SAN GIOVANNI DI DIO – Antonio Sicari
Posted on novembre 25th, 2009 by Angelo
SAN GIOVANNI DI DIO
Nascere sul finire del secolo XV, appena tre anni dopo la scoperta del “nuovo mondo” voleva dire inevitabilmente assorbire fin dalla prima infanzia il gusto e l’ansia dell’avventura, che caratterizzeranno l’intero secolo XVI.Tanto più se si nasceva in Portogallo, terra dei grandi navigatori; di Bartolomeo Diaz che nel 1486 ha scoperto il “Capo delle Tempeste” poi “Capo di Buona Speranza”; di Vasco de Gama che un 1497 doppia il Capo e giunge fino a Calcutta; di Alvares Cabral che nel 1500 scopre il Brasile; di Magellano che nel 1520 giunge al Grande Stretto per Immettersi nell’oceano Pacifico e circumnavigare il globo.
Giovanni Cidade Duarte nacque dunque nel 1495 a Montemoro-novo (Montemaggiore Nuovo, un villaggio dalnome promettente).
Ma l’avventura è difficile quando il papà è soltanto un modesto bottegaio che vende frutta all’angolo della strada, anche se ha fama d’essere un sognatore che avrebbe voluto arruolarsi nelle spedizioni di Vasco de Gama: glielo ha impedito l’aver moglie e figlio.
Di Giovanni bambino non sappiamo quasi nulla, finché all’età di otto anni non gli accade di incontrare un pellegrino: un viandante entrato nella sua casa a chiedere alloggio e intrattenere gli ospiti col racconto dei suoi viaggi.
Che cosa sia poi avvenuto non è possibile dire, ma la mattina dopo i genitori s’accorgono che il pellegrino ha ripreso la strada e che il bambino è fuggito con lui: fuggito o forse rapito. Chissà!
Certo è che essi non riescono più a rintracciarlo, e la mamma, stroncata dall’angoscia, non sopravvive più di venti giorni a tanta sventura. Il papà, invece, finisce i suoi anni in un convento di francescani.
Il piccolo Giovanni compì così un lungo viaggio a piedi, fino a Madrid, assieme a mendicanti, saltimbanchi e giocolieri, imparandone la strana professione.
Giunti vicino a Toledo, il viandante abbandonò il fanciullo, probabilmente sfinito, nelle mani di un buon uomo del posto, Francisco Majoral, intendente delle greggi del Conte di Oropesa, un signore di cui si conoscono le virtù e la carità.
Per sei anni Giovanni viene educato come un figlio: poi, dai quattordici ai ventott’anni, vive come un pastore, nella solitudine dei monti e nella contemplazione della natura, seguendo le greggi.
Ma quando infine sembra che egli possa sistemarsi definitivamente sposando la figlia del Majoral, con la quale è vissuto fraternamente fin dall’infanzia, Giovanni fugge ancora.
Carlo V sta arruolando truppe contro la Francia che si è impadronita di Pamplona (dove è stato ferito l’eroico difensore Ignazio di Loyola e han combattuto, schierati dall’altra parte, i fratelli maggiori del piccolo Francesco Saverio).
Giovanni Cidade vuole libertà: “Quella libertà, scrive il suo biografo, che sogliono avere quelli che seguono la guerra, correndo a briglie sciolte la via ampia (seppur faticosa) dei vizi”.
Siamo nell’epoca in cui, dopo il cavaliere medievale, sta nascendo la figura del “soldato”.
Ma al nostro avventuriero la vita militare riserva solo disgrazie. Una volta il cavallo in corsa, imbizzarrito, lo disarciona gettandolo contro le rocce che fiancheggiano il sentiero, e Giovanni rimane a lungo privo di conoscenza, come morto.
Un’altra volta, messo a guardia di un bottino di guerra, si lascia imprudentemente derubare: viene degradato e condannato a morte; ma viene graziato per l’intervento pietoso d’un personaggio ragguardevole.
Ambedue furono esperienze fisiche di morte e di grazia, che si depositarono nel profondo della sua coscienza.
Tornò dal Majoral, suo antico padrone, dopo un interminabile viaggio a piedi di circa seicento chilometri, come un fallito, riprendendo a fare di malavoglia il pastore.
Passarono altri due anni. Nel 1527 sente dire che il sultano dei Turchi, Solimano Il, è entrato in Ungheria e ha posto l’assedio a Vienna. Gli rinasce il desiderio della lotta.
Nel 1532 Carlo V comincia a preparare una crociata contro i Turchi e recluta uomini dovunque sia possibile.
Giovanni si arruola e ricomincia a viaggiare: la sua compagnia è indirizzata a Barcellona, poi trasferita via mare a Genova, poi discende verso il lago di Garda dove ha luogo il concentramento di tutte le truppe imperiali. Da lì l’esercito si muove a tappe forzate verso Verona, Trento, Bressanone, Innsbruck. Infine, sui battelli che discendono l’Inn, giungono sul Danubio.Così le truppe di Carlo V poterono entrare a Vienna nel settembre del 1532.
Non fu combattuta nessuna vera guerra, ma il pericolo turco venne per il momento scongiurato.
Dopo alcuni mesi le truppe intrapresero il viaggio di ritorno, ripercorrendo la stessa strada, ma la compagnia di Giovanni Cidade ebbe invece l’ordine di attraversare la Germania, toccare le Fiandre e noleggiare una nave per la Spagna.
Sbarcarono al porto di La Coruna, non lontano da Santiago di Compostela, e tutti vi si recarono in pellegrinaggio. Poi la compagnia si sciolse.
Solo ora, imprevedibilmente, Giovanni pensa di tornare al paese natio che ha abbandonato da bambino: percorre a piedi i seicento aspri chilometri che lo separano da Montemoro-novo. Cerca la casa dei suoi genitori, sperando di trovarli ancora in vita.
Quando scopre quel che è loro accaduto, lo assale un dolore atroce e uno sconvolgente senso di colpa. Si sente responsabile della loro morte: “Sono tanto cattivo e colpevole, si dice, che devo occupare la mia vita, dono del Signore, a fare penitenza e a servirlo”.
Si reca allora a Siviglia dove commercia in bestiame: di fatto fa ancora il pastore per una ricca signora del luogo. Ma dura soltanto alcuni mesi. E’ inquieto. Si reca a Gibilterra e pensa di arruolarsi nella spedizione che Carlo V prepara contro Tunisi.
A Ceuta si mette a servizio di un nobile decaduto, ma finisce per prendersi cura della famiglia ridotta in miseria, mantenendola col suo lavoro. La carità gli allarga il cuore: cerca un padre spirituale che gli raccomanda la lettura del Vangelo e di libri spirituali.
Torna in Spagna e si immerge per ore intere nella lettura di testi di spiritualità: spende tutti i suoi risparmi per acquistare libri per sé e per gli altri e si mette a percorrere i villaggi vendendo libri ai dotti, e immagini agli incolti e ai fanciulli.
Ma, prima di venderli, legge tutto quel che può: poi mette i libri alla moda in bella mostra, ma quando i giovani si avvicinano per acquistarli, li sconsiglia e li convince a comprare quelli spirituali. Giunge addirittura a metter su una bottega di libri.
Che Giovanni abbia imparato, lui per primo, è evidente: ci restano di lui sei lunghe lettere che contengono numerosissime citazioni della Bibbia e dell’Imitazione di Cristo.A quarantatré anni egli può vivere dunque agiatamente nella sua botteguccia di Granada.
Ma Dio lo attende in quel gennaio del 1539, alla festa di San Sebastiano, quando giunse in città uno dei più celebri predicatori del tempo: Giovanni d’Avila, l’apostolo dell’Andalusia. Giovanni è tra gli ascoltatori e si sente dire che ognuno deve “ancorarsi nella volontà di soffrire e perfino di morire piuttosto che commettere il peccato, che è il flagello più pericoloso”.
Tutti comprendono il riferimento, perché la regione è devastata dal flagello della peste. A quel paragone, il nostro “venditore di libri” è colto da un moto irrefrenabile di pentimento: gli passano davanti agli occhi le immagini di tutta la sua vita disordinata, e i peccati commessi fin dagli anni della gioventù.
Di mezzo agli ascoltatori, egli si mette a gridare: “Misericordia, mio Dio, misericordia!”.
Sembra diventato pazzo: si getta a terra, batte la testa contro i muri, si strappa la barba. Corre verso la sua bottega inseguito da una folla di bambini che gli urlano dietro: “Pazzo! Pazzo!”.
Dà il suo denaro a chi lo vuole, distribuisce libri sacri e oggetti di pietà, strappa con le mani e con i denti le opere profane, si priva perfino delle sue vesti.
Corre da Giovanni d’Avila e fa una lunga confessione, poi si reca in piazza dove c’è un grande pantano e ci si rotola dentro e comincia a confessare pubblicamente i suoi peccati.
I ragazzi gli gettano addosso altro fango ed egli se ne va tutto felice, con una croce in mano, che dà da baciare a chiunque incontra.
Alcuni biografi spiegano che ha fatto tutto questo perché vuole sembrare pazzo “per amore di Cristo”.
Altri sostengono invece che si trattò di un vero e proprio attacco di follia: troppe esperienze, troppe tensioni, troppa tenebra e troppa luce, troppa durezza e troppa tenerezza, e soprattutto troppo bisogno d’amare e troppa mancanza d’oggetti reali degni d’amore.
Di fatto finì in un manicomio: uno di quelli di allora dove la cura consisteva nell’incatenare i malati più inquieti, per poi calmarli a furia di nerbate. Ma questo malato era strano, perfino nella sua pazzia.
Quando egli stesso veniva frustato, incitava gli “infermieri” a continuare “perché era giusto che pagasse quella carne con cui egli aveva peccato”. Ma se frustavano qualche altro poveretto, allora inveiva contro gli “infermieri”:
“Traditori, perché trattate tanto male e con tanta crudeltà questi poveri infelici, miei fratelli, che si trovano in questa casa di Dio e in mia compagnia? Non sarebbe meglio aver compassione delle loro prove, tenerli puliti e dar loro da mangiare con maggiore carità e affetto di quanto fate?”.
E rinfacciava loro lo stipendio che ricevevano per curare i malati e non per maltrattarli.
Il risultato era che lui prendeva doppia razione di frustate. Ma Giovanni diceva: “Che Gesù Cristo mi accordi la grazia di possedere un giorno un ospedale dove io possa accogliere i poveri abbandonati e gli infelici privi di ragione, per servirli come desidero“.
Il grande poeta spagnolo Lope de Vega ha dedicato un poema a san Giovanni di Dio, nel quale così commenta l’episodio della sua follia e della sua umiliazione:
“Essere Portoghese e umiliarsi fa spavento; poiché ricevere insolenti sferzate e soffrire tal disonore dai Castigliani, in un Portoghese è cosa che mai s’è udita; infatti i Portoghesi son tanto gentiluomini e valorosi che, se Dio non avesse preso su di sé quel disonore sul proprio onore, non so come si sarebbe potuto tollerare. E così il disonore venne diviso tra lui e Dio, giacché, se così non fosse stato, in quanto portoghese, Giovanni non l’avrebbe potuto sopportare“.
Dopo qualche giorno si presentò al direttore del manicomio e gli disse:
“Benedetto sia il Signore, io mi sento in buona salute e libero da ogni angoscia”. Per darne prova, chiese di poter servire gli altri malati e dimostrò una serenità e una carità stupefacenti.
Appena dimesso, subì un altro shock: davanti alla porta dell’ospedale passava il corteo funebre che accompagnava alla sepoltura nella cappella reale di Granada la bellissima imperatrice Isabella Augusta, sposa di Carlo V.
Come avvenne al duca Francesco Borgia che decise allora d’intraprendere la via della santità, quella visione lo convinse definitivamente, se ce n’era ancora bisogno, a dedicare la vita al servizio di Nostro Signore, prendendosi cura dei più poveri.
Aveva ormai quarantaquattro anni e gliene restavano da vivere soltanto undici. Ma in così breve tempo egli divenne “il Padre dei poveri”, il “patriarca della carità”, “la meraviglia di Granada”, “l’onore del suo secolo”: tutti titoli che gli furono attribuiti.
Cominciò a lavorare raccogliendo e rivendendo legna, finché poté acquistare una casupola davanti al mercato del pesce, nella quale raccolse i primi derelitti.
Al mercato si faceva regalare i pesci invenduti, dato che allora era impossibile conservarli, e li cucinava per i suoi malati, tanto che divenne esperto nel preparare un’ottima zuppa di pesce.
Ogni sera poi percorreva i quartieri alti recando una gerla sul dorso e due marmitte ai lati sospese a una corda passata sulle spalle e percorreva così le strade gridando:
“Qualcuno vuol fare del bene a se stesso? Fratelli miei, per amor di Dio, fate bene a voi stessi!”.
È questo il significato originario del motto che oggi dà il nome al suo Ordine religioso: “Fatebenefratelli!”. L’espressione non voleva dire in primo luogo che bisogna prendersi cura dei fratelli più poveri, ma che bisogna “farsi del bene”, facendo del bene al prossimo.
Non si riesce ad amare veramente i poveri se prima non si scopre la propria incredibile povertà, il dovere di arricchire la propria misera vita, facendo del bene a se stessi col fare il bene agli altri.
I santi che hanno amato la povertà e i poveri hanno intravisto in tale amore una ricchezza che veniva a colmare la loro esistenza più di ogni altro tesoro.
Il movimento della carità non va mai da un ricco a un povero, ma da un povero a un povero: da uno che ha scoperto d’essere povero nonostante le sue ricchezze, e che queste gli son date “per acquistare un tesoro in cielo” facendo del bene sulla terra.
Cominciarono le prime donazioni e la casa poté ingrandirsi. Giovanni prese a ricoverare i suoi malati selezionandoli e distribuendoli secondo la malattia: una stanza per i febbricitanti, una per i feriti, una per gli invalidi; il pianterreno era invece riservato ai viandanti e ai mendicanti che non trovavano un tetto dove ripararsi.
Tutto questo in un tempo in cui negli ospedali i malati venivano ammucchiati senza distinzioni, mettendo più infermi nello stesso letto.
Il nostro Lombroso, non certo tenero con la Chiesa, definì Giovanni Cidade “il creatore dell’ospedale moderno”.
Si curava personalmente di tutto: accoglieva i bisognosi, li lavava, procurava il cibo, lo cucinava, rigovernava, spazzava i pavimenti, lavava la biancheria, andava per acqua e per legna. E i visitatori restavano impressionati dell’ordine e della pulizia.
Se all’inizio dell’opera ancora lo consideravano pazzo, ora lo chiamavano: “il Santo”.
Aumentano le offerte, i crediti; alcuni si dicono disposti ad aiutarlo e a condividere la sua fatica; gli stessi poveri più validi diventano infermieri.
Un alto prelato di Granada si diede a proteggerlo; un giorno, però, gli impose di abbandonare le sue vesti cenciose e di indossare una tunica sobria ma pulita. Poi gli diede un nome: “Ti chiamerai Giovanni di Dio”, gli disse. “Oh sì, rispose Giovanni, se piace a Dio!”.
Il suo biografo racconta: “Aveva pietà delle più lievi sofferenze del suo prossimo, come se vivesse egli stesso con grande larghezza e mezzi”.
Ma il suo scopo era sempre chiarissimo. Diceva: “Attraverso i corpi, alle anime!”.
Per questo chiamava al suo ospedale i più zelanti sacerdoti a collaborare con lui.
Quando doveva spiegare la sua carità, poiché egli non teneva conto di nulla, nemmeno di essere derubato o ingannato, usava una espressione strana e bellissima: “Derubato? Ma no! io mi do a Dio!”.
L’immagine più nota che resta di lui è quella immortalata da Murillo e che si rifà a un celebre episodio.
Una sera d’inverno rientrava tenendo con una mano la cesta piena di viveri, appoggiandosi con l’altra a un bastone e portando sulla schiena un povero ammalato trovato sulla pubblica via.
La strada saliva faticosamente, e veniva giù un terribile acquazzone.
Giovanni scivolò e cadde. Alle grida del malato qualcuno s’affacciò alla finestra e vide Giovanni che si picchiava col bastone sulle spalle gridando a se stesso:
“Signor asino, stupido, fiacco, pigro, non hai forse mangiato oggi? Allora perché non lavori? I poveri ti attendono e guarda che cosa hai combinato a questo moribondo!”.
Poi si riaccomodò il malato sulle spalle e afferrò nuovamente la cesta, trascinandosi fino all’ospedale.
Il suo primo collaboratore stabile fu Antonio Martin: gli avevano assassinato il fratello per motivi d’onore ed egli aveva a sua volta dedicato l’intera vita a preparare la vendetta.
Nulla avrebbe potuto fermano, dato ch’era per lui un impegno d’onore e di sangue.
Eppure Antonio era buono e generoso con i poveri. E Giovanni di Dio volle ottenere “la conversione di questo battezzato”.
Passò un intera notte a pregare, flagellandosi; al mattino si recò da Antonio, gli si gettò davanti in ginocchio e gli mostrò il Crocifisso:
“Ecco, fratello Antonio, gli disse, ecco Colui che vi perdonerà se voi perdonate, ma se voi vendicate il sangue di vostro fratello, il Signore vendicherà su di voi il proprio sangue che versate ogni giorno con i vostri peccati!”.
La risposta che ne ebbe fu detta fra le lacrime: “Fratello Giovanni, non soltanto lo perdono, ma per amore di Dio mi do a voi e ai vostri poveri”. Divenne così suo amico e successore. Sarà lui a fondare l’ospedale di Madrid intitolandolo: “Nostra Signora dell’Amore di Dio”.
Altro suo collaboratore divenne l’assassino Pietro Velasco.
Una attenzione particolare Giovanni aveva per quelle peccatrici che più attiravano la sua misericordiosa tenerezza: le prostitute.
Ogni venerdì, in memoria della passione del Signore, si recava in un postribolo, sceglieva la donna più perduta e le diceva: “Figlia mia, tutto ciò che ti darebbe un altro, te lo darò… e anche di più. Ti prego soltanto di ascoltare due parole, qui nella tua stanza”. Mentre quella se ne stava a guardarlo, lui si gettava in ginocchio davanti al suo Crocifisso e cominciava a piangere e ad accusarsi dei suoi molti peccati, poi diceva: “Considera, sorella mia, quanto sei costata a Nostro Signore!…”.
Qualcuna si pentiva; ma la situazione restava a volte irrisolvibile, legate com’erano da debiti e minacce.
Allora egli se ne andava da qualche nobile dama a chiedere denaro: “Sorella mia, c’è una prigioniera del demonio, aiutatemi, per l’amore di Dio, a liberarla e strappiamola a quella miserabile schiavitù”.
Se non ci riusciva, si impegnava a pagare tutti i debiti che quelle poverette avevano contratto.
Quel che doveva subire, dedicandosi a un apostolato del genere, va al di là di ogni immaginazione, ma Giovanni lo riteneva particolarmente necessario.
Quando le accuse e le calunnie nei suoi confronti diventavano intollerabili, egli rispondeva a chi l’offendeva: “Presto o tardi bisogna che ti perdoni, perciò ti perdono subito!”.
Gli toccava anche questuare per i suoi poveri e, a tal scopo, dovette recarsi fino alla Corte di Valladolid.
Ma le sue questue erano sempre un fallimento: chiedeva soldi per il suo ospedale di Granada, ma poi li spendeva immancabilmente per tutti i poveri che trovava nella città dove s’era recato a questuare.
La cosa divenne ridicola al punto che il celebre Conte di Tendilla pensò di risolverla dandogli delle lettere di credito che potevano essere pagate solo a Granada.
Era letteralmente bruciato dal fuoco della carità.
Quando a Granada il grande ospedale regio fu distrutto da un incendio, Giovanni si gettò nel fuoco per salvare i malati.
L’antico Breviario, nel giorno della sua festa, commentava così l’episodio: “Insegnando la carità, mostrò che il fuoco esterno aveva su di lui minor forza del fuoco che lo bruciava interiormente”.
E fu questa la scena che venne raffigurata nella Gloria del Bernini il giorno della canonizzazione.
Intanto il suo ospedale cresceva.
Scrive Giovanni in una lettera:
“Sono tanti i poveri che qui giungono, che io stesso, molte volte non so come si possano alimentare, ma Gesù Cristo provvede a tutto e dà loro da mangiare, perché solo per la legna occorrono sette o otto reali ogni giorno; perché essendo la città grande e molto fredda, specialmente adesso d’inverno, son molti i poveri che giungono a questa casa di Dio; perché tra tutti, infermi e sani e gente di servizio e pellegrini ce ne sono più di cento e dieci… Vi sono rattrappiti, mutilati, lebbrosi, muti, pazzi, paralitici, tignosi, e molti vecchi e molti bambini; e senza contar questi, molti altri pellegrini e viandanti che giungono e si dà loro fuoco e acqua e sale e recipienti per cucinare e mangiare, e per tutto questo non c è rendita; ma Gesù Cristo provvede a tutto…
E in questo modo sono indebitato e prigioniero solo per Gesù Cristo…”.
Diceva: “Non ho il tempo di un Credo di respiro!”.
All’inizio del 1550 si ammalò gravemente; una sua nobile benefattrice lo trovò febbricitante sul suo povero letto, fatto di una nuda tavola, mentre il cesto della questua gli serviva da cuscino.
Ottenne dall’Arcivescovo il permesso, un ordine per Giovanni, di portarlo nel suo palazzo nobiliare. Mentre lo conducevano via, i poveri gridavano e protestavano accerchiando la portantina e Giovanni era sconvolto. Li benediceva piangendo e diceva: “Dio lo sa, fratelli miei, se desidererei morire in mezzo a voi! Ma poiché Egli vuole che io muoia senza vedervi, sia fatta la sua volontà!”.
Nel letto troppo soffice Giovanni rivelò all’Arcivescovo che era angustiato da tre cose:
“La prima: aver servito così poco Nostro Signore, mentre ho ricevuto tanto.
La seconda: i bisognosi, le persone uscite dal peccato e i poveri ritrosi che ho preso a mio carico.
La terza: questi debiti che ho contratto per Gesù Cristo”. E, così dicendo, gli mise tra le mani il registro dei debiti che portava stretto sul cuore.
Non ebbe pace finché l’Arcivescovo non si impegnò personalmente a soddisfarli.
Alla prima alba dell’8 marzo, quando ancora non c’era nessuno attorno al suo letto, discese da quel giaciglio troppo comodo, si inginocchiò per terra stringendo al petto il suo Crocifisso e spirò all’età di cinquantacinque anni.
Lo trovarono così, già morto da tempo, ma ancora in ginocchio. Le esequie furono imponenti: la bara era portata da quattro gentiluomini della più alta nobiltà, ma al primo posto nel corteo venivano i poveri del suo ospedale.
Lope de Vega, nel poema che abbiamo già ricordato, scrisse:
“Amò tanto la povertà che, se avesse incontrato insieme un angelo e un povero, avrebbe lasciato l’angelo e abbracciato il povero”.
E ancora:
“A Betlemme ti amò Dio-bambino nella culla, e all’ospedale Dio-infermo nel letto”.
Una recente biografia invece sintetizza così, acutamente, la sua strana avventura: “Era un uomo che avrebbe avuto bisogno di incontrare un san Giovanni di Dio; e lo scoprì in se stesso”.
(Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book)
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