SAN GIOVANNI DI DIO – Il percorso travagliato di un santo
SAN GIOVANNI DI DIO
La vita di un Santo
È il 1495: nasce Giovanni Ciudad, il futuro San Giovanni di Dio. Nasce da una modesta famiglia di Montemor-o-Novo, piccola cittadina portoghese a 110 Km. da Lisbona. Incerte e frammentarie le notizie sulla sua infanzia, e misterioso l’episodio in cui il padre Andrea lo affida, a soli 8 anni, a un pellegrino di passaggio… Ritroviamo più tardi il piccolo Giovanni in Castiglia, dove trascorre gli anni fino alla maturità come pastore al servizio di Francisco Cid, majoral di Oropesa. La vita di Giovanni Ciudad si annuncia da subito movimentata, e non particolarmente ordinata. Ha già ventotto anni quando si arruola nell’esercito imperiale per combattere contro i Francesi, nella campagna per la riconquista della fortezza di Fuenterrabia, nei Pirenei. La passione per il gioco non lo fa di certo emergere dalla truppa. Fino al momento in cui il suo diretto superiore, il capitano Ferruz, in seguito a una storia di furto nella quale Giovanni è coinvolto, arriva a ordinarne l’impiccagione.
In questa come in altre occasioni, è solo la fede istintiva di Giovanni a salvarlo in extremis. Ritorna alla vita di pastore a Oropesa, ma di nuovo segue la via militare e nel 1532 è con l’armata che salva Vienna dalla morsa dei Turchi. Di ritorno, decide di compiere un pellegrinaggio a San Giacomo di Compostella. Nuovamente in Portogallo incontra il conte d’Almeida, nobile caduto in disgrazia, e insieme raggiungono la colonia portoghese di Ceuta, in Marocco, dove Giovanni, per mantenere la famiglia del conte, lavora come bracciante alle fortificazioni della città. Ritornato in Spagna, accetta un lavoro qualsiasi per vivere. Con i pochi risparmi, decide di diventare venditore ambulante di libri e immagini religiose. E’ sempre in movimento, Giovanni: e mentre è in cammino la tradizione racconta che avviene l’ incontro con il “pastorello stanco”. Egli lo porta sulle sue spalle e il bambino lo ricompensa con una melagrana. E’ il bambino Gesù.
1539: Giovanni vive a Granada, dove ha aperto una libreria. Il 20 gennaio gli capita di ascoltare un sermone di Giovanni d’Avila. Rimane sconvolto: è la vera conversione. Il suo shock è così forte da sembrare pazzo. Percorre le strade della città urlando la sua “follia” per Dio: «Nudo, voglio vivere, seguire Gesù Cristo, nudo, e diventare povero in suo onore». Poi a casa brucia i libri e, in ginocchio, nelle piazze di Granada, esprime la sua contrizione: «Misericordia, misericordia, Signore Iddio, abbiate pietà di questo grande peccatore che Vi ha offeso». La sua conversione viene presa per pazzia. Lo prendono e ricoverano all’Ospedale Reale, dove a quei tempi la malattia mentale si cura con le catene e la frusta. Viene presto riconosciuto sano e rimesso in libertà. Giovanni decide allora di dedicare il resto della sua vita ai poveri e agli ammalati.
È l’autunno del 1539, ha quarantaquattro anni, fonda in via Lucena il suo primo ospedale. In dicembre il Vescovo di Tuy, Monsignor Sebastian Ramirez Fuenleal, presidente della Cancelleria Reale di Granada, gli conferisce l’ abito religioso e gli conferma il nome che il popolo gli aveva già dato: “Giovanni di Dio”. Nel 1547 l’Ospedale si trasferisce alla salita de los Gomeles. Giovanni muore l’8 marzo 1550. I suoi primi compagni danno inizio alla fondazione dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio – Fatebenefratelli. Il processo di beatificazione è del 1630, del 16 ottobre 1690 la canonizzazione di Alessandro VIII. E’ proclamato Patrono celeste degli ospedali e dei malati da Leone XIII nel 1886, Patrono celeste degli infermieri e delle loro associazioni da Pio XI nel 1930. Pio XII, nel 1940, lo proclama secondo Patrono celeste di Granada.
San Giovanni di Dio è, come uomo, un esempio di disponibilità e apertura verso il prossimo. Sradicato dalla famiglia a soli otto anni, sballottato dagli eventi, si adatta di buon grado alle condizioni più difficili. La sua è una vita in movimento, un’esperienza continua di mutamento nell’ambiente e nelle persone che lo circondano, ma anche di stabilità nella generosità. Sempre si rivela in lui la generosità che cresce e che, poco a poco, si trasforma in fede. Giovanni di Dio è diventato Santo per la sua generosità nei confronti di tutti quelli che ha incontrato, servito, curato, consolato. La sua santità è il frutto di questo distacco da sé che provoca in lui l’ amore per Gesù Cristo. Questo è il messaggio di Giovanni di Dio: Dio è la fonte di ogni amore. Dio che svela a tutti noi il vero volto del fratello ferito nella carne e nel cuore. Alcuni, sconvolti dalla Parola di Dio e dall ’esempio di santi come Giovanni di Dio, finiscono per consacrare la vita al servizio dei loro fratelli più bisognosi.
Primi due discepoli, Antonio Martin e Pedro Velasco. Oggi a formare l’Ordine dei Fatebenefratelli sono oltre 1500 Religiosi, nativi di 55 paesi diversi: un Ordine sparso in tutto il mondo, con 293 opere in 46 nazioni e oltre 40.000 collaboratori. La lunga storia iniziata a Granada più di quattrocento anni fa si svolge anche in Italia e porta, dopo alterne vicende, alla creazione di ventuno ospedali facenti parte della Provincia romana e di quella lombardo-veneta.
Per primo si stabilisce il legame con il centro della Chiesa, Roma, dove l’ allora “Fratello Maggiore” dei discepoli di Giovanni di Dio, Rodrigo di Sigüenza, invia Fra Pietro Soriano e Fra Sebastiano Arias allo scopo di ottenere il riconoscimento ufficiale dell’Istituto. Il processo è lungo: prima l’approvazione come Congregazione e poi come Ordine religioso – rispettivamente con la Bolla “Licet ex debito”, del 1572, e con il Breve “Etsi pro debito”, del 1586. Nel frattempo, Fra Soriano si muove a Napoli per fondare il primo ospedale fuori della Spagna ed è quindi di nuovo a Roma, nel 1584, dove acquista il monastero con la chiesa di San Giovanni Calibita sull’Isola Tiberina, trasformandolo in ospedale. Il frate, seguendo il mandato del santo Fondatore, organizza una struttura di tipo nuovo, in cui ogni malato ha un letto singolo, con cortine abbassabili, per dare un po ’ di riservatezza e dignità alla sofferenza. Questo Istituto continua a rappresentare, ancora oggi, il punto di riferimento per i Fatebenefratelli in Italia ed è la sede della Curia Generalizia.
Ma continuiamo con la storia. Nel 1587 si tiene il primo Capitolo, che approva le Costituzioni ed elegge Pietro Soriano primo Priore Generale dell’ Ordine. La fama dei Fatebenefratelli si diffonde anche al nord, tanto che nel 1588 l’arcivescovo di Milano, Monsignor Gaspare Visconti, segue l’ intenzione del predecessore Carlo Borromeo e li chiama nella città di S. Ambrogio. Il secolo successivo porta bene all’Ordine, nonostante qualche interferenza politica da collegare al dominio spagnolo, intenzionato a mantenere pieno controllo anche sulle strutture ospedaliere.
Nel 1653 si contano ben otto province italiane – Roma, Napoli, Milano, Sicilia, Bari, Calabria, Basilicata, Sardegna – e sono attivi 150 ospedali. Ma l’ interferenza della corona continua a farsi sentire nella seconda metà del ‘700, soprattutto nella Provincia lombarda, quando entra a fare parte dell’ Impero asburgico e subisce le vessatorie “Leggi Giuseppine”. Sorte non migliore tocca ai Fratelli che vivono la triste parentesi del dominio napoleonico.
Con il secolo XIX, tutto l’Ordine è sconvolto dal traballante rinnovamento socio-politico che segna il tramonto del vecchio regime. Il «nuovo che avanza» non è foriero di buone notizie per i Fatebenefratelli. L’ideale repubblicano avversa manifestamente la Chiesa e le sue istituzioni.
Succede anche di peggio con la nascita del Regno d’Italia che, nel 1866, porta alla soppressione dell’Ordine. Ventisette dei quarantasei ospedali dei Fatebenefratelli sono requisiti: a Milano, l’ospedale Santa Maria Ara Coeli, plurisecolare sede della provincia.
A Roma, nel 1878, il municipio di Roma entra in possesso dell’Ospedale Tiberino, cuore dell’Ordine; tre Fatebenefratelli non italiani, ufficialmente privati cittadini, lo comprano per 400 mila lire, nel 1892. Ma queste azioni in incognito non sono un caso isolato: in molti ospedali, i Frati di San Giovanni di Dio possono continuare a servire solo inquadrandosi in Associazione Laica Ospedaliera.
Gradualmente l’ondata anticlericale diminuisce e l’Ordine in Italia riprende quota. Nascono nuovi ospedali. Dal 1968 i Fatebenefratelli delle due Province italiane procedono alla classificazione degli istituti, con tutti i relativi adeguamenti, per inserirli nel piano sanitario nazionale. Oltre all ’Ospedale sull’Isola Tiberina e l’Ospedale S. Pietro, sulla via Cassia, la Provincia romana conta oggi sei centri assistenziali: Napoli, Benevento, Genzano, Perugia, Palermo, Alghero.
Più lungo l’elenco per la Provincia lombardo-veneta: quattordici i centri nell’Italia settentrionale: Brescia, Cernusco sul Naviglio, Erba, Gorizia, Milano, Romano d’Ezzelino, S. Colombano al Lambro, San Maurizio Canavese, Solbiate Comasco, Trivolzio, Varazze, Venezia nonché l’Ospedale Sacra Famiglia di Nazareth, in Israele. Inoltre lo spirito missionario ha spinto i religiosi a fondare e sostenere due ospedali in Africa, ad Afagnan, nel Togo, e a Tanguiéta, nel Benin che oggi formano, insieme al centro nutrizionale di Porga (Benin) la Delegazione generale S. Riccardo Impuri. Sempre della Provincia lombardo-veneta è il Centro Studi Fatebenefratelli di Monguzzo, un castello trecentesco donato per lascito testamentario. Oggi è adibito a centro studi ospedalieri e luogo di congressi e convegni di carattere sanitario e religioso. Struttura di grande suggestione, presenta fra l’altro una Biblioteca ricca di oltre 10.000 volumi, e la Sala consiliare, al primo piano.
Realizzare il Regno di Dio nell’ambiente sanitario
È il 1546, quando Giovanni di Dio prende con sé nell’ospedale di Granada i primi due discepoli, Antonio Martin e Pedro Velasco. Oggi a formare l’Ordine dei Fatebenefratelli sono oltre 1500 Religiosi, nativi di 55 paesi diversi:un Ordine sparso in tutto il mondo, con 293 opere in 46 nazioni e oltre 40.000 collaboratori. La lunga storia iniziata a Granada più di quattrocento anni fa si svolge anche in Italia e porta, dopo alterne vicende, alla creazione di ventuno ospedali facenti parte della Provincia romana e di quella lombardo-veneta.
Per primo si stabilisce il legame con il centro della Chiesa, Roma, dove l’ allora “Fratello Maggiore” dei discepoli di Giovanni di Dio, Rodrigo di Sigüenza, invia Fra Pietro Soriano e Fra Sebastiano Arias allo scopo di ottenere il riconoscimento ufficiale dell’Istituto. Il processo è lungo: prima l’approvazione come Congregazione e poi come Ordine religioso – rispettivamente con la Bolla “Licet ex debito”, del 1572, e con il Breve “Etsi pro debito”, del 1586. Nel frattempo, Fra Soriano si muove a Napoli per fondare il primo ospedale fuori della Spagna ed è quindi di nuovo a Roma, nel 1584, dove acquista il monastero con la chiesa di San Giovanni Calibita sull’Isola Tiberina, trasformandolo in ospedale. Il frate, seguendo il mandato del santo Fondatore, organizza una struttura di tipo nuovo, in cui ogni malato ha un letto singolo, con cortine abbassabili, per dare un po ’ di riservatezza e dignità alla sofferenza. Questo Istituto continua a rappresentare, ancora oggi, il punto di riferimento per i Fatebenefratelli in Italia ed è la sede della Curia Generalizia.
Ma continuiamo con la storia. Nel 1587 si tiene il primo Capitolo, che approva le Costituzioni ed elegge Pietro Soriano primo Priore Generale dell’Ordine. La fama dei Fatebenefratelli si diffonde anche al nord, tanto chenel 1588 l’arcivescovo di Milano, Monsignor Gaspare Visconti, segue l’ intenzione del predecessore Carlo Borromeo e li chiama nella città di S. Ambrogio. Il secolo successivo porta bene all’Ordine, nonostante qualche interferenza politica da collegare al dominio spagnolo, intenzionato a mantenere pieno controllo anche sulle strutture ospedaliere. Nel 1653 si contano ben otto province italiane – Roma, Napoli, Milano, Sicilia, Bari, Calabria, Basilicata, Sardegna – e sono attivi 150 ospedali.
Ma l’interferenza della corona continua a farsi sentire nella seconda metà del ‘700, soprattutto nella Provincia lombarda, quando entra a fare parte dell’Impero asburgico e subisce le vessatorie “Leggi Giuseppine”. Sorte non migliore tocca ai Fratelli che vivono la triste parentesi del dominio napoleonico.
Con il secolo XIX, tutto l’Ordine è sconvolto dal traballante rinnovamento socio-politico che segna il tramonto del vecchio regime. Il «nuovo che avanza» non è foriero di buone notizie per i Fatebenefratelli. L’ideale repubblicano avversa manifestamente la Chiesa e le sue istituzioni. Succede anche di peggio con la nascita del Regno d’Italia che, nel 1866, porta alla soppressione dell’Ordine. Ventisette dei quarantasei ospedali dei Fatebenefratelli sono requisiti: a Milano, l’ospedale Santa Maria Ara Coeli, plurisecolare sede della provincia. A Roma, nel 1878, il municipio di Roma entra in possesso dell’Ospedale Tiberino, cuore dell’Ordine; tre Fatebenefratelli non italiani, ufficialmente privati cittadini, lo comprano per 400 mila lire, nel 1892. Ma queste azioni in incognito non sono un caso isolato: in molti ospedali, i Frati di San Giovanni di Dio possono continuare a servire solo inquadrandosi in Associazione Laica Ospedaliera.
Gradualmente l’ondata anticlericale diminuisce e l’Ordine in Italia riprende quota. Nascono nuovi ospedali. Dal 1968 i Fatebenefratelli delle due Province italiane procedono alla classificazione degli istituti, con tutti i relativi adeguamenti, per inserirli nel piano sanitario nazionale. Oltre all’Ospedale sull’Isola Tiberina e l’Ospedale S. Pietro, sulla via Cassia, la Provincia romana conta oggi sei centri assistenziali: Napoli, Benevento, Genzano, Perugia, Palermo, Alghero. Più lungo l’elenco per la Provincia lombardo-veneta: quattordici i centri nell’Italia settentrionale: Brescia, Cernusco sul Naviglio, Erba, Gorizia, Milano, Romano d’Ezzelino, S. Colombano al Lambro, San Maurizio Canavese, Solbiate Comasco, Trivolzio, Varazze, Venezia nonché l’Ospedale Sacra Famiglia di Nazareth, in Israele.
Inoltre lo spirito missionario ha spinto i religiosi a fondare e sostenere due ospedali in Africa, ad Afagnan, nel Togo, e a Tanguiéta, nel Benin che oggi formano, insieme al centro nutrizionale di Porga (Benin) la Delegazione generale S. Riccardo Impuri. Sempre della Provincia lombardo-veneta è il Centro Studi Fatebenefratelli di Monguzzo, un castello trecentesco donato per lascito testamentario. Oggi è adibito a centro studi ospedalieri e luogodi congressi e convegni di carattere sanitario e religioso. Struttura di grande suggestione, presenta fra l’altro una Biblioteca ricca di oltre 10.000 volumi, e la Sala consiliare, al primo piano, che ospita ogni tre anni i Capitoli Provinciali dell’Ordine.
Il carisma dell’ospitalità
Povertà, castità e obbedienza sono i tre voti classici comuni a tutti gli ordini religiosi. I Fatebenefratelli aggiungono un quarto voto, dettato dal carisma specifico del loro Ordine, che è l’ospitalità. Ospitalità come amore verso Dio e verso il prossimo. Concetti astratti? Al contrario, molto concreti: assistere gli infermi, raccogliere l’elemosina per la loro sopravvivenza – «Fratelli, fate il bene a voi stessi dando l’elemosina ai poveri» è il celebre invito di San Giovanni di Dio – esercitare un attivo apostolato con “donne di vita”, imboccare la professione medica non per fare soldi, ma per servire l’uomo, in particolare il più bisognoso… Questo è, secondo la lezione di San Giovanni di Dio – e di San Giovanni Grande, di San Riccardo Pampuri, DI San Benedetto Menni, come di tutti gli altri confratelli che hanno dedicato la propria vita alla «santa ospitalità» – il senso autentico del Vangelo, da vivere con eroica coerenza. La lezione resta valida.
Perché la vita dei santi continua a esercitare questa funzione splendidamente esemplare? Perché sono uomini come noi, calati nella realtà precisa e contingente della storia. Non è solo questione d’essere cristiani, ma uomini autentici. Tutti si riconoscono nell’umanità. E i santi rappresentano concretamente e umanamente la possibilità di imitare Cristo. In ogni epoca storica, essi riescono a incarnare la Parola di Dio nella realtà del proprio tempo, nonostante le condizioni spirituali, sociali, politiche ed economiche più o meno avverse, perfino tragiche.
Come scrive il Superiore Generale dell’Ordine, Fra Pascual Piles Ferrando: «Giovanni di Dio può considerarsi a pieno titolo come un modello della “Nuova Ospitalità”, perché ha saputo coniugare l’amore verso Dio e l’amore verso il prossimo incarnandolo nella realtà concreta del suo tempo con grande capacità organizzativa dell’assistenza e con una chiara visione del futuro».
L’ ospitalità è quindi la chiave di lettura per comprendere come lo spirito dell’Ordine di San Giovanni di Dio si sia manifestato nei cinque secoli della sua storia. E’ un carisma “operativo”, l’ospitalità. E’ la speranza. «Nell’ospitalità, la speranza pensa che un giorno gli ospedali saranno centri di vita e di salute, capaci di risanare integralmente l’uomo sofferente; saranno luoghi capaci di generare a nuova vita le persone, anche se non saranno riusciti a eliminare la malattia» ha giustamente sostenuto Giovanni Cervellera, facendo intendere una fede che in prospettiva è sicuramente quella «realizzazione del Regno di Dio nell’ambiente sanitario» che è il traguardo spirituale dell’Ordine Ospedaliero dei Fatebenefratelli.
Ma è anche una testimonianza concreta della potenza carismatica dell’ospitalità. Un’ospitalità che si presenta naturalmente «nuova» allorché trasmette alle persone di buona volontà il modo di osservarla. E lo trasmette, puntualmente, in ogni epoca. Anche nella nostra. Quali dunque i contenuti dell’attuale “Nuova Ospitalità”? Si tratta di venire in soccorso di questa società, disorientata ma orgogliosa delle sue conquiste, con i valori immutabili della carità. Come scrive Fra Marco Fabello: «I grandi significati dell’ospitalità, oggi, si manifestano concretamente nella solidarietà e nell’attenzione alle persone che ci stanno vicine e che vivono nel bisogno e nella povertà fisica, intellettuale e morale».
Con la scelta fatta, dal 1968 in poi, di procedere alla classificazionedegli istituti per inserirli nel piano sanitario nazionale, i Fatebenefratelli danno l’ennesima dimostrazione del valore “operativo” dell’ospitalità. Un valore che è sotto i nostri occhi, in quasi tutti i centri assistenziali, con continui e attenti lavori di ristrutturazione e di ammodernamento nonché di imponenti ampliamenti delle strutture, ma soprattutto con l’assunzione di una nuova impostazione nella conduzione della struttura ospedaliera.
Un adeguamento in prima analisi legislativo, per rispettare i caratteri di «controllo di gestione – verifica della qualità» che sono alla base della nuova normativa sanitaria nazionale; ma un adeguamento che tale non è, se considerato dal punto di vista più profondo del carisma dell’ospitalità. E’ allora piuttosto un’adesione naturale alla propria vocazione: il mandato ricevuto da Cristo per curare gli infermi con gioia, comprensione e umanità. Ed è appunto quest’ultimo, l’umanità del servizio, un tema di importanza capitale per comprendere lo spirito della missione ospedaliera dei Fatebenefratelli.
«La vocazione ospedaliera che abbiamo ricevuto è un dono che si sviluppa in noi nella misura in cui rispondiamo ogni giorno all’invito di Dio che ci chiama a identificarci con Cristo nell’amore verso gli uomini e specialmente nel servizio agli ammalati e ai bisognosi». ex art. 53 Costituzioni dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio “Voi siete chiamati a umanizzare la malattia”.
Ma nonostante questo, anche se la degenza è a breve termine, così come la prospettiva di recupero fisico, anche se non siamo soli, c’è per tutti un momento di riflessione, qualche volta di paura. Più della sofferenza fisica – uno stato critico complessivo dell’essere, che ognuno di noi è più o meno capace di affrontare e superare – è lo spaesamento da noi stessi che colpisce e che rende insicuri.
Questa sensazione di spaesamento la provano tutti. Oltre quella sottile cortina trasparente che divide la salute dalla malattia, la realtà non è più come prima: ora siamo noi i malati, siamo noi gli “estranei” e forse pensiamo alle numerose occasioni in cui abbiamo incontrato un malato e non l’abbiamo riconosciuto… “Queste persone che sono qui con me, ora, come mi vedono? Sono diventato anch’io un estraneo per loro?” Potrebbe essere questo, forse, il pensiero fisso di quello stato “sottile”, nel quale lo spazio e il tempo sembrano sfuggire di mano. Lo stato che si chiama malattia.
«C’è un legame misterioso e concreto tra la malattia e la riconciliazione, perché nella malattia l’uomo è capace di riflettere, di pensare al suo destino, al mistero della vita e della morte, di pensare a Dio». Così si è espresso Fra Pierluigi Marchesi, ex Priore Generale dell’Ordine dei Fatebenefratelli, per sottolineare la ricchezza di senso che la malattia e la sofferenza possono avere per la vicenda esistenziale di ognuno. I malati non sono degli estranei. Sono dei «profeti del senso» che, con il loro dramma personale, ci ricordano chi siamo e perché esistiamo.
Grazie alla loro prova, spesso disperata, capiamo che la nostra vita non è un sistema chiuso, ma un passaggio. La risposta che l’uomo dà alla sua sofferenza lo può cambiare. E può cambiare anche gli altri: famiglia, medici, infermieri… se solo i “normali” fossero meno distratti dalla buona salute e dalla voglia di vivere. Il malato invece sa, quantomeno lo sente, che i contenuti della sua vita quotidiana – lavoro, tempo libero, la ricerca del successo – non hanno sussistenza in sé. Ora che è costretto a un letto d’ospedale, s’interroga sul senso della vita, della sofferenza, della morte; nessuna delle sue certezze di prima serve più. Perfino la fede, se c’è, qualche volta vacilla.
Il malato cerca allora qualcuno. Quel qualcuno siamo tutti noi, oltre naturalmente al personale ospedaliero, che è in prima linea ogni giorno nella lotta contro la sofferenza degli ammalati. Ecco perché occorre riflettere ogni volta che si incontra la malattia: per imparare a riconoscerla, per comprenderne il senso, per riuscire a rapportarsi con l’ essere individuale che dolorosamente incarna quello stato critico. Perché l’ospedale è stato creato per lui.
Ancora Fra Pierluigi Marchesi, dal discorso pronunciato nell’ottobre 1983, al VI Sinodo dei Vescovi: «Se il malato non è al centro dell’ospedale, al centro degli interessi di tutti gli operatori, altri si mettono al suo posto. Non è raro negli ospedali vedere emergere la centralità del medico, o dell’amministratore, o del sindacalista, o del religioso: tutti usurpatori, perché il posto centrale non spetta ai medici, né agli infermieri, né agli amministrativi, né alla comunità dei religiosi o delle religiose.» Non c’è dubbio quindi che l’esperienza religiosa della malattia sia una testimonianza preziosa della centralità del paziente rispetto al “sistema ospedale”.
Saper ascoltare è l’atteggiamento ideale per avvicinare il malato. Non è facile. Le persone che lo prendono in cura, dopo le prime domande e l’avvio della cura, non gli danno più attenzione. Soprattutto non hanno tempo per ascoltare i problemi di fondo che lo preoccupano più della stessa sofferenza; gli infermieri sono assorbiti dai compiti professionali; i medici si interessano della malattia e dell’esecuzione scrupolosa della terapia.
Tutto nella vita del paziente è misurato, quantificato, programmato nel tempo come in una tabella di marcia. Niente di strano, certo, quando è un’entità fisica – il corpo – che va rimessa in ordine. Ma questo corpo non è materia inerte: appartiene a una persona. Se curare è rispondere ai bisogni del malato, allora si deve tenere conto anche della sua persona, di quello che sente e risente. E per questo non c’è che la qualità del silenzio. Un silenzio abitato da due persone. Lì c’è l’ospitalità, che è comprensione, attenzione, comunione nella domanda sul senso da dare all’avventura umana.
DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II ALLA COMUNITÀ RELIGIOSA DEI FATEBENEFRATELLI
Domenica 5 aprile 1981
1. Ho desiderato quest’incontro unicamente con voi, carissimi religiosi dell’Ordine ospedaliero di san Giovanni di Dio, perché mi premeva di esprimervi, insieme con la stima, la viva gratitudine che nutro per il servizio reso a questa città dalla vostra Congregazione nel corso di questi quattro secoli di storia. Non ripeto quanto ho già detto, sia pure in sintesi, solo poco fa. Ma quale poema di carità, di abnegazione, di altruismo è stato scritto dai Fatebenefratelli a partire da quel 25 marzo 1581, “che fu il primo giorno che i detti fratelli cominciarono a curare i poveri in questa città”, come è riferito testualmente in una “Memoria” dell’epoca! Né dimentico l’opera discreta, silenziosa e tanto efficace che svolgete in Vaticano, da quando Pio IX, nel 1874 vi chiamò a gestire il “servizio farmaceutico per la notte”.
Un così vasto e generoso impegno di dedizione alla cura degli infermi ha tratto origine e stimolo dalla testimonianza di quell’umile servitore dei poveri che fu san Giovanni di Dio, il quale usava firmarsi “Io frate zero”, secondo una probabile interpretazione dell’enigmatica sigla che egli soleva apporre in calce alle sue lettere. Per operare le sue meraviglie, Dio ha bisogno di strumenti che siano pienamente consapevoli della propria nullità, perché solo persone di questo genere sanno abbandonarsi, senza opporre resistenze, alle iniziative imprevedibili del suo amore.
Il vostro fondatore fu uno strumento siffatto e Dio lo ha scelto per “confondere i forti” (1Cor 1,27), e farne il padre di una così numerosa e benemerita Famiglia di anime generose.
2. Figli carissimi, avete alle vostre spalle il ricchissimo patrimonio di esempi virtuosi, che la lunga schiera dei vostri confratelli è andata accumulando nel corso di questi quattrocento anni di presenza in Roma e in tante altre parti del mondo. Coltivate in voi la legittima ambizione di emularne la testimonianza di fede intrepida e di carità senza confini. Sono significative, a questo proposito, le parole con cui il primo biografo del vostro fondatore descriveva lo zelo e il fervore della Comunità primitiva, raccoltasi nell’Ospedale di Granada. Con cenni rapidi ma efficaci egli annotava: “Tutti quelli che entrano qui per servire, servono con carità e per amor di Dio, senza che nessuno riceva salario. E così la casa è servita meglio che qualsiasi altra casa del mondo, perché tutti vi entrano per salvare la propria anima esercitandosi nella carità, e ciascuno fa più che può, senza che sia necessaria alcuna riprensione” (F. De Castro, Storia della vita e sante opere di Giovanni di Dio, Roma, 1975, p. 119).
In un tempo come il nostro, nel quale la cura del malato rischia di passare in second’ordine di fronte all’affermazione di altri valori ritenuti prevalenti, è quanto mai urgente che vi sia chi testimoni con l’esempio e con la parola la superiore dignità della persona, specialmente se debole ed indifesa. Le parole di Cristo: “Ero malato e mi avete visitato”.(Mt 25,36), sono lì a ricordare che tale dignità sussiste in ogni essere umano foss’anche il più misero e che mai può essere sacrificata in vista d’un guadagno, fosse anche il più rilevante..
Voi conoscete la risposta che san Giovanni diede all’Arcivescovo di Granada, il quale lo esortava a “ripulire l’ospedale”, estromettendone alcuni malati indisciplinati e litigiosi. Il biografo riferisce che il santo “ascoltò con molta attenzione tutto ciò che il suo Prelato gli diceva, e con molta umiltà e mitezza gli rispose: “Padre mio e buon Prelato, io solo sono il cattivo, l’incorreggibile ed inutile, che merito di essere scacciato dalla casa di Dio. I poveri che stanno nell’ospedale sono buoni, e di nessuno di essi conosco alcun vizio, E poi, giacché Dio tollera i cattivi e i buoni, ed ogni giorno fa sorgere sopra di tutti il suo sole, non è ragionevole scacciare gli abbandonati e gli afflitti dalla loro propria casa”” (F. de Castro, Storia della vita e sante opere di Giovanni di Dio, Roma, 1975, p. 103).
3. All’esempio di una carità evangelica così consequenziale e così disarmante si sono formati innumerevoli fratelli del vostro Ordine. Viene spontaneo ricordare qui soprattutto la figura luminosa di Fra Riccardo Pampuri, che il prossimo quattro ottobre sarà elevato alla gloria degli Altari. Gli esempi di virtù di questa, e di tante altre anime sante, che hanno militato nelle file del vostro Ordine, costituiscono quel patrimonio prezioso, di cui parlavo all’inizio. Ciascuno di voi ne può andar fiero, per trarne ispirazione e stimolo nelle piccole e grandi scelte, mediante le quali egli è chiamato a dare senso alla propria vita.
Il mio augurio e che ciascun religioso dell’Ordine sappia trarre da tali esempi indicazioni concrete, capaci di orientare la sua azione in mezzo ai malati, elevandone il significato a testimonianza di quella presenza misteriosa, e pur reale, con cui Cristo continua a passare tra i sofferenti di oggi “beneficando e risanando”, come un tempo passava tra gli infermi della Palestina (cf. At 10,38). Con questi voti, imploro su di voi, sui vostri ammalati e su tutte le persone a voi care l’abbondanza delle consolazioni celesti, in pegno delle quali vi imparto di cuore la mia apostolica benedizione.
“Carissimi, stringendovi a Cristo, (la vita battesimale!) pietra viva…anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale (la nostra Chiesa, la parrocchia di cui celebreremo la festa l’8 di maggio, e il Regno di cui è segno e strumento).
La Chiesa, e la comunità parrocchiale è mediazione visibile di appartenenza, si edifica con pietre vive, scelte: adatte a svolgere il loro ruolo in tale edificio spirituale.
Verifichiamo allora se ci sentiamo parte e come, della Chiesa e quale servizio in essa svolgiamo e quale tensione verso il Regno ci anima. Ai cristiani infatti sono aperti campi immensi di impegno, dall’affido della missione fatta da Gesù: <<Come il Padre ha mandato me, così io mando voi>>
E poco fa – lo abbiamo proclamato – <<In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre>>. “Onore dunque a voi che credete”!.
Un esempio di questo impegno lo abbiamo udito raccontare nel brano degli Atti. C’era bisogno di provvedere ai poveri (…mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio – aveva detto Gesù nella Sinagoga di Nazareth – ) e gli apostoli invitano la comunità a provvedere e riorganizzare il servizio: <<Cercate dunque tra di voi…li presentarono quindi agli apostoli …i quali imposero loro le mani >> (è anche indicazione di metodo!)
Ancora oggi la nostra comunità dunque ha bisogno di adempiere a questo compito: “i poveri li avrete sempre con voi” ci aveva avvertiti Gesù! L’aveva detto non solo come realistica prospettiva storica ma come sottolineatura di un impegno per amici affidabili. Si, amici affidabili “se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi…ma vi ho chiamato amici-Gv15,15- (Tante volte sentiamo – come è vero – di essere soltanto servi inutili -Lc 17,10-. Ciò nonostante, il Signore ci chiama amici perché ci dona la sua amicizia, ci fa suoi amici ) …Vi ho costituito (ed è Lui che ci abilita a questa fattiva amicizia!) perché andiate e portiate frutto”. Verifichiamo un aspetto di questo impegno per i poveri.
Di fronte alla povertà può nascere la tentazione di prescindere da Cristo per dedicarsi a urgenze pressanti.
- La tentazione di “prima migliorare la terra e poi trovare anche Cristo”.
- La tentazione di cambiare prima le strutture, trasformando il cristianesimo in un moralismo prima, in una politica poi, riducendo il credere ad un fare.
- Tentazione da lui vinta , diceva nel febbraio scorso l’allora card. Ratzingher, ai funerali di don Giussani. “Questa sarebbe stata una caduta nei particolarismi, una perdita dei criteri di orientamento e di conseguenza non la costruzione della comunione ma la divisione.”
- Tentazione in cui non è caduto don Giussani, a partire dalla sua fede imperterrita, a partire da un innamoramento in Cristo, sottolineava l’attuale Papa. “Ha capito che il cristianesimo non è un sistema intellettuale, un pacchetto di dogmi, ma un incontro, una storia d’amore e un avvenimento. Questo gli ha dato il dono del discernimento in un tempo pieno di tentazioni”
E questo ha dato la capacità, in tempi particolarmente difficili (ne faremo, spero, solenne memoria domani, 25 aprile!) a tanti in Italia e in Europa di essere “ribelli per amore” pagando con il rischio e a volte con la propria vita la scelta di libertà propria e altrui (inscindibili !) nella verità del rispetto della persona. La mancanza di questo ha portato molti che si credevano cristiani a confondere resistenza con rivoluzione verso una dittatura di altro segno, caratterizzando, a volte, con violenze e assassini il proprio agire.Senza Dio non si costruisce niente di bene. Ma “Dio rimane enigmatico se non riconosciuto nel volto di Cristo”. E’ affermazione questa di Benedetto XVI° che traduce bene le parole di Gesù che abbiamo appena proclamato: “Se conoscete me conoscerete anche il Padre…Chi ha visto me, ha visto il Padre…Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”.
La comunità, anche la nostra, ha bisogno di tante altre pietre vive che sostengano tanti altri settori dell’edificio spirituale: di papà e mamme educatori nella fede, di catechisti , di persone disponibili al servizio di anziani, di diversamente abili, di emarginati, … Nascono allora alcune urgenti domande:
- La nostra comunità valorizza al meglio le disponibilità che ha…?
- Riesce a ricoprire i ruoli che rimangono scoperti…?
- Riesce ad aiutare ciascuno a discernere il proprio carisma …?
Forse poi in alcuni di noi prende il sopravvento una specie di dubbio sulla propria capacità, dubbio che paralizza. Altri ferma il pensiero che manca il tempo…
Credo che la soluzione alle perplessità riguardo la decisione e la modalità di impegno in una comunione di volontà con Gesù, sia sempre il “conoscere Gesù”. Una conoscenza che partendo dal diritto consapevole a conoscere Cristo perché è la sola possibilità di realizzarsi in pienezza, secondo la nostra autentica natura di uomo o donna, il nostro originario destino, sfoci poi nell’accogliere la Sua amicizia. Gesù ci ha donato i mezzi per coltivare questa amicizia e santa madre Chiesa ce li propone abitualmente. Dobbiamo solo deciderci
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NB: “a partire da quel 25 marzo 1581, “che fu il primo giorno che i detti fratelli cominciarono a curare i poveri in questa città”, come è riferito testualmente in una “Memoria” dell’epoca!”
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