SAN BENEDETTO MENNI profeta dell’ospitalità – Manuel Iglesias S.J.
SAN BENEDETTO MENNI - L’uomo e il santo
Di MANUEL IGLESIAS, S. J.
Chi è Benedetto Menni?
Nella cittadina di Ciempozuelos, distante trentadue km da Madrid, riposano i resti mortali di un italiano, deceduto nel 1914 nel nord della Francia. Chi era? Un avventuriero in giro per l’Europa? Un esiliato politico? Un commerciante? Una spia internazionale? No, anche se le qualità che aveva e le circostanze in cui visse gli avrebbero consentito di essere tutto questo ed altro ancora! Lui stesso si definì in questi termini alla fine della sua vita: “Sono un miserabile, degno soltanto di disprezzo; meriterei che mi buttassero nel mondezzaio!” Ma anche i santi sbagliano! Il sepolcro di questo uomo “degno di disprezzo” riceve oggi grande venerazione, avendolo il Papa Giovanni Paolo II dapprima dichiarato beato nel 1985 e poi nel 1999 deciso di proclamarlo santo durante un’apposita cerimonia nella Basilica Vaticana in occasione della festa di Cristo Re. Nonostante egli si ritenesse un “grande peccatore, uno straccione di Cristo”, ora dunque la Chiesa ci invita ufficialmente ad invocarlo come SanBenedetto Menni. Più in alto non si può salire. Ma, come iniziò tutto ciò?
I primi passi Seguire i suoi azzardati percorsi lungo i quattro punti cardinali della Spagna non è difficile; anzi è appassionante come un romanzo. Seguire invece le orme del suo itinerario interiore, del suo cammino verso la santità, è molto più impegnativo. Diremmo, quindi, qualcosa, molto brevemente, giusto per ricordare una verità fondamentale che a noi toglie ogni scusa per non diventare santi: i santi non scendono dal cielo come un meteorite; e meno ancora, sono fatti così fin dall’inizio. Per loro non è stato facile. In qualsiasi bivio avrebbero potuto intraprendere altre strade, diverse da quella di seguire Cristo. Ad esempio, nel nostro caso… Forse non riusciamo ad immaginare la febbre politica della penisola italiana nella seconda metà del secolo scorso, segnata dall’astio contro Papa e clero e scossa da nord a sud dal fervore nazionalista e dalla ribellione.
Un giovane come Benedetto, fine, intelligente, milanese intraprendente, aveva tutte le porte aperte per far carriera; forse ora sarebbe stato considerato un eroe del Risorgimento; ai giardinetti i nostalgici garibaldini ne avrebbero contemplato la statua, in groppa ad un impetuoso cavallo e indicando alle truppe, spada in mano, il passo della vittoria. Quel giovanotto milanese però, impiegato in una Banca senza aver nemmeno finito gli studi superiori, ebbe il coraggio di perdere il posto di lavoro (aveva 16 anni, e cominciava a vivere!) piuttosto che essere coinvolto in faccende poco pulite o nelle quali i conti non tornavano con la sua coscienza. Ed ebbe il coraggio di rifiutare la proposta di iscriversi alla Massoneria, dove avrebbe sviluppato a fin di male le sue qualità di leader. E in quanto alla guerra, bisogna dire che la vide, ma soltanto dal versante della carità: ha 18 anni quando apprende le prime e immediate conseguenze dello scontro con l’Austria: dozzine di corpi straziati di combattenti che arrivano dal fronte di Magenta a Milano in treni speciali. Benedetto diventa barelliere anonimo per trasportare i feriti dalla stazione ferroviaria all’ospedale dei Fatebenefratelli.
Va precisato che gesti come questi non si improvvisano. L’abbiamo chiamato “Benedetto”, il suo nome di “santo”; il suo vero nome però fu Angelo Ercole, e le sue radici affondano nella famiglia dove nacque l’11 marzo 1841. Una famiglia che, grazie alle entrate di un modesto negozio gestito dal padre, aveva il necessario per sfuggire alla miseria pur senza scialare; una famiglia di quindici figli (Angelo Ercole era il quinto); famiglia di cristiani all’antica, nella quale si recitava il Rosario ogni sera, si vibrava per qualsiasi evento religioso, si aiutava i poveri e si frequentava i sacramenti.
Accanto all’humus familiare, che segna la vita di qualsiasi uomo, l’evento personale della vocazione, della quale conosciamo appena questi tre fatti: gli esercizi spirituali a 17 anni, poco dopo aver lasciato la Banca dove lavorava; i consigli di un eremita di Milano, e la sua preghiera quotidiana davanti ad un quadro della Vergine.
La conclusione: la decisione di donare la sua vita a Dio nell’esercizio della carità. L’aver conosciuto i Fatebenefratelli durante il servizio volontario di barelliere fu determinante per chiedere l’ingresso nel Noviziato annesso al loro ospedale milanese di Santa Maria d’Araceli. Vi entrò il 1° maggio 1860; il 13 maggio ricevette l’abito ed il nome da frate di: Benedetto, Fra Benedetto Menni, un “uomo nuovo” che oggi la Chiesa glorifica. Dopo un anno di noviziato fece i voti semplici, e tre anni più tardi, la professione solenne. Abbiamo già il santo? No. Questo giovane frate ospedaliero può ancora diventare di tutto, compreso un “buon religioso”, ma non santo. Un santo non si improvvisa. Tre anni di studio e di pratica infermieristica a Lodi. Fu lì che iniziò anche la sua preparazione all’ordinazione sacerdotale, che ricevette poi a Roma, nell’autunno del 1866, quando si annusava già l’esplosione finale della guerra dello Stato italiano contro il Papa per togliergli Roma. Dopo cinque anni, il novizio è già diventato sacerdote. Una formazione professionale di certo affrettata se si tratta di formare un luminare della ricerca teologica o della investigazione filosofica, ma non nel caso di un uomo di azione, come era Fra Benedetto, fatto per medicare ferite concrete di corpi e di anime ugualmente concrete.
Dove?
Il Generale dei Fatebenefratelli, P. Giovanni Maria Alfieri, che trattenne accanto a sé il P. Benedetto durante un anno, si rese subito conto che aveva a portata di mano la persona che gli occorreva per un’impresa quanto mai impegnativa: restaurare in Spagna l’Ordine dei Fatebenefratelli. Il giovane frate si spaventa: ha soltanto 26 anni, è troppo integro e retto per un compito che richiederebbe una grande esperienza diplomatica; è coraggioso, ma non temerario. Il Papa Pio IX lo riceve in udienza: – “Va in Spagna, figlio mio, e restaura l’Ordine nella sua stessa culla“. Era il 14 gennaio 1867. Due giorni dopo, parte per una avventura, umanamente parlando, assurda, sostenuto dall’obbedienza, dalla benedizione del Vicario di Cristo e dalla preghiera alla Vergine. In Spagna l’aria che si respirava era totalmente contraria. Da quando era finita la guerra di Indipendenza mai più era tornata la tranquillità nel paese. L’anticlericalismo e il liberalismo di importazione stavano inaridendo la Vita Religiosa.
Il governo di Mendizábal, con i due tremendi Regi Decreti del 1835 e 1836, riuscì dapprima a limitare le attività degli Istituti Religiosi, e poi a sopprimerli. Il ramo spagnolo dei Fatebenefratelli, che contava allora tre provincie nella Spagna, una in Portogallo, tre nell’America Latina e una viceprovincia nelle Filippine, oltre ad alcuni ospedali nell’Africa e nell’India, finì per estinguersi. Occorreva ripartire da capo, non solo in un clima di aperta ostilità verso tutto ciò che sapeva di religioso, ma per di più in mezzo a guerre e rivoluzioni. Dopo una breve sosta in Francia a Lione e Marsiglia, il P. Menni si lanciò alla conquista della penisola iberica come un don Chisciotte in versione divina, “un divino imprudente”. Mentre il paese rabbrividiva per le scosse politico-sociali che avrebbero portato alla caduta della Monarchia nel 1873, il P. Menni, forte solo della benedizione del Papa, entrava in aprile a Barcellona e si presentava al Vescovo diocesano che, evidentemente, lo considerò un ingenuo, se non addirittura una persona pericolosa, e non gli diede credito. Tutte le cose hanno un inizio
Quel divino imprudente però impugnò l’argomento delle “opere”. Elemosinando di porta in porta, ottenne quanto fu indispensabile per iniziare un piccolo ospedale per bambini handicappati e scrofolosi. Quell’ospedale, che aveva soltanto una dozzina di letti, fu, niente meno, il primo ospedale pediatrico della Spagna, e fu benedetto personalmente dal Vescovo che lo aveva respinto qualche mese prima, credendolo un sognatore. Siamo nel dicembre del 1867. E visto che i bambini sono sempre all’avanguardia nel Regno di Dio, il piccolo ospedale di Barcellona fu il trampolino di lancio per la conquista ospedaliera nella penisola. Figurava come “centro assistenziale civile di carattere filantropico” e, senza dubbio, comportò per il P. Menni difficoltà indicibili; tuttavia, il 31 maggio 1868, il Generale dell’Ordine approvò la fondazione come la prima cellula dell’Ordine restaurato in Spagna.
Nel 1872 il P. Menni è nominato Commissario Generale dell’Ordine per la Spagna. Quattro mesi più tardi, l’avvento della Repubblica ravviva il fuoco rivoluzionario. Travestito da contadino catalano e accompagnato dal confratello spagnolo Fra Girolamo Tataret, un giorno il P. Benedetto alla guida di una vecchio carretto squinternato, si dirigeva verso la periferia di Barcellona per fuggire dalla cerchia irresistibile delle milizie; il carro però si ribaltò in una curva, vicino a un posto di blocco, e i due “contadini” vennero arrestati. Espulso dalla Spagna il 1° aprile 1873, già all’inizio di giugno vi tornò in visita clandestina, portando con sé le elemosine raccolte in Francia per sussidiare l’ospedaletto di Barcellona.
Altre due volte fece quel medesimo viaggio, e la seconda, quasi in modo rocambolesco, entrò da Gibilterra, dopo uno scalo in Africa: da Marsiglia s’era infatti dapprima diretto in Marocco con l’intenzione di fondare un ospedale a Tangeri, dove arrivò realmente, ma a nuoto, gettato dalla nave in mare da un estremista spagnolo. E da Gibilterra al cuore della guerra civile spagnola, in qualità di volontario della Croce Rossa.
Il Re Don Carlos l’accettò come infermiere, assieme ad altri cinque confratelli dell’Ordine. Fino alla cessazione delle ostilità (il 6 aprile 1876) il P. Benedetto curò corpi e anime dei due opposti schieramenti, sfidando il fuoco incrociato sui fronti di Portugalete, Abárzuza, Lácar, Lumbier e Pamplona, o nella pace sofferta degli ospedali di guerra organizzati a Santurce, Irache, Comillas, Gomilar, Ochandiano e Santa Agueda.
Le litografie del tempo, ingenue nel loro drammatismo, non mettono in evidenza quel buon samaritano all’azione in mezzo al fumo delle scariche, tra i berretti rossi dei carlisti o i chepì dei liberali, in mezzo alla sanguinosa lotta corpo a corpo con le baionette lunghe come spade, tra i campi punteggiati di cadaveri umani e di cavalli sventrati. E tuttavia era lì, come infermiere e come sacerdote. E quel battesimo di carità, in sintonia con la più genuina tradizione dei Fatebenefratelli, fu provvidenziale perché il gruppetto di seguaci del P. Menni, giunto poi a Madrid al termine delle ostilità, ottenesse il riconoscimento legale come “Associazione Infermieristica dei Fratelli della Carità”, e il permesso di fondare in seguito ricoveri e ospedali.
La centrale della carità
Ciempozuelos fu il vero focolare della restaurazione dell’Ordine in Spagna. Lì si trasferirono i novizi di Barcellona; e lì, tra il susseguirsi di nuovi padiglioni, sorse un manicomio per uomini, che andò affermandosi come una struttura psichiatrica di avanguardia.
Nel giro di poco tempo, così come a volte la primavera esplode all’improvviso e tutto fiorisce da un giorno all’altro, si moltiplicarono le domande e le possibilità di fondare in tantissime parti. E alcune di queste possibilità diventarono anche realtà. In seguito al moltiplicarsi delle fondazioni, il P. Menni fu nominato Provinciale della nuova Provincia della Spagna (1884), con affidati a lui 70 religiosi professi e 25 novizi; tutto ciò significava che, oltre ai problemi amministrativi, si aggiungevano ora l’impegno per la formazione umana e spirituale dei suoi confratelli, l’animazione del fervore religioso, e il tenere vive e unite le diverse comunità. E anche se si manifestò qualche dissenso, poiché sempre qualcuno la pensa differentemente, nel complesso il suo servizio come Provinciale fu giudicato positivamente, considerando che venne riconfermato per ben 6 volte durante diversi Capitoli, restando in carica per 19 anni consecutivi.
Nel 1903, quando cessò il suo incarico da Provinciale, l’Ordine contava in Spagna, Portogallo e Messico complessivamente quindici case fondate da lui, con la seguente tipologia: quattro ospedali ortopedici per bambini rachitici e scrofolosi; sei ospedali psichiatrici per uomini; una colonia agricola per l’ergoterapia dei malati mentali dell’ospedale di Ciempozuelos; un ospedale per epilettici; un gerontocomio; una residenza funzionante come casa di riposo per sacerdoti e come scuola per bambini poveri; e un collegio per orfani poveri. I santi fanno pazzie
Tutto questo era ancora poco. Visto che Dio ama “complicare” la vita ” dei suoi amici, gli addossò un nuovo lavoro, di certo non contemplato minimamente quando a 19 anni aveva bussato alle porte del Noviziato per donare la sua vita a servizio degli infermi: fondare una congregazione religiosa femminile. Qualche anno dopo, lui stesso qualificò quel gesto come “pazza decisione”. Ma ora che a distanza di oltre un secolo quella pianticella si è trasformata in albero frondoso, una cosa appare certa: la “pazzia” di quella sua fondazione ci appare della stessa stoffa della divina pazzia di cui ci parla tanto “saggiamente” San Paolo nell’Epistola ai Corinti. Ma facciamo qualche passo indietro nel tempo.
Fin dall’inizio della sua missione di restauratore, il P. Menni si rese conto che il Signore, che l’aveva chiamato a prendersi cura degli emarginati fisici e psichici della Spagna, aveva bisogno di mani femminili e di cuori di madri per attendere le malate mentali e le bambine handicappate che la normativa dell’epoca non consentiva fossero accolte negli ospedali dei Fatebenefratelli. Considerando che la prospettiva di fondare lui stesso una specie di Ramo femminile del proprio Ordine cui affidare tali malate fosse una “pazza decisione”, cercò di temporeggiare; chiedendo ispirazione alla Madonna e nel frattempo, come gli consigliava il suo Superiore Generale, provando a rivolgersi agli Istituti femminili già esistenti, ma dovette constatare che non se ne trovavano di disposti a risolvergli il problema.
Nel frattempo, al sud, proprio nella città di Granada dove San Giovanni di Dio aveva fondato l’Ordine dei Fatebenefratelli, due donne, Maria Giuseppina Recio e Maria Angustia Gimenez, sentirono la chiamata della grazia a donare la loro vita per un “progetto” ancora non ben definito. Si affidarono ad un direttore spirituale, ma quando questi s’ammalò, la Provvidenza guidò sui loro passi come loro nuovo direttore spirituale proprio P. Menni, che però inizialmente provò riluttanza ad assecondare la loro aspirazione e ad avvalersene per dare infine vita ad un nuovo Istituto Religioso femminile specializzato nell’assistenza psichiatrica.
María Josefa Recio
Alla fine, durante l’estate del 1880, da Ciempozuelos arrivò a Granada l’invito del Padre: “Se volete, potete venire…” Le due donne decisero di lasciare la città alla chetichella e, dopo una sorta di fuga notturna da Granada, giunsero a Ciempozuelos, stabilendosi in una casa poverissima e inospitale, tenuta per di più da una proprietaria intrattabile, e sul momento occupando le giornate giusto a lavar montagne di biancheria dell’ospedale, tra i pettegolezzi della gente sull’onore del P. Menni.
María Angustias Jiménez Vera Come inizio, niente male! e rischiò di essere anche la fine! Comunque fu un buon inizio, segnato dalla croce e in una povertà da Betlemme. In una circolare a tutto l’Istituto, il 22 giugno 1903, il P. Menni spiegava il segreto dell’esito: quella “pazza decisione” fu alla fine indovinata perché “scaturiva dal Cuore di Gesù, in virtù del suo divino Spirito”.
Presto la nascente Congregazione cominciò a ricevere vocazioni: tre, quattro, sette, dieci… Presto poterono sistemarsi in un altra casetta del paese. Presto le giovani ebbero come libro di riferimento il crocifisso e come Superiora la Madonna (“Questa è la vostra Superiora – disse loro il Padre – sotto la sua protezione pongo tutte le mie figlie”), invocata come “Nostra Signora del Sacro Cuore”, titolo mariano col quale cominciarono a chiamarsi, e che diede più tardi luogo all’attuale denominazione di “Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù”. Presto ebbero i loro primi “fioretti”, come quella indimenticabile scena dell’accoglienza della prima malata: le si fecero attorno con grande affetto e, una dietro l’altra, si avvicinarono a lei per baciarle i piedi, così come avrebbero fatto con il Signore, al quale avevano consacrato la loro vita.
Presto ebbero un motto che sintetizzava in sei verbi all’infinito altrettante esigenze ascetiche: “pregare, lavorare, patire, soffrire, amare Dio e tacere”. E presto ebbero la loro prima martire della carità: una delle due coraggiose pioniere venute da Granada, Maria Giuseppina Recio, messa alla guida dell‘Istituto appena nato, moriva il 30 ottobre 1883 dopo essere stata calpestata e malmenata da una demente; oggi la sua salma e quella della Confondatrice Maria Angustia Gimenez riposano in una cappella laterale della medesima Chiesa di Ciempozuelos nella quale le Suore custodiscono sotto l’altare centrale il venerato corpo di San Benedetto Menni.
La nuova Congregazione, avendo ottenuto l’approvazione diocesana, ebbe il suo inizio canonico con l’ammissione in noviziato delle prime suore il 31 maggio 1881. L’anno seguente (1882) il P. Menni scriveva le prime Costituzioni; nel cui prologo precisava che l’incipiente istituzione mirava all’assistenza caritativa delle malattie mentali; o, come spiegava poco dopo, “all’esercizio costante della virtù della carità cristiana attraverso il soccorso, la cura e l’assistenza continua delle donne alienate, accettando questo sacrificio come necessità particolare che esiste oggi nell’umanità sofferente”. A distanza di più di un secolo, quell’oggi è valido ancora!
Undici anni dopo era già una Congregazione di Diritto Pontificio. Quando il P. Menni cessò di essere Provinciale dell’Ordine (1903), le Suore avevano nove case: sei per malate mentali e tre per bambine rachitiche e scrofolose povere, aperte rispettivamente a Ciempozuelos, Málaga, Madrid, Las Corts, Palencia, Parigi, Idanha, (Portogallo), San Baudilio di Llobregat, Santa Agueda; e nuove case sorsero negli anni seguenti: Pamplona (1909), Roma (1905), Viterbo (1909), Nettuno (1910), ecc. fino alle oltre cento case sparse in 24 nazioni nelle quali attualmente lavora “questa famiglia religiosa, nata dal divin Cuore”, secondo la testuale affermazione del loro Fondatore. I santi non vanno in pensione
Riprendiamo il filo della biografia nella data chiave del 1903. Il P. Benedetto Menni finisce il suo lungo servizio come Provinciale. Ha 62 anni. Ha avviato un’opera molto estesa, e ormai potrebbe anche pensare al meritato e sereno riposo, dedicando maggiore attenzione alla sua Congregazione delle Suore Ospedaliere, ma come “uomo” ancora è in grado di lavorare; e come “santo” la Chiesa ha bisogno di lui quale strumento di rinnovamento in quegli anni tormentati. Nel 1905 lo incontriamo a Roma, in un Capitolo Generale dell’Ordine. Ritornato in Spagna, la Santa Sede lo richiama a Roma per nominarlo Visitatore Apostolico dei Fatebenefratelli (1909): viaggi, lettere e visite personali alle diverse Province, nella delicata missione di ravvivare lo spirito e l’osservanza religiosa. Finito questo compito, il Papa San Pio X lo nomina Generale dell’Ordine (1911). In questa mobilità e attività snervante, che caratterizzano la sua vita, dove finisce “l’uomo” e dove comincia il “santo”? Organizzare, viaggiare, cercare prestiti, dirigere costruzioni, amministrare… lo può fare qualsiasi impresario, e poteva averlo fatto quel giovane milanese, tipicamente intraprendente, chiamato Angelo Ercole Menni, se avesse deciso di lanciarsi sulla strada della rivoluzione o della politica.
Ma l’uomo di Dio, il “santo”, viveva tutte queste attività con novità interiore, faceva tutto con un cuore diverso, un cuore ogni giorno più immedesimato con i sentimenti di Cristo Gesù, che finivano col trasparire nel suo comportamento, nel quale possiamo schematicamente evidenziare cinque attitudini fondamentali:
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Fiducia totale e profonda nel Cuore di Gesù “colmo di misericordia e di amore”, un tema, questo, che lo emozionava quando ne parlava. Acceso di devozione al Sacro Cuore, dispose che tutti i primi Venerdì si celebrasse una Messa cantata e si esponesse il Santissimo. Difficilmente egli avrebbe potuto divenire “un altro Cristo” se non avesse bevuto alla fonte di quel Cuore redentore, perennemente misericordioso con gli infermi e le folle abbandonate.
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Ricorso quasi istintivo alla Vergine Maria; egli, dai tempi del Rosario recitato da ragazzo in famiglia e fino all’ora della sua morte, trovò sempre in Maria la strada per andare a Gesù. Ed identico cammino suggeriva alle sue figlie. “La Vergine – scriveva loro – porta tra le braccia Gesù che ci lascia vedere il suo divino cuore e con le sue braccia aperte ci invita ad andare verso di Lui”. Ed aggiungeva loro: “Lei ci consentirà d’entrare e rimanere nel Cuore di Gesù”.
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Pietà semplice, immediata, per nulla cerebrale. Sempre in movimento per impegni o viaggi, egli immancabilmente all’uscire o rientrare si soffermava in cappella, convinto che la cosa migliore era porre ogni assunto nelle mani di Dio. La sua giaculatoria più ricorrente era: “Gesù mio, di me diffido, al Cuore tuo m’affido e mi ci rifugio”. Il nome di Gesù era costante sulle sue labbra. Questa pietà lo portava a compiere ogni cosa pensando a Lui: “L’unico cammino da seguire – usava ripetere – è fare la volontà di Dio”. E questo uniformarsi al volere divino non si stancava di raccomandarlo nelle sue lettere: “Chiediamo a Gesù che ci infiammi del suo amore. Chiediamo alla Regina di questo amore, la Vergine Immacolata, che accenda in noi questo fuoco divino… Oh Gesù, non intendiamo offrirti resistenza”.
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Carità senza limiti e molto concreta, seguendo il consiglio stesso di Gesù: “Se io ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri”. Carità che gli faceva vedere negli infermi l’immagine di Cristo, e che spiega perché qualche volta lo videro imboccarli in ginocchio. Carità che lo faceva intenerire alla vista di un mendicante; carità che lo portò una volta a consegnare ad un uomo che gli raccontava le sue miserie le uniche cinque pesetas che aveva per affrontare un debito di cinquecento, ed a giustificarsene dicendo “questa moneta per noi è niente, ma a lui lo toglierà da grandi difficoltà”; carità che mise a grande rischio la sua vita nel 1885 quando volle recarsi ad assistere i contagiati dal colera. Una carità, sorgente di così alta libertà interiore nel cercare il bene dei malati, che una volta giunse ad offrire la direzione sanitaria dell’ospedale di Ciempozuelos ad un celebre psichiatra, il Dott. Simarro, nonostante fosse ateo e membro della Massoneria spagnola (“non ho bisogno di catechisti, diceva, ho già i religiosi; necessito piuttosto di un grande medico”); il Dott. Simarro, commosso da quel gesto, raccomandò, al suo posto, un suo discepolo ed eccellente cattolico, il Dott. Michele Gayarre.
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Umiltà eroica. Ciò che meno ci interessano sono gli aneddoti, come quella sua reazione davanti alle Suore di una comunità che, per festeggiare il suo arrivo, avevano eretto un baldacchino con il suo ritratto: “O togliete quella roba lì, o non entro”. O quell’altra volta che raccontò alle Suore, pieno di gioia:”Passando dalla Piazza della Rocca alcuni cocchieri mi hanno deriso e mi hanno persino insultato. Mi sta bene e me ne rallegro, ne merito ancora di più!”
La cosa più difficile però, quella che gli consentì nel suo cammino verso la santità di bruciare le tappe, fu il fatto che, a partire dalla volta che finì arrestato a Barcellona, fu costretto a presentarsi davanti a tutti i tribunali della terra, come ebbe a dire alcuni anni prima di morire. Due casi soprattutto:
Il famoso “caso Semillan”, davanti al Tribunale Penale di Madrid. Si prolungò per sette anni (1895-1902) con morbosità scandalosa, fomentata dai giornali anticlericali, nel quale si accusava il P. Menni di ripugnanti violenze verso una povera demente.
Furono sette anni durante i quali quel “prete abominevole”, presentato grossolanamente dai giornali, non volle mai un avvocato difensore (l’accettò soltanto su richiesta del Vescovo di Madrid, che ritenne che quella interminabile campagna scandalistica avesse come bersaglio la Chiesa e volle fosse presentata querela, risultandone nel gennaio 1902 la piena condanna dei calunniatori da parte del Tribunale di Madrid) né volle ricorrere alla stampa per replicare ai suoi avversari, né mai giunse a biasimarli; al contrario, arrivò a gesti estremi, come quello di baciare i giornali che lo diffamavano (“questo mi fa bene, diceva, è oro puro per me”), o a gongolare di gioia nel ricevere un giorno una lettera ingiuriosa, dicendo: “questo non accade tutti i giorni”… e immediatamente si mise a cantare, facendo il gesto di suonare il violino…
Più amara ancora fu la campagna di calunnie, da lui stesso definite innumerevoli, davanti al tribunale vaticano del Sant’Uffizio. Questa fu per lui la sofferenza più penosa, trascinatasi per circa tre anni, fin quando nell’aprile 1896 venne comunicata ufficialmente la sentenza che non si doveva tenere “conto alcuno” delle accuse. Fu pure vittima di altre accuse davanti alla Congregazione dei Vescovi e Regolari, davanti al suo Superiore Generale. Fu ogni volta riconosciuto innocente, ma neppure i santi sono d’acciaio e intimamente ne soffrì, specie perché le accuse vennero mosse da alcuni suoi confratelli e, in qualche occasione, dalle sue stesse figlie. Cosa era successo?
Soltanto questo: che la carità del P. Menni non era debolezza e tanto meno condiscendenza bonacciona con il male. Durante i suoi lunghi anni di governo come Provinciale, Visitatore e Generale, in circostanze delicate per la Chiesa d’Europa, represse con serena fermezza alcuni abusi; nel manicomio di San Baudilio di Llobregat espulse alcuni medici in seguito ad alcuni casi seri di immoralità; e tagliò corto con alcune deviazioni nella disciplina religiosa di alcune comunità. Tutto ciò gli procurò, all’interno dell’Ordine, un piccolo gruppo di avversari, influenti ed intriganti, che usarono contro di lui tutti i mezzi possibili, compresa la calunnia. Accusato e accerchiato, ancora una volta non volle difendersi, ma preferì presentare le dimissioni da Superiore Generale, dopo esserlo stato per poco più di un anno: era il 20 giugno 1912. Il cammino Regale della Santa Croce
Gli rimanevano ancora due anni di vita. Cosa avrebbe fatto nel frattempo? Si sarebbe detto di lui, come si dice di alcuni personaggi biblici: “riposò nella sua buona vecchiaia”? Poteva ritirarsi a riposare in qualcuna delle tante case da lui fondate, lasciarsi curare dalle Suore con affetto filiale, forse scrivere le sue memorie, come fanno i grandi personaggi della storia. Ma lui, il “grande” uomo Benedetto Menni, era già più piccolo che il grande “santo”, scolpito dalla grazia. E tuttavia il “santo” non era ancora compiuto del tutto.
A Dio restavano ancora due anni per completare in quell’anziano l’immagine del figlio suo Gesù, che morì rifiutato, abbandonato e perdonando. In effetti, furono presi contro di lui alcuni provvedimenti che oggi ci sembrano spietati. All’inizio gli consentirono di visitare le case delle Suore, pur con qualche limitazione. Nell’agosto 1912 lo obbligarono ad eleggere dimora stabile in una casa dell’Ordine, che non fosse né a Roma né in Spagna.
Lasciò dunque l’alloggio nell’ospedale che le sue Suore avevano a Viterbo e si trasferì in settembre nella Comunità dei suoi Confratelli a Parigi. Nel novembre 1912 gli fu proibito qualsiasi tipo di intervento, diretto o indiretto, nelle questioni della Congregazione delle Suore Ospedaliere; gli fu tolto il fedele aiutante e segretario, Fra Alfonso Galtés; gli fu vietato di vivere nelle città dove le Ospedaliere avevano case: e siccome a Parigi l’avevano, dovette allontanarsi da Parigi!
L’umiliazione crebbe ancora di più quando dal Vaticano la Congregazione dei Religiosi ordinò una visita di verifica alle diverse comunità della Suore Ospedaliere, che pur concludendosi onorevolmente, si protrasse fino a due mesi prima della morte del Fondatore. Vale la pena contemplare il suo volto in una fotografia del tempo. E’ e non è lo stesso di qualche anno prima: ha ancora lo stesso viso squadrato da milanese spiccio e intraprendente; ma al tempo stesso si è invecchiato e sono apparse le rughe, le sue fattezze però hanno acquisito una particolare nobiltà; i suoi occhi scrutatori, ben lontani dall’apparire melanconicamente rassegnati o addirittura scoraggiati, sembrano invece quelli di un vecchio marinaio che scruta il porto tra la nebbia all’orizzonte.
E’ un anziano. Mentre “l’uomo esteriore” si va disfacendo, il santo, “l’uomo interiore”, si rinnova ogni giorno” (2 Cor 4,16); la dimora terrena di questo indomito costruttore di case per gli altri, è prossima a disfarsi, ma per lui è già pronta una casa solida, non costruita da mani umane, ma eterna, nei Cieli (2 Cor 5,1). Spogliato di tutto, aspettava serenamente, senza condannare nessuno, di approdare nella Patria celeste, a godervi il Signore. Era ancora a Parigi quando soffrì un attacco di paresi; non ricuperato perfettamente, il 19 aprile 1913 si traferì a Dinan, una casa dell’Ordine nel nord della Francia dove le Suore non avevano Comunità. Due di loro, capitate a chiedere elemosina nella zona, chiesero di vederlo: il Padre seppe dir loro, con lacrime agli occhi, soltanto questo: – Siete ancora vive, figlie mie?
La sua salute andava peggiorando vistosamente, nonostante le affettuose premure dei Confratelli. Un secondo attacco di paresi lo ridusse alla immobilità quasi assoluta. Fu allora che quel grande imprenditore, amministratore, organizzatore, costruttore, fondatore, governante, compì l’opera maggiormente meritevole della sua vita: la sua propria morte, “volontariamente accettata” – come Cristo fece con la sua – per la redenzione di tutti gli uomini. La mattina del 24 aprile 1914, preparato per il grande viaggio con i sacramenti della Chiesa e una benedizione speciale del Papa Pio X, morì “l’uomo” Benedetto Menni per iniziare una vita che non ha fine.
Cristo glorioso, che soffre in tanti esseri umani ammalati e deformi, accolse il suo piccolo buon samaritano, Fra Benedetto, con le beatifiche parole: “Quello che hai fatto ai più piccoli dei miei fratelli, l’hai fatto a me. Entra nel gaudio del tuo Signore”. Due anni prima, quando aveva rinunciato al suo compito di Generale, nell’udienza di commiato dal Papa Pio X, gli aveva detto: “Santità, sono stato convocato da tutti i tribunali della terra. Mi auguro che, così come sono uscito felicemente da tutti i tribunali di quaggiù, possa ugualmente essere assolto un giorno dal tribunale di Dio e trovi la sua misericordia”. Il Papa gli aveva replicato con amabilità: – La troverà, la troverà
Sì; adesso sappiamo dalla Chiesa che l’ha trovata, e nel grado più alto. Impegnando la sua infallibilità, la Chiesa ci assicura che “l’uomo” Benedetto Menni ha raggiunto la vetta della carità perfetta: è “santo”. E’ un giudizio formulato da quel tribunale di Dio sulla terra che è la Chiesa gerarchica.
Il Cielo ha una porta, e questa porta ha delle chiavi che Cristo affidò a Pietro e ai suoi successori: loro conoscono i criteri per poter emettere questo giudizio. Avviato il processo di beatificazione nel 1964, dichiarata l’eroicità delle sue virtù l’11 maggio 1982, riconosciuta come miracolosa, per intercessione del P. Menni, la guarigione della signora Assunta Cacho, il Papa Giovanni Paolo II lo dichiarò beato nel 1985.
Un nuovo miracolo, la guarigione immediata e durevole, non attribuibile a farmaci né ad altre cure, di una religiosa Ospedaliera (Suor Maria Nicoletta Vélaz) affetta da un cancro invasivo della vescica, chiude il cammino che la Chiesa ha percorso per dichiarare la santità di questo eroico discepolo di San Giovanni di Dio, anche lui incompreso e combattuto durante la sua vita: Benedetto Menni è santo. Se nelle ultime lettere indirizzate alle sue religiose, nelle quali si firmava come “povero di Gesù”, egli si confessava depresso e molto bisognoso di preghiere (“perché non mi schernisca il demonio della tristezza, anzi affinché il Signore, per intercessione della Vergine Immacolata, mi dia una santa gioia e fiducia in Gesù, Giuseppe e Maria”), ora invece siamo noi che invochiamo i suoi favori per “strappare” al Cuore di Gesù e alla Vergine Immacolata la grazia di vivere con coerenza, giorno dopo giorno, la nostra consacrazione battesimale e religiosa.
La canonizzazione di P. Benedetto Menni sanziona non solamente la sua santità, ma anche l’attualità del messaggio proposto e vissuto da colui che fu il Restauratore dell’Ordine dei Fatebenefratelli nella penisola iberica e nell’America Latina, nonché il Fondatore delle Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù. Messaggio mirabilmente sintetizzato nella preghiera liturgica figurante nel proprio della Messa di San Benedetto Menni: essere araldi del Vangelo della Misericordia mediante il servizio ai fratelli infermi e bisognosi.
Chi desiderasse conoscere meglio la vita, gli scritti e la spiritualità di San Benedetto Menni, può rivolgersi ad uno dei seguenti indirizzi:
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Provincia Romana dei Fatebenefratelli - Via Cassia, 600 - 00189 Roma RM E-mail: “Curia Prov.Romana FBF” <curiafbf.rm@flashnet.it>
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Provincia Lombardo-Veneta dei Fatebenefratelli - Via Cavour, 2 20063 Cernusco sul Naviglio MI - E-mail:<prcu.lom@oh-fbf.org>
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Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù - Via Urbisaglia, 3/A - 00183 Roma RM – E-mail: “Provincia Italiana Suore Ospedaliere del Sacro Cuore” <hsc.prov.it@iol.it>
DISCORSO DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II
AI PELLEGRINI CONVENUTI PER LA CERIMONIA DI CANONIZZAZIONE
DI CIRILO BERTRÁN E OTTO COMPAGNI,
INOCENCIO DE LA INMACULADA,
BENEDETTO MENNI,
TOMMASO DA CORI
22 Novembre 1999
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Carissimi Religiosi e Religiose,
Fratelli e Sorelle!
1. Ci ritroviamo oggi per rinnovare il nostro inno di lode e di ringraziamento a Dio, all’indomani della solenne liturgia, durante la quale, ieri, nella Basilica Vaticana, ho avuto la gioia di proclamare 12 nuovi Santi, invitti testimoni di Cristo, Re dell’Universo. Allo stesso tempo, vogliamo ancora una volta soffermarci a riflettere insieme sul loro luminoso esempio di amore incondizionato a Dio e di generosa dedizione al bene spirituale e materiale dei fratelli.
2. Saludo con gran afecto a los peregrinos de lengua española venidos a Roma. En esta ocasión, de modo particular saludo a los Hermanos de las Escuelas Cristianas, acompañados de sus alumnos y ex-alumnos, a los Padres Pasionistas, así como a los miembros de la gran Familia Hospitalaria. Estos Santos, hijos predilectos de la Iglesia y testigos fieles del Señor Resucitado, nos ofrecen el testimonio de una rica espiritualidad, fraguada en la fidelidad cotidiana y en la entrega incondicional a su vocación al servicio del prójimo.
3. Los Hermanos mártires de las Escuelas Cristianas canonizados ayer, seguidores del carisma de San Juan Bautista de La Salle, se entregaron plenamente a la educación integral de los niños y jóvenes. Ellos pertenecen a la larga serie de educadores cristianos que han dedicado su vida y sus energías a la enseñanza en la escuela católica, comprometidos en este irrenunciable servicio que la Iglesia presta a la sociedad. Ésta, en nuestros días a veces se presenta individualista y con tentaciones de secularismo. Frente a ello, los Santos Mártires de Turón, procedentes de diversos puntos de la geografía española y uno de ellos de Argentina, son la prueba elocuente de que la fidelidad a Cristo vale más que la propia vida.
Que su ejemplo, junto con el del P. Inocencio de la Inmaculada, mueva a los jóvenes a abrazar el estilo de vida que nos propone el evangelio, vivido con valentía y entusiasmo. Que la labor educativa de estos Santos Mártires sea también modelo para los educadores cristianos a las puertas del nuevo milenio que está ya a las puertas.
Respecto a la formación de las jóvenes generaciones, quisiera recordar el deber primordial de los padres como primeros y principales responsables de la educación de los hijos, lo cual supone que han de contar con absoluta libertad para elegir el centro docente para sus hijos. Las autoridades públicas, por su parte, han de procurar que, desde el respeto al pluralismo y la libertad religiosa, se ofrezca a las familias las condiciones necesarias para que, en todas las escuelas, sean públicas o privadas, se imparta una educación conforme a los propios principios morales y religiosos. Y esto es más necesario aún en un país, como España, donde la mayoría de padres pide la educación religiosa para sus hijos.
4. San Benito Menni, miembro ilustre de la Orden Hospitalaria de San Juan de Dios y Fundador de las Religiosas Hospitalarias del Sagrado Corazón de Jesús, vivió su vocación como apóstol en el campo de la sanidad, sin ahorrarse esfuerzos y sufrimientos, con audacia y una entrega sin límites al cuidado de los enfermos, especialmente de los niños y de los trastornados mentales.
La labor que realizan sus Hermanos de religión y las Religiosas del Instituto que fundó tiene plena actualidad en el mundo actual, donde con frecuencia se margina a los débiles y a los que sufren. Que la gran Familia Hospitalaria, en fidelidad al carisma del nuevo Santo, imite el inmenso amor que él sentía hacia los más desfavorecidos, dedicando enteramente la vida a su servicio.
San Benito Menni descubrió su vocación precisamente cuando llevaba a cabo tareas de voluntariado en Milán. Muchos de los peregrinos que habéis venido para su canonización sois voluntarios en diversos centros hospitalarios y en otros centros asistenciales. Ese servicio enriquece vuestra vida y hace crecer la capacidad de donación y acogida solidaria del prójimo, especialmente de los que sufren. Os animo a proseguir en esa labor, iluminados por los ejemplos del Padre Menni, imitándole y siguiéndole en el camino de misericordia que él practicó.
5. Mi rivolgo a voi, cari Religiosi dell’Ordine Francescano dei Frati Minori, ed a quanti insieme con voi esultano per la canonizzazione di san Tommaso da Cori. “Vengo al Ritiro per farmi santo”: con queste parole il nuovo Santo si presentò al luogo solitario di Bellegra, dove per lunghi anni realizzò progressivamente questo impegnativo programma di vita evangelica.
Aveva ben compreso che ogni vera riforma inizia da se stessi e, proprio per questo, la sua umile persona si colloca tra i grandi riformatori dell’Ordine dei Frati Minori.
Dall’intensità del suo intimo rapporto con Dio, soprattutto dalla profonda devozione all’Eucaristia, fioriva la fecondità della sua azione pastorale, così incisiva da meritargli l’appellativo di “apostolo del sublacense”. Vero figlio del Poverello d’Assisi, anche di lui si potrebbe affermare ciò che si diceva di san Francesco, che cioè “non era tanto un uomo che prega, quanto piuttosto egli stesso tutto trasformato in preghiera vivente” (Tommaso da Celano, Vita Seconda, 95: Fonti Francescane, 682).
6. Carissimi Fratelli e Sorelle! Insieme con tutta la Chiesa, lodiamo il Signore per le grandi opere che ha compiuto attraverso questi nuovi Santi.
Facendo ritorno alle vostre case ed alle vostre occupazioni quotidiane, portate con voi il lieto ricordo di questo pellegrinaggio a Roma, e continuate con coraggio nell’impegno di testimonianza cristiana, perché possiate prepararvi a vivere con intensità e fervore l’Anno Santo ormai vicino.
Con questi auspici, vi affido tutti alla celeste protezione della Madonna e dei nuovi Santi, e di cuore vi benedico, insieme con le vostre famiglie e le vostre comunità.
OMELIA DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II
NELLA CERIMONIA DI CANONIZZAZIONE DEI BEATI:
CIRILO BERTRÁN E OTTO COMPAGNI,
INOCENCIO DE LA INMACULADA,
BENEDETTO MENNI,
TOMMASO DA CORI
Domenica, 21 novembre 1999
1. “Si siederà sul trono della sua gloria” (Mt 25,31). L’odierna solennità liturgica è dominata da Cristo, Re dell’universo, Pantocràtor, quale risplende nell’abside delle antiche basiliche cristiane. Contempliamo questa maestosa immagine nell’odierna ultima domenica dell’anno liturgico. La regalità di Gesù Cristo è, secondo i criteri del mondo, paradossale: è il trionfo dell’amore, che si realizza nel mistero dell’incarnazione, passione, morte e risurrezione del Figlio di Dio. Questa regalità salvifica si rivela pienamente nel sacrificio della Croce, supremo atto di misericordia, in cui si compie al tempo stesso la salvezza del mondo e il suo giudizio. Ogni cristiano partecipa della regalità di Cristo. Nel Battesimo egli riceve con la grazia l’interiore spinta a fare della sua esistenza un dono gratuito e generoso a Dio ed ai fratelli. Ciò appare con grande eloquenza nella testimonianza dei Santi e delle Sante, che sono modelli di umanità rinnovata dall’amore divino. Tra essi, con gioia, annoveriamo da oggi Cirilo Bertrán con otto suoi Compagni, Inocencio de la Inmaculada, Benedetto Menni e Tommaso da Cori.
2. “Cristo tiene que reinar” hemos escuchado de san Pablo en la segunda lectura. El reinado de Cristo se va construyendo ya en esta tierra mediante el servicio al prójimo, luchando contra el mal, el sufrimiento y las miserias humanas hasta aniquilar la muerte. La fe en Cristo resucitado hace posible el compromiso y la entrega de tantos hombres y mujeres en la transformación del mundo, para devolverlo al Padre: “Así Dios será todo para todos”. Este mismo compromiso es el que animó al Hermano Cirilo Bertrán y a sus siete compañeros, Hermanos de las Escuelas Cristianas del Colegio “Nuestra Señora de Covadonga”, que habiendo nacido en tierras españolas y uno de ellos en Argentina, coronaron sus vidas con el martirio en Turón (Asturias) en mil novecientos treinta y cuatro, junto con el Padre Pasionista Inocencio de la Inmaculada. No temiendo derramar su sangre por Cristo, vencieron a la muerte y participan ahora de la gloria en el Reino de Dios. Por eso, hoy tengo la alegría de inscribirlos en el catálogo de los Santos, proponiéndolos a la Iglesia universal como modelos de vida cristiana e intercesores nuestros ante Dios. (in lingua catalana) Al grup dels màrtirs de Turón si agrega el Germà Jaume Hilari, de la mateixa Congregaciò religiosa, i que fou assassinat a Tarragona tres anys més tard. Mentre perdonava els qui el mataven, exclamà: “Amics, morir per Crist és regnar”.
Todos ellos, como cuentan los testigos, se prepararon a la muerte como habían vivido: con la oración perseverante, en espíritu de fraternidad, sin disimular su condición de religiosos, con la firmeza propia de quien se sabe ciudadano del cielo. No son héroes de una guerra humana en la que no participaron, sino que fueron educadores de la juventud. Por su condición de consagrados y maestros afrontaron su trágico destino como auténtico testimonio de fe, dando con su martirio la última lección de su vida. ¡Que su ejemplo y su intercesión lleguen a toda la familia lasaliana y a la Iglesia entera!
3. “Venid vosotros, benditos de mi Padre; heredad el Reino preparado para vosotros desde la creación del mundo, … porque estuve enfermo y me visitasteis” (Mt 25,34.36). Estas palabras del Evangelio proclamado hoy le serán sin duda familiares a Benito Menni, sacerdote de la Orden de San Juan de Dios. Su dedicación a los enfermos, vivida según el carisma hospitalario, guió su existencia.
Su espiritualidad surge de la propia experiencia del amor que Dios le tiene. Gran devoto del Corazón de Jesús, Rey de cielos y tierra, y de la Virgen María, encuentra en ellos la fuerza para su dedicación caritativa a los demás, sobre todo a los que sufren: ancianos, niños escrofulosos y poliomielíticos y enfermos mentales. Su servicio a la Orden y a la sociedad lo realizó con humildad desde la hospitalidad, con una integridad intachable que lo convierte en modelo para muchos. Promovió diversas iniciativas orientando a algunas jóvenes que formarían el primer núcleo del nuevo instituto religioso, fundando en Ciempozuelos (Madrid) las Hermanas Hospitalarias de Sagrado Corazón de Jesús. Su espíritu de oración le llevó a profundizar en el misterio pascual de Cristo, fuente de comprensión del sufrimiento humano y camino para la resurrección. En este día de Cristo Rey, San Benito Menni ilumina con el ejemplo de su vida a quienes quieren seguir las huellas del Maestro por los caminos de la acogida y la hospitalidad.
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“Io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura” (Ez 34,11). Tommaso da Cori, sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori, è stato immagine vivente del Buon Pastore. Come guida amorevole, ha saputo condurre i fratelli affidati alle sue cure verso i pascoli della fede, animato sempre dall’ideale francescano.
Nel Convento dimostrava il suo spirito di carità, rendendosi disponibile a qualsiasi esigenza, anche la più umile. Visse la regalità dell’amore e del servizio, secondo la logica di Cristo che, come canta la Liturgia odierna, “ha sacrificato se stesso immacolata vittima di pace sull’altare della croce, operando il mistero dell’umana redenzione” (Prefazio di Cristo Re).
Da autentico discepolo del Poverello d’Assisi, san Tommaso da Cori fu obbediente a Cristo, Re dell’universo. Meditò ed incarnò nella sua esistenza l’esigenza evangelica della povertà e del dono di sé a Dio ed al prossimo. Tutta la sua vita appare così segno del Vangelo, testimonianza dell’amore del Padre celeste, rivelato in Cristo e operante nello Spirito Santo, per la salvezza dell’uomo.
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Rendiamo grazie a Dio che, lungo i sentieri del tempo, non cessa di suscitare luminosi testimoni del suo Regno di giustizia e di pace. I dodici nuovi Santi, che oggi ho la gioia di proporre alla venerazione del Popolo di Dio, ci indicano il cammino da percorrere per giungere preparati al Grande Giubileo del Duemila. Non è, infatti, difficile riconoscere nella loro esemplarità alcuni elementi che caratterizzano l’evento giubilare. Penso, in particolare, al martirio ed alla carità (cfr Incarnationis Mysterium, 12-13). Più in generale, l’odierna celebrazione richiama il grande mistero della comunione dei santi, fondamento dell’altro elemento qualificante del Giubileo che è l’indulgenza (cfr ivi, 9-10).
I Santi ci mostrano la via del Regno dei cieli, la via del Vangelo accolto radicalmente. Sostengono, al tempo stesso, la nostra serena certezza che ogni realtà creata trova in Cristo il suo compimento e che, grazie a Lui, l’universo sarà consegnato a Dio Padre pienamente rinnovato e riconciliato nell’amore.
Ci aiutino San Cirilo Bertrán con gli otto Compagni, San Inocencio de la Inmaculada, San Benedetto Menni e San Tommaso da Copri a percorrere anche noi questo cammino di perfezione spirituale. Ci sostenga e protegga sempre Maria, Regina di tutti i Santi, che proprio oggi contempliamo nella sua presentazione al Tempio. Sul suo esempio, possiamo anche noi collaborare fedelmente al mistero della Redenzione. Amen!
CIEMPOZULOS - CASA MADRE Nuestra Señora del Sagrado Corazón de Jesús (Patrona della Congregazione) La Congregazione delle Sorelle Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù, è stato fondato in Ciempozuelos (Madrid-España), nel 1881 dal Padre San Benito Menni, sacerdote dell’Ordine dei Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio (Fatebenefratelli) congiuntamente con con María Josefa Recio y María Angustias Giménez, scelte da Dio per occuparsi delle persone che soffrono di turbe mentali abinando due criteri fondamentali: carità e scienza. Nasce come risposta a una situazione di grave abbandono in quest’area della salute e dall’esclusione sociale dei malati mentali dell’epoca. La Congregación de las Hermanas Hospitalarias del Sagrado Corazón de Jesús tiene como misión apostólica la acogida y la asistencia sanitaria de los enfermos mentales, discapacitados físicos y psíquicos, así como enfermos de otras patologías, de acuerdo con nuestro carisma fundacional y nuestros valores, que informan de la manera de ser, de trabajar y orientan las propuestas y las decisiones, las actitudes y los comportamientos. Son también, un punto de referencia para evaluar los resultados. La Congregación ha desarrollado centros asistenciales en 24 países de cuatro continentes, en los que se busca atender a la persona en su integridad, que entendemos como la vertiente física, psíquica, social y espiritual, con actitud profundamente humana, calidad en el trato y máximo respeto a los derechos fundamentales de la persona. El nombre Hospitalarias del Sagrado Corazón es expresión del carisma de la Congregación, pues su razón de ser en la Iglesia es el ejercicio de la caridad hospitalaria, vivida en estado de consagración religiosa según el modelo de caridad perfecta, Cristo, simbolizada en su Corazón. La Congregación de Hermanas Hospitalarias, hoy al celebrar sus 125 años de fundación se encuentra en 24 países de Europa, América, África y Asia
LA CONSOLIDACIÓN COMO UN GRAN CENTRO PSIQUIÁTRICO
Dado el número de pacientes que dependiendo de las Diputaciones se encontraban en otros manicomios, desde su misma fundación el Hospital Aita Menni debió hacer un gran esfuerzo para aumentar su capacidad. De este modo, toda la primera época de su historia está marcada por las obras continuas de remodelación y construcción de nuevos pabellones.
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En 1900 se adquirieron los caseríos Elezgarai, Ugalde y Errotaetxe, así como diversos terrenos. De este modo, el hospital podría ampliar sus instalaciones o bien podría beneficiarse de las explotaciones ganaderas y agrícolas de los mencionados caseríos para el abastecimiento de hermanas y pacientes.
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Ese mismo año, se construyó el Pabellón del Sagrado Corazón de Jesús, destinado a atender enfermas pensionistas particulares.
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Pabellón del Sagrado Corazón en 1900 |
Pabellón del Sagrado Corazón en la acutalidad |
Entre los años 1904 y 1910 se edificó el Pabellón de San Benito para enfermas pensionadas por las Diputaciones Provinciales. Constaba de dos naves paralelas unidas en uno de sus extremos por una galería y en el otro por un edificio de tres pisos. Disponía de sala de estar, comedores, cocina, enfermería de somáticas, dormitorios y una sección de baños y de limpieza.
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Las obras continuaron prácticamente de manera ininterrumpida a uno y otro lado de la carretera que va de Mondragón a Aramaiona y en 1921 se construyó un túnel por debajo de ella, de manera que el paso desde los pabellones de un lado a los del otro no requiriera cruzar la carretera.
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Acceso al túnel |
En 1923 se edificó el Pabellón de San José actualmente destinado a pacientes de larga estancia.
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Pabellón de San José en 1923 |
Pabellón de San José |
Ese mismo año se construyó otro pabellón que constituiría la Clausura de las Hermanas. Con una capacidad para más de 130 personas, disponía de cocina para enfermas pensionistas, cocina para toda la casa, ropería, costureros, despensa, etc. La construcción de los pabellones de San José y Clausura requirieron el embocinamiento del río en una longitud de 60 metros y el derribo de antiguos lavaderos y galerías de enlace, así como del caserío Errotaetxe.
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En 1924 quedó terminada la Clausura y se levantó un nuevo pabellón para enfermas de beneficencia, el de San Juan de Dios.
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En 1927, el Excmo. Sr. Obispo de Vitoria, Dr. D. Leopoldo Eijo y Garay, bendijo, consagró e inauguró la Iglesia de la Casa de Salud, en un acto al que asistieron las autoridades locales y provinciales. El proyecto fue obra del arquitecto Sr. Urcola y la primera piedra la bendijo y puso el Cardenal Arzobispo de Toledo, Dr. Reig.
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La primera época del Hospital Aita Menni estuvo marcada por las obras constantes de ampliación y remodelación de instalaciones. Las sucesivas ampliaciones de capacidad quedan reflejadas en el aumento constante del número de pacientes atendidas.
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Vista general en 1930 |
Durante esta primera época se dotó a los diferentes pabellones de agua potable y caliente para usos higiénicos, sanitarios e hidroterápicos y se instaló el alumbrado eléctrico en sustitución de los quinqués de petróleo.
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Los pabellones que se fueron construyendo tenían anejos espaciosos jardines en los que se plantaron árboles para permitir a las enfermas ingresadas “disfrutar de la libertad compatible con su estado”.
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La atención psiquiátrica a finales del siglo XIX El Real Decreto de 1885 refleja la concepción que la sociedad de la época tiene del enfermo mental como una especie de ser extraño y temible, poseído o endemoniado, de cuya presencia hay que proteger al cuerpo social por medio de la reclusión El ingreso manicomial constituye en aquel tiempo la atribución por parte de la sociedad de la condición de loco a un individuo. Por ello, se establecen importantes trabas legales para evitar ingresos improcedentes, aunque una vez producido éste, las expectativas de salida de los manicomios eran casi nulas.
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De acuerdo con la Ley de Beneficencia de 1849, el Estado tenía la obligación de proporcionar atención sanitaria a sus ciudadanos, si bien las Diputaciones fueron asumiendo esta responsabilidad en el campo de la salud mental iniciando la construcción de manicomios, hasta que un decreto de 19 de abril de 1887 estableció que la obligación de atender a los dementes era imputable a la Diputación de cada provincia.
A pesar de las disposiciones legales vigentes, en los últimos años del siglo XIX no existían recursos asistenciales para los enfermos mentales quienes no recibían atención sanitaria y se encontraban desatendidos por las calles o encerrados en sombríos calabozos en los que transcurrían sus días. Los manicomios de la época eran verdaderos pudrideros de locos en los que el ambiente reinante, lejos de favorecer la buena evolución de los pacientes, contribuía a su descompensación y a su desorganización.
Ante la ausencia de hospitales psiquiátricos en el País Vasco, los enfermos eran ingresados fundamentalmente en los Manicomios de Valladolid y Zaragoza, lo que implicaba un importante desplazamiento y en muchos casos, una definitiva desconexión de la comunidad originaria.
LA REFORMA PSIQUIÁTRICA DE 1931
En 1931 tuvo lugar una reforma legal que liberalizaba el ingreso y salida del enfermo mental en las instituciones psiquiátricas y dictaba normas para la construcción de establecimientos hospitalarios, planificaba clínicas abiertas en hospitales generales y trazaba las primeras líneas de la asistencia psiquiátrica hospitalaria. Además, supuso la toma de conciencia por parte de la Administración Pública de las responsabilidades asistenciales que tenía con toda la población, no sólo con los indigentes. Paulatinamente se fueron extendiendo en la sociedad la Seguridad Social y el Seguro Obligatorio de Enfermedad que se crearon siguiendo el modelo italiano. Sin embargo, la asistencia psiquiátrica permaneció fuera de este circuito sanitario, manteniéndose en el ámbito de actuación de las secciones de Beneficencia de las diferentes Diputaciones. No obstante, éstas pusieron en marcha una forma particular de seguro de enfermedad que hicieron extensible a toda la asistencia ofrecida en sus instituciones sanitarias, entre ellas la asistencia psiquiátrica. Todo ciudadano que lo solicitara podía recibir cobertura económica para consulta u hospitalización, teniendo que abonar una parte en la medida de su capacidad económica, de manera que cuando la familia no poseía recursos, la Diputación asumía el coste total de la hospitalización. Además, como consecuencia de la Guerra Civil el poder adquisitivo de las pensiones sufrió una caída importante, lo cual supuso el paso progresivo de muchas pacientes de la condición de pensionistas a la de beneficencia de las diferentes Diputaciones.
El Hospital Aita Menni mantenía relaciones institucionales con las Diputaciones de Gipuzkoa, Bizkaia, Araba y Burgos, desde donde provenían los pacientes que se atendían.
La Diputación de Gipuzkoa mantuvo invariablemente a las enfermas que dependían de ella en el Hospital Aita Menni, pero a partir de 1932, como consecuencia de la apertura de otros recursos asistenciales para situaciones agudas, el hospital se transformó en centro para la recuperación y residencia de enfermas mentales crónicas donde eran ingresadas las enfermas crónicas dependientes de dicha Diputación.
Por su parte, la Diputación de Bizkaia contaba con el manicomio de Bermeo por lo que la presencia de enfermas procedentes de este territorio histórico no fue muy significativa en los primeros años. De todos modos, la afluencia de enfermas fue creciendo a partir de estas fechas hasta alcanzar una proporción muy elevada en el censo global de pacientes.
La Diputación de Araba contaba con un hospital psiquiátrico propio por lo que la presencia de enfermas alavesas ha sido siempre mínima. La Diputación de Burgos derivaba sus pacientes desde 1898 y lo continuaría haciendo hasta que en 1977 trasladara a sus últimas enfermas al recién creado manicomio de Oña.
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LA INTRODUCCIÓN DE LOS PSICOFÁRMACOS
En la segunda mitad de los años 40 se descubrió un potente antihistamínico que mostró propiedades sedantes sobre el sistema nervioso central. Se trataba de la prometazina (Fenergan®). A partir de las expectativas que abrió este descubrimiento para el tratamiento de las enfermedades mentales, se desarrollaron nuevas investigaciones que desembocaron en el descubrimiento de la clorpromazina (Largactil®) en diciembre de 1950. La revolución de la psicofarmacología había comenzado.
A partir de ese momento, los avances en este terreno se sucedieron a un ritmo vertiginoso: en 1952 se aisló la reserpina a partir de la raíz de la Rauwolfia serpentina; en 1955 se sintetizó el clordiazepóxido, abriendo el camino de los ansiolíticos benzodiazepínicos; en 1956 se descubrió el efecto antidepresivo de la iproniazida, precursor de los inhibidores de la monoaminooxidasa; en 1957 se produjo el descubrimiento del primer antidepresivo tricíclico, la imipramina.
Aunque el marco legal vigente en esta época seguía siendo el establecido por el Real Decreto de 1931, estos descubrimientos tuvieron una gran importancia en la atención psiquiátrica en general y en el Hospital Aita Menni en particular puesto que, a partir de la introducción progresiva de estos fármacos, muchos enfermos pudieron evolucionar favorablemente, lo que dio lugar a que el censo de pacientes comenzara a disminuir por primera vez en la historia del hospital. Como consecuencia, en estos años los trabajos materiales fueron dirigidos principalmente a tareas de mantenimiento y acomodación de subestructuras a necesidades variables.
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EL NUEVO HOSPITAL AITA MENNI
Con la llegada de la democracia, la asistencia a los enfermos mentales salió del ámbito del Ministerio de la Gobernación para entrar dentro de la asistencia sanitaria general y por tanto, entre las competencias del Ministerio de Sanidad (reforma del Código Civil de 1983). En la Ley General de Sanidad de 1986 se recogía la planificación de los servicios de asistencia psiquiátrica poniendo especial énfasis en el desarrollo de la asistencia extrahospitalaria a través de servicios comunitarios como consultorios, hospitales de día, centros laborales protegidos para minusvalías psíquicas u hogares asistidos en la comunidad. Por otra parte, se creaban unidades psiquiátricas para la atención de casos agudos en los hospitales generales así como unidades de rehabilitación en régimen de media estancia en los hospitales psiquiátricos y establecimientos residenciales de larga estancia.
Por otra parte, en la Comunidad Autónoma Vasca se elaboró un Plan de Asistencia Psiquiátrica y Salud Mental a partir del cual se fueron creando los diferentes dispositivos asistenciales haciendo especial hincapié en la red de centros de salud mental y en las unidades psiquiátricas de corta estancia en los hospitales generales. Simultáneamente, en 1983 se creó el Servicio Vasco de Salud – Osakidetza para la gestión de los servicios sanitarios de la comunidad autónoma, aunque hasta 1985 las competencias en salud mental permanecieron bajo la responsabilidad de las Diputaciones Forales. A partir de entonces, el Hospital Aita Menni concertó las estancias de sus pacientes con esta institución dependiente del Departamento de Sanidad del Gobierno Vasco.
En este contexto, el Hospital Aita Menni se renovó para convertirse en un instrumento moderno de terapia y rehabilitación de las funciones psíquicas y sociales deterioradas por la enfermedad mental, orientando su actividad a las pacientes que requerían estancias prolongadas en el hospital. Para ello, se consideró muy importante proceder a la renovación de las instalaciones con una reorganización global.
Ante la función concreta que el Hospital Aita Menni debía cumplir en el marco asistencial vigente, se construyó un nuevo espacio hospitalario y residencial cuyas obras comenzaron en 1981.
Vista general del Hospital Aita Menni en 1981, poco antes de iniciarse las obras de las nuevas instalaciones
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LA DIVERSIFICACIÓN DE SERVICIOS
La Comunidad Hospitalaria Coincidiendo con la celebración en 1988 del Año del Colaborador en las instituciones de las Hermanas Hospitalarias, se inicia en el Hospital Aita Menni un proceso de integración de los profesionales que en él trabajan dando lugar a la Comunidad Hospitalaria en la que hermanas y colaboradores desarrollan conjuntamente su labor y en cuyo centro se sitúa al paciente y sus familiares. Esta integración es expresión de la voluntad de la Congregación de las Hermanas Hospitalarias y se plantea como una necesidad consecuente a la incorporación de un gran número de nuevos profesionales de cara a acometer los nuevos proyectos asistenciales y se materializa en una participación creciente de los colaboradores en la planificación del futuro y en la toma de las decisiones que afectan a la vida del centro.
El mayor nivel de complejidad que el hospital alcanza en los últimos años y la incorporación de disciplinas específicas para determinados dispositivos han provocado la estructuración de diferentes equipos asistenciales que, manteniendo la filosofía del trabajo multidisciplinar en cada servicio, van alcanzando cotas de autonomía crecientes, aunque manteniéndose la necesaria coordinación entre todos ellos. Esta progresiva especialización conlleva no sólo la adecuación arquitectónica de los equipamientos sino también un avance en el desarrollo de la tecnología aplicada y en el esfuerzo dedicado a la investigación científica.
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