“L’ANIMA E IL SUO DESTINO”, Milano, Cortina, 2007 Vito Mancuso

mancuso vito teologo2Vito Mancuso, teologo

Vito Mancuso (Carate Brianza, 9 Dicembre 1962) è un teologo italiano.

È docente di Teologia presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano ed editorialista de “La Repubblica”. Nato il 9 dicembre 1962 a Carate Brianza da genitori siciliani, è dottore in teologia sistematica. Dei tre gradi accademici del corso teologico, ha conseguito il Baccellierato presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrional di Milano, la Licenza presso la Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale San Tommaso d’Aquino di Napoli, il Dottorato a Roma presso la Pontificia Università Lateranense .

Dopo il liceo classico statale a Desio (Milano), ha iniziato lo studio della teologia nel Seminario arcivescovile di Milano (sede di Saronno per il biennio filosofico e di Venegono Inferiore per il triennio teologico). Al termine del quinquennio è stato ordinato sacerdote dal cardinale Carlo Maria Martini nel Duomo di Milano il 7 giugno 1986, all’età di 23 anni e sei mesi. A distanza di un anno, ha chiesto di essere dispensato dalla vita sacerdotale e di dedicarsi solo allo studio della teologia. Dietro indicazione del cardinal Martini ha vissuto due anni a Napoli presso il teologo Bruno Forte (attuale arcivescovo di Chieti e Presidente della Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede della Cei) dove ha conseguito il secondo grado accademico.

Ha quindi iniziato a lavorare in editoria (Edizioni Piemme, Mondadori, Edizioni San Paolo, ancora Mondadori) proseguendo nel frattempo lo studio della teologia per il terzo e conclusivo grado accademico, il Dottorato, conseguito nel 1996 con il punteggio di 90/90 summa cum laude e la tesi: La salvezza della storia. La filosofia di Hegel come teologia, primo relatore Piero Coda (attuale Presidente dell’Associazione Teologica Italiana), difesa il 29 febbraio 1996, e pubblicata nell’aprile dello stesso anno col titolo Hegel teologo e l’imperdonabile assenza del Principe di questo mondo. Ricevuta la dispensa papale, si è sposato nella parrocchia milanese di Santa Maria del Suffragio con Jadranka Korlat, ingegnere civile. Dal matrimonio sono nati Stefano nel 1995 e Caterina nel 1999.

mancuso vito teologoL’anima e il suo destino

« Il principale obiettivo di questo libro consiste nell’argomentare a favore della bellezza, della giustizia e della sensatezza della vita, fino a ipotizzare che da essa stessa, senza bisogno di interventi dall’alto, sorga un futuro di vita personale dopo la morte. »

(Vito Mancuso, L’anima e il suo destino)

L’anima e il suo destino ha superato le 120.000 copie vendute (a maggio 2008), ed è diventato un dibattuto caso editoriale e culturale.

In questo libro, presentato da Carlo Maria Martini, Mancuso studia il concetto di anima alla luce del quesito se vi sia un’esistenza dopo la morte.

Fra Fiorenzo 07 fiori

Un teologo rifà da capo la fede cattolica.

Ma la Chiesa dice no

È Vito Mancuso, in un libro di grande successo raccomandato dal cardinale Martini. Nel quale non c’è più peccato né redenzione, ma l’uomo si salva da sé. Dopo mesi di silenzio, il doppio altolà delle autorità vaticane. Ecco i testi integrali

di Sandro Magister

ROMA, 8 febbraio 2008 – In un medesimo giorno di questo inizio di febbraio “L’Osservatore Romano” e “La Civiltà Cattolica” – cioè il giornale ufficiale della Santa Sede e la rivista controllata riga per riga dalla segreteria di stato vaticana – hanno doppiamente stroncato un libro che è divenuto un caso editoriale, teologico, ecclesiale. In Italia ma non solo.

Il libro è “L’anima e il suo destino”, di Vito Mancuso. L’una e l’altra stroncatura sono uscite contemporaneamente sulle due autorevoli testate il 2 febbraio, festa della presentazione di Gesù.

In pochi mesi “L’anima e il suo destino” ha avuto sette edizioni e ha venduto in Italia 80 mila copie, che per un libro di teologia sono moltissime.
Vito Mancuso, 46 anni, sposato con figli, insegna teologia moderna e contemporanea nella facoltà di filosofia dell’Università San Raffaele di Milano, un ateneo privato senza legami con la Chiesa. Ha conseguito il dottorato in teologia presso la Pontificia Università Lateranense. La sua tesi, patrocinata dal presidente dell’Associazione teologica italiana, Piero Coda, diventò il suo primo libro: “Hegel teologo e l’imperdonabile assenza del Principe di questo mondo”, uscito nel 1996 e giudicato con favore – al pari del successivo, del 2002: “Il dolore innocente. L’handicap, la natura e Dio” – da teologi affermati e di sicura ortodossia come don Gianni Baget Bozzo e Bruno Forte. Quest’ultimo è membro della commissione teologica internazionale che affianca la congregazione vaticana per la dottrina della fede, è stato ordinato vescovo nel 2004 dall’allora cardinale Joseph Ratzinger, regge l’arcidiocesi di Chieti e Vasto e presiede la commissione per la teologia e la cultura della conferenza episcopale italiana.
Ebbene, su “L’Osservatore Romano” del 2 febbraio, è proprio l’arcivescovo-teologo Forte che critica a fondo l’ultimo libro di Mancuso.

La sua conclusione è lapidaria: “Non è teologia cristiana ma ‘gnosi’, pretesa di salvarsi da sé”.

I numerosi lettori che hanno acquistato “L’anima e il suo destino”, però, trovano in apertura del volume la prefazione di un altro arcivescovo di grandissima fama, il cardinale e gesuita Carlo Maria Martini, il quale raccomanda vivamente la lettura del medesimo libro, nonostante ravvisi in esso idee “che non sempre collimano con l’insegnamento tradizionale e talvolta con quello ufficiale della Chiesa”.

E così il cardinale prosegue, rivolgendosi familiarmente all’autore:

“Sarà difficile parlare di questi argomenti senza tenere conto di quanto tu hai detto con penetrazione coraggiosa. […] Anche quelli che ritengono di avere punti di riferimento saldissimi possono leggere le tue pagine con frutto, perché almeno saranno indotti o a mettere in discussione le loro certezze o saranno portati ad approfondirle, a chiarirle, a confermarle”.

Martini non dice quali siano i punti che si staccano dalla dottrina cattolica.

Li mettono invece nero su bianco “L’Osservatore Romano” e “La Civiltà Cattolica”. Secondo quest’ultima rivista i dogmi “negati” o “svuotati” nel libro sono “circa una dozzina”. E tutti di prima grandezza.
Su “L’Osservatore” Bruno Forte non è da meno. Vede smantellati il peccato originale, la risurrezione di Cristo, l’eternità dell’inferno, la salvezza che viene da Dio. La tesi del libro è che l’uomo basta a se stesso e si salva da sé, alla luce della sua sola ragione.

Mancuso, che si professa cattolico, è consapevole del terremoto che ha provocato. Ma il suo programma dichiarato è proprio quello di “rifondare” la fede cristiana. In un articolo pubblicato il 22 gennaio sul quotidiano “il Foglio” ha respinto anche il dogma della creazione e la dottrina della “Humanae Vitae” sulla contraccezione. A quest’ultima dottrina ha opposto il seguente argomento:

“Occorre guardare in faccia la realtà per quello che è, non per quello che si vorrebbe che fosse, e la realtà è che i rapporti sessuali sono praticati largamente al di fuori del matrimonio e a partire da giovanissima età”.

Al che gli ha replicato sullo stesso giornale don Baget Bozzo, suo ammiratore d’un tempo:

“Caro Vito, che senso ha chiamarsi ancora teologo, se non per pura commercializzazione del prodotto, quando si ha una così bassa concezione della teologia?”.

Più sotto, in questa pagina, sono riportate l’una dopo l’altra le due recensioni apparse su “L’Osservatore Romano” e su “La Civiltà Cattolica”. La seconda ha per autore il gesuita Corrado Marucci, professore di esegesi biblica al Pontificio Istituto Orientale.
Del caso non si è occupata direttamente la congregazione per la dottrina della fede in quanto Mancuso non ha vincoli istituzionali con la Chiesa né insegna in una università ecclesiastica.

Il timore era però che un silenzio delle autorità della Chiesa avrebbe alimentato l’idea che le tesi del libro fossero innocue o persino apprezzabili, offerte a una disputa fruttuosa, come raccomandato dal cardinale Martini nella sua prefazione.

“L’Osservatore Romano” e “La Civiltà Cattolica” hanno rotto il silenzio e fornito una autorevole indicazione su ciò che è conforme o no alla dottrina cattolica e a un metodo corretto di far teologia.
Una teologia che in Italia, nell’ultimo anno, non ha prodotto solo un discutibile successo editoriale come “L’anima e il suo destino”, ma anche un capolavoro di intelligenza della fede come il saggio intitolato “Ingresso alla bellezza”, di Enrico Maria Radaelli.

Un’opera maestra sulla quale www.chiesa dovrà presto tornare.

__________Gnosi di ritorno e linguaggio consolatorio

Da “L’Osservatore Romano” del 2 febbraio 2008

di Bruno Forte

“Salvarsi l’anima”. Questa espressione antica ha nel linguaggio della fede un senso che appare messo radicalmente in questione dal libro di Vito Mancuso, “L’anima e il suo destino” (Milano 2007). Il volume ha suscitato un dibattito vivace, aperto dalla stessa lettera del cardinale Carlo Maria Martini, pubblicata in apertura, che – pur con grande tatto – parla con chiarezza di “parecchie discordanze [...] su diversi punti”.

L’autore si era fatto conoscere e apprezzare sin dalla sua opera prima, dal titolo suggestivo ed emblematico: “Hegel teologo e l’imperdonabile assenza del Principe di questo mondo” (Casale Monferrato, Piemme, 1996). Libro significativo, questo, attraversato da una lucida critica al monismo hegeliano dello Spirito e da una drammaticità, che contro Hegel ribadisce l’inesorabile sfida del male che devasta la terra, precisamente nel suo volto diabolico e insondabile.
Anche altri saggi di Mancuso mantengono viva questa tensione, che si condensa in pagine profonde lì dove egli tocca il mistero del dolore innocente o scandaglia le profondità sananti dell’amore. Anche a motivo di queste premesse, il libro sull’anima ha suscitato in me un senso di profondo disagio e alcune forti obiezioni, che avanzo nello spirito di quel servizio alla Verità, cui tutti siamo chiamati.

La prima obiezione riguarda la potenza del male e del peccato. Mancuso non esita ad affermare che il peccato originale sarebbe “un’offesa alla creazione, un insulto alla vita, uno sfregio all’innocenza e alla bontà della natura, alla sua origine divina” (167). È vero che l’intento dichiarato dall’autore non è di “distruggere la tradizione”, ma di “rifondarla” (168), cercando di tenere insieme “la bontà della creazione e la necessità della redenzione”: in quest’ottica, il peccato originale non sarebbe altro che “la condizione umana, che vive di una libertà necessitata, imperfetta, corrotta, e che per questo ha bisogno di essere disciplinata, educata, salvata, perché se non viene disciplinata questa nostra libertà può avere un’oscura forza distruttiva e farci precipitare nei vortici del nulla” (170).

La spiegazione non convince: dove va a finire in essa il dramma del male, la potenza del peccato? Kant ha affermato con ben altro rigore la serietà del male radicale: “La lotta che in questa vita ogni uomo moralmente predisposto al bene deve sostenere, sotto la guida del principio buono, contro gli assalti del principio cattivo, non può procurargli, per quanto si sforzi, un vantaggio maggiore della liberazione dal dominio del principio cattivo. Il guadagno più alto che egli può raggiungere è quello di diventare libero, ‘di essere liberato dalla schiavitù del peccato per vivere nella giustizia’ (Romani, 6, 17-18). Nondimeno, l’uomo resta pur sempre esposto agli attacchi del principio cattivo, e per conservare la propria libertà, costantemente minacciata, è necessario che egli resti sempre armato e pronto alla lotta” (Immanuel Kant, “La religione entro i limiti della semplice ragione”, Milano 2001, 111).

Come ha osservato Karl Barth, “quello che meraviglia non è che il filosofo Kant prenda in generale in seria considerazione il male [...] bensì il fatto che egli parli di un principio malvagio, e dunque di una origine del male nella ragione e in questo senso di un male radicale” (“La teologia protestante nel XIX secolo”, Milano 1979, 338). Vanificare il peccato originale e la sua forza attiva nella creatura vuol dire banalizzare la stessa condizione umana e la lotta col Principe di questo mondo, che proprio Mancuso aveva rivendicato contro l’ottimismo idealistico di Hegel.
La conseguenza di queste premesse è la dissoluzione della soteriologia cristiana. Se non si dà il male radicale, e dunque il peccato originale e la sua forza devastante, su cui appoggia la sua azione il grande Avversario, la salvezza si risolve in un tranquillo esercizio di vita morale, che non vive più di alcuna tensione agonica e non ha bisogno di alcun soccorso dall’alto: “salvarsi l’anima” non sarebbe né più né meno che una sorta di autoredenzione. “La salvezza dell’anima dipende dalla riproduzione a livello interiore della logica ordinatrice che è il principio divino del mondo” – “La salvezza dell’anima non dipende dall’adesione della mente a un evento storico esteriore, sia esso pure la morte di croce di Cristo, né tanto meno dipende da una misteriosa grazia che discende dal cielo” (311).

La risurrezione di Cristo risulterebbe così del tutto superflua: essa, per Mancuso, “non ha alcuna conseguenza soteriologica, né soggettivamente, nel senso che salverebbe chi vi aderisce nella fede visto che la salvezza dipende unicamente dalla vita buona e giusta; né oggettivamente, nel senso che a partire da essa qualcosa nel rapporto tra Dio e il genere umano verrebbe a mutare” (312).
Mi chiedo come siano conciliabili queste affermazioni con quanto dice Paolo: “Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede” (1 Corinzi, 15, 14). La confessione della morte e risurrezione del Figlio di Dio fatto uomo è l”‘articulum stantis aut cadentis fidei Christianae”!
Vanificata la soteriologia, ne consegue anche lo svuotamento del dramma della libertà e la negazione della possibilità stessa della condanna eterna: l’Inferno sarebbe un “concetto [...] teologicamente indegno, logicamente inconsistente, moralmente deprecabile” (312). Convinzione della fede cattolica è al contrario che senza l’Inferno l’amore stesso di Dio risulterebbe inconsistente, perché non si darebbe alcuna possibilità di una libera risposta della creatura. “Chi ti ha creato senza di te, non ti salverà senza di te”: il giudizio di Agostino richiama la responsabilità di ciascuno di fronte al suo destino eterno.
L’insieme di queste tesi si rifà a un’opzione profonda, che emerge da molte delle pagine del libro: quella che non esiterei a definire una “gnosi” di ritorno, presentata nella forma di un linguaggio rassicurante e consolatorio, da cui molti oggi si sentono attratti.

“Io penso – afferma l’autore – che l’esercizio della ragione sia l’unica condizione perché il discorso su Dio oggi possa sussistere legittimamente come discorso sulla verità” (315). Il problema è di quale ragione si parla: quella totalizzante della modernità, che ha prodotto tanta violenza nelle sue espressioni ideologiche? O quella che il Logos creatore ha impresso come immagine divina nella creatura “capax Dei”? E se di questa si tratta, come si può assolutizzarla fino al punto da ritenere superfluo ogni intervento dall’alto, quasi che il “lumen rationis” escluda il bisogno del “lumen fidei”? Cristo sarebbe venuto invano? E la fragilità del pensare e dell’agire umano sarebbe inganno, perché nessuna debolezza originaria degli eredi del primo Adamo si opporrebbe alla potenza di una ragione ordinatamente applicata?

Ben altro dice la testimonianza di Paolo, alla quale non può non attenersi una teologia che voglia dirsi cristiana, preferendola a ogni illusoria apoteosi della ragione prigioniera di sé: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me. Non annullo dunque la grazia di Dio; infatti se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano” (Galati, 2, 20-22).

Dalla legge, da qualunque legge di autoredenzione, la salvezza non viene. Senza il dono dall’alto, nessuna salvezza è veramente possibile. Sta qui la verità della fede, il suo scandalo: proprio così, la sua potenza di liberazione, la sua offerta della via unica e vera per “salvarsi l’anima”. Pensare diversamente, non è teologia cristiana: è “gnosi”, pretesa di salvarsi da sé.

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L’anima e il suo destino secondo Vito Mancuso

Da “La Civiltà Cattolica” del 2 febbraio 2008, quaderno 3783

di Corrado Marucci S.I.

Nel suo ultimo libro Vito Mancuso (1), docente di Teologia moderna e contemporanea alla Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano, espone quello che si può definire un moderno trattato di escatologia. In vari riferimenti sparsi nel corso dell’esposizione, egli concepisce il proprio lavoro come “costruzione di una ‘teologia laica’, nel senso di rigoroso discorso su Dio, tale da poter sussistere di fronte alla scienza e alla filosofia”. Questo “discorso” si sviluppa nel testo, dopo la prefazione del card. Martini, nella quale egli afferma, fra l’altro, “di sentire parecchie discordanze su diversi punti”, e un capitolo introduttivo sulle coordinate speculative dell’Autore di circa 50 pagine, in nove capitoli che trattano dell’esistenza dell’anima, della sua origine e immortalità, della salvezza dell’anima, della morte e del giudizio, della terna paradiso/inferno/purgatorio e infine di parusia e giudizio universale. Chiudono una “Conclusione” e l’indice degli autori citati.

Data la mole degli argomenti trattati e lo stile enciclopedico scelto dall’Autore, è praticamente impossibile esporre sinteticamente e commentare le convinzioni, le conclusioni, le proposte, le tirate ironiche e gli stimoli disseminati nel testo (2). Ci limitiamo qui all’essenziale, col rischio di trascurare cose che possono essere sembrate essenziali all’Autore.

INTRODUZIONENel lungo capitolo introduttivo egli espone uno dopo l’altro i cardini di ciò che intende sviluppare in seguito. In realtà si tratta di un insieme di convinzioni e princìpi in parte decisamente ovvi (quanto alla necessità di aderire alla verità, chi ha mai ammesso che si possa argomentare a partire da falsità o addirittura accettarle?), in parte bisognosi di molti distinguo (sembrerebbe che per l’Autore l’ultima istanza di ogni argomentazione sia l’accordo o almeno il non disaccordo con le scienze positive e ciò è ovviamente discutibile, poiché queste sono in un continuo processo autocorrettivo e spesso non prive di preconcetti e indebite estrapolazioni).

Mancuso, seguendo una moda terminologica più del gergo politico e giornalistico che non filosofico, dichiara che il suo referente è la “coscienza laica”, intendendo con ciò “la ricerca della verità in sé e per sé” (p. 9). Sarebbe difficile trovare qualche pensatore, dai presocratici a oggi, che abbia un differente concetto di verità: il problema è come si può arrivare alla certezza di aver raggiunto tale verità.

Ma forse, come emerge da alcune allusioni, egli è convinto che chi aderisce alla fede cristiana lo faccia tacitando le difficoltà razionali o addirittura senza troppo pensare. L’Autore riassume poi diversi dati e acquisizioni scientifiche relative alla materia, alla sua equivalenza con l’energia, all’evoluzione, che egli ritiene necessario integrare con il concetto di relazione.

Diverse volte, in questo capitolo e anche nei seguenti, Mancuso dice di voler essere un pensatore cattolico, un figlio della Chiesa. È perciò assai strano che egli, in un’opera che sostanzialmente vorrebbe essere di teologia, tra le premesse argomentative non faccia alcun riferimento alla metodologia dell’esegesi biblica e a quella propria della teologia cattolica. Sulle conseguenze di questa mancanza torneremo in seguito. Le ultime pagine del primo capitolo possono qui essere tralasciate sia perché difficilmente riassumibili, sia perché le necessarie critiche saranno più evidenti nelle loro conseguenze sui singoli argomenti trattati in seguito.

L’”ANIMA SPIRITUALE”

Nei capitoli seguenti l’Autore espone le sue convinzioni sugli argomenti classici relativi all’anima e al suo destino finale. Innanzitutto, sempre attingendo ad autori del passato a partire dagli antichi egizi fino al recente Catechismo della Chiesa Cattolica, egli si dichiara “apertis verbis” per l’esistenza dell’anima spirituale nell’uomo arrivato a maturità (?).

Va detto tuttavia che con il termine “anima spirituale” egli intende molte cose, ci pare, più legate a concetti come energia, relazione, libertà, creatività e così via, legati cioè più alla materia, o ai sensi o ancora conseguenze della presenza nell’uomo della dimensione spirituale. Molte osservazioni, derivanti dai più disparati settori della vita, sono condivisibili, altre oscure dal punto di vista concettuale. Quello che però stupisce è la completa assenza di argomenti veri e propri che dimostrino l’esistenza di quella realtà che in tutta la tradizione cristiana si è chiamata anima o spirito.

Ovviamente ogni dimostrazione vale all’interno di un sistema logico predefinito; ma poiché, come si è detto, Mancuso non dichiara le sue coordinate logiche, non è possibile giudicarne le asserzioni. È ovvio che la pura assimilazione alle scienze fisico-chimiche contemporanee non potrà mai essere sufficiente allo scopo, poiché il loro oggetto formale sono i dati materiali sensibili e osservabili.

Nella sistemazione classica del cattolicesimo la dimostrazione dell’esistenza dell’anima spirituale era demandata alla filosofia, quale “ancilla theologiae”. Dall’ovvia esistenza nell’uomo dell’intellezione e del conseguente giudizio, che sono operazioni non materiali, ma spirituali, si deduceva la necessità di un principio immateriale nell’uomo, poiché la materia non è capace di operazioni non materiali. Il supporto logico-argomentativo era dato dall’ontologia aristotelico-tomista. Quanto invece alle argomentazioni di Mancuso, non è difficile immaginare che un lettore non digiuno di logica e di filosofia le trovi vaghe e poetiche (3).

Quanto poi al momento dell’infusione dell’anima razionale nel corpo, l’Autore, in buona sostanza, pare far sua la teoria delle “formae vitales”, che la filosofia scolastica aveva ereditato da Aristotele, come conseguenza dell’assioma che ogni forma ha bisogno di una materia adeguatamente preparata a riceverla. Tale teoria però, oltre che per difficoltà teoretiche, è stata abbandonata dalla Chiesa cattolica, perché le operazioni vitali, vegetative e sensibili, per sostenere le quali si invocava la presenza nel feto di un’anima soltanto vegetativa e in seguito soltanto sensibile, possono essere tranquillamente attribuite fin dall’inizio all’(unica) anima razionale, come si fa in seguito nell’esistenza umana matura.

A nostro parere l’applicazione dell’assioma sopra ricordato non conduce ad alcuna conclusione sicura, poiché la sproporzione ontologica dell’anima spirituale è totale nei confronti di qualsiasi tipo di materia; non è questione cioè di gradi. Su questo tema stupisce infine il silenzio di Mancuso in merito a tutta quella serie ormai ricchissima di studi sulla fisiologia del cervello per appurare se vi siano operazioni umane non spiegabili con le sole proprietà neurologiche (4). Notiamo infine che diverse volte (5) nel corso dell’esposizione Mancuso attribuisce alla dottrina ecclesiale l’idea che per essa l’anima sia una sostanza, cosa assolutamente erronea: il famoso asserto per cui l’anima è “forma substantialis corporis” significa che essa non è una sostanza bensì un “principium entis”; la sostanza è la persona umana (6).

L’ORIGINE DELL’ANIMA

Il testo poi presenta tutto un capitolo (30 pagine) sul problema dell’origine dell’anima. Nonostante il tentativo di distanziarsi anche in questo punto dalle concezioni tradizionali (di cui egli cita tutta una serie), Mancuso in buona sostanza concorda con la dottrina ecclesiale praticamente in tutto, fatta eccezione per l’affermazione che l’anima umana viene creata direttamente da Dio. In proposito va ricordato che tale dottrina non è mai stata definita come dogma di fede; i manuali le danno la qualifica di theologice certa. L’Autore lo ammette, benché non spieghi esattamente il significato di questa “nota theologica” (7). La conseguenza di questo fatto è che la dottrina contraria (in questo caso che i genitori trasmettono l’anima al concepito) è accettabile laddove si riesca a dimostrare che le argomentazioni razionali che conducono alla necessità del suo contrario non tengono.
Orbene non ci pare che questo riesca all’Autore, ma che anzi quelle classiche siano ancora valide (8), aggiungendo comunque che l’asserto per cui le anime sono create direttamente da Dio ha anche la funzione di sottolineare che ciò che nasce (con una fenomenologia molto varia e addirittura a volte casuale) in realtà è sempre qualcosa di per sé direttamente voluto da Dio, destinato a dialogare con lui e che quindi non rappresenta mai un progetto solamente storico o fattuale, ma eterno. Mancuso sfrutta qui una sua ricorrente convinzione che lo spirito, in quanto energia, possa derivare dalla materia e contesta l’opposizione classica tra spirito e materia, per cui l’una è il contrario dell’altra. Non è il caso di ribadire questa concezione che, una volta capiti i termini, è ovvia; il problema è che qui, e per tutto il libro, l’Autore opera con un concetto di spirito che non è quello di cui parla tutta la tradizione cristiana. Affermare infatti che esso è energia e appellarsi alla fisica einsteiniana è un’idea perlomeno bizzarra (9). Come può una realtà estesa, misurabile e presente anche nelle cose e negli animali, essere spirituale?
D’altronde Mancuso aveva dichiarato nelle premesse la sua incondizionata adesione al pensiero evolutivo e a Teilhard de Chardin. Citando poi come esempio il noto manuale di Flick e Alszeghy, egli sostiene che nell’argomentazione tradizionale ci sarebbe un circolo vizioso; ma perlomeno nell’edizione finale di tale manuale (10) tutto ciò è affatto assente: l’immortalità dell’anima è detta naturale fin dall’inizio, anche se ovviamente voluta da Dio e quindi, dicono i due dogmatici, può essere creata soltanto da Dio. Foriera di gravi conseguenze etiche è l’affermazione che “non c’è più (nel caso di una vita colpita da una grave malattia o da senilità acuta) l’anima razionale-spirituale” (p. 107): è chiaro che Mancuso confonde la facoltà con il suo esercizio (11).

IMMORTALITÀ E SALVEZZA DELL’ANIMA

Il quarto capitolo, di 40 pagine, è dedicato all’immortalità dell’anima. Affastellando citazioni e “bons mots” (a volte poco pertinenti) di pensatori e scienziati dell’antichità, del Medioevo e moderni, Mancuso arriva alla conclusione che per l’immortalità dell’anima non esistono prove (p. 123 e passim). Senza analizzare i motivi del dogma, egli si sofferma sull’esistenza o meno di un Dio personale e su problemi derivanti dalla domanda spontanea di perennità innata nell’uomo. La definizione, ribadita in tutto il corso del testo, dell’anima come energia impedisce di capire il senso delle dimostrazioni classiche e delle numerose conferme bibliche concernenti l’immortalità dello spirito umano. Non è qui il caso di contestare singole affermazioni del testo, che procede veramente a ruota libera (12).

L’Autore ritiene necessario dedicare poi il quinto capitolo, di 37 pagine, al tema della salvezza dell’anima. Innanzitutto dichiara che tutti i contenuti veicolati dal dogma del peccato originale (13) devono essere riformulati o abbandonati; concretamente Mancuso ritiene corretto parlare soltanto di “peccato del mondo”. Prescindendo praticamente dalla teologia paolina, ma ricorrendo a Platone, Anassimandro e Bonhoeffer egli ritiene di dover “rifondare” fede e tradizioni (p. 168).

Cercando allora di rispondere alla domanda se dobbiamo ancora essere salvati e se sì, da cosa e come, l’Autore spiega “da noi stessi e dalla vita disordinata (nel senso di sottoposta all’entropia)” (p. 173). Quanto al come, egli proclama che “non è la religione che salva: […] non sono i sacramenti, la Messa, i rosari, i pellegrinaggi, le indulgenze, la Bibbia” (p. 176), e oltre “non c’è alcuna esigenza di credere nella sua [cioè di Gesù] resurrezione dai morti per essere salvi” (p. 183). È ovvio che siamo agli antipodi di ciò che Paolo afferma in 1 Cor 15 e in molti altri passi.

Il sesto capitolo, di 18 pagine, è dedicato a “Morte e giudizio”. Anche qui Mancuso, sulla base di rudimentali richiami biblici (tra i quali manca il testo principale Gn 2,17; 3,19) definisce i dati tradizionali come contraddittori (cfr p. 189); quanto alla valenza della morte egli, in buona sostanza, va catalogato tra coloro che negano la reale problematicità della morte degli umani (14), posizione difforme dalla dogmatica cattolica. Sul criterio del giudizio dopo la morte, Mancuso invece di ricordare la classica formula paolina della “fides caritate formata” preferisce appoggiarsi a Platone, Marco Aurelio, Pascal, Kant e Simone Weil.

I quattro capitoli seguenti, più sintetici dei precedenti, riguardano paradiso, inferno, purgatorio, e parusia e giudizio universale. Anche per il paradiso, la visione beatifica e la risurrezione dei corpi l’Autore compie una completa “demitizzazione”, sempre argomentando da alcuni suoi assiomi non ulteriormente discussi quali l’identità tra spirito e materia, la concezione dell’anima come energia e l’eterna validità delle leggi fisiche.

Egli stabilisce perciò che la distinzione tra immortalità dell’anima e risurrezione dei corpi è “del tutto infondata” (p. 223), che la concezione per cui le anime dei defunti vivono “un letargo simile alla morte” sarebbe “oggi maggioritaria tra i teologi e ancor più tra i biblisti” (p. 214) (15) e che “la convinzione che nessun intelletto creato può vedere l’essenza di Dio [è] la peggiore delle eresie” (p. 219), che “la credenza della risurrezione della carne appare nella sua inconsistenza fisica e teologica” (p. 225) e così via.

Non è qui possibile commentare questa congerie di affermazioni anche perché le argomentazioni ora sono oscure, ora soltanto accennate sulla base di citazioni, di convinzioni e frasi di pensatori di ogni epoca. Ci limitiamo a segnalare che, in contesto escatologico, il termine “eternità” ha due significati assai diversi, soltanto analogici: se si parla di quella di Dio, essa implica l’assenza di ogni successione e di ogni distinzione tra essenza e operazioni (16), mentre per gli altri esseri spirituali il termine implica la perennità de iure, non solo de facto, ma non esclude la successione temporale e questo risolve alcune antinomie che Mancuso crede di rintracciare nella dogmatica cattolica (17). Nonostante il profluvio di autori citati, pare che Mancuso non conosca la letteratura collegata al concetto di “risurrezione nella morte”, che è la più recente querelle di carattere escatologico in campo cattolico (18).

Venendo poi a parlare dell’inferno, Mancuso dedica praticamente tutto il capitolo (ben 35 pagine) alla confutazione del dogma dell’eternità dello stesso. Anche qui, saltando da Agostino a Tommaso fino a von Balthasar, egli approda alla lapidaria affermazione per cui “parlare di eternità dell’Inferno è una contraddizione assoluta” (p. 263), oltre che poco evangelico. Si tratta dunque di scegliere tra apocatastasi e annichilazione dei reprobi: dopo aver a lungo esposto il pensiero di P. Florenskij, egli resta, per così dire, “anceps”, dopo aver fatto un peana dell’antinomia annunciata.

Il lettore noterà la mancanza di analisi delle numerose affermazioni del Nuovo Testamento, con l’introduzione di errori teologici anche non lievi (19). Precisiamo qui, se fosse necessario, che la dottrina dell’apocatastasi, oltre che sempre condannata dal Magistero, è anche insostenibile fintantoché si vuol mantenere la reale libertà di ogni essere spirituale anche di fronte all’appello di Dio.

Dopo aver definito il purgatorio “una salutare invenzione”, Mancuso afferma che l’unica modalità che gli appare “razionalmente legittima” è di concentrarlo nell’istante della morte (p. 279). La parusia infine è da lui definita come maggiormente bisognosa di essere ripensata (cfr p. 289). In definitiva il testo sostiene che non ci sarà alcun ritorno del Gesù glorioso; le frasi corrispondenti del Nuovo Testamento sono errori di Gesù e di Paolo. Per Mancuso è semplice anche spiegare perché “Dio non è mai intervenuto direttamente nella storia” e perché “non tutta la bibbia è parola di Dio”!

CONCLUSIONE

Se per teologia si intende la riflessione dell’intelletto umano illuminato dalla fede sulla Sacra Scrittura e sulle definizioni della Chiesa, allora il nostro giudizio complessivo su questa opera non può che essere negativo. L’assenza quasi totale di una teologia biblica (20) e della recente letteratura teologica non italiana, oltre all’assunzione più o meno esplicita di numerose premesse filosoficamente erronee o perlomeno fantasiose, conduce l’Autore a negare o perlomeno svuotare di significato circa una dozzina di dogmi della Chiesa cattolica.

A fronte di una relativa povertà di dati autenticamente teologici, la tecnica di accumulare citazioni da tutto lo scibile umano, oltre al rischio di distorcerne il senso reale ai propri fini poiché esse fanno parte di assetti logici a volte del tutto diversi, non corrisponde affatto alla metodologia teologica tradizionale (21).

In realtà non è facile neanche elencare tutte le matrici che Mancuso alterna e assomma nel corso dell’esposizione (platonismo, razionalismo gnostico, scientismo, eclettismo e così via): quello che comunque domina è il razionalismo convinto che di realtà di cui non si ha alcuna percezione sensibile o decisamente soprannaturali si possa discettare in analogia con le scienze fisico-biologiche.

Nel contesto di notevolissima confusione sulla religione e la Chiesa tipica della cultura mediatica contemporanea, questo testo ci sembra che contribuisca ad aumentare tale confusione. L’Autore dichiara la sua disponibilità ad essere corretto: ma ciò, dato lo stile non sistematico e velleitario delle sue affermazioni, non è facile, poiché si può confutare soltanto ciò che è organicamente formulato al di dentro di un preciso assetto epistemologico.

NOTE

(1) Cfr V. Mancuso, “L’anima e il suo destino”, Milano, Cortina, 2007, XVI-323, € 19,80. Le pagine indicate nel testo si riferiscono a questo volume.

(2) È spiacevole che in un’opera teologica ci siano titoli come “il deposito di zio Paperone” (p. 37) e “Vino e tortellini” (p. 40). Ancora a p. 73 il matrimonio è detto “legame chimico totale della libertà”. Gli esempi potrebbero essere moltiplicati.

(3) Alquanto sorprendente invece è la convinzione dell’Autore secondo la quale le attività più chiaramente spirituali dell’uomo sono “scienza, arte, musica, pensiero” (p. 64). Anche in seguito si sostiene che la musica è la massima espressione spirituale dell’uomo.

(4) Su questo settore di ricerca cfr, tra i molti, H. Goller, “Hirnforschung und Menschenbild”, in “Stimmen der Zeit” 218 (2000) 579-594 (con abbondante bibliografia) e H. Schöndorf, “Gehirn-Bewußtsein-Geist”, in “Herder-Korrespondenz” 53 (1999) 264-267.

(5) Cfr, ad esempio, pp. 53, 77, 93, 97.

(6) Ricordiamo “en passant” che anche per la cosiddetta anima separata san Tommaso precisa che essa non è persona umana (cfr “Summa Th.” 1, 29, 1 ad 5m; Pot 9, 2 ad 14m; “Summa contra Gentiles” 4, 79).

(7) Tale qualifica significa che un asserto è necessariamente connesso mediante operazioni logiche a un dogma di fede, non, come spiega Mancuso, “che i pronunciamenti del Magistero sono stati tali da rendere tale dottrina patrimonio sicuro della fede cattolica” (p. 85).

(8) Senza stare qui a ripeterle rimandiamo all’esposizione di M. Flick – Z. Alszeghy, “Il Creatore, l’inizio della salvezza”, Firenze, Lef, 19612, 251 s.

(9) Con la solita mescolanza dei generi letterari egli afferma che “per avere una reale esperienza spirituale […] non è necessario […] andare in Chiesa, isolarsi in un monastero” (p. 87).

(10) Cfr M. Flick – Z. Alszeghy, “Il Creatore…”, cit., 183 ss; lo stesso vale per J. Donat, “Psychologia”, Oeniponte, 19327, 409 ss.

(11) Più o meno le stesse cose vengono ripetute dall’Autore oltre, alle pp. 136 ss.

(12) Ci limitiamo a notare che non è vero che con le note prove tomistiche dell’esistenza di Dio si approda sempre a un essere impersonale, poiché almeno la quinta prova termina a un essere intelligente, che non può essere che personale. Il termine riferito a Dio di “universitatis principium”, che secondo Mancuso a motivo del neutro proverebbe che si tratta di qualcosa di impersonale (p. 129), non viene usato da Tommaso nel contesto delle cinque prove, ma una volta sola in “Summa contra Gentiles” 1, 1, 3.

(13) Quanto al rapporto tra peccato dei progenitori e peccato originale originato, notiamo che Mancuso pare ignorare il noto saggio di K. Rahner “Theologisches zum Monogenismus”, in “Schriften zur Theologie” 1 (Einsiedeln, 19604) 253-322. Più avanti (p. 287), con la solita eccedenza verbale, egli stabilirà che “il peccato originale [è] un autentico mostro speculativo e spirituale, il cancro che Agostino ha lasciato in eredità all’Occidente”!

(15) Anche su questo tema avrebbe apportato chiarezza la conoscenza dell’ottimo saggio di K. Rahner, “Zur Theologie des Todes” (QD 2), Freiburg i.Br., 19613.

(15) Non si citano nomi concreti, ma l’affermazione, per quanto concerne teologi e biblisti cattolici, è completamente erronea (vedi anche i testi da noi citati sotto in nota 18). In realtà fu Lutero a parlare per primo di un “Seelenschlaf”.

(16) Il che è perfettamente espresso nella nota definizione di Boezio: “interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio”. L’erronea concezione che Mancuso ha dell’eternità dello spirito creato ritorna spesso (cfr soprattutto p. 313).

(18) Cfr la Quaestio disputata “Auferstehung im Tode” di G. Greshake – G. Lohfink (Freiburg, 19825) con la nostra critica in G. Lorizio (ed.), “Morte e sopravvivenza”, Roma, Ave, 1995, 289-316.

(18) Il più grave è quello di attribuire a Tommaso l’affermazione che in “Summa Gent.” III, 163 Dio “spinge […] ad agire effettivamente male. No comment” (p. 254 s). Il commento è invece necessario: Tommaso continua nel testo con le parole “reprobatio includit voluntatem permittendi aliquem cadere in culpam, et inferendi damnationis poenam pro culpa”.

(19) Segnaliamo in nota che la traduzione del p. Centi di “assimilamur” con “somiglianza” in “Summa contra Gentiles” III, 51 (p. 218) è corretta (l’italiano “assimilare” è frutto di evoluzione semantica); la frase citata (a p. 207) dal “Kleines Theologisches Wörterbuch” di Rahner e Vorgrimler (che non è proprio il massimo che si possa citare in tema di escatologia) alla voce “Himmel”, per cui il cielo non sarebbe un luogo, è avulsa dal contesto, per cui, rileggendo tutta la voce, viene corretta nel senso tradizionale.

(20) Basta ricordare la seguente sentenza: “Il biblicismo è una pericolosa malattia, è la paralisi dello spirito” (p. 279). Già prima Mancuso aveva informato il lettore che, tra i 73 libri biblici, “ve ne sono di banali [...]; alcuni sono capolavori assoluti, mentre altri presentano pagine persino dannose al progresso spirituale delle anime verso la via del bene e della giustizia” (p. 104 s).

(21) Questa è ben formalizzata e più solida di quanto forse l’Autore si immagina: si veda anche soltanto il chiarissimo piccolo capolavoro del Bochenski, uno dei maggiori storici della logica del Novecento, dal titolo “The Logic of Religion” (New York, 1965) e il “Method in Theology” di B. Lonergan.

L’articolo di Mancuso per “Il Foglio” e la risposta di Giuliano Ferrara sono consultabili qui

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Pubblicato da Raffaella

La ragione vince, rifare la Chiesa

Da “il Foglio” di martedì 22 gennaio 2008. Con, a seguire, la replica di Giuliano Ferrara

di Vito Mancuso

Il discorso che Benedetto XVI non ha potuto pronunciare alla Sapienza ha condotto nuovamente alla ribalta il tema della ragione, già definito nella “Spe salvi” “il grande dono di Dio all’uomo”. Questo mio articolo intende riflettere sulla situazione attuale del rapporto fede-ragione considerando le cose dall’interno della chiesa. La mia tesi è che oggi il mondo cattolico, rimasto orfano di una filosofia su cui basare la propria visione del mondo a causa della demolizione della tradizione metafisica, è alla ricerca soprattutto della forza della ragione, ma tale forza potrà dare frutto solo alla precisa condizione che la ragione (teologicamente considerata) regni anche all’interno della chiesa, il che, sostengo, non sempre avviene.

Prendo spunto dalla campagna antiabortista di questo giornale (alla quale, in quanto battaglia culturale, aderisco con convinzione e gratitudine). Io ritengo che la causa principale del suo successo consista nel fatto che chi l’ha inventata e la conduce, Giuliano Ferrara, sia laico, anzi, come dice egli stesso, ateo, e che quindi risulti parlare sulla base della sola ragione. Ciò gli consente di ottenere il più ampio consenso, essendo ascoltato dai credenti quanto al contenuto, e non rifiutabile a priori dai non credenti con la motivazione che le sue parole provengono da una sfera per loro irrazionale quale la fede.

Questo è un segno, a mio avviso, della debolezza teoretica della fede ai nostri giorni. Per secoli le argomentazioni condotte a partire dalla fede erano vere a priori, accettate senza discutere. Oggi avviene il contrario: le argomentazioni a partire dalla fede sono opinabili a priori, senza fondamento stabile, pura soggettività, gusto personale.

Lo avvertono anche i credenti, ed è questo il motivo per cui Ferrara ottiene tanta attenzione presso di loro, soprattutto presso i più attenti all’ortodossia e all’ortoprassi. Di esempi ce ne sono altri, primo tra tutti il fatto che per elogiare al massimo il discorso del Papa alla Sapienza questo giornale l’abbia definito nel titolo di prima pagina del 17 gennaio “galileiano”, con tanto di foto del Papa che guarda con simpatia alla sua sinistra dove era posto un ritratto di Galileo, col risultato di presentare il Papa che sorride a Galileo.

Anche il Foglio sente che per dare il massimo dell’autorevolezza veritativa alle parole papali oggi occorre appoggiarsi alla ragione, in particolare alla ragione scientifica. Un altro esempio è dato dal fatto che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI per pubblicare i loro libri più importanti scelgono editrici laiche quali Mondadori e Rizzoli, e non editrici cattoliche. Perché lo fanno?

Tutti sanno che si tratta di editrici che non esitano a pubblicare libri come “Il codice Da Vinci” di Dan Brown, “L’illusione di Dio” di Richard Dawkins e altri titoli poco amichevoli verso la fede, ed è normale che lo facciano essendo aziende che perseguono solo il business, non l’evangelizzazione. Ma perché i papi, che perseguono l’evangelizzazione e non il business, le preferiscono a scapito delle editrici cattoliche?

Non è per un motivo distributivo, perché tra le editrici cattoliche ve ne sono di grandi che potrebbero benissimo ottenere lo stesso risultato distributivo di Mondadori e Rizzoli. Il vero motivo delle scelte papali è un altro: è la maggiore forza culturale che i libri ottengono se pubblicati da editrici laiche. Un libro di religione pubblicato da un’editrice religiosa è molto meno forte dello stesso identico libro pubblicato da un’editrice laica. Perché?

Perché oggi la ragione è più forte della fede. Il discorso vale allo stesso modo per le interviste e gli articoli. Pubblicati dalla stampa cattolica assumono, anche agli occhi degli stessi cattolici, meno efficacia rispetto a quando compaiono sulla stampa laica. Avvenire non avrebbe mai potuto orchestrare con lo stesso successo la campagna del Foglio contro l’aborto. Perché? Perché oggi la ragione è più forte della fede.

Il cardinal Ruini dieci anni fa ha lanciato il cosiddetto Progetto culturale della chiesa italiana. Frutti? In poche settimane il Foglio ha ottenuto di più. È la dimostrazione della maggiore forza di chi può parlare a partire dalla sola ragione. Si tratta di una forza che attrae e convince prima di tutto gli stessi credenti, i quali avvertono oggi più che mai un bisogno profondo di vedere le loro convinzioni di fede rafforzate e garantite dalla ragione. In ordine alla condanna dell’aborto valgono di più mediaticamente le poche righe di Norberto Bobbio che centinaia di discorsi papali. La ragione oggi è più forte della fede.

La coscienza credente avverte oggi il bisogno di poter sussistere di fronte alla scienza e alla filosofia, di poter cioè risultare razionalmente fondata. E questo per un semplice motivo: perché ormai da secoli, dal tempo di Galileo, si viene a sapere com’è fatto il mondo non più dalla Bibbia e dalla dogmatica della chiesa, ma dalla scienza e dalla filosofia. Ai credenti si impone così il compito di conciliare ciò che del mondo dice la fede, con ciò che il mondo dice di se stesso. Questo, esattamente questo, è il punto.

Ma tale conciliazione è un lavoro della ragione, ed è per questo che la ragione oggi è più forte della fede. Laddove infatti emerge un’inconciliabilità tra ciò che sostiene la ragione e ciò che sostiene la fede, è quest’ultima, la fede (intesa come fides quae) a cedere e uniformarsi. O lo fa subito spontaneamente, oppure, come purtroppo il più delle volte è avvenuto, lo fa quando è costretta dalla forza delle cose, dalla forza della ragione, la forza della verità.

Questa maggiore forza della ragione rispetto alla fede non è però qualcosa di cui il cattolicesimo si debba preoccupare. Ha scritto Joseph Ratzinger quand’era cardinale: “Nell’alfabeto della fede, al posto d’onore è l’affermazione ‘In principio era il Logos’. La fede ci attesta che il fondamento di tutte le cose è l’eterna Ragione”.

Parole straordinarie. Per il cattolicesimo, la cui anima teoretica si chiama analogia entis, la ragione è più di un’alleata: è lo strumento privilegiato del rapporto con Dio. La fede ha senso solo come estensione della forza della ragione, mai come contrapposizione. A differenza del protestantesimo, il cattolicesimo ritiene vitale l’esercizio della pura ragione. La differenza di fondo tra le due confessioni cristiane è proprio qui, tutte le altre ne sono una conseguenza.

Ha scritto il più influente teologo protestante del ’900, Karl Barth: “Io ritengo l’analogia entis un’invenzione dell’Anticristo e penso che è a motivo di ciò che uno non può diventare cattolico. Al che mi permetto di aggiungere che tutte le altre ragioni che si possono addurre per non farsi cattolico mi sembrano puerili e di nessun peso”.

Accettare l’analogia entis significa ritenere che tra Dio e Uomo vi sia comunanza ontologica, e quindi che la ragione dell’uomo possa da sé giungere a Dio, alla giustizia, al vero, al bene. Al contrario rifiutare l’analogia entis significa ritenere che tra Dio e Uomo non vi sia nessuna comunanza ontologica, che Dio sia il totalmente Altro, e che quindi l’esercizio autonomo della ragione sia del tutto inutile per la fede.

Per il protestantesimo la ragione è utile alla fede solo se è esercitata all’interno della fede e da essa guidata; il cattolicesimo invece attribuisce grande importanza al lavoro autonomo della ragione. È questo il motivo per cui l’ellenizzazione del cristianesimo per i protestanti è deleteria, mentre per i cattolici positiva (si vedano le parole di Benedetto XVI a Ratisbona al riguardo).

Ma il punto è che se si accetta la ragione, la si deve accettare fino in fondo. Non si può prenderla come guida fino a quando i conti tornano, e poi, quando ci si accorge che iniziano a non tornare, abbandonarla. La ragione non ci sta a questa strumentalizzazione, non è una serva che si può congedare a piacimento.

O le si dà sempre il primo posto facendola regnare, o la si mette sempre in secondo piano riducendola a strumento. Non si può prima fare una cosa, poi l’altra.

O si accetta il suo principio (che è il Logos) estendendolo all’intero, oppure non si può dire di parlare nel suo nome.

O tutto o niente, è questo il comportamento che la ragione impone. Non è possibile l’equilibrismo di fides et ratio, il primato o è della fides o è della ratio.

Assegnare il primato alla ragione, come l’assegna Ratzinger col dire che il posto d’onore della fede cristiana spetta al Logos, significa impegnarsi a condurre il discorso teologico “sempre” all’insegna della ragione, la quale ovviamente deve essere teologicamente configurata (concetto su cui mi soffermerò nell’ultima parte dell’articolo).

A me sembra però che questo primato del Logos nella nostra chiesa non venga sempre rispettato. Faccio alcuni esempi, prima di ambito specificamente dottrinale, poi di prassi ecclesiale, infine di dottrina morale con specifico riferimento al tema dell’aborto. Inizio dalla dottrina.

Com’è possibile fare del Logos il criterio decisivo con cui considerare la natura, e poi sostenere al contempo la creazione ex nihilo, quando oggi si sa che l’energia non si crea né si distrugge ma solo si trasforma (primo principio della termodinamica)? Come si può sostenere il divino logos creativo, e insieme proclamare la dottrina del peccato originale che, a causa del primo uomo, grava su ogni bambino che viene al mondo?

Come si può abolire il Limbo, com’è avvenuto con il documento della Commissione Teologica Internazionale dell’aprile 2007, e non rivedere radicalmente la dottrina del peccato originale che ne è la causa?

Potrei fare altri esempi, ma ciò che voglio dire è che senza una chiarificazione logica all’interno della dottrina le parole di esaltazione del Logos spesso pronunciate da Papa Benedetto risultano poco credibili alle più avvertite coscienze contemporanee. Voglio dire che la battaglia a favore del Logos non si combatte solo al di fuori della chiesa, ma anche al nostro interno. Prima di guardare la pagliuzza negli occhi degli altri, osserviamo la trave nei nostri.

Anche a livello di prassi ecclesiale siamo abbastanza distanti dal porre il Logos quale principio del comportamento. Nella stampa cattolica ufficiale i contrasti sono assopiti, le opinioni divergenti oscurate, il pluralismo negato. Qualcuno forse si ricorderà come venne trattato l’intervento del cardinal Martini insieme a Ignazio Marino sui temi della bioetica pubblicato dall’Espresso nell’aprile 2006.

Che cosa vietava al cardinal Ruini o a qualcun altro di pubblicare in risposta un pezzo altrettanto ampio e argomentato? Questo libero e ragionevole contraddittorio però non avvenne, al contrario apparve un senso di tradimento, volti scuri, labbra strette, persino parole pesanti da parte di un collega del Sacro Collegio che paragonò le idee di Martini ai profilattici (dimenticando, tra l’altro, il beneficio che l’umanità trae dai profilattici).

Mi chiedo perché, nella chiesa che intende rifarsi al Logos, si sia incapaci di discutere logicamente, in modo pubblico, sereno, responsabile.

Mi chiedo perché chi la pensa diversamente sia subito tacciato di eresia e considerato con paura e con sospetto.

Mi chiedo perché il dissenso, anche quando è condotto in modo equilibrato e da personalità autorevoli, venga sempre visto come tradimento.

Nel discorso preparato per La Sapienza il Papa dice che l’università “deve essere legata esclusivamente all’autorità della verità”: a me sembra che troppo spesso la mia chiesa sia legata esclusivamente alla verità dell’autorità (però sono fiducioso, perché la beatificazione di Rosmini ha segnato un fondamentale punto di non ritorno per lo statuto del pensare all’interno della chiesa).

Giungo infine al tema dell’aborto. Io penso che, se davvero si vuole contribuire a evitare l’aborto, una revisione della dottrina della contraccezione si imponga. È un’evidenza elementare, ognuno lo vede da sé. “Fate l’amore, non l’aborto” è un ottimo slogan, che però può essere assunto responsabilmente dalla coscienza (credente o no, poco importa, visto che l’amore lo fanno tutti e presumo allo stesso modo) solo a patto di considerare le conseguenze del fare l’amore, che talora sono anche gravidanze non volute.

Visto che ne va della soppressione di innocenti, proprio per evitare la tragedia dell’aborto occorre guardare in faccia la realtà per quello che è, non per quello che si vorrebbe che fosse, e la realtà è che i rapporti sessuali sono praticati largamente al di fuori del matrimonio e a partire da giovanissima età. Favorire una protezione di tali rapporti per evitare gravidanze indesiderate e quindi aborti, come pure per contrastare il diffondersi dell’Aids, è un dovere morale di ogni persona responsabile. Esattamente come lo è combattere l’aborto. Anzi, l’aborto si combatte (anche) non ostacolando la contraccezione.

Ma la dottrina morale della chiesa condanna la contraccezione. Occorre chiedersi perché lo fa, e andare a verificare se si tratta di motivazioni razionalmente fondate. A mio avviso tale dottrina si basa su due pilastri oggi entrambi superati. Il primo è la superata concezione biologica secondo cui la vita umana era presente nel seme maschile, la cui dispersione quindi non poteva che apparire come soppressione della vita.

Quando però nel 1879 il biologo svizzero Hermann Fol osservò sperimentalmente la penetrazione dello spermatozoo nell’ovulo, si stabilì la formazione di un organismo autonomo a partire da quel momento e divenne chiaro che la vita umana non è contenuta già nel seme paterno ma scaturisce solo dall’unione di questo con il seme materno.

Alla luce di ciò anche la dottrina sulla contraccezione avrebbe dovuto essere rivista radicalmente, perché tutte le fonti dottrinali (bibliche, patristiche, scolastiche, magisteriali) si basavano su quella superata visione biologica. Purtroppo non è stato così.

Il secondo pilastro su cui si regge la condanna della contraccezione consiste nella concezione negativa della sessualità, fino a poco tempo fa ritenuta intrinsecamente corrotta a causa dell’inevitabile libido (chiamata dalla tradizione “concupiscenza”), e considerata come realtà positiva solo in funzione della generazione dei figli all’insegna del “non lo fo per piacer mio, ma per dare figli a Dio”.

Anche questa concezione non è sostenuta più nella chiesa, ora è riconosciuto il valore in sé positivo dell’unione coniugale, è finalmente passato l’insegnamento del Cantico dei cantici.

Ho elencato motivi dogmatici, morali e di prassi ecclesiale che mostrano la disattenzione della chiesa al suo interno verso quel primato del Logos che la stessa chiesa propone al mondo di riconoscere. A mio avviso occorrerebbe un comportamento più coerente.

È infine decisivo sottolineare, soprattutto in questo paese dove possono avvenire fatti incredibili come l’intolleranza laicista di qualche giorno fa alla Sapienza, che assegnare il primato alla ragione non comporta in nessun modo rinunciare alla teologia e alla spiritualità.

La mentalità odierna lavora per lo più con una parziale accezione di ragione, considerata unicamente come una facoltà del soggetto. La razionalità così è ridotta a razionalismo, cioè a quella ristrettezza mentale che equipara la razionalità alla verifica sperimentale del soggetto.

La visione classica, alla quale io aderisco, è un’altra. Essa sostiene che se nell’uomo c’è la ragione, lo si deve al fatto che in lui si rispecchia una razionalità più ampia, origine della stessa ragione del singolo uomo. Il logos dell’uomo è la manifestazione di un più complessivo Logos cosmico, creativo e ordinatore, che informa e sostiene l’essere-energia.

Così ritenevano pensatori, pur tanto diversi tra loro, come Pitagora, Platone, Aristotele, gli Stoici, Plotino, e, nell’epoca moderna, Giordano Bruno, Spinoza, Goethe, Hegel, Hölderlin, Schelling. Così ritengono tutte le grandi tradizioni spirituali dell’umanità.

Il Logos preesiste all’uomo, il quale lo deve solo riconoscere e attuare dentro di sé, e quanto più lo attuerà, tanto più la sua vita sarà logica, armoniosa, relazionale. Non deve essere la logica del mondo a restringersi per entrare nella piccola mente dell’uomo (razionalismo); deve essere la piccola mente dell’uomo a dilatarsi per ospitare la logica del mondo (razionalità).

La teologia non è altro che lo studio colmo di amore e di meraviglia di questo Logos eterno, creatore e ordinatore del mondo. Lo si può studiare per via storica, come fa per lo più la teologia cristiana, e lo si può studiare per via speculativa, come fa la grande filosofia, ma il risultato non può che essere identico. Ha scritto Tommaso d’Aquino: “Le cose che si accettano per fede sulla base della rivelazione divina non possono essere contrarie alla conoscenza naturale”. È per questo che la frase che apre il Quarto Vangelo, “in principio era il logos”, sta al posto d’onore nell’alfabeto cristiano. Ma occorre obbedirle davvero, a partire da casa nostra.

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Ma la vittoria della ragione è solo nell’aver trovato il suo limite ai confini della fede

di Giuliano Ferrara

giulianoferraraIl teologo Vito Mancuso ci onora della sua collaborazione.

Qualche lettore obietta in nome della tutela dell’ortodossia cattolica di fronte a un progetto di rifondazione della fede che è il sostrato esplicito del lavoro di Mancuso, docente laico di teologia ed eccellente e chiaro scrittore.

L’obiezione non è pertinente. Un giornale libero ricerca il contatto con chi ha un pensiero diverso da quello del suo direttore e di alcuni suoi collaboratori. Lo fa senza perdere la capacità di svolgere in autonomia il proprio discorso, con l’aiuto dei tanti che lo suffragano del loro talento, anche i molti che non la pensano come Mancuso.

Lo fa o cerca di farlo con naturalezza, senza esibire consenso e dissenso, che sono la pasta quotidiana di cui è fatto un foglio impegnato e responsabile nel campo delle idee, come rarità preziose o fiori all’occhiello. I lettori di questo foglio sono disincantati e tutti a loro modo credenti, nel senso che amano una ragione ricca e non un razionalismo povero, e sanno benissimo fare da soli le loro distinzioni.

Se intervengo per replicare all’articolo di ieri di Vito Mancuso è perché interpella direttamente le quattro cose di cui mi sono e ci siamo occupati in questo giornale da qualche anno, con ritmo sempre crescente. Prima di arrivare all’aborto e alla contraccezione, che sono l’esemplificazione scelta dal professor Mancuso per rendere più chiaro il suo ragionamento in generale su ragione e fede oggi, affronto direttamente la questione centrale da lui posta. Semplificando, naturalmente.

Secondo Mancuso la ragione ha vinto al punto tale che oggi certe idee sulla necessità di una vita buona sono credibili solo se affermate da non credenti e da laici e in nome della sola ragione. Mi permetto di dissentire, e non per gentilezza verso la chiesa, che non ha bisogno delle mie cortesie, ma per rispetto della verità effettuale della cosa.

Non nego di avere accumulato nella mia formazione razionale, prima e al di fuori di un contatto con il problema della fede, l’energia per sostenere quanto sostengo quando parlo di vita e morte, di biotecnologie, di comportamenti sociali del mio tempo, di etica e politica e diritto.

Ma se non ci fosse la chiesa, se non fossero successe alcune cose nel mondo, e tra queste principalmente la nuova koinè o cultura diffusa instaurata da lunghi anni di predicazione papale, da Paolo VI a Giovanni Paolo II a Benedetto XVI, più l’incalzante offensiva culturale dei vescovi italiani, io non esisterei come banditore delle cosuzze in cui credo, quel che penso resterebbe una piccola testimonianza personale impotente, e forse non penserei quel che penso così come lo penso.

Vittorio Messori ha detto di recente, segnalando la sua diffidenza verso il senso ultimo delle mie battaglie: su queste cose decide il vangelo, non la ragione degli uomini, sebbene lo spirito possa parlare attraverso la bocca di chiunque dica una cosa giusta, e da una prospettiva di fede cattolica ha indubbiamente qualche ragione.

Gianni Baget Bozzo, il mio amato don Gianni, ha detto il contrario: l’appello di coscienza contro l’aborto, che distingue la questione etica da quella della legalità di un comportamento pubblico, è un modo profondamente cristiano ed evangelico di intendere la cosa, e anche lui ha forse la sua ragione.

Ora Mancuso dice una terza cosa, chiudendola in un paradosso. Dice che il mio appello razionale è radicalmente indipendente dalla fede e indica imperativamente la necessità che il senso di ragione di cui è portatore il magistero cattolico di questi anni faccia fino in fondo i conti con le conseguenze di quel che insegna, rifondando razionalisticamente e in un certo senso risantificando la fede biblica, che non ha più un contenuto autonomo e parlante per il mondo moderno, alla luce del trionfo della ragione.

Io non sono d’accordo con il professor Mancuso, che ha il pieno diritto di pensarla così in generale, ma sbaglia, secondo me, nell’usare come esemplificazione il mio modo di argomentare razionalmente scelte alle quali si arriverebbe (a suo giudizio) con più fatica in una prospettiva di fede tradizionale. E credo di poter dimostrare la mia piccola parte di verità in modo molto semplice.

In un certo senso la ragione ha avuto il suo trionfo. Che non è però un trionfo della ragione sperimentale o storicistica, di Galileo o di Vico come funghi intellettuali spuntati nella radura o come rotture epistemologiche rispetto a un passato contaminato dalla fede, ma un più complesso trionfo della ragione come logos, e come logos cristiano.

Noi siamo figli della storia dell’incarnazione, che è superiore alla storia come storia della ragione perché comprende la necessità logica e caritativa della speranza. E dominiamo la natura, leggendola e modificandola fino a un punto critico di cui siamo chiamati a discutere con sapienza ed amore, perché a monte di Galileo e di Newton, di Heisenberg e di Feyerabend, c’è non solo l’analogia entis di san Tommaso ma tutto il pensiero patristico fondato sull’immediata decrittazione dei vangeli, e poi quello di sant’Agostino, di Anselmo, di Bonaventura e di molti altri censiti per esempio nello “sviluppo della dottrina cristiana” del cardinale Newman.

Senza Cristo, niente storia.

Senza Cristo e i cristiani, niente filosofia moderna e niente scienza moderna.

Io penso quindi che la ragione ha avuto il suo trionfo nel senso che ha trovato il suo limite o si è messa a cercarlo con fervore e accanimento, e solo in questo senso. Se il cardinale Ratzinger poteva parlare di illuminismo cristiano, discutendo l’Europa e le sue culture, e se ha potuto fare della “dittatura del relativismo” l’idolo polemico di una delle più straordinarie omelie dell’ultimo secolo, questo dipende da un risveglio della fede, che è necessariamente anche fede biblica e, per i cristiani, compattezza liturgica intorno all’adorazione eucaristica.

Insomma, caro professor Mancuso, Atene trova il suo limite in Gerusalemme. La modernità, come diceva Leo Strauss, è divenuta un problema. E se di rifondazione vogliamo parlare, credo che sia la fede ad avere intrapreso un cammino di rifondazione della ragione, non l’opposto come lei sostiene.

Arrivo brevemente all’esempio intorno al quale lei argomenta, derivandolo dalla questione riaperta dell’aborto sulla quale lei concorda, e ne sono felice. Lei dice che la chiesa dovrebbe tirare le somme dell’impatto razionale che ha il suo magistero, di cui la campagna laica sull’aborto sarebbe una significativa conseguenza o una rivelatrice testimonianza d’accompagno. E che dovrebbe farlo rivedendo la sua dottrina contraria alle pratiche anticoncezionali.

A questo punto dovremmo trovarci in teoria d’accordo: se la base è razionale, viva la faccia dell’argomento dimostrativo il quale afferma che per scongiurare l’aborto moralmente indifferente occorre assecondare la propensione a fare l’amore con il profilattico o impillolandosi il giorno prima e il giorno dopo. Invece, come lei sa, non siamo affatto d’accordo.

Io sono contrario alla stupida bandiera ideologica del profilattico (contrario, non legalmente abolizionista), che pure considero un male minore rispetto all’aborto come pratica contraccettiva, e lo sono per le stesse ragioni per cui credo che, fatta salva la tutela delle donne dalla minaccia dell’aborto clandestino, occorre rovesciare la mentalità e il diritto contemporanei e bandire la pratica dell’aborto dai nostri principi e dalle nostre povere coscienze.

Forse, in nome del minor danno, in futuro la chiesa dirà di sì alla sua richiesta, ma anche in quel caso mi riserverei il diritto razionale di pensare e di dire che l’amore contraccettivo è la sanzione dell’irresponsabilità personale, il fallimento della compiutezza e significatività dell’amore, un cedimento irrazionale a un’identità umana amputata del suo senso del bene.

Non perché il seme maschile non deve essere disperso, argomento di un positivismo povero, che infatti in modo grottesco minacciava cecità in conseguenza della masturbazione, bensì per altre ragioni, tipicamente inerenti al senso unitivo e di reciprocità dell’atto d’amore.

Può essere che in questo la mia razionalità sia troppo severa, e molto fuori del tempo, anzi è certamente così. Ma è nondimeno razionalità, è rifiuto dell’animalesco e del naturalistico che è penetrato nella cultura moderna. È rifiuto dell’idea corriva che tutto sia possibile al mondo, tranne la continenza quando non si sia disponibili a fare l’amore conoscendo il senso dell’amore, cioè il rischio e la libertà di generare figli in un atto d’unione che ha anche l’alto e nobile orizzonte del piacere, ma non se programmaticamente separato da questo rischio liberamente e consapevolmente ingaggiato.

Un grande comico televisivo ha liberato l’umanità vogliosa che è in noi dal proprio limite, leggendo Dante e Agostino come gli è piaciuto; e citando l’Agostino peccatore ha chiesto la continenza, “ma non ora”.

Le sembrerà aridità razionale, lontananza da future possibili scelte del magistero o della dottrina sociale della chiesa, incapacità di un laico di rispondere alle sfide della modernità come dovrebbe fare la chiesa del Vaticano II, ma io non cambierò mai questa mia idea di ragione, fondata sulla sola ragione. Faccio l’amore, ora, e allora so di rischiare, so di essere nudo e non vestito di gomma. Non voglio rischiare, e allora prego che mi sia data la continenza: ora.

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> Il Foglio

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