ARTURO PAOLI L’AMICO DEI POVERI – Acattoli – Masina
Arturo Paoli amico dei poveri
Racconto di un’intervista pubblica al prete di Lucca che è vissuto cinquant’anni in America Latina
Arturo Paoli, ribelle ai potenti e pazzo d’amore per i poveri, ha 93 anni ed è un sordo tranquillo. Prete di Lucca e “piccolo fratello”, protagonista della resistenza al fascismo e salvatore di ebrei, per mezzo secolo in America Latina e da laggiù autore di 46 libri e libretti, non sopporta l’apparecchio acustico: “Se lo metto sento gli altri, ma quando parlo io vado in confusione”. Preferisce fare brutte figure ma parlare chiaro. Ha fatto sempre così – Arturo l’indomabile – nella sua biblica longevità. Non si è mai curato della propria immagine, tutto teso ad ascoltare “la voce dello Spirito Santo” e a parlare ai fratelli come quella voce gli detta dentro, mostrandosi “pieno di gioia” e di “coraggio”, senza trovare strana – parole sue – la “sensazione di abbondanza e di accavallamento” che ha chi l’ascolta. Così più che mai ha parlato venerdì 12 maggio nella chiesa di San Giovanni in Lucca, dove l’arcivescovo Italo Castellani mi aveva chiamato per fargli un’intervista pubblica.
E’ stata una splendida avventura, quell’intervista. Il mestiere di giornalista mi ha portato a fare domande a ogni sorta di persone, in pubblico e in privato, al telefono, per radio e per e-mail. Ma non avevo mai intervistato un sordo. Tu gli chiedi come si trova a Lucca, ora che è tornato in patria e lui ti parla del “popolo schiacciato” di Foz de Iguaçù, nel Sud del Brasile, dove ha vissuto gli ultimi vent’anni e dove ha lasciato il cuore. C’è stato da ridere e da piangere, con un momento di panico all’inizio. Ma alla fine ci intendevamo benissimo.
Prima di incontrarci gli avevo mandato 12 domande scritte. Su sua richiesta ne abbiamo tolte quattro prima che venissero aperti i microfoni e ne è venuto un bell’intreccio. Io facevo una domanda e lui capiva quella sbagliata. Allora gli dicevo: “Arturo, la domanda è la seconda!” Mi guardava ridendo, come un bambino stupito d’essere entrato di corsa in una porta sbagliata e partiva per un’altra risposta a caso. Allora gli facevo “due” con le dita e finalmente imbroccava quella giusta. In tre casi ho dovuto prendergli il foglio dalle mani e mostrargli col dito: “Arturo, siamo qui!”
Altro che un’intervista, è stato un vero teatro! La chiesa era piena, nessuno s’è annoiato, un poco si rideva e molto ardevano i cuori nei petti.
Arturo, tu sei stato in America Latina anche a nome nostro, per tanti anni. Che ci dici ora che sei tornato?
“Dico che bisogna rifare concreto il messaggio di Gesù, com’era sulla sua bocca. Il nostro mondo, che viene dalla cultura greca, ha reso astratto il cristianesimo. Vivendo tra i poveri ho imparato che il nostro compito è di continuare la missione di Gesù, che è venuto a mostrarci l’amore del Padre e a insegnarci ad amare. E’ venuto ad amorizzare il mondo, come diceva Teilhard de Chardin: amoriser le monde. Ecco, noi dovremmo offrirci al Signore come strumenti perché il mondo possa camminare verso l’Amore, che è Dio“.
Non hai mai avuto la terra ferma sotto i piedi e sei sempre vissuto come un nomade. Ma ora che hai riportato la tua tenda a Lucca, che dici della tua gente?
“E’ un popolo buono ma sta troppo bene. I lucchesi sono un po’ seduti, bisogna scuoterli“.
La teologia della liberazione, Arturo?
“Domani sarà l’unica praticabile. Anche tra quei teologi ci sono stati degli errori, che sono stati segnalati. Ma come teologia, non è stata propriamente condannata. Non poteva esserlo, perché è un modo di andare verso l’amore“.
Che dici del silenzio di Dio? L’impressione di non sentirne più la voce ha qualcosa a che fare con la difficoltà che abbiamo ad ascoltare i sofferenti?
“Silenzio di Dio? Ma io direi silenzio dell’uomo! Apatia dell’uomo!” Qui il sordo gridava come se i sordi fossimo noi.
In fondo alla chiesa era in vendita l’ultimo dei 46 libri e il buon Arturo – finito l’avventuroso dialogo – ne firmava le copie, come si usa. E’ intitolato Vivo sotto la tenda. Lettere ad Adele Toscano (a cura di Pier Giorgio Camaiani e Paola Paterni, editore San Paolo, pp. 542, euro 24). In mezzo al volume ci sono belle foto. Una lo ritrae curvo e ridente, che partecipa alla concelebrazione nella Basilica di San Pietro, in Vaticano, per la beatificazione di Charles de Foucauld, il 13 novembre scorso.
Ho preso spunto da quella foto per domandargli della sua vocazione a farsi “piccolo fratello di Charles de Foucauld”, da dove venisse e che cosa comportasse.
Ha risposto che quella vocazione gli si era presentata come “scelta dell’ultimo posto”, che “non è solo umiltà e cioè desiderio di farsi piccoli”, ma anche “decisione di abitare nel luogo dove si incontrano gli ultimi“.
E’ stato Charles de Foucauld a portarti ai poveri, o eri già dalla loro parte quando ti sei incontrato con lui?
“La scelta dei poveri e degli ultimi è nata nella guerra, quando la fame era un fatto ordinario anche qui a Lucca e c’era tanta gente sfollata che bisognava aiutare a trovare qualcosa da mangiare, o a sfuggire ai rastrellamenti“.
Che cosa ti portò a ospitare in seminario degli ebrei, procurando loro documenti falsi e cibo, tanto da meritare il titolo – che ti fu dato nel 1999 – di “giusto tra le nazioni”?
“All’origine ci fu la decisione dell’arcivescovo di allora, Antonio Torrini, che diede quella disposizione a noi preti. Fu un atto di grande coraggio, che gli dobbiamo riconoscere“.
Sei stato cinquant’anni in America Latina. E’ cambiato qualcosa da quando ci andasti a oggi, nel dramma di quei popoli?
“Domanda dolorosa. Direi che c’è stato piuttosto un regresso dal punto di vista materiale, ma un progresso nella coscienza della propria dignità. Sono sorte le comunità di base. Le parole più belle che ho sentito da uno dei miei poveri sono forse queste: Arturo, tu ci hai insegnato ad alzare la testa e noi non l’abbasseremo più!”
E’ stata una conversazione gagliarda, si direbbe a Roma. Io alzavo la voce perché Arturo mi sentisse, lui gridava perché parlava dalla pienezza del cuore. Credo che quella stupenda chiesa romanica a tre navate, antico battistero della cattedrale di Lucca, non avesse più udito tanto chiasso dopo l’invenzione degli altoparlanti. E’ anzi verosimile che neanche prima gli fosse capitato un tale trambusto, perché i nostri padri gridavano non avendo i microfoni, noi invece gridavamo nei microfoni.
Luigi Accattoli
Da La voce di Padre Pio 9/2006
Il dramma dell’opulenza
Intervista ad Arturo Paoli
Cosa succede se la Chiesa diventa troppo “organica” alla logica delle società capitalistiche occidentali? Trascura i poveri e perde coraggio e radicalità nell’annuncio del Vangelo.
Un profeta dei nostri giorni analizza lo stato di salute di una comunità ecclesiale che corre il rischio di essere molto “visibile” e potente ma poco autorevole.
Lui dice che basta guardarsi in giro per persuadersi che i risultati di una società fondata sull’egoismo sono disastrosi. Ed è anche convinto che lo saranno sempre di più. «A meno che…».
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Arturo Paoli, 90 anni, una vita intensa di prete e di profeta, erede di Carlo Carretto (2 aprile 1919 – 4 ottobre 1988) tra i Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld, “Giusto delle nazioni” per Israele per aver salvato la vita a un ebreo a Lucca nel 1944, sacerdote da 62 anni, scrittore e conferenziere in tutto il mondo, uomo che da 40 anni condivide la vita con i boscaioli, i contadini dello Stato del Paranà in Brasile, spiega cosa ha guidato la sua vita e cerca di spendere qualche parola sulla fede in questa intervista che è un po’ come un testamento. Il nostro incontro con Arturo Paoli prende le mosse da un libro, l’ultimo dei suoi, intitolato Quel che muore, quel che nasce (Ega, lire 22.000).
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Cominciamo da quell’”a meno che…”. Cosa vuol dire?
«A meno che non prendiamo su di noi il peccato del mondo. Concretamente, senza pensare che il raddrizzamento delle situazioni che non vanno, insomma che la redenzione dell’umanità, sia qualcosa affidata, come si diceva, al sangue di Cristo. Bisogna lasciarsi guidare dai volti delle persone, bisogna andare nei sotterranei della Storia dove vivono le persone. Dobbiamo occuparci delle vittime e non gioire per la bravura dello stratega».
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C’è troppa angoscia in giro oggi?
«Sì, angoscia e paura. Ossessioni. Siamo ossessionati dal denaro, dal sesso, dal gioco e anche da santi buoni e un po’ antichi che pensiamo ci possano risolvere tutti i problemi. Compreso quello della nostra sicurezza. In ogni campo. Ma la nostra angoscia più grande è data dalla incapacità, che ci rode dentro, di prevedere il futuro. Facciamo finta di essere spavaldi, perché non riusciamo a calcolare tutto. Umberto Eco ricorre alla fantascienza per pensare, solo pensare, al futuro».
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Come si fa a guardare nei sotterranei della Storia?
«Ci si riesce solo se al centro della vita il cristiano mette il Regno di Dio e non se stesso. Insomma facendo quello che coerentemente ci consiglia il Concilio Vaticano II. Bisogna far sparire l’io come preoccupazione personale, che provoca angoscia. Quanti sono quelli che credono che lo Spirito agisce nella Storia e la trasforma? Quanti credono al Vangelo che dice “chi vuol salvare la propria anima la perderà”? È un tema centrale perché rimanda alla polemica che Gesù ha aperto con il mondo religioso della sua epoca. Gli ebrei rimandavano continuamente al passato, ad Abramo, a Mosé, ai profeti. Lui no, si occupa delle persone. Dice che Dio è qui davanti a voi: il povero, la vedova… La carità non deve servire a me, non è un rimedio alla mia angoscia. Perché si può essere caritatevoli senza essere giusti, se si mantengono le distanze».
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La Chiesa è responsabile di una religiosità della distanza?
«Certo. La Chiesa – non tutta – ha ritirato Dio in cielo. Dice agli uomini: consolati, il Regno di Dio è vicino. Nelle omelie dei preti si parla di cose lontane. I sacramenti sono parole e non simboli. Dov’è lo Spirito che sprona a fare? Il Vangelo ha raccomandato l’annuncio attraverso la persona, non attraverso le parole. È la persona che parla. La parola è solo rimedio d’emergenza. Se la mia vita non testimonia, io non posso neppure parlare».
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Come sta la Chiesa?
«Male. Non ha seguito fino in fondo l’ordine dello Spirito Santo e del Vangelo. Il centro della predicazione si è spostato: dal Regno di Dio alla visibilità della Chiesa, alla sua grandezza, al suo potere. Parla molto la Chiesa, scrive molto. Non si può dire che non si occupi dei poveri: mai sono state prodotte tante parole sull’argomento, mai tanti documenti. Viviamo una religiosità opulenta, anche dal punto di vista intellettuale. Sappiamo come affrontare i problemi, sappiamo come risolverli, da soli, sempre da soli, senza contare sugli altri. I poveri, i barboni, gli esuli, cosa contano per me intellettuale, per la mia teologia, per la mia pastorale? Il Vangelo è ridotto a manifestazioni rituali o metafisiche. Voglio fare una provocazione e dire ai credenti: spogliatevi anche della vostra fede e allora comincerete a capire cos’è la gratuità».
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Ma tutta la Chiesa è così?
«Non tutta. Nei Paesi poveri modelli di Chiesa diversi sono stati soffocati, ma non distrutti. Alla Chiesa era stata servita su un piatto d’argento la teologia della liberazione, ma è stata rifiutata. Ripeto: soffocata, non distrutta».
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Eppure la riflessione attorno a un nuovo umanesimo è stata portata avanti…
«E con grande forza, per esempio da Giovanni Paolo II, soprattutto negli ultimi anni in modo profetico. Ma la Chiesa è troppo legata all’Occidente. Ha dovuto mantenere buone relazioni con il capitalismo. Gesù dice che saremo giudicati non sull’obbedienza, ma se l’avremo visto nudo, affamato, prigioniero, schiavo. Tutto lì. Vederlo sta solo a me».
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Lei è dunque contro la Chiesa, i suoi dogmi?
«No. Per me l’obbedienza non è un problema. Ma dico che il concetto di “santo” non coincide necessariamente con “religioso”. Il giudizio va dato sulla costruzione del Regno di Dio: beati i poveri, i miti… Io sento che sarò giudicato su questo, non sul devozionalismo, che in questo secolo non ha impedito guerre e sangue. È sull’uso della mia libertà che mi si chiederà conto. Se uno risponde “Eccomi”, è santo. Diventare santi è drammaticamente difficile appunto per l’estrema semplicità della risposta. È difficile obbedire a Dio piuttosto che agli uomini».
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La Chiesa tuttavia oggi è molto visibile, di essa si parla e si scrive. Allora cosa c’è che non va?
«La Chiesa gode di grande prestigio. Vorrei dire che il carisma del prestigio è sceso sugli Stati e sui popoli. Molti stanno ad ascoltare le parole del Papa. Molti restano ammirati dalla sua figura e dalle cose che dice. Ma la disobbedienza formale e la noncuranza rispetto ai suoi insegnamenti è enorme. Nella Chiesa quelli che prendono sul serio la responsabilità di fare la giustizia, di difendere il diritto dei poveri, molto spesso vengono emarginati. E di solito fanno molto meno di quello che è scritto nei documenti. Prenda il Brasile, Paese visitato tante volte dal Papa: che riscontro hanno avuto le sue parole forti sulla giustizia, sulla distribuzione della terra, sui popoli oppressi? Zero. Chi oggi è convinto che amore per gli altri significa uso sobrio dei beni? Molti credenti nel mondo praticano una buona spiritualità individuale, ma poi sono assolutamente sfrenati nell’uso del denaro, anarchici nell’uso dei beni. Non si può giustificare il primato di Dio, sopra tutti gli altri diritti».
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Parliamo del Concilio. Perché lei spesso dice che è stato tradito?
«È stato il Concilio Vaticano II a richiamare i credenti sulla centralità del Regno di Dio e sul ruolo dello Spirito Santo. Il Concilio ci ha chiesto di aprire le porte e non soltanto di parlare di Dio, ma di camminare con gli uomini, di affermare il diritto a una vita piena, di esaminarci in base alla giustizia o all’ingiustizia. Non ci ha insegnato a consolarci con la religione. Quando Gesù va via da Nazareth non si mette a fare il guru, non va nel tempio di Gerusalemme ad ascoltare, ma ad attaccar briga, dando la prova tremenda del suo unico interesse: costruire il Regno di Dio. Noi invece ci ritiriamo sul culto, a volte in modo narcisista».
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Ma le responsabilità sono dei preti o dei laici?
«Di entrambi. Cominciamo dai preti, che sono educati secondo forme rigidamente borghesi. I preti – non tutti – stanno troppo bene. Si occupano di sé stessi. C’è troppa paura di perdere vocazioni. Vengono allenati ad avere coscienza di sé, a essere altro rispetto al mondo. Ecco l’insistenza sul sacramento dell’Ordine che vale di più di altri sacramenti, compreso quello del matrimonio. Stanno chiusi nei seminari e vanno nel week-end nelle parrocchie. Io domando: quando si calano sulle piaghe di Cristo? È sicuramente migliorata la formazione intellettuale. Le omelie sono più colte, più dotte che in passato. Ma sono spesso anche più lontane dalla vita reale che nel passato. La Chiesa ha come paura di essere invadente, di essere esigente. Non si può dire che i giovani rifiutano la Chiesa. Se si analizzano le cose in profondità, si vede che essi non capiscono, non ci comprendono. Dio non c’è nel loro orizzonte».
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E il laicato?
«Manca di audacia. Passa da un ritiro spirituale a un altro, ma poi non si interroga sulla propria responsabilità davanti alla società. Non si può essere contro la manipolazione della vita, contro una bioetica sbagliata, e poi dichiarare valido il sistema economico che arriva a queste aberrazioni, quello che succhia il sangue dei poveri, che è la benzina di cui ha bisogno il nostro mondo troppo ricco per vivere. Vogliamo una società nuova, ma poi applaudiamo al politico di turno. Siamo troppo miopi, non siamo capaci di guardare avanti. Il laico che vive la sua responsabilità politica con autonomia, sapendo che di essa deve dar conto solo davanti a Dio, oggi è scomparso. Naufragate le ideologie, il laicato religioso è stato inglobato nella Chiesa, che ne ha marcato la clericalizzazione».
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Lei quali esempi indica?
«Ho ammirato De Gasperi, La Pira, Dossetti come cattolici. Uomini che sapevano distinguere l’area religiosa da quella politica e la propria autonomia e responsabilità dall’obbedienza dovuta alla Chiesa. Uomini che erano convinti di rispondere al Vangelo e non al prestigio della Chiesa nel Paese in cui abitavano. Dov’è finita la tradizione che loro hanno incarnato? Il laico credente – uomo o donna che sia – non deve rifugiarsi sotto le ali della Chiesa per stare al caldo e dimostrare che sa fare. Ha una responsabilità adulta, libera, autonoma, di rendere il mondo più umano della quale risponderà solo a Dio».
Arturo Paoli ha raccolto, insieme a Carlo Carretto, morto il 4 ottobre 1988, l’eredità di padre Charles de Foucauld. Secondo Paoli, è stato il fondatore dei Piccoli Fratelli «a indicare gli orientamenti essenziali di ogni vita religiosa: il servizio sacerdotale, assetato di giustizia, deve suscitare una gioventù che vuole una società differente».
Arturo Paoli è autore di oltre trenta opere, tra cui Camminando s’apre cammino (Cittadella editrice), Facendo verità (Gribaudi), Dialogo della liberazione (Morcelliana), Il sacerdote e la donna (Marsilio), Gesù amore (Borla), Cercando libertà. Castità, obbedienza, povertà (Gribaudi), Il grido della terra (Cittadella editrice).
ALE NOVANTATRE PRIMAVERE DI ARTUTO PAOLI
Di Ettore Masina
Man mano che la vecchiaia mi grava addosso e vedo crescere intorno a me la tenerezza dei miei figli, torno col pensiero al mito di Anchise, il padre che Enea si porta sulle spalle mentre cammina verso un nuovo destino. Ma questa volta il mito non mi sorregge perché devo parlare di una persona che ha sedici anni più di me.
A osservarla mentre se ne sta in silenzio, quella persona sembra un vecchietto lindo e sorridente, un po’ curvo (ma certo non tanto se si pensa che è nato nel 1912), con una bella chioma bianca: immagine rassicurante, di buon nonno, persino somigliante a quella di certi spot pubblicitari; ma quando il vecchio Arturo Paoli viene invitato a parlare, allora sembra rivestire il mantello del profeta Eliseo e la sua voce grida un vangelo inquietante.
La voce di Arturo Paoli, come ben sanno i suoi ascoltatori, è innanzi tutto un miracolo fisiologico: viene da polmoni giovanissimi che le consentono di dispiegarsi in chiese e in aule di convegni tanto da far vibrare le fibre dei tavoli e i vetri delle finestre. Mi ha detto una volta uno pneumologo: “Quest’uomo respira Spirito Santo“. Le parole che questa voce ci rivolge non sono mai aspre né minacciose, improntate, invece, a tenerezza per noi, ma severe nei confronti delle nostre coscienze e dei costumi e istituzioni dietro le quali cerchiamo di nasconderci. Come mostrano con ogni evidenza le pagine che leggerete qui di seguito, amorosamente compilate da Francesco Comina (lui sì Enea accanto ad un Anchise, che però preferisce camminare da solo), le parole che Arturo grida o scrive (o canta, come vedrete) più che indicarci i nostri infantili peccati personali ci additano l’enorme, genocida peccato collettivo, la arrogante risposta corale degli innamorati del potere – e di noi troppo spesso loro pavidi servi – alla domanda del Creatore: “dov’è Abele?” “E chi lo sa? Siamo forse i custodi dei nostri fratelli?” rispondono e rispondiamo. “Sì, grida il Signore con la voce di Arturo: sì, per questo vi ho creato: perché vi prendiate cura l’un l’altro di voi”. I
l vecchio amatore di filosofi è ormai convinto che “metafisica” e “traseendenza” siano parole che acquistano senso soltanto quando nascono dal coraggio di affrontare gli occhi di chi soffre.
Dietro questa convinzione e testimonianza di Paoli c’è ovviamente la sua esperienza storica. Egli ha il grande privilegio della lucidità senile: la quale diventa straordinario aiuto a quanti sanno che la memoria del passato è lezione preziosa per il futuro. Il nostro amico (e maestro) era bambino mentre in Messico e a San Pietroburgo sventolavano le prime bandiere delle rivoluzioni popolari; imparava a leggere e scrivere mentre in Italia venivano incisi nei marmi delle lapidi menzognere i nomi di centinaia di migliaia di poverissimi analfabeti, gettati nella fornace della prima guerra mondiale, e i reduci tornavano piagati e piegati dall’amarezza di una giovinezza perduta. Era un ragazzo quando vedeva le piazze della sua Lucca segnate dalla violenza fascista; entrava in ginnasio mentre Mussolini liquidava con ferocia la democrazia parlamentare; era un prete di 32 anni quando la crudelissima persecuzione degli ebrei lo spinse a rischiare la vita per salvare le vittime dell’odio di Stato e, quando, pochi mesi più tardi, si alzarono nel cielo i funghi velenosi dell’apocalisse atomica: Auschwitz e Hiroshima, supreme barbarie di un secolo.
Più tardi avrebbe assistito in America Latina a orrendi regimi militari e resistenze eroiche, a spaventosi eccidi, al martirio degli empobrecidos; avrebbe ascoltato le spaventose notizie che filtravano dalle camere della tortura, e visto crescere un nuovo classismo (capitalista), una nuova lotta di classe con la quale un’oligarchia della quale facciamo parte, più o meno volontariamente riduce all’insignificanza interi popoli – e alla fame.
La strada sui cui Arturo cammina da 93 anni è fiancheggiata dai ruderi di molte ideologie, speranze, illusioni, civiltà, filosofie, piccoli Mozart (per dirla con Saint-Exupèry) assassinati dalla miseria. Sulla stessa strada ha camminato la Chiesa , la “sua” Chiesa: quella che egli enormemente ama ma della quale conosce il dramma di essere semper casta et meretrix, come la definivano gli antichi Padri: congregata intorno al Crocifisso risorto e però popolata da uomini quasi sempre, quasi tutti, infedeli per viltà e per egoismo.
Molte di queste infedeltà hanno segnato anche le spalle di Arturo, e un po’ anche quelle di chi ha vissuto una parte della sua storia. Ricordo con dolore gli anni fra il 1948 e il 1958. Ero nel Consiglio diocesano della Gioventù italiana di Azione cattolica di Milano, ribelle, di quando in quando, agli ukase che giungevano dalla Roma vaticana. Rifiutavamo di entrare nel “grande” partito anticomunista nel quale Luigi Gedda, con il compiacimento di Pio XII e della Confindustria, avrebbe voluto fondere le “truppe” cattoliche, i fascisti, le forze padronali, le massonerie militari e via dicendo, per una guerra di religione.
Ci capitava, per incoraggiarci nei momenti bui, di fare un censimento dei nostri “protettori” romani: elencavamo monsignor Montini, monsignor Dell’Acqua, Carlo Carretto (più tardi Mario Rossi), don Arturo Paoli… Salvo Dell’Acqua, tutti gli altri furono esautorati e dispersi nei “giorni dell’onnipotenza”, gli ultimi tempi pacelliani.
Perdemmo allora (persi) notizie di Arturo, poi seppi che si era imbarcato sulle navi che trasportavano i nostri emigranti nella soccorrevole Argentina di Peròn. Poi che si era fatto Piccolo Fratello. Poi disparve nuovamente (o mi sembrò) nel tragico panorama dell’America Latina: villas-miserias, poblaciones, favelas, cantegriles.
Il Cristo che vi raggiunse era esigente, imponeva conversioni; ma era anche un Risorto fraterno, talvolta festoso. Ricordo l’emozione con il quale ricevemmo durante il Concilio una lettera inviata da lui a Mario Rossi: ci chiedeva di essere attenti a che l’assemblea di tutti i vescovi della Terra non diventasse un momento “giacobino”, cioè il tentativo di riformare soltanto intellettualmente la Chiesa , senza imprimerle il segno e il linguaggio dei poveri nei quali il Cristo si è identificato.
Per questo il vecchio indomito torna e ritorna fra noi, lasciando le sue nuove patrie. Viene come un messaggero. Ci porta il vangelo non più glossato dai seriosi teologi nelle celle dei conventi o nelle aule delle università ma restituito alla sua rischiosa purezza dall’esperienza dei poveri, dalla loro concretezza, dal loro ammaestramento così eloquente anche quando è silenzioso.
Ricordo un aneddoto raccontato una volta da Arturo. Era da alcuni giorni in un poverissimo villaggio dell’America Latina quando gli arrivò un pacco di posta. Vi trovò, fra l’altro, una notificazione della Congregazione vaticana per il culto divino nella quale si disponeva che per la consacrazione eucaristica si usassero soltanto calici rivestiti internamente d’oro o d’argento. Rise, Arturo: “Avevamo appena celebrato la messa, come ci sembrava doveroso, nella capanna di una poverissima vedova; e naturalmente come calice avevamo usato un bicchiere scheggiato. Quella notificazione ci divertì grandemente. Fu motivo di ricreazione, di elevazione…”.
Tornando e ritornando dalla Chiesa dei poveri, ogni volta mi sembra che ci scruti, temendo che il sistema in cui siamo più o meno tranquillamente insediati ci rubi il cuore. Da qualche anno ha incontrato il pensiero del grande filosofo Levinas (anche lui povero: profugo, straniero), gli ha dedicato uno dei suoi numerosi libri e ne rilegge continuamente gli insegnamenti. Dire, come Levinas, che dobbiamo darci in ostaggio al volto dell’altro, del fratello che soffre, gli sembra una versione dell’evangelo, riletta finalmente da un filosofo disposto a chinarsi sui dolori e le speranze dei poveri, né lo arresta il fatto che Levinas non fosse (o non si dicesse) cristiano.
Ma io credo che Arturo piuttosto che leggere libri preferisca intendere le voci della Terra: il fragore delle cascate di Iguaçu, presso cui abita, che sembra l’immenso grido dell’America Latina ferita dall’ingiustizia e lo strillo gioioso del bambino che egli accarezza nella “sua” favela; le canzoni dei giovani che vogliono la pace e il sussurro di chi gli affida i suoi problemi: è un salmo che lo accompagna e che lui, all’alba, canta mentre il sole ancora un volta sorride alle sue 93 primavere…
Ettore Masina
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