L’Enciclica Fides et ratio ed il rapporto fra fede e ragione – Joseph Ratzinger
L’Enciclica Fides et ratio ed il rapporto fra fede e ragione
di Joseph Ratzinger
N.B. Il testo è la trascrizione dell’intervento di S.Em il card. Joseph Ratzinger all’incontro su “Fede e ricerca di Dio” tenuto il 17 novembre 1998 nella Basilica Lateranense, Cattedrale di Roma.
Per introdurci ai contenuti essenziali della Lettera Enciclica “Fides et ratio”, permettetemi di cominciare con una citazione presa dalle “Lettere di Berlicche” del noto scrittore e filosofo inglese C.S. Lewis. Si tratta di un piccolo libro pubblicato per la prima volta nel 1942, che mette in luce i problemi ed i pericoli dell’uomo moderno in modo spiritoso ed ironico sotto la forma di immaginarie lettere di un diavolo di grado più elevato, che ad un principiante nell’opera di seduzione dell’uomo trasmette istruzioni, su come egli debba comportarsi. I
l piccolo diavolo aveva espresso preoccupazioni al suo superiore per il fatto che proprio persone particolarmente intelligenti leggessero i libri della sapienza degli antichi ed in tal modo avrebbero potuto mettersi sulle tracce della verità. Berlicche lo tranquillizza ricordandogli che l’approccio storico, al quale fortunatamente gli studiosi del mondo occidentale sono stati convinti dagli spiriti infernali, significa appunto questo, “che l’unico problema, che con sicurezza non si porrà mai, è quello della verità di ciò che si è letto; ci si interrogherà invece su influssi e dipendenze, sullo sviluppo dello scrittore interessato, sulla storia degli effetti della sua opera e così via”.
Josef Pieper, che nel suo trattato sull’interpretazione ha ripreso questo brano di C.S. Lewis, ricorda al riguardo che le edizioni, ad esempio di Platone o di Dante, stampate nei paesi dominati dal comunismo facevano precedere sistematicamente alle opere stampate un’introduzione, che aveva l’intenzione di comunicare al lettore una comprensione “storica” e cosi escludere la questione della verità. Una scientificità esercitata in tal modo diviene un’immunizzazione nei confronti della verità.
La domanda se e quanto ciò che l’autore esprime sia vero, sarebbe una domanda non scientifica; condurrebbe anzi fuori dall’ambito del documentabile e del dimostrabile, facendo ricadere nell’ingenuità del mondo pre-critico. In tal modo viene neutralizzata anche la lettura della Bibbia: possiamo spiegare quando e in quali condizioni una frase ha avuto origine e l’abbiamo così incasellata nell’ambito storico, che ultimamente non ci riguarda.
Dietro questa forma di “interpretazione storica” sta una filosofia, un atteggiamento di fondo nei confronti della realtà, che ci dice: non ha senso interrogarsi su ciò che è; possiamo solo domandarci che cosa possiamo fare con le cose. Non è in questione la verità, ma la prassi, il dominio delle cose a nostra utilità. Nei confronti di una simile apparentemente illuminante limitazione del pensiero umano sorge naturalmente l’interrogativo: che cosa veramente ci è utile? e per quale fine ci è utile? per quale scopo noi stessi esistiamo?
A chi osserva con attenzione si manifesta in questo atteggiamento moderno contemporaneamente una falsa umiltà ed una falsa presunzione: la falsa umiltà, che non riconosce all’uomo la capacità di verità, e la falsa presunzione, con la quale egli si colloca al di sopra delle cose, al di sopra della verità stessa, in quanto eleva a fine di tutto il suo pensiero l’ampliamento del suo potere, il dominio sulle cose.
Sullo sfondo di questo orientamento generale del pensiero moderno si comprende meglio l’intenzione dell’Enciclica, il suo significato per il momento storico attuale: Essa vuole restituire all’uomo il coraggio della verità, incoraggiare nuovamente la ragione all’avventura della ricerca della verità. A questo riguardo si veda quanto dice sul compito dell’interpretazione, proprio avendo presenti tutte le indicazioni di Berlicche: “L’interpretazione di questa Parola (della Parola di Dio) non può rimandarci soltanto da interpretazione a interpretazione, senza mai portarci ad attingere un’affermazione semplicemente vera”.
L’uomo non è rinchiuso nel gabinetto degli specchi delle interpretazioni; egli può e deve tentare di aprirsi un passaggio a ciò che è veramente reale; egli deve chiedersi chi egli è, e per fare questo, deve anche chiedersi se Dio esiste, chi è Dio e che cosa è il mondo. L’uomo, che non pone più queste domande, diventa privo di criteri e smarrito. Di fatto si sta diffondendo, ad esempio, la tesi secondo cui i diritti umani sarebbero un prodotto culturale del mondo giudaico-cristiano e si rivelerebbero incomprensibili e senza fondamenti al di fuori di esso.
Ma che avviene allora? Quando l’uomo non può più riconoscere criteri comuni che vadano al di là delle culture? Quando non gli appare più riconoscibile l’unità dell’essere umano? Non diviene allora inevitabile elevare barriere in cui rinchiudere razze, classi, nazioni?
L’uomo, che al di là di tutte le frontiere non può più riconoscere nell’altro la sua comune essenza, ha perduto la sua identità. Come uomo è in pericolo. Perciò la questione della verità, la filosofia nel suo senso classico ed originario non è un passatempo delle culture del benessere, che possono concedersi questo lusso, ma una questione di essere o non essere dell’uomo. E per questo il Papa invita con tanta decisione a rompere le barriere erette dall’eclettismo, dallo storicismo, dallo scientismo, dal pragmatismo, dal nichilismo ed anche a non abbandonarsi ad una forma di postmodernità, che sfocia in un decadente compiacimento nella stessa negatività, come rinuncia ad ogni senso e sceglie di accontentarsi del provvisorio e dell’effimero.
Chi pone il problema della verità, è oggi – come già accennato – necessariamente rimandato al problema delle culture e della loro reciproca apertura. Alla pretesa di universalità del cristianesimo, che si fonda sull’universalità della verità, si contrappone oggi facilmente la relatività delle culture. Praticamente la missione cristiana non avrebbe diffuso la verità concernente tutti gli uomini allo stesso modo, ma avrebbe sottomesso le altre culture alla propria cultura europea e così distrutto la ricchezza delle culture sviluppate dai singoli popoli. La missione appare così come uno dei grandi peccati dell’Europa, come la forma originaria di colonialismo, e quindi praticamente di alienazione culturale degli altri popoli.
Che nella storia delle missioni si siano commessi degli errori, nessuno lo potrà contestare. Che la molteplicità culturale dell’umanità debba trovare spazio nella Chiesa come nella casa comune degli uomini, è oggi da tutti riconosciuto. Ma nella critica radicale della missione cristiana a partire dal punto di vista delle culture è in questione qualcosa di più profondo: ci si chiede se possa semplicemente esistere una comunione delle culture nella verità che le unisce; ci si chiede se la verità possa essere espressa per tutti gli uomini al di là delle sue configurazioni culturali o se ultimamente dietro la diversità delle culture si possa sempre solo presagire una verità in modo asintotico.
Il Papa ha dedicato a questo problema, a motivo della sua importanza, diversi paragrafi della sua Enciclica. Egli sottolinea che “le culture, quando sono profondamente radicate nell’umano, portano in sé la testimonianza dell’apertura tipica dell’uomo all’universale e alla trascendenza”. Perciò le culture come espressione dell’unica essenza dell’uomo sono caratterizzate dalla dinamica dell’uomo, che supera tutte le frontiere. Perciò le culture non sono fissate una volta per tutte su di una forma; ad esse appartiene la capacità di progredire e di trasformarsi, e certamente anche il pericolo del decadimento. Esse sono predisposte all’incontro e alla mutua fecondazione. P
oiché l’apertura interiore dell’uomo a Dio le plasma tanto più quanto più grandi e pure esse sono, per questo in esse è iscritta l’interiore apertura per la rivelazione di Dio. La rivelazione non è qualcosa di estraneo ad esse, ma risponde ad un’attesa interiore alle culture stesse. Theodor Häcker a questo riguardo ha parlato del carattere avventizio delle culture precristiane, e nel frattempo molte ricerche di storia delle religioni hanno potuto mostrare anche in modo molto evidente questo cammino delle culture verso il Logos di Dio, che in Gesù Cristo si è fatto carne.
Il Papa riprende in questo contesto la tavola dei popoli del racconto di Pentecoste degli Atti degli Apostoli (2, 7-11), che ci narra come la testimonianza resa a Gesù Cristo, superando la barriera di tutte le lingue, diviene percepibile in tutte le lingue, cioè in tutte le culture che si esprimono in una lingua.
In tutte queste culture la parola dell’uomo diviene portatrice della parola stessa di Dio, del suo proprio Logos. Dice l’Enciclica: “L’annuncio del Vangelo nelle diverse culture, mentre esige dai singoli destinatari l’adesione della fede, non impedisce loro di conservare una propria identità culturale. Ciò non crea divisione alcuna, perché il popolo dei battezzati si distingue per una universalità che sa accogliere ogni cultura…”.
Il Papa poi sviluppa, a partire dall’incontro con la cultura indiana, i principi fondamentali per il rapporto della fede cristiana con le culture precristiane. Egli richiama innanzitutto molto brevemente il grande slancio spirituale del pensiero indiano, che lotta per la libertà dello spirito dai condizionamenti spazio-temporali e così realizza in pratica la apertura metafisica dell’uomo, che poi ha anche ricevuto organica forma di pensiero in significativi sistemi filosofici.
Con questo richiamo si rende evidente la tendenza universalistica delle grandi culture, il loro superamento di spazio e tempo e così anche la loro capacità di penetrare nell’essere dell’uomo e nelle sue più alte possibilità. Qui trova il suo fondamento la capacità di dialogo reciproco delle culture, in questo caso fra la cultura indiana e le culture, che sono cresciute sul terreno della fede cristiana. Così dal profondo contatto con la cultura indiana emerge per così dire spontaneamente il primo criterio: esso consiste nell’“universalità dello spirito umano, le cui esigenze fondamentali si ritrovano identiche nelle culture più diverse”.
Di qui segue subito un secondo criterio: “quando la Chiesa entra in contatto con grandi culture precedentemente non ancora raggiunte, non può lasciarsi alle spalle ciò che ha acquisito dall’inculturazione nel pensiero greco-latino. Rifiutare una simile eredità sarebbe andare contro il disegno provvidenziale di Dio…”. Infine l’Enciclica nomina un terzo criterio, che deriva dalle riflessioni finora fatte sulla natura della cultura: ci si deve guardare dal “confondere la legittima rivendicazione della specificità e dell’originalità del pensiero indiano con l’idea che una tradizione culturale debba rinchiudersi nella sua differenza ed affermarsi nella sua opposizione alle altre tradizioni; ciò che sarebbe contrario alla natura stessa dello spirito umano”.
Quando il Papa insiste sull’irrinunciabilità dell’eredità culturale acquisita, che è divenuta un veicolo per la comune verità su Dio e sull’uomo stesso, si pone naturalmente la questione se in tal modo non viene canonizzato un eurocentrismo della fede, che non sembra neanche superato dal fatto che nella successiva storia della fede anche una nuova eredità possa entrare, e di fatto è entrata, nella permanente identità della fede che concerne tutti.
La domanda resta dunque inevitabile: quanto greca e quanto latina è in realtà la fede, che per altro non è sorta nel mondo greco e latino, ma in quello semitico del Medio Oriente, nel quale si sono da sempre incontrati e si incontrano Asia, Africa ed Europa. L’Enciclica prende posizione su questo problema soprattutto nel suo secondo capitolo sullo sviluppo del pensiero filosofico all’interno della Bibbia e nel quarto capitolo presentando l’incontro decisivo di questa sapienza della ragione cresciuta nella fede con la sapienza greca della filosofia. Al riguardo vorrei qui brevemente dire quanto segue:
Già nella Bibbia stessa viene rielaborato un patrimonio di pensiero religioso e filosofico pluralistico derivante da diversi mondi culturali. La Parola di Dio si sviluppa nel contesto di una serie di incontri con la ricerca dell’uomo di una risposta alle sue domande ultime. Non è caduta direttamente dal cielo, ma è propriamente una sintesi delle culture. Ad uno sguardo più profondo è però possibile individuare un processo, nel quale Dio lotta con l’uomo e lo apre lentamente alla sua parola più profonda, a se stesso: al Figlio, che è il Logos, La Bibbia non è semplicemente espressione della cultura del popolo di Israele, ma si trova costantemente in conflitto con la tendenza, del tutto naturale di questo popolo, ad essere semplicemente se stesso, a rinchiudersi nella sua propria cultura.
La fede in Dio ed il Sì alla volontà di Dio gli viene costantemente strappato contro le sue proprie concezioni e desideri. Si pone continuamente contro la religiosità propria di Israele e la propria cultura religiosa, che voleva esprimersi nel culto delle alture, nel culto della regina del cielo, nella ricerca di potere per il proprio regno. Cominciando dall’ira di Dio e di Mosè contro il culto del vitello d’oro al Sinai fino ai profeti del tardo postesilio si tratta sempre del fatto che Israele viene strappato alla sua propria identità culturale ed ai suoi desideri religiosi, che deve per così dire abbandonare il culto della propria nazionalità, il culto “del sangue e della terra”, per piegarsi al totalmente altro, al Dio che non gli appartiene, che ha creato il cielo e la terra ed è il Dio di tutti i popoli.
La fede di Israele significa un continuo autosuperamento della propria cultura per aprirsi ed entrare nella vastità della verità comune a tutti. I libri dell’Antico Testamento possono apparire sotto molti aspetti meno pii, meno poetici, meno ispirati che non significativi passi dei libri sacri di altri popoli. Ma la loro originalità risiede in questo carattere conflittuale della fede contro ciò che è proprio, in questo uscire da ciò che è proprio, che comincia con il pellegrinaggio di Abramo. La liberazione dalla legge, che Paolo raggiunge a partire dal suo incontro con Gesù Cristo risorto, porta questo orientamento di fondo dell’Antico Testamento al suo fine logico: esprime pienamente l’universalizzazione di questa fede, che viene liberata dalla particolarità di un ordinamento etnico. Ora tutti i popoli sono invitati ad entrare in questo processo di superamento della particolarità, che ha avuto inizio innanzitutto in Israele, a rivolgersi a quel Dio, che da parte sua si è oltrepassato in Gesù Cristo ed ha infranto il “muro dell’inimicizia” che era fra noi (Ef 2,14) e ci conduce l’uno verso l’altro nell’autospoliazione della croce. La fede in Gesù Cristo è pertanto di sua natura un continuo aprirsi, irruzione di Dio nel mondo umano e aprirsi dell’uomo in risposta a Dio, che nello stesso tempo conduce gli uomini l’uno verso l’altro. Tutto ciò che ci appartiene ora appartiene a tutti, e tutto ciò che è degli altri diviene allo stesso tempo anche nostro, questa totalità indicata dalla parola del Padre al figlio maggiore: “Tutto ciò che è mio è tuo” (Lc 15, 31), che ritorna nella preghiera sacerdotale di Gesù come parola del Figlio al Padre: “Tutto ciò che è mio è tuo, e tutto ciò che è tuo è mio” (Gv 17, 10).
Questo modello fondamentale determina anche l’incontro del messaggio cristiano con la cultura greca, che in realtà non ha inizio solo con la missione cristiana, ma si era sviluppata già all’interno delle Scritture dell’Antico Testamento, soprattutto attraverso la sua traduzione in greco e a partire da questa nel periodo del primo giudaismo. Questo incontro fu possibile, perché nel frattempo nel mondo greco si era fatto strada un simile processo di autosuperamento. I Padri non hanno semplicemente versato nel vangelo una cultura greca autonoma ed a se stante. Essi poterono riprendere il dialogo con la filosofia greca e renderla strumento del vangelo, dal momento che nel mondo greco alla ricerca di Dio si era messa in moto una autocritica della propria cultura e del proprio pensiero. La fede ha avvicinato i diversi popoli – cominciando con i Germani e gli Slavi, che vennero in contatto con il messaggio cristiano al tempo delle grandi migrazioni dei popoli, fino ai popoli dell’Asia, dell’Africa, dell’America – non alla cultura greca in quanto tale, ma al suo autosuperamento, che fu il vero punto di collegamento nell’utilizzazione del pensiero greco per l’interpretazione del messaggio cristiano. A partire da questa apertura la fede ha attirato la cultura greca sempre più in una dinamica dell’autosuperamento. Richard Schäffler recentemente ha detto al riguardo molto acutamente che la predicazione cristiana fin dall’inizio esige dai popoli dell’Europa (che per altro come tale non esisteva prima della missione cristiana), “l’abbandono… di ogni Dio autoctono degli Europei, molto prima che apparissero sulla scena le culture extraeuropee”. A partire di qui si può comprendere perché l’annuncio cristiano cercava un collegamento con le filosofie, e non con le religioni. Dove quest’ultimo collegamento fu tentato, dove ad esempio si volle interpretare Cristo come il vero Dioniso, Asclepio o Ercole, tali tentativi sono stati presto considerati come sorpassati. Non si è cercato un collegamento con le religioni, ma con le filosofie, per il fatto che non si è canonizzato una cultura, ma si è potuto penetrare al suo interno, in quanto essa aveva cominciato ad uscire da se stessa, si era messa in cammino per aprirsi alla verità a tutti comune ed aveva abbandonato dietro di sé la chiusura nella sua particolarità. Ciò è anche oggi un’indicazione fondamentale per il problema dei contatti e del trapasso al altri popoli e culture. Certamente la fede non può stringere legami con filosofie, che escludono la questione della verità, ma certamente lo può fare con quei movimenti, che cercano di uscire dalla prigione relativistica. Certamente essa non può riallacciarsi immediatamente alle antiche religioni: tali tentativi avvennero nel tempo del Cristianesimo nascente, laddove ad esempio i culti misterici diedero un nuovo contenuto alla venerazione degli antichi dei o anche correnti filosofiche interpretarono in modo nuovo l’antica dottrina sugli dei. Certamente tuttavia le religioni possono offrire forme e strutture, ma soprattutto atteggiamenti – il timore reverenziale, l’umiltà, la disponibilità al sacrificio, la bontà, l’amore del prossimo, la speranza nella vita eterna. Ciò mi sembra – sia detto di passaggio – essere importante anche per la questione del significato salvifico delle religioni. Esse sono salvifiche non per così dire in quanto sistemi chiusi e per la fedeltà dei loro aderenti al proprio sistema, ma esse contribuiscono alla salvezza, laddove conducono l’uomo, “a cercare il volto di Dio” (come si esprime l’Antico Testamento), “a cercare il regno di Dio e la sua giustizia”.
Permettetemi a conclusione di toccare brevemente ancora due importanti concetti dell’Enciclica. Vi è innanzitutto l’accenno alla “circolarità tra fede e filosofia”. L’Enciclica la intende nel senso che la teologia ha come punto di partenza sempre la Parola di Dio, ma poiché questa Parola è verità, la collocherà sempre in relazione con la ricerca umana della verità, con l’impegno della ragione per la verità e così nel dialogo con la filosofia. La ricerca della verità da parte del credente si realizza così in un movimento, nel quale ascolto della Parola divenuta storia e ricerca della ragione si incontrano continuamente. In tal modo da una parte la fede si approfondisce e si purifica, dall’altra però anche il pensiero riceve arricchimento, perché gli si dischiudono nuovi orizzonti. A me sembra che si potrebbe sviluppare ancora un poco questa idea della circolarità: anche la filosofia come tale non dovrebbe rinchiudersi nella sua particolarità e nel frutto delle sue riflessioni. Così come essa deve stare in ascolto delle scoperte empiriche, che maturano nelle diverse scienze, così dovrebbe anche prendere in considerazione la sacra tradizione delle religioni e soprattutto il messaggio della Bibbia come una fonte della conoscenza, dalla quale essa può essere fecondata. Di fatto non esiste nessuna grande filosofia, che non abbia ricevuto dalla tradizione religiosa illuminazioni ed indicazioni, se noi pensiamo alle filosofie della Grecia e dell’India o alla filosofia, che si è sviluppata all’interno del Cristianesimo o anche alle filosofie moderne, che erano convinte dell’autonomia della ragione e ritenevano questa autonomia della ragione come criterio ultimo del pensiero ma rimanevano nondimeno debitrici dei grandi temi del pensiero, che la fede biblica ha lungo il cammino offerto alla filosofia: Kant, Fichte, Hegel, Schelling non sarebbero pensabili senza gli apporti della fede, e lo stesso Marx, anche se nella sua radicale reinterpretazione, vive tuttavia pur sempre degli orizzonti della speranza, che aveva ripreso dalla tradizione ebraica. Laddove la filosofia spenga totalmente questo dialogo con il pensiero della fede, essa finisce – come Jaspers una volta bene ha espresso – in una “serietà vuota”. Alla fine essa si vede allora costretta a rinunciare alla questione della verità, cioè a rinunciare a se stessa. Infatti una filosofia, che non si interroga più su chi noi siamo, perché esistiamo, se sono realtà Dio e la vita eterna, come filosofia è finita.
Con queste considerazioni è connessa la seconda riflessione, che volevo ancora menzionare. L’Enciclica parla espressamente degli apporti della fede alla filosofia, dei compiti, che essa le pone con questi apporti. Menziona innanzitutto alcune scoperte ed alcuni concetti fondamentali, che il pensiero filosofico non può trascurare: il concetto del Dio personale e più in generale il concetto di “persona”, che solo nell’incontro tra fede e filosofia fu formulato. In questo contesto l’Enciclica rimanda al concetto di uomo come immagine di Dio, cioè alla antropologia relazionale della Bibbia, nella quale l’uomo viene concepito come essere in relazione ed a partire di qui, dalla condizione relazionale dell’uomo, diviene visibile poi anche quel Dio che in esso è rappresentato. A ciò si aggiunge come ulteriore concetto fondamentale il concetto di peccato e di colpa; segue il concetto dell’uguaglianza e della libertà degli uomini così come l’idea di una filosofia della storia. A partire di qui il Papa formula poi tre postulati della fede alla filosofia: essa deve ritrovare la dimensione sapienziale di ricerca del senso ultimo e globale della vita; inoltre il Sì alla capacità di verità dell’uomo, da cui consegue poi, come terza, l’esigenza di una filosofia di portata autenticamente metafisica. Ciò significa a sua volta che il pensiero umano non può arrestarsi al fenomeno, ma deve raggiungere al di là delle apparenze l’essere stesso, deve passare dal “fenomeno al fondamento”. Oggi l’impossibilità di andare al di là del fenomeno, dell’aspetto delle cose che ci appare, è divenuto addirittura un dogma. Ma non è forse l’uomo in realtà amputato nel suo essere più profondo, se si arresta solo alle apparenze e non conduce quindi egli stesso ultimamente una vita solo apparente? In questo punto delicato del pensiero odierno si tocca direttamente il cuore del messaggio evangelico. Per il vangelo di Giovanni nella decisione di fede cristiana si tratta proprio di questo, che l’uomo non si pieghi alle apparenze e così non eriga l’apparenza a realtà ultima, ma che al di là delle apparenze ricerchi la gloria di Dio, cioè lo splendore luminoso della verità e ad essa si rivolga. La dittatura dell’apparenza può oggi essere chiaramente osservata su due piani: per l’azione politica, per l’agire pubblico in generale spesso oggi conta ciò che al di là dei fatti “appare”, viene detto, scritto e mostrato, più che i fatti stessi. L’opinione, che viene diffusa, è più importante di quel che in realtà è avvenuto. Nei confronti del messaggio biblico la cosiddetta immagine moderna del mondo diviene – ad esempio in Bultmann – il vero criterio di giudizio, che decide di ciò che può essere e non può essere, sebbene per altro questa immagine del mondo, se è interpretata correttamente, non intenda affatto decidere sull’essere, sul reale, sul possibile e sull’impossibile, ma rileva i determinismi dei fenomeni che ci appaiono, niente di più. Il Papa sottolinea in questo contesto giustamente i limiti del concetto di “esperienza”, che oggi – coerentemente con la dominante limitazione alle apparenze – viene spesso innalzato anche nella teologia a criterio ultimo. L’Enciclica al riguardo dice: “La Parola di Dio fa continui riferimenti a ciò che oltrepassa l’esperienza”. Essa può fare questo, perché l’uomo non è limitato al mondo delle apparenze, dell’esperienza soggettiva. Di fatto la riduzione all’esperienza doveva avere come conseguenza il fissare l’uomo sulla realtà soggettiva. La rivelazione è più di un’esperienza, ma proprio così ci dona un’esperienza di Dio e ci aiuta a mettere insieme le nostre esperienze, ad ordinarle correttamente, a comprenderle nel discernimento degli spiriti criticamente e positivamente ed a comunicarle. Io penso che nell’attuale dibattito filosofico e teologico proprio questi brani dell’Enciclica debbano provocare ulteriori riflessioni ed interrogativi e così potranno divenire una valida fecondazione della ricerca culturale di questo nostro tempo.
Vorrei concludere rinviando ad un commento all’Enciclica, che è apparso nel settimanale tedesco “Die Zeit” di solito piuttosto lontano dalla Chiesa. Il commentatore, Jan Ross, coglie con grande esattezza il cuore della lettera papale, quando dice che la detronizzazione della teologia e della metafisica ha “reso il pensiero non solo più libero, ma anche più ristretto”, anzi, egli non ha timore di parlare di “istupidimento per mancanza della fede” (“Verdummung durch Unglaube”). “Dal momento che la ragione si è allontanata dalle questioni ultime, si è resa indifferente e noiosa, è divenuta incompetente per le questioni vitali del bene e del male, della morte e dell’immortalità”. La voce del Papa “ha dato coraggio a molti uomini e ad interi popoli, per molti è anche risuonata all’orecchio in modo duro e tagliente ed ha perfino suscitato odio, ma se essa tace, sarà un attimo di silenzio terribile”. Di fatto se non si parla più di Dio e dell’uomo, di peccato e di grazia, di morte e di vita eterna, allora le tante parole, che sentiamo ininterrottamente, saranno solo un vano tentativo di coprire l’ammutolire di ciò che è autenticamente umano. Il Papa ha inteso contrastare il pericolo di un tale silenzio con la sua “parresia”, con la franchezza impavida della fede, e compie così un servizio non solo per la Chiesa, ma anche per l’umanità. Per questo dobbiamo essergli grati.
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