COMUNITÀ CRISTIANA E SOFFERENTI PSICHICI – Luciano Manicardi (9)
A mo’ di conclusione, queste pagine, che si incentrano sulla sfida che i malati psichici rappresentano per le comunità cristiane, vorrebbero aiutare a riflettere sulla lezione che la debolezza ha da offrire alle comunità cristiane.
La comunità, cercando di ripensarsi a partire dal punto di osservazione dei deboli, e particolarmente dei malati psichici, più facilmente individua l’essenziale che la caratterizza, ritrova se stessa spogliata dai tanti elementi che oggi la appesantiscono e la distraggono dall’ essenziale. Ritrova la sua fisionomia di corpo, lasciandosi alle spalle le sue configurazioni pesanti di “azienda” o di “macchina”. Jean Vanier, la cui esperienza di decenni di vita in comunità con persone portatrici di handicap psichici anche molto gravi, spesso persone che hanno trascorso lunghi periodi di vita in ospedali psichiatrici, è preziosa per configurare il rapporto fra comunità cristiana e malato mentale, ha scritto:
Bisogna che la chiesa sia sempre costruita sul più povero, e non il povero come oggetto di carità, ma il povero che, in quanto presenza di Gesù e fonte di vita, può guarirei (1) .
In effetti, troppo spesso anche nella chiesa queste persone sono o emarginate o temute o giudicate non necessarie o insignificanti o tutt’al più curate come oggetti di carità. Mentre essere vicini a loro è una grazia e una benedizione.
Premessa
Che atteggiamento hanno i cristiani verso le persone sofferenti nella psiche? Che responsabilità si assume la comunità cristiana in quanto tale? Come svolge, se lo svolge, il suo mandato di essere elemento essenziale per un percorso di assunzione e cura del sofferente? Si ha coscienza che la guarigione è anche fatto relazionale, che la qualità buona delle relazioni umane è decisiva per il ritrovamento di un benessere o almeno di un assetto vivibile dell’ esistenza? Può essere utile ricordare che lo psichiatra inglese Maxwell Jones cercò di organizzare l’ospedale psichiatrico come una comunità terapeutica (2). C’è in noi, nelle nostre comunità cristiane la disponibilità all’incontro e alla relazione con il malato e il sofferente psichico? La comunità cristiana ha coscienza di poter sviluppare potenzialità terapeutiche proprio in quanto luogo comunitario, relazionale, schola amoris, come amava ripetere Giovanni Paolo II riprendendo un’espressione di san Bernardo?
Già porre il problema del rapporto fra comunità e persone con handicap o sofferenze psichiche pone il dito su una grave piaga e su una malformazione ecclesiologica: non vi sono malattie che escludano dal far parte del corpo ecclesiale. Sano o malato, un cristiano è membro del corpo ecclesiale, ne è parte essenziale e irrinunciabile. Anzi, è portatore in sé di quella debolezza che lo rende somigliante al Crocifisso. Se dunque si deve affrontare questo rapporto come problema, significa che una malattia certamente c’è: ma si pone sul piano ecclesiale, sulla modalità con cui noi intendiamo e diamo forma concreta alle comunità cristiane.
Presenza dei malati, latitanza della comunità
Il tema propone una polarità: comunità cristiana e sofferenti psichici. I due termini del problema richiedono una riflessione preliminare. La presenza di persone afflitte da disagi, disturbi e malattie mentali è oggi ampiamente documentata e di proporzioni impressionanti. I livelli di gravità sono molto diversi, ma la realtà è di tali dimensioni da interpellare e scuotere le coscienze. Sappiamo bene che oggi le malattie della soggettività sono diffuse. Possiamo parlare di medicalizzazione dell’ esistenziale: l’uso e l’abuso crescente di prodotti farmaceutici di sostegno quali sonniferi, tranquillanti, antidepressivi, è lì a mostrarlo. Sembra quasi che vivere sia una malattia. Occorre chiedersi a chi pensiamo sentendo parlare di “sofferenti psichici”. Sempre e solo ad altri? Ai cosiddetti “matti”? La sofferenza psichica è dimensione che in maniere differenti, anche non patologiche, concerne ciascuno di noi.
Ma la mia domanda, provocatoria, verte invece sull’altro polo del problema: dov’è la comunità? E soprattutto dov’è o qual è la comunità che può aiutare un processo di guarigione? Non mi riferisco solo all’ attenzione carente di fronte al problema specifico che stiamo trattando, che pure è indubbia, ma alla presenza e alla configurazione stessa della comunità cristiana come tale. In particolare, come si configura la comunità cristiana locale in rapporto al problema del disagio e della malattia mentale, tra i poli della comunità familiare (e la cerchia affettiva di conoscenti, parenti, amici), delle istituzioni mediche e terapeutiche (il polo professionale tecnico della cura del malato) e della più ampia comunità civile e politica (il polo della convivenza sociale)? Questa domanda, su cui torneremo, ci suggerisce di porre un’ulteriore riflessione preliminare e urgente per non cadere nei rischi della retorica sulla positività sempre e comunque dell’ entità comunitaria e sulla sua possibilità di guarire. E ci dice come la presenza del malato, e del malato mentale, interpelli l’ecclesiologia, ma anche la fede e la spiritualità.
La comunità che produce sofferenti
La riflessione è questa: la comunità può produrre malattie, disagio psichico. Da un punto di vista sociologico, Marcel Gauchet ha mostrato come nel mondo disincantato, nel mondo che conosce il declino della presenza e dell’influenza degli dèi e del divino, nel mondo che fa a meno di Dio, il soggetto sia sottoposto a uno sforzo psichicamente stressante per tentare di essere se stesso: “Il declino della religione si paga con la difficoltà d’essere-sé… Siamo oramai destinati a vivere nella nudità e nell’ angoscia ciò che ci è stato più o meno risparmiato dall’inizio dell’avventura umana per grazia degli dèi” (3). Una iper-responsabilità di cercare di darsi un senso nella radicale solitudine, nella debolezza e fragilità dei legami, diviene schiacciante per l’uomo. Del resto, anche il ritorno di religiosità, di spiritualità, oggi eclatante, sembra spesso non uscire dalla stessa logica narcisistica, autocentrata, per nulla liberante, in definitiva patologica e, a mio parere, neppure cristiana.
Il clima culturale che traversa il mondo delle relazioni sociali e lavorative è contrassegnato da individualismo radicale, antagonismo, concorrenzialità. Nel mondo tecnologico i criteri di valutazione delle persone, che divengono anche i criteri di autovalutazione (ed eventualmente di svalutazione), sono funzionali ed esaltano la produttività e l’efficienza, non sollecitano la creatività, ma esigono esecutività precisa. È insomma una cultura che seleziona, e perciò esclude, crea primi e ultimi, produce emarginati e malati, deboli e perdenti. Certamente produce frustrati e illusi. Il quadro della comunità familiare, pure luogo di affetti vitali, appare oggi talmente fragile ed esposto, che spesso manca della robustezza e saldezza necessarie, oltre che delle competenze, per poter aiutare il familiare che vive un disagio o una malattia psichica. Senza calcolare che spesso deve saper mettere in atto misure di difesa per non essere travolta dall’ingestibilità della malattia. E senza calcolare ancora che spesso proprio la famiglia è l’alveo dell’insorgere di disturbi e malattie psichiche. E lì certo si pone l’esigenza di un rapporto comunità cristiana-famiglia in cui la prima sappia essere sostegno e aiuto concreto alla seconda.
Ma soprattutto anche la comunità cristiana deve sapersi vedere come luogo che sa creare malattia, disagio, sofferenza psichica. Deve dunque operare un’ autocritica e saper riconoscere che si può strutturare in maniere tali che aiutano l’insorgere di sofferenze psichiche.
- Quando è luogo burocratizzato, efficiente, organizzativo, efficace, ma dimentico dell’ attenzione da dare al piano umano, all’ascolto delle persone, all’educazione alla parola, alla formazione alla libertà e alla responsabilità, alla verità e all’autenticità, anch’essa può produrre esclusioni, e dunque sofferenze, ferite che divengono difficilmente rimarginabili.
- Quando la comunicazione all’interno della comunità e i suoi toni non sono evangelici o semplicemente civili, allora possono nascere ferite e sofferenze; quando i rapporti tra autorità e fedeli sono traversati da logiche di potere e da personalismi, possono avvenire oppressioni e abusi psicologici, fino a suscitare dipendenze o produrre rigetti; quando i rapporti tra le diverse componenti e articolazioni della comunità sono solcati da gelosie e rivalità possono nuovamente insorgere dinamiche di esclusione, di scarto, psicologicamente pesanti; quando la direzione spirituale, la confessione o la predicazione suscitano ingiuste colpevolizzazioni; quando si vive in climi di paura, di libertà a scartamento ridotto, di non limpidezza, quando si verificano casi di abuso spirituale (4) o addirittura di abuso fisico e sessuale, allora anche la comunità cristiana crea malattia e disagio psichico.
- In particolare mi pare utile ricordare la responsabilità della parola all’interno della comunità (come all’interno di ogni relazione interpersonale e sociale). Può essere espressa con le parole di Hans-Georg Gadamer: “Appartiene alle più grandi responsabilità del parlare il fatto che la parola pronunciata non possa più essere richiamata indietro. La parola pronunciata appartiene a colui che la ode” (5). E noi sappiamo bene come la parola può ferire, uccidere, conficcarsi come una dolorosa spina nella memoria e nella mente dell’altro.
La riscoperta della valenza terapeutica della fede deve pertanto accompagnarsi a una certa compaginazione della comunità cristiana in cui siano al centro alcune dimensioni essenziali che le consentano di essere comunità secondo il vangelo.
Una comunità datrice di senso
Una comunità così non può che avere un connotato di fondo essenziale. Un connotato in cui consiste la sua vocazione profetica. Se il profeta è colui che fa segno, la comunità cristiana è chiamata a essere segno e a declinare la sua vocazione profetica come invenzione del senso, reperimento e creazione di senso. In un contesto culturale che tende a evacuare la domanda sul senso giudicandola marginale e restringendo il campo d’interesse al funzionale, a ciò che è utile, conveniente economicamente, che emargina ciò che è gratuito, la chiesa ha il compito di custodire la domanda sul senso vivendo e trasmettendo la fede come cammino del senso. Proprio in questo la presenza del malato psichico, e magari del malato psichico grave, in cui le facoltà umane stesse sono drasticamente ridotte, il suo essere visto e considerato all’interno della compagine ecclesiale, può aiutare la comunità cristiana a posizionarsi correttamente. Chi è il malato psichico? Cosa suscita in noi? Prima di pensare a che fare per lui c’è da prendere sul serio la domanda che suscita in noi, il lavoro che ci obbliga a fare. Di fronte alle reazioni che può suscitare di paura, rimozione, estraneità, credo utile ricordare che il paziente psicotico non può non essere considerato come uno uguale a noi, anche se presenta una reale diversità; egli è immerso in una angosciata e disperata ricerca di senso e a questo senso noi non siamo estranei, anzi. Il non-senso, l’assurdo in cui procede il malato psichico, non è destituito di senso, anzi rivela qualcosa della ricerca di senso “normale” .
Cogliamo qui un aspetto forse inatteso. Il malato mentale proprio nella sua inquietante diversità, in questa diversità indesiderata e che ci coinvolge o almeno ci interpella e ci sgomenta in profondità, ci ricorda che cos’è la comunità cristiana. Forse proprio il malato mentale, qualora si accetti di vederlo, considerarlo, assumerlo per quanto è possibile, può aiutare la comunità a guarire lei dalle sue patologie. Sarà provocatoria, ma la questione va posta: e se fosse il malato che guarisce la comunità? Per poter essere comunità che cura il malato psichico la comunità cristiana deve essere anzitutto e semplicemente comunità. E questo, l’accennavo già prima, richiede almeno tre dimensioni: centralità dell’ ascolto e della celebrazione della parola di Dio; essere luogo di fraternità e di relazioni significative; apertura al debole, in particolare al malato mentale.
a) Una comunità che sia luogo di ascolto e di celebrazione della parola di Dio. L’ascolto della parola di Dio come centrale: solo un’ecclesia audiens, scrive Karl Barth, può essere ecclesia docens (6), ovvero, solo l’ascolto della parola di Dio che rende la chiesa serva, può abilitarla alla sua missione, a rispondere alle parole di Gesù che le dicono: “Guarite i malati, cacciate i demoni, annunciate che il regno di Dio si è fatto vicinissimo” (Mt 10,7-8).
b) Una comunità che sia luogo di fraternità e di relazioni significative. Il secondo elemento costitutivo della comunità è il suo essere luogo di fraternità e relazioni significative, buone e forti, semplici e gratuite. Echeggiando quanto ha scritto il cardinal Martini nel discorso del 6 dicembre 1995, si tratta di “una comunità alternativa, cioè una comunità che, in una società connotata da relazioni fragili, conflittuali e di tipo consumistico, esprima la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementate dalla mutua accettazione e dal perdono reciproco” (7). Non è semplice istanza etica o economia pastorale: è obbedienza all”‘amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 13,34); è fare della comunità il sacramento del corpo di Cristo.
c) Una comunità aperta al debole. Infine, per essere autenticamente comunità, essa deve aprirsi al debole, al malato e trovare nel debole un criterio della sua verità e autenticità. Una comunità in cui l’elemento attivo ed efficentistico divenga preminente, rischia di emarginare il debole, di non dar spazio alla presenza inutile del malato, di colui che non ha strumenti di conoscenza e di parola, e limitate possibilità di azione. Una tale comunità risponde allora a una concezione per cui la comunità deve essere l’insieme dei forti, la somma delle ricchezze di ciascuno, mentre ogni autentica comunità è frutto della condivisione delle povertà di ciascuno. La comunità è com-munitas, termine che rinvia a munus, che è il dovere, il mandato, il compito, ma anche il dono, in particolare il dono che si dà, il dono che ci spoglia di noi stessi e che rende coloro che vivono in una comunità dei donati a… e donanti a… La communitas allora è !’insieme di persone unite non da una proprietà, da un possesso, da un di più, ma da una mancanza, una povertà, un di meno (8). Paolo direbbe che la comunità è l’insieme delle persone che sono unite da un debito, il debito dell’amore reciproco (cf. Rm I3,8). Il malato mentale, nel suo reale deficit, nella sua concreta disabilità, che (sia ben chiaro!) con tutte le forze si deve assolutamente cercare di arginare e ridurre, ricorda alla comunità il suo status di corpo – è Paolo che la definisce così – in cui le membra più deboli sono le più necessarie (cf. 1Cor 12,22).
Non da ultimo, una delle maniere in cui il malato mentale può aiutare la comunità e i membri della comunità a guarire loro spiritualmente, è il carattere rivelatore della sua disarmante inermità, della sua debolezza, della sua fragilità. Essi ci ricordano che solo chi è vulnerabile può amare e lasciarsi amare. Splendida, anche qui, la testimonianza di Jean Vanier: “Le persone portatrici di handicap hanno una terrificante capacità rivelatrice”. Un malato, la cui madre morì al momento del parto, fu colpito da meningite e rimase gravemente leso, incapace di parlare, costretto a vivere per quattro anni completamente da solo, prima di essere accolto in una delle comunità di Vanier in Africa. Quando era molto angosciato batteva furiosamente la testa contro il muro, contro le pareti. Ora, quando gli assistenti della comunità vivono una tensione o non si parlano, egli lo sente e comincia a battere la testa contro il muro: non si tratta allora di cercare uno psichiatra, ma di trovare la via di riconciliare tra loro gli assistenti. Commenta Jean Vanier: “Ciò che una persona portatrice di handicap mentale esige è che si viva l’amore e che si sia nella verità. Non si può giocare con lei, perché lo sente” (9).
Gli elementi a cui abbiamo accennato – liturgia, relazionalità e fraternità, apertura al debole, la condivisione delle debolezze come costitutiva della comunità cristiana – sono parte di un’unica sacramentalità, la sacramentalità che fa della chiesa un luogo in cui le energie dell’ agape di Dio si traducono in relazioni interpersonali e divengono ispiratrici di relazioni sociali. Insomma, solo una comunità sana può essere una comunità che cura. Ma una comunità sana è una comunità sanata, o meglio, una comunità malata che il Signore ha guarito: nel Vangelo di Marco, figura dei discepoli sono i malati che Gesù guarisce. Noi siamo dei guaritori malati.
La competenza del cristiano di fronte al malato mentale
In obbedienza a questo fondamento evangelico credo che il primo ed elementare passo che la comunità cristiana è chiamata a fare nei confronti dei malati mentali è di accettare di vederli, e non di coprirsi la faccia e gli occhi come di fronte allo sfiguramento del Servo sofferente di Isaia 53: “Uno davanti al quale ci si copre la faccia”. C’è un modo di vicinanza terapeutica: essere presente a qualcuno rivelandogli il suo valore, la sua importanza, la sua dignità. Liberarci dallo sguardo mondano e intriso di pregiudizi che spesso è il nostro e assumere lo sguardo di Dio su questi suoi figli e sue creature.
È urgente cambiare il nostro sguardo su coloro che chiamiamo malati mentali, ed è urgente che essi cambino il loro sguardo su se stessi. Esiste un livello di essere che resta intatto. Esiste un luogo in ciascuno in cui noi siamo non solo guariti ma già restituiti a noi stessi … È a questo nucleo intatto che io mi rivolgo parlando a voi malati, non perché io abbia in me la speranza che un giorno voi sarete di nuovo integri, ma perché c’è in me la certezza che voi lo siete già (10).
Questa la competenza propria del cristiano circa il malato mentale: saper vedere in lui e accogliere in lui un uomo, una donna a immagine e somiglianza di Dio, un fratello, una sorella in cui risplende il volto di Cristo, uno per cui Cristo è morto. Questo cambiamento di sguardo è anche cambiamento del cuore: la presenza assunta del malato mentale immette il credente e la comunità cristiana in un cammino di conversione. Se uno dei problemi che possono frenare il credente nell’affrontare questo problema o nel cercare di assumerlo è quello della mancanza di competenze specifiche, non si può dimenticare questa competenza umana e spirituale del cristiano che lo abilita a farsi prossimo del malato.
Tratti e compiti della comunità cristiana
La comunità che si prende cura del malato psichico non può che essere una comunità di ascolto. Esercitarsi all’ arte dell’ ascolto è essenziale per aiutare a dare vita, a proseguire quel processo di nascita di una persona che non è avvenuto una volta per tutte, o più modestamente per far sentire soggetto parlante e desiderante l’altro che ci è davanti. Essere ascoltati, accolti, sentire che c’è chi ha bisogno di noi è un tratto che si deve vivere nella comunità cristiana. Nella comunità cristiana, che è un corpo, nessuno può dire “io non ho bisogno di te” (1Cor 12,21), esattamente come in un corpo, dice Paolo, la mano non può dire al piede “io non ho bisogno di te”. È noto che l’abbé Pierre ha iniziato la sua esperienza del villaggio Emmaus quando ha teso la mano a un disperato e gli ha detto: “Prima di suicidarti potresti aiutarmi a ricostruire una casa per una donna e il suo bambino che sono sulla strada?”. Quell’uomo accettò (11). L’ascolto è essenziale per guarire: ascoltare la persona, non solo le sue frasi, ma la persona. Allora si crea un clima di accoglienza e di amore. La comunità diviene allora un luogo dove si è portati gli uni gli altri (“Portate i pesi gli uni degli altri”, i pesi che siete gli uni per gli altri).
Se anche ci sono difficoltà comunicative o limiti comunicativi con il sofferente psichico, noi sappiamo che il sistema immunitario reagisce soprattutto agli stimoli emozionali. E la comunità cristiana che è un corpo non può che essere mossa da quell’amore intelligente che crea linguaggi di amore nuovi. Quei cristiani che nell’ eucaristia domenicale si scambiano il segno della pace, il bacio santo, l’abbraccio comunionale, come possono non cercare vie di contatto e comunicazione non verbali con chi è limitato a livello di parola? Il toccare (arte sviluppata dall’aptonomia che studia la comunicazione tattile affettiva essenziale soprattutto con i malati terminali, con chi non riesce a parlare) ci ricorda che è il corpo che parla, che trasmette messaggi, che comunica.
Ascoltare diviene un ascoltare la sofferenza dell’ altro e immette nella compassione. La compassione è un tratto della comunità che assume la responsabilità del malato psichico e che si relaziona con la sofferenza del malato mentale. Non si tratta di un mero sentimento, non ha nulla a che vedere con la commiserazione che è giustamente rifiutata dal malato che la trova offensiva, ma di un sentire che coinvolge la totalità della persona e che diviene virtù, etica, responsabilità verso l’altro facendo ciò che è in nostro potere e collaborando attivamente con chi può aiutarlo ad altri livelli di competenza. È una compassione-virtù, non una semplice compassione-sentimento, è un curare nel senso di prendersi cura dell’umano che è nell’ altro, nel malato, anche nel malato in cui questo umano è offuscato. Questa compassione si radica nella coscienza della comune umanità di cui sia io che il malato siamo ospiti. Questa compassione abita la coscienza della comune, universale umanità e della comune, universale esperienza della sofferenza. Proprio l’umanità più sofferente, più offuscata, più menomata, può svegliare la nostra assopita umanità, la nostra umanità imbarbarita. Uno dei tratti più tipici della nostra società è il cinismo: l’ostentazione compiaciuta e anche gridata, sguaiata, dell’indifferenza per l’altro. Dimenticando l’evidenza: che egli è ospite dell’umanità che ospita anche me.
La compassione si radica anche in quella solidarietà che connota la comunità cristiana che è corpo: e se in un corpo un membro è malato, tutto il corpo risente e partecipa della malattia. Come ritenere estranea a me la malattia del fratello? Il malato presenta e rappresenta la malattia degli altri, come un bambino che manifesta dei comportamenti devianti presenta e rappresenta l’ostilità e i litigi dei genitori: nella sua malattia, il malato rappresenta e presenta il groviglio di relazioni umane da cui è uscito.
Questi tratti ci portano a sottolineare l’importanza nella comunità cristiana di sviluppare una cultura della presenza. Di fronte alle dominanti dell’ apparire e del fare, il malato ci chiede di essere, di essergli accanto, di essere una presenza. Presenza che si situa sul piano del dono: dare tempo, dare ascolto, dare la parola. Ovvero, dire all’ altro, nella sua malattia: tu ci sei e sei importante per me. E spesso avviene che il sofferente psichico stesso sappia essere una presenza rilevante nella comunità ecclesiale non solo e non tanto per le incombenze che riesce ad assolvere, ma per la presenza che è, per l’umanità, per la bontà…
Nelle comunità cristiane si fa lavoro di educazione, di trasmissione della fede in particolare a giovani, bambini, adolescenti. lo credo che una vigilanza per aiutare una crescita solida, anche dal punto di vista psicologico, dei giovani, sia da mettere in conto da parte della comunità cristiana: non si tratta solo di assumere i sofferenti psichici, ma di operare in modo che ci possa essere uno sviluppo sano anche dal punto di vista psicologico. Introdurre all’arte della vita interiore, del dar nome alle proprie emozioni, del parlare la sessualità, del discernere bene e male e dell’assumere la disciplina dei limiti, questa è forse azione preventiva, o semplicemente educazione che libera dai sensi di onnipotenza e aiuta lo stabilirsi di un certo equilibrio psicologico. Introdurre: alla leggibilità delle proprie emozioni e sentimenti, alla capacità di gestire le situazioni (interiori ed esteriori), il che suppone lo sviluppo di una capacità di fiducia e confidenza. Introdurre al senso della vita, all’importanza della vita che merita un investimento personale di energie e passione. Tutto questo, e moto altro, fa parte dell’opera di trasmissione della fede intesa come cammino del senso della vita.
Infine, io penso che la rete di aiuto e sostegno concreto che la comunità cristiana può mettere in atto per venire in soccorso alle situazioni di disagio psichico presenti in loco, insomma il lavoro di carità vissuta, di tempo ed energie spese, debba da un lato accordarsi con il lavoro svolto nelle istituzioni sanitarie e teso alla riduzione del deficit, all’ampliamento delle abilità, all’incremento dell’integrazione, al guadagno dell’autonomia, al consolidamento dell’identità, e debba, dall’altro lato, arricchirsi di una riflessione che aiuti pian piano a elaborare un’antropologia che sappia ragionare sul tipo di diversità che la malattia mentale comporta, sul tipo di ostacoli che incontra nella cultura odierna e che portano a rimuoverla e a non volerla vedere, e sappia arricchirsi anche di un ascolto della Scrittura che possa dare peso e sostanza a una considerazione di fede della malattia mentale. Sappia arricchirsi di pensiero, consapevolezza e idee. Forse stiamo muovendo solo i primi passi.
[1] J. Vanier, “La force de la vulnerabilité” , in Christus 178 (1998), p. 195.
[2] Cf. H. I. Kaplan, B. J. Sadoek, Manuale di psichiatria, EdiSes, Napoli 1993, P.145.
[3] M. Gauchet, Il disincanto del mondo. Una storia politica della religione, Einaudi, Torino 1992, p. 303.
[4] Cf. D. Johnson, J. van Vonderen, Le pouvoir subtil de l’abus spirituel. Comment reconnaitre la manipulation et la fausse autorité spirituelle dans l’église et comment y échapper, Jaspe, Magog 1998.
[5] H.-G. Gadamer, La responsabilità del pensare. Saggi ermeneutici, Vita e Pensiero, Milano 2002, p. 58.
[6] Cf. K. Barth, La proclamazione del vangelo, Boria, Torino 1964, p. 58.
[7] C. M. Martini, Alla fine del millennio lasciateci sognare, Piemme, Casale Monferrato 1997, p. 220.
[8] Cf. R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998, pp. IX-XXXVI.
[9] J. Vanier, “La force de la vulnerabilité”, p. 194.
[10] Ch. Singer, Où cours-tu? Ne sais-tu pas que le ciel est en toi?, Albin Michel, Paris 2001, pp. 38-39.
[11] Narrato in J. Vanier, “Au coeur de la compassion”, in Christus 152 (1991), p.414.
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