LA PAROLA AI SORRISI DI UN’AFRICA CHE SOFFRE – Paola Cerana
Posted on novembre 23rd, 2009 by Angelo
SORRISI DI UN’AFRICA CHE SOFFRE
di Paola Cerana
“L’abitudine è nemica del lavoro ben fatto. Occupati di ogni malato come fosse lui il primo, o il tuo miglior amico.”
Questo sta scritto sulla porta d’ingresso del reparto di pediatria di un ospedale costruito in mezzo al nulla, a Tanguieta, nel Benin. E’ l’Hopitail Saint Jean de Dieu, inaugurato nel 1970 da Fra Tommaso Zamborlin.
E’ la storia di una struttura che, come molte altre, per fortuna, porta aiuto e sollievo in un Paese che somiglia molto più all’inferno che non alla Terra, come noi la conosciamo. E’ la storia di uomini e donne che offrono il proprio coraggio, la propria solidarietà e professionalità a chi può dare in cambio “solo” un sorriso.
Il Benin, ex Repubblica del Dahomey durante il dominio francese, è uno degli stati più poveri dell’Africa. E’ affacciato sul golfo di Guinea, lac osiddetta costa degli schiavi e Tanguieta è, a sua volta, la zona più misera e più bisognosa di assistenza. La speranza di vita dalla nascita qui è di cinquantacinque anni e la mortalità infantile nel primo anno di vita è pari a 89 ogni 1000 nascite.
Questa terra è un caleidoscopio di culture, tradizioni e contraddizioni a noi difficili da comprendere. Oltretutto tensioni etniche e disuguaglianze sociali tra le varie tribù non facilitano i rapporti, interni ed esterni. Qui si parlano decine di dialetti: dendi, fon, bariba, ewe, mossi, wama … E ad una maggioranza di popolazione animista, pari al 70%, si contrappone una minoranza di credenti feticisti, cristiani e musulmani.
Ma le cifre, alla fine, dicono poco. Non parlano al cuore e vengono in fretta dimenticate. Per questo vorrei lasciare la parola alle immagini, a fotografie che mi sono state regalate da un giovane studente di medicina, futuro pediatra, che ha lavorato nell’ospedale, la scorsa estate, come volontario.
Mi ha raccontato della sua esperienza come se avesse vissuto l’avventura più naturale e gratificante della sua vita, senza mai lamentarsene.
Riascolto in silenzio le sue parole cariche di passione e di dignità, anziché di compatimento e desolazione. Immagino nella mia mente le scene tremende, che mi ha dipinto. Scene di violenza, povertà e sofferenza, che mi hanno scaraventato addosso un inevitabile senso di impotenza, di inadeguatezza e soprattutto di vergogna per la mia comoda abitudine all’indifferenza.
Ma il suo racconto pieno di entusiasmo è talmente trascinante che la mia coscienza si scrolla di dosso l’amarezza e io mi catapulto laggiù, insieme a loro, ai bambini di Tanguieta. Sento i loro canti, le loro risa. Resto abbagliata da un arcobaleno di colori. Assorbo il calore impietoso del sole, lo respiro, assieme agli odori delle spezie che si mescolano nella mia testa e si trasformano in sapore. Manioca e zenzero, noce moscata e peperoncino, cannella e curcuma mi parlano delle loro abitudini.
Riguardo queste fotografie e finalmente capisco che le immagini più fulminanti non sono affatto quelle di corpi e visi straziati su un lettino o in mezzo alla polvere della savana! Quello che mi disorienta sono, al contrario, le espressioni di gioia dei bambini, la loro quieta serenità, la silente gratitudine del loro sguardo. Li trovo improvvisamente bellissimi! “Dai un piedistallo al bambino, quando crescerà sarà il bambino a dare a te un piedistallo ”, suona un proverbio del Burundi. Quanta saggezza nella semplicità dei proverbi africani!
Mi commuove la limpidezza con cui mi osservano, la forza della loro nudità contro la sfrontatezza della nostra inutile apparenza, la profondità dei loro occhi davanti alla superficialità del nostro voltar le spalle per non vedere. “I bambini sono la luna che splende”, dice un altro proverbio africano, un’altra piccola, semplice verità.Qualsiasi parola in più stonerebbe, quindi ricorro un attimo ancora alle cifre e concludo.
Oggi l’Hopitail di Tanguieta conta oltre 230 posti letto, anche se i malati sono spesso molto più numerosi. Ad occuparsi di loro uno staff di 12 medici e chirurghi, 125 dipendenti tra personale paramedico e circa 50 dipendenti addetti ai servizi amministrativi.
Il reparto di pediatria è nato nel 1984, grazie alla volontà e ai contributi di un benefattore, a seguito della perdita improvvisa di un figlio. Come spesso accade, purtroppo, è la tragedia vissuta in prima persona a muovere verso le sofferenze altrui, anziché fuggirle.
Oggi il lavoro dei volontari è fondamentale, perché queste persone, questi bambini soprattutto, non hanno bisogno solo di cure, medicine, assistenza e nutrimento ma di tanta umanità, per poter continuare a sorridere.
Come dice un altro proverbio africano “non è la mano che dona ma il cuore”. Affinché l’Africa non sia più solo un grosso problema da sanare ma una preziosa risorsa da riscattare, occorre puntare proprio sui suoi figli, sui bambini, scommettere sul loro futuro. E a chi questa sembra una sfida assurda, persa in partenza, regalo le parole di questo giovane dottore, ricordando che basta poco a volte per regalare un sorriso e che a poco a poco il “poco” diventa sempre di più!
Ascoltate le sue riflessioni e lasciatevi emozionare insieme a me: “Da tempo riflettevo sul fatto che un viaggio in Africa avrebbe potuto essere un’esperienza importante per il mio avvenire, di uomo e di (futuro) medico.
(…) Sono partito da solo e questo all’inizio mi preoccupava non poco … in realtà ho poi apprezzato la relativa solitudine di quei giorni che ho sfruttato come ”ritiro”, come un’oasi in cui poter riflettere: ho potuto occuparmi solo dell’essenziale, ed è stato meraviglioso.
Durante le visite ai piccoli pazienti, molte sensazioni contrastanti si susseguivano: dalla gioia davvero enorme nel vedere che un bambino visto steso a letto il giorno prima oggi riusciva a mangiare, alla tristezza e al senso di impotenza che provavo nel vedere una mamma accanto al corpo senza vita del proprio piccolo bambino nel corridoio, perché altro posto non c’era se non quello.
Allora dalla sensazione di essere stato utile per una persona, si passa a comprendere quanto si sia inadeguati … e questo avviene in pochi secondi: basta spostarsi da un letto a un altro, da un bambino a quello al suo fianco, dalla vita alla morte, passando per una sofferenza che a volte è davvero enorme.
Solo tornato a casa ho potuto riflettere con calma su quello che ho trascorso, e riabituarmi al “nostro” mondo è stato meno facile di quanto credessi perché ho toccato con mano che ci sono persone, bambini, cui manca tutto. Eppure, non appena la malattia lascia spazio a un’iniziale (e a volte solo illusoria) guarigione, questi bambini sorridono: un loro sorriso ripaga anche della peggiore delle giornate. E fa riflettere sulla vita, sul valore di ciò che diamo per scontato e sul superfluo di cui spesso ci circondiamo e che spesso scambiamo per indispensabile.
Credevo di andare ad aiutare, a “dare”: in parte è stato così, ma quel che ho ricevuto trascorrendo là un po’ del mio tempo ha un valore inestimabile. Tengo la foto di un bimbetto che ride, nel portafoglio: e quando la guardo, sorrido sempre anche io.”
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