“FARSI” VICINO COME CURA – Mariapia Urbani
“Farsi” vicino come cura
“La porzione di umanità nella quale Dio ci invita a centrare la nostra vita, è formata da coloro che vivono in se stessi la dolorosa esperienza della malattia, della solitudine, della povertà, del disamore. Sono queste le persone che Dio ci affida.”
Mariapia Urbani
La sensazione più forte e più profonda quando la malattia ci prende e diventa compagna di vita è la solitudine. Nessuno sembra in grado di capirci, di sapere esattamente cosa sta avvenendo nella nostra vita e tutto si fa più complicato.
Quando la malattia poi, come le demenze, prendono la persona nei suoi aspetti meno evidenti perché non si tratta di un male che si può togliere o guarire con un intervento, la realtà diventa ancora più complicata. Per la persona, certo, che pian piano sente sfuggire, diventare evanescente il suo mondo di conoscenze, il nome, il viso delle persone amate, i ricordi, la propria identità e la capacità di raccontarsi, ma, anche e forse in maniera ancora più dolorosa per chi ogni giorno incontra una persona amata che non riconosce più e dalla quale non si sente riconosciuta.
Esserci con i pazienti
Allora anche in noi operatori di un centro diurno per ospiti affetti da demenze di vario genere, nasce la domanda su come prenderci cura, farci vicini, aiutare, sostenere queste persone e su come sostenerci e farci prossimi tra noi.
“Il vero interesse non è ambiguo, esclude l’indifferenza ed è l’opposto dell’apatia. Non è inteso come spesso crediamo, semplicemente come un chinarsi di chi è forte verso chi è debole, di chi è potente verso chi è fragile, di chi ha, verso chi non ha. In realtà pensiamo questo perché è difficile entrare nella sofferenza dell’altro, e farequalcosa in merito. Eppure quando noi ci chiediamo quali sono le persone che nella nostra vita sono state più significative, spesso troviamo che sono coloro che, invece di darci suggerimenti, soluzioni o rimedi, hanno preferito partecipare alla nostra pena e toccare le nostre ferite con mano tenera e gentile.
L’amico che sa stare in silenzio con noi in un momento di disperazione, nudità, confusione, che sa stare con noi in un’ora di lutto… che accetta di non sapere, di non capire, di non riuscire a curarci e guarirci, e affronta con noi la realtà della nostra impotenza: questo è uno che si prende cura di noi” (H. Nouwen). Questo è tanto più vero, come nella nostra realtà, dove la vicinanza, la prossimità è l’unica cura possibile. Ai nostri ospiti servono operatori che non li guardano dicendo: “Tranquillo, adesso ti curo io!”, ma che si mettano accanto a loro guardando la loro sofferenza senza scappare, senza cercare cambiamenti facili, miracoli, senza la presunzione di poter modificare l’altro che porta all’impazienza e alla frustrazione quando i risultati non ci sono.
Dall’esperienza impariamo che chi si prende cura è presente all’altro, quando ascolta, ascolta lui, quando parla, parla a lui, quando si fa carico dell’assistenza lo fa partendo dai bisogni dell’altro e non dai suoi. La presenza di questi operatori è salutare perché accettano l’altro per come è, considerandolo nel suo momento particolare di vita, non hanno pretese di conoscere tutto ma, si aprono all’attenzione verso i bisogni evidenti e nascosti che sono della vita dell’altro.
Parlando di operatori credo che tra le motivazioni che lo caratterizzano ci sono: la disponibilità verso gli altri, il desiderio di dare significato al proprio lavoro, il bisogno di svolgere un’attività che non sia puramente tecnica ma che preveda la possibilità di rapporti umani. I valori personali, il proprio modo di vivere giocano un ruolo importante nel lavoro, così come la propria immagine sociale, il bisogno di gratificazione. Dovendo vivere una dimensione empatica con il malato, senza correre il rischio
di confondersi, l’operatore ha bisogno di capire che cosa può fare, come lo può fare e di sapere che c’è qualcuno che lo sostiene, con il quale dividere e condividere le difficoltà, la frustrazione dell’insuccesso, la stanchezza dovuta ai tempi lunghi o impossibili della guarigione…
La scelta, il coinvolgimento, la partecipazione, il successo, la soddisfazione che sono i principi della riabilitazione, sono dei presupposti perché anche gli operatori possano dare il meglio di sé nell’espressione delle capacità personali e professionali di ciascuno. Le reazioni ai problemi possono essere molto diverse, a seconda della personalità di ciascuno, della storia di ogni operatore, della situazione diversa in cui si viene a trovare.
Essere vicini, significa avere attenzione tra noi, perché spesso il lavoro ci richiede di intervenire a livello di assistenza con compiti gravosi e a volte sgradevoli, occorre prendere decisioni in temi brevi e in condizioni non sempre adeguate… un collega può fare molto, condivide con noi la fatica, spesso la sensazione di inutilità, la frustrazione del lavoro senza risultati, la pesantezza di una assistenza difficile. Anche gli operatori hanno bisogno di essere guardati, nutriti, curati, accompagnati… Spesso non esistono le risposte come non esistono magiche soluzioni rispetto ai perché della malattia, della sofferenza, del dolore, della nudità e fragilità…
Come siamo considerati spesso condiziona nel bene e nel male la nostra capacità di considerazione, se voglio invitare l’operatore a riconoscere l’ospite e ad onorarlo nella sua unicità, ad amarlo nella sua preziosità, ad ascoltarlo anche quando non parla o non si capisce, a fare spazio alla sua partecipazione e al suo essere al centro della nostra attenzione, anch’io devo guardare così il mio collega.
Salutare calorosamente, riconoscere una fatica fatta, essere vicino a chi sta soffrendo e si sente solo, guardare negli occhi e sorridere a chi ha perso un po’ lo smalto è quello che mi è chiesto oggi, ci è chiesto se vogliamo vivere la vicinanza, soprattutto se il nostro cuore ha un sentimento “pastorale”! Da un Dio che condivide pienamente la nostra vita, traiamo forza per offrire la nostra vicinanza e il nostro cuore a chi, per motivi diversi, vive sconsolate solitudini e tragiche sofferenze. Forse per qualcuno di noi “stare lì”, significa un non fare nulla che non si capisce perché non possiamo vantare come credito del nostro impegno. Provare a farlo però ci darà sicuramente, insieme alla fatica che ci costa, la gioia di esserci e, la risposta fiduciosa e sorridente di chi scopre che c’è qualcuno su cui si può contare. Nel nostro centro anche i rapporti con i familiari sono molto importanti.
Prossimità con i famigliari
I famigliari e l’ambiente sociale sono una risorsa fondamentale nei progetti riabilitativi. Ai famigliari viene chiesto, per garantire una continuità tra il centro e la famiglia, di collaborare nella raccolta di informazioni utili per la valutazione del livello di partenza dell’ospite; nella pianificazione degli incontri per la definizione, con l’ospite e con gli operatori dell’èquipe, di obiettivi personali e nell’apprendimento e utilizzo di abilità di comunicazione da utilizzare con l’ospite.
Poiché gli ospiti del centro tornano a casa a fine giornata, anche i rapporti informali sono molto importanti. Cerchiamo pertanto di renderci disponibili e attenti sia alle comunicazioni quotidiane che a quelle telefoniche. Spesso il famigliare si sente spaesato di fronte alle manifestazioni comportamentali, alle difficoltà di comprensione e di relazione che questi ospiti esprimono, ai cambiamenti affettivi nei rapporti con il coniuge o con i figli e il confronto con una persona esterna alla famiglia, stempera ansie e permette confronti e collaborazione nella gestione quotidiana.
Un altro momento difficile per i famigliari è quello iniziale, quando si trovano a confrontarsi con una persona che non “riconoscono” e non capiscono; accettare che questa rivoluzione degli equilibri familiari capiti proprio a loro è molto difficile. La vicinanza in questo difficile cammino di accettazione è molto importante; sapere che qualcuno ascolta le loro difficoltà, permette loro di dire quanto sono arrabbiati o tristi o impotenti, senza sentirsi giudicati è molto importante anche perché, diminuisce il senso di colpa che il familiare si porta dentro. Non sempre siamo capaci di metterci accanto ai familiari e comprenderli, di restituire dignità agli ospiti che apparentemente non ne hanno, di ri-abilitare restituendo loro attraverso la nostra dedizione, la nostra attenzione e la nostra competenza, la possibilità di rivestire un ruolo sociale importante che la società fondata sul profitto, non riesce più a riconoscere loro; ma, questo, è il nostro sforzo quotidiano.
Impegnarci a considerare i nostri ospiti come persone che hanno ancora molto da offrire, voler loro bene, e il loro bene, accettarli e accoglierli per quello che sono, anche quando urlano, imprecano, sono aggressivi o non capiscono i nostri messaggi e le nostre richieste è il modo, forse l’unico che abbiamo per dichiarare loro che sono importanti, che meritano il nostro sforzo, che contano nella nostra economia fatta di valori umani e spirituali…
Non siamo giunti alla mèta, ma continuiamo a camminare per conquistarla, con l’aiuto di chi ci sta accanto, gli ospiti per primi, e la forza di S. Giovanni di Dio. Questo è il messaggio che abbiamo inviato ad ogni famigliare:
Farsi vicino allora è molto pastorale, anche quando non ci è possibile o permesso un intervento risolutivo: è il prendersi cura reciprocamente che cambia il nostro cuore e dà sapore alle alle cose che viviamo quotidianamente.
IN FATEBENEFRATELLI GENNAIO/MARZO 2007
Filed under: TEOLOGIA PASTORALE SANITARIA