SUL TEMA DEL PERDONO – Arturo Paoli
Posted on Gennaio 6th, 2009 di Angelo |
Intervento di Arturo Paoli sul tema del Perdono
La domanda di perdono espressa dal Papa, nei giorni scorsi, con il bigliettino lasciato sul muro del antico tempio di Salomone, è stata valutata in vari modi.
Io penso che quella richiesta, ripetuta e certamente sofferta, in quanto doveva assumere una posizione molto personale contro un’opinione diffusa, rappresenta un senso di colpa che il Pontefice sente dentro di sé.
Questo è certo e, anche se non riusciamo a capirlo, di sicuro si rivelerà alle generazioni future.
Penso cioè che tale richiesta di perdono, abbia un valore profetico, intendendo per profezia atti o parole contenenti un valore nascosto, molte volte non percepito dalla stessa persona che li compie, ne tanto meno dalla generazione contemporanea che assiste a tali atti.
L’origine del senso di colpa espresso continuamente dal Papa, credo che debba essere ricercato dentro la nostra cosiddetta civiltà occidentale, nella nostra cultura cristiana in quanto il cristianesimo è certamente il perno culturale dell’Occidente.
E’ vero che viviamo in un contesto religioso pluralistico, ed è vero che altri elementi hanno contribuito alla visione del mondo prevalente in Occidente, ma non possiamo negare che il cristianesimo abbia svolto, e stia ancora svolgendo, un ruolo predominante.
Quando parliamo di riconciliazione, di richiesta di perdono, per evitare di pronunciare parole che restino nell’aria, prima dobbiamo porci le seguenti domande:
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A chi chiedere perdono?
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Quale colpa dobbiamo farci perdonare?
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Quali sono le conseguenze di tale riconciliazione (a cui ci richiama continuamente il Concilio Vaticano II)?
Stasera vorrei riflettere su una domanda in particolare:
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Di che cosa, noi cristiani, dobbiamo chiedere perdono?
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E soprattutto: a chi dobbiamo domandare perdono?
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E quali sono le conseguenze di questo nostro desiderio di riconciliazione?
Credo che le radici delle nostre colpe risiedano nel sistema economico dell’Occidente, la cosiddetta “globalizzazione”, un progetto centralizzato e universale. Sappiamo che questo progetto economico uccide ogni giorno quarantamila persone nel mondo, sappiamo che le enormi disuguaglianze sociali prodotte sul pianeta da tale sistema sono la causa principale di tantissimi conflitti armati. In tutto ciò, come detto, la globalizzazione gioca un ruolo determinate per varie ragioni: innanzitutto perché tali guerre si fanno con il “placet” dell’Occidente cristiano, ma anche perché la globalizzazione, in quanto imposizione di un unico modello economico e culturale, sta soffocando l’attività intellettuale e politica locale, mediante l’affermazione di un’organizzazione tecnologica così vasta e precisa da non lasciare spazio alle attività culturali. Questo è un modo di corrodere e contaminare la stessa mentalità umana: la tecnologizzazione, cioè l’esigenza di studiare il potere della tecnica, limita la libertà di pensare, di riflettere e di immaginare un altro tipo di società.
Vengo da un congresso di “Mani Tese” tenutosi a Firenze al quale hanno partecipato una quindicina di economisti di fama internazionale i quali analizzavano non i successi della nostra società tecnologica e tecnocratica, ma gli effetti negativi che essa produce nel mondo. Si è discusso della vendita illegale di armi, della mortalità infantile nei paesi cosiddetti “in via di sviluppo”, soprattutto del traffico di droga: al riguardo tutti gli studiosi presenti hanno dovuto ammettere che il commercio illegale di stupefacenti costituisce una risorsa di primaria importanza per il sistema economico occidentale: esso non può farne a meno.
L’esempio più drammatico e vergognoso del ‘900, che prova come la cultura occidentale sia fabbrica di morte per milioni di persone, è la Shoah ebraica. Anche se oggi Auschwitz è chiuso, lo sterminio in esso continua quotidianamente nel mondo in forma più subdola e la nostra cultura è il centro di questo genocidio permanente. Noi tendiamo a dimenticarlo, però tutto questo esiste. Nei paesi in via di sviluppo (Sud America, Asia, Africa) in cui si sta affermando il nostro sistema economico si vede con più facilità come dietro l’apparenza di vitalità e di esuberanza della società rappresentata dalla lite economica, ci sia in realtà la disperazione delle grandi masse che non condividono la ricchezza di pochi e soprattutto non hanno neppure la speranza di un futuro migliore.
Se penso al Brasile, paese da cui arrivo, chiunque arrivi a San Paolo o a Rio de Janeiro riceve un’ impressione di grande sviluppo e vitalità. Ma basta spostarci in periferia per incontrare le favelas, è sufficiente aggirarsi per le baracche per accorgersi a quale estremità di miseria arrivano queste famiglie, fino a che punto è disperata la loro condizione.
Quello che più mi impressiona è pensare come sia stato possibile che proprio dall’Europa, culla del più alto pensiero filosofico della storia dell’umanità ed origine di tutte le forme di cristianesimo (non solo della confessione cattolica), sia nato questo progetto di morte, fatale per milioni di persone. Davanti a questo dato di fatto dobbiamo fermarci un attimo a riflettere, altrimenti tutte le nostre meditazioni su perdono e riconciliazione sono inutili perché, per poterci riconciliare, bisogna avere la consapevolezza di offendere qualcuno. La nostra cultura, di origine greca, è caratterizzata da una visione idealistica, cioè dalla continua tensione a trascendere la realtà: essa ha lasciato in eredità l’abitudine a pensare in categorie universali, in forme lontane dall’esperienza vissuta quotidianamente.
Per questo motivo la nostra intellettualità ha sempre elaborato progetti fuori dalla realtà e poi ha preteso di calarli nel mondo reale. Anche la Chiesa, ovviamente, è stata influenzata da questa cultura: quando qualcuno accusa il Papa di essere uno strenuo difensore del capitalismo, viene sempre sommerso da una sterminata quantità di documenti, encicliche, studi, prese di posizione da cui emerge chiaramente come il Pontefice abbia sempre condannato le degenerazioni prodotte dal capitalismo. Ma tale documentazione è sempre un prodotto che cade dal cielo dell’astrazione e mai dalla pratica.
Non si tratta di una colpa della Chiesa, è la nostra cultura che è fatta così. L’uomo ha prodotto delle grandi astrazioni, ma, con il passare del tempo, tali astrazioni gli sono sfuggite di mano ed hanno cominciato a vivere in maniera autonoma.
Durante il nazismo, l’astrazione culturale era lo “Stato Etico” che aveva il diritto di sopprimere la vita dei singoli. Nel mondo contemporaneo, l’astrazione equivalente è il “Mercato”. Esso, da un certo punto in poi, non si è più concretizzato nella distribuzione dei beni, ma nell’accumulo di ricchezza a favore di pochi e provocando la morte di milioni di persone.
Ancora una volta l’astrazione è sfuggita di mano all’uomo. Gli economisti incontrati recentemente, mi hanno fatto notare come le borse economiche dei vari paesi possano incrementare i profitti senza che questo comporti un parallelo sviluppo della società, anzi più spesso questa si impoverisce.
Ci chiediamo: ma la nostra religiosità che c’entra con questi ragionamenti ?
Ebbene queste riflessioni toccano il cuore dell’essere cristiani. Per motivi culturali siamo portati a pensare che il credente, per essere tale, debba pregare, esercitare il culto e, magari, fare l’elemosina. In realtà in tutta la Bibbia, dall’Antico Testamento in poi, Dio ha sempre detto che del solo culto non sa che farsene, che essere cristiani vuol dire “essere assetati di giustizia”.
Quando Gesù cacciò i mercanti dal tempio, lo fece perché era ingiusto che loro si arricchissero in un luogo sacro lasciando che i fratelli morissero di fame. E’ nella giustizia che bisogna provare il proprio amore, non nell’esasperazione del culto. L’andare a messa ogni giorno è inutile se non corrisponde al nostro stile di vita, evidenzia soltanto uno squilibrio fra la nostra religiosità formale e l’impegno per la giustizia. Quindi dobbiamo convertire la nostra religiosità dalla formalità fine a se stessa alla giustizia. Ed essere giusti vuol dire: sentirsi direttamente responsabili degli altri.
Leggo senza mai stancarmi il capitolo 4° di Luca nel quale si dice che quando Gesù ha iniziato la sua opera nel mondo, non ha aperto una scuola di catechismo o di teologia, ma è andato a portare la Parola direttamente ai poveri ed agli afflitti. Questa è etica.
Quale differenza c’è tra la morale e l’etica? La morale è una imposizione che nasce dall’interno e guida i comportamenti. L’etica è un comportamento di responsabilità e di amore verso i fratelli e la natura.
Oggi, noi viviamo in un mondo senza etica, infatti nessuno va a protestare con un industriale che rovina il mondo con le sue fabbriche ed attenta così alla vita dei suoi fratelli. Questo succede perché l’unico valore riconosciuto è la capacità di produrre ricchezza, il resto è ininfluente. Siamo perciò arrivanti al punto che l’Occidente “cristia-nissimo” ha dato al mondo i Santi ma poi lo ha lasciato in mano al diavolo.
Per questo motivo se noi non cominciamo ad assumerci le nostre responsabilità, il mondo (inteso come gli altri e come natura) non ha assolutamente futuro.
Per poterci convertire dobbiamo essere consapevoli che il mondo non è nostro e non è stato creato per noi. Il vero cristiano deve obbedire a Dio obbedendo al suo volere che si manifesta nel mondo, altrimenti io posso cantare mille “Alleluia” e dire “Dio ti voglio bene”, ma se tradisco il Suo progetto, la mia preghiera è una bestemmia. Il caos che c’è sulla terra lo abbiamo creato noi, non Dio: sono gli esseri umani che non hanno seguito il Suo progetto.
Quando penso alla protervia delle persone che pensano di poter fare quello che vogliono della natura e della terra, mi viene sempre in mente un signore che, in Brasile, è proprietario é proprietario di un appezzamento grande quanto il Belgio e l’Olanda messi insieme: egli ne può fare ciò che vuole perché quel terreno è legalmente suo. Questo è stato possibile perché viviamo in un mondo nel quale la fame e le altre necessità concrete dell’uomo non hanno valore. Contano solo i grandi progetti: è così anche per il Giubileo.
Quando si parla di riconciliazione si omette sempre di affermare che, per riconciliarsi concretamente, occorre ripartire dalla responsabilità: io sono responsabile degli altri (degli immigrati che passano da Pisa, dei barboni che dormono alla stazione, etc.) perché la mia forma di vivere, la libertà di scegliere ciò che voglio al supermercato può anche provocare la sofferenza, e addirittura la morte, di altri esseri umani. Tutto questo non è un’appendice della nostra fede, ma ne rappresenta la sostanza.
Penso che in futuro, la possibilità di riconciliarci con le altri religioni non sia tanto nel trovare identità di dottrina e di concezioni che sono profondamente diversi, ma nel rispetto di valori universali su cui tutti dobbiamo convergere: la responsabilità verso gli altri, la fraternità e la giustizia. Bisogna incontrarci nella responsabilità verso il mondo che, poi, non è altro che obbedienza a Dio, al suo progetto, al suo sogno. In questo senso la Bibbia è di una chiarezza assoluta: dalla prima all’ultima pagina non fa altro che dirci che noi siamo ospiti, non siamo i padroni del pianeta.
Poi la Bibbia e il Vangelo sono state involte in catechismo di settecento pagine, con tutte le conseguenze che ne derivano: elucubrazioni teologiche, dogmi, regole, ragionamenti. Ma per dire “ama Dio e ama il tuo prossimo sinceramente e lealmente ci vogliono settecento pagine? Per salvare il mondo e l’umanità, e per essere autenticamente cristiani, è necessario ritrovare la semplicità del Vangelo.
Chiudo con un aneddoto. Un rabbino chiese al profeta Elia: “Quand’è che verrà il Messia?”.
Ed egli rispose: “Perché non lo chiedi direttamente a Lui ?”. Certo – replicò il rabbino -, se solo sapessi dove posso trovarlo e da che cosa lo riconoscerò”.
Allora Elia disse: “Lo puoi incontrare alle porte di Roma e lo riconoscerai perché sarà in mezzo ai poveri, fra le persone che si lamentano per le loro piaghe”.
Il rabbino si recò a Roma e, trovato il Messia, gli chiese: “Quando verrai a salvarci?”.
Ed Egli rispose: “Oggi…”. Il rabbino se ne andò infuriato senza attendere che il Messia avesse completato il discorso. Tornato da Elia, gli disse: “Anche lui mi ha mentito, ha detto che sarebbe venuto oggi, ma io non vedo i segni della sua presenza”.
Allora Elia spiegò: “Hai avuto troppa fretta e non hai atteso la fine del suo discorso. Lui voleva dirti: Oggi, se voi ascoltate la mia voce”.
Questo racconto è significativo per due ragioni:
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perché è vero che il Messia sta lì, in periferia, alle porte di Roma
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e perché è vero che lo si incontra solo in mezzo ai poveri.
Oggi possiamo illuminare la Sua presenza se cominciamo a vivere realmente con responsabilità.
Arturo Paoli
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