06 SAMARITANI O ALBERGATORI ? – Da Gerusalemme a Gerico a piedi – A. Nocent
Posted on novembre 29th, 2009 by Angelo
L’immagine contribuisce ad ambientare la parabola del Samaritano. Tratto finale del Wadi el-Kelt, che scende dalla Montagna di Beniamino e bagna le Steppe di Gerico. Sulla destra si vede l’acquedotto erodiano e il villaggio di Tulul Abu el-Alayiq. (Foto: Da Studium Biblicum Franciscanum-Jerusalem)
DA GERUSALEMME A GERICO A PIEDI
Seguito…
di Angelo Nocent
“Se Pierluigi è animato da questa visione – come lo è – , se i suoi gesti sono alimentati da questo fuoco, egli ci porta a riflettere sul gesto del samaritano della parabola (che è il gesto di Cristo). (Estratto da “ PIERLUIGI MICHELI – Un’esistenza riuscita” di A. Nocent, pag. 16 )
La realtà di quel tempo è molto lontana ed il racconto evangelico è caratterizzato dal deserto, dalla cavalcatura, da un tipo di rapporti tipici di un mondo arcaico, non riscontrabile nella nostra società attuale, complessa e stratificata. Tuttavia, l’intenzione soggiacente è di presentare la prossimità come forma permanente di rapporto personale, che supera e mette in crisi tutte le forme di rapporti legate alla razza, alla condizione sociale, a interessi di vario genere.
Questa messa in questione della società civile e, quindi, anche dell’assistenza sanitaria, della professione medica, vale per tutti i tempi ed è attualissima per l’oggi. Significa che l’immersione nell’umano – e più umano del dolore non c’è – non è più un fare qualcosa per qualcosa ma un fare per qualcuno, sacramento del Dio nascosto: “ l’avete fatto a me ” (Mt 25,40).
L’icona biblica del buon samaritano è l’immagine della carità di Gesù e descrive le leggi della vita e della missione della Chiesa, e di ogni discepolo. Madre Teresa di Calcutta e il Dr. Micheli, alla fine, lavorano per lo stesso Padrone della messe. Lei a Calcutta, lui a Milano, solo perché assegnati su frontiere diverse. Che sollecita entrambi è l’amore di Dio riversato nei loro cuori.
E’ il caso di ricordare che il momento centrale della parabola:
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“ Invece, un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione” (Lc 10,33)
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Questo punto centrale è ripreso nella conclusione: “Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che si era imbattuto nei briganti?… Colui che ha avuto misericordia” (Lc 10,36-37).
E’ interessante notare che il maestro della legge non risponde che è stato prossimo colui che ha interrotto il viaggio, che si è fermato, che è sceso da cavallo, che ha medicato il ferito con olio e vino, che l’ha trasportato alla locanda e che ha dato due denari al locandiere. Risponde: “Colui che ha avuto misericordia”. E va notato che il termine “compassione” del v. 33 è stato ripreso qui con il termine “misericordia”.
Teresa di Calcutta e Pierluigi Micheli si sono fermati, come tanti, ogni giorno, ma il loro di più è la misericordia, la compassione, che poi generano il prodigio di risanamenti profondi, radicali, non epidermici, apparenti.
Il gesto della compassione, della misericordia, comprende ogni altro gesto, li comprende tutti ed è di più. Questo di più è la carità: una tensione al di là delle opere che non la esauriscono mai. Se ci trasferiamo nel campo ospedaliero, una cosa è curare (olio, vino, due denari) altro sono le intenzioni del cuore. Si ritorna a “quel non so che…” che fa la differenza tra l’assistenza ordinaria e la medesima, animata dalla carità, tipica dei santi.
Nella parabola c’è un penoso intervallo tra il gesto criminale dei briganti e l’intervento del soccorritore. Facilmente siamo portati a notare l’egoismo del sacerdote e del levita che vedono l’uomo rapinato e passano oltre. La loro indifferenza ci sorprende, ci disturba anche. Ma questo atteggiamento non va sbrigativamente liquidato pensando che si riferisca agli altri, al “clero” del tempo. Purtroppo riguarda ciascuno di noi, sacerdoti e leviti per il battesimo. Quelli della fretta, della paura, dall’alibi sempre pronto siamo noi. Per questo il Micheli ci colpisce. Noi siamo tra quelli che vedono e passano oltre. Non abbiamo tempo di fermarci, non vogliamo nemmeno esaminare la situazione. Il Dr. Micheli non ha fretta, non è superficiale negli incontri con il malato. Chi lo ha frequentato se n’è accorto.
Le strutture socio-sanitarie dello Stato cercano di garantire a tutti l’assistenza, la riabilitazione, la reintegrazione sociale. Ma negli operatori sanitari dietro la fretta del sacerdote e del levita si nasconde una grave realtà: la paura di impegnare la propria persona. Se dobbiamo rinunciare alla pretesa di risolvere tutto, va almeno evitata la delega, ossia sperare sempre che intervenga qualcuno al nostro posto.
I nostri cammini sono contrassegnati dal percorrere le vie del dolore in compagnia di noi stessi e del nostro egoismo; quello del Dr. Micheli è il percorso di un uomo in compagnia di Dio, la fonte della tenerezza, la stessa che ha attratto e riempito il cuore del samaritano. Chi cammina così, sente ardergli il cuore. San Giovanni di Dio, pervaso da tale Fuoco, passa tra l’incendio dell’Ospedale Regio di Granata in fiamme, senza bruciarsi.
Pierluigi Micheli ha idee molto chiare: “ La medicina deve occuparsi dell’uomo nella sua totalità: l’avvenire della medicina è condizionato dal concetto che si ha dell’uomo.Il colloquio del medico ricorda la confessione. Ippocrate insegnava che il medico deve mortificare l’insolente, il prepotente; ristabilire l’ordine, l’insonnia; è ministro di giustizia, deve essere messaggero di speranza, di ottimismo, di certezza nell’avvenire. Sua deve essere una sacralità caritativa e poetica: litteratissimus e humanus (Flavio Biondo). Deve essere come il samaritano che reca l’olio per ottenere attraverso la guarigione del corpo e la salute la ripresa delle ordinarie occupazioni, degli affetti domestici, della socialità (f.108).
Niente male come esegeta della parabola, vero?
A proposito di misericordia, Giovanni Paolo II nella Dives in misericordia dice una cosa importante che fa capire un certo modo di pregare di Pierluigi. Il Papa spiega che non basta incarnare la misericordia nella vita, bisogna anche “imporla di fronte a tutti i fenomeni del male fisico e morale, dinanzi a tutte le minacce che gravano sull’intero orizzonte della vita dell’umanità contemporanea”.
Preghiera d’implorazione e misericordia del cuore (miseris-cor-dare) sono una distinzione puramente teorica di un gesto unico:
“ La preghiera non è legata alla ritualità, ma parla, grida, chiede, supplica, invoca aiuto, ringrazia, cerca, nasce dal quotidiano, dalla vita di tutti i giorni “ (f.73).
Immagino che Pierluigi si sia comportato così soprattutto nei casi-limite nei quali si sperimenta l’impotenza di non poter fare altro. Questo è un vero modo di resistere al male, pur angosciante, straziante, perché strappa da Dio l’indicazione per aiutare veramente colui che ci sembra di poter assistere solamente con il dono di noi stessi.
La geografia del dolore per Micheli si configura principalmente nell’ospedale, nell’ambulatorio. Che, se il perimetro appare limitato, l’estensione tende a dilatarsi in ogni latitudine perché i frequentatori non sono soltanto i residenti, gl’iscritti al servizio sanitario nazionale, ma anche i poveri, gli stranieri, i non assistiti da assicurazioni sociali.
Il suo occhio clinico l’ha portato a scoprire che in ogni malato si riscontra un inconveniente comune: problemi agl’occhi. E’ la riconferma di quanto già osservato da San Giovanni Crisostomo, padre della Chiesa (344-407):
“ La malattia, dice, (il Crisostomo) è un evento che modifica il nostro occhio nel vedere la magnificenza del creato e quindi del divino. L’opera del medico è volta a sorreggere l’individuo nella sua unità fisica e spirituale e nella sua eticità. Essere medico vuol dire non vedere la persona che soffre solo nel corpo. Non basta averne il nome, medico bisogna esserlo” (f.6)
Lavorare in ospedale vuol dire partecipare a una “storia sacra”. Lo si può fare responsabilmente o no, ma non cambia. Talmente sacra, che uno dei pensatori cristiani più significativi del nostro tempo – Emmanuel Mounier – trovandosi davanti al letto della sua bambina ridotta irrimediabilmente a un piccolo vegetale, ha scritto una pagina oserei dire “evangelica”. Perché non il sangue o la carne possono avergliela ispirata (Mt 16,17), ma solo lo Spirito di Dio. Egli così scrive alla moglie:
“ Che senso avrebbe tutto questo se la nostra bambina fosse soltanto una carne malata, un po’ di vita dolorante, e non invece una bianca piccola ostia che ci supera tutti, una immensità di mistero e di amore che ci abbaglierebbe se lo vedessimo faccia a faccia…
Se a noi non resta che soffrire (subire, patire, sopportare), forse non ce la faremo a dare quello che ci è stato chiesto. Non dobbiamo pensare al dolore come a qualcosa che ci viene strappato, ma come a qualcosa che noi doniamo, per non demeritare del piccolo Cristo che si trova in mezzo a noi…Non voglio che si perdano questi giorni, dobbiamo accettarli per quello che sono: pieni di una grazia sconosciuta”.
…
“ (Gli amici dicono): “ è toccata loro una grande disgrazia “‘: invece non si tratta di una disgrazia: siamo stati visitati da qualcuno di molto grande…
Chissà se non ci è domandato di custodire e adorare un’ostia in mezzo a noi, senza dimenticare la presenza divina sotto una povera materia ceca.
Mia povera, piccola François, tu sei per me l’immagine della fede “ ( Diari e lettere).
Anche per il Dr. Micheli l’immagine della fede sono i malati. La presenza divina sotto una povera materia, necessita di occhi esperti in eucaristia, di cuore incline all’agàpe, ad amare. L’ospedale, luogo pieno di una grazia sconosciuta, dove si celebra la liturgia dell’amore che si dona. Mistero della fede: morte, risurrezione, nell’attesa…già e non ancora… “ Quello che può riempire di gioia un uomo ed essergli di conforto e di sostegno è di aver suscitato nel suo cammino, con la sua opera, il suo modo di vivere, le sue parole, un movimento in chi gli sta attorno verso l’alto, il soprasensibile, il metaempirico, verso la speranza, verso la terra promessa…Il popolo eletto, il popolo sacerdotale è al servizio degli altri (f.30)”. Perché “La carità è un atto di culto” (f.101).
Per il Micheli, dunque, il Vangelo non deve restare prigioniero nello spazio angusto, talvolta asfittico del tempio-chiesa, ma deve essere liberato nello spazio vitale ed assetato del tempio-ospedale, perché invada le corsie, le stanze, le sale operatorie, i laboratori, l’ambulatorio…
Certo, Cristo è profetizzato come “segno di contraddizione”:
“ Simeone poi li benedisse e parlò a Maria, la madre di Gesù: «Dio ha deciso che questo bambino sarà occasione di rovina o di risurrezione per molti in Israele. Sarà un segno di Dio, ma molti lo rifiuteranno: così egli metterà in chiaro le intenzioni nascoste nel cuore di molti. Quanto a te, Maria, il dolore ti colpirà come colpisce una spada» (Lc 2,34.35).
Tuttavia, l’onda d’urto si scatena dove ci sono conformismi, pigrizie mentali, incoerenze. Le contraddizioni siamo noi.
Epperò le risposte evangeliche si possono dare a condizione che vengano formulate domande. Le domande sono importanti, non vanno impedite, piuttosto sollecitate. E’ di qualche anno fa un cartellone raffigurante Gesù in croce che annunciava a caratteri cubitali: “ Cristo è la risposta “. Qualcuno sotto aveva scritto con il pennarello rosso: “ Ma la domanda qual’era? “.
Più che uno scherzo, è un problema che Pierluigi ha presente. Il momento terapeutico non può procedere senza il coinvolgimento del malato. Ma come sollecitare le domande?
Premesso che un cuore di madre intuisce al volo anche domande non formulate, Pierluigi sembra seguire il modello di Gesù che non ama parlare direttamente di sé e della propria identità, ma preferisce interpellare i discepoli proponendo loro delle domande – “ Chi sono io, secondo la gente? ” (Mc 8,27) – oppure suscitandole con dei comportamenti: “ I presenti furono presi da stupore e dicevano: «Ma chi è mai costui? Anche il vento e le onde del lago gli ubbidiscono!». (Mt 8,27).
L’evangelizzazione di Gesù parte dalla meraviglia che genera stupore e suscita domande. L’interessato è spinto a cercare personalmente una risposta. Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16).
Il paradosso è questo: la professione di fede non viene da chi ci annuncia il vangelo ma da chi ne è il destinatario. Non gli viene dall’esterno, ma matura dentro di lui, scaturisce dal profondo della sua persona, dalle sue esperienze, dalle sue convinzioni. Quando sboccia sulle labbra, ha sì lo spessore che le viene dal retroterra umano, di cui si è nutrita, ma ma non si riduce ad una certezza di ordine puramente naturale: “ Beato te, Simone figlio di Giona, perché non hai scoperto questa verità con forze umane, ma essa ti è stata rivelata dal Padre mio che è in cielo.” (Mt 16,17).
E’ il caso di Emmanuel Mounier riferito in queste pagine: dallo sconvolgente constatazione di una vita vegetale, inerme, della figlia, allo stupore, alla contemplazione del volto di Dio celato in quel corpo, divenuto ostensorio eucaristico.
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