e i beati che egli nel lungo pontificato ha proclamato attestano questa peculiarità ed esaltano l’attualità della santità cristiana, quale vita pienamente salvata e perciò felicemente realizzata grazie a Cristo Signore.
Può farci dono di qualche “inedito” ricordo personale di Papa Wojtyla?
Il servo di Dio Giovanni Paolo II mi ha personalmente dato prova della sua profonda venerazione per i tesori costituiti dalle tradizioni teologiche, liturgiche e disciplinari dei cattolici orientali e dalla testimonianza dei martiri cristiani antichi e contemporanei figli dell’Oriente. Egli ha allenato anche me al pieno respiro ecclesiale. La Chiesa deve respirare a due polmoni! La Chiesa ha bisogno dell’apporto dell’Oriente e dell’Occidente per continuare a glorificare il nome del Signore e parlare in modo convincente del Redentore misericordioso all’uomo contemporaneo. Papa Wojtyla ne era gioiosamente convinto!
E siamo arrivati al 2 aprile, sabato.
Verso le 19 il Santo Padre entrò in coma. La stanza era illuminata solo da un piccolo cero acceso, che il Papa stesso aveva benedetto il 2 febbraio per la festa della Candelora.
Erano ormai quasi le 20, e improvvisamente avvertii dentro di me come un imperativo categorico: dovevo celebrare la Messa! E così cominciai a fare, assieme al cardinale Jaworski, all’arcivescovo Rylko e a due sacerdoti polacchi, Styczen e Mokrzycki. Era la Messa prefestiva della domenica della Divina Misericordia, una solennità tanto cara al Papa. Il Vangelo era sempre quello di Giovanni: “Venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse “Pace a voi!..”". Alla Comunione, riuscii a dargli, come viatico, alcune gocce del sangue preziosissimo di Gesù.
Il dottor Buzzonetti si chinò su di lui e alzando appena lo sguardo mormorò: “È passato alla casa del Signore”.
Poi, non ricordo più. Era come se fosse calato improvvisamente il buio. Il buio sopra di me, dentro di me. Sapevo bene quello che era successo, ma era come se, dopo, non riuscissi ad accettarlo. O non riuscissi a capirlo. Mi mettevo nelle mani del Signore, ma quando pensavo di avere il cuore sereno ripiombava il buio…
Intanto, il corteo stava entrando in basilica, dovevano portare la bara giù nella tomba.
L’ho accompagnato per quasi quarant’anni, prima dodici a Cracovia, poi ventisette a Roma. Sono stato sempre con lui, accanto a lui.
Ma, da qui, è andato da solo. E ora? Dall’altra parte, chi lo accompagna?
Trovai conferma a questa intima convinzione in un’intervista con padre Adam Boniecki, responsabile della prima edizione in lingua polacca de “L’Osservatore Romano”, una delle prime da lui rilasciate. Egli confermò che di Wojtyla non si sarebbe capito nulla senza cogliere il primato della preghiera nella sua vita e nel suo programma pastorale.
Un riscontro lo si ebbe in occasione dell’attentato del 13 maggio 1981 che portò il papa sull’orlo della morte prematura. Un uomo forte, che sprizzava vitalità e che il mercato informativo tentava di arruolare quale “sciatore di Dio”, era ridotto a persona debole e provata come ogni malato sul letto di ospedale. Le sue prime parole furono invece rivelatrici di un animo lontano dal personaggio vincente che piaceva ai media: non parlava di rivincita o di castigo esemplare. P
che precedeva ogni messa
Konrad Krajewski
Cerimoniere Pontificio
Ho conosciuto di persona Giovanni Paolo II nel 1998, anno in cui ho iniziato a lavorare nell’Ufficio delle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice.
Quando era il mio turno di assisterlo durante le celebrazioni, insieme con il maestro monsignor Piero Marini, rimanevo sempre colpito da ciò che accadeva nella sagrestia prima e dopo la celebrazione.
Quando il Papa veniva nella sagrestia e restavamo soltanto noi due, si metteva in ginocchio o, negli ultimi anni del Pontificato, rimaneva sulla sua sedia, e pregava in silenzio. Questa preghiera durava dieci, quindici o anche venti minuti e, durante i viaggi apostolici, perfino di più.
Sembrava che il Pontefice non fosse presente tra di noi. Quando il momento di preghiera sembrava protrarsi troppo a lungo, entrava monsignor Stanislaw Dziwisz, tentando di suggerire al Papa di prepararsi: spesso il Pontefice non rispondeva a questa chiamata.
A un certo momento, alzava la mano destra, e noi ci avvicinavamo per cominciare a vestirlo in assoluto silenzio. Sono convinto che Giovanni Paolo II, prima di rivolgersi alla gente, si rivolgeva – o, per dire meglio, parlava – a Dio. Prima di rappresentarLo, chiedeva a Dio di poter essere la Sua immagine vivente davanti agli uomini. Lo stesso accadeva dopo la celebrazione: appena deposte le vesti sacre, si metteva in ginocchio nella sagrestia, e pregava. Avevo sempre la stessa impressione, che non fosse presente tra di noi.
Di tanto in tanto, durante i viaggi, entrava il suo segretario e sfiorandolo con delicatezza lo esortava a uscire dalla sagrestia, perché la gente lo aspettava per salutarlo (presidenti, sindaci, autorità…), ma quasi mai il Papa reagiva: rimaneva sempre in profonda preghiera e di nuovo, a un certo momento, si alzava da solo, o dava a noi un segnale per essere aiutato.
Questi momenti di preghiera, prima e dopo l’azione liturgica, mi colpivano sempre profondamente. Quando lo assistevo, ponevo la mitra, passavo il fazzoletto, ero sicuro di toccare una persona non solo straordinaria, ma veramente santa.
Negli ultimi anni del Pontificato ero cerimoniere stabile del Pontefice: seguivo tutte le celebrazioni stando accanto al Papa, vedevo la sua sofferenza e le sue difficoltà in ogni movimento. Una volta, quando egli stava molto male, durante una celebrazione sul sagrato della basilica di San Pietro, inchinandomi, mi sono permesso di dire: “Santità, posso aiutarla in qualche modo? Forse qualcosa le fa male?”. Egli mi ha risposto: “Ormai tutto mi fa male, ma deve essere così…”. Ero sicuro e profondamente convinto che assistevo e toccavo una persona santa.
Mi sentivo così indegno di stare accanto a quest’uomo e di servirlo, che negli ultimi anni del suo Pontificato, prima di ogni celebrazione, andavo a confessarmi, anche se avevamo due o tre celebrazioni alla settimana.
Così facevo un po’ arrabbiare i confessori della basilica di San Pietro, ma sentivo profondamente il bisogno di essere totalmente “pulito” quando mi avvicinavo al Papa. Dopo tanti anni di servizio, e dodici viaggi all’estero, sono giunto a questa conclusione: tanti milioni di persone che partecipavano alle celebrazioni liturgiche presiedute dal Pontefice accorrevano per incontrare Gesù, che era rappresentato da Giovanni Paolo II, e presente proprio in lui, nella sua parola predicata, nei suoi gesti e nei suoi atteggiamenti liturgico-mistici. Per questo motivo la gente piangeva. Diceva: “Ha parlato solo a me, ha guardato me, ha cambiato la mia vita…”. Come era possibile ciò, quando qualcuno durante la celebrazione stava lontano dal Pontefice centinaia di metri o, addirittura, chilometri (come succedeva durante i viaggi)? Come poteva dire: “Ha visto me”, “ha parlato proprio a me”?
Anch’io, personalmente, devo testimoniare che la mia vita sacerdotale è cambiata totalmente, da quando ho cominciato a lavorare accanto a Giovanni Paolo II.
Vorrei ancora sottolineare alcuni momenti molto significativi, che mi hanno colpito profondamente durante l’ultima celebrazione del Corpus Domini presieduta dal Papa.
Ormai il Pontefice non camminava più. Il maestro delle celebrazioni e io lo abbiamo issato con la sedia sulla piattaforma della macchina appositamente preparata per la processione: davanti al Papa, sull’inginocchiatoio, era posto l’ostensorio con il Santissimo Sacramento.
Durante la processione il Pontefice si è rivolto a me in polacco, chiedendo di potersi inginocchiare. Sono rimasto imbarazzato da tale domanda, perché fisicamente il Papa non era in grado di farlo. Con grande delicatezza, ho suggerito l’impossibilità di inginocchiarsi, poiché la macchina oscillava durante il percorso, e sarebbe stato molto pericoloso compiere un gesto simile. I
l Papa ha risposto con il suo famoso dolce “mormorio”. Trascorso un po’ di tempo, all’altezza della Pontificia Università “Antonianum”, ha ripetuto di nuovo: “Voglio inginocchiarmi!”, e io, con grande difficoltà nel dover ripetere il rifiuto, ho suggerito che sarebbe stato più prudente tentare di farlo nelle vicinanze di Santa Maria Maggiore; e di nuovo ho sentito quel “mormorio”. T
uttavia, dopo qualche istante, giunti alla curia dei padri Redentoristi, ha esclamato con determinazione, e quasi gridando, in polacco: “Qui c’è Gesù! Per favore…”.
Non era più possibile contraddirlo. Il maestro è stato testimone di quei momenti. I nostri sguardi si sono incontrati, e, senza dire nulla, abbiamo cominciato ad aiutarlo a inginocchiarsi. Lo abbiamo fatto con grande difficoltà, e quasi lo abbiamo messo di peso sull’inginocchiatoio.
Il Papa si aggrappava al bordo dell’inginocchiatoio e cercava di sorreggersi; tuttavia le ginocchia non lo reggevano più, e abbiamo dovuto subito rimetterlo sulla sedia, tra difficoltà che non erano solo fisiche, ma erano dovute anche all’ingombro dei paramenti liturgici.
Avevamo assistito a una grande dimostrazione di fede: anche se il corpo non rispondeva più alla chiamata interiore, la volontà rimaneva salda e forte. Il Pontefice aveva mostrato, nonostante la sua grande sofferenza, la forza interiore della fede, che voleva manifestarsi attraverso il gesto di inginocchiarsi. Non contavano nulla i nostri suggerimenti di non compiere quel gesto.
Il Papa ha sempre ritenuto che, davanti a Cristo presente nel Santissimo Sacramento, bisogna essere molto umili ed esprimere questa umiltà attraverso il gesto fisico.
Infine, voglio sottolineare che, attraverso il mio semplice servizio al Romano Pontefice, anch’io sono diventato migliore, come uomo e come sacerdote.
Egli ci ha insegnato che “il vero amico è colui grazie al quale io divento migliore”: allora posso dire che, secondo tale definizione, Giovanni Paolo II era il mio vero amico.
Attraverso la sua testimonianza mi sono avvicinato ancora di più a quel Dio, che veniva rappresentato da Giovanni Paolo II. Ho potuto vedere come, durante la sua vita, egli si dedicava e si abbandonava totalmente a Dio in occasione delle celebrazioni liturgiche, e in tale stato di dedizione si è spento.
Quando è morto, io camminavo nelle logge vaticane, esercitando la mia funzione di Cerimoniere Pontificio, e piangevo. Forse per la prima volta nella mia vita di adulto non mi vergognavo delle lacrime. Tuttavia erano lacrime per me stesso: perché non sono come lui, perché non sono un santo sacerdote, perché non mi sono offerto fino in fondo al Signore, perché non sono totus tuus…
Non ricordo completamente che cosa pensavo portando l’evangeliario davanti alla semplice bara di Giovanni Paolo II. Volevo solo portarlo con dignità, così come si porta il più importante libro della vita: il libro della vita di Giovanni Paolo II.
Questo libro l’ho deposto con il maestro sulla bara, e sentivo come ero indegno di questo gesto. Mi sentivo così piccolo e così peccatore… Pregavo il Signore di poter portare il libro del Vangelo nella mia vita, così come lo aveva portato Giovanni Paolo II. E di non chiuderlo mai.
Da quando Giovanni Paolo II è tornato alla casa del Padre, ogni giorno vado a confessare nella chiesa di Santo Spirito in Sassia alle 15, l’”ora della misericordia” nella quale tanta gente canta la coroncina della misericordia e segue la Via Crucis. Mi è capitato parecchie volte di suggerire a diverse persone di andare alla tomba del servo di Dio Giovanni Paolo II a pregare.
Perché egli superava se stesso. Superava il proprio corpo, le proprie sofferenze. Quando si affacciava alla finestra, e ormai aveva smesso di parlare, tutti sapevamo che cosa avrebbe voluto dirci. Quando alzava con difficoltà la mano, facevamo subito il segno della croce, perché sempre lui ci benediceva. Mentre finivo di dire queste parole, tanti mi rispondevano: “Ma io vengo proprio dalle Grotte Vaticane, dalla tomba di Giovanni Paolo II, e perciò mi confesso. Non sapevo neppure che a quest’ora ci si potesse confessare…”.
(©L’Osservatore Romano – 2 aprile 2008)
AVVENIRE ON LINE 1 APRILE 2008
Oggi sembra dominare un linguaggio diverso…
Un giorno memorabile se sarà questo il miracolo che farà beato papa Wojtyla. Tutto nasce da quel grande attaccamento alla devozione al Sacro Cuore che Giovanni Paolo ebbe in vita sua.
La consacrazione al Cuore dell’Immacolata ha costituito la sintesi di tutto il suo pontificato racchiuso in quel “Totus Tuus”, tutto tuo perchè si compia il dolce regno del Sacro Cuore, come riportato nell’atto di consacrazione composto San Massimiliano Kolbe.
Per chi vuol conoscere il pensiero del Papa sul Sacro Cuore c’è il libro di padre Drazek: “Il Cuore di Gesù nell’insegnamento del Papa Giovanni Paolo II” Edizioni ADP.
Giovanni Paolo II moriva proprio il 2 aprile del 2005, primo sabato del mese e festa liturgica della Divina Misericordia.
Il 2005 peraltro è l’anno delle date memorabili: suor Lucia, l’ultima veggente di Fatima, moriva appunto il 13 febbraio 2005 e il giorno 13 è la ricorrenza dell’apparizione della Madonna Santissima a Fatima.
La cosa terribile sta proprio nel miracolo fatto proprio in Francia a suor Marie-Simon-Pierre: la festa del Sacro Cuore è infatti il giorno in cui Cristo ha promesso tramite Santa Margherita Maria Alacoque di concedere ogni sorta di grazia in cambio della comunione riparatrice e dell’atto di riparazione.
A margine delle precedenti considerazioni aggiungo un passo enigmatico quanto affascinante in cui a parlare è Cristo stesso a Santa Faustina Kowalska: «Amo la Polonia in modo particolare e, se ubbidirà al Mio volere, l’innalzerò in potenza e santità. Da essa uscirà la scintilla che preparerà il mondo alla Mia ultima venuta» (dal Diario di Santa Faustina Kowalska, LEV, pagina 897).
Giovanni Paolo II era stato eletto il 16 ottobre del 1978, giorno in cui la Chiesa fa la memoria liturgica di Santa Edvige, patrona della Polonia, e di Santa Margherita Maria Alacoque, la veggente del Sacro Cuore.
Che il mondo si sia davvero riacceso al passaggio di quel povero dolce Cristo in terra?
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