L’INCANDESCENZA DELLA PAROLA CHE CREA – + G.Ravasi

Posted on Dicembre 26th, 2008 di Angelo |

 L’INCANDESCENZA DELLA PAROLA CHE CREA

  

+ GIANFRANCO RAVASI

  

La Bibbia, alfabeto colorato dell’arte, ha dato all’Europa cristiana parole, singole voci e locuzioni idiomatiche . È la lingua materna dell’Occidente e si esprime anche in forme semplici e quotidiane che attingono al dettato e all’immaginario della Parola sacra. 

 

ravasi-gianfranco-arcivescovo0712m14a-150x150Kant era convinto che «il Vangelo fosse la fonte da cui è scaturita la nostra cultura», mentre Goethe non aveva esitazione nel considerare la Bibbia come «la lingua materna dell’Europa». Lo è stato e lo è tuttora in forme anche semplici e quotidiane, attraverso quella spontaneità lessicale che si esprime in locuzioni che attingono al dettato e all’immaginario della Parola sacra: «fare da Marta e Maria», «la pazienza di Giobbe», «andare da Erode a Pilato», «lavarsene le mani», «cedere per un piatto di lenticchie», «essere una colomba», «essere uomo di poca fede», «aspettare la manna dal cielo», «il figlio prodigo», «le cipolle d’Egitto», «essere un Cristo in croce», «chi semina vento raccoglie tempesta», «essere il beniamino di qualcuno», «nessuno è profeta in patria», «fare un’ira di Dio», un’«apocalisse» e così via in tutte le lingue con modalità e allusioni diverse. Un linguista importante come Gian Luigi Beccaria segnalava appunto che «la Bibbia è il libro che ha dato parole all’Europa cristiana: singole voci, soprattutto locuzioni idiomatiche». 

Noi, però, ora vorremmo attraverso un percorso solo emblematico illustrare il rilievo che le Sacre Scritture hanno esercitato nell’arte e, più in generale, nella cultura dell’Occidente, proprio perché esse stesse sono in tessute con un linguaggio simbolico le cui parole sono già in sé immagine. Affrontare un orizzonte così vasto e complesso impone una semplificazione che cercheremo di comprimere all’interno di un dittico ideale. Nella prima tavola vorremmo alludere a una particolare dimensione della Bibbia che è spesso oggetto di considerazione ai nostri giorni, cosi com’era invece disattesa in passato: intendiamo riferirci alla qualità estetica delle Sacre Scritture. Tante sono le vie che possono illustrare questo aspetto di bellezza. Noi ora ci accontenteremo di approfondire solo il tema della grandezza della parola. Nella seconda tavola di questo dittico esalteremo, invece, l’influsso esercitato dalla Bibbia all’interno della storia culturale dell’Occidente in tipologie multiformi e complesse. 

Efficacia della parola divina 

Sappiamo che per la Rivelazione ebraico-cristiana la parola è la radice della creazione ove espleta una funzione «ontologica». Infatti, si può quasi affermare che entrambi i Testamenti si aprono con la Parola divina che squarcia il silenzio del nulla. Bereshit… wajjômer ‘elohîm; jehî ‘ôr, Wajjehî ‘ôr, «in principio, Dio disse: Sia la luce! E la luce fu» (Genesi, 1, 1.3). Così si schiude la prima pagina dell’Antico Testamento. Nel Nuovo Testamento l’ideale apertura potrebbe essere quella del celebre inno che funge da prologo al Vangelo di Giovanni: En archè en ho Logos, «In principio c’era la Parola» (1,1). L’essere creato non nasce, perciò, da una lotta teogonica, come insegnava la mitologia babilonese (pensiamo all’Enuma Elish), bensì da un evento sonoro efficace, una Parola che vince il nulla e crea l’essere.
Canta il Salmista: «Dalla Parola del Signore furono creati i cieli, dal soffio della sua bocca tutto il loro esercito… perché egli ha parlato e tutto fu, ha ordinato e tutto esistette» (Salmo 33, 6.g).
La Parola divina è, però, anche alla radice della storia, come sorgente di vita e di morte: «Mandò la sua Parola e li guarì, li scampò dalla fossa (…). Egli invia la sua Parola e li fa perire (…). Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte era a metà del suo corso, la tua onnipotente Parola dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si slanciò (…) portando, come spada affilata, il tuo ordine inesorabile» (Salmi, 107,20; 147, 18; Sapienza, 18, 14-15). La Parola divina sostiene e giudica, quindi, anche la trama storica col suo tessuto di vicende ed eventi perché «retta é la Parola del Signore e fedele ogni sua opera» (Salmo, 33, 4). Ma questa stessa Parola interpreta il senso ultimo della storia: è, quindi, la radice della Rivelazione.
 

 

Significativa, al riguardo, è la scelta aniconica di Israele che ha la sua espressione più grandiosa (e drammatica) nel primo precetto del Decalogo: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto terra» (Esodo, 20, 4). Via gli occhi dal vitello d’oro, dunque! Una scelta, dicevamo, drammatica non solo per un popolo così affamato di realismo e di simboli com’è quello ebraico di matrice semitica, una cultura realistica e simbolica al tempo stesso ma per la stessa storia dell’arte della quale dovremo poi interessarci. In bocca a Mosè è messa dal Deuteronomio una frase folgorante per illustrare l’esperienza sinaitica: «Il Signore vi parlò dal fuoco: una voce di parole (qôl debarîm) voi ascoltaste; non un’immagine (temûnah) voi vedeste, solo una voce (qôl)» (4, 12).

In questa linea che privilegia la Parola, la Bibbia è chiamata dalla tradizione giudaica miqra’, cioè «lettura», laddove si ha il rimando al verbo qara’ della «proclamazione», così come accade per il Corano, vocabolo che contiene la stessa radicale verbale. In questa luce il rilievo «sonoro» del testo biblico è non solo una questione letteraria ma anche teologica. Suggestivo sarebbe a questo punto scoprire la dimensione estetica «fonetica» della Parola sacra: si ricordi, tra l’altro, che la metrica ebraica non è quantitativa ma qualitativa, cioè affidata all’impasto cromatico armonico e persino descrittivo-denotativo dei suoni. A esempio, la professione d’amore della donna del Cantico dei cantici è affidata al filo musicale del suono «i» che indica la personalità dell’io e dell’ «ò» che rimanda al «lui» dell’amato: dodî lî wa’anî lô… ‘anî ledôdî wedôdî lî, «il mio amato è mio e io sono sua… io sono del mio amato e il mio amato è mio» (2,16; 6, 3). La Parola è, dunque, voce che parla il linguaggio di Dio.

 

 

Ma la Parola si cristallizza anche nel Libro per eccellenza, la Bibbia. È cosi che il Nuovo Testamento ama l’espressione graphè/graphài per indicare la Parola di Dio. Si ha qui una puntualizzazione del complesso rapporto tra infinito e contingente, tra Lògos e sàrx. La Parola, infatti, deve comprimersi nello stampo freddo e limitato dei vocaboli, delle regole grammaticali e sintattiche, deve adattarsi alla redazione di autori umani. È l’esperienza che tutti i poeti vivono nella sua drammaticità e tensione. Goethe nel Faust confessa che das Wort erstirbt schon in der Feder, sì, la parola muore già sotto la penna. E nel suo Flauto di vertebre Majakowski ribadisce: «Sulla carta sono crocifisso coi chiodi delle parole», mentre Borges più generalmente riconosce che el universo es fluido y cambiante, el lenguaje rigido.

Eppure questa rigidità non riesce a raggelare e a spegnere l’incandescenza della Parola. Esemplare è il caso del profeta Geremia che «prende un rotolo per scrivere e scrive» su ordine divino gli oracoli del Signore (36, 2). Ma dopo che il re Ioiakim, leggendo quel rotolo, ne «aveva lacerato col temperino da scriba e aveva gettato nel fuoco» le colonne di quel testo (36, 23), il profeta non avrà esitazione su comando divino a far rinascere gli stessi oracoli mostrando cosi che – come dichiarava Isaia (40, – «secca l’erba, appassisce il flore, ma la Parola del nostro Dio dura in eterno». È anche questa un’esperienza che il poeta analogamente vive, convinto com’è che, una volta detta, la parola autentica non muore ma proprio allora comincia a vivere: «A word is dead / when it is said, / some say./ I say’ it just / begins to live / that day» (così la poetessa americana Emily Dickinson). E la forza «performativa» e non meramente «informativa» della Parola che ovviamente nella poesia celebra il suo trionfo e che ha il suo apice nella Scrittura Sacra. 

Kènosi e splendore della parola divina

Come accade per l’Incarnazione, anche la Parola rivela due volti, quello della «carne», del limite, della finitudine, e quello del divino, dell’efficacia creatrice, della teofania. A questi due volti, che in pratica continuano il discorso sopra abbozzato, dedicheremo ora la nostra attenzione. La Parola di Dio – come anche la poesia – si avvale di un mezzo «kenotico», quello di una lingua, di un lessico, di regole e fonemi. E la prigione necessaria della Parola ineffabile per rendersi effabile. È qualcosa di analogo alla kènosis del Verbo di Dio così come è descritta nell’inno paolino di Filippesì: «Cristo Gesù, pur essendo di natura divina…, svuotò (ekènòsen) se stesso, assumendo la condizione di servo» (2, 6-11). La debolezza della parola umana è stupendamente illustrata da Isaia che, in una personificazione di Gerusalemme vinta, cosi canta: «Prostrata parlerai da terra e dalla polvere saliranno fioche le tue parole, sembrerà di un fantasma la tua voce dalla terra e dalla polvere la tua parola risuonerà come un bisbiglio»(29, 4).

La Bibbia alfabeto colorato dell’arte

Tentiamo a questo punto di illustrare, in modo del tutto emblematico, la seconda tavola del dittico ideale a cui accennavamo in apertura. In essa vorremmo esaltare la funzione generativa che la Bibbia ha espletato per la cultura occidentale attraverso una presenza tale da renderla una sorta di «lessico» iconografico e di modello ideologico a cui attingere. Non per nulla Chagall affermava che le pagine bibliche sono «l’alfabeto colorato in cui per secoli i pittori hanno in tinto il loro pennello».

«Le Sacre Scritture sono l’universo entro cui la letteratura e l’arte occidentale hanno operato fino al XVIII secolo e stanno ancora in larga misura operando». Questa affermazione sul rapporto tra Bibbia e letteratura – contenuta nel noto saggio Il grande codice di Northrop Frye (1981) – registra un dato di fatto facilmente accessibile a chi perlustri la storia culturale dell’Occidente: per secoli, infatti, la Bibbia è stata l’immenso lessico o repertorio iconografico, ideologico e letterario a cui si è attinto costantemente a livello colto e a livello popolare. E se Erich Auerbach nella sua famosa Mimesis (1946) aveva riconosciuto nella Bibbia e nell’Odissea i due modelli cruciali per la nostra cultura, Nietzsche nei materiali preparatori all’opera Aurora (1881) ugualmente confessava che «per noi Abramo è più di ogni altra persona della storia greca o tedesca. Tra ciò che sentiamo alla lettura dei Salmi e ciò che proviamo alla lettura di Pindaro e di Petrarca c’è la stessa differenza tra la patria e la terra straniera».

Cercare di delineare questa presenza con la molteplicità delle sue forme, ora ideali ora degenerate, è un’impresa ciclopica, per non dire disperata tanto sterminata risulterebbe ogni catalogazione. Tuttavia, sulla scia di stimoli provenienti dalla filosofia (ad esempio, Gadamer) e dalla teologia (ad esempio, von Balthasar), si è riconosciuto, per la comprensione della Bibbia, il rilievo rappresentato non solo dall’Autore ma anche dal lettore, cioè dalla Tradizione teologica, spirituale e artistica che dalla Scrittura è stata generata. Si è, così, configurata una ricerca detta di Wirkungsgeschichte o «storia dell’effetto» (o anche Rezeptionsgeschichte, ossia di «storia della recezione» di un testo) che verifica lo straordinario influsso e l’irradiazione esercitata dalla Bibbia sull’immaginario e sulla vicenda culturale alta e popolare. Potremmo citare, ad esempio, una ricerca di Jacob Kremer sulla risurrezione di Lazzaro che, dopo aver approfondito il significato teologico del passo giovanneo (capitolo 11), analizza la storia della recezione di questo miracolo con testimonianze desunte dalla letteratura religiosa e profana, dalla liturgia e soprattutto dall’arte (catacombe, sarcofagi, dittici, codici miniati, Giotto, Cranach, Rubens, Rembrandt, Redon, van Gogh e altri).

Muovendoci sempre su una traiettoria puramente esemplificativa, ci accontenteremo di indicare solo alcuni modelli che cerchino di rappresentare in modo emblematico questo immenso influsso. Un primo modello potrebbe essere definito come reintepretativo o attualizzante: si assume il testo o il simbolo biblico e lo si rilegge e incarna all’interno di coordinate storico-culturali nuove e diverse. Pensiamo alla figura di Giobbe che, dopo esser divenuta per secoli un’immagine del Cristo paziente nell’arte sacra – come nella Meditazione sulla Passione o nel Compianto sul Cristo morto del Carpaccio – si trasforma in un segno personale nella Ripresa di Kierkegaard: in Giobbe il filosofo danese legge la sua esperienza infranta di amore e il tentativo di recuperarla dal passato a opera di Dio. Scriveva Kierkegaard: «Io non leggo Giobbe con gli occhi come si legge un altro libro, ma lo metto sul cuore (…) Ogni sua parola è cibo, vestimento e balsamo per la mia povera anima».

E, per stare allo stesso filosofo, pensiamo al sacrificio di Isacco (Genesi, 22) così come è letto da lui in Timore e tremore: il terribile e silenzioso cammino di tre giorni affrontato da Abramo verso il monte della prova diventa il paradigma di ogni itinerario di fede, segnato dalla luce e dalla tenebra, in cui il credente deve giungere fino alla spogliazione totale di tutti gli appoggi umani, compresi gli affetti e le relazioni fondamentali. Un esegeta, Gerhard von Rad, in una sua opera intitolata Il sacrificio di Isacco, raccoglierà attorno al testo biblico, oltre a quelle di Kierkegaard, le reintepretazioni attualizzate di Lutero, di Rembrandt e di Kolakowski, ma già la tradizione giudaica nella ‘aqedah, cioè nella legatura sacrificale di Isacco sull’altare del monte Moria, aveva visto il mistero della sofferenza del popolo ebraico e si era interrogata sul silenzio di Dio (in particolare in connessione con la tragica vicenda della Shoah per le persecuzioni naziste).

Potremmo continuare a lungo nella documentazione di questo tipo di rilettura che domina nell’arte sacra, attenta a ricondurre eventi evangelici all’oggi della Chiesa: pensiamo alle raffigurazioni popolari, al folclore, ai riti tradizionali che cercano di far rivivere la passione di Cristo o altri momenti della sua esistenza all’interno della quotidianità, delle architetture e delle presenze che popolano l’orizzonte quotidiano. C’è, però, un altro modello da individuare: esso elabora i dati biblici in modo sconcertante e per questo lo potremmo definire come degenerativo. Nella stessa storia della teologia e dell’esegesi si sono verificate spesso deviazioni e deformazioni interpretative. Il testo sacro si trasforma in un pretesto per parlare d’altro (allegoria) o persino per ribaltarne il senso originario, Così accade anche nella storia della cultura. Prendiamo ancora come emblema il libro di Giobbe. La tradizione, infatti, ignorando l’altissimo poema che costituisce la sostanza dell’opera, si è attestata quasi esclusivamente sul prologo e sull’epilogo (capitoli 1-2 e 42). Qui Giobbe appare solo come l’uomo paziente che supera la prova ed è alla fine ricompensato da Dio. In realtà il corpo centrale dell’opera presenta invece il dramma della fede posta di fronte al mistero di Dio e del male.

L’approdo di una ricerca lacerata e acre è in quella professione di fede che sigilla realmente l’intero scritto: «Io ti conoscevo per sentito dire; ora i miei occhi ti vedono» (42, 5).
L’arte cristiana, invece, sulla scia di un’interpretazione riduttiva già presente nel Nuovo Testamento (Giacomo 5, 11) e nei Padri della Chiesa, si accontenterà di un Giobbe collocato sul letamaio, pronto a sopportare le più atroci sofferenze, l’ironia della moglie e la contestazione degli amici, in attesa della liberazione finale. Ma la degenerazione del significato autentico del libro biblico può essere ulteriormente illustrata all’interno dell’enorme ripresa letteraria che la storia di Giobbe ha subito (da Goethe a Dostoevskij, da Roth a Singer, da Bloch a Camus, da Morselli a Pomilio e altri). Esemplare in questo senso è la Risposta a Giobbe di Carl G. Jung (1952) in cui il celebre sofferente biblico si erge come il simbolo della moralità e della responsabilità di fronte a un Dio del tutto libero da ogni etica, nella sua onnipotenza e onniscienza. Cristo sarà colui che, provenendo da Dio ed entrando nell’umanità, riuscirà a imparare la lezione morale di Giobbe e a ergersi contro la durezza «immorale» e l’insondabilità del Padre celeste. Come è evidente, il testo biblico è ormai solo uno spunto sul quale si intessono nuove trame e nuovi significati e questo accade per molte figure bibliche; sempre per stare nell’ambito psicoanalitico, si ricordi l’elaborazione della figura di Mosè e delle origini della religione ebraica compiuta da Sigmund Freud nei tre saggi sull’Uomo Mosè e la religione monoteistica (1913),

L’arte come ermeneutica trasfigurativa del testo biblico

Come accade per l’Incarnazione,
anche la Parola rivela due volti, quello della «carne», del limite, della finitudine,
e quello del divino, dell’efficacia creatrice, della teofania
Il lessico e le regole della lingua
sono la prigione necessaria della Parola ineffabile per rendersi effabile
 

Tuttavia dobbiamo riconoscere che, se è già segno di fecondità e di forza dell’originale biblico anche la lettura deviata, la Bibbia offre una grandiosa testimonianza di potenza spirituale e culturale quando è fatta trasparire in tutta la sua ricchezza simbolica e teologica. È per questo che vorremmo parlare di un terzo modello di tipo trasfigurativo. L’arte riesce spesso a far vibrare le risonanze segrete del testo sacro, a ritrascriverlo in tutta la sua purezza, a far germogliare potenzialità che l’esegesi scientifica solo a fatica conquista e talora del tutto ignora. E ciò che Paul Klee afferma va in senso generale quando nella sua Teoria della forma e della figurazione scriveva che «l’arte non ripete le cose visibili ma rende visibile ciò che spesso non lo è», Gaston Bachelard diceva di Chagall che nei suoi quadri «egli legge la Bibbia e subito i passi biblici diventano luce».
In questo senso ci sembra particolarmente indicativa la grande musica che nel periodo storico che va dal ‘600 agli inizi dell’800 ha spesso superato le arti figurative nel divenire interprete della Bibbia (Carissimi, Monteverdi, Schütz, Pachelbel, Bach, Vivaldi, Buxtehude, Telemann, Couperin, Charpentier, Haendel, Haydn, Mozart, Bruckner e così via). Si immagini solo cosa possa significare un oratorio come Jefte di Carissimi o il Vespro della Beata Vergine di Monteverdi o una Passione secondo Matteo di Bach o, per venire ai nostri giorni, la Passione secondo Luca di Penderecki o i Chichester Psalms di Bernstein. Per avere un esempio specifico ed essenziale, basterebbe seguire la suprema rilettura che Mozart fa di un salmo letterariamente modesto, il brevissimo 117 (116), caro però a Israele perché proclamava le due virtù fondamentali dell’alleanza che lega Dio al suo popolo: veritas et misericordia come dice la versione latina della volgata usata dal musicista, «amore e fedeltà» in una traduzione più vicina all’originale ebraico hesed wa ‘emet. Ebbene, il Laudate Dominum in fa minore dei Vespri solenni di un Confessore (K 339) di Mozart riesce a ricreare la carica teologica e spirituale, ebraica e cristiana del salmo come non saprebbe mai fare nessuna esegesi testuale diretta.

Il risultato trasfigurativo è proprio, comunque, di tutte le grandi opere d’arte e di letteratura. Impossibile sarebbe dimostrarlo compiutamente perché il repertorio da consultare è vastissimo. Ci accontentiamo di un simbolo, quello del dito efficace di Dio, spesso celebrato dalla Bibbia. Ebbene, tutta la storia, la missione, la figura e la grandezza del Battista sono racchiuse in quell’indice poderoso puntato verso il Crocifisso che Matthias Grünewald ha dipinto nell’Altare di Isenheim del museo di Colmar. Tutto il mistero dell’atto creativo descritto nel libro della Genesi è nell’indice «imperativo» del Creatore michelangiolesco che sveglia all’essere l’indice assopito di Adamo. E tutta la redenzione «ricreatrice» che si crea nella vita del pubblicano Levi è nella citazione che Caravaggio fa di Michelangelo in quell’indice che Cristo punta sul futuro apostolo Matteo, nella celebre tela di San Luigi dei Francesi a Roma.

L’arte e le varie espressioni culturali possono, quindi, rivelarsi ripetutamente animate dall’immaginario e dall’ideologia biblica. Contemporaneamente la tradizione culturale diventa chiave di interpretazione – ora libera, ora corretta, ora deviata – della stessa Scrittura tant’è vero che un teologo come Marie-Dominique Chenu nel suo volume sulla Teologia nel XII secolo confessava: «Se dovessi rifare quest’opera darei un’attenzione molto maggiore alla storia delle arti, sia letterarie sia plastiche, perché esse non sono soltanto delle illustrazioni estetiche ma dei veri luoghi teologici». Tutto questo è giustificalo anche dal fatto che la Bibbia, pur essendo un testo teologico nella sua finalità ultima, è anche un’opera letteraria, dotata di una sua straordinaria forza espressiva. Essa si manifesta in forme molteplici ma soprattutto ha una via privilegiata di formulazione – come si ha già avuto l’occasione di sottolineare – proprio nel simbolo. Thomas S. Eliot parlava dei Salmi come di un «giardino di simboli» ma questa definizione può essere estesa a molti scritti biblici (si pensi solo a Giobbe, al Cantico dei cantici e all’Apocalisse).

Per la storia della cultura alta e popolare dell’Occidente fondamentali sono stati quei simboli narrati che sono le parabole di Gesù. Il seme, i campi, le cene nuziali, i figli difficili, i portieri notturni, i ricchi beceri ed egoisti, le vittime degli assalti e i soccorritori, le vigne e i contadini, i gigli del campo, il fico, i cani randagi, i passeri, il tarlo e la ruggine, gli avvoltoi, i pesci, il sole e la pioggia e cosi via diventano segni indimenticabili di un messaggio che sarà costantemente ripreso, trascritto, esaltato e anche deformato ma sempre attraverso quello straordinario apparato immaginifico. Per la Bibbia è possibile dire Dio in modo figurativo, in forma letteraria bella e in linguaggio giusto. Attraverso il simbolo si respinge un’ineffabilità e un aniconismo che ha colpito alcune religioni, almeno in certi ambiti: pensiamo alla proibizione delle immagini nell’ebraismo e nell’islam. Un atteggiamento che ha lambito anche il cristianesimo nel periodo dell’iconoclasmo o in qualche fase della Riforma protestante. Il simbolo, però, permette anche di rigettare la rappresentazione idolatrica che spesso è condannata dalla Bibbia e che è talora affiorata anche nella storia successiva. Il linguaggio simbolico e ciò che esso genera a livello artistico permette di conservare in equilibrio il mistero, l’Altro e l’Oltre di Dio con la sua rivelazione, la sua effabilità, il suo comunicarsi storico all’umanità.

Con la sua ricchezza simbolica la Bibbia è stata, quindi, il grande codice della cultura, in particolare dell’arte, e dell’immaginario popolare ma è stata anche la presentazione di una fede che unisce in sé trascendenza e immanenza. L’arte ha cercato di cogliere la carnalità, cioè la storicità di quella rivelazione, ora esaltandola, ora trasformandola, ma ha anche saputo quasi sempre salvaguardarne la dimensione di segno, di mistero, di infinito e di eterno. E ciò che può essere illustrato, in finale, attraverso un genere particolare dell’arte orientale cristiana, quello dell’icona, così come ce la presenta Pavel Florenskij: «L’oro barbaro e pesante delle icone, in sé futile alla luce del giorno, si anima con la luce tremolante di una lampada o di una candela in una chiesa, facendo presentire altre luci non terrestri che riempiono lo spazio celeste». Arte e fede in questo senso s’incontrano. Le figure dell’icona e i loro fondi dorati sono terreni ma riverberano il divino e immettono in un’esperienza paradisiaca.

Da un lato, l’arte giunge ad espletare una funzione kerigmatica, diventa cioè un annuncio del messaggio spirituale, come suggeriva un grande cultore delle immagini sacre, san Giovanni Damasceno, nell’VIII secolo: «Se un pagano viene e ti dice: “Mostrami la tua fede”, tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui essa è ornata e spiegagli la serie dei quadri sacri”. D’altro lato, l’arte illuminata e sostanziata dall’iconografia biblica diventa essa stessa catechesi per i fedeli, come già sosteneva san Gregorio Magno nel VI secolo invitando qui litteras nesciunt (…) ut in parietibus videndo legant. L’arte è, quindi, la Parola divenuta immagine, è il codex in pariete e, come si leggeva negli Statuti d’arte dei pittori senesi del Trecento: «Noi (gli artisti) siamo manifestatori, agli uomini che non sanno lettura, delle cose miracolose operate per virtù della fede».

 

Osservatore Romano 17 febbraio 2008

La Bibbia si affida alla povertà espressiva di una lingua pietrosa come il deserto, scarna e scabra: è l’ebraico classico che può ricorrere, tra l’altro, soltanto a un arsenale lessicale limitato, composto di soli 5.750 vocaboli, Oppure si basa sul greco koinè, ben più modesto della lingua della classicità ellenica e il lessico greco neotestamentario ricorre a un patrimonio di soli 5.433 vocaboli. Anzi, la kènosis procede fino al punto che il nome più importante, quello divino, si contiene in quattro consonanti: JHWH, che rimangono mute, impronunziabili. Al vertice di questo assottigliarsi della Parola, nella miseria umana abbiamo l’esperienza straordinaria del profeta Elia al monte Horeb-Sinai. Dio non appare nel «vento impetuoso e gagliardo da spaccare le rocce», né si configura nel terremoto o nel fulmine di una tempesta assordante. Ma, come dice l’originale ebraico, il Signore si nasconde in una qôl demamah daqqah, cioè in «una voce di sottile silenzio»(Primo libro dei Re 19, 11-12). E quasi il punto zero dell’annientamento della Parola, eppure quel silenzio è «bianco», cioè racchiude in sé tutti i suoni, le lettere, le sillabe, le parole. È il «mistero», termine che nella sua radicale greca (myein) suppone il tacere, il chiudere le labbra, non per un’assenza di significati ma per una presenza di vita di vita e di persona.

È così che la Parola divina – come per analogia anche la parola poetica – rivela la sua potenza. Si manifesta come un mezzo sontuoso e, per usare un’espressione di Teilhard de Chardin, si fa «diafanica», cioè diafana e trasparente alla Rivelazione divina. È questa la potenza riconosciuta al Lògos del prologo giovanneo, già evocato, secondo la semantica semitica sottesa. In ebraico, infatti, dabar, «parola», significa contemporaneamente anche «atto, evento». Dire e fare s’intrecciano. E sono, perciò, da assumere cumulativamente e non disgiuntamente o alternativamente, come suppone il poeta, i quattro significati che Goethe nel Faust attribuisce al Lògos giovanneo: das Wort, Parola, der Sinn, significato, die Kraft, potenza, die Tat, atto.

Questa efficacia che rende la parola (debole ed esile) capace di manifestare in diafania la Parola che «è stabile come il cielo» (Salmo 119, 89) si attua soprattutto attraverso il simbolo, nel senso genuino del termine (syn-ballein, «mettere insieme») e non nell’accezione popolare che lo fa sconfinare nella metafora meramente allusiva. Il linguaggio simbolico permette di annodare finito e infinito, contingente e assoluto, temporale ed eterno, umano e divino. Cristo è il grande Simbolo perfetto perché fonde in sé Lògos e sàrx, come si diceva, divinità e umanità, pienezza e debolezza. E come c’è in teologia la tentazione dia-bolica (dià-ballein, gettare via, disperdere) di infrangere l’incarnazione attraverso lo spiritualismo gnostico o il fenomenismo storicistico, così anche nell’esegesi della parola c’è il rischio di spezzare la simbolicità della Parola o riducendola a mera larva spirituale o a cava da cui estrarre teoremi teologici oppure a una raccolta di testi storiografici o letterari.

Emblematica in questo senso è stata l’ermeneutica tradizionale del Cantico dei cantici. Da un lato, l’amore dei due protagonisti è stato fatto evaporare in un misticismo allegorico (Dio-Israele, Cristo-Chiesa, Cristo-Maria, Cristo-anima): decollando dalla realtà, si infrangeva ogni legame con la concretezza dell’esistenza per rincorrere rarefatte geometrie metaforiche e spirituali. D’altro lato, la cosiddetta école voluptueuse, cioè la scuola interpretativa letteralista, considerava il poema una semplice raccolta di liriche erotiche, modulate su analoghi modelli dell’antico Vicino Oriente, testi carichi talora di torrida sensualità, altre volte affidati ai tòpoi del linguaggio amoroso. In realtà il Cantico è contemporaneamente eros e amore, è celebrazione dell’abbraccio pieno umano che riflette e rivela quello divino nei confronti della sua creatura. Ed è solo la lettura simbolica a conservare compatti i due valori senza penalizzare uno per salvare l’altro. Come scriveva René Char (1907-1988), poeta surrealista e simbolista francese, «gli dei abitano il simbolo; / ghermita dal brusco balzo, / la poesia s’accresce / di un oltre senza protezione». È qui che teologia e poesia si trovano a muoversi nella stessa maniera, entrambe radicate nel presente e nel reale per ascendere a un Altro e a un Oltre trascendenti.

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