GIOVANNI DI DIO dall’angoscia alla santità – Di Jean Caradec Cousson o.h. – città nuova

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DALL’ ANGOSCIA ALLA SANTITA’

 

San Giovanni di Dio

 

 

Di  Jean Caradec Cousson o.h.

 

I. ORIGINE E INFANZIA DI SAN GIOVANNI DI DIO

 

  San Giovanni di Dio nacque nel 1495 a Montemor-o-Novo, nella diocesi di Evora, in Portogallo, sotto il regno di Giovanni II, “il principe perfetto”, , mentre i “re cattolici”, Ferdinandoi d’Aragona e Isabella di Castiglia, governavano la Spagna ed il Papa Alessandro VI occupava la cattedra di san Pietro a Roma. Tutti i suoi biografi sono d’accordo su questa data  fissata in base alla sua morte, avvenuta l’8 marzo 1550, all’età di cinquantacinque anni. Ma le loro opinioni sul giorno  ed il mese di questa nascita differiscono, Giovanni , ignorandoli forse lui stesso, non li ha fatti conoscere ai suoi compagni; d’altra parte, mancano i documenti che avrebbero permesso di fissarli in modo sicuro.

Nel 1623, infatti, su istanza del Padre Domenico de Mendoza, giudice nella causa di beatificazione di Giovanni di Dio, don José de Melo, arcivescovo di Evora, istruì il processo nella sua diocesi ed incaricò Giovanni-Battista Viegas, notaio ecclesiastico, di cer­care l’atto di battesimo del servo di Dio a Montemor­o-Novo. Dopo un’inchiesta condotta sui luoghi, il dele­gato constatò che i più antichi libri parrocchiali risali­vano al 1542.

Il documento ricercato era dunque scomparso e non c’era alcuna speranza di ritrovarlo.

Parimenti, non si sa quasi nulla di certo sulla prima parte della vita di Giovanni di Dio, fino alla sua miste­riosa venuta in Spagna, all’età di otto anni, nel 1503. Giovanni stesso non ha dovuto ritenere un gran che di questo periodo. Cosa ha potuto dirne a coloro che gli stavano intorno?

Il suo primo biografo, Francisco de Castro, si accontenta di scrivere nella sua opera, pubblicata nel 1585: Di nazionalità portoghese, nacque nella cittadina di Montemor-o-Novo, da genitori di media condizione, né poveri né ricchi, con i quali visse fino all’età di otto anni.

E’ troppo poco, ma i suoi biografi del XVII secolo non hanno tralasciato, secondo l’usanza dell’epoca, di colmare questo vuoto con leggende e racconti mera­vigliosi.

De Castro, il fatto va notato, non cita nemmeno il nome di famiglia di Giovanni. Perché? Il seguito della biografia sembra tuttavia confermare che esso era noto.

Checché ne sia, al processo di beatificazione di Gio­vanni di Dio, che ebbe luogo, a partire dal 1622, in Portogallo ed in Spagna, un testimone, Andrès Alvarez Cidade, tessitore a Montemor-o-Novo, fece la seguen­te deposizione: Molte volte, nella sua vita, ho udito mio padre, Andrès Lorenzo Cidade, affermare di essere cugino del padre di Giovanni di Dio, Andrès Cidade. Io stesso ho ben conosciuto Blas Cidade. Quell’uomo, ri­masto celibe, era il fratello del padre del santo. Andrès

Cidade viveva lavorando la sua proprietà e non eserci­tava alcun altro mestiere. Questa testimonianza som­maria sembra probabile.

La partenza di Giovanni Cidade all’età di otto anni pone un altro problema di difficile soluzione. All’insaputa dei suoi genitori, Giovanni fu allo­ra condotto da un giovane studioso a Oropesa, in Spagna.

A questo riguardo i biografi hanno formulato delle opinioni più o meno fantasiose.

 

Si trattava di un rapimento, come lo ritengono alcu­ni? La cosa sembra impossibile. Un ragazzo di otto anni non si lascia rapire senza difendersi e gridare; ciò fa supporre una connivenza fra il giovane ed il bambino.

Due ipotesi, verosimili, possono essere avanzate. Secondo la prima il giovane, buon parlatore, sarebbe riuscito a convincere il piccolo Giovanni ad accompa­gnarlo e lo avrebbe portato via. Una seconda ipotesi sembra più probabile. Affascinato dalle meravigliose storie narrate dal viaggiatore accanto al focolare, Gio­vanni avrebbe deciso di seguirlo a sua insaputa e senza avvisare i genitori. Si tratterebbe, di conseguenza, di una fuga simile a quella di Teresa de Ahumada, la futura santa Teresa d’Avila che, più tardi, all’età di sette anni, lasciò la famiglia insieme al fratello Rodri­go, alla ricerca del martirio tra i Mori. In questo caso, ad una svolta della strada, il giovane avrebbe scorto il figlio di coloro che caritatevolmente lo avevano ospi­tato e che lo seguiva senza aver attirato la sua atten­zione. Cosa avvenne allora tra il giovane ed il bambino? Perché, come più tardi lo zio di Teresa, non ricon­dusse subito il piccolo fuggiasco dai suoi genitori? Nessuna spiegazione naturale sembra imporsi. Occorre scorgervi una intenzione della Provvidenza? Essa guida talvolta attraverso vie straordinarie gli strumenti pri­vilegiati della sua opera in questo mondo.

Laggiù, a Montemor-o-Novo, i genitori angosciati cercano a lungo il piccolo Giovanni, ma ahimè! senza risultato. Non lo rivedranno più sulla terra. Sua madre è distrutta dalla prova e in capo a venti giorni muore di dolore. Suo padre, nel vedersi privato di tutto ciò che aveva di più caro al mondo, entra nel convento di S. Francesco di Enxobrigas, a Lisbona, per indos­sare l’abito religioso e terminare i propri giorni nel raccoglimento e nella preghiera.

Ecco quindi Giovanni Cidade, a otto anni, privato per sempre degli affetti e delle gioie della famiglia. Solo al mondo, egli avrà, fino a più di quaranta anni, un’esistenza assai tormentata, sia esteriormente che internamente. Le prove, di ogni genere, si moltipliche­ranno sotto i suoi passi. Ma a questa rude scuola, con la grazia di Dio, egli plasmerà un cuore misericordio­so e forte che gli permetterà di adempiere, più tardi, nonostante i molteplici ostacoli, la sua missione di carità verso i poveri, gli ammalati e gli abbandonati. 

 

Il. AVVENTURE GIOVANILI

 

Giovanni Cidade non rivedrà più, su questa terra, né suo padre né sua madre. Troppo giovane, per esa­minare persino la possibilità di una tale disgrazia, egli crede confusamente, senza dirselo può darsi, che tor­nerà a Montemor-o-Novo per abbracciare i genitori. Tutt’al più ha dolorosamente sentito, durante i primi giorni del viaggio, la mancanza delle tenerezze e delle cure materne.

La strada è dura per i suoi piedi di bimbo. Ha un’idea della distanza che lo separa da Madrid, prima meta del viaggio? I nostri pellegrini raggiungono dap­prima Evora, poi Elvas e attraverso Badajoz arrivano in Spagna. Si dirigono quindi verso Merida, passando attraverso oliveti e campi arati. Tosto, lungo strade flancheggiate da olmi, attraverso lecceti, pascoli e lan­de, essi salgono le falde della Sierra de Maranica, volta a sud, attraversano l’Escurial, Zorita ed arrivano a Nostra Signora di Guadalupe, uno dei più famosi pel­legrinaggi spagnoli, che essi non potevano mancare di visitare. Per quanto brevi siano state le tappe, il pic­colo Giovanni era molto indebolito. Egli ha ancora il coraggio di attraversare il colle di San Vincenzo, di discendere il versante nord della Sierra e di attraversare il Tago al ponte dell’Arcivescovo; ma, ad Oropesa, è esausto e non può andare oltre. Costretto a separarsi dal piccolo Giovanni, il giovane lo abbandonò o lo affidò a qualcuno? Lo ignoriamo.

In ogni caso fu raccolto da Francesco, detto Majo­ral, intendente delle mandrie del conte di Oropesa, don Fernando di Toledo. Quell’uomo dabbene si occupò dell’educazione del bambino. Dotato di una natura do­cile e di una intelligenza sveglia, Giovanni imparò a leggere, a scrivere ed acquisì come i ragazzi della sua età, una istruzione religiosa elementare. Poi fu inca­ricato di portare le provviste ai pastori di Francesco il Majoral. Aveva quasi quindici anni quando il padro­ne gli affidò la custodia di un gregge nei pascoli irri­gati dal Tago, nei dintorni di Oropesa.

La solitudine ed il silenzio della campagna favori­scono la riflessione. Giovanni ha raggiunto l’età in cui si comincia a prendere coscienza della propria perso­nalità, in cui non ci si contenta più delle idee e delle direttive di coloro che ci stanno accanto, in cui si cer­ca persino di eludere la loro influenza, talvolta troppo invadente. Egli avverte il bisogno, come ogni giovane, di ritornare al suo passato per rispondere ai suoi que­siti spontanei, di pensare seriamente al suo avvenire allo scopo di preparano meglio. I suoi sogni di bam­bino, a cosa hanno approdato? Perché ha seguito quel giovane di cui non ha più udito parlare? Francesco il Majoral si è mostrato buono con lui, ma non era suo

padre. Da un giorno all’altro può esserne separato e sarà solo allora, straniero in quella terra di Spagna. Non dovrebbe, ora che è grande e forte, ritornare al più presto in patria, accanto ai suoi genitori, a Mon­temor-o-Novo? Molti quesiti si pongono al suo spirito inquieto. Normalmente, sembra, Giovanni avrebbe dovu­to, pur mostrandosi riconoscente a Francesco il Majoral, fargli ammettere che era suo dovere ritornare in Por­togallo. Rimase tuttavia ad Oropesa. Senza dubbio sfuggiva così alla pesante prova che sarebbe stata per lui, alla sua età, la scoperta del focolare distrutto in­volontariamente dal suo errore?

Egli svolgeva d’altronde nel miglior modo il suo lavoro.

Tali erano la sua attività e la sua precisione in tutte le cose, che egli era amato dal suo padrone e benvoluto da tutti.

Divenuto uomo, Giovanni abbandona i greggi per entrare al servizio diretto del conte di Oropesa in qua­lità di palafreniere. A questo proposito egli confiderà più tardi ai suoi compagni il seguente importante ricordo:

Quando ero al servizio del conte di Oropesa mi capitava di provare un vivo dolore nel vede­re i cavalli delle sue scuderie, grassi e lucenti, ornati di ricchi finimenti, ed i poveri magri, co­perti di stracci e privi di cure. Mi dicevo: Ve­diamo, Giovanni, non sarebbe meglio che ti preoccupassi di curare e nutrire i poveri di Gesù Cristo che queste bestie dei campi? E

aggiungeva sospirando: Che Dio mi conceda, un giorno, di realizzare questo desiderio!

Prime aspirazioni « verso la sua futura opera ».

Si può dire che Giovanni Cidade fosse già pronto a seguire l’eccezionale vocazione a cui Dio lo aveva predestinato? Non proprio! Un difetto, del quale indub­biamente non aveva coscienza, il suo difetto domi­nante, l’amor proprio, lo rendeva allora del tutto in­capace.

Avevano lodato troppo, a quanto sembra, sia a Mon­temor-o-Novo che ad Oropesa, la sua viva intelligenza, le sue attitudini e la sua precoce virtù; Giovanni gra­diva quegli elogi. Non era persino desideroso di otte­nerne? Il fatto è che, per guarirlo, Dio permise che quell’invadente amor proprio fosse per lui il principio di gravi tentazioni.

Dopo il trattato di Noyon, 13 agosto 1516, la Francia e la Spagna vivevano in pace, nonostante pro­fonde cause di dissenso; ma in seguito all’elezione all’impero germanico – 28 giugno 1519 – di Carlo Quinto, preferito al suo rivale Francesco I, le relazioni tra i due monarchi si deteriorarono e presto le ostilità si scantenarono su tre fronti, nelle Fiandre, nel Mila­nese ed in Navarra. A noi, qui, interessano soltanto le operazioni concernenti il nord della Spagna, giacché permettono di fissare con precisione l’arruolamento vo­lontario di Giovanni Cidade in una compagnia spagno­la, datandolo ad un periodo posteriore a quello rite­nuto dai suoi primi biografi e, dopo di loro, dai suoi biografi francesi.

Poiché Carlo Quinto era impegnato a calmare la Germania, allora agitata da violenti fermenti a causa delle dottrine che Lutero iniziava a predicare, e delle gravi insurrezioni di « comuneros » si erano avute in Castiglia e a Valenza, nei primi del 1521, Francesco I ne profittò per prendere l’offensiva. Dietro suo ordine Francesco di Foix valica i Pirenei e si impe­dronisce di Pamplona, nonostante l’eroica difesa del capitano Inigo de Loyola, il futuro sant’Ignazio, ferito nel combattimento; ma il 30 giugno 1521 è sconfitto a Noain. Per compensare questa sconfitta l’ammiraglio francese Guglielmo Gouffier di Bonnivet si impadro­nisce di Behobia e della fortezza di Fontarabia, il 16 ottobre 1521.

Sul momento, Carlo Quinto, alle prese con enormi difficoltà in Germania e in Spagna, non poté reagire. Superatele, concluse un’alleanza con Enrico VIII d’In­ghilterra e decise di riconquistare Fontarabia. Per questa impresa egli convocò le Cortes a Palencia, nel gennaio 1523, ed ottenne un primo sussidio di 400.000 ducati d’oro. Poi fece delle leve di soldati in tutta la Spagna. Giovanni Cidade fu uno di quelli che s’arruo­larono sotto la bandiera dell’imperatore.

Divenuto uomo, Giovanni decise, a 22 anni, di andare in guerra. Si arruolò in una compa­gnia di fanteria, agli ordini del capitano Gio­vanni Ferrus. Quest’ultimo era stato inviato dal conte d’Oropesa, al servizio dell’imperatore, per soccorrere Fontarabia.

In realtà, nato nel 1495, Giovanni aveva allora 28 anni. Si tratta probabilmente di un errore; ma può anche darsi che de Castro ringiovanisca il suo eroe per giustificare questo arruolamento piuttosto inoppor­tuno giacché, egli dice,

Giovanni prese questa decisione poiché desi­derava vedere il mondo e godere la libertà.

Giovanni fa buon viso allo scaltro assoldatore; è un uomo troppo bello, gli assicurano, per restare palafre­niere: La sua alta statura, il suo vigore, lo rendono molto pia atto a fare il soldato (Govea).

L’imprudente cede così ad un motivo di vanagloria ed anche a quel desiderio di avventura dei giovani di tutti i tempi, ben più sentito in quell’epoca di prod­i cavalieri e di arditi « conquistadores » e abbraccia vo­lontariamente la carriera delle armi. E’ lontana Oropesa da Fontarabia, non meno di seicentoquaranta chilometri. Ma cos’è ciò, insiste Govea, per Giovanni Cidade, l’ar­dente giovane avido di gloria e di libertà che, ingannato indubbiamente dal demonio, ha abbandonato tanto vo­lentieri la vita tranquilla dei campi per la carriera peri­colosa delle armi?

Fante nella compagnia del capitano Giovanni Fer­rus, il nuovo arruolato attraversa con essa tutta la vec­chia Castiglia, probabilmente lungo le cattive strade che congiungevano allora le antiche città di Avila, di Segovia e di Burgos. Marce penose, certamente, su quegli altipiani aridi, dal clima estremo; a fianco di alcune contrade fertili si incontrano delle immense di­stese deserte, incolte, coperte di eriche e di ginestre, solcate da magri e rari fiumi, interrotte da forre pro­fonde – secche il più delle volte – ma dove talvolta scendono impetuosi torrenti devastatori.

Infine, dopo le difficili tappe, la compagnia di Gio­vanni Ferrus oltrepassa l’Ebro e giunge in territorio basco. Qui si ha il concentramento dell’armata che deve tentare di riprendere Fontarabia, una delle chiavi del regno, alle truppe francesi solidamente trincerate nella celebre fortezza, dopo la sconfitta di Navarra.

La lotta fu aspra, fin dagli inizi; la guarnigione resi­steva a tutti gli attacchi condotti dalle truppe della regione; e gli Spagnoli, giunti in aiuto, dovettero rinun­ciare ad impadronirsene altrimenti che per fame. La resa ebbe luogo il 25 marzo 1524.

Che ne era di Giovanni Cidade tra quei rozzi mer­cenari che, secondo de Castro, avidi di godersi della libertà, si lanciavano a briglia sciolta lungo il cammino molto largo ma spinoso dei vizi? Dio solo lo sa.

De Castro avanza discretamente che egli vi sopportò molte prove e cadde in molti pericoli.

In un ambiente in cui si mescolavano, secondo il costume dell’epoca, mercenari, predatori, vagabondi e prostitute, cosa non poteva accadergli?

In questa situazione scabrosa, il Signore permise che una duplice disgrazia colpisse l’imprudente « arruo­lato » per ricondurlo a sé.

Mentre Giovanni si trovava, dice de Castro, di fronte alla città assediata, le provviste ven­nero a mancare, sia a lui che ai suoi compagni. Allora, da uomo deciso, egli si offrì di andare a cercare dei viveri nelle vicine fattorie. Per re­carvisi e tornare più in fretta, inforcò una ca­valla presa ai Francesi. Ora, quando la bestia fu a circa due leghe dall’accampamento dal quale proveniva, riconoscendo il terreno che era so­lita calpestare, si imbizzarrì e si lanciò verso la sua scuderia, nonostante gli sforzi di Giovanni, sprovvisto di briglia, che la guidava con una semplice cavezza. Essa scendeva così in fretta il pendio della montagna che Giovanni fu su­bito gettato sulle rocce, dove rimase privo di parola, di conoscenza, come morto, perdendo sangue dalla bocca e dal naso; e in quel grande pericolo, nessuno era lì per vederlo e soccor­rerlo.

Ritornato in sé, tormentato dal dolore della caduta, si accorge del non minore pericolo che corre di essere fatto prigioniero. Allora si alza da terra come può, si getta in ginocchio e, con gli occhi volti al cielo, si mette ad invocare la Vergine Maria, suo abituale rifugio: « Madre di Dio, assistetemi, aiutatemi, e pregate il vostro divin figlio di liberarmi dal pericolo di cadere nelle mani dei miei nemici ». Dopo la preghiera raccoglie tutte le sue forze, prende un bastone da terra ed appoggiandosi ad esso si trascina pian piano verso il luogo in cui l’attendevano i compagni. Essi, vedendolo arrivare in uno stato tanto pietoso, pensano ad uno scontro con il nemico e l’interrogano in merito. Giovanni rac­conta loro l’avventura capitatagli con la cavalla. Lo fanno coricare in un letto, lo coprono per farlo sudare e, in capo a qualche giorno, egli èguarito e in forma.

Dopo quest’incidente, lo sfortunato soldato non mancò di riflettere seriamente sulla sua vita. Tuttavia, una prova ancora più crudele stava per piombare su di lui.

Il capitano gli aveva affidato da custodire alcuni armamenti sottratti ai soldati francesi: ora, per negligenza, Giovanni si dimenticò di prendere le precauzioni necessarie e glieli rubarono. Messo al corrente del furto, il capitano provò un tale sdegno che, senza ascoltare le suppliche di molti soldati in favore del loro compagno, ordinò di impiccano subito ad un albero. Per fortuna passò di lì una persona ragguardevole e molto rispettata dal capitano. Dopo aver udito ciò che era accaduto, egli pregò l’ufficiale di rinunciare all’esecuzione, ma di allontanare il colpevole dall’esercito.

Nella sua condanna a morte, Giovanni Cidade ave­va voluto vedere una manifestazione della giustizia di­vina nei suoi riguardi. Egli attribuì del pari alla infinita bontà di Dio la grazia insperata di cui fu oggetto e, subito fuori del campo, prostrato ai piedi di una croce, si mise ad implorare il perdono dei suoi peccati e della sua ingratitudine, giacché aveva riconosciuto le proprie miserie e debolezze.

In questo momento, dice Saglier, inizia per Gio­vanni una vita di espiazione e di tormenti interiori, che non durerà meno di dieci anni. Riuscirà di solito a non lasciar trapelare le lacerazioni del suo cuore e le angosce della sua coscienza; ma, talvolta, il dolore sarà cosi violento da traboccare e portarlo ad eccessi tali di penitenza, nei quali si potrà scorgere della buia. Questa ansietà persistente spiega anche quell’inquieto bisogno di cambiamento che lo perseguita nelle sue occupazioni successive anche quando vi prodiga tesori di carità e di abnegazione.

Allora, Giovanni Cidade si trovava presso Fonta­rabia, assolutamente privo di tutto e non sapendo cosa fare. De Castro riferisce:

Dopo aver riflettuto sui rischi della vita mili­tare e sul misero salario offerto dal mondo a chi lo scorta nel modo più servile, Giovanni si de­cise a ritornare dal suo padrone Francesco il Majoral, ad Oropesa.

Ci si fa un’idea della dura realtà che nascondono queste parole, veramente troppo distaccate? I seicento-quaranta chilometri percorsi con la sua compagnia, in sicurezza e ben fornito, il pover’uomo doveva ora rifarli da solo, senza denaro, lungo quelle cattive strade di Castiglia, abissi di fango in inverno, afferma, forse con un po’ di esagerazione, un cronista del XVI secolo; e dove, in estate, le bulere di polvere che solle­vano i viaggiatori e la più piccola brezza sono cosi dense che accecano gli occhi e nascondono persino il sole (Robert Gaguin, 1425-1502).

E’ a brandelli, esausto e moralmente distrutto che Giovanni arrivò ad Oropesa. Che umiliazione per lui presentarsi in quello stato dinanzi al suo benefattore e antico padrone, al quale dovette confessare le proprie spiacevoli disavventure! Egli è disorientato e pur co­sciente del proprio fallimento su tutta la linea.

Malgrado tutto, Francesco il Majoral lo accolse con comprensione, e Giovanni Cidade riprese le proprie occupazioni assolvendole come meglio poteva; ma il cuore non c’era più. Il rimorso, il turbamento e persino il desiderio di riparare non gli concedevano più riposo. Talvolta gli accadeva di pensare ancora che sarebbe stato meglio curare e nutrire i poveri che ingras­sare le bestie. In realtà, non si decide a niente. La sua decisione è in sospeso. Essa attende l’occasione. Questo uomo generoso è un impulsivo. Ora, degli avvenimenti esterni di estrema gravità stanno presentandosi: essi lo getteranno di nuovo nell’avventura.

Giovanni Cidade era tornato ad Oropesa da due anni, quando nel 1527 si apprese che Solimano Il il Magnifico, sultano dei Turchi, era penetrato in Unghe­ria. Dopo aver sconfitto Luigi Il lagellone a Mohàcs, nell’agosto 1526, si era impadronito di Buda. Più tardi, aveva posto l’assedio a Vienna. Per fortuna, la milizia della città, aiutata soltanto da quattro compagnie di veterani spagnoli di stanza sul posto, resistette vitto­riosamente ai venti assalti consecutivi delle truppe di Solimano, che dovette infine togliere l’assedio (1529).

Nonostante questa sconfitta, Solimano restava una minaccia per l’Europa cristiana, e non tardò a riunire nuovi eserciti e una flotta, con lo scopo di attaccare per terra e per mare. Per affrontare i Turchi e conte­nere la loro prossima offensiva, Carlo Quinto iniziò, nel gennaio 1532, a preparare una crociata. A tal fine, egli concluse una tregua con i protestanti tedeschi ed otten­ne il loro aiuto contro il comune nemico; si procacciò anche il concorso dei Polacchi, dei Moravi, dei Cechi e degli Stati italiani; soprattutto imparti degli ordini in Spagna, al fine di reclutare uomini in tutto il paese. La causa era bella, il cuore cavalleresco di Giovanni Cidade si infiamma per quella nuova crociata; gli sembra che Dio ve lo chiami. Senza dubbio, a giudizio di de Castro e di Govea, persone mature, egli dimenti­ca un po’ troppo le sue sventure di Fontarabia; ma è poi vero? Non vi è piuttosto nell’animo inquieto del vecchio soldato, mescolato a slanci generosi mai assopiti ed ai rimpianti lancinanti dei propri errori, il desiderio più o meno cosciente di vedersi riabilitato dall’ingiusta degradazione di cui era stato vittima? Adesso, era un uomo di trentasette anni, ben consolidato nella virtù; poteva legittimamente aver fiducia di comportarsi ormai da buon soldato.

Arruolato agli ordini del capitano don Fernando di Toledo e destinato al suo servizio personale, il nostro crociato si dirige con la compagnia verso Barcellona. La truppa è trasportata per mare a Genova, poi si avvia verso il lago di Garda, dove arriva nell’agosto 1532. E’ qui che tutta la fanteria imperiale si concen­tra, per raggiungere in successive tappe Verona, Rove­reto, Trento, Bolzano, Bressanone e da ultimo Inns­bruck, il 17 agosto. Essa discende l’Inn con battelli, passa per Braunau e sbarca a Linz sul Danubio, in settembre.

Da parte sua, venuto da Adrianopoli con un potente esercito, Solimano Il passa per Belgrado ed entra in luglio a Buda, da dove avanza lentamente fino a Meige, ad una dozzina di leghe da Vienna.

I due eserciti entrano in contatto e si hanno alcuni combattimenti; ma gli Imperiali per paura della caval­leria turca e i Turchi, per paura dell’artiglieria imperia­le e soprattutto della fanteria spagnola, nessuno prese impegni decisivi. Tuttavia, non potendo prendere in considerazione una campagna in inverno, Solimano ripiegò su Belgrado e Carlo Quinto, rimasto padrone del terreno, entrò a Vienna il 24 settembre 1532. Il giorno successivo l’imperatore, passò in rivista tutte le truppe presso le mura della città e Giovanni Cidade poté scor­gere Carlo Quinto mentre sfilava a cavallo dinanzi al­l’esercito schierato a battaglia.

In combattimento Giovanni si era fatto notare per l’audacia ed il valore; si era conquistato la stima dei suoi capi.

Nessun dubbio che in quell’occasione egli assaporò una delle rare gioie umane della sua vita. Egli aveva sfruttato il suo bisogno di prodigarsi fino all’estremo limite, ma anche fino al successo, e per quale causa! L’infamia che intaccava la sua reputazione, da quei tristi giorni di Fontarabia, era stata ben lavata; e, in mezzo all’entusiasmo generale, felice per aver com­battuto in maniera utile per Dio e la cristianità, come non avrebbe sentito allontanarsi, almeno per un certo tempo, il peso del rimorso che lo opprimeva?

L’esercito spagnolo dell’imperatore trascorse l’in­verno del 1532 in Italia e si imbarcò a Genova, nel­l’aprile 1533, sulle galere di Andrea Doria, per pren­dere terra verso il 28 d’aprile nel porto di Palamos, vicino a Barcellona.

Tuttavia, don Fernando Alvarez di Toledo, insie­me alla compagnia di cui faceva parte Giovanni Cidade, non si servì della stessa strada per il ritorno. Incaricato verosimilmente di consegnare un messaggio a Maria d’Austria, sorella dell’imperatore e reggente dei Paesi Bassi, il conte raggiunse le Fiandre attraverso la Ger­mania e, compiuta la missione, noleggiò una nave per la Spagna e sbarcò, dice de Castro, nel porto di La Coruna. Come spesso accade, il biografo non indica la data dell’avvenimento; ma secondo i calcoli del padre Raphaèl Saucedo esso avvenne verso la metà del 1533.

San Giacomo di Compostella è lì vicino. Secondo Govea, della cui testimonianza non si ha qui alcuna ragione di sospettare, la compagnia di don Alvarez di Toledo vi si recò in pellegrinaggio, poi si sciolse.

Allora Giovanni Cidade, libero da ogni obbligo mi­litare, crede di dover realizzare finalmente il desiderio che nutriva da tanto tempo di rivedere i genitori ed il paese natio.

A Montemor-o-Novo, la croce lo attende ancora in uno dei suoi aspetti più penosi, ma essa lo staccherà completamente dal mondo e lo farà consacrare per sempre al servizio di Dio.

 

III. SULLA VIA DEL DISTACCO

Al ritorno dalla sua campagna d’Austria, Giovanni Cidade ha trentotto anni. Più di un quarto di secolo è trascorso dalla sua partenza dal focolare paterno. Dei suoi, non ha mai ricevuto nemmeno la più piccola noti­zia e sembra che neppure lui abbia dato, durante que­sto lungo periodo, alcun segno di vita ai suoi genitori.

Negligenza colpevole – gli stessi suoi primi bio­grafi lo ammettono – certamente meno grave di quan­to non sarebbe ai giorni nostri in cui è cosf facile spo­starsi e inviare corrispondenze, mentre nel XVI seco­lo i viaggi erano difficili e la posta inesistente. Occor­reva essere ricco per permettersi dei corrieri privati. Quanto ai messaggeri occasionali, soprattutto tra le piccole città straniere, essi erano rari e molto incerti.

In gioventù, quando era pastore ad Oropesa, Gio­vanni aveva d’altronde pensato di ritornare a Montemor­o-Novo, suo paese natio, ma non trovò mai occasioni favorevoli per un simile viaggio. Più tardi, dopo le umilianti avventure di Fontarabia, come avrebbe osato presentarsi dinanzi ai genitori? La crociata contro i Turchi gli aveva restituito l’onore. Quali che fossero stati i suoi torti, egli poteva dunque sperare al suo arri­vo in paese, in un generoso perdono e in un accoglien­za favorevole.

Così supera, fiducioso e con passo sostenuto, i seicento chilometri che separano San Giacomo di Compo­stella da Montemor-o-Novo. Attraverso la Galizia rag­giunge la frontiera portoghese, attraversa le province di Minho, del Duero, di Beira, senza dubbio lungo la strada litoranea che unisce le antiche città di Tuy, Por­to e Coimbra alle rive del Tago e alle pianure dell’Alem­tejo. Infine, il viaggiatore raggiunge Montemor-o-Novo. Impaziente, egli affretta allora il passo e, guidato dai ricordi indelebili di gioventù, si dirige senza esitare verso la casa paterna. Era sempre la stessa. E men­tre con mano nervosa bussa alla porta di casa, il suo cuore si gonfia per l’emozione e batte a ritmo accelerato nel suo petto di figlio fuggitivo, malgrado tutto inquieto. Di botto aprono. Quale sorpresa! Il volto che gli si presenta gli è estraneo. Non sa che pensarne.

Nessuno lo riconosce, nessuno può dargli delle in­formazioni, poiché lui non conosce nemmeno il nome dei suoi parenti.

Passando di casa in casa, egli incontra finalmen­te un vecchio dignitoso, è suo zio. Dopo aver parlato al nuovo venuto, dopo aver ascoltato i ricordi conservati dei suoi genitori e dopo aver esaminato i lineamenti del suo volto, il pa­triarca lo riconosce e l’interroga su quanto gli era occorso dopo la partenza dal paese. Gio­vanni gli narra tutte le sue avventure; ma pone anche delle domande. Figlio mio, gli risponde lo zio, vostra madre, debbo confessarvelo, è morta pochi giorni dopo che vi rapirono al suo affetto. La vostra assenza le procurò un dolore ed una pena tanto più intensi in quanto igno­rava chi vi aveva tratto seco, dove eravate stato portato, voi cosi giovane, e in che modo. Così, ne siamo persuasi, il dispiacere ha abbreviato prematuramente i suoi giorni ed è stato la causa principale della sua morte. Quanto a vo­stro padre, rimasto vedovo e senza figli, entrò poco dopo in un monastero di Lisbona, dove ri­cevette l’abito di san Francesco e finì santamen­te i suoi giorni. Di conseguenza, figlio mio, se volete riposare in questo paese e rimanere a casa mia, io vi accolgo molto volentieri. Sarete per me come un figlio fin tanto che vivrete in mia compagnia. Giovanni provò un vivo dolore per la morte dei genitori, principalmente perché a suo avviso egli era stato la causa delle loro sventure. Lo manifestò col pianto e con il ram­manco, al punto da provocare le lacrime dello zio che egli ringraziò della gentilezza e dei bene­fici. Poi, vedendosi orfano e solo, sconosciuto dai suoi congiunti a causa della prolungata as­senza, esclamò: Caro zio, poiché è piaciuto a Dio di chiamare a sé i miei genitori, è mio pro­posito non rimanere in queste zone, ma cercare dove servire Nostro Signore lontano dal mio paese, secondo l’affascinante esempio di mio padre. Per di più, sono stato tanto cattivo e col­pevole che debbo occupare la mia vita, dono del Signore, a fare penitenza e a servirlo. Ho fidu­cia che il mio Signore Gesù mi accorderà la gra­zia di realizzare Irancamente questo desiderio.

Accordatemi dunque la vostra benedizione e chiedete con insistenza al buon Dio di con­durmi per mano. Che il Signore vi ricompensi per la benevolenza usatami e per la buona ac­coglienza nella vostra casa! Lo zio gli diede allora la sua benedizione. Si abbracciarono ver­sando copiose lacrime ed il buon vecchio, con gli occhi al cielo, aggiunse: Giovanni, partite in pace. Nostro Signore, lo spero, vi concederà la grazia di realizzare completamente i vostri ec­cellenti desideri e le preghiere dei vostri geni­tori vi aiuteranno molto per andare più tardi a tener loro compagnia.

E’ sembrato utile ripresentare qui per intero il testo di de Castro, che è indubbiamente una trascri­zione letterale delle confidenze fatte da Giovanni ai suoi compagni. Esso ci pone di fronte alla realtà dei fatti, delle idee e delle reazioni degli uomini del XVI secolo.

Se ne può concludere: alla rivelazione dolorosa quanto inattesa della morte dei genitori, lo sfortunato Giovanni ha provato un intenso shock emotivo. Il suo passato gli è apparso nelle tinte più cupe e la sua coscienza tormentata gli rimprovera adesso di essere un parricida. Perché non è morto, si dice, sul patibolo di Fontarabia e sotto le scimitarre dei Turchi! Sul punto di cadere nella disperazione, Giovanni si volge per fortuna verso il cielo, e il Signore si serve di que­sta nuova prova per distaccano completamente dal mondo.

Appena riposato dalle lunghe peregrinazioni, Gio­vanni riprende perciò la strada. Lasciando l’Alemtejo, attraversa la provincia dell’Algrave, oltrepassa la fron­tiera spagnola, entra in Andalusia e procede fino alla regione di Siviglia. Qui, divenuto temporaneamente più calmo, si occupa come pastore per guadagnarsi la vita e avere il tempo per riflettere, presso donna Eleo­nora di Zuniga, proprietaria di un gregge nella cam­pagna sivigliana. Una tappa molto breve, osserva de Castro:

Poiché Giovanni ignorava ancora per quale stra­da Dio doveva condurlo al suo servizio (benché gli avesse accordato la volontà di seguirlo), ri­maneva triste, senza tranquillità né riposo, non avendo più voglia di sorvegliare le pecore. Dopo aver trascorso alcuni giorni al servizio di quella dama, rifletteva dunque sul modo di abbandona­re il mondo. D’un tratto, fu preso da un vivo desiderio di raggiungere le coste africane, di vedere quel paese e di soggiornarvi. Per porre in atto senza indugio il proprio progetto, si con­gedò dalla sua padrona e si diresse verso Gi­bilterra.

Nella vita di Giovanni Cidade le situazioni diven­tano sempre meno stabili, l’inquietudine si accentua. Egli non sa bene ciò che lo orienta verso l’ignoto ma vi corre. E’ stato influenzato dai preparativi allora effet­tuati in Spagna per la spedizione d’Africa? E’ possibile. Il 30 maggio 1535, Carlo Quinto parte da Bercellona alla testa di questa spedizione, impadronendosi di Tunisi il 2 luglio dello stesso anno. E’ precisamente il periodo in cui Giovanni Cidade si reca a Ceuta.

A questo fine aveva raggiunto Gibilterra. Un pic­colo veliero della marina portoghese stava salpando.

Per salire a bordo Giovanni non esita ad offrire i pro­pri servigi ad un condannato politico, il conte d’Almei­da che viene condotto in esilio a Ceuta con la moglie e le quattro figlie per ordine del re Giovanni III. Costui, dice de Castro, prometteva di trattarlo bene e di pagar­lo lautamente.

Dopo un’ottima traversata, i proscritti, aiutati dal loro servitore, si stabiliscono come possono nella for­tezza portoghese; ma ben presto, minati dal dispiacere, dalle privazioni e dal clima, il conte, sua moglie e le figlie si ammalano. Rimasto l’unico sano, Giovanni si prodiga verso di loro e, grazie alle sue cure, tutti guariscono; ma i medici ed i farmaci hanno esaurito le risorse del gentiluomo.

Egli si vede nella peggiore miseria, al punto da essere costretto ad implorare l’aiuto di Giovanni; magro aiuto, ma tuttavia il migliore che gli si offriva in simili circostanze.

Così il conte, durante un colloquio segreto, si deci­de a svelargli tutta la sua miseria, tanto più dolorosa in quanto doveva provvedere ai bisogni delle giovani e delicate figlie, allevate nell’abbondanza. Di conseguen­za supplicava Giovanni, in mancanza di altri aiuti, di prestare la sua opera nei lavori di fortifica­zione, eseguiti allora a Ceuta per ordine del re. Con il salario che avrebbe percepito, tutti avrebbero cosi mangiato.

Dopo aver ascoltato queste ragioni, tanto commo­venti in sé stesse, ma soprattutto per un cuore già dispo­sto ad intraprendere qualsiasi cosa per servire Nostro Signore, Giovanni vi acconsentì volentieri. Non scorgeva aperta dinanzi a sé una carriera conforme ai propri desideri? Così, per tutto il tempo che rimase presso il gentiluomo, Giovanni Cidade lavorò alle fortificazioni, dando ogni sera di buon grado il salario guadagnato per assicurare il sostentamento di quelle ragazze e dei loro genitori.

Se accadeva che Giovanni, perché impedito, non andasse al lavoro, o che pur avendo lavorato non gli avessero dato il salario, quel giorno non si mangiava e si sopportava questa privazione con pazienza, senza dire niente a nessuno. Que­sta opera era così bella e gradita al Signore che lo stesso Giovanni più tardi confessava: Nostro Signore, nella sua grande misericordia, mi ha dato l’occasione di adempierla per qualche tem­po al fine di aiutarmi a meritare le grazie di cui poi mi ha colmato.

Questa citazione di de Castro, eco veritiera delle confidenze di Giovanni ai suoi compagni, ci mostra tutto ciò che vi era di nobile e generoso nella sua per­sonalità tanto complessa. Nonostante i penosi lavori e le sicure privazioni che la sua vita di abnegazione gli procurava, Giovanni provava una gioia intensa; era come un balsamo sulle sue ferite nascoste. Mai si era dedicato prima ad un’opera tanto conforme ai suoi gusti.

Il coraggioso sterratore si dedicava da molti mesi alle sue attività tanto faticose quanto confortanti, quan­do un nuovo pericolo lo assalì.

Incaricato nel 1536 di costruire delle nuove fortifi­cazioni a Ceuta, il governatore della piazza, don Nuno Alvarez Norena, non cessava di sollecitare i lavori al fine di poter resistere agli imminenti attacchi del pirata Khaìr-Ed-Din, detto Barbarossa. Per ottenere i rendi­menti richiesti, i capisquadra cominciarono a maltrattare a parole e in vie di fatto i lavoratori addetti alle fortificazioni, come se si trattasse di schiavi. Questi non potevano, essendo in zona di frontiera, servirsi della pro­pria libertà e rifugiarsi in territorio cristiano; ma alcuni di essi, non potendo sopportare più tali sevizie e peraltro predisposti, come si può supporre, si decisero a passare dalla parte dei Mori della vicina città di Tetuan e a farsi mu­sulmani.

Tra essi vi era un compagno di lavoro di Giovanni Cidade, suo compatriota ed amico. Giovanni ne provò un vivo dolore e, secondo de Castro:

non faceva altro che piangere e gemere: Oh po­vero me, gridava, quale conto renderò per que­sto fratello! Egli ha preferito allontanarsi dal grembo della nostra Santa Madre Chiesa piutto­sto che accettare un po’ di sofferenza!

Questo avvenimento riaccese le angosce del povero Giovanni. A sentirlo, solo i suoi peccati e le sue infe­deltà avevano attirato quella disgrazia. In tal modo egli era ancora una volta sulla china della disperazione e pronto a cadere nell’apostasia come il suo amico.

Per fortuna, tra i suoi terrori, non aveva cessato di invocare il Signore e, senza indugiare troppo, aprì

la sua anima ad un padre francescano. Quel sacerdote illuminato e prudente comprende il suo stato, lo con­sola facendo del suo meglio e, ritenendo troppo peri­coloso il di lui soggiorno in Marocco, gli ordina di ri­tornare al più presto in Spagna, dopo averlo rassicu­rato che avrebbe vegliato sui suoi protetti.

Per obbedire al rappresentante di Dio, Giovanni Cidade si congedò a malincuore dal conte e dai suoi, non senza aver loro promesso di offrire al cielo in loro favore il suo penoso sacrificio e preghiere ancora più insistenti.

Desolati per aver perso un tale benefattore, i proscritti non mancarono di attribuire al suo credito pres­so Dio il perdono del re Giovanni III. Sua Maestà li richiamò dall’esilio anzi tempo e li reintegrò nei loro beni.

 

IV. IL VENDITORE AMBULANTE DI LIBRI E DI IMMAGINI

Per mettersi al sicuro dalle tentazioni di apostasia, Giovanni Cidade lascia dunque il Marocco, dove ha appena compiuto nei confronti del conte d’Almeida uno dei più commoventi atti di carità di tutta la sua vita.

Quando raggiunge Gibilterra, verso la fine del 1537 e dopo aver affrontato nella traversata dello stretto una tempesta nella quale aveva rischiato di naufragare, Gio­vanni ha quarantadue anni.

Così, il suo primo pensiero allo sbarco è di recarsi in chiesa e qui, secondo de Castro, ringrazia Dio per averlo liberato dalla tentazione di apostasia e dal peri­colo corso in mare. Non sono forse i miei peccati e la mia infedeltà alla grazia le cause di tutte queste disgra­zie?, egli pensa. E dal profondo del suo cuore ferito sgorga, umile e supplichevole, questa preghiera che egli da allora non cesserà più di ripetere: Signore, concedi la pace alla mia anima e fammi conoscere la – strada che debbo seguire per giungere a te.

Come è tormentata la vita di quest’uomo! Quanti paesi ha percorso dalla sua giovinezza! Su quale stato cadrà alla fine la sua scelta? La morte lo ha sfiorato più volte. La sua coscienza inquieta oscilla tra la filiale fiducia in Dio e la nera disperazione; agli atti di eroi­smo si avvicendano in lui inaspettate debolezze.

Natura ricca, cuore sensibile e pieno di generosità, ma accessibile all’amor proprio ed un po’ presuntuoso talvolta, Giovanni Cidade aveva indubbiamente biso­gno, per diventare malleabile sotto la mano di Dio e capace di adempiere la sua missione, di essere pro­fondamente lavorato dalle umiliazioni, dall’inquietudine e dalla sofferenza, nostre grandi maestre quaggiù.

Già assiduo nella preghiera, Giovanni Cidade forse non aveva che una fede assai poco illuminata e nozio­ni assai vaghe sulle condizioni e i doveri del cristiano? In quel tipo di vita errante e sempre occupata, quali po­tevano essere stati i suoi progressi al riguardo?

Tale sembra essere stato, d’altra parte, il sentimento del suo direttore francescano di Ceuta. Egli non si ac­contentò, in effetti, di farlo uscire da una situazione per lui troppo pericolosa, ma gli raccomandò la let­tura del Vangelo e dei libri spirituali allo scopo di illu­minare la sua intelligenza, di infiammare il suo cuore e armarlo per la lotta.

Con la solita foga, Giovanni si affretta a seguire quell’ottimo consiglio. Ogni giorno si reca al lavoro là dove ne trova e, siccome si accontenta di poco cibo, fa delle economie sul salario per procurarsi delle opere di spiritualità. Si immerge nella loro lettura per ore intere ed impara cosi ad apprezzare questi amici sinceri, benefici, che offrono allo spirito ed al cuore tutto l’ali­mento di cui essi hanno bisogno.

La sua anima così docile e ben preparata deriva da quella nuova occupazione un tale profitto che, stimolata dalla sua generosità, brucia per il desiderio di condividerlo con il prossimo. Come spiegare diversamente, in un uomo apparentemente poco portato ad una simile attività, il suo desiderio, appena giunto in Spagna, di dedicarsi all’apostolato tramite il buon libro?

Nel suo entusiasmo, egli crede di avere finalmente scoperto la propria vera vocazione, il mezzo tanto desi­derato per lavorare al servizio di Dio e per la salvezza dei fratelli. Con i suoi risparmi acquista delle Bib­bie, La Vita di Cristo di Ludolfo di Sassonia, L’imita­zione di Cristo, la Legenda aurea di Giacomo da Varazze, abecedari e immagini di carta, per rivenderli agli uni ed agli altri, mentre percorre i villaggi vicini.

Ai bambini soprattutto e agli ignoranti, distribuisce delle belle immagini: predica viva, concreta, semplice e tanto alla loro portata. « Suvvia, gridava, che nes­suno si privi di un simile aiuto! Le immagini! Basta guar­darle pér ravvivare incessantemente la devozione; esse risvegliano l’attenzione, fissano i ricordi. E, nel vendere gli abecedari, incitava i genitori ad insegnare la dottrina cristiana ai loro figli » (de Castro).

In poco tempo, il piccolo commercio prospera. L’im­provvisato venditore ambulante ci sa fare nel racco­mandare la sua merce. Tutti i libri che pone in vendita, li legge; prima di tutto per accertarsi che siano buoni, e poi per poterne rendere conto all’acquirente. Non si scorge il vantaggio che ne trae egli stesso, con il suo spirito avido di sapere e l’anima assetata di perfe­zione?

Il cardinale Ximenes de Cisneros (1436-1517) aveva fatto tradurre in spagnolo, fin dagli inizi del XVI secolo, la Bibbia, la Vita di Cristo di Ludolfo di Sassonia, la Legenda aurea di Giacomo da Varazze, l’Imitazione di Cristo, le Lettere di san Girolamo e di santa Caterina da Siena, ecc.

« Di proposito egli acquista alcuni romanzi caval­lereschi (le opere del marchese di Mantova, i poemi di Garciloso de la Vega, ecc.) che pone bene in vista sul banco per attirare i giovani. E quando qualcuno si av­vicina per acquistarne uno, egli coglie l’occasione per sconsigliare un simile acquisto e proporre in sua vece qualche libro utile ed edificante » (de Castro).

Se riesce a farsi ascoltare, il suo zelo lo spinge a spiegare il modo di leggere con profitto e se si accorge che « il costo elevato di un buon libro frena il desi­derio dell’acquirente, si affretta a cederlo sotto costo) non esitando, osserva de Castro, a collocare il guadagno spirituale dell’altro al di sopra del proprio guadagno temporale ». I suoi modi sono così avvincenti, umani ed affabili verso tutti, che molti acquistano volentieri delle opere poco attraenti in sé stesse, ma presentate con grazia ed amicizia.

« Cosi, in poco tempo, Giovanni poté aumentare il proprio guadagno spirituale e temporale; poiché oltre alla buona azione compiuta col piegare molte persone alla lettura di buoni libri – è noto che ne risulta un gran bene – egli accresceva il suo stock di volumi, al punto da possederne molti e di pregio. Era una gran fatica, gli sembrò allora, muoversi da un punto all’altro con quel fardello sulle spalle; così, riferisce de Castro, decise di andare a Granata e di stabitirvisi: prese domi­cilio e mise su bottega alla porta di Elvira ».

Senza saperlo, l’umile Giovanni favoriva l’opera ini­ziata dal suo contemporaneo Luigi da Granata. Dal 1534, infatti, l’illustre domenicano, dai pulpiti della città, dinanzi a giovani uditori guadagnati con l’elo­quenza, non cessava di levarsi contro le letture romanzesche e di denunziare l’ignoranza comune in materia re­ligiosa. Egli proponeva, come principale rimedio a questo male, la lettura dei Vangeli, di piccoli trattati semplici di dottrina e di pietà. Lui stesso, abbandonan­do il latino contro l’uso del tempo,, ne aveva tradotti o composti alcuni in spagnolo e si sforzava di dif~onderli tra la popolazione.

Un’uguale comprensione dei bisogni del suo tempo non è riscontrabile in Giovanni Cidade, che non posse­deva né il genio né la scienza di Luigi da Granata? In­dubbiamente il Signore lo stava chiamando alla sua vocazione di carità; ma il suo apostolato « tramite il buon libro » ne è stato la preparazione. Nel santificare, infatti, una professione che lo ha fatto onorare per molto tempo, in Italia e in Spagna, come patrono dei librai, Giovanni di Dio, convinto dell’importanza delle sane e pie letture nella formazione dell’uomo e del cristiano, non cessò si servirsi lui stesso di questo gran­de mezzo di perfezione e lavorò con tutte le sue forze per propagarlo attorno a se.

Acquisi cosi un capitale solido di conoscenze varie dal quale più tardi, quando tutto il suo tempo sarà preso dall’esercizio della carità, saprà trarre profitto non solo per sé, ma anche per l’istruzione dei suoi fra­telli, dei suoi malati, dei suoi amici e per il buon anda­mento delle sue opere. Le sei lettere di Giovanni di Dio a noi pervenute, il cui valore reale fa rimpiangere la perdita di tante altre, ne sono la testimonianza.

 

V. LA DRAMMATICA RINUNZIA

Verso la fine del 1538, Giovanni Cidade, allora quarantatreenne, si era dunque stabilito a Granata e aveva impiantato una modesta libreria accanto alla porta di Elvira. La sua ingegnosità, il suo abile richiamo e la sua bonomia sorridente, uniti alle largi­zioni sempre più ampie in favore dei bambini e dei poveri, gli attirarono ben presto, come a Gibilterra, una vasta clientela che lui orientava con zelo e suc­cesso verso le buone e sane letture. Tutto sembrava sorridere al nuovo venuto. Una onesta agiatezza pro­metteva di unirsi, in lui, ad una vita di apostolato ricca di avvenire e di merito. Era la prospettiva della felicità.

Se un tale sentimento sfiorò per qualche tempo il cuore di Giovanni, fu come un lembo di cielo sereno tra le apprensioni che, da più di dieci anni, tormenta­vano la sua coscienza quasi senza tregua. Infatti, l’in­quietudine non tardò a risvegliarsi nel profondo del suo essere, strappandogli nuovamente il grido di ango­scia: Signore, dona la pace alla mia anima e fammi conoscere la strada che debbo percorrere per arrivare a te. Il Signore alla fine lo esaudirà, e in che modo!

Da grande peccatore l’aveva già fatto giusto! Lo farà grande penitente e provveditore dei suoi poveri.

Il 20 gennaio 1539, giorno della festa di san Seba­stiano, grandi solennità si svolgono nell’eremo « de los Martires », innalzato in cima alla città, di fronte all’Alhambra. Tutta Granata è qui per celebrare la gloria del soldato martire e implorare il « liberatore della peste » perché preservi la città dal terribile fla­gello che infierisce nel paese.

Di fronte a questo uditorio entusiasta ed aperto a gravi pensieri, l’oratore della festa, Giovanni d’Avila, l’apostolo dell’Andalusia, esalta il perfetto imitatore di Gesù in vita ed in morte; egli insegna che ciascuno deve ancorarsi nella volontà di soffrire e persino di morire piuttosto che commettere il peccato, che è il flagello più pericoloso. Nell’uditorio, l’emozione è al culmine. Il lavoro della grazia si manifesta. Molti piangono gli errori commessi e si percuotono il petto. Giovanni Cidade, qui giunto come gli altri, non può contenersi; i suoi peccati, tante volte deplorati, gli si presentano in un compendio impressionante. Sotto la violenza del pentimento e della netta convinzione della sua inde­gnità di fronte a Dio, egli prorompe in singhiozzi e grida con tutte le forze: Misericordia, mio Dio, mise­ricordia!

Questa improvvisa esplosione dei suoi tormenti di coscienza attira su lui tutti gli sguardi.

Come fuori di sé, Giovanni esce di chiesa, im­plorando sempre la misericordia divina. Disprez­zando se stesso, si getta a terra, batte la testa contro i muri, si strappa la barba e le soprac­ciglia. Tutti ritengono che ha perso la ragio­ne. Lo additano, gli inveiscono contro, i bam­bini lo trattano da pazzo; lui, senza sembrare che vi badi, scende di corsa verso la città e giunge alla sua bottega, seguito dai ragazzini e dai curiosi, attratti dal grido sinistro, lanciato ora da ogni parte: Loco! Loco! (Al pazzo! Al pazzo!).

E’ per Giovanni l’ora della grande rinunzia. Il poco denaro che possiede lo dà a chiunque viene, sen­za riservare per sé neppure un soldo. Immagini, libri ed oggetti di pietà sono distribuiti in un momento. Quanto alle opere profane, la principale attrattiva del suo commercio, colto da non so quale rimorso, le strap­pa con le mani e perfino coi denti, le calpesta e la gente se ne disputa i pezzi. Come san Francesco d’As­sisi, si privò anche dell’abito dandolo ad un mendicante.

Egli dà tutto, trattiene solo una camicia ed un paio di pantaloni, per coprire la propria nudità. Cosi spogliato, a piedi nudi e a capo scoperto, se ne va per le vie principali di Granata, gri­dando: Nudo, voglio seguire Gesa Cristo nudo, e rendermi completamente povero in suo onore.

Si trattava qui, senza dubbio, di uno shock nervo­so che accompagnava e raddoppiava, come per un risvolto patologico, la straordinaria manifestazione del­la contrizione di Giovanni di Dio. Luigi da Granata, il Bossuet della Spagna del XVI secolo, sembra ammet­terlo lui stesso quando, rivolgendosi ai detrattori di Giovanni di Dio, dichiara che essi ignorano quanto intensa sia talvolta la risonanza corporea degli shock dell’anima e non considerano quale sia, in certe circo­stanze, la forza del pentimento (Granat. oper., tomo III).

Per fortuna, chiamato o venuto da solo, Giovanni d’Avila si fa vedere in quel momento nei pressi della cattedrale. Appena lo vede, Giovanni Cidade lo rag­giunge e, gettandosi ai suoi piedi, gli fa con i segni della più viva contrizione la confessione dei propri errori ed il racconto di tutta la sua vita. Cosa accadde di poi tra il sacerdote ed il suo penitente? E’ il segreto di Dio. Si può pensare, tuttavia, che quel saggio diret­tore lo ascoltò con pazienza e simpatia, che gli accor­dò il perdono in nome del Signore e gli fece udire delle parole di conforto e di pace. Cosa poteva fare di più in quella circostanza?

Calmato momentaneamente, ma sempre turbato, Gio­vanni non tarda a seguire la sua idea di espiazione, legata al suo bisogno incoercibile di movimento. De Castro lo afferma:

Appena lasciato il Padre d’Avila, Giovanni si reca in piazza di Bibarrambla, dove c’era un pantano. Egli vi si immerge, vi si rotola e con la bocca coperta di fango comincia a confessare, a voce alta, tutti i suoi peccati: Sono stato, gri­da, un grandissimo peccatore dinanzi a Dio! L’ho offeso in questo… e in quello…

Cosa merita il traditore che ha agito cosi? Che tutti lo picchino, lo maltrattino, lo considerino

E’ chiaro che Giovanni fece allora una enumerazione pre­cisa dei suoi peccati, che de Castro non poteva ripetere.

come l’uomo piu’ vile del mondo, ed infine lo gettino nel fango, nella fogna dei rifiuti! Nel vedere quella scena gli spettatori sono persuasi che ha perso la ragione; ma lui, tutto infiamma­to di amore di Dio, desideroso di morire per Lui, di essere schernito, disprezzato, appena uscito dal pantano e tutto coperto di fango, co­mincia a percorrere le vie della città saltellan­do e gesticolando come un insensato. I ragazzi­ni ed il popolino gli corrono dietro canzonan­dolo e gettandogli addosso terra e fango. Con molta pazienza e persino con gioia, come se avesse assistito ad una festa, Giovanni soppor­ta tutto, senza far male ad alcuno, felice di ap­pagare il suo desiderio di soffrire qualcosa per Colui che egli ama tanto. Tra le mani porta una croce di legno che offre a tutti da baciare, e se qualcuno gli dice: « Giovanni, bacia la ter­ra per amor di Dio », tosto egli obbedisce, an­che se c’è molto fango e l’ordine proviene da un bambino.

Questa descrizione tanto precisa in tutti i dettagli si ispira, è certo, alle testimonianze oculari, ma l’in­terpretazione dei fatti reca il segno di un sacerdote del XVI secolo. Per il biografo, infatti, Giovanni, molto cosciente, agisce con decisione, simulando la follia. Ora, la cosa non è del tutto semplice. Che l’uomo con­servi la propria lucidità, che acconsenta anche a degli impulsi morbosi che appagano i suoi profondi desideri di espiazione, non c’è dubbio; ma sono degli impulsi che lo trascinano e, sul momento, egli è incapace di resistervi: ecco il segno dell’affezione nervosa. De Castro continua:

Egli si abbandona con ardore tale a quegli ecces­si, che cade spesso a terra sfinito, disfatto dalla stanchezza, dagli spintoni e dalle botte… Appe­na lo videro in quello stato, due notabili di Granata, mossi a compassione lo presero per mano, lo strapparono a quell’assembramento chiassoso e lo condussero all’ospedale regio, dove venivano raccolti e curati i pazzi della cit­tà. Questi notabili pregarono il direttore di accettare Giovanni, per farlo curare. Mettetelo, gli dicono, in una camera dove non possa vede­re alcuno, perché si riposi; in tal modo forse guarirà dalla follia che ha contratto.

Richiesta molto prudente da parte di queste per­sone di buon senso. Ma Giovanni Cidade era ormai consegnato ai professionisti dell’epoca, che avevano i loro metodi di trattamento. Ed ecco il quadro presen­tatoci da de Castro:

Il direttore aveva visto Giovanni mentre circo­lava per la città ed era al corrente del suo com­portamento. Lo ricevette dunque subito ed ordi­nò ad un infermiere di portarlo dentro. Nei suoi abiti a brandelli, lo sventurato, coperto di feri­te ed ecchimosi prodotte dalle botte e dalle pietre, si trovava in uno stato così pietoso che si presero cura di lui senza indugiare. Dappri­ma gli diedero un buon vitto per rimetterlo e ristorarlo; ma vennero presto al trattamento principale, offerto in quel luogo alle persone della sua specie: frustate, messa ai ferri e altri simili procedimenti dolorosi e punitivi, destinati a far perdere loro la furia e a favorire il loro ritorno al buon senso. Fu così che gli infermieri legarono Giovanni per i piedi e le mani, lo denudarono e, con una buona corda piegata in due, gli somministrarono una scarica di colpi. Ma la sua malattia consisteva nell’essere ferito d’amore per Gesù Cristo. Cosi, per incitare gli infermieri ad assestargli più colpi, a trattarlo più brutalmente e permettergli di testimoniare un maggiore amore a Nostro Signore, Giovanni li incoraggia dicendo: Fratelli miei, colpite que­sta carne traditrice nemica del bene; è stata lei la causa di tutto il mio male; poiché le ho obbe­dito è giusto che paghiamo tutti e due, giacché tutti e due abbiamo peccato!

Al contrario, quando vedeva flagellare gli altri ma­lati mentali, suoi compagni, apostrofava gli infermieri in questi termini:

O traditori, nemici della virtù! Perché trattate tanto male e con tanta crudeltà questi poveri in­felici, miei fratelli, che si trovano in questa casa di Dio in mia compagnia? Non sarebbe meglio aver compassione delle loro prove, tenerli puliti e dar loro da mangiare con maggior ca­rità ed affetto di quanto fate? I « re cattolici » hanno assegnato, infatti, per assolvere questo compito, il vitalizio necessario.

Quando gli infermieri udirono queste parole,. credettero di trovarsi in presenza di un pazzo

aggravato da malignità. Di conseguenza, deside­rosi di guarirlo da ambo i mali, gli somministra­rono colpi più crudeli e numerosi di quelli che erano soliti infliggere alle persone giudicate sem­plicemente pazze…

Appena seppe che Giovanni Cidade si trovava all’ospedale regio, il d’Avila, che conosceva la causa del suo disordine mentale, mandò subito uno dei suoi discepoli a fargli visita. Giovanni ritenne come un gran favore ed un potente conforto l’iniziativa di Giovanni d’Avila; lo faceva visitare, si ricordava di lui, dimenticato da tutti in quella prigione. Il solo che, dopo Dio, lo ricordava e lo consolava nelle sue prove. Il povero afflitto ne piangeva di gioia, giacché era cosciente della grazia che il Signore gli accor­dava.

Nel frattempo gli infermieri dell’ospedale ave­vano gran cura del loro paziente e quando lo vedevano turbato non mancavano di sommini­strargli la flagellazione come agli altri, eviden­temente nell’intento di guarirlo, e sempre Gio­vanni la accoglieva con allegria. Di fronte ad un analogo trattamento inflitto ai suoi simili, gridava: Che Gesù Cristo mi accordi la grazia di possedere un giorno un ospedale dove io possa accogliere i poveri abbandonati e gli infelici privi di ragione, per servirli come desidero!

La sua dolorosa prova, del resto, andrà a termine rapidamente; riferisce difatti de Castro:

Dopo alcuni giorni trascorsi nell’ospedale, Gio­vanni cominciò a mostrarsi tranquillo, quieto, e a dichiarare: Benedetto sia il Signore, io mi sento in buona salute e libero da ogni angoscia. Il direttore e tutta l’amministrazione provarono una grande soddisfazione nel vederlo più cal­mo e nel sentirlo affermare che stava meglio. Subito gli tolsero i ferri e gli permisero di circolare liberamente per la casa. Ed egli senza attendere che ve lo invitassero, si mise a servire i malati con dedizione, strofinando, scopando e pulendo le stanze.

Se è vero che, per meglio comprendere quelli che soffrono e circondarli di una più calda simpatia, come pure di cure più sollecite, nulla sostituisce un’esperienza personale, non si può dubitare che Giovanni Cidade abbia ricevuto in quell’ospedale la migliore preparazio­ne alle sue future attività.

Ed ecco la conclusione che dà de Castro a questa parte della vita di Giovanni di Dio. Essa è, per noi, del maggiore interesse.

Giovanni si dedicava ancora alle sue occupazio­ni quando un giorno, seduto sulla soglia del-

l’ospedale, vide passare davanti all’edificio un corteo di cavalieri, di religiosi ed un folto clero, che conducevano ed accompagnavano il corpo dell’imperatrice, sposa di Carlo Quinto deceduta in quei giorni, nella cappella reale di Granata, per dargli sepoltura. Quello spettacolo impres­sionò vivamente Giovanni e consolidò in sé la ferma risoluzione di uscire senza indugio dal­l’ospedale, per realizzare i suoi buoni desideri:

servire Nostro Signore nei suoi poveri mendi­cando per il loro mantenimento, raccogliere gli abbandonati e i viandanti; quell’anno, infatti, la terra aveva dato poco e non c’erano ancora nella città degli ospizi che accogliessero i biso­gnosi. Avendo preso tale decisione, Giovanni si reca dal direttore e gli dice: Fratello mio, che Nostro Signore vi ricompensi per la beneficen­za e la carità che mi avete testimoniato in que­sta casa di Dio, per tutto il tempo che sono stato malato! Ora, che il Signore ne sia benedetto, mi sento bene e in grado di lavorare! Per amor di Dio e se è conforme alla sua volontà, lasciatemi dunque uscire! – Avrei voluto, rispose il diret­tore, vedervi rimanere ancora qualche giorno in questa casa, per completare la vostra convale­scenza e farvi riprendere le forze, giacché siete ancora debole a causa delle passate sofferenze. Ma poiché desiderate assolutamente andarvene, ritiratevi con la benedizione di Dio. Portate però con voi questo mw scritto, al fine di potervi re­care liberamente dove volete ed anche perché le persone che vi incontreranno non vi riconduca­no qui, ritenendo che non. siate guarito dalla vostra passata malattia. Giovanni ricevette il biglietto in tutta umiltà, contento di essere con­fermato nell’opinione che tutti l’avevano ritenu­to un vero pazzo.

Una volta di più, come ben si nota, pur riferendo fedelmente i fatti, de Castro li interpreta a modo suo. Per lui, è evidente, Giovanni Cidade ha recitato la parte del folle. Ora, contro questa opinione illogica, si leva la descrizione cosi viva dello stesso de Castro, che descrive Giovanni Cidade impegnato in atteggia­menti e attività esplosive, incoercibili e non dirette e calcolate come lo sarebbero necessariamente degli at­ti simulati; inoltre, conviene prendere alla lettera le parole di Giovanni che non mentiva: « Fratello mio, che Nostro Signore vi ricompensi per la carità che mi avete testimoniato in questa casa di Dio, per tutto il tempo che sono stato malato. Ora, mi sento bene e in grado di lavorare; per amor di Dio, lasciatemi dunque uscire! ».

In breve, la Vita di Giovanni di Dio secondo il suo contemporaneo de Castro, letta attentamente ed inter­pretata secondo i criteri scientifici moderni, come an­che le testimonianze concordi dei notabili di Granata, del direttore dell’ospedale regio e del paziente stesso, ci permettono di dedurre molto verosimilmente: No, Giovanni di Dio non ha simulato la follia. Egli è stato malato come lo esprime lui stesso in termini moder­ni e dignitosi: « He estado enfermo ».

 

VI. BAEZA E NOSTRA SIGNORA DI GUADALUPE

Poco prima di essere dimesso dall’ospedale, Gio­vanni aveva ricevuto la visita di un discepolo di Gio­vanni d’Avila. Quella visita lo aveva grandemente ri­confortato, come nota de Castro. Essa dimostra anche che Giovanni d’Avila continuava a seguire da lontano quell’eccezionale penitente che la Provvidenza gli ave­va affidato. Ora, lo stesso evento che aveva spinto Giovanni Cidade a chiedere la dimissione dall’ospedale fu anche l’occasione per un nuovo incontro con il suo Padre spi­rituale. Infatti, nonostante il silenzio di de Castro su questo punto, sappiamo da un manoscritto inedito della biblioteca del duca di Gore, a Granata, pubblicato da Manuel Gomez Moreno nel 1950, che il lunedì suc­cessivo ai funerali dell’imperatrice Isabella, si celebrò ancora in Granata una messa solenne per la defunta, presieduta dall’arcivescovo del luogo, durante la quale il Padre d’Avila prese la parola.

Giovanni Cidade, libero da due giorni, si trovava certamente nell’uditono e dopo la cerimonia si intrattenne con il suo Padre spirituale. Quest’ultimo si accor­se con soddisfazione che il suo penitente, finalmente tranquillizzato, restava sempre animato dai medesimi sentimenti di contrizione. Inoltre, Giovanni gli mani­festò il suo desiderio di servire i poveri e gli amma­lati per amor di Gesù Cristo.

Fin lì, il ruolo del Padre d’Avila, dopo aver con­fermato Giovanni nella sua conversione a Dio, tendeva piuttosto a moderare gli ardori e l’impetuosità dei suoi sentimenti di pentimento, attendendo che il tempo ve­nisse a ristabilire progressivamente il suo equilibrio nervoso un po’ scosso.

Raggiunto questo primo scopo, bisognava assicu­rare a Giovanni Cidade un riposo occupato e corrobo­rante, poi un tempo di riflessione, di formazione e di preghiera. Questo pensò il prudente direttore, che in­vitò il suo penitente ad accompagnarlo a Baeza, dove l’organizzatore dei funerali imperiali non tardò a farli accompagnare.

Piccola città della provincia di Jaén, ad una qua­rantina di chilometri a Nord-Est di Granata, Baeza è situata al confine dell’Andalusia e della Mancia. Di aspetto tipicamente castigliano, ricca di monumenti d’arte, essa è appollaiata su una collinetta che domina la vallata del Guadalquivir.

Giovanni d’Avila vi risiedeva in modo abituale dal 1538, e vi diresse per alcuni anni il collegio dei ragaz­zi della SS. Trinità, presso la chiesa dello Spirito San­to. In quella istituzione egli poté affidare alcune occu­pazioni materiali al suo protetto, riservandogli un tem­po sufficiente per la lettura della Sacra Scrittura, di libri spirituali e per numerosi incontri, nel corso dei quali lo fortificava nell’amor di Dio, nelle credenze della nostra fede, nella pratica dell’orazione e delle virtù.

A questo riguardo, un testimone verace al processo di beatificazione di Giovanni di Dio, Luca Coronado, scrittore ecclesiastico sessantenne della vicina città di Ubeda, ha riferito di aver sentito dire da Antonio de Vega, libraio a Baeza, che Giovanni Cidade aveva sog­giornato per qualche tempo al collegio della SS. Trinità, in compagnia di Giovanni d’Avila.

Lo stesso Antonio de Vega, allora insegnante di let­teratura ai ragazzi, era in contatto quotidiano con Gio­vanni ed aveva notato che il nuovo venuto non si coricava nel suo letto ed accendeva la lanterna due o tre volte nel corso della notte per pregare. Antonio de Vega aveva anche ammirato la grande pazienza di Giovanni ed il suo amore per la sofferenza. Egli trovava la sua felicità – annota ancora de Vega – nei biasimi, nelle offese e nelle prove. Era felice quando i giovani alunni lo schernivano e lo disapprovavano con fischi. Se riceveva una scarpata, un colpo sulla nuca, si affret­tava a parlarne al Padre d’Avila come di un guadagno inaspettato.

In breve, i quattro o cinque mesi che Giovanni tra­scorse presso il suo direttore furono cosi ben impiegati che quest’ultimo lo giudicò atto a realizzare finalmente il suo grande desiderio di servire i poveri e gli amma­lati per amore di Gesù Cristo. Prima di intraprendere quest’opera Giovanni volle, tuttavia, d’accordo con il suo direttore, compiere un pellegrinaggio a Nostra

Signora di Guadalupe per chiederle soccorso ed assi­stenza.

Da Baeza a Guadalupe ci sono all’incirca trecento-sessanta chilometri, una distanza moderata per il nostro uomo, buon camminatore. Uno dei suoi ultimi biografi spagnoli non ha intitolato la sua opera La Perpetua Andadura, « La marcia perpetua », proprio per sotto­lineare uno degli aspetti più salienti di quella vita?.

Sembra che Giovanni abbia intrapreso il viaggio verso la metà di ottobre 1539. Gli furono sufficienti una ventina di giorni per raggiungere Guadalupe. Il pellegrinaggio lo fece con un gran freddo, secondo de Castro, senza denaro e costretto a mendicare il nutri­mento. Tuttavia, aggiunge il biografo,

 

per non restare inoperoso, rimase sempre fedele alla seguente abitudine: quando giungeva in una località per prender cibo o fermarvisi, portava sulle spalle un fascio di legna e andava all’ospe­dale, se ce n’era uno, a lasciarvelo per i pove­ri; dopo chiedeva quanto gli bastava per nu­trirsi in modo austero.

Fin dalla giovinezza, Giovani conosceva Nostra Si­gnora di Guadalupe, la regina della montagna di Villuercas. L’aveva visitata prima del suo arrivo ad Oropesa, non lontana di lì. Può darsi che ci sia ritor­nato dopo? In ogni caso, ne aveva sentito parlare mol­to. Questo santuario, situato ai confini dell’Estrema-dura e della Castiglia, accanto ad un monastero eretto verso il 1369 ed appartenente ai Fratelli di san Girola­mo, è uno dei luoghi più celebri della Spagna.

Qui, alcuni anni prima, degli esploratori e dei « con­quistadores » famosi erano venuti a confidare i loro sogni e i loro progetti avventurosi alla Vergine di Gua­dalupe, prima di introdurre il suo nome e la sua devo­zione nelle terre del Nuovo Mondo, da loro conqui­state per la corona di Spagna. Oggi, un umile pelle­grino entra in chiesa in ginocchio, venera la Vergine miracolosa e, per suo tramite, espone i propri bisogni a Nostro Signore e lo ringrazia di tutti i suoi benefici.

Pieno di fiducia, prega Nostra Signora di benedire i suoi progetti di dedizione ai poveri, ai malati a tutti gli uomini per amore di Dio.

Il pellegrino rimase a Guadalupe alcuni giorni, vi si confessò e comunicò. Egli risiedeva nell’ospedale ret­to dai Fratelli di san Girolamo nelle dipendenze del monastero e prendeva parte ai lavori e alle cure nelle sale. Seguendo i consigli del previdente maestro d’Avila, si informò anche sull’organizzazione e sul funziona­mento dei diversi servizi, per prepararsi alla sua opera futura.

Giunse il momento del suo ritorno. Giovanni rag­giunse direttamente Baeza per rendere conto al suo direttore delle peripezie del pellegrinaggio. Il maestro d’Avila lo ricevette con gioia e gli diede, secondo de Castro, le seguenti istruzioni:

Fratello Giovanni, è necessario che ritorniate a Granata, dove siete chiamato da Dio; e Lui, che conosce le vostre intenzioni ed i vostri desi­deri, vi indicherà il modo in cui dovrete ser­virlo. Abbiatelo sempre presente, in tutte le vostre azioni; considerate che vi guarda e lavo­rate come in presenza di un si grande Signore. Arnvando a Granata prendete subito un confes­sore, come già vi avevo detto. Che egli sia il vostro Padre spirituale. Non fate nulla di im­portante senza il suo parere. Quando si presen­terà qualcosa per la quale riterrete di aver biso­gno dei miei consigli, scrivetemi là dove mi trovo. Mi comporterò verso di voi, in ogni cosa, come vi sono obbligato dalla carità, con l’aiuto di Nostro Signore.

Il lettore avrà notato quanto siano ferme e precise le direttive impartite da Giovanni d’Avila al suo diret­to. L’ascetismo dell’apostolo dell’Andalusia è impron­tato ad una nota aspra e severa, che gli ispira delle formule sorprendenti: Sottoponete il vostro corpo al dolore e fatelo vivere sulla croce! E ancora: Non desi­dero consolazioni per i miei figli, ma pene e frustate.

Queste osservazioni, suggerite dall’introduzione fatta da Jacques Cherprenet alla traduzione dell’opera Audi Filia del beato Giovanni d’Avila, ci permetteranno di interpretare con cautela le tre lettere, piuttosto severe, del maestro d’Avila a Giovanni di Dio, allorché saranno citate nelle loro parti essenziali nel corso del racconto.

Allora, munito delle istruzioni del suo direttore e dopo essersi congedato da lui, Giovanni Cidade si pose in viaggio alla volta di Granata.

 

VII.       A GRANATA AL SERVIZIO DEI POVERI

Giovanni Cidade arrivò a Granata verso la fine di novembre 1539. Aveva quarantaquattro anni. Il suo primo soggiorno in questa città, benché breve, aveva avuto su di lui un’importante ripercussione. Può rias­sumersi così: una dozzina di settimane, al massimo, nella bottega presso la porta d’Elvira; alcune ore dram­matiche di una sconvolgente conversione; un breve e mortificante periodo di malattia all’ospedale regio segui­to da tre mesi di convalescenza consacrati al servizio dei malati mentali che si trovavano nell’ospedale. Era la fine della sua lunga e mortificante vita privata, assai poco nota all’intorno. D’ora innanzi egli entrava nella vita pubblica, che durò appena undici anni, ma fu suffi­ciente a questo sconosciuto per diventare una delle glorie della Spagna del secolo d’oro, il « Padre dei poveri ».

Situata ai piedi della Sierra Nevada che raggiunge i 3.478 metri, Granata gode di un clima privilegiato, tro­vandosi a 700 metri d’altitudine. Gaia, ridente ed ani­mata, si stende nel cuore della fertile « Vega de Grana­da » (il frutteto di Granata), alla confluenza del Genil e del Darro., che diffondono la fecondità ed offrono le loro acque cristalline alle numerose fontane e canali della città. Per sette secoli Granata fu sotto il domi­nio musulmano. Con esso aveva acquisito una grande prosperità nell’agricoltura, nell’industria, nelle seterie e si era arricchita di magnifici monumenti: l’Alhambra, il Generalife, le mura d’Albaicin, ecc. Riconquistata nel 1492 dai « re cattolici », Ferdinando ed Isabella, quarantotto anni soltanto prima dell’arrivo di Giovan­ni Cidade, si trovava ancora in un periodo di transi­zione e di decadenza. L’islamismo vi era sempre pre­sente, ma soprattutto sotto l’aspetto di convertiti più o meno volontari, soprannominati moriscos. D’altra parte, cristiani, ebrei, moriscos e avventurieri vivevano fianco a fianco in mezzo a molte miserie.

Per portarvi rimedio, Giovanni si prodigherà senza misura. Gli inizi, secondo de Castro, non furono bril­lanti. Fin dal primo giorno di presenza, Giovanni, dopo aver ascoltato la messa, si diresse verso la montagna per raccogliere un fascio di legna. Ritornando con quel fascio, provò un vivo senso di vergogna ad entrare cosi in Granata. Vinto da essa, non osò oltrepassare la porta di « Los Molinos », molto distante dal mercato della città, e diede la legna ad una povera vedova in cam­bio di un po’ di cibo. Vergognandosi della propria vil­tà, il giorno successivo, dopo aver ascoltato la messa, durante la quale implorò con insistenza l’aiuto del Signore contro il rinascente amor proprio, Giovanni si recò a raccogliere un altro fascio di legna sulla monta­gna. Ora, nel ritornare in città con il carico, cominciò a provare la stessa vergogna della vigilia. Questa volta, con l’aiuto della grazia divina, passò oltre e per stimolarsi si mise ad inveire contro il proprio corpo: Cosi,signor asino, per dignità, per puntiglio d’onore, ti rifiu­ti di entrare a Granata carico di legna. Subito porterai questa legna fino alla piazza principale. Si, abbasso questa alterigia, abbasso quest’orgoglio! Di fatto, vi si reca. Subito è riconosciuto. I curiosi lo attorniano. I burloni esclamano: Come, Giovanni, eccoti ora un boscaiuolo! A cosa ti è servito il soggiorno in ospedale? E’ incredibile! Non la smetti di cambiar mestiere! Per nulla sconcertato, Giovanni sopporta tutto con gioia e con il sorriso: Ma si, continua lui; è come al gioco di « birlimbao », con la sua nave e le tre galere: più ci si lambicca il cervello, meno lo si comprende. E i giochi di parole si succedevano da ambo le parti. In breve, pieno di allegria, egli rispondeva a tutti con spi­rito; finalmente uno spettatore acquistò il fascio a buon prezzo. Col denaro ricevuto, Giovanni si procurò alcuni viveri che poi divise con i poveri che si trovavano sulla piazza.

In realtà, molte persone erano persuase che vi erano ancora in Giovanni tracce della sua vecchia malat­tia. Ma lui, senza curarsi di questi giudizi e delle beffe, continuò ogni giorno a raccogliere un carico di legna, che poi vendeva sulla piazza di Bibarrambla. Qui egli trovava sempre l’acquirente, giacché il freddo infieriva. Del denaro cosi guadagnato, riservava solo una piccola parte per i suoi bisogni ed il resto lo di­stribuiva ai poveri che erano lungo le strade, sulle piaz­ze e, di sera, sotto le logge dei palazzi, sotto i portici delle case borghesi. Egli stesso si stabiliva in mezzo a loro durante le poche ore concesse al sonno ogni not­te. Infatti, se Giovanni dedicava molte ore del giorno ai suoi poveri, una parte della notte pregava e si ab­bandonava all’orazione. Si alzava di buon mattino e non tralasciava mai la messa. Più volte, nel corso della giornata, visitava a lungo il Signore presente nel taber­nacolo delle chiese. In Giovanni Cidade era avvenuta una vera trasformazione. La grazia lo aveva rinno­vato e, appoggiato su una solida umiltà, vi corrispon­deva del suo meglio. Il crescente amore per Cristo lo spingeva, sempre più, a dedicarsi agli infermi ed ai bisognosi.

Senza dubbio, dividere il frutto del proprio lavoro con i poveri aveva il suo valore. Ma alla vista di tante miserie e sofferenze, Giovanni capiva bene che la sua generosità non era proporzionata ai bisogni. Ne aveva il « cuore infranto ». Cosi rifletteva davanti al Signore sui mezzi per apportare un aiuto più efficace a tutti quegl’infelici.

D’altra parte, la regolarità, la costanza con cui con­tinuava a confortare i poveri, il suo spirito di pietà, la sua pazienza, attirarono la benevolenza delle persone e le raccomandazioni del maestro d’Avila gli portaro­no dei nuovi benefattori. Questi ultimi, con il con­corso del Padre Portillo, che Giovanni aveva scelto come direttore spirituale, gli offrirono il denaro per acquistare un locale dove avrebbe riunito i poveri e li avrebbe cosi curati più facilmente ed in modo più assiduo. La sua fede nella Provvidenza cresceva sempre più; cosi, conformemente alla certezza datagli da Gio­vanni d’Avila, il Signore gli aprì le vie. Attraversando un giorno il mercato del pesce, vicino alla cattedrale dove si recava a pregare, scorse di fronte al mercato, sulla via Lucena, una casa disabitata. Vi entra, la visita e l’affitta subito. Per arredare le stanze dell’unico piano, egli acquista alcune stuoie, dei cuscini e delle vecchie coperte dove i suoi protetti, poveri ed infermi che egli radunava per l’addietro at­torno alla piazza di Bibarrambla, avrebbero po­tuto riposare in modo più confortevole, giac­ché non poteva ancora far meglio, né aveva altro rimedio da portar loro.

La stanza di sotto, più spaziosa, era riservata ai viandanti poveri, che vi trascorrevano la notte su dei banchi, attorno ad un grande camino dove si ac­cendeva un bel fuoco quando faceva freddo.

Più tardi, un sacerdote della cappella reale gli do­nò trecento reali. Giovanni ne approfittò per acquistare quarantasei letti modesti, composti ciascuno di una stuoia, due coperte ed un capezzale sormontato dalla croce. Impiegò il rimanente denaro per l’acquisto di una parte dei mobili e degli utensili necessari ad un piccolo ospizio e asilo notturno. Poté cosi realizzare una migliore ripartizione dei suoi protetti ed una clas­sificazione sommaria. Da notare che, contrariamente all’uso corrente, egli non ammetteva che un solo oc­cupante per letto.

Per assicurare la sussistenza ai suoi assistiti, Gio­vanni non mancava, un po’ prima della chiusura del vicino mercato, di andare a sollecitare i pescivendoli, che gli cedevano volentieri per i suoi poveri i pesci invenduti che non potevano essere conservati. Giovan­ni ne faceva delle buone zuppe e, talvolta, quando il ricavato della questua era abbondante, delle succulente « pietanze alla marinara » tanto apprezzate dagli abi­tanti delle coste. Ben presto trovò anche altri bene­fattori tra i rivenditori di generi alimentari della piazza di Bibarrambla.

Evidentemente queste collette non potevano bastare:

così Giovanni percorreva ogni sera, uno dopo l’altro fino all’una di notte, alcuni quartieri della città. Egli camminava, con una gerla sulla schiena, due grosse marmitte ai lati, sorrette da una corda passata sulle spalle, e mendicava gridando: Qualcuno vuole fare del bene a se stesso? Fratelli miei, per amor di Dio, fate del bene a voi stessi!. Questo nuovo modo di chiedere l’elemosina suscitava la sorpresa e la curiosità e gli procurò subito delle grandi risorse, tanto la sua carità era comunicativa. « La sua voce commovente, dotata dal Signore di una virtù speciale, arrivava al cuore di tutti » (De Castro). Alcuni davano denaro, altri il pane, la carne, o i legumi. Quando era carico di provviste rientrava, preparava i pasti, aiutato all’ini­zio soltanto dai più validi tra i suoi assistiti; poi distri­buiva a ciascuno il necessario, chiedendo a tutti di pregare per i loro benefattori.

L’opera di Giovanni non tardò a farsi conoscere, i poveri si presentavano da sé. Egli avrebbe desiderato non rifiutarne alcuno, ma, oltre al fatto che la casa non poteva ospitare più di un certo numero, alcuni poveri viziosi abusarono dei suoi benefici. Si udirono dei reclami. D’altra parte, delle persone prudenti non vedevano senza timore la presenza di donne e ragazze povere ospitate anch’esse da Giovanni. Sorsero delle critiche e delle lamentele, tanto che il Padre Portillo credette di dover porre delle riserve riguardo all’ac­cettazione dei soggetti scandalosi e delle donne. Da parte sua, Giovanni si allarmava per una severità ritenuta eccessiva e contraria al precetto divino della carità. Nella sua perplessità, ricorse ai consigli del Padre d’Avila, esponendogli in una lettera, in tutta semplicità, le proprie difficoltà ed i propri dubbi.

Fratello mio, gli rispose il maestro d’Avila, mi avete dato una grande consolazione eseguendo esatta­mente ciò che avevamo deciso insieme riguardo all’ob­bedienza che dovete al Padre Portillo circa la direzio­ne dei poveri. Se agite sempre cosi vi troveremo, tutti e due, un grande conforto. Al contrario, temo molto che il diavolo vi inganni, se vi comportate secondo le vostre proprie idee. In fatti, quando egli non può otte­nere che qualcuno faccia il male, si sforza di fargli fare il bene in modo disordinato; ora, senza ordine, nulla può sussistere… Così, fratello mio, abbiate cura di sotto-mettervi al parere altrui, ed il diavolo non vi inganne­rà… Passando ai consigli pratici, ecco ciò che aggiunge il Padre d’Avila: State attento che le donne che vi sforzate di attirare al servizio di Dio non vi causino dei grandi imbarazzi e delle gravi spese. Sarebbe me­glio non tenerle, ma maritarle appena possibile, o met­terle al servizio di qualche dama, altrimenti rischiereb­bero di perdersi. Non accettate pia nel vostro ospedale soggetti litigiosi, lo diffamerebbero; benché vi sembri che sia una mancanza contro la carità scacciare qual­cuno per questa ragione. Infatti, spesso il timore di far torto a qualcuno è la causa della perdita di molti. Quando una parte del corpo è in cancrena la si asporta per salvare il resto del corpo. E sarebbe crudeltà, non compassione, agire diversamente… Se voleste compor­tarvi seguendo il vostro parere, cadreste nell’errore e Dio vi punirebbe. Dio non vi ha chiamato per diri­gere, ma per essere diretto; non potete servirlo che obbedendo. E in questo caso, non avete nulla da temere, poiché Dio non vi chiederà conto di ciò che avrete fatto dietro consiglio altrui. Il maestro termina con questo augurio: Se dunque mi amate e volete obbedirmi, obbe­dite al Padre Portillo, che vi do per Padre in vece mia. Ascoltate tutto ciò che vi dirà, come se ve lo dicessi io stesso… finché Dio voglia che ci rivediamo.

Una risposta cosi piena dello spirito di Dio e così ricca di esperienza portò i suoi frutti. Giovanni rin­graziò Dio di avergli dato un tale maestro. Egli capì meglio il modo di vedere del Padre Portillo e si ripro­mise di essergli sempre più docile; in particolare, mo­strò una maggiore fermezza nei confronti dei perturba­tori e si contentò di soccorrere i poveri ed i malati che l’ospizio poteva ospitare. In breve, la sua carità, sem­pre molto attiva, divenne più prudente e sottomessa. Assiduo nel lavoro, aveva tuttavia il volto abitualmen­te allegro e la sua conversazione era tanto dolce quanto seria. I benefattori che visitavano la casa la trovavano in tanto buon ordine ed i poveri vi erano cosf ben curati, che essi si meravigliavano di un simile risultato otte­nuto da un uomo solo.

Tra i suoi primi protettori vi fu don Sebastiano Ramirez de Fuenleal, vescovo di Tuy e presidente della cancelleria di Granata dal 1538 al 1540. Quest’uomo di grande virtù apprezzava molto la dedizione ed il savoir-faire di Giovanni. Gli offrì generose elemosine e lo invito più volte alla sua tavola. Sebbene gli avesse dato anche degli abiti convenevoli, Giovanni, che li scambiava subito – secondo l’abitudine – con quelli del primo povero incontrato, si presentava da don Rami­rez in stracci. Il prelato non osava rimproverargli la grande carità, ma pensava tuttavia che il suo abito troppo dimesso potesse essere un ostacolo per l’adem­pimento dell’opera a cui Dio lo destinava. Servendosi della propria autorità e della fiducia ispiratagli, don Se­bastiano riusci a convincerlo ad abbandonare per sempre gli abiti cenciosi. Li sostitui con una tunica, dei calzoni di tela ed un cappotto di sargia color cenere, abito che, senza essere religioso, lo avrebbe distinto dal resto degli uomini. Parimenti, sapendo che si chia­mava Giovanni, il prelato gli disse che d’ora innanzi si sarebbe chiamato « Giovanni di Dio ». – « Oh si, rispose lui, se piace a Dio! ».

Questa specie di presa di abito, della quale non si può con esattezza fissare l’epoca, ebbe tuttavia luogo prima del 28 gennaio 1540, data della promozione di don Sebastiano Ramirez alla sede arcivescovile di Leon.

Né il prelato, né il servo dei poveri avevano inten­zione di istituire una nuova congregazione religiosa; così, don Ramirez non impose delle regole per coloro che volevano inserirsi nel servizio dell’ospedale. Da parte sua, Giovanni di Dio non lasciò altro fondamento alla sua opera che l’esempio della propria carità e pe­nitenza. Tuttavia, non appena videro Giovanni di Dio rivestito del nuovo abito, molte persone caritatevoli, senza abbandonare il proprio stato, vennero nei mo­menti liberi ad aiutarlo nelle cure mediche; altre si occupavano dei vestiti e della biancheria, mentre i po­veri più validi lo aiutavano nei lavori domestici. In realtà, in base agli studi cronologici del Padre Saucedo, fu solo verso la fine del 1545 che Giovanni di Dio attirò con il proprio esempio i suoi primi due discepoli permanenti.

Il lavoro abituale compiuto da Giovanni di Dio per raccogliere le elemosine, mantenere la casa e curare i poveri, costituiva una penitenza ed una mortificazione appena tollerabili, con le sole forze naturali, da un uomo robusto. Nondimeno, secondo de Castro, non si contentava di tutto quel lavoro faticoso ma, con numerosi atti di austerità, mortificava la propria carne. Mangiando poco e di una sola pietanza, egli consumava dei cibi grossolani. I giorni di precetto osservava il di­giuno prendendo un magro cibo a mezzogiorno e pri­vandosi dello spuntino la sera. I venerdf stava a pane ed acqua e si dava tremende discipline…

Coperto con un pezzo di vecchia coperta, dor­miva su una stuoia poggiata per terra con una pietra per cuscino o, altre volte, nella carretta di un paralitico deceduto, messa in uno stretto bugigattolo sotto una scala. Camminava scalzo e a capo scoperto con ogni tempo. Tuttavia, ave­va pietà delle più lievi sofferenze del suo pros­simo, come se vivesse egli stesso con grande larghezza di mezzi.

 

VIII. SVILUPPO DELL’OSPEDALE

All’inizio, la casa di carità impiantata nel dicem­bre 1539 in via Lucena, di fronte al mercato del pesce, si presentava piuttosto come un asilo notturno o un pic­colo ospizio. Giovanni di Dio, badando a ciò che gli sembrava più urgente, assicurava un ricovero ai poveri, validi o infermi leggeri, venuti da sé o raccolti nei pressi della piazza di Bibarrambla. Nella primavera suc­cessiva, un buon numero di essi si sparpagliò nelle cam­pagne granatesi; Giovanni di Dio ne approfittò per sostituire progressivamente le stuoie con dei veri letti con materassi, lenzuola e coperte, nelle stanze del pri­mo piano. Egli poté così, come negli altri due ospedali della città, ospitare i malati e gli invalidi che giacevano abbandonati sulle piazze e lungo le strade. Li portava per mano o appoggiati al suo braccio, e non esitava a prendere i più deboli sulle spalle.

A tal proposito de Castro riporta un aneddoto che possiamo cosi riassumere: una sera d’inverno, buia e tempestosa, Giovanni di Dio rientrava sul tardi al­l’ospedale, avendo in mano un cesto pieno di viveri e sulla schiena un povero trovato gemebondo sulla « Plaza Nueva ». Saliva con fatica il pendio di « los Gomeles ». All’improvviso si abbatte un acquazzone spaventoso, il rivolo si trasforma in un torrente impe­tuoso ed atterra Giovanni di Dio con il suo carico. Al rumore della caduta in acqua e alle grida del povero, un avvocato si affaccia alla finestra del suo pian ter­reno. Egli vede e sente Giovanni di Dio mentre si picchia col bastone e si castiga: Cosi, signor asino, stupido, fiacco, pigro, inetto, non hai forse mangiato oggi? Allora perché non lavori? I poveri ti attendono e questo moribondo, in che stato l’hai messo? A queste parole egli si rialza e, con un vivo sforzo, si ricarica il malato, afferra il cesto e, con l’aiuto del bastone e l’acqua a mezza gamba, si trascina fino all’ospedale do­ve giunse sfinito. Il giorno dopo l’avvocato, testimone e relatore dell’accaduto, interrogò Giovanni di Dio sulla caduta; costui rispose come se non si ricordasse di nulla.

Agiva sempre così per evitare la sufficienza.

Altri malati venivano da soli o introdotti da persone caritatevoli che si occupavano di loro.

Il primo pensiero di Giovanni di Dio, nel rice­verli, era di lavare loro i piedi e persino tutto il corpo all’occorrenza.

Poi dava loro della biancheria pulita e li metteva a letto, mettendo in una stanza i febbricitanti, i feriti nella seconda, gli invalidi nella terza. La grande sala del pian terreno rimaneva sempre a disposizione dei viandanti e dei poveri ambulanti.

Ogni giorno, su invito di Giovanni di Dio, alcuni medici visitavano i malati gratuitamente. Per l’assisten­za spirituale, alla quale rivolgeva un’attenzione par­ticolare, Giovanni aveva fatto ricorso a degli zelanti sacerdoti. Egli intendeva curare le anime mentre cura­va i corpi. E quando curava i corpi, era anche per salvare le anime. Attraverso i corpi, alle anime!, ripe­teva spesso.

Restava da distribuire le medicine ai malati e da medicare le piaghe dei feriti; Giovanni di Dio se ne incaricava per una buona parte; ma è credibile che, fino all’arrivo dei compagni di vita, egli facesse ricorso per un aiuto non soltanto a delle persone di buona volontà, ma anche ad ausiliari retribuiti. In tal modo, i compiti di Giovanni di Dio non cessavano di aumen­tare. Le solite questue di porta in porta non potevano più bastare. Fu allora che egli si preoccupò di ottenere dei soccorsi più importanti, necessari per il buon an­damento della casa di carità, rivolgendosi alle persone ragguardevoli di Granata, che lo avevano finalmente notato e capito, tanto apparivano evidenti la sua perse­veranza, l’ordine delle sue imprese ed i loro costanti progressi. Fece, inoltre, appello a dei nobili ricchi del­l’Andalusia e delle province circostanti, quasi tutti figli spirituali del maestro d’Avila, in occasione dei loro pas­saggi o soggiorni a Granata.

Fu così, particolarmente, che approfittò della pre­ senza in città del marchese di Tarifa, don Pedro Enri­quez, per chiedergli l’elemosina. Quando Giovanni di Dio si presentò alla sua residenza, il     marchese stava giocando con degli altri si­gnori, e gli consegnarono venticinque ducati.

Per il questuante era veramente un guadagno ina­spettato e, nel ringraziare Dio, pensava a come avreb­be potuto impiegare questa forte somma. Ora, continua de Castro, mentre Giovanni di Dio camminava con questi pensieri, il marchese di Tarifa, che aveva sentito parlare tanto della sua grande carità, volle – per scher­zo – metterlo alla prova. Dopo essersi rapida­mente travestito, con passo rapido raggiunse Gio­vanni e, fermandoglisi dinanzi, gridò: Fratello Giovanni, io sono un cavaliere di alto grado, straniero e povero, qui in causa; provo immense difficoltà a mantenere il mio onore. In formato della vostra carità, vi prego di aiutarmi, affinché non offenda Dio. Avendo considerato il suo atteggiamento, Giovanni gli rispose: Io mi do a Dio, tutto ciò che ho è vostro. E portando la mano alla borsa, consegna, senza esitazione, i venticinque ducati in questione. Il marchese li prende, ringrazia e, tutto meravigliato, va a rag­giungere gli altri signori per raccontare loro il fatto. E tutti, ammirando una simile carità, cele­brarono l’avvenimento come meritava. Allorché c’erano tanti poveri da soccorrere, egli si mostra­va così prodigo verso uno solo! Che fiducia nella Provvidenza! Questa fiducia non fu delusa. Il marchese, infatti commosso da tale prodigio, mandò a dire a Giovanni, il mattino seguente, di non assentarsi poiché voleva recarsi a visitare l’ospedale.

Appena giunto, il marchese comincia a scher­zare con il sant’uomo e a dirgli: Eh dunque, fratello Giovanni! mi hanno detto che vi hanno derubato ieri sera. – Io mi do a Dio, ma no! Non mi hanno derubato! Poi, dopo uno scambio di parole amabili e divertenti, il marchese ripren­de: Ora, fratello mio, perché non possiate negare il furto, Dio mi ha permesso di ritrovare la som­ma derubata: eccoli, i vostri venticinque ducati e, inoltre, centocin quanta scudi d’oro che vi do come elemosina. Un’altra volta, state attento a ciò che fate! Infine, ordinò di portargli cen­tocinquanta pani, quattro montoni e otto polla­stri e di fornirgli ogni giorno lo stesso quanti­tativo, per tutto il tempo che sarebbe rimasto a Granata.

Talvolta, le sue migliori collette avvenivano in mo­do sorprendente. Un giorno, di buon’ora, racconta in sostanza de Castro, allo scopo di cercare da mangiare per i suoi poveri, Giovanni scendeva lungo la strada de « los Gomeles », mentre un cavaliere la risaliva. Senza volere, il questuante urta col suo cesto la cappa del cavaliere e gliela fa cadere dalle spalle. Questi, molto irritato, si volta e grida: Ah! Furfante, briccone! Non potreste guardare dove camminate? – Scusatemi, fratello mio, rispose Giovanni con molta pazienza, non sono stato attento. Il marchese, nel sentire quel « voi », quel « fratello », diventò ancora più furioso e, voltandosi, gli dà uno schiaffo sul viso. – Ho sbagliato, l’ho ben meritato, datemene un altro!, replica Giovan­ni. Ma siccome gli parla ancora in seconda persona, il cavaliere grida ai suoi domestici: Correggete questo vil­lano maleducato! Essi eseguivano l’ordine davanti alle persone che si raggruppavano, quando uscì un vici­no, Giovanni della Torre. Cosa accade, fratello Gio­vanni di Dio?, egli grida. A questo appello l’aggressore, prostrato, si getta ai piedi della sua vittima ed afferma che non si rialzerà prima di averglieli baciati. Giovan­ni di Dio si affretta a rialzarlo e, tutto commosso, si abbracciano l’un l’altro. In compenso, il questuante ri­cevette cinquanta ducati d’oro per i suoi poveri.

In un’altra circostanza, sempre secondo de Ca­stro, Giovanni di Dio andava al palazzo della vecchia Inquisizione per chiedere l’elemosina; ora, mentre cam­minava lungo una vasca piena d’acqua, un arzillo pag­gio gli si avvicinò e’ con un colpo secco, lo fece cadere nell’acqua. Senza il minimo lamento usci dall’acqua e, tutto allegro, ringraziò il giovane bricconcello. Numero­si in quel momento, i testimoni che, pieni di ammirazio­ne, gli distribuirono grandi offerte e furono poi anno­verati fra i benefattori della sua opera.

Cosi trascorsero gli anni in cui Giovanni non ave­va ancora dei compagni che lo seguissero. Nel frat­tempo, oppresso com’era dai lavori e dai pensieri, attra­versò un periodo di difficoltà non solo di carattere mate­riale, ma anche morale, e si decise a consultare il mae­stro d’Avila.

Ho ricevuto la vostra lettera, gli risponde il suo direttore, e non desidero che mi diciate di non meritare che vi riconosca come figlio, perché siete cattivo, poiché per la stessa ragione io non meriterei d’essere vostro Padre, in quanto sono pia cattivo di voi e quindi pia degno d’essere disprezzato. Pure, il Signore ci tiene per suoi, benché siamo tanto deboli; ecco perché dob­biamo imparare ad essere misericordiosi gli uni verso gli altri ed a sopportarci con carità, come egli fa con noi. Fratello mio, ci tengo molto: rendete un conto esatto a Nostro Signore di tutto ciò che vi ha dato, poiché il servo buono e leale deve guadagnare cinque talenti con gli altri cinque che gli sono stati consegnati… Fate ciò che vi ordineranno, senza dimenticare voi stesso. Vi servirebbe poco l’aver tratto tutti gli altri dal fango, se ci rimaneste voi stesso. E’ per questo che vi esorto di nuovo a riservarvi un po’ di tempo per pre­gare il Signore, per ascoltare tutti i giorni la messa e, la domenica, la predica; in ogni caso astenetevi dal trat­tare molto con le donne: sapete bene che esse servono al diavolo come trappola per far cadere i servi di Dio. Voi sapete come David peccò per averne guardata una. Suo figlio Salomone peccò per amore di molte e perse talmente il buon senso che collocò degli idoli nel tem­pio del Signore. E poiché noi siamo molto pia deboli di loro, guardiamoci dal cadere. Profittiamo della lezio­ne. Non dobbiamo ingannarci, dicendo che desideria­mo loro essere utili, poiché, sotto i buoni desideri, si trovano i pericoli quando manchiamo di prudenza, e Dio non vuole che io procuri il bene altrui a spese della mia anima.

A proposito delle necessità di cui mi parlate, ve l’ho già scritto: ce ne sono ovunque, e quando ci mettiamo a chiedere ci viene risposto: « E’ già un grave compito provvedere alle necessità del vicinato ».

Pensavo che il duca di Sesa vi avesse mandato un regalo, giacché dicevano che l’avevate pregato. Se non vi ha mandato niente, chiedeteglielo nuovamente e ve lo mander& giacché vi ama molto a causa della vostra dedizione ai poveri… Mi rallegro della carità che avete trovato nella casa di cui mi parlate… Abbiate sempre una ferma fiducia in Gesa Cristo, affinché Egli vi col­mi delle sue grazie, e vigilate per non concedere al de­monio la gioia di farvi cadere nel peccato e che Dio, vedendo la vostra penitenza per il passato ed il desi­derio di comportarvi sempre meglio per il futuro, vi conduca per mezzo del suo Spirito Santo! Amen.

Questa lettera è stimolante sotto molti aspetti; ma non si può far a meno di constatare la sua fermezza ed insistenza. A giudizio del’ maestro d’Avila, Giovanni di Dio, nonostante tutte le sue virtù, aveva indubbia­mente bisogno di queste rigorose raccomandazioni. Qua­le lezione per noi, che non possediamo né la viva cari­tà di Giovanni di Dio, né il suo coraggio, né la sua generosità.

 

IX.        I PRIMI COMPAGNI DI GIOVANNI DI DIO

Verso la fine del 1545, Giovanni di Dio annoverava tra i benefattori della sua opera un certo Antonio Martin. Nato il 25 marzo 1500 a Mira, presso Cuenca, nella Nuova Castiglia, da coltivatori agiati, Antonio ed il suo giovane fratello Pedro ricevettero un’educazione cristiana. Ma la madre, rimasta vedova ancor giovane, li allevò con una indulgenza e una debolezza eccessive, poi si risposò. Ciò non piacque ai giovani che, chiesta la loro parte di eredità, abbandonarono la casa paterna. Antonio, dallo spirito altero e audace, divenne guarda­coste, poi doganiere a Valenza. Suo fratello Pedro, più equilibrato ma anche più ostinato, si mise al servizio di ricchi proprietari a Guadafortuna, nella provincia di Granata. Col suo savoir-faire si guadagnò la stima dei padroni che, nel giro di alcuni anni, ritennero di col­mario di favori proponendogli la loro figlia in matri­monio. Ora, con loro profonda delusione, egli, che nutriva altri progetti, rifiutò l’offerta con disprezzo. Tale comportamento, in quel paese e a quell’epoca, era reputato come un affronto che doveva essere lavato con il sangue. L’unico figlio della famiglia, Pietro Velasco, incaricato di salvare l’onore, assassinò freddamente Pedro Martin.

Messo al corrente dell’accaduto, Antonio Martin, pieno di collera ed assetato di vendetta, si dimette dall’incarico di doganiere e, con i suoi risparmi, acquista senza scrupoli la gerenza di una casa di prostituzione a Granata, allo scopo di perseguire più facilmente l’omicida. Ottiene dapprima la sua incarcerazione, poi raddoppia gli sforzi per strappare al giudice la con­danna a morte di Pietro Velasco. Il fatto faceva scal­pore a Granata. Giovanni di Dio seguiva con dolore le peripezie del processo, tanto più che Antonio Martin continuava a mostrarsi generoso verso i poveri. Una sola via d’uscita a questo dramma, egli si diceva: la conversione di questo battezzato. Egli si ripromette di pagarne il prezzo. Ogni volta che sollecitava un dono da Antonio, non mancava di aggiungere, con insistenza, che era per amor di Dio e che in cambio avrebbe pregato e fatto pregare i suoi poveri per il loro benefattore. Antonio Martin accettava volentieri; Giovan­ni ne concludeva con ragione che le sue elemosine costituivano degli atti di misericordia aventi il valore di preghiere. Accompagnate da quelle dei poveri avreb­bero ottenuto dal Signore delle grazie di conversione.

Con fiducia quindi Giovanni di Dio, dopo aver tra­scorso una parte della notte in suppliche, unite a cruente flagellazioni, se ne va il mattino seguente alla ricerca di Antonio Martin. Lo trova in via Colcha. Im­mantinente si getta in ginocchio ai. suoi piedi e, tiran­do dalla veste il crocefisso che portava sempre con sé: Ecco, fratello Antonio, gli dice, Colui che vi perdonerà, se voi perdonate; ma se voi vendicate il sangue di vostro fratello su colui che lo ha versato, il Signore ven­dicherà su voi il proprio sangue che versate ogni giorno con i vostri peccati. Penetrato da una grazia straordina­ria, mentre ascoltava il patetico appello di Giovanni di Dio, Antonio Martin cade a sua volta in ginocchio e grida: Fratello Giovanni, non soltanto io perdono, ma per amor di Dio mi do a voi ed ai vostri poveri.

Rimaneva da passare ai fatti. Senza indugiare An­tonio Martin, accompagnato da Giovanni di Dio, si reca alla prigione dove era detenuto Pietro Velasco e, non appena si trova in, sua presenza, gli si butta al collo, lo assicura del suo perdono e i due mortali nemici si abbracciano benedicendo la bontà del Signo­re. Poi, volgendosi verso Giovanni di Dio, si impegnano tutti e due a servire i poveri in sua compagnia per amore di Gesù Cristo.

Il cancelliere, chiamato appositamente, prende nota della riconciliazione e il giorno dopo il tribunale resti­tui la libertà a Pietro Velasco che, dalla prigione, passò subito alla casa di carità di via Lucena. Giovanni di Dio si affrettò a far confezionare un abito simile al suo per i suoi nuovi compagni e, fin dal giorno dopo, li condusse con sé a raccogliere i doni in natura e le elemosine per i poveri.

La consacrazione di questi due uomini a Dio ed al servizio dei poveri fu totale e definitiva. Antonio Mar­tin successe a Giovanni di Dio, fondò a Madrid l’ospe­dale di « Nostra Signora dell’amore di Dio » e morì venerato da tutti in quella città, all’età di cinquantatré anni. Da parte sua; Pietro Velasco morì santamente, dopo ventidue anni di vita ospedaliera.

Giovanni di Dio ricevette inoltre tra i suoi compa­gni: Simone d’Avila, un borghese di Granata per molto tempo suo detrattore, e Domenico Piola, un banchiere avaro, entrambi suoi convertiti. Infine Juan Garcia, un uomo serio e senza storia, offrì spontanea­mente i propri servigi all’ospedale. Tutti rimasero fer­venti e fedeli.

Si presentarono altri postulanti? E’ possibile; ma Giovanni di Dio poneva delle condizioni severe per l’ammissione dei nuovi compagni. Ne abbiamo, quale prova, una lettera indirizzata a Luigi Battista, un gio­vane che aveva una qualche intenzione di andare a vivere con lui nell’ospedale. Eccola nelle sue parti es­senziali.

In nome di Nostro Signore Gesu Cristo e di Nostra Signora la Vergine Maria sempre pura. Dio prima e sopra ogni cosa che è al mondo! Dio vi guardi, fratel­lo mio in Gesù Cristo e figlio amatissimo, Luigi Batti­sta. Ho ricevuto la vostra lettera inviata da Jaen; essa mi ha procurato una grande gioia… Tuttavia, i vostri mal di denti mi hanno molto afflitto, poiché ogni vo­stro dolore mi rattrista ed il vostro benessere, al con­trario, mi rallegra… Cosa rispondervi in questa lettera scritta alla sprovvista?… Non lo so. Tale è la mia fretta che non ho quasi il tempo di pregare Dio di illuminarmi su questa questione. Sarebbe necessario raccomandarla molto a Nostro Signore Gesù Cristo… Nel vedervi spesso tanto debole, in particolare per ciò che riguarda la castità, non so cosa dirvi… Se fossi sicuro che la vostra presenza in questa casa gioverebbe alla vostra anima ed al bene del prossimo, vi ordinerei di venire subito; ma temo che sia altrimenti. Sareb­be meglio per voi trascorrere ancora un po’ di tempo nella prova, finché siate ben disposto, avvezzo a sof­frire ed a fare del bene, nonostante le contrarietà dei giorni più cattivi… Voi errate qua e là come una barca senza remi; spesso, da parte mia, sono soggetto al dub­bio, come un uomo senza giudizio. Siamo quindi in due a non sapere che fare, ma Dio, che conosce ogni cosa, può venire in nostro aiuto. Che ci faccia la grazia di illuminarci tutti e due! Voi mi sembrate essere anco­ra come la pietra che rotola. Sarebbe bene, invece, che iniziaste a mortificare la vostra carne, a sopportare le miserie della vita: fame, sete, disonori, obbrobri, di­spiaceri, pene, noie, il tutto per Dio poiché se veniste qui dovreste sopportare tutto ciò per suo amore.

Per tutto ciò che vi accade, in bene o in male, dovete rendere grazie a Dio. Ricordatevi di Nostro Si­gnore Gesù Cristo e della sua santa Passione. Egli ha reso il bene per il male… Venendo qui, dovreste obbe­dire e lavorare molto più di quanto abbiate fatto; dedicarvi tutto alle cose di Dio, prodigarvi senza sosta per il servizio dei poveri… Deciso a venire qui, dovre­ste lavorare con profitto per Dio e, per ciò, spendere bene la vostra « pelle » e le vostre forze. Rammentate san Bartolomeo: scorticato vivo, portò la sua pelle stille spalle. Non venite dunque qui con l’intenzione di con­durre una vita tranquilla, ma per lavorare: i lavori più penosi sono il retaggio del figliolo più amato. Venite se pensate che è qui ciò che avete di meglio da fare e se Dio ve lo ispira. Se, al contrario, vi sembra vantag­gioso vagabondare ancora per il mondo e cercare qual­che situazione in cui possiate servir Dio, fate in tutto come vi piacerà sull’esempio di coloro che vanno nelle Indie a cercar fortuna…

Ogni giorno della vostra vita, abbiate lo sguardo rivolto a Dio ed ascoltate la messa sempre per intero. Con fessatevi spesso; e se è possibile, non vi addormen­tate mai la sera nella coscienza del peccato mortale. Amate Nostro Signore Gesù Cristo sopra tutto ciò che è al mondo, poiché qualunque sia il vostro amore per lui, Egli vi ama di più. Abbiate sempre la carità: dove non c’è carità non c’è Dio, benché egli sia in ogni luo­go… Non ho più nulla da dirvi, tranne che augurarvi che Dio vi guardi, vi salvi e vi ponga come tutti, sulla via del suo santo servizio. Termino, ma non cesso di pregare per voi e per tutti gli uomini. Il rosario, posso affermarvelo, mi ha sempre fatto un gran bene. Spero che Dio mi accorderà la grazia di recitarlo più spesso che potrò e ch’Egli desidera.

Fratello Giovanni di Dio, il più piccolo di tutti, pronto a morire se Dio lo vuole, ma che attende in si­lenzio, spera in Dio e desidera servire Nostro Signore Gesù Cristo, di cui è lo schiavo. Amen Gesù! Uno schiavo meno bravo degli altri uomini, sono molte volte furfante e traditore. Me ne pento indubbiamente mol­to, ma dovrei pentirmene di più. Che Dio abbia la bontà di perdonarmi e di salvare tutti!

Si vede da questa lettera che, pur lasciando quel­l’indeciso perfettamente libero della sua scelta, Giovan­ni di Dio, alternativamente affettuoso e leggermente ironico, si sforza tramite consigli pieni di saggezza di istradarlo sulla retta via e lo ragguaglia in modo chiaro sui suoi compiti presenti e persino futuri, nel caso succedesse di raggiungerlo; e qui, in verità, le esigenze sono molto pesanti! Contemporaneamente, leggendolo, ci si può render conto delle sue solide virtù e del suo co­stante pensiero di salvezza di tutti gli uomini. Fatto curioso e che si riscontra in tutte le sue lettere: quando desidera dare un consiglio che riguardi una devozio­ne utile ma non obbligatoria, preferisce darlo in modo indiretto. come qui: Il rosario mi ha fatto un gran bene…

Con l’arrivo di nuovi compagni, la casa di carità di via Lucena prosperò sempre più; le elemosine au­mentarono e permisero di procurarsi tutti i mobili e le comodità desiderabili. Disgraziatamente, l’inverno del 1545-1546 danneggiò gravemente il tetto e l’edi­ficio dell’ospedale. Ne abbiamo un’eco nella lettera scritta da Giovanni di Dio alla duchessa di Sesa, ver­so la fine del 1546.

Sorella mia in Gesù Cristo, le dice, ho delle grosse preoccupazioni. Occupato a rimettere a nuovo tutta la casa rovinata ed aperta alla pioggia, mi mancano i mezzi per pagare questi lavori; cosi mi sono deciso a scrivere al conte di Feria e al duca d’Arcos, a Zafra. Il maestro d’Avila si trova li attualmente; sarà per me un buon mediatore presso di loro e spero che quei signori mi invieranno dei soccorsi per liberarmi dei debiti… Questa lettera menzionava un viaggio circolare effettuato, verso la primavera dello stesso anno, nella bassa Andalusia. Così, egli scrive, virtuosa du­chessa, non appena vi ho lasciata (a Cabra) mi sono recato ad Alcaudeta a far visita a donna Francesca; da lì ho raggiunto Alcala dove, per quattro giorni, sono stato molto stanco. Mi sono anche indebitato di tre ducati per venire in aiuto di alcuni poveri molto indigenti. Tutte le persone ragguardevoli della città erano in rivolta contro il corregidor (primo magistrato); ri­messomi sono dunque partito per Granata, senza fare la questua ad Alcala. Dio sa in che miseria i poveri mi attendevano!

Sorella mia in Gesù Cristo, buona duchessa di Sesa, l’elemosina che mi avete fatto gli angeli l’hanno già registrata in cielo, nel libro della vita. L’anello è stato così ben impiegato che con il denaro ricevuto ho fatto vestire due poveri coperti di piaghe ed ho acquistato una coperta. Si, quell’elemosina è alla presenza di Dio ed intercede per voi. Quanto al camice ed ai candelie­ri, li ho posti subito sull’altare a nome vostro. Sarete quindi ricordata in tutte le messe e preghiere che qui si diranno. Nostro Signore abbia la bontà di ricom­pensarvi in cielo di tutti questi benefici!

In sostanza, se si eccettuano i doni in natura, que­sto primo viaggio gli aveva fruttato ben poco per i suoi poveri di Granata. Nella stessa lettera Giovanni di Dio fa allusione ad un viaggio più recente. L’altro giorno, di passaggio per Cordova, ho trovato, nel per­correre la città, una casa in cui regnava la più pro­fonda miseria. Vi erano qui due ragazze i cui genitori, paralitici da dieci anni e malati, dovevano stare a letto.

A vederli cosi poveri e mal curati, mi si è spezzato il cuore: mal vestiti e pieni di insetti, avevano per letto alcuni fastelli di paglia. Li ho soccorsi come ho potuto, ma non secondo il mio desiderio, poiché avevo fretta di andare a trovare il maestro d’Avila per affari. Egli mi ordinò allora di partire subito e di tornare a Gra­nata.

Nella fretta, raccomandai quegli infelici ad alcune persone; ma esse li hanno dimenticati, o non hanno voluto o potuto aiutarli. I miei protetti mi hanno scrit­to una lettera ed ho il cuore infranto per quanto mi dicono… Cosi, buona duchessa, il mio desiderio, se piace a Dio, è di vedervi approfittare di questa occa­sione per fare l’elemosina, che quelle persone hanno persa. Occorrerebbero quattro ducati: tre per quelle poverette, allo scopo di permettere loro l’acquisto di due coperte e due gonne. Un’anima, infatti, vale più di tutti i tesori del mondo; e non è necessario che quel­le ragazze pecchino per cosi poco. L’altro ducato ser­virebbe ad Angulo, il mio compagno, per il suo viag­gio di andata e ritorno a Zafra. Mi aspetto che ritorni con qualche soccorso.

L’intralcio di tutte queste pratiche, viaggi e suc­cessive domande ci svela un uomo che si prodiga sen­za misura, che ottiene molto, ma è sempre tentato di distribuire sul posto, a dei nuovi bisognosi, le somme primitivamente destinate alla casa di carità di Granata.

Si comprende meglio, allora, perché il Padre d’Avi­la, al corrente delle sue generosità incoercibili, gli ordinava di ritornare a Granata al più presto.

 

X. L’OSPEDALE DI VIA DE « LOS GOMELES »

Giovanni di Dio si dedicava da sei anni al servizio dei poveri allorché don Pedro Guerrero fu promosso alla sede arcivescovile di Granata, il 23 novembre 1546. Amico intimo del Padre Giovanni d’Avila, que­sto prelato, grande teologo ed abile controversista, si fece notare nel concilio di Trento. A Granata si mostrò pastore zelante e pio: riformò l’università della città, fece prosperare le istituzioni religiose e, dopo trenta anni di un vescovato pieno di buone opere, morì come un santo, il 2 aprile 1576.

Poco dopo la sua entrata in carica, don Pedro Guer­rero sentì parlare dell’ospedale di Giovanni di Dio e del bene che procurava alla città. Così, appena si pre­sentò un ‘occasione favorevole, vi si recò per una visita approfondita. Non si limitò a considerare lo stato ma­teriale dell’edificio e l’ordine interno del suo funzio­namento; ma volle intrattenersi a lungo con il suo fon­datore. Già informato sul suo spirito e sulla sua condotta, si rese conto da sé che si trattava di un uomo straordinario animato dallo spirito di Dio ed infiamma­to d’amore per i malati e per i poveri. Gli assicurò la sua protezione e, non contento di lodare la sua opera, gli rimise una forte elemosina per il mantenimento ed il miglioramento dell’ospedale.

La visita e l’approvazione del nuovo arcivescovo accrebbero ancora la reputazione della casa di carità di via Lucena. Vi portavano malati da ogni parte. Era un favore esservi ammessi; disgraziatamente, il nume­ro dei posti disponibili era troppo ridotto. I benefat­tori di Giovanni di Dio lo incoraggiavano a procu­rarsi un locale più ampio. Ora che un maggior nume­ro di compagni lo aiutava nei compiti ospedalieri, il progetto diventava realizzabile, ed egli si mise alla ricerca di una casa più ampia.

Ora, verso la fine del 1546, i Carmelitani lasciarono il loro convento situato ai margini di una foresta presso l’Alhambra e all’inizio de « los Gomeles » che scende verso la città, per stabilirsi nelle vicinanze del santua­rio di Nostra Signora de la Cabeza. Giovanni di Dio venne ad esaminare questo convento sconsacrato, in compagnia di Antonio Martin, e lo trovò adatto per l’uso che voleva farne; così iniziò le pratiche neces­sarie per acquistano. Secondo il Padre Saucedo, l’ac­quisto ebbe luogo nei primi giorni del 1547. Giovanni poté realizzarlo grazie al concorso dei suoi benefattori ed in particolare di don Pedro Guerrero, che gli accordò in quell’occasione la somma di 1.500 ducati.

In possesso del nuovo immobile, Giovanni di Dio vi fece effettuare le riparazioni più urgenti ed i lavori necessari per adattare i locali alla loro nuova destina­zione. Al piano terra collocò un’ampia stanza riserva­ta ai viaggiatori ed ai mendicanti, che potevano trascorrervi la notte. Essa aveva nel mezzo un focolare per riscaldarli e, tutt’intorno, dei grandi banchi dispo­sti in modo tale che vi si potessero coricare e dormire. V’erano anche delle stuoie per i meno validi. Al primo piano molte sale furono disposte, destinate ciascuna ad un genere di malati. Senza dubbio Giovanni di Dio fa allusione a questa organizzazione nella sua seconda lettera alla duchessa di Sesa: Del lavoro che ho inizia­to, non posso venire a capo, poiché occupato a rimettere a nuovo tutta la casa, ho ancora molti poveri. Grandi sono le spese che si fanno qui e bisogna provvedere a tutto senza proventi, ma Gesù Cristo vi provvede ed io, io non faccio niente. Vorrei – andare a Zafra ed a Siviglia, ma non posso prima della fine di questo lavo­ro, per paura che venga fatto male…

Disponendo presso la sua corrispondente di un depo­sito di grano ricevuto in elemosina, egli l’avvisa circa l’invio di Angulo, per vendere il grano, poiché, egli dice: ho grande bisogno di denaro per il lavoro in corso e per pagare alcuni debiti che mi cavano gli occhi. Poi, ricordandosi delle nuove elargizioni otte­nute dalla duchessa, in seguito alla sua lettera prece­dente, aggiunge: Sorella mia in Gesù Cristo, che Nostro Signore vi renda in cielo l’elemosina dei quattro duca­ti che avete rimesso ad Angulo, per quelle poverette e le spese del viaggio…

Mia amatissima sorella, buona duchessa di Sesa, inviatemi un altro anello o qualche altra cosa che io pos­sa impegnare. Il primo anello è stato cosi bene impie­gato che voi lo possedete già in cielo. Se l’umilissima governante e tutte le signore e signorine della vostra casa hanno qualche piccolo oggetto d’oro o d’argento, che me li mandino. Io mi ricorderò di loro. Buona duchessa, mi rammento spesso dei regali che mi avete fatto a Cabra e di quei buoni panini senza crosta che mi davate da distribuire. Che Dio vi accordi il cielo e vi faccia partecipe di tutti i suoi beni! Amen Gesù.

Quando i lavori di restauro e di adattamento nel nuovo ospedale di via de « los Gomeles » furono ter­minati, i malati della casa di carità di via Lucena vi furono condotti o trasportati. Molti testimoni al proces­so di beatificazione di Giovanni di Dio, specialmente Alonso Lopez Pocasangre, falegname ottantenne, at­testarono che Giovanni di Dio, Antonio Martin e Pie­tro Velasco vi trasportarono sulle spalle i poveri malati invalidi, fino ai letti preparati in precedenza. Vi tra­sportarono anche, allo stesso modo, i letti, i materassi, i mobili, gli utensili e gli efletti.

Essendo aumentato il numero dei posti, arrivò un maggior numero di malati e di poveri. Cosi Giovanni di Dio può scrivere alla duchessa di Sesa: Più pesanti da un giorno all’altro sono i miei debiti e più numero­si i miei poveri, dei quali molti si presentano mal vesti­ti, mal calzati, coperti di piaghe e di pidocchi. Ho bisogno di uno o due uomini, soltanto per scottare questi insetti in un catino d’acqua bollente. E questo lavoro durerà tutto l’inverno, fino al mese di maggio. Voi lo vedete, sorella mia in Gesù Cristo, le mie diffi­coltà aumentano ogni giorno e sempre più.

Ecco come Giovanni di Dio descrive il suo nuovo ospedale in una lettera indirizzata, un po’ più tardi, a Gutierre Lasso de la Vega:

La città è grande e, siccome fa molto freddo in questi periodi invernali, i poveri affluiscono in questa casa di Dio. Tra malati, sani, persone di servizio e viaggiatori, vi sono più di centodieci persone. E’ un ospedale generale; cosi, vi si riceve di solito ogni spe­cie di malati e di persone. Vi sono paralitici, monchi, eczematosi, muti, alienati, tignosi, vecchi e molti bam­bini, senza parlare dei molti viaggiatori e passanti che qui si fermano ed ai quali si dà il fuoco, l’acqua, il sale e gli ùtensili necessari per preparare il cibo. E per tutto questo non vi sono entrate, ma Gesù Cristo prov­vede a tutto. Ogni giorno occorrono quattro ducati e mezzo e talvolta cinque, per fornire la casa di pane, carne, pollame e legna, senza contare le spese extra per medicine ed abiti. Quando le elemosine non sono suffi­cienti per provvedere a tutte queste necessità, io pren­do a credito. Talvolta, ci capita anche di digiunare.

Ecco come mi trovo qui indebitato e prigioniero per Gesù Cristo solo. Devo più di duecento ducati per camicie, mantelli, scarpe, lenzuola, coperte e molte altre cose necessarie in questa casa di Dio, e per il cibo dei bambini che vi vengono abbandonati.

Così, mio carissimo ed amatissimo fratello in Gesù Cristo, al pensiero dei miei pesantissimi debiti, mi capta spesso di non osare di uscire dalla casa. Ed alla vista delle sofferenze di tanti poveri, miei fratelli e miei simi­li, ai cosi grandi bisogni corporali e spirituali, mi sento tanto triste di non poterli soccorrere. Però ripon­go la mia fiducia in Gesù Cristo soltanto; egli mi libererà dai debiti, poiché conosce il mio cuore… Cono­sco il vostro grande amore per Nostro Signore e la vostra pietà per i suoi figli poveri, il che mi spinge ad esporvi i loro ed i miei bisogni…

E dopo alcune considerazioni personali di caratte­re religioso, espone in questi termini il servizio che attende da don Gutierre Lasso:

Fratello mio in Gesù Cristo, io mando per portar­vi questa lettera questo giovane messaggero. Ecco il perché: un giovane nativo di Malaga è deceduto in questo ospedale e gli ha lasciato in eredità alcuni beni, presi da un’eredità consistente in vigneti ed in rendite… Desidero che questi beni vengano venduti, poiché ho bisogno di denaro ed il reddito annuo è minimo. Per amore di Nostro Signore, se conoscete qualcuno che voglia acquistarli, vendeteli subito, a patto che nes­suno vi perda, né l’acquirente né i poveri, e che tutto avvenga rapidamente. Il latore della presente se ne tornerebbe subito con il denaro. E’ un uomo che gode della mia fiducia. Egli ha con sé la mia procura ed i documenti riportati da quel paese… Per amore di nostro Signore, vi raccomando quest’affare.

Con il denaro chc esso renderà, dobbiamo acqui­stare degli abiti per i poveri, che pregheranno Dio per l’anima del loro bene fattore. Dovrò, inoltre, pagare la carne e l’olio; i fornitori non intendono più farmi cre­dito, poiché devo loro molto. Io li faccio pazientare dicendo che quanto prima mi porteranno un po’ di denaro da Malaga… Scusatemi se vi causo tante fatiche; esse, un giorno, saranno la vostra gloria in cielo.

 

XI. LE OPERE SOCIALI DI GIOVANNI DI DIO

Nostro Signore aveva dotato il suo servo di un’abbondante ed intensa carità, da cui scaturi­vano delle opere meravigliose, tanto che alcuni spiriti superficiali lo consideravano come un prodigo ed un dissipatore. Essi non capivano che Il Signore l’aveva introdotto nella cella del vino. Qui, lo aveva colmato di carità e l’ave­va inebriato del suo amore tanto da non poter rifiutare nulla à chi gli chiedeva in nome di questo amore, ritenendosi come debitore di ben altro.

Così viveva nella tensione, propria dei santi, di donarsi in mille modi, per amore di Colui che si era mostrato tanto magnanimQ e largo nei suoi confronti. Gli esseri spirituali sono cosi’ fatti: arricchiti dei beni del cielo, si ritengono tanto fortunati e ricchi che, se­condo loro, sono sempre obbligati a dare a tutti, illu­strando cosf il detto della Scrittura: V’è più gioia nel dare che nel ricevere (Atti, ’20, 35).

Dopo aver accordato alcune ore al sonno, Giovan­ni di Dio iniziava la sua giornata con la preghiera e l’assistenza alla prima messa del mattino.

 

Poi, allo spuntar del giorno, da un angolo dal quale tutti quelli dell’ospedale potessero sentir­lo, gridava: Fratelli miei, rendiamo grazie a Nostro Signore! Anche gli uccellini lo fanno, e recitava le quattro preghiere prescritte da no­stra Santa Madre Chiesa (il Credo, il Pater, l’Ave Maria e la Salve Regina). Subito dopo, il cappellano si avvicinava ad una finestra, in modo che tutti potessero udirlo, ed esponeva i principi della dottrina cristiana, poi poneva del­le domande. Vi rispondeva chi poteva. Nella sala comune del piano terra, un altro sacerdote faceva la stessa cosa, rivolgendosi ai viandanti. Giovanni di Dio veniva poi a salutarli, prima della loro partenza. A coloro che erano inai vestiti, egli distribuiva degli abiti. Alle persone giovani, in buona salute, egli diceva: Corag­gio, fratelli miei! Andiamo a servire i poveri di Gesù Cristo! Con loro si recava nella vicina foresta, lungo il Darro, a raccogliere della legna; e ciascuno ritornava con un fascio per i poveri. Per molto tempo egli ebbe cosi’ dei giovani che, con entusiasmo e buona volontà, portavano ogni giorno della legna.

Ritornando dalla foresta, Giovanni trovava molte persone ad attenderlo. Seduto in mezzo a loro, ascol­tava ognuno con pazienza mentre esponevano le pro­prie necessità e non mandava via nessuno senza averlo confortato con un dono o una parola. Egli faceva l’ele­mosina a chiunque lo implorasse in nome di Gesù Cri­sto. Talvolta, alcuni gli dicevano: Fate attenzione, co­stui chiede senza necessità. – Egli non m’inganna, ri­spondeva, la cosa riguarda lui; io gli do per amor di Dio.

Tutti i poveri e i bisognosi venivano da lui, ed egli li soccorreva tutti: vedove, orfani, liti­ganti, soldati licenziati, poveri contadini. Nes­suno veniva a lui senza che il Signore gli ac­cordasse poco o molto, per rimediare a quella nuova necessità. Quando non gli rimaneva più nulla, scriveva dei biglietti di raccomandazione ai benefattori dei quali conosceva la generosità.

Non contento di essere il buon Samaritano per co­loro che gli si presentavano spontaneamente, Giovanni di Dio cercava i poveri nascosti e ritrosi, le ragazze poste negli orfanotrofi, le donne sposate che soffrivano in segreto, le religiose e le « beate » povere e, con molta attenzione e carità, procurava loro il necessario.

In favore di queste ultime, intercedeva presso le signore ricche ed influenti. Egli stesso acqui­stava loro le derrate indispensabili, per evitar loro di uscire e permettere di conservare il rac­coglimento nella solitudine. Dopo aver dato loro il necessario, si sforzava di sottrarle all’ozio, cercando presso i negozianti, per le une della seta da lavorare, per le altre della lana, del lino, della stoffa da filare. Assicuravano cosf il loro mantenimento. Sedendosi poi un poco, le inco­raggiava al lavoro e rivolgeva loro una breve esortazione spirituale per persuaderle ad amare Dio e la virtù, adducendo in merito delle ragio ni tanto convincenti, quanto semplici, che vivo­no ancor oggi nel ricordo di coloro che le han­no sentite. Inculcava loro anche la speranza che agendo così, non soltanto avrebbero ottenuto la grazia del Signore, ma il necessario non sarebbe mancato loro mai, tanta era la fede che aveva in questo detto del Vangelo: « Cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto vi sarà dato in soprappiù » (Mt. 6, 33).

Beninteso, contro queste iniziative non mancarono i critici.

Alcuni di essi « urlavano » e « mormoravano »:

tutto questo è un briciolo di follia che gli è rimasto dal tempo in cui percorreva le strade come demente. Senza indugio, queste opere ca­dranno: esse non possiedono delle basi! Nello stesso tempo essi lo tenevano d’occhio, lo spiavano nelle case in cui entrava, si informavano circa le sue parole ed i suoi atti. Essi lo osser­vavano anche di nascosto. Ma considerando la sua condotta esemplare, le sue conversazioni edi­ficanti e le sue azioni lodevoli, essi rimanevano sorpresi, confusi e condannati al silenzio. Alcu­ni si dimenticavano del loro progetto, lo glori­ficavano e gli offrivano l’elemosina. Inoltre, uno di essi, Simone d’Avila, divenne ‘suo degno disce­polo, come è già stato detto.

Nella sua attività sociale, come in quella ospedalie­ra, Giovanni di Dio aveva quale scopo principale la gloria e l’onore di Nostro Signore.

Mai procurò un bene temporale a qualcuno senza fornirgli allo stesso tempo un rimedio per l’anima, servendosi – per questo – di sante e calde raccomandazioni. Egli avviava, d’altion­de, tutti sulla via della salvezza, insegnando più con l’esempio che con le parole il dovere di prendere la propria croce e di seguire Gesù Cristo.

E a questo proposito, il biografo riporta un aned­doto riferitogli da una persona degna di fede. Eccolo, riassunto in poche parole.

Una giovane signora, molto bella, era venuta a Gra­nata per un processo di famiglia, che minacciava di toglierle ogni bene. Giovanni di Dio la incontrò pres­so un avvocato, in occasione di una consultazione. Dopo aver considerato il suo atteggiamento e il suo comportamento, gli sembrò che fosse in grande peri­colo di offendere Dio. Prendendola in disparte, la in­terrogò. Costei lo mise al corrente della propria situa­zione e miseria. Giovanni di Dio le propose una solu­zione vantaggiosa sotto tutti i punti di vista. Vi farò ammettere, le disse, in una casa dove vi sono molte signore; vivrete in loro compagnia, pur avendo un ap­partamento a parte, dove vi installerete a vostro gusto e secondo la vostra condizione. Io mi incarico di assi­curare il vostro mantenimento e di seguire il vostro processo con sollecitudine. Vi chiedo soltanto di aver cura del vostro onore e di non offendere Dio. La signora acconsentf di buon grado. Giovanni di Dio mantenne le sue promesse. Di tanto in tanto andava a trovarla per tenerla al corrente delle sue cose. Ora, una sera, un po’ tardi, mentre girava nei dintorni per la questua, entrò nell’appartamento della signora. Qua­le non fu la sua sorpresa vedendola vestita con una ri­cercatezza insolita! Senza nutrire alcun sospetto, ap­profittò dell’occasione per parlarle dei pericoli del mon­do e del conto da rendere al giudizio divino. La sua parola fu tanto avvincente e persuasiva, che strappò le lacrime a quella forestiera. Dopo la partenza di Giovanni di Dio, un giovane gentiluomo – che si era nascosto al suo arrivo ed aveva udito tutto -chiese perdono alla signora per l’appuntamento propo­stole. Da quel giorno il gentiluomo cambiò completa­mente condotta e divenne un modello di onestà per tutta la città. E’ da lui indubbiamente – o da uno dei suoi congiunti – che de Castro apprese questa con­versione, dovuta all’influenza di Giovanni di Dio.

Giovanni dedicava i suoi pomeriggi a diverse opere di carità e di misericordia e, la sera, quando ritornava molto tardi in ospedale con il ricavato della questua, per quanto grande fosse la sua stanchezza, non andava mai a coricarsi senza aver visitato tutti i malati – ia­scuno in particolare. Egli chiedeva loro come avevano trascorso la giornata, come stavano, di che cosa ave­vano bisogno. Li consolava e testimoniava a tutti il più vivo interesse. In breve, i suoi modi affabili sol­levavano i corpi e al tempo stesso ricreavano gli spi­riti. Per terminare, faceva un giro nelle vicinanze della casa e nei dintorni e prodigava soccorso e conforto ai poveri timidi che l’attendevano nell’ombra.

 

XII. UN APOSTOLATO DIFFICILE MA FRUTTUOSO

Chiamato particolarmente da Dio a praticare le opere di Marta (occupazione tipica della maggior parte del suo tempo), Giovanni di Dio non di­menticava quelle di Maria. Tutto il tempo che gli restava, lo dedicava all’orazione ed alla me­ditazione… chiedendo a Nostro Signore il per­dono e la capacità di rimediare ai bisogni che scorgeva… Egli sapeva che l’orazione è il fonda­mento, l’ancora di ogni vita spirituale, il mezzo per condurre a buon fine tutti i nostri affari con Dio e senza il quale tutto il resto apporta poco appoggio.

Giovanni di Dio era, in particolare, molto devoto alla passione di Gesù Cristo, fonte della nostra reden­zione. Egli voleva che ciò che aveva recato profitto a lui, recasse profitto anche al suo prossimo. Ecco perché il venerdì, giorno in cui concedeva al suo corpo soltanto un po’ di pane ed acqua, al punto da esserne estenuato, aveva l’abitudine di recarsi alla casa pub­blica delle donne per cercare di strapparne qualcuna agli artigli del demonio.

Entrando, egli seguiva la donna che gli sembrava la più perduta, la meno ben disposta ad uscire da lì, e le diceva: Figlia mia, tutto ciò che ti darebbe un altro, te lo darò io ed ancor più. Ti prego soltanto di ascoltare due parole, qui nel tuo appartamento. Entrandovi con lei, le ordi­nava di sedersi, mentre egli si gettava in ginoc­chio per terra davanti al suo crocifisso. Comin­ciava allora ad accusarsi dei suoi peccati e pian­gendo amaramente, ne implorava il perdono di Nostro Signore con tali accenti che provocava di solito anche in lei contrizione e dolore dei propri peccati. La disponeva in tal modo all’at­tenzione. Iniziava allora, per commuoverla, a recitare la Passione di Gesù Cristo, poi le diceva:

Considera, sorella mia, quanto sei costata a No­stro Signore ed osserva ciò ch’egli ha sofferto per te. Non vorrai essere la causa della tua persona­le perdizione. Considera che vi è una ricompensa eterna per i buoni ed un castigo eterno per co­loro che vivono nel peccato come te… Non pro­vocare più il Signore per timore che Egli ti abbandoni completamente come lo meritano i tuoi peccati, e ti lasci cadere come una pietra dura e pesante nel più profondo dell’inferno. Il Signore gli ispirava tali parole ed altre ancora. Sebbene alcune, ostinate nei loro vizi, non lo prendevano in alcuna considerazione, altre, con l’aiuto di Dio, si pentivano, si piegavano alla penitenza e gli dicevano: Fratello mio, Dio sa che uscirei volentieri da qui per servire i poveri nell’ospedale, ma sono indebitata e non mi lasceranno uscire. Giovanni rispondeva con gio­vialità: Figlia mia, abbi fiducia nel Signore. Egli che ha illuminato la tua anima, ti darà il rime­dio per il corpo. Coni prendi bene che dovrai servirlo e non più offenderlo e formula un fer­mo proposito di morire piuttosto che tornare al peccato. Attendimi qui, giacché tornerò senza indugio.

Subito, si affrettava ad andare alla ricerca di signore di alto ceto, sulle quali sapeva di poter contare, e diceva loro: Sorelle mie in Gesù Cri­sto, sappiatelo: c’è una prigioniera del demonio, aiutatemi, per l’amore di Dio, a redimerla e strappiamola a quella miserabile schiavitù. Mes­se al corrente di queste miserie, quelle persone erano così caritatevoli, che raramente egli se ne andava senza aver ottenuto da loro la som­ma necessaria. Quando, però, non la trovava o vi era urgenza, si impegnava per iscritto a pa­gare il debito della donna nei confronti del me­diatore…

Egli conduceva subito queste donne all’ospedale dove venivano curate le altre persone, abban­onatesi in precedenza allo stesso traffico, e mostrava loro le conseguenze infelici della loro perseveranza in quel vile mestiere… Poi, si sfor­zava di conoscere le loro intenzioni. Alcune, più illuminate dal Signore sul valore della vita, volevano riflettere e far penitenza. Egli le con­duceva al monastero delle « pentite » e dava loro il necessario. Per altre, meno decise a « raddrizzare il timone » e piuttosto inclini al matrimonio, cercava la dote e le maritava. Ne maritò molte. Così, soltanto con le elemosine riportate allora dal suo viaggio a Corte, fece celebrare le nozze di sedici convertite alla fede, come lo testimoniano oggi alcune di esse ancora in vita, rimaste vedove ed oneste.

Esercitando questa delicata opera di carità, Giovan­ni di Dio subì molte mortificazioni e dolori e mani­festò l’eroica pazienza che Nostro Signore gli aveva ac­cordato. Così, secondo la testimonianza di de Castro, quando Giovanni strappava una donna a quell’am­biente, le ostinate, le indurite protestavano, lo diffa­mavano, l’ingiuriavano, l’accusavano di agire con cat­tive intenzioni. Egli non rispondeva, e sopportava tut­to con pazienza. Inoltre, se qualcuno riprendeva que­ste donne, rimproverava loro la cattiveria, la scortesia, Giovanni replicava: « Lasciatele stare, non dite loro niente; esse mi conoscono, sanno chi sono e mi trat­tano come merito ».

Un aneddoto molto curioso, per altro più da am­mirare che da imitare, raccontato prolissamente da de Castro e qui compendiato, ci mostra il suo zelo ardente per la salvezza di queste anime riscattate, egli lo sapeva, ad un prezzo inestimabile.

Un venerdì, egli era entrato in una casa pubblica. Subito quattro donne, che si erano messe d’accordo, gli si avvicinarono spontaneamente per farlo partecipe della loro decisione di correggersi in questi termini:

Siamo di Toledo. Se ci conducete là potremo sistemare le nostre cose, e vi promettiamo di abbandonare allora la nostra vita cattiva. Giovanni di Dio accettò subito, preparò la cavalcatura per queste persone e tutto ciò che era necessario al viaggio poi, insieme a loro, si pose in cammino, andando a piedi, accompagnato da Angulo, un servo dell’ospedale, uomo saggio e di buo­na condotta, morto da poco, commenta de Castro, e dal quale aveva avuto questo racconto.

Ora, mentre camminavano, le persone ed i vian­danti, alla vista di quei due uomini in simile compagnia, li schernivano, li fischiavano… Di fronte a tali insulti, Giovanni di Dio taceva e soffriva con molta pazienza. Angulo, al contrario, si irritava e diceva a Giovanni:

A che pro questo viaggio in simile compagnia, causa di tanti oltraggi? Ma quando, passando da Almagro, una di esse fugge ed arrivando a Toledo altre due scappano, il servo, con maggior veemenza, comincia ad interrogarlo con asprezza: Che follia, questo viaggio! Non ve l’avevo detto? Non ci si può fidare di questa razza depravata. Il santo uomo rispondeva con dol­cezza: Fratello Angulo, tu non rifletti. Vediamo. Se vai a Motril a cercare quattro panieri di pesce e per via tre si guastano, tu li gétti indubbiamente, ma getti for­se quello buono? Siccome delle quattro donne ce ne rimane una che persevera nelle sue buone intenzioni, abbi pazienza e torniamo con lei a Granata. La mia speranza è in Dio; se costei rimane, non avremo fatto un viaggio inutile ed il nostro guadagno non sarà me­schino. E fu così; grazie a Giovanni di Dio quella donna sposò un uomo dabbene e visse in modo esemplare.

Se normalmente le donne così strappate alla casa pubblica e sposate, testimoniavano la loro riconoscenza a Giovanni di Dio, una di loro si mostrava molto indi­screta ed esigente. Non appena aveva bisogno di qual­cosa, veniva a chiederla e, per appagare il suo deside­rio, Giovanni di Dio si sforzava di darle soddisfazione. Il fatto si ripeteva spesso. Ora, una volta che lei chie­deva ancora, egli dovette confessare la propria comple­ta miseria, pregandola di ritornare un altro giorno. Ma lei, impaziente, si irrita e comincia ad insultarlo dicen­do: Uomo cattivo! Santo ipocrita! – Avrai due reali se vai in piazza a divulgare ciò ad alta voce – si affrettò lui a risponderle. E siccome quella continuava con alte grida a diffamano, egli disse: Presto o tardi bisogna che ti perdoni; perciò ti perdono subito.

Questa pazienza produsse un buon frutto, per­ché la stessa donna, il giorno dei funerali del santo, camminava in mezzo alle altre che egli aveva strappato alla cattiva vita, e alzando la voce lungo le strade, si lamentava, confessava i propri grandi torti ed errori, ed esaltava gli immensi favori di Giovanni di Dio.

Infine, questo apostolo della carità era cosi umile che amava confessare e raccontare i pro­pri errori e non parlava mai delle buone azioni e delle lodi ricevute. Egli si serviva anche del­l’astuzia per volgere le conversazioni a propria confusione. Ne risultava una grande edificazione per il prossimo; ma fuggiva ogni vanagloria, come tigna avvelenata della vita spirituale.

 

XIII. LA OUESTUA ALLA CORTE DI SPAGNA

Le spese richieste per tutte le opere intraprese da Giovanni di Dio erano considerevoli e, non bastandovi più le elemosine raccolte in città, egli aveva fatto ri­corso ai signori dell’Andalusia. Costoro lo aiutarono facendo del loro meglio. Fin da giovane, il duca di Sesa si occupò dei poveri del suo ospedale e a più ri­prese rimborsò tutti i suoi debiti. Inoltre, in occasione di tutte le grandi feste nel corso dell’anno, gli faceva pervenire camicie, abiti e scarpe per vestire e calzare i bisognosi. La duchessa sua moglie agiva allo stesso modo, come abbiamo notato nelle lettere citate. Il ca­valiere Guttierre Lasso, Rodrigo Diaz de Vivar, il duca di Cabra e molti altri si mostravano altrettanto generosi nei suoi confronti. Nondimeno, tutti questi soccorsi si rivelarono inferiori ai bisogni sempre cre­scenti.

Ora, secondo de Castro, Giovanni di Dio viveva nell’angoscia, da un lato per non poter venire in aiuto ai postulanti, ai poveri, e dall’altro, per essere incapace di pagare i suoi debiti. A suo avviso, lo stato di tor­mento e di imbarazzo sembrava fosse inerente alla sua amministrazione. Da qui a dedurre l’incapacità a con­tinuare la sua opera e la necessità di rinunziarvi, ci correva poco. Questa tentazione insinuante sembra peraltro sia stata favorita da uno strano individuo che gli aveva proposto di assumersi il peso del suo ospe­dale e di soddisfare i suoi creditori, per permettergli di impegnarsi in un’altra impresa, più alla sua portata. E’ anche vero che dei benefattori competenti, e in par­ticolare l’arcivescovo don Pedro Guerrero, molto con­vinti del valore e del saper fare di Giovanni di Dio, gli consigliavano un viaggio a Corte, per ottenere l’ap­poggio del principe Filippo, reggente di Spagna in as­senza del padre Carlo Quinto, ed avere dai grandi che gli erano accanto importanti elargizioni.

Di fronte a questa alternativa, non sapendo che decisione prendere, ricorse ancora una volta al maestro Giovanni d’Avila, esponendogli in modo dettagliato le sue preoccupazioni. La sua lettera, come le precedenti, ci è nota solo in base alla risposta di Giovanni d’Avila.

Eccola:

Ho ricevuto la vostra lettera. Non crediate che la sua lunghezza mi irriti; per chi ama molto, nessuna let­tera può sembrare lunga. Rendetevi intanto tale che io sia soddisfatto delle vostre notizie e se volete non affliggermi, sforzatevi di operare bene. E’ con gli atti e non con le parole che si testimonia l’affetto. Consi­derate, fratello mio, quanto sono costate a Nostro Signore le grazie che vi ha accordato e quale cura do­vete avere di una gemma acquistata a prezzo del suo sangue. Cosa sarebbe dunque se lasciaste calpestare dai porci questa perla che Lui vi ha dato per ren­dervi simile agli angeli? Cosa sarebbe se perdeste questa bellezza di cui ha ornato la vostra anima per renderla più piacevole e più bella del sole stesso? Piut­tosto morire che essere sleale verso Nostro Signore! Ma per restare fedele, bisogna mostrarsi prudente, co­me ha detto Nostro Signore perché, per mancanza di prudenza, l’uomo commette mille infrazioni che di­spiacciono a Nostro Signore e Lo obbligano a casti­garlo. Cosi, un solo errore deve servire da lezione per la vita. Un cane bastonato non ci ritorna due volte, né un uccello nella gabbia da cui è scappato. I saggi traggono vantaggio dagli errori degli altri e gli stolti dai propri. Che diremo di coloro che non si correggono dopo averne commessi molti? Essi meritano l’abbandono del Signore e la propria perdizione. Chi ha ricevuto dei doni da Dio è tenuto a stare attento ed a lavo­rare per la Sua gloria, perché Egli l’ha strappato all’in­ferno e gli ha dato la sicurezza del cielo. Più andiamo avanti nella vita e più dobbiamo sforzarci di diventare migliori; perché poco ci servirebbe aver bene iniziato, se finiamo male. Che serve ad un cacciatore l’aver preso un uccello con molta fatica, se poi lo lascia fuggire per ‘non più rivederlo?

Nostro Signore è più offeso nel vedere che un’ani­ma, acquistata e purificata da Lui, lo abbandona per darsi al demonio, che degli errori di tante altre, che non gli appartengono. Del pari, il demonio si rallegra maggiormente di guadagnare delle anime ferventi, che di dominare sulle cattive di sempre. Così, fratello mio, dobbiamo avere gli occhi volti verso lo stendardo del­la Croce, per non dare questo dispiacere a Nostro Si­gnore e questo piacere al demonio di abbandonare la strada che abbiamo cominciato a seguire e della quale ci resta tanto poco da percorrere.

Implorate di tutto cuore Nostro Signore, non dimen­ticate di pregare e di ascoltare la messa; ve ne troverete bene. Osservate dove mettete i piedi per assistere gli altri senza danneggiarvi. Che la vostra anima non ces­si di nutrirsi, perché se camminate affamato, scorag­giato e malato, a che vi servirà tutto il bene prodigato agli altri? Nostro Signore ci ha detto infatti: « Che serve all’uomo guadagnare l’universo se perde la sua anima?)? (Mt. 16, 26). Non piacerete mai tanto a Dio quanto conservando la vostra anima pura in sua pre­senza, e la più grande opera di misericordia da com­piere è di conservare la vostra anima benaccetta a sua Maestà. Così, vegliate e pregate secondo la parola di Gesù Cristo, per eludere le sorprese del demonio: egli ci tende mille tranelli per farci cadere.

Il progetto di recarvi a Corte per chiedere l’elemosi­na ai signori di Castiglia, allo scopo di non indebitarvi qui, mi sembra eccellente. Ma state attento, là e al­trove, a servire Nostro Signore al fine di possedere un giorno la gloria, per la quale vi ha creato. Che Egli sia sempre il vostro sostegno e la vostra forza! Amen.

Quel personaggio disposto a pagare i vostri debiti ed a rendervi cosi libero per un altro compito, doveva essere il demonio sotto forma umana. Cercava di in­gannarvi e di persuadervi che potevate, senza offendere Dio, abbandonare la strada per la quale egli vi ha chia­mato. Non per nulla san Paolo ha detto: « Che cia­scuno resti fedele alla chiamata che ha ricevuto da Dio! » (Ef. 4, 1). Se Dio vuole che lo serva come ca­meriere, il voler guardare i maiali sarebbe un peccare contro di lui. Dovrei renderGli conto di tutto ciò che avrei potuto guadagnare in quell’altra occupazione. Cosi, fratello mio, se un essere risplendente, che si defi­nisce angelo di Dio, vi apparisse ed ordinasse di rinun­ciare alla vostra abituale occupazione, ritorcetegli che è un demonio e che non volete per nessun conto abban­donare la strada su cui Dio vi ha posto, poiché il Van­gelo ce lo insegna: « Chi persevererà fino alla fine sarà salvo » (Mt. 24, 13). Leggete e rileggete questo versetto e che Dio vi guardi da ogni male. Amen.

Per il momento non ho abiti da inviarvi, ma dirò delle messe per voi: esse vi copriranno meglio.

A prima vista, ci si potrebbe meravigliare che il maestro Giovanni d’Avila si dilunghi tanto sulle esi­genze di una vita spirituale vera e sulle precauzioni da prendere per preservarla da ogni insidia, mentre risponde assai brevemente a due angosciosi quesiti di Giovanni di Dio. Non vuole egli, una volta di più, rammentargli in cosa consiste l’essenziale della vita cristiana, la condizione assolutamente necessaria di tut­te le altre attività, fossero pure molto importanti? La fiducia e la fedeltà date da Giovanni di Dio al suo caro maestro erano degne di questo schietto linguaggio. Egli non aveva esposto i propri dubbi e le proprie ten­tazioni per essere adulato, ma per conoscere la volon­tà di Dio e camminare nell’obbedienza. Fornito di di­rettive tanto nette e tanto chiare, Giovanni di Dio senti un nuovo vigore e decise di dedicarsi al servizio dei po­veri con la più viva determinazione fino alla morte.

Un fatto, ad un tempo doloroso e confortante, ven­ne a rinforzare l’impressione prodotta da questa lettera su Giovanni di Dio: la morte del suo confessore del­l’epoca, il Padre Domenico de Alvarado, dell’Ordine di N.S. della Mercede (Mercedari), amico ed emulo di Giovanni d’Avila. Seguendo le sue esequie, il 6 aprile 1548, Giovanni di Dio esclamava testimoniando le sue buone opere: Padre Domenico, voi godete già della visione di Dio, in possesso della ricompensa alle vostre fatiche. Queste sono terminate, ma la vostra gloria non avrà fine. Come siete felice per aver si bene impiegato la vostra vita! Ricordatevi di questo poveretto che vi deve tanto.

Subito dopo questo 6 aprile 1548, Giovanni di Dio prese i provvedimenti per questo lungo viaggio a Corte, che allora era a Valladolid. De Castro precisa:

Lasciò nell’ospedale il suo amico e compagno Antonio Martin, per vegliare sui poveri fino al suo ritorno.

Poi si mise in viaggio a piedi, come di consueto, a capo nudo e scalzo.

In linea d’aria, 500 Km. separano Granata da Val­ladolid; ma l’itinerario scelto da Giovanni di Dio dove­va, secondo José Cruset, superare i 700 Km.

De Castro non ci dice nulla circa il viaggio d’andata. Sappiamo però che Giovanni di Dio passò per Toledo e vi si fermò alcuni giorni. Durante questo periodo sa­rebbe stato ospite di donna Leonor de Mendoza, paren­te prossima della sua benefattrice, la duchessa di Sesa. Questa dama gli fece grandi elemosine che, uni­te al frutto delle sue questue, gli permisero di fon­dare un piccolo asilo notturno di cui ci parla il p. Gabriele Russotto nell’opera L’Ordine ospedaliero di Giovanni di Dio, Roma, p. 18 3. Da Toledo, anziché raggiungere Valladolid passan­do per Madrid, che è la strada più breve, Giovanni di Dio si dirige verso Salamanca, dove la sua presenza si protrae per alcuni giorni. Infatti, al processo di beati­ficazione di Giovanni di Dio, un testimone, Pedro Her­nandez di Salamanca, afferma di averlo conosciuto in quella città, 70 anni or sono: Egli percorreva le strade e chiedeva l’elemosina dicendo: « Fate del bene a voi stessi! ». Ciò che raccoglieva lo dava ai poveri dell’ospe­dale San Bernardo. Vi si recava lui stesso per curare i malati, per pulirli e carezzarli, col volto sorridente ed allegro. Molte persone ed il testimone stesso accorreva­no all’ospedale, soltanto per vedere l’affetto con ciii Giovanni curava i sofferenti. Altri due testimoni della città, Jeronimo Hernandez Franco e Juan de Prado for­nirono delle testimonianze analoghe, e quest’ultimo ag­giunge che alla partenza di Giovanni di Dio per Valla­dolid, molti ne soffrirono, ed i poveri gli assegnarono il nome di « Padre dei Poveri ».

Da Salamanca a Valladolid ci sono poco più di 100 Km. De Castro non ci dice nulla su questa terza parte del viaggio; ma si può affermare con verosimiglianza che Giovanni arrivò a Corte verso la fine di maggio, o i primi di giugno 1548. A quell’epoca, Carlo Quinto si trovava in Germania, e continuava le trattative con i principi protestanti, sforzandosi di riconciliarli con la Chiesa cattolica e di consolidare l’impero. Restavano a Corte il principe, presunto erede e reggente di Spa­gna, di 21 anni, sua sorella, l’infante Maria, promessa all’arciduca Massimiliano d’Austria, e la più giovane, l’infante Giovanna, futura sposa del principe reale del Portogallo.

Avvisata da sua figlia, la duchessa di Sesa, benefat­trice e corrispondente di Giovanni di Dio, dell’arrivo di quest’ultimo a Valladolid, donna Maria de Mendoza considerò come un grande favore l’alloggiano in casa sua e provvedere ai suoi bisogni. Questa dama, vedo­va del grande commendatore Francisco de los Cobos, godeva di una grossa fortuna, ma si faceva notare per le sue virtù e la sua carità verso i bisognosi. Ella fon­dò ospedali, dotò conventi bisognosi e distribuì, nel corso di tutta la sua vita, elemosine quotidiane propor­zionate alla propria ricchezza. Giovanni di Dio rice­vette delle elargizioni, tanto da questa signora che da altre persone della città, e si mise subito a soccorrere i poveri del posto. Immediatamente, si trovò tanto occu­pato come a Granata.

Da parte sua, il conte di Tendilla, don Luis Hurtado de Mendoza, figlio di donna Maria de Mendoza, giova­ne signore intelligente e virtuoso, in grazia a Corte, si affrettò a introdurre Giovanni di Dio a palazzo e a presentarlo al principe reggente Filippo. Il postulante, rivolgendosi al principe con tutta semplicità, gli disse -       secondo de Castro:

Signore, ho l’abitudine di chiamare tutti gli uomini « fratelli miei in Gesù Cristo », ma voi siete mio re e mio signore ed io sono tenuto ad obbedirvi. Come volete che vi chiami? – « Co­me vorrete! » – Vi chiamerò dunque « buon principe ». Dio voglia accordarvi un regno pro­spero, la gràzia di vivere e di morire bene, af­finché possiate – un giorno – godere della vita eterna!

Queste parole, sgorgate dal fondo del cuore, furo­no tanto gradite al principe che si abbassò per rialzar­lo, lo prese per mano e l’introdusse nel suo studio. Gio­vanni espose allora in modo semplice lo scopo del suo viaggio e lo stato del suo ospedale. Molto interessato, il principe Filippo gli pose diversi quesiti e, soddisfatto delle risposte, gli fece rimettere un’offerta degna del suo nome.

Giovanni di Dio visitò, quasi ogni giorno, anche le infanti, sorelle del principe reggente, e ricevette da loro e dalle loro dame d’onore molti doni e gioielli. Ora, tutte queste elemosine egli le distribuiva ai biso­gnosi di Valladolid, con sorpresa di coloro che erano al corrente dello scopo del suo viaggio. Perciò gli dice­vano: Fratello Giovanni di Dio, perché non conservate il denaro per i vostri poveri di Granata? – Fratelli miei, rispondeva lui, dare qui o dare a Granata, è sempre fare del bene per Dio, che si trova in ogni luogo.

Per fortuna, donna Maria de Mendoza, il conte di Tendilla e gli altri suoi benefattori, persuasi che non vi erano altri mezzi per impedirgli di distribuire sul posto le elemosine ricevute e tornare a Granata a mani vuote, decisero di comune accordo di offrirgli, a titolo di dono, delle lettere di cambio pagabili soltanto a Granata. Queste lettere gli avrebbero permesso di soddisfare i creditori e di assistere i poveri del suo ospedale.

Giovanni di Dio trascorse cosi alcuni mesi a Valla­dolid, fino al periodo in cui si iniziarono a preparare i festeggiamenti a Corte ed in tutta la città, in occasio­ne delle prossime nozze dell’infanta Maria con l’arci­duca Massimiliano d’Austria.

Si rimise quindi in viaggio ai primi di settembre del 1548. Durante il viaggio di ritorno, più diretto e di circa 500 Km., de Castro riferisce che Giovanni di Dio sopportò grandi sofferenze. Camminando infatti scalzo, lungo strade piene di sassi ed accidentate, aveva i piedi screpolati ed aperti in più parti in seguito alle cadute. Pro­vava anche una forte sensazione di scottature su tutto il corpo, poiché non portava la camicia ed i suoi abiti ruvidi e spessi erano placcati su di lui come pece. Inoltre, aveva la pelle del vol­to, del capo e del collo spellata dal sole, soffer­to a capo scoperto.

Pur in questo stato, camminava con passo svelto, animato dal desiderio di rivedere al più presto i suoi malati ed i suoi poveri e di portare sollievo ai loro affanni. Spossato dalle fatiche e dalle sofferenze, arri­vò finalmente, con gioia degli abitanti di Granata e della contrada, con allegrezza soprattutto dei suoi assi­stiti, che attendevano con impazienza il loro padre e consolatore.

Giovanni di Dio si affrettò a riscuotere i mandati, pagò una parte dei suoi debiti e provvide ai nuovi bisogni, specialmente in favore delle sedici donne da lui convertite, alle quali diede le doti attese.

Infine, rimase ancora debitore di più di 400 ducati e, per soddisfare i propri impegni, rinnovò i prestiti.

Il suo cuore non sopportava di veder soffrire i poveri senza soccorrerli e provava fino all’angoscia il vivo desiderio di pagare i debiti. Conciliare questi due desideri sembrava impossibile, poiché egli dava senza esi­tare ogni suo avere, quando gli si presentava qualche indigenza.

 

XIV. L’INCENDIO ALL’OSPEDALE REGIO

C’era a Granata un grande ospedale, fondato 50 anni prima dai « re cattolici » Ferdinando ed Isabella, dopo la conquista della città, fino allora in possesso degli Arabi. Vi si curava ogni genere di malati pove­ri, compresi quelli mentali, « i più poveri tra i pove­ri ». Costruito con magnificenza in una vasta pianura chiamata « el campo », esso esiste ancor oggi. Si nota, al primo piano, nella parte rimasta intatta, una came­retta con al centro una finestra di un metro quadrato, munita all’esterno di sbarre verticali che non nascon­dono né il sole né il panorama. Qui alloggiò Giovan­ni di Dio durante il suo breve shock nervoso. Appena guarito, egli aveva esercitato nell’ospedale, per un perio­do di tre mesi, un lavoro come aiuto infermiere. Ne conosceva dunque le sale, le scale e tutti i passaggi.

Ora, il 3 luglio 1549, alle il del mattino, in piena estate, mentre il sole inondava di luce e di calore la città in festa, un incendio scoppiò in questo ospedale – ed ecco in quale circostanza. Un certo Rojas, am­ministratore principale dell’ospedale, offriva quel gior­no uno splendido banchetto in onore di donna Magda­iena, figlia di don Pedro de Bobadilla.

Per arrostire allo spiedo un’intera giovenca farcita di porcellini, pernici, fagiani e diverse spezie, i cuo­chi allestirono un enorme fuoco nel camino più gran­de. Disgraziatamente, una scintilla accese una trave co­stituita da un intero pino, facilmente combustibile, ed il fuoco si propagò. Subito vengono suonate le campane a martello, ci dice Anton Rodriguez, e si fa richiamo ai muratori, ai falegnami ed ai carpentieri, in partico­lare a Giovanni de Ratia, che accompagno come appren­dista sui luoghi del sinistro.

Da parte sua, Giovanni di Dio arriva al più presto.

Il suo zelo, stimolato dalla grandezza del peri­colo intravisto, si mostra cosi efficace che, quasi da solo, salva portandoli sulle spalle gli amma­lati che non sono potuti fuggire con i propri mezzi. Poi getta dalle finestre, con un’agilità so­vrumana, tutti i letti e gli abiti che può afferra­re. Infine, dopo aver posto tutti i malati al sicu­ro, raggiunge, con una scure, la sommità dell’e­dificio, lì dove il pericolo è maggiore, per aiu­tare a tagliare l’armatura in legno del tetto ed impedire cosi al fuoco di propagarsi. Vi si trova, quando un’enorme fiamma uscita da un lato ed una seconda dall’altro lo prendono in mezzo. Nello stesso tempo gli spettatori vedono alzarsi un denso fumo. Tutti pensano, senza pos­sibile dubbio, che le fiamme hanno incendiato e consumato il salvatore. « E subito la voce della sua morte eroica corre tra la folla con la stes­sa rapidità con cui il vento ravviva le fiamme. Da ogni parte si levano lamenti e grida ». Ora, nel momento in cui uno meno se lo aspetta, lo si vede venir fuori dalle fiamme, scendere rapi­damente una scala rimasta intatta ed uscire sano e salvo, senza alcuna lesione. Però le sue sopracciglia e ciglia erano state bruciacchate dalle fiamme, segno evidente del miracolo ope­rato in suo favore da Nostro Signore.

Presenti all’incendio dell’ospedale, il marchese di Mondejar, capitano generale, il marchese di Ceraldo « corregidor » della città, il consiglio dei ventiquattro e molte altre autorità, hanno reso testimonianza di que­gli avvenimenti tragici e prodigiosi.

Anton ‘Rodriguez, l’apprendista citato più sopra, conferma i fatti con semplicità ingenua:

Arrivato di corsa, ho visto Giovanni di Dio che en­trava ed usciva in mezzo alle fiamme, portando sulle spalle i malati impotenti, poi gettare dei letti dalle fine­stre. Faceva delle cose prodigiose e volevo raggiungerlo per aiutarlo, ma la paura di diventare preda delle fiamme mi inchiodava sul posto. Mentre Giovanni di Dio circolava cosi nell’interno, si alzarono – tutt’ad un tratto – delle fiamme cosi vive, che lo circondarono da tutte le parti. Tutti credemmo, con grande dolore, che era stato bruciato. Ma subito Giovanni di Dio usci di tra le fiamme, indenne e senza ferite. Eravamo tutti contenti. Il fuoco, persa la sua forza, fini con lo spe­gnersi.

Donna Luisa de Ribera, 47° testimone, dà una versione analoga, ma aggiunge: nel momento in cui Giovanni di Dio era scomparso agli sguardi, il marche­se di Ceraldo aveva alzato la voce, chiedendo di cer­care il benedetto padre Giovanni di Dio, poiché la sua persona e la sua salute erano più importanti di dieci ospedali. Ma il fuoco era cosi intenso che nessuno osava avventurarvisi. In capo ad una mezz’ora, quando tutti lo credevano ridotto in cenere, Giovanni di Dio usci indenne, con l’abito intatto e senza bruciature; soltanto le sopracciglia e le ciglia erano bruciac­chiate.

Questo fatto prodigioso, attestato da molti testi­moni, da specialisti del fuoco e da autorità di altissimo rango, può essere considerato come un vero miracolo. E’ a giusto titolo che la Chiesa perpetua il ricordo di questa azione eroica nell’ufficio divino della festa di san Giovanni di Dio. Dapprima, nella lettura del secon­do notturno: Giovanni di Dio si gettò nel fuoco, per salvare i malati, rimase in mezzo alle fiamme divenute gigantesche e ne uscì finalmente indenne per la prote­zione divina e con ammirazione di tutti gli abitanti… insegnando la carità, mostrò cosi che il fuoco esterno aveva minor forza su di lui del fuoco che lo bruciava internamente. Poi, nell’orazione del giorno: Signore Dio nostro, a Giovanni che bruciava del tuo amore, tu permettesti di passare senza danno attraverso le fiam­me e con lui facesti nascere nella tua Chiesa una nuova famiglia religiosa; per la stia preghiera e per suoi meriti, brucia i nostri vizi col fuoco della tua cari­tà e degnati per sempre di guarirci…

Sotto il baldacchino del Bernini, una grandiosa tela raffigurante questo prodigio ornava l’altare principale di San Pietro in Roma, in occasipne della cànonizza­zione di Giovanni di Dio, il 19 ottobre 1690.

 

XV. GLI ULTIMI ANNI DI GIOVANNI DI DIO

La dedizione instancabile di Giovanni di Dio verso i poveri e i sofferenti, le sue virtù palesi a tutti, la sua condotta eroica in occasione dell’incendio dell’Ospe­dale Regio, produssero una viva impressione sui suoi contemporanei. Nonostante le sue proteste, ormai tutti lo chiamavano « il santo ».

Molte persone non si contentavano più di ammi­rare, esse volevano imitare. Accorrevano all’ospedale per prendere parte ai lavori di Giovanni di Dio e dei suoi compagni, esercitaavano con essi la carità e la misericordia. Da parte loro, religiosi ed ecclesiastici cooperavano con zelo alla sua opera ospedaliera, por­tando ogni giorno ai poveri ed ai malati i soccorsi e le consolazioni del loro ministero. Parimenti, i laici rag­guardevoli e le grandi dame della città non attendeva­no più le visite del questuante; andavano loro stessi in ospedale a portare le elemosine e a prestare aiuto in qualche modo.

In questo periodo, la nascente compagnia dei Gesui­ti si diffondeva rapidamente in Spagna. Chiamati dal maestro d’Avila e dall’arcivescovo don Pedro Guer­rero, molti di essi si stabilirono a Granata, dove fu loro affidato il primo collegio dell’Università e la cura degli esercizi spirituali. Secondo il Padre Antonio Astrain, s.j., questi religiosi si stabilirono nella città solo dopo il 1551. Al contrario, se ci riferiamo al Padre Orlandini s.j., alcuni di essi vi soggiornarono già dal 1548, se non altro temporaneamente. Nella sua storia della Compagnia, questo Padre scrive:

Vi era allora a Granata, tra gli altri, un celebre ospedale diretto da uno chiamato Giovanni di Dio, uomo pio e devoto; dei membri della nostra compagnia si premurarono di recarvisi per offrire la loro assisten­za spirituale ai malati, ma anche per prestare loro delle cure corporali, La loro carità, egli prosegue, non rifiutava alcun gene­re di servizio, per quanto sudicio e ripugnante sem­brasse. Seguendo il loro esempio, dei nobili e dei bor­ghesi si misero a servire i poveri. Qui si vedevano, sia il governatore della città, i membri del consiglio dei ventiquattro, i nobili cavalieri di san Giacomo o del Toson d’oro con i loro brillanti costumi, sia i canoni­ci ed i maggiori prelati ed altre importanti personalità del clero; talvolta dei celebri dottori in teologia o in diritto canonico e civile, e molti altri cittadini di alto ceto. Essi si avvicinavano ai letti ed ai giacigli; e, a capo scoperto, servivano i malati. Molti si inginocchia­vano e baciavano il bordo del piatto che porgevano, altri mettevano con affetto materno il cibo in bocca ai più sofferenti, altri sventolavano un fazzoletto al capezzale dei malati per allontanare le mosche… Spazzavano il pavimento, vuotavano i vasi da notte, scavavano le fosse per i morti, trasportavano i cadaveri e li depo­nevano in terra. Niente costava loro troppo: in questi lavori di carità trovavano la loro gioia e la loro felicità…

I Padri gesuiti non tralasciavano alcuna occasione per incoraggiare questo movimento di carità con le loro esortazioni ed i loro esempi. Il Padre Giovanni Battista Sancio, in particolare, amava raggruppare i visitatori nel cortile dell’ospedale e, negli eloquenti sermoni di carità, era tanto più persuasivo in quanto l’esempio era li davanti agli occhi e l’occasione a por­tata di mano. Un giorno, nella festa di san Martino, dopo aver rilevato il merito delle opere di misericordia, esaltò la carità di questo santo taumaturgo. Non aveva egli, nel cuore dell’inverno, tagliato una parte del suo mantello per rivestirne un povero incontrato sul suo cammino? Poi, facendo un quadro toccante dei bisogni dell’ospedale, esclamò: «Poco tempo fa, in questo luo­go in cui vi parlo, spiegavo la miseria e le privazioni dei poveri malati; tutt’ad un tratto uno slancio di carità colse l’assemblea! Tutti offrirono a gara non soltanto il denaro e l’oro, ma anche gli abiti, di cui si spogliavano per darli. Una carità tanto generosa e sol­lecita è dunque impossibile al giorno d’oggi, e non potrò trovare qui un cuore abbastanza cristiano da imi­tare un si nobile esempio, per insegnare a tutti che, a Granata e nel nostro tempo, la carità è abbastanza viva ed eroica, da presentare un altro san Martino? ». A queste parole, un sacerdote si porta in mezzo all’as­semblea e depone ai piedi del predicatore un bellissi­mo mantello; costituiva tutta la sua ricchezza, poiché valeva più di tutto il resto del suo abbigliamento. Que­sto gesto fu il segnale di una gara straordinaria: i doni si accumularono, li gettavano da vicino, da lontano; li facevano passare di mano in mano, si pigiavano in­torno al predicatore. In poco tempo si ammucchiarono davanti a lui: monete d’oro e d’argento, anelli preziosi, mantelli, mantiglie di ogni genere di stoffa, giacche e casacche ornate di galloni o di trine, budrieri e monili pieni d’oro, abiti di ogni genere, di cui ciascuno si spo­gliava con una sollecitudine sorprendente. Non cessa­vano di dare. L’oratore, vedendo aumentare a dismisura la quantità di oggetti offerti, pensò bene di por fine alla riunione.

In occasione del Natale, la sua parola non ebbe minor effetto. Quell’uomo apostolico vi faceva ammi­rare la bontà di Dio che, per amore degli uomini, ave­va voluto nascere sulla terra e mostrarsi a noi. Da qui colse l’occasione per chiedere ai suoi uditori se, nel vedere il bimbo Gesù che si offriva a loro, non pen­sassero che fosse giusto dargli anche qualche cosa in cambio. Ebbene!, aggiunse, si vedrebbe quale è il vostro cuore verso Gesù che nasce se, avendoLo sotto gli occhi nella mangiatoia, lo lasciaste con indifferen­za nudo, tremante per il freddo, o se, toccati da quanto egli soffre, vi affrettaste a coprirlo e riscaldarlo. E come! egli prosegui, il luogo in cui siamo, nel cuore dell’in­verno, è diverso dalla stalla in cui Gesù, nei suoi poveri, non ha nulla per coprirsi, né per riscaldarsi? Non lo sentite mentre grida ad ognuno di noi: « In verità vi dico che quanto avete fatto a uno dei più piccoli tra questi miei fratelli, l’avete fatto a me » (Mt. 25, 40)?

Questi sentimenti, sviluppati in modo grave e toc­cante, infiammarono i numerosi uditori. Sacrificavano senza difficoltà gli oggetti più preziosi. Nessuno volle andarsene senza aver dato abbondantemente. Inoltre, le verità udite fecero un’impressione profonda nell’ani­mo di molti. Essi vollero da quel momento riconoscere ed onorare pubblicamente Gesù Cristo nella persona dei poveri. Si videro alcuni di questi cristiani pieni di fede che, dopo aver fatto l’elemosina a qualche men­dicante incontrato per strada, si mettevano in ginocchio a baciargli i piedi in mezzo alle strade ed alle piazze più frequentate.

Questo illustre Padre Sancio, nota ancora il Padre Orlandini, predicando un’altra volta nello stesso ospe­dale, segnalò tra parentesi, e senza troppo insistere, la mancanza di lenzuola per seppellire i morti. Subito alcuni buoni cittadini abbandonarono il luogo senza far rumore, corsero a casa a raccogliere un grosso carico di lenzuola, per poi deporli ai piedi del Padre pre­dicatore.

I Padri gesuiti apportarono dunque un prezioso aiu­to a Giovanni di Dio, ed egli ne fu loro molto ricono­scente. C’era, anche qui, una testimonianza della stima della sua opera caritatevole ed una giusta ricompensa del suo zelo ospedaliero, ora da tutti apprezzato.

Tuttavia, i suoi lavori eccessivi e senza posa, pur avendo prematuramente rovinato le sue forze, non potevano fermarlo. Egli ebbe ancora il coraggio, agli inizi del 1550, di fare una questua nella regione di Malaga, a 100 Km. da Granata, come dimostra l’ulti­ma lettera da lui scritta al cavaliere Guttierre Lasso.

La presente è per informarvi del mio arrivo qui in perfetta salute, grazie a Dio, con più di 50 ducati. Ag­giunti a quelli che voi avete laggia, ammontano, io credo, quasi a cento. Dopo il mio ritorno, mi sono indebitato di 50 ducati o più. Né questa somma che ho portato, né quella che ho presso di voi basteranno, poiché ho pia di 150 persone da mantenere e, ogni gior­no, Dio provvede a tutto. Se quindi ai 25 ducati che avete laggia, poteste aggiungere qualche cosa in pia, il tutto sarebbe necessario… Questi 25 ducati, fatemeli pervenire subito, poiché ce li ho di debito e ben più: perciò resto in attesa. Come sapete ve li ho rimessi una sera nel vostro giardino degli aranci, in un sacchetto di tela, mentre passeggiavamo tutt’e due. Verrà un giorno, lo spero nel Signore, in cui passeggerete nel giar­dino celeste! Il mulattiere ha molta fretta, non posso quindi scrivervi a lungo; d’altra parte ho tanto lavo­ro qui, che non ho il tempo di un « Credo » di respiro.

Inviatemi subito quel denaro, per carità; ne ho ur­gente bisogno. Per amore di Nostro Signore, raccoman­datemi alla tanto nobile, virtuosa e generosa schiava di Òesa Cristo, vostra sposa… Saluterete anche da parte mia il vostro figlio l’arcidiacono, che è stato con me a chiedere la santa elemosina… Porgete i miei salu­ti alle vostre figlie e figli ed a tutti quelli che vorrete… A Malaga, raccomandatemi al vescovo e presentategli i miei omaggi, come pure a tutti quelli che vorrete e vedrete, obbligato come sono di pregare per tutti…

Questo viaggio a Malaga fu l’ultimo che egli fece all’esterno. Ma a dispetto della propria magrezza e debolezza, egli andava sempre, la sera, ad implorare l’de­osina in città e si sforzava di essere tutto a tutti durante il giorno.

Per soprappiù, ci rivela de Castro, in seguito ad un grosso sforzo, contrasse una grave ernia. Questa infer­mità troppo trascurata gli causava dei dolori fortissi­mi. Egli peraltro faceva di tutto per dissimularli, per evitare un dolore ai suoi poveri.

Ora accadde, in quel periodo, che il Genil si ingrossasse moltissimo in seguito a piogge tor­renziali. Dissero a Giovanni di Dio che il fiu­me in piena trascinava molta legna e tronchi d’albero. Immediatamente decise di andare a raccoglierli insieme ai validi dell’ospedale, per permettere ai poveri di accendere il fuoco e riscaldarsi, poiché l’inverno era molto rigido: nevicava e gelava. Tra gli indigenti venuti a prendere della legna, c’era un ragazzo. Questi si avventurò con impru­denza nel fiume, fu trasportato dalla corrente e annegò nonostante gli sforzi di Giovanni di Dio per soccorrerlo: portato molto lontano dai flutti, egli non poté afferrano. Il buon Padre ne provò un grande dolore; prese freddo, cadde ammalato e dovette mettersi a letto.

Ora, in quel frattempo, alcune persone dallo zelo indiscreto, poco illuminate e sottovalutando il modo elevato di agire di Giovanni di Dio, si recarono dal­l’arcivescovo don Pedro Guerrero e lo informarono che all’ospedale si trovavano persone di ogni sorta. Alcune, capaci di lavorare, potrebbero certamente lavorare per guadagnarsi da vivere, se non fossero ospitate. Parimenti, vi si scorgevano delle donne sconvenienti: esse disonoravano Giovanni di Dio e si mostravano prive di riguardo per il bene che prodigava loro. Queste per­sone pregarono dunque l’arcivesco di porre rimedio a quei disordini, dal momento che ne aveva il potere.

Dopo aver ascoltato le loro lagnanze, l’arcivescovo, da buon pastore, fece chiamare Giovanni di Dio, di cui ignorava la malattia, per chiedergli spiegazioni.

Non appena ricevuto l’ordine, il malato si alza e si reca come può, ed al più presto, dal suo superiore.

Giunto davanti all ‘arcivescovo, gli bacia la mano, riceve la sua benedizione e dice: « Cosa ordi­na mio buon Padre, mio Prelato? » – « Fratello Giovanni, gli notifica l’arcivesco, ho appreso che nel vostro ospedale si trovano uomini e donne che danno il cattivo esempio, perniciosi: essi vi causano molto dolore per via della loro cat­tiva educazione. Cacciateli quindi subito e ripu­lite l’ospedale da simili persone affinché i po­veri dimorino in pace e tranquillità e voi stes­so non siate afflitto e maltrattato da quelle persone ».

Dopo aver ascoltato attentamente le parole del suo arcivescovo, Giovanni di Dio gli risponde con umiltà e dolcezza: Padre mio e buon Prelato, io solo sono cat­tivo, incorreggibile, inutile; merito di essere buttato fuo­ri dalla casa di Dio. Quanto ai poveri dell’ospedale, essi sono tutti buoni e non conosco vizi in alcuno di loro. Dio non sopporta d’altra parte i buoni e i cattivi? Non fa risplendere il suo sole su tutti, ogni giorno? Non c’è quindi motivo di allontanare dalla sua casa gli abban­donati e gli afflitti.

La risposta di Giovanni di Dio piacque molto all’ar­civescovo. Egli constatava l’amore paterno e tenero che Giovanni nutriva per i suoi poveri. Per difenderli non rigettava su di sé gli errori che venivano loro imputa­ti? Di conseguenza don Pedro Guerrero, nella sua sag­gezza, giudicò che si poteva – senza timore – aver fiducia in quell’uomo dabbene. Lo benedisse e, nel con­gedarlo, aggiunse: Fratello Giovanni, andate in pace, benedetto da Dio e comportatevi nell’ospedale come a casa vostra; ve lo permetto.

Confortato da queste parole, Giovanni di Dio tornò all’ospedale; ma di giorno in giorno il suo male si aggravò. A brevi intervalli sentiva i brividi e la feb­bre. Capì che la sua vita era in pericolo.

Con l’aiuto di Nostro Signore, Giovanni di D’io compi un ultimo sforzo. Prendendo con sé un segretario, un registro in bianco e l’occorrente per scrivere, si recò in città, e andando da colo­ro ai quali doveva qualcosa, fece registrare la somma dovuta ed il nominativo del creditore. Poi, al ritorno, fece copiare il tutto sopra un secondo registro. Uno se lo pose sul petto, e or­dinò che l’altro fosse custodito nell’ospedale. Se Dio lo chiamava a sé, in caso di perdita del pri­mo registro, il secondo sarebbe sempre rimasto in deposito. Si potrebbero pagare i debiti, noti cosf chiaramente.

Terminato questo lavoro, Giovanni di Dio ritornò nella sua cella e si coricò molto stanco. A partire da quel momento, incapace di uscire, egli si sforzava di portar soccorso ai poveri che facevano ricorso a lui, in­viando biglietti di raccomandazioni. E’ in questo perio­do, febbraio 1550, che egli scrisse o dettò la sua ulti­ma e lunga lettera alla duchessa di Sesa. Citata qui in parte, essa costituisce una specie di testamento partico­lare, che ben rivela le idee ed i sentimenti del santo.

Che questa lettera sia rimessa all’umile e generosa donna Maria de los Cobos y Mendoza, sposa del nobile e virtuoso signore don Gonzalo Fernandez di Cordova, duca di Sesa, mio fratello in Nostro Signore Gesù Cri­sto. In nome di Nostro Signore Gesù Cristo e di Nostra Signora la Vergine Maria sempre pura. Dio prima di tutto e al di sopra di tutto ciò che è al mondo! Amen Gesù!

Il mio grande e costante afletto per voi ed il vo­stro umile marito, il buon duca, fa si che non posso dimenticarvi; ancor pia che vi sono obbligato, vostro debitore. Non mi avete sempre aiutato e soccorso nelle mie difficoltà e necessità? La vostra carità, le vostre elemosine benedette, hanno nutrito e vestito i poveri di questa casa di Dio e molti altri all’esterno. Voi avete sempre bene agito come buoni mandatari e cavalieri di Gesù Cristo. E’ ciò che mi spinge a scrivervi questa lettera, poiché non so se vi rivedrò e parlerò ancora. Che Gesù Cristo vi visiti e vi parli!

Il grande dolore che accuso mi impedisce di pro­nunziare la minima parola, e non so se potrò terminare questa mia lettera. Vorrei tanto vedervi; pregate dun­que Nostro Signore di concedermi la salute, se è suo volere. Egli sa che ne ho bisogno per salvarmi e fare penitenza dei miei peccati. Se vuole accordarmi que­sta grazia, appena rimesso verrò a trovarvi…

Mia cara sorella in Gesa Cristo, pensavo di farvi una visita, durante le feste natalizie, ma il Signore ha disposto molto meglio di ciò che meritavo. O buona duchessa, Gesù Cristo vi ricompensi in cielo delle ele­mosine che mi avete fatto e della carità che mi avete sempre testimoniato! Possa egli ricondurvi sano e salvo il buon duca, vostro generosissimo ed umilissimo spo­so, e concedervi dei figli di benedizione; spero in Gesù Cristo che sarà cosi.

Ricordatevi bene di ciò che vi ho detto un giorno a Cabra. Riponete la vostra fiducia in Gesa Cristo solo e da Lui sarete consolata, benché ora sopportiate gran­di dolori; perché alla fine avrete maggior felicità e gloria, se li sopportate per amor suo.

O buon duca, o buona duchessa, siate benedetti da Dio, voi e tutti i vostri posteri! Poiché non posso ve­dervi, vi mando da qui la mia benedizione, indegno peccatore come sono. Dio, che vi ha creati, vi accordi anche la grazia della salvezza! Amen Gesa! La bene­dizione di Dio Padre, l’amore del Figlio e la grazia dello Spirito Santo siano sempre in voi, in tutti gli uomini ed anche in me! Amen Gesù!

Gesù Cristo vi consoli e vi assista! Poiché per amor suo, voi mi avete aiutato e soccorso, sorella mia in Gesù Cristo, buona ed umile duchessa! Se piace a Nostro Signqre di togliermi dalla vita presente, ho la­sciato qui. degli ordini perché al suo ritorno da Corte, dove è andato, il mio compagno Angulo (io ve lo rac­comando, giacché lui e sua moglie sono molto poveri) vi rimetta le mie armi: sono tre lettere in filo d’oro su raso rosso. Le conservo dacché sono entrato in lotta con il mondo; custoditele bene unitamente a questa croce, per darle al buon duca, quando Dio ve lo ricon­durrà sano e salvo.

Esse sono su raso rosso, per rammentarvi sempre il sangue prezioso che Nostro Signore ha sparso in favo­re di tutto il genere umano e la sua santissima Pas­sione. In fatti, non v’è contemplazione più sublime di quella della Passione di Gesù Cristo; e chiunque è fede­le a questa devozione non si perderà, con l’aiuto divino.

Le lettere sono tre, poiché ci sono tre virta che ci conducono al cielo. La prima è la fede: per essa, noi crediamo in ciò che crede e stima la nostra santa Madre Chiesa, osserviamo i suoi comandamenti e li mettia­mo in pratica. La seconda è la carità: carità nei riguardi della nostra anima anzitutto, puri ficandola con la con­fessione e la penitenza; poi carità verso i nostri simili, volendo per loro tutto ciò che desideriamo per noi stes­si. La terza è la speranza in Gesù Cristo solo, perché per le difficoltà e le infermità sopportate in questa vita per amor suo, ci conceda la gloria eterna, considerando i meriti della sua santa Passione e la sua grande mise­ricordia.

Le lettere sono in oro: l’oro, questo metallo cosi prezioso da risplendere ed aver il colore che lo rende pregiato, viene dapprima separato dalla terra e dalla ganga d’origine, poi immerso nel fuoco, dove finisce di decantarsi e purificarsi. Cosi conviene che l’anima, gio­iello di grandissimo valore, si distacchi dalle gioie e dai piaceri carnali della terra, non si attacchi che a Gesù Cristo, riceva la sua ultima purificazione nel fuoco della carità, in mezzo alle tribolazioni, ai digiuni, alle auste­re penitenze, per diventare preziosa agli occhi di No­stro Signore e risplendere davanti, alla maestà divina.

Questa stoffa ha quattro angoli, simboli di altre quattro virta, compagne fedeli delle tre precedenti e che sono: la prudenza, la giustizia, la temperanza e la fortezza. La prudenza ci spinge a pensare ed operare in tutto con circospezione, saggezza e secondo i consi­gli delle persone pia anziane e con maggior esperienza. Con la giustizia ci regoliamo secondo l’equità e diamo a ciascuno ciò che gli appartiene: a Dio ciò che è di Dio, al mondo ciò che è del mondo. La temperanza ci insegna ad essere moderati nel mangiare, nel bere, nel vestire e in tutto ciò che è necessario per il sosten­tamento del nostro corpo. In fine, sotto il dominio della fortezza, siamo fermi e felici nel servizio di Dio, mo­striamo un volto giovale nelle difficoltà, nelle fatiche, nelle malattie, come nella prosperità e nelle consola­zioni, e rendiamo grazie a Gesù Cristo in ambo i casi.

Sulla parte posteriore di questa stoffa, una croce a forma di X rammenta che chiunque desidera salvarsi deve portare la sua croce secondo la volontà divina e la grazia ricevuta. Tutti, infatti, mirano allo stesso scopo, ma ciascuno procede per la strada su cui il Si­gnore lo conduce.

Tutto questo, buona duchessa, voi lo sapete meglio di me e nondimeno provo piacere a parlarne con qual­cuno che mi comprende…

Cara sorella in Gesù Cristo, il male mi fa soffrire molto e non mi permette pia di scrivere; desidero ripo­sarmi un po’, per potervi scrivere in seguito pia a lun­go, perché non so se ci rivedremo ancora. Gesù Cristo sia con voi e la vostra famiglia…

Questa frase, rimasta incompiuta, è probabilmen­te l’ultima scritta da Giovanni di Dio, poco prima di morire.

 

XVI. MORTE DI GIOVANNI DI DIO

Gli abitanti di Granata non vedevano più Giovanni di Dio percorrere le strade per la questua. Meravigliati, essi si informarono e quando seppero che era malato al punto di non poter lasciare il letto, si affrettarono a procurargli il necessario e a dare ai poveri ed agli ammalati i loro doni abituali. Da parte loro, le persone ipiù ragguardevoli della città gli testimoniarono il più vivo interesse, gli prodigarono dei soccorsi e si preoc­icuparono a buon diritto della continuità della sua ope­ra. Essi impegnarono in particolare il fratello Martin, primo compagno del santo, ad assicurargli la tranquil­lità ed il riposo richiesti dalla malattia ed a sostituirlo provvisoriamente nella direzione dell’ospedale.

Messa al corrente della malattia di Giovanni di Dio, donna Ossorio, sposa di Garcia de Pisa, membro del gran consiglio dei ventiquattro, venne anche a visitarlo. Questa cristiana tanto esemplare, benefattrice abituale dell’ospedale, constatò la gravità del suo stato e lo scarso sollievo che egli riceveva in quel luogo. Circon­i Questo capitolo si ispira al racconto di de Castro, sem­plificandolo. Sono testuali soltanto la frasi in corsivo. dato da poveri, ai quali non sapeva rifiutare nulla, egli non poteva riposarsi. Ella lo pregò dunque caldamente di accettare il trasferimento nella sua casa; lo avrebbe curato, sarebbe rimasto a letto in una camera riscaldata e silenziosa. Fino allora dormiva sulle tavole, col suo cesto come cuscino, e si era in febbraio.

Egli ebbe un bello scusarsi, supplicare che non lo separassero dai suoi poveri,, in mezzo ai quali voleva morire ed essere sepolto. Infine, tuttavia, donna Ana Ossorio, munita di un ordine preciso dell’arcivescovo, riuscì a convincerlo dicendo: « Avete predicato a tutti l’obbedienza, dovete obbedire ora che vi si chiede di farvi curare per delle serie ragioni e per amore di Gesù Cristo ».

Donna Ana Ossorio fece dunque venire una portan­tina, per condurlo via. Ve lo misero, ma i poveri, sen­tendo che volevano portar via il loro Padre, la circon­darono per opporvisi, tanto lo amavano. Di fronte alla sventura, queste povere persone brandivano le loro uniche armi: gemiti e singhiozzi cosi strazianti che nessun cuore avrebbe potuto rimanervi insensibile. Scon­volto, Giovanni di Dio esclama: « Dio lo sa, fratelli miei, io desideravo morire in mezzo a voi; ma poiché egli vuole che io muoia senza vedervi, che sia fatta la sua volontà! ». Ed impartendo a tutti la sua benedizio­ne, aggiunge:«Fratelli miei, rimanete in pace e, se non ci rivedremo più, pregate per me Nostro Signore».

A queste parole, le grida di desolazione aumentano e provocano in Giovanni di Dio un’emozione così vio­lenta che egli sviene sulla portantina.

Ritornato in sé, lo portano subito dalla dama, per non causargli ulteriore dolore. La casa dei « Pisas »

si trova al numero 22 (oggi 16) di via « Convalecen­cia », sotto la « Torre de la Vela ». I vicini assistono all’arrivo del povero uomo allo stremo delle forze. Mol­to in fretta, dunque, la notizia si diffonde a Granata.

Donna Ana Ossorio lo riceve personalmente. E’ un onore per lei averlo nella sua casa. I suoi domestici si affrettano attorno a Giovanni di Dio che è sfinito. Lo trasportano con precauzione in una camera spaziosa del primo piano. Il copriletto di seta verde è stato tolto, il letto è pronto per accogliere il malato. Delicatamente gli tolgono l’abito ruvido e povero e gli fanno indossa­re un’ampia camicia da notte, nella quale le sue mem­bra indolenzite saranno a loro agio. Per la prima volta indubbiamente, da oltre dieci anni, egli può riposare e dormire tranquillo, troppo debole d’altronde per pro­vare il minimo affanno. I medici verranno; essi som­ministreranno i loro farmaci più o meno efficaci. A nulla servirà questo riposo; esso procurerà solo una tregua. Infatti la malattia è molto grave, e a quell’epo­ca – a quanto sembra – senza rimedio. Tutta l’élite di Granata si preoccupa per la salute di quest’uomo senza titoli, senza dignità, senza pretese, ma la cui carità eroica ha conquistato il cuore di tutti. Alla cat­tedrale, nelle chiese, ma soprattutto nei monasteri e nei conventi, incessanti preghiere si alzano al cielo in favore di questo oscuro straniero, dal cuore magnani­mo, inviato da Dio per galvanizzare la cristianità anda­lusa e castigliana e, quanto prima, per edificare tutta la Chiesa.

Riposatosi un po’, molte persone importanti venne­ro a visitarlo, riempiendolo di leccornie, in una gara di cortesia. Egli non le assaggiava, ma ringraziava ed apprezzava la carità che li spingeva a fargli del bene. Contemporaneamente, del resto, gli impedivano di ve­dere i poveri; c’era là un portiere che proibiva loro di entrare poiché, nel vederli, egli piangeva e soffriva. Egli otteneva, se non altro, di far distribuire loro le lec­cornie ricevute.

Nonostante tutte le cure, il male si aggravava di giorno in giorno. Quando l’arcivescovo apprese che Gio­vanni di Dio si avvicinava alla fine venne a visitarlo, a consolarlo con sante parole ed incoraggiarlo per il grande viaggio. Prima di lasciarlo, gli disse queste paro­le: « Se c’è qualcosa che vi addolora, fatemene parte­cipe; se posso vi porterò rimedio ». – « Padre mio e buon pastore, rispose lui, tre cose mi danno pensiero. La prima: aver servito così poco Nostro Signore, men­tre ho ricevuto tanto. La seconda: i bisognosi, le per­sone uscite dal peccato, dalla via cattiva ed i poveri ritrosi che ho preso a mio carico. L’ultima: questi debi­ti che ho contratto per Gesù Cristo ». E gli rimette il registro sul quale erano annotati. Il prelato riprese:

« Fratello mio, mi dite che non avete servito Nostro Signore. Ebbene! abbiate fiducia nella sua misericordia. Egli supplirà con i meriti della sua Passione a ciò che vi è mancato. Per quanto concerne i poveri, io li rice­vo e prendo a carico mio, com e mio dovere. Quanto ai vostri debiti, fin d’ora li assumo e vi prometto di pa­garli, come avreste fatto voi. Di conseguenza, rimanete in pace e non vi preoccupate di nulla. Pensate soltan­to alla vostra salvezza e raccomandatevi a Nostro Signore ». Giovanni di Dio trasse un grande conforto dalla visita e dalle promesse del suo prelato. Gli baciò la mano di nuovo e ricevette la benedizione. Poi, dopo aver rivolto al malato qualche parola di consolazione, l’arcivescovo se ne andò e, strada facendo, si recò a visitare l’ospedale.

Molto indebolito, Giovanni di Dio, nel corso della serata di venerdì 7 marzo, ricevette in piena conoscen­za il sacramento della penitenza (cosa che faceva d’al­tronde molto spesso), e gli fu portato Nostro Signore che lui adorò, poiché il suo stato non gli permetteva pia di comunicarsi. Chiamando allora il suo compagno, Antonio Martin, gli affidò i malati, i bisognosi ed i pove­ri ritrosi e gli comunicò le sue ultime raccomandazioni, poi chiese di rimanere solo per dormire un po’: il suo ultimo riposo su questa terra!

Il sabato 8 marzo, infatti, una mezz’ora dopo il mat­tutino, arrivato alla fine e rattristato di morire così in quel letto, a suo parere troppo confortevole, Giovanni di Dio, stimolato dalla sua ardente carità, concentra le rimanenti energie, si alza, si trascina come può e sor­reggendosi al tavolino rettangolare, si inginocchia per terra. Stringe il crocifisso al petto ansante e; dopo un piccolo momento di silenzio, pronuncia con voce chiara e intelligibile: « Gesù, Gesù, mi rimetto nelle vostre mani! » e rende l’anima al suo Creatore, all’età di 55 anni, l’8 marzo 1550, dopo aver servito i poveri per undici anni nel suo ospedale.

Accadde allora, continua de Castro, una cosa degna d’ammirazione, non riferita di alcun altro santo, tranne di san Paolo, primo eremita: dopo la morte il suo corpo restò fermamente in ginocchio, senza cadere, per la durata di un quarto d’ora. E sarebbe rimasto in quel­la posizione fino ad ora, se non fosse stato per la sem­plicità dei presenti. Vedendolo così, essi pensarono che era disdicevole che il corpo si irrigidisse in ginocchio. Per seppellirlo gli fecero perdere quella forma, non senza difficoltà. Molte dame di alto rango e quattro sa­cerdoti assistettero alla sua morte e tutti rimasero am­mirati, rendendo grazie a Nostro Signore per aver concesso al suo servo un genere di morte in completa armonia con la vita.

Secondo una persona che gli fu molto devota, rife­risce ancora de Castro, Giovanni di Dio diceva talvolta che sarebbe morto tra il venerdi ed il sabato. Fu così: morì una mezz’ora dopo la mezzanotte. Egli diceva an­che che molti avrebbero portato il suo abito a servizio dei poveri, attraverso il mondo intero, e ciò sta per aver inizio, conclude de Castro.

Nella nostra epoca, quella predizione si è piena­mente realizzata, giacché san Giovanni di Dio è il pa­triarca dei figli e delle figlie che continuano la sua opera nelle cinque parti del mondo.

 

XVII. LE ESEOUIE DI GIOVANNI DI DIO

Fin dal sabato mattina, 8 marzo, donna Ana Ossorio si premurò di annunciare all’arcivescovo, don Pedro Guerrero, la morte di Giovanni di Dio e di consul­tarlo riguardo le disposizioni da prendere per le ese­quie.

Questa nobile dama, convinta di avere sotto il pro­prio tetto il corpo di un santo, volle onorarlo, dopo la sua morte, con sollecitudine maggiore di quella pro­digatagli durante la malattia. Ella fece esporre il cor­po sopra un letto meraviglioso, ornato con quanto ave­va di più sontuoso, in una grande sala. Furono alle­stiti tre altari, dove sacerdoti secolari e regolari, venu­ti spontaneamente da tutti i punti della città, celebraro­no la messa, senza interruzione, dal sabato mattina fino al mattino di lunedì dieci, giorno fissato per le esequie. Da parte loro, dei fedeli pregavano, senza posa, dinanzi al corpo.

Alla morte di Giovanni di Dio si compì con esat­tezza ciò che Cristo nostro Redentore ha detto nel suo Vangelo: « Chiunque si abbasserà sarà innalzato » (Mt. 23, 12).

Per tutto il tempo che servì Nostro Signore, egli si sforzò di umiliarsi, di disprezzarsi, di tenersi all’ultimo posto con tutti i mezzi possibili. Da parte sua, Nostro Signore, realizzando pienamente la sua parola, innalzò ed onorò Giovanni di Dio in vita ed in morte: Infatti fecero al suo corpo il pia sontuoso seppellimento che sia mai stato fatto per quello di un principe, di un impe­ratore o di un monarca di questo mondo.

Se alle esequie di certi principi hanno assistito tan­te persone altrettanto ragguardevoli e persino di più, i sentimenti che animavano gli uni e gli altri differivano molto. Ora, sono i sentimenti quelli che misurano il vero onore reso. Coloro che assistono alle esequie dei principi lo fanno spesso per adulare i loro successori e piacer loro o anche, talvolta, perché vi sono costretti (i complimenti del mondo non sono di solito di questo tipo?). Per le esequie di Giovanni di Dio fu tutt’altra cosa. Egli era così povero, così’ umile! Non possedeva niente sulla terra. Le persone accorse per onorarlo non potevano dunque essere sospettate di nessuna di quel­le tre concupiscenze che, secondo san Giovanni, sedu­cono gli uomini del mondo.

Nondimeno, il giorno in cui si apprese della morte e delle esequie di Giovanni di Dio, una folla di per­sone di ogni condizione venne in fretta, senza esservi convocata.

Di primo mattino, il lunedì, le strade e le piazze vicine alla casa mortuaria potevano a stento contenere la folla in continuo aumento. La partenza ha luogo alle nove. Si depone la bara aperta sopra una barella ric­camente ornata. Quattro gentiluomini della più alta no­biltà: don Enriquez de Ribera, marchese di Tarifa, don Rodrigue Pacheco, marchese di Ceraldo, don Pedro Bobadilla e don Juan de Guevara, la mettono in spalla e si portano fino alla strada. Qui sorse una contestazione per sapere chi doveva allora prenderlo in carico. Il venerabile Padre Carcamo, dei frati mino­ri, ed altri Padri del suo Ordine, si presentano subito:

è a noi, essi dicono, che spetta di portare questo corpo giacché, da vivo, egli ha imitato completamente il nostro Padre san Francesco in povertà, penitenza e ri­nunzia. Viene quindi lasciato loro per un buon tragit­to poi, di quando in quando, gli altri religiosi di tutti gli Ordini si danno il cambio in quel servizio, fino all’arrivo a Nostra Signora della Vittoria.

A causa della moltitudine che si accalca lungo il passaggio, il Corregidor e le guardie civili sono costret­ti a fare largo ed a canalizzare la folla.

Ecco l’ordine del corteo. In testa, i poveri dell’ospe­dale di Giovanni di Dio, le donne da lui maritate, le ragazze povere e le vedpve, sue protette: tutti con una candela in mano. « Essi piangono e gridano i bene­fici e le elemosine da lui ricevuti ». Vengono poi le nu­merosissime confraternite della città, secondo il loro Ordine, con le loro fiaccole, le loro croci e i loro sten­dardi. Poi, mescolati insieme e portando dei ceri, i chierici ed i religiosi di tutti gli Ordini. Seguono la croce della parrocchia ed il suo clero, il capitolo dei canonici e i dignitari della Chiesa con la loro croce; infine l’arcivescovo ed i cappellani della cappella reale. Viene poi il corpo e appresso, il Corregidor, il gran consiglio dei ventiquattro i giurati della città, i cava­lieri ed i signori, tutti gli ufficiali ed avvocati della cancelleria reale ed un’infinità di persone: esse espri­mono il loro dolore. Non solo i vecchi cristiani, ma anche i moriscos piangono, narrano nella loro lingua araba il bene, le elemosine ed il buon esempio di Gio­vanni di Dio e, con grandi grida, ripetono mille bene­dizioni.

Le campane della Chiesa maggiore, di tutte le par­rocchie e di tutti i monasteri della città suonano a morto. Esse sembrano, quasi fossero dotate di ragione voler esprimere un sentimento diverso da quello solito.

Quando il corteo raggiunge la piazzetta davanti all’entrata di Nostra Signora della Vittoria, la bara vie­ne fermata. Vi è ressa, infatti, per entrare’ in chiesa e la folla spinge; non si può più avanzare; si rimane fermi per molto tempo… Allora la massa, nella sua ardente devozione verso Giovanni di Dio, che essa non rive­drà mai più, si sforza di guardare, di toccare il corpo, di prenderne qualche reliquia: alcuni fanno toccare i grani del rosario, altri dei libri di preghiere e diversi oggetti per loro consolazione. Quegli appassionati si serrano tanto fitti attorno al corpo, i loro pianti e le loro grida sono così veementi, che non li si può allon­tanare in alcun modo, né con la preghiera né con la forza. Se Dio non avesse badato a farli allontanare, avrebbero ridotto a pezzi anche la bara, per prenderli come ricordi.

Finalmente, i portatori possono introdurre il corpo in chiesa; i religiosi Minimi rimasti in convento con a capo il loro superiore generale, allora a Granata, lo ricevono, io portano e io pongono ‘sopra un ricco catafal­co innalzato nel coro.  Questo Padre generale presiede All’ospedale dei compagni di Giovanni di Dio, non vi era chiesa in cui poteva essere sepolto; costoro ac­cettarono dunque l’offerta della famiglia Pisa: si inumò Giovanni di Dio nella tomba di quella famiglia, situata in una cappella laterale della chiesa di Nostra Signora della Vittoria.

Nei due giorni successivi si cantò ancora la messa con la stessa solennità; vi fu la predica alla presenza di una grande folla e si celebrarono molte altre messe. A Granata non si predicò per pia di un anno senza fare allusione a Giovanni di Dio ed alla sua vita, sia per addurre una prova alla tesi avanzata, sia per for­nire un esempio al popolo.

Venti anni dopo quel giorno, scrive de Castro, alcu­ni cavalieri, desiderosi di vedere il corpo di Giovanni di Dio, entrarono nella tomba e lo trovarono intatto. Senza traccia di corruzione, tranne sull’estremità del naso. Ne rimasero meravigliati, poiché non ci si era preoccupati di imbalsamarlo.

Su quella tomba appena chiusa, i numerosi amici di Giovanni di Dio, certi della sua autorità presso il Signore, vennero ad implorare la sua intercessione ed a sollecitare delle grazie spirituali e temporali. Ben presto, vi furono molti miracoli e la reputazione di santità del defunto si diffuse sempre più.

Questi eventi portarono i discepoli diretti di Gio­vanni di Dio a tendere verso due obiettivi: ottenere che il corpo del servo di Dio fosse loro restituito ed iniziare le pratiche per ottenere la sua beatificazione.

Qui ci interessa solo il primo obiettivo. Esso fu rag­giunto gradualmente. Il 6 settembre 1625, il nunzio apostolico ordinò di estrarre il corpo di Giovanni di Dio dalla tomba della famiglia Pisa-Ossorio e di collo­carlo da solo sotto l’altare della stessa cappella.

Poi, dopo molte pratiche presso i superiori generali dei Minimi ed un intervento della Santa Sede, il padre Ferdinando d’Estrella, priore generale dei fratelli ospe­dalieri di Spagna, il 28 novembre 1664, ottenne la traslazione del corpo di Giovanni di Dio nella modesta chiesa ad una sola navata, acquistata da Antonio Martin nel 1552, annessa al nuovo ospedale che si intitola a Giovanni di Dio.

Un secolo più tardi, essendo stato ingrandito l’ospe­dale di Giovanni di Dio, il padre Alfonso di Gesù Ortega, priore generale dei fratelli ospedalieri di Spa­gna, iniziò la costruzione di una nuova e magnifica chiesa di stile corinzio. Iniziata nel 1735, essa fu ulti­mata nel 1741. Un « camarin », situato dietro e al di sopra dell’altare principale, ospita un’urna in argen­to massiccio contenente i resti di Giovanni di Dio.

Il 20 dicembre 1920, il papa Benedetto XV con­cesse a questa chiesa il titolo di basilica minore.

 

XVIII.        L’UOMO – IL SANTO

All’epoca in cui de Castro iniziò la biografia di Giovanni di Dio, verso il 1580, trent’anni dopo la mor­te del suo eroe, v’erano ancora a Granata molte perso­ne che l’avevano conosciuto. L’autore avrebbe quindi potuto darcene un autentico ritratto fisico. Egli non ne sentì il bisogno. Leggendolo si apprende, senz’altro, che Giovanni di Dio, all’inizio della sua opera ospeda­liera e sociale, era un uomo solido e vigoroso.

Al contrario, verso il 1620, quando Govea, suo se­condo biografo, abbozzò la sua opera, i testimoni diret­ti della vita di Giovanni di Dio erano diventati molto rari ed anziani. Tuttavia Govea, più sensibile di de Castro all’aspetto esteriore del santo ospedaliero, si sforzò di descriverlo facendo del suo meglio: Era, egli dice, un uomo grande, dalla barba e dai capelli neri, dalla corporatura atletica e atto a diventare un soldato.

Checché ne sia dell’esattezza di questa descrizione, essa ha ispirato, è un dato incontestabile, tutti gli scul­tori e pittori del XVII secolo incaricati di raffigurare Giovanni di Dio. Gli scultori: Augustin Ruiz, Diego de Mora, Pedro de Mena (1620-1693) e José Risueno (1665-1732), come i pittori dello stesso periodo: Her­rera el Viejo (1576-1656), José de Ribera (1588-1656), Francisco Zurbaran (1598-1662), Murillo (1617-1682) pongono dinnanzi ai nostri occhi un Giovanni di Dio molto grande, reso ancor più alto da un abito religioso che gli arriva fino ai piedi. Ora, Giovanni di Dio non portò mai un simile abito. Esso fu dato ai suoi disce­poli dal papa san Pio V il 1° gennaio 1572, 22 anni dopo la morte del santo. Tuttavia, Govea non poteva ignorare la deposizione di Antonio Rodriguez, 17° te­stimone al processo di beatificazione di Giovanni di Dio, nel 1622, tre anni prima della pubblicazione della sua opera. Ora, cosa dichiara Antonio Rodriguez, un tempo portinaio presso l’arcivescovado di Granata, abi­tuato quindi a causa delle sue mansioni a squadrare le persone? « Antonio Martin era un uomo grande, ave­va in capo un berretto rosso, e Giovanni di Dio un uomo pia piccolo, vigoroso, magro e minuto di volto. Egli andava scalzo, portava soltanto calzoni di tela ed un mantello di stoffa grossolana, stretto da una cintura e che arrivava sopra il ginocchio. Aveva la barba e i capelli corti e camminava a capo scoperto. Entrambi soccorrevano i poveri con grande carità ».

Questa descrizione è del tutto conforme ad una scul­tura in legno anteriore al 1579. In base a questa opera, Giovanni di Dio in ginocchio appare di una statura appena sopra la media e indossa un abito corto un po’ speciale ma non religioso, che gli era stato imposto da don Sebastiano Ramirez di Fuenleal, prima del 20 gennaio 1540.

Ecco perché anche il busto di Giovanni di Dio (ec­cezion fatta dell’abito) attribuito a Pedro Raxis (1580-1616), e soprattutto la testa di Giovanni di Dio scolpita policroma da Alonso Cano (1601-1667), ci sembrano avvicinarsi maggiormente alla realtà.

Sintetizzando i dati precedenti, si può, a quanto pare, figurarsi così Giovanni di Dio all’inizio della sua vita ospedaliera: di statura leggermente superiore alla media, egli è agile, ben fatto, il volto magro e bruno, la barba e i capelli bruno scuri, la fronte ampia e libera, gli occhi neri e penetranti; l’insieme del volto, dal­l’aspetto meditativo, riflette una certa tristezza com­passionevole e, a tratti, un’angoscia difficilmente con­tenuta.

Del resto, i diversi episodi della vita di Giovanni di Dio ci hanno già permesso di cogliere da vicino molti aspetti del suo temperamento, del suo carattere, della sua vita psicologica e morale. Uno studio sistema­tico, fatto con obiettività dal Padre Vincente Parra Sanchez s.j., secondo il metodo rigoroso di Sheldon, arricchisce ulteriormente la nostra documentazione

Tenendo conto di tutti questi dati, Giovanni Cida­de, in gioventù, sembra dotato di un temperamento emotivo, estroso, talvolta persino impulsivo. Di una viva sensibilità, egli è naturalmente affabile con tutti. Pronto nel decidersi, egli ama il rischio, l’avventura, la vita libera e fugge la costrizione. E’ accessibile all’amor proprio, alla vanagloria, che lo portano ad iniziative rischiose e persino ad eccessi sanciti da gravi prove fisiche e morali. Queste prove, considerate sempre più da Giovanni come conseguenze dei suoi errori, deter­mineranno in lui dei rimorsi cocenti, mantenendolo a lungo in uno stato di contrizione e di pentimento gra­datamente accentuato. Una tale disposizione porterà, lo si è constatato, ad un passeggero crollo nervoso, ma emergerà a più riprese sotto forma di angosce, più o meno vive, nel corso della sua vita ospedaliera.

Giovanni Cidade prenderà così peraltro coscienza della propria debolezza e miseria. Con la grazia del Signore, esse lo porteranno verso un’umiltà profonda, radicale, che gli permette ben presto di sopportare tutte le vessazioni, senza strappargli il minimo lamento, il più piccolo gesto di impazienza. Ancor più, essa gli farà ricercare e persino comprare gli insulti: Se dici ciò in piazza, avrai due reali! (p. 116).

Questa umiltà gli diverrà connaturale; essa consu­merà le tracce del suo amor proprio, della sua vanaglo­ria di gioventù, la sorgente di tutte le sue disgrazie di altri tempi. Di qui anche quel bisogno costante di rivol­gersi ad una direzione spirituale fissa, quella ricerca perseverante del meglio, nell’unione con Dio, la pre­ghiera, il sacrificio, la penitenza, il digiuno e, in partico lare, con quel grido ripetuto senza posa: Signore, con­cedi la pace alla mia anima e fammi conoscere la strada che devo seguire per arrivare a te.

In fondo, egli realizza in anticipo quanto scriveva più tardi alla duchessa di Sesa. L’oro, questo metallo tanto prezioso, da risplendere ed avere lo splendore che lo fa ammirare, viene dapprima separato dalla terra e dalla ganga originale, poi immerso nel fuoco, dove termina di decantarsi, di purificarsi. Così conviene che l’anima, gioiello di grandissimo valore, si distacchi dalle gioie e dai piaceri carnali della terra, si attacchi a Gesù Cristo solo, riceva la propria purificazione nel fuoco della carità, tra le tribolazioni, i digiuni, le auste­re penitenze, per diventare preziosa agli occhi di No­stro Signore e risplendente dinnanzi alla maestà divina.

D’ora in poi, basterà che la grazia lo inviti a segui­re una strada perché egli vi si inoltri con ardore. Nulla lo ferma. Rimarrà sempre libero in tutte le sue opere ma, spontaneamente, porrà la propria libertà sotto il dominio della grazia. Gli atti realizzati avranno la duplice caratteristica di essere soprannaturali ed umani, di dipendere da Dio e dalla libera volontà dell’uomo.

Questa vita di unione con Dio si manifesterà con orazioni mentali sempre più prolungate e giaculatorie sempre più frequenti. Il Padre Parra Sanchez osserva che, nelle sue sei lettere, Giovanni di Dio cita il nome di Gesù o del Signore 175 volte!

Così ravvivato, il suo amore per Dio si proietterà naturalmente sul suo prossimo e, in particolare, sui poveri ed i sofferenti. Fedele discepolo ed imitatore di Gesù Cristo, egli bruciava dall’unico desiderio di amar­lo sopra ogni cosa e di servirlo nella persona di tutti gli uomini, senza eccezione. In breve, è stato detto di Giovanni di Dio in una formula spagnola molto espres­siva: Egli aveva un cuore di pietra per se stesso, un cuore quasi materno per il prossimo ed un cuore di fuoco vivo per Dio.

Non si tratta qui di sviluppare la sua concezione della spiritualità. Questo lavoro è già stato fatto in

modo notevole. Sembra tuttavia interessante citare alcuni estratti delle sue lettere, in cui espone ai suoi corrispondenti, in tutta semplicità, ciò che ritiene ne­cessario per ogni cristiano. Queste citazioni avranno inoltre il vantaggio di rivelarci i punti principali delle sue preoccupazioni e del suo apostolato diretto.

Noi abbiamo tre doveri verso Dio, egli scrive alla duchessa di Sesa. Amarlo, servirlo, adorarlo. Amarlo sopra ogni cosa che è al mondo, poiché egli è il nostro Padre celeste; servirlo, egli è Nostro Signore, non per desiderio di gloria con la quale deve gratificare i suoi fedeli, ma per la sua sola bontà; infine adorarlo, perché è il nostro creatore e dobbiamo avere sulle labbra il suo santo nome solo per rendergli grazie e benedirlo.

Buona duchessa, tre occupazioni devono riempire le vostre giornate: la preghiera, il lavoro e le cure da prodigare al vostro corpo.

La preghiera. – Rendete grazie a Gesù Cristo appena vi alzate, al mattino, per i suoi continui favori e bene­fici nei vostri confronti. Egli vi ha creato a sua imma­gine e somiglianza. Ci ha fatto la grazia di essere cristia­ni. Implorate anche la sua misericordia, il suo perdono e pregate Dio per tutti.

Il lavoro. Dobbiamo dedicarci a qualche occupazio­ne corporale onesta per meritare il pane che mangiamo ed anche per imitare Gesa Cristo, che ha lavorato fino alla morte. Niente, del resto, genera pia peccati del­l’ozio.

Le cure del corpo. – Come il mulattiere cura e man­tiene la propria bestia per servirsene, così conviene che diamo al nostro corpo ciò che è necessario, affinché non ci vengano meno le forze per servire Nostro Si­gnore.

Mia amatissima e carissima sorella, vi prego per amor di Gesù Cristo, abbiate sempre dinnanzi allo Spi­rito queste tre verità: l’ora della morte, a cui nessuno può sfuggire, le pene dell’inferno, la gloria e l’infinita felicità del paradiso.

La morte, infatti, pensateci bene, distrugge tutto, ci spoglia di tutto ciò che ci ha dato questo miserabile mondo, ci lascia portar solo un pezzo di tela usata e mal cucita. Se moriamo in stato di peccato, i piaceri di breve durata, i divertimenti tanto passeggeri, dovran­no essere espiati nel fuoco dell’inferno. La gloria e la felicità, al contrario, Nostro Signore li riserva ai propri servitori. Sono felicità che l’occhio non ha mai visto, che l’orecchio non ha mai udito e che il cuore dell’uomo non ha mai provato.

Rivolgendosi a persone sposate, Giovanni di Dio non dimentica di rammentare loro la dignità del loro stato, e prodiga eccellenti consigli.

Noi tutti tendiamo allo stesso scopo, ciascuno, èvero, seguendo la strada scelta da Dio… Alcuni sono religiosi, altri chierici, altri eremiti, ed altri infine sono sposati. Così, in ogni stato, ci si può salvare se lo si vuole… è una ragione per incoraggiare gli uni e gli altri… Ciascuno deve abbracciare lo stato in cui Dio lo chiama.

Quanto ai padri e alle madri, essi non devono preoccuparsi e tormentarsi troppo a questo proposito, ma pregare Dio di concedere a tutti i loro figliuoli lo stato di grazia. Quando Dio vorrà, uno si sposerà e l’altro canterà messa, e di tutto questo io non so nulla, Dio sa tutto… E’ Lui che conosce meglio ciò che occorre fare dei vostri figli e figlie e, qualunque cosa Egli decida, voi dovete ritenerla per fatta e ben fatta.

Non può tuttavia tacere con loro’ ciò che gli stava maggiormente a cuore e, in modo indiretto, termina con una lezione di fede e di carità fraterna: « Che il Signore mi faccia la grazia di professare e di credere tutto ciò che crede la nostra santa Madre Chiesa) io lo professo e credo fermamente. Come lei lo professa e crede, così io lo professo e credo: da ciò non voglio allontanarmi, vi ho posto il mio sigillo, lo chiudo con La mia chiave… Se considerassimo la grandezza della misericordia divina, mai cesseremmo di fare il bene quando lo possiamo; poiché, dando ai poveri per amor suo ciò che egli stesso ci ha dato, è il centuplo ciò che egli ci promette nella sua beata eternità. O beato be­neficio, o beati interessi! Chi non darebbe tutto ciò che possiede a questo benedetto creditore che, con noi, fa un così buon affare e ci prega a braccia aperte di convertirci, di piangere i nostri peccati, di fare la carità alle nostre anime e poi ai nostri simili; poiché come l’acqua estingue il fuoco, cosE la carità soffoca il pec­cato ».

Non si può dare una conclusione più sicura a que­sto esposto di queste righe di Pio XII indirizzate al

Padre Ephrem Blandeau, allora priore generale dell’Ordine di san Giovanni di Dio, in occasione del IV centenario della morte del santo. « Voi conoscete per­fettamente i grandi ostacoli e le molteplici difficoltà che egli ha dovuto superare nella sua natura per giungerè alla pratica delle virta cristiane. Egli le acquistava solo al prezzo di uno sforzo quotidiano e di una lotta senza pietà. Guidato e sostenuto in questa via dalla grazia, sotto l’impulso di una volontà che non ammetteva cedi­menti, egli sali sempre con passo pia rapido fino alla vetta della pia alta santità. Egli si è trasformato a! punto da suscitare l’ammirazione generale e diventare l’angelo tutelare dei malati e dei poveri. Voi sapete anche con quale soavità si sforzò di porre rimedio con tutti i mezzi ad ogni sorta di miserie, di infermità e di ango­sce. Stimolato dall’amore divino, non si accontentava di guarire le malattie del corpo, di dare, in base ai suoi mezzi, il pane agli affamati, gli abiti ai poveri in stracci, un ospedale ai vecchi ed agli abbandonati; ma dispensava anche alle loro anime la luce celeste ed i divini conforti, per innalzarli alla speranzà della beati­tudine eterna. Ecco la sacra eredità che egli vi ha lasciato ».

 

XIX. GLORIFICAZIONE DI GIOVANNI DI DIO

La morte di Giovanni di Dio ebbe una risonanza straordinaria in Spagna e in Portogallo. All’unanimità fu lodata la sua azione. Il popolo lo chiamò « Padre dei poveri », i grandi di Spagna la « meraviglia di Gra­ta » e l’opinione pubblica « l’onore del suo tempo ».

Sulla sua tomba e in diverse regioni si moltiplica­rono i miracoli dovuti alla sua intercessione. Il proces­so di beatificazione, iniziato fin dal 1622, fu attivamen­te seguito, poi esaminato e discusso dai membri della Congregazione dei Riti, su domanda del relatore, il cardinale Pietro Maria Borghese, proponente la causa. Costoro decisero all’unanimità, il 28 giugno 1630, che si poteva con tutta certezza, col consenso di Sua San­tità, concedergli il titolo di beato.

Messi al corrente di questa importante decisione, Ferdinando Il, imperatore di Germania, Filippo IV, re di Spagna, Isabella di Francia, sua sposa, la regina madre Maria dei Medici, che aveva introdotto in Fran­cia i fratelli di Giovanni di Dio (1601), numerosi altri principi ed i superiori dei religiosi ospedalieri, si affret­tarono a pregare il pontefice di procedere alla beatifi­cazione.

Consentendo a tutte queste domande, Urbano VIII, con lettera apostolica del 21 settembre 1630, dichiarò beato l’umile fratello Giovanni di Dio.

La beatificazione fu celebrata tanto a Roma e in Italia che a Granata, a Montemor-o-Novo e in tutta la penisola iberica con grande magnificenza. In nessun luogo, tuttavia, queste feste furono tanto brillanti come a Parigi. Messer Giovanni di Loyac, sacerdote, pro­tonotario della Santa Sede, consigliere, elemosiniere e predicatore ordinario del Re e abate di Nostra Signora di Gondon, nella sua opera « Il trionfo della Carità nella vita del Beato Giovanni di Dio », apparso a Parigi, presso Antonio Chrétien, nel 1661, ce le riporta con dovizia di dettagli, con compiacenza e candore deli­ziosi. Li riassumiamo qui; tuttavia i testi più significativi saranno riportati senza alcuna modifica.

La bolla di beatificazione di Giovanni di Dio fu pubblicata a Parigi nel gennaio 1631, ma la solennità fu differita all’8 marzo successivo.

Maria dei Medici, reggente e madre del re Luigi XIII, prima di partire per la Piccardia, incaricò l’abate di Loyac e il Padre Priore della Charité de Paris di pre­parare le solennità per quel giorno.

Le decorazioni della chiesa della Carità, scrive l’aba­te di Loyac, furono cosi ricche e belle che non si sapeva ciò che si doveva maggiormente ammirare, se i preziosi addobbi che l’ornavano, o la loro inge­gnosa disposizione. Tutte le pareti erano ricoperte da tappezzerie d’oro e di seta. In mezzo alla navata, un candeliere alto dodici piedi (3 m. e 90) e una circon­ferenza di trenta quattro (11 m. e 20) serviva da base all’immagine del beato, cosi naturale da farlo sembrare pia un uomo vivo che non il suo ritratto. Questo deliere era pieno di cosi tante candele, che la loro luce offuscava la luce del giorno. Esso era sorretto dalle sette opere di misericordia corporale, raffigurate in atteg­giamenti cosi devoti e magnifici che non vi era niente da desiderare. Una balaustrata di colonne di marmo, di diaspro, d’oro, di lapislazzoli divideva la navata dal­l’altare principale e sosteneva un’arcata in cui erano raffigurate le principali azioni del santo uomo…

Questa augusta pompa iniziò il venerdi, 7 marzo, con l’esposizione del SS. Sacramento, fatta dal vescovo di Mende, assistito dai vescovi di Betlemme e di Dardania…

Diversi cori cantarono i vespri e l’abate Berthier, divenuto dopo vescovo di Montauban, fece un’eloquen­te omelia. Il sabato, giorno della festa, la « celebrità »ricominciò con un melodioso concerto di campane…

La chiesa era piena fin dall’alba. Il Padre Bernardo, detto il sacerdote povero, celebrò la messa del mattino e comunicò tutti i religiosi ed i poveri che dovevano assistere alla processione…

I cento svizzeri del Re erano venuti per impedire la confusione, il disordine in chiesa, nell’ospedale e lungo le vie per le quali doveva passare la processione… La processione usci di chiesa verso le nove e percorse tutte le strade principali di questo grande sobborgo òcittà di Saint-Germain-des-Prés, in questo ordine.

Un ufficiale delle Guardie e dodici svizzeri del re precedevano la croce, portata da un religioso che in­dossava un camice, con due accoliti a lato che porta­vano le candele. Veniva poi l’abate di Rostaing, figlio del marchese di Rostaing, che indossava un rocchetto e portava uno stendardo sul quale erano scritte, a carat­teri d’oro, le seguenti parole « Domine salvum fac regem ». Venti poveri vestiti a nuovo, in grigio, ed aventi ciascuno ‘una candela nella mano sinistra ed un rosario nella destra, seguivano lo stendardo con molta modestia. Dietro a loro c’erano sei bambini di bell’aspetto, vestiti da angeli, che portavano delle can­dele accese, con emblemi composti in onore del beato.

Avanzavano poi con un accompagnamento identico, che Giovanni di Loyac non si stanca di enumerare al punto da suscitare l’ilarità, altri otto stendardi…. Poi, per ultimo, lo stendardo del beato Giovanni di Dio portato dall’abate Bernardo, il sacerdote povero, cir­condato dai religiosi.

Venivano poi cinquanta cantori, divisi in diversi cori, che riempivano l’aria di una melodia così piace­vole e devota, che si restava ugualmente sorpresi del fascino delle loro voci e della loro modestia. Ottanta ecclesiastici, tutti con ricchi piviali, seguivano a due a due, poi quattordici diaconi con tuniche ed infine il vescovo di Mende, assistito dai vescovi di Betlemme e di Dardania…, seguito da una folla innumerevole.

Dopo questa processione, il pio prelato celebrò pontificalmente la Messa cantata. Il pomeriggio furono cantati i vespri alla presenza della regina Anna d’Au­stria e delle principesse della Corte. Verso sera, si fece una processione nelle infermerie…

Il giorno dopo, domenica, il re Luigi XIII venne di buon mattino ad ascoltare la messa, adorò a lungo il SS. Sacramento, con la solita devozione, e tornò attra­verso le infermerie… Il vescovo di Mende celebrò pontificalmente la Messa cantata verso le dieci…

Alle tredici, i cardinali di Richelieu e de la Valette, accompagnati dal nunzio del Papa, dagli arcivescovi di Parigi, di Bordeaux, di Rouen e da circa altri qua­ranta prelati, vennero ad ascoltare i vespri e la nostra predica – la predica di Loyac, abate di Gondon -, che ebbe tanto successo per bontà divina che dopo due giorni il re ci onorò dell’incarico di suo predica­tore ordinario… Sua Eminenza de Richelieu, protettore ed insigne benefattore di questo Ordine, condusse, do­po la predica, la sua compagnia nelle infermerie e si occupò a lungo a consolare ed esortare i malati, offren­do a tutti i prelati del suo seguito l’esempio di una singolare pietà..2.

La sera ci furono i fuochi artificiali nel cortile dell’ospedale. Erano cosi belli che i parigini dicevano di non averne mai visti di tanto ingegnosi.

Queste solennità della beatificazione di Giovanni di Dio ebbero in Francia un prolungamento storico

troppo poco conosciuto. In occasione della pace dei Pirenei, firmata dal Cardinale Mazarino, ministro di Luigi XIV, e da don Luigi de Haro, ministro di Filip­po IV, il 7 novembre 1659, nell’isola dei Fagiani sulla Bidassoa, Filippo IV, quale pegno prezioso di quella pace appena giurata e conclusa, offri’ ad Anna d’Au­stria, la regina madre, sua sorella, una preziosa reli­quia del beato Giovanni di Dio.

La nostra piissima regina, scrive l’abate di Loyac, la trovò racchiusa in un magnifico reliquiario d’argento dorato e cesellato… Non appena Sua Maestà ebbe rice­vuto la cassa che conteneva il prezioso pegno della conclusione e della stabilità della pace, andò nel suo oratorio per renderne grazie a Dio, e mandò a dire ai superiori della « Carità di Parigi » di venire a tro­varla al castello del Louvre. Quando il fratello Dauphin Ville, vicario generale e provinciale di Francia, accom­pagnato dal fratello Angelo Papillon, priore del « con­vento-ospedale della Carità » furono arrivati, Sua Mae­stà volle aprire la cassa in lòro presenza… Mentre apri­vano quella cassa, a forma di piramide e chiusa a chia­ve, il re (Luigi XIV) entrò nella stanza, accompagnato dal fratello, dal principe duca d’Enghien e dal conte d’Harcourt. La regina disse al vescovo di Amiens di prendere il reliquiario racchiuso in un ricco astuccio di marocchino rosso cremisi, tutto tempestato di chio­dini d’oro. Quel degno vescovo, avendolo aperto, vi trovò una reliquia tratta dal braccio destro del beato Giovanni di Dio e che è l’osso che i medici ed i chirurghi chiamano radio. Avendola presa con riverenza, le loro Maestà si prostrarono e la venerarono profondamente. Poi la regina consegna ai suddetti fratelli Dauphin Ville ed Angelo Papillon la dichiarazione autentica che il re cattolico, suo fratello, aveva allegato al suo di­spaccio, perché la facessero tradurre dallo spagnolo in francese: il che facemmo (de Loyac). Quando questi buoni religiosi riportarono l’originale spagnolo a Sua Maestà, ella donò loro il reliquiario e la reliquia… l’incomparabile regina desiderava che i religiosi e i poveri di quest’ospedale avessero la consolazione e il vantaggio di conservare nella loro chiesa il prezioso pegno della conferma pubblica della stabilità della pace.

Dopo la beatificazione di Giovanni di Dio, la de­vozione del popolo nei suoi confronti, lungi dal dimi­nuire, aumentò di giorno in giorno e il Signore operò nuovi miracoli per intercessione del suo servo. E’ per questo che lo studio della sua causa fu ripreso nel 1667, sotto il pontificato di Clemente IX. Nel mese di ottobre di quell’anno, il papa in persona presiedette la Sacra Congregazione dei Riti, dove udì la relazione di molti miracoli attribuiti all’intercessione del beato. Questi fatti, in seguito esaminati più da vicino, furono tutti riconosciuti e dichiarati autentici. Tuttavia, sotto il pontificato successivo, il relatore della causa, il cardi­nale Gaspare Carpini, ne ammise soltanto due. Uno era avvenuto a Napoli e riguardava la pronta guarigione di Giovanni Marino, paralizzato alle cosce ed alle gambe da sette anni… Il secondo era accaduto a Roma e concerneva Isabella Arcelli, guarita istantaneamente da « pustole maligne e da tumori pestilenziali sulle spalle », senza alcuna traccia di cicatrici. Dopo aver sentito il rapporto del cardinale Gaspare Carpini, sui due processi verbali redatti a Napoli e a Roma, e dopo aver ascoltato le osservazioni dei consultori ed il parere dei cardinali preposti alla Sacra Congregazione dei Ri­ti, il papa Innocenzo XI, il 13 giugno 1679, dichiarò, che si poteva – con tutta certezza – procedere alla canonizzazione del beato Giovanni di Dio, secondo l’ordine della santa romana Chiesa e la disposizione dei sacri canoni. Innocenzo XI morì prima di aver cele­brato tale canonizzazione. Essa subi di conseguenza un certo ritardo.

Il nuovo papa Alessandro VIII si trovò di fronte ad una causa istruita e pienamente giustificata e, do­po aver sentito il parere dei cardinali, cedette alle solle­citazioni di Leopoldo I, imperatore di Germania, di Carlo Il, re di Spagna, di Pietro Il, re del Portogallo, di Giovanni Sobieski, re di Polonia e dell’intero Ordine dei fratelli del beato Giovanni di Dio.

Circondato da cardinali, patriarchi, arcivescovi e vescovi presenti in san Pietro, dalla Corte romana e da un popolo entusiasta, il Papa procedette, il 16 ot­tobre 1690, alla canonizzazione di Giovanni di Dio, cantò il Te Deum, celebrò solennemente la messa e benedisse i presenti.

In quello stesso giorno furono canonizzati i beati Lorenzo Giustiniani, Giovanni da Capestrano, Giovan­ni di San Facondo e Pasquale Baylon.

Alessandro VIII mori il 1° ebbraio 1691, dopo aver preparato la bolla di canonizzazione di Giovanni di Dio, ma senza averla spedita. Il suo successore Innocen­zo XII la pubblicò il 15 luglio 1691, quarto giorno dalla sua elezione al supremo pontificato.

In base a questa bolla, il questuante di Granata fu iscritto nel catalogo dei santi e menzionato nel marti­rologio romano nei seguenti termini: Granata, in Spa­gna, san Giovanni di Dio, fondatore dell’Ordine dei fratelli ospedalieri che servono i malati; egli si è distinto per la compassione verso i poveri e il disprezzo di se stesso.

In occasione della canonizzazione di Giovanni di Dio, grandi solennità furono celebrate in tutte le case dell’Ordine. Alla « Carità di Parigi », esse ebbero luo­go il 16 agosto 1691: L’illustrissimo signor Carlo Le­goux de la Berchère, vescovo di Lavaur e nominato arcivescovo d’Albi, vestito dei suoi paramenti ponti­ficali ed assistito dai suoi ufficiali, iniziò con la let­tura della bolla d’Innocenzo XII e del permesso del­l’arcivescovo di Parigi. Poi benedisse lo stendardo del santo, i cui quattro lati erano sorretti dai Reverendi Padri Mathias Godé, provinciale e vicario generale, Blaise Chappus, priore della « Carità di Parigi », Bar­nabé Lancelot, priore della « Carità di Senlis » e La­zare Richer, priore della « Carità di Charenton ». Infine furono cantati i vespri e la benedizione ed il prelato officiò pontificalmente. Questa solennità si protrasse per otto giorni e si concluse con la benedizione, dopo di che si innalzò lo stendardo sulla volta della chiesa.

Leone XIII, col breve « Dives in misericordia » del 22 giugno 1886, dichiarò san Giovanni di Dio e san Camillo de Lellis patroni dei malati e degli ospedali.

Infine, il 28 agosto 1930, il papa Pio XI, con il breve « Expedit piane », nominò solennemente san Gio­vanni di Dio e san Camillo de Lellis celesti patroni delle associazioni cattoliche degli infermieri, come an­che degli infermieri ed infermiere di tutti i tempi e di tutti i luoghi.

Così termina questa biografia compilata in base a documenti irrefutabili, tuttavia scarsi ed insufficien­temente utilizzati per far rivivere, come converrebbe, la personalità cosi ricca ed interessante di san Giovanni di Dio.

 

Ci resta solo da esprimere una preghiera ed un augurio.

Una preghiera: quella che la Chiesa pone sulle nostre labbra nel giorno onomastico del santo.

 

Signore, Dio nostro, a san Giovanni di Dio che ardeva del tuo amore, hai permesso di attraversare senza danno le fiamme e, da lui hai fatto nascere nella tua Chiesa una nuova famiglia religiosa; per la sua preghiera e per i suoi meriti, brucia i nostri vizi col fuoco della tua carità e degnati per sempre di guarirci, per Gesù Cristo tuo Figlio…

 

Un augurio: quello del nostro Ordine, delle con­gregazioni e confraternite ospedaliere, delle associa­zioni di infermieri ed infermiere. Che seguendo l’esem­pio di san Giovanni di Dio, molti giovani continuino a mettersi al servizio di Dio nella persona dei malati e dei poveri!

 

 

 

 

 

 

 

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