DON ANDREA GALLO: UN TRAVESTITO DA “SAN GIOVANNI DI DIO” – A. Nocent
Nella foto: Don Andrea Gallo nel suo studio
San Giovanni di Dio era uomo destinato, fatto e finito, per scandalizzare il suo tempo.
Hai discepoli ha semplicemente insegnato a sviluppare due organi: la vista e l’olfatto.
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Il primo per guardarsi intorno, andare oltre il naso e vedere lontano…;
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L’olfatto per fiutare i bisogni nascosti di persone sepolte sotto le macerie, sorprese da improvvise e sconvolgenti scosse sismiche che la vita può riservare a qualsiasi ora ed età.
Questo è tutto. Nulla di più.
Quando frana il terreno sotto i piedi e vien giù la casa, i problemi son sempre gli stessi:
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come affrontare l’emergenza,
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dove sbatter la testa
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non farsi prendere dal panico,
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da dove cominciare la ricostruzione.
La soluzione ai problemi va cercata di volta in volta perché ogni generazione ha le sue risposte pratiche, legate alla tecnologia sempre più avanzata. Ma non vanno tralasciate le perenni risposte della fede, il cemento che tiene insieme i mattoni. Lo abbiamo imparato in questi giorni all’Aquila: mai mescolare sottoprodotti con il Cemento, nè diluirlo con l’acqua delle astute convenienze. Prima o poi si paga.
Chi la soluzione la vorrebbe una volta per tutte, vive fuori dal mondo e perciò non s’accorge della sua permanente trasformazione.
La FEDE è un vedere con l’occhio che ci impresta il Signore.
La riflessione di questi giorni mi ha portato su pagine che fanno pensare. Le avevo lette appena pubblicate. Le ho rilette con nuova commozione perché nel mondo della psichiatria ufficiale mancano proprio questi ”frati da marciapiede“. Che, se fossero un’associazione, il capostipite di diritto non potrebbe essere che lui: il portoghese Giovanni Ciudade, detto San Giovanni di Dio.
Ma il Don Andrea Gallo, un giovanotto nato a Genova il 18 luglio 1928 e sacerdote dal 1959, gli tiene dietro con passo altrettanto spedito e con fantasia non meno audace.
“La sede principale della mia comunità non ha insegne e nemmeno un campanello. Non so perché ma, nonostante l’anonimato, tante persone continuano a presemntarsi alla mia porta, di giorno e di notte, sicure di trovare altre persone pronte ad accoglierle”. (Don Andrea Gallo)
Non importa che tu lo sappia, Don Andrea. E’ importante che lo sappiamo noi. E noi lo sappiamo bene il perché.
Di lui ne hanno dette e scritte di tutti i colori. E ne diranno ancora. Se la Chiesa tollera, è perché lo Spirito non autorizza a “procedere”.
Fin che la barca va… Buon toscano, Don Andrea! Ora è meglio che faccia parlare al mio posto il tuo amico Vasco Rossi.
Angelo Nocent
Dalla Prefazione
E’ un “prete da marciapiede”, lo dice lui stesso. O meglio ancora, un uomo “angelicamente anarchico”. Questa definizione che Don Gallo dà di se stesso, è quella che, secondo me, gli sta più a pennello. Perché effettivamente lui – con quella sua faccia aperta, onesta e simpatica, l’eterno mozzicone di sigaro in bocca – lo è.
Un po’ anarchico, meno rispettoso di regole e convenzioni ma molto più della libertà e delle scelte altrui, e un po’ angelo, sempre disposto a dare una mano senza pregiudizi, a offrire un aiuto concreto e generoso a chiunque ne abbia bisogno. E chi non ne ha bisogno, in questa nostra cosiddetta società “avanzata”, purtroppo ancora dominata dall’”Indifferenza” e dal’ “Intolleranza”, due dei peggiori mali che possano insidiare l’uomo e la sua dignità?
Don Gallo questi mali d’oggi li ha combattuti entrambi fondando un’isola di solidarietà nel cuore di Genova. Una comunità le cui porte sono sempre aperte a tutti, a chiunque sia in difficoltà anche solo momentanea.
Io don Gallo l’ho conosciuto un paio di anni fa a Genova, nella “sua” città e nella “sua” Comunità di San Benedetto al Porto, e subito mi ha conquistato con il suo coraggio, la sua semplicità, la sua serena e totale disponibilità verso gli altri.
Sapevo già chi era, lo avevo seguito in qualche rara occasione pubblica…a dire il vero lo invitano poco in televisione perché lui è una voce fuori dal coro, lui affronta davvero – e con intelligenza – le realtà scomode…
Da sempre è vicino agli ultimi e agli emarginati, come quella volta che li fece sedere in prima fila al Teatro Carlo Felice dove si cantava De André, uno dei suoi primi grandi amici.
Be’, quella volta che lo andai a trovare a Genova fu una giornata particolare, speciale. Insieme a tutti i suoi inaugurammo la nuova sede della Comunità di San Benedetto al Porto, una palazzina a più piani, allegra e accogliente, dove si respira un’aria pulita di amicizia e di concretezza. La palazzina è proprio di fronte al porto, da tutte le finestre, dal terrazzo si vede e si respira il mare e la città intera che pulsa.
Quella Genova che don Gallo conosce come le sue tasche e dove tutti lo amana, lo rispettano, lo salutano per strada. Dove ha combattuto e continua a combattere contro i pregiudizi e i falsi perbenismi.
Sepre sulla strada, perché lì è il suo posto, accanto ai più deboli per i quali riserva sempre un gesto concreto, “un pasto caldo”..anche per l’anima.
Accanto ai bisogni di affetto e di solidarietà.
Accanto a quelli che pensano di non avere più speranza. Che cercano un senso.
Vasco Rossi
Auguroni a Don Andrea Gallo che compie 80 anni.
“Il vero peccato è il consumismo che ci ha cambiati tutti” dice, e chiede un regalo:
“Ecco, vorrei che si smettessero i litigi per dare la moschea ai fratelli islamici. Genova l´ha sempre avuta, sin da quando era la Repubblica, perché adesso no?
Sono colpito come uomo prima di tutto, perché come Einstein che, a chi gli chiedeva la razza, rispose umana, io credo alla fratellanza“.
«Sono angelicamente anarchico»
di Laura Calevo
Un’autobiografia di Don Gallo che raccoglie storie, riflessioni, ritratti di personaggi e gente comune. Il 6/4 la presentazione al Modena
6 APRILE 2005
È pomeriggio inoltrato quando entro nel portoncino verde della Comunità di San Benedetto al Porto. Cinzia, la segretaria, mi fa accomodare nel piccolo studio di Don Gallo: «apriamo la finestra che questo odor di sigaro ci intossica tutti. Scusa sai, Andrea odia far aspettare la gente, ma è arrivato un suo amico all’ultimo momento».
Entra aria fresca mescolata al rumore del traffico che ricopre la sopraelevata e all’odore del porto a portata di sguardo. Cinzia è una ex tossicodipendente che sta con Don Gallo da ventisei anni.
«Allora sono qui, cosa vuole lei?». La domanda arriva diretta e cordiale, un po’ ruvida, e tradisce l’indole di chi è abituato a parlare senza peli sulla lingua, da sempre.
Angelicamente anarchico (Mondadori, 14 euro) è un’autobiografia, con prefazione di Vasco Rossi, che verrà presentata mercoledì 6 aprile alle ore 17 al Teatro Modena. .
È una raccolta di episodi di vita vissuta, idee, riflessioni, ritratti di personaggi noti e di persone comuni o ai margini, una panoramica su ciò che significa “essere Don Gallo”.
«Non l’ho mica deciso io di scrivere questo libro. È quello della Mondadori che si è messo questa idea in testa e mi ha seguito per due anni. Si chiama Andrea anche lui e adesso siamo diventati amici: ha raccolto un malloppo di cose scritte o dette da me e poi mi ha spedito tutto cinque mesi fa», spiega Don Gallo.
«Nella vita mi hanno apostrofato in ogni modo, da chierico rosso a prete comunista, ma l’appellativo che sento più mio l’ha trovato un regista argentino che era ospite con me da Costanzo: angelicamente anarchico.
Ho vissuto una svolta epocale della cultura della pace essendo discepolo prediletto di Padre Balducci, fondatore dell’Università della Pace.
Il terzo millennio è dominato da grandi contraddizioni: dobbiamo fronteggiare la minaccia ecologica, il problema di un’Europa che si chiude all’immigrazione e di un occidente alla ricerca di un nemico sempre nuovo da combattere.
E l’unica strada è dire basta alle armi. Pensa che mi sono venuti a trovare i registi Mario Monicelli ed Ettore Scola, tutti e due per pormi la stessa domanda: riusciremo a sradicare nelle nuove generazioni l’assenza di futuro?».
Don Gallo mi parla al di là della scrivania, con un mezzo sigaro toscano in bocca, che riaccende di tanto in tanto.
«Penso che la fede cristiana non vada identificata con l’ordine politico, la Chiesa non deve sostenere il potere. Così facendo si rischia di andare verso uno stato confessionale e sfociare nel fondamentalismo.
La mia non è una scelta ideologica, semplicemente scelgo di essere discepolo di Cristo, scelgo i poveri, scelgo una giusta laicità, ovvero una dimensione in cui tutti possano sentirsi rappresentati indipendentemente dalla cultura, dall’etica e dalla fede che hanno fatto propria. Evangelizzare significa rinunciare ad imporre il cristianesimo con la politica».
Una voce fuori dal coro quella di Don Gallo, una voce che non conosce mezzi termini né fumosi giri di parole.
«La Chiesa di oggi? È agonizzante come lo è stato il suo papa. Giovanni Paolo II ha fatto grandi cose per quanto riguarda la pace ma non ha affrontato temi importanti quali contraccezione, celibato, ruolo femminile.
Ma cosa scegliamo, una Chiesa-comunione o una Chiesa-gerarca?
Gli strumenti per trovare le soluzioni li abbiamo già, basta riprendere i testi del Concilio Vaticano II che sono tuttora validi. Per quel che riguarda la morte del papa, sarebbe il caso di fare silenzio; qualcuno una volta ha detto: “la persona umana non deve essere disturbata da nessuno quando prega, quando fa l’amore e quando muore”. È il caso di smetterla con questo assurdo bombardamento mediatico».
Positivo è invece il giudizio sui recenti cambiamenti della città:
«Genova è una nobile decaduta che sta riscoprendo il gusto della partecipazione politica e i risultati delle scorse elezioni sono un segnale positivo in questo senso: il cittadino cerca di uscire dal ruolo dell’eterno aspettante e accetta di mettersi in gioco, di aprirsi, di essere solidale. Vorrei che ogni genovese dicesse al mattino: “buon giorno Genova: cosa posso fare di buono per te?”».
Don Gallo, arrivato alla sua settantaseiesima primavera, non si arrende e continua a combattere con coerenza per costruire un’alternativa allo stato attuale delle cose, cercando di trovare un equilibrio tra libertà e uguaglianza. A questo proposito voglio concludere con un suo pensiero, tratto dal libro Angelicamente anarchico:.
Don Gallo mi parla del suo ultimo libro, quello che, a detta di Cinzia, rispecchia meglio la personalità del suo autore.
CONTAGIATOO
ALL’ALLEGRIA
DI DON BOSCO
Don Gallo mi parla al di là della scrivania, con un mezzo sigaro toscano in bocca, che riaccende di tanto in tanto.
“Finita la guerra, ricevetti subito un altro grande segno. Ai bordi di un campo sportivo incontrai Don Piero Doveri, un prete salesiano di nessuna fama, ma di eccezionale caratura. Fu l’incontro che cambiò la mia vita.
Avevo organizzato una partita di calcio insieme con alcuni amici. Erano tempi in cui i giochi erano semplici, poco sofisticati. Bastava una bella giornata di sole, il passaparola con gli amici del quartiere, qualcuno che avesse una palla, ed il divertimento era assicurato.
Il capo sportivo dove ci eravamo dati appuntamento con il nostro misero armamentario di calciatori non era granché.
Genova era ancora in ginocchio, distrutta nell’anima dal conflitto, piena di miseria e di macerie. Si giocava su campi di sabbia, con spogliatoi fatiscenti, privi di servizi, e nient’altro, a parte una grande voglia di stare insieme. Un contesto così spoglio e privo di distrazioni esaltava chi aveva dentro di sé un talento speciale.
Don Doveri aveva un rapporto straordinario con i suoi ragazzi: aperto, democratico, pieno di quell’allegria che ho poi scoperto essere la stessa di don Bosco. Quel giorno la sperimentai dentro di me. Io, che ero stato educato dal fascismo alla gerarchia, alla forma, alla razza superiore, fui iulluminato dalla franchezza e dalla gioia di vivere con gli altri e per gli altri di questo prete.
Dentro di me, allora, si fece avanti una domanda: “E se diventassi anch’io un prete di don Bosco?”.
La chiesa era stracolma. C’ero anch’io, commosso. Ma non dietro l’altare, fra vescovo e arcipreti. Ero nella piazza, insieme agli anarchici, con un fazzoletto rosso al collo e sotto la loro bandiera nera.
Quel giorno Genova si fermò tutta. Anche nei bassifondi, nelle strade di confine, periferia abbandonata alla dimenticanza e alla solitudine.
Quel giorno tutta Genova si fermò per salutare uno dei suoi figli prediletti, che tornava nella sua città per testimoniare che da lì era partito per spendere una vita a poetare di prostitute e sbandati.
Fabrizio De André è morto da più di cinque anni. Ma i frutti della sua opera sono, se possibile, cresciuti, e la sua poesia sta vivendo una risurrezione laica.
L’ho conosciuto quando era ragazzo non ancora autore affermato. De André faceva parte del gruppo di anarcoidi tiratardi che, quando la sera a Genova chiudeva tutto, anche i casini, si davano appuntamento al Ragno verde, un locale, giù al porto, dove si facevano le ore piccole. Insieme con lui Paolo Villaggio e tanti altri.
In seguito De André ha imboccato la sua parabola di cantautore che lo ha portato a Milano, in Sardegna, nel mondo. Ma continuano a tenerlo legato a Genova la sua visione del mondo, la sua galleria di personaggi e il cordone ombelicale più forte: l’ispirazione poetica che né la distanza né il tempo possono recidere.
Dori Ghezzi ha detto pubblicamente che faccio parte della famiglia De André. Questa frase è stata un grande dono per me perché credo che io e Fabrizio in un certo senso avessimo dei parenti in comune o, per lo meno, freuqentassimo le stesse persone, le stesse storie dignitose o disperate. Io nella mia vita di strada e nella mia comunità, lui nell’umanità dolente delle sue canzoni.
IL VANGELO SECONDO DE ANDRE’
Che fatica essere umani
“Padre Turoldo ha scritto una frase che trovo magnifica:
” una fatica divina essere umani tutti i giorni “.
In molte occasioni il dolore accompagna la nostra vita. Ci sforziamo di trovarvi un senso, come quello di aiutarci a maturare, a capire il significato profondo delle cose.
Io credo al diritto alla “non sofferenza“. Chi soffre deve reagire invece di arrendersi, denunciare il sopruso invece di subire la violenza. Più Vangelo che Croce, nel segno del riscatto dell’Uomo e contro la rassegnazione” (pag.53)
Quando leggo IL PESCATORE
Secondo molti scienziati, in noi esiste un tipo di intelligenza per mezzo della quale non captiamo solo i fattile idee e le emozioni, ma percepiamo i contesti più grandi, totalità significative insieme alle quali ci sentiamo insertiti in un tutto. Il nostro quoziente di spiritualità ci rende sensibili alle questioni legate alla trascendenza ed è definito dai neurobiologi come il “Punto di Dio”.
In tutte le canzoni di De André è palese e firte una voce che parte dal profondo dell’uomo, che grida giustizia in modo radicale, permeandoci così di una cultura libertaria. La spiritualità appartiene alla dimensione umana e non “appartiene” alle religioni; piuttosto le religioni sono espressione di questo “Punto di Dio”.
Perciò, Fabrizio è a pieno titolo un evangelista: portavoce della profonda coscienza, dell’energia vitale che ribalta le vicende umane. La sua voce è il sigillo autorevole di un’anima, la possibilità irripetibile, per la canzone, di diventare il più alto e più alto strumento artistico della cultura popolare, una specie di teologia della liberazione. Tanto è vero che, dopo sei anni, nessuno sembra disposto a lasciar cadere le sue canzoni, a dimenticarle, ad accettare che quella storia sia finita per sempre.
Tutti siamo attratti dalla bellezzza, dalla profondità, dalla struggente ricerca di riscatto della condizione umana che caratterizza l’annuncio di Fabrizio. E’ il fulcro del cristianesimo: nessuno si libera da solo, nessuno libera un altro, ci si libera tutti insieme.
Le canzoni di De ASndré sono coscienza civile, comprensione umana, preghiera, guerra alle ipocrisie, amore per i derelitti e gli emarginati, per i “perdenti” che il mondo lascia sul terreno nella sua inarrestabile corsa verso il trionfo del materiale.
Il Vangelo secondo De André è un percorso di comunione, di vera “metanoia”, cambiamento di mentalità, di rotta sui temi della pace, della guerra. “Chi viaggia in direzione ostinata e cotraria col suo marchio speciale di speciale disperazione…tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi per consegnare alla morte una goccia di splendore di umanità di verità“.
Fabrizio non aveva l’ambizione di “indicare la strada”, di trasmettere una sua verità. Casomai, l’unica sua presunzione era quella di riconoscere a se stesso e agli altri la “libertà di scelta”. Anche Gesù, del resto, disse ai suoi discepoli: “Volete andarvene via anche voi?”.
Fabrizio è stato semplicemente un anarchico, perché l’anarchia, prima ancora che un’appartenenza politica, è un modo di essere. Basta scorrere il canzoniere di De André: donne, prostitute, suicidi, ultimi, zingari. Come nel vangelo: ” I piubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio “.
La scelta di Fabrizio non accetta etichette, non è mai ideologica. Chi sceglie un’ideologia può anche sbagliare; chi sceglie i poveracci, i senza voce, i fragili, non sbaglia mai.
“Essere anarchico” non significa seguire un catechismo o un decalogo, tanto meno un dogma. E’ uno stato d’animo, una categoria dello spirito. E Faber aveva lo spirito anarchico, lo spirito libertario.
Per Faber, amico fragile, l’inquietudine dello spirito coincideva con l’aspirazione profonda alla libertà: “Signora libertà, signorina anarchia”.
Fabrizio si è divertito a rimescolare le categorie del bene e del male, fino a farne emergere gli imprevisti: le puttane insegnano e i professori vanno a lezione. I suoi personaggi sono ricchi di una fragilità che ce li rende cari e capaci di coinvolgerci e indurci a cercarli fra i vicoli della città vecchia e nelle periferie.
Quanti Miché, Marinella, Bocca di rosa…
Sono vite perdute, ma anime salve. Uomini e donne che vivono in una condizione diversa da quella di chi vive schiacciato e reso ottuso proprio da ciò che “non gli manca”.
Qualcuno potrebbe trovare forzato e bizzarro il rapporto di De André con la religione. Il Dio con cui lui parla viene continuamente sfidato a presentarsi come “uomo”, l’unico modo in cui forse De André trova possibile e desiderabile l’incontro.
L’intero album “La buona novella” ne è testimonianza; ma già precedentemente, nella canzone Si chiamava Gesù, il Cristo era stato raccontato come un uomo fra gli uomini, che non era riuscito a eliminare il male dalla Terra, e ne aveva accettato lacrime e spine.
Fabrizio ha contestato i comandamenti a uno a uno con il Testamento di Tito, ma ha poroposto, per ognuno di essi, un suo personale, terreno e schiettamente imperfetto modo di appropriarsene, riempiendo lo sguardo dell’uomo di quanta più vita possibile, bonificando l’umana pietà dal rancore. Perché “…dai diamanti non nasce niente, dal letame sbocciano i fiori“.
Il pescatore è la canzone simbolo del suo annuncio: la vita come cammino e incontro, un attimo di luce tra due oscurità. La scoperta della precarietà dell’esistenza che permette a ogni individuo di diventare veramente uomo solo attraverso una serie di esperienze e di incontri.
La scoperta dell’amore, la capacità di accettare la morte e l’attesa della risurrezione, “…dell’ultimo sole…”, una volta che si è capito il senso della vita. E poi, ancora, la vita come servizio, e persino se chi mi implora e tende la mano, per gli altri, è un assassino !
Quella capacità di accoglienza grazie alla quale il pescatore “sorride” dopo aver offerto all’assassino il vino e il pane (anche io, quando presiedo l’Eucaristia, “verso il vino, spezzo il pane” perché qualcuno mi dice e continua a dirmi: “Ho sete e fame”) .
Infine, delicata chiusura, la chiamata alla trascendenza, il “guardare oltre” del pescatore.
YouTube – Il pescatore (versione originale) – Fabrizio De André |
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2 min 19 sec – 27 set 2007 –
Il celeberrimo singolo di Faber nella sua prima – sconosciuta ai più – versione datata 1970.All’ombra dell’ultimo sole
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Don Andrea Gallo (3)
1948
Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo
Articolo 1
“Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza“.
Ieri, 22 luglio 2008, si è svolta la marcia per le strade del centro fiorentino, organizzata dalla Comunità delle Piagge (quartiere della periferia fiorentina di cui è parroco Don Santoro, studioso di Don Milani e fondatore della Comunità stessa), di cui ho scritto in questo blog per darne notizia.
In apertura abbiamo ascoltato l’autorevole intervento di Umberto Allegretti, docente di diritto pubblico all’Università di Firenze, che ci ha illustrato come l’iniziativa di Maroni violi pesantemente e inequivocabilmente le norme della Costituzione e la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo.
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Per la cronaca, molti manifestanti portavano addosso un simpatico ed espressivo manifestino, in formato A4, con l’mmagine di un bambino dall’espressione dolcemente aggressiva, che mette in primo piano il suo dito medio e con la scritta “per maggior sicurezza porgi un dito a Maroni”…:-)
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Dopo aver sfilato, al suono della Banda ( bellissimi i brani di Bregovic) ed esserci fermati alcune volte per ascoltare i vari interventi siamo infine arrivati in piazza della Signoria, dove ci ha letteralmente emozionati Don Andrea Gallo, che con la sua carismatica comunicatività è riuscito a donarci indimenticabili momenti di commozione e ilarità allo stesso tempo, di quelli che ti danno la carica insomma.
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Don Gallo, sono felice di averti conosciuto, tu lasci il segno…l’impronta…per rimanere in tema!
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Prima di andare via ognuno di noi ha lasciato le proprie impronte da inviare a Maroni.
Questa foto l’ho scattata ieri: è Don Gallo con una ragazza rom in un momento della manifestazione.
mercoledì, 23 luglio 2008
Rom e scuola
Voglio portare all’attenzione dei lettori di questo spazio un interessante articolo letto nella rubrica “lettere e commenti”, pag 12, su “Il Manifesto” di oggi. Ne è autrice Antonia Sani, coordinatrice dell’associazione nazionale “per la scuola della repubblica”.
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Il tema è, come da titolo, la scolarizzazione dei Rom. Tralascio la parte introduttiva che riguarda le vicende, ormai tristemente note, della discriminazione nei confronti dei Rom da parte del nostro governo e la risposta della UE.
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Riporto invece le parole sul diritto all’istruzione pubblica, il solo in grado di portare l’individuo alla libertà autentica, quella libertà che consiste nell’autodeterminazione; sull’educazione, attuata attraverso il pluralismo culturale ed il rispetto per la Persona, orientata alla formazione di cittadini diversi ma uguali, pensanti e non manipolabili.
“…non possiamo non registrare i risultati positivi che l’aumento della scolarizzazione di questi ultimi quindici anni ha provocato tra i rom. Il merito va a quei docenti che hanno saputo praticare l’accoglienza pur tra mille difficoltà ambientali e renderla fattore di integrazione nel rispetto delle diverse culture….”
“…La scuola deve diventare per i rom che vivono in italia un obbligo generalizzato…
Coloro che hanno frequentato in questi anni regolarmente la scuola hanno acquistato coscienza di sé, non sono più disposti a farsi strumentalizzare da organizzazioni e enti, chiedono in prima persona abitazioni, occupazione, occasioni di partecipazione alla vita sociale e politica.
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Ribadiamo con forza che tra gli impegni del prossimo anno scolastico va inserita ai primi posti la scolarizzazione dei bimbi e dei giovani rom, affinché l’istruzione dia loro la consapevolezza e gli strumenti per battersi per l’affermazione della loro dignità e dei loro diritti: primo fra tutti il diritto a una casa non fuori sdal raccordo anulare, dove campi, sia pure attrezzati, legati a una realtà di nomadismo non più attuale, continuerebbero a configurare oggi una ghettizzazione estranea all’inserimento regolare in un contesto scolastico. “
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