GESÙ E LA MORTE – Luciano Manicardi (7)

Gesù e la sua morte

 

Prima di presentare una riflessione sull’ultima fase della vita di Gesù, sui suoi ultimi momenti, e una lettura dei quattro racconti evangelici della morte di Gesù evidenziando le peculiarità proprie di ciascun vangelo nel narrare l’unico evento, mi pare necessario fare una premessa che, ascoltando l’insieme delle quattro testimonianze evangeliche, mostri come Gesù ha incontrato la morte in diverse forme già durante la sua vita, e come ha vissuto le situazioni di “morte nell’esistenza” che, anche se non coincidono con la morte fisica, tuttavia segnano una morte ugualmente reale e dolorosa. Per la Bibbia, infatti, la morte è l’evento dell’irrelazionalità e c’è morte là dove c’è fine di una relazione, mancanza di salute e libertà, dove la pienezza di vita viene minacciata o spezzata. Questi eventi di morte nella vita hanno influito sulla coscienza di Gesù di fronte alla sua morte e lo hanno preparato a morire, a vivere la sua morte davanti a Dio, a fare della sua morte un atto.

Solo l’uomo muore, l’animale perisce: non ha la morte come morte davanti a sé, né dietro di sé. Solo l’uomo sa di dover morire (1). E questa coscienza può renderlo prigioniero della paura. La Lettera agli Ebrei afferma che il Figlio di Dio, con l’incarnazione, è venuto “a liberare quelli che per paura della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2,15). Per chi ha fede, la morte umana, a seguito della morte di Cristo, ha assunto una possibilità nuova di significato. E nelle parole e nei gesti di Gesù morente il credente può trovare la ricapitolazione di tutto ciò di cui potrà avere bisogno negli ultimi momenti della sua esistenza. Ma vediamo come e dove Gesù ha incontrato la morte durante la sua vita (2).

È talmente essenziale la “morte del Signore” nella coscienza degli evangelisti e delle prime comunità cristiane che Matteo colloca la nascita di Gesù in un contesto di morte già decretata su di lui da Erode (cf. Mt 2). La nascita di Gesù e l’emigrazione in Egitto per fuggire la sentenza di morte, già situano la vicenda di Gesù nella luce della morte futura sulla croce. Da subito la vita di Gesù è minacciata e ostacolata.

Gesù ha conosciuto la morte cruenta, per decapitazione, subita da Giovanni il Battezzatore, suo maestro e guida (cf. Mc 6,17-29). Da lui Gesù si fece battezzare, cioè immergere nel fiume Giordano, mostrando così di aderire alla predicazione escatologica ed etica del profeta. Se un discepolo non è da più del suo maestro, ciò che è avvenuto al maestro può avvenire anche al discepolo che ne segue le tracce. In effetti Giovanni, con la sua vita, con la traiettoria della sua esistenza e con la sua stessa morte, ha aperto la strada che Gesù percorrerà, ovviamente adempiendo la sua vocazione assolutamente unica e incomparabile.

Gesù ha incontrato il dolore straziante di una madre che piange il figlio morto (cf. Lc 7,II-17), la fede e la dignità di Giairo, il padre della bambina dodicenne che muore (cf. Mc 5,21-24.35-43), e soprattutto ha vissuto il personalissimo e lancinante dolore per la morte di Lazzaro, l’amico che egli conosceva bene e amava molto: “Gesù amava molto Marta, Maria e Lazzaro” (Gv 11,5). E quando fu di fronte al dolore e al pianto delle due sorelle, anch’egli “scoppiò in pianto” (Gv 11,35). E tra la gente che era presente ci fu chi seppe leggere bene il senso di quel pianto: “Vedi come lo amava” (Gv 11,36). Ma anche questa morte Gesù l’ha accostata nella fede nel Dio che ascolta la preghiera e può dare vita ai morti.

Gesù ha conosciuto anche le morti “anonime”, quelle riportate dai casi di cronaca: i galilei che Pilato fece uccidere “mescolando il loro sangue con quello dei loro sacrifici” (Lc 13, 1), o i diciotto disgraziati su cui rovinò la torre di Siloe uccidendoli (cf. Lc 13,4). E ha cercato di leggere nella fede queste morti strappandole all’idea che una tale sorte fosse segno di peccato: Gesù non rende la vittima un colpevole.

Secondo molti padri della chiesa Gesù conobbe anche la morte del padre: Giuseppe. Questo però non è affermato dai vangeli ma solo supposto a partire dal silenzio su Giuseppe e dalla sua “sparizione” durante il ministero pubblico di Gesù. Non è pertanto possibile dire nulla di sicuro su questo punto.

Invece è certo che la vita comune itinerante con il gruppo di discepoli che egli ha scelto e chiamato a vivere con sé per l’annuncio del regno di Dio si viene configurando, giorno dopo giorno, come spazio in cui Gesù è contraddetto, incompreso, lasciato solo, rinnegato, tradito. Uno dei discepoli lo consegna alle autorità che lo metteranno a morte. Il primo dei discepoli, quello a cui Gesù ha affidato il compito di confermare nella fede i fratelli e di essere roccia del gruppo, arriva a rinnegarlo. La comunità stessa di Gesù si vede traversata da gelosie, rivalità, desideri di potere e di affermazione, esclusivismo e intolleranza. Secondo la testimonianza di Matteo 27,3-10 la vicenda di Giuda, colui che consegnò Gesù, termina in un tragico suicidio (cf. Mt 27,5). Insomma, anche lo spazio comunitario a cui Gesù ha dato vita, diviene luogo di esperienza di morte.

Gesù ha vissuto anche la sofferenza dovuta al contrasto con le autorità religiose del suo popolo, soprattutto con i sacerdoti, che mal tolleravano le parole e i gesti profetici di Gesù; ha sentito la diffidenza e l’ostilità del potere politico romano verso il gruppo di galilei, suoi discepoli, che potevano essere sospettati di essere dei rivoltosi; ha sperimentato la condizione di marginalità all’interno del panorama del giudaismo del tempo, ma soprattutto ha patito la condanna da parte del Sinedrio, massima istituzione giudiziaria, il tribunale che emette le sentenze di Dio (3). Gli scontri e le polemiche che gruppi avversari gli oppongono, contribuiscono a far sorgere in lui l’acuta coscienza del possibile esito violento della sua esistenza. Coscienza che traspare dagli annunci della sua passione e morte che Gesù pronuncia a misura che avanza nel suo ministero e si avvicina a Gerusalemme, “la città che uccide i profeti” (Lc 13,34).

La stessa lettura delle Scritture, luogo di discernimento della sua vocazione, lo porta a prendere coscienza della possibile fine tragica: i salmi in cui parla il giusto che incontra ostilità e rigetto proprio per la sua giustizia (cf. Sal 22); i canti che mostrano il Servo del Signore incontrare incomprensione, violenza, morte (cf. Is 50,4-9; 53); il brano di Sapienza 2 che parla della morte vergognosa a cui gli empi vogliono condannare il giusto solo perché si mostra diverso da loro.

Il confronto con la morte acquista toni sempre più drammatici quando Gesù, dopo aver concluso la celebrazione pasquale, esce verso il Getsemani, il podere in cui spesso si recava per la preghiera personale (4). Dopo il banchetto pasquale era usanza uscire all’ aperto e gustare l’aspetto naturale della festa di Pasqua, quello di festa della primavera, che si aggiungeva a quello storico di memoriale della liberazione e della salvezza. Il gruppo dei discepoli è certamente abitato dal senso della gioia pasquale, ma anche traversato da una tensione spasmodica: l’annuncio del tradimento, il discorso con cui Gesù ha previsto lo sfaldarsi del gruppo comunitario (“Tutti vi scandalizzerete”: Mc 14,27), le parole con cui ha preannunciato il dono della sua vita hanno ingenerato nel gruppo incertezza e angoscia. Gesù è triste: se anche affronta la morte nella preghiera e cercando di farne un evento di obbedienza a Dio, tuttavia è preso da paura nei confronti della morte. Sente il vuoto, la solitudine abissale, e chiede ai suoi discepoli più prossimi di stargli accanto, di essergli vicino: “Vegliate e pregate con me” (Mt 26,38). Spossato, Gesù incespica, viene meno e prega intensamente: “Abba, Padre, allontana da me questo calice” (Mc 14,36). Nella notte pasquale si bevevano quattro calici facendo memoria di quattro gesti di liberazione operati da Dio al tempo dell’ esodo dall’Egitto, ma a Gesù è riservato un quinto calice, il calice dell’ amarezza, il calice della morte. E anche in quella situazione drammatica Gesù si abbandona alla volontà di Dio: “Non la mia, ma la tua volontà sia fatta” (Lc 22,47). La notte di Pasqua è memoria della notte dell’esodo, che fu “notte di veglia” per Dio (Es 12,42) e diviene notte di veglia per Gesù stesso. Egli chiede anche ai suoi.. discepoli di vigilare, ma non ce la faranno. E arriva Giuda, il discepolo che tradisce con un bacio. Tradisce dicendogli le parole che il discepolo rivolgeva al maestro: “Pace a te mio maestro”. E forse già qui muore Gesù: “Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo?” (Lc 22,48). La “morte nel bacio” era stata la morte di Mosè: egli morì, dice letteralmente Deuteronomio 34,5, “sulla bocca di Dio”. E la tradizione ebraica ha interpretato quell’espressione come un bacio. Qui il bacio di Dio scompare dietro al bacio di Giuda, questo bacio stravolto nel suo significato di affetto e di dedizione. E la morte appare a Gesù sotto i tratti dell’abbandono dei suoi “amici”: “Tutti, abbandonandolo, fuggirono” (Mc 14,50). E perfino sulla croce Gesù grida l’abbandono di Dio stesso: “Perché mi hai abbandonato?”. Ma egli resta legato e attaccato al Dio che l’abbandona. E sulla sua fede, che anticipa la resurrezione, potrà ricostruirsi il tessuto sfilacciato del gruppo dei discepoli e potrà ricostruirsi la loro fede così fragile.

 

L’ultima fase della vita di Gesù

 

La vita di Gesù, come la vita di ogni uomo, ha conosciuto una fase finale. I vangeli, pur con differenze rilevanti, testimoniano che questa vita ha conosciuto un finale tragico e scandaloso culminato nella infamante morte di croce. Questo appare con particolare evidenza nei racconti evangelici della passione secondo Matteo e secondo Marco. Colui che ha attirato folle e creato una comunità itinerante di discepoli viene rigettato dalle folle che ne invocano la crocifissione e viene abbandonato dai discepoli che lo lasciano solo. Colui che ha curato e guarito molte persone malate nel corpo e nella mente, ora si trova nell’impotenza di salvare chicchessia. Colui che ha annunciato il vangelo del Regno con potenza di parola e insegnato molte cose alle folle affamate del pane della parola di Dio, ora entra progressivamente nel silenzio. Colui che ha vissuto una vita di fedeltà al Dio unico, si vede sconfessato e condannato dalle legittime autorità religiose del popolo di Dio. Colui che ha sempre nutrito una relazione personalissima e intima di confidenza con il Dio a cui si rivolgeva chiamandolo “Abba”, ora gli si rivolge con una domanda che grida l’enigma del sentirsi abbandonato da lui (5). Vi è negli eventi che scandiscono l’ultima fase della vita di Gesù, qualcosa che sembra smentire tutto ciò che Gesù ha vissuto fino allora, tutta la sua fede, il suo amore, la sua speranza. In particolare, gli avversari di Gesù sembrano sintetizzare la sua vita con insulti che mettono in derisione tre piani della vita di Gesù: l’autorità che Gesù ha mostrato durante tutta la sua vita, la sua relazione di salvezza nei confronti degli altri (aiuto, guarigione, perdono), e infine la sua stessa fede, la sua relazione personale con Dio.

“Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso” (Mt 27,39). Con questa provocazione i passanti scherniscono l’autorità di Gesù e, facendo forza sull’ evidente impotenza attuale del crocifisso, sembrano annullare e dichiarare falsa anche l’autorità che Gesù ha mostrato in precedenza. Nella loro lettura la croce smentisce l’autorità che ha portato il Nazareno a pronunciare parole di giudizio su chi rendeva il tempio un luogo di mercato e a scacciarne i cambiavalute. L’autorità che emergeva dalle parole di Gesù (“Gesù insegnava come uno che ha autorità e non come gli scribi”: Mt 7,29; Mc 1,22) e dai suoi gesti (“Con quale autorità fai queste cose? Chi ti ha dato questa autorità?”: Mt 21,23; Mc 11,28), appare ora sconfessata dalla situazione di debolezza e impotenza in cui Gesù sprofonda.

Ma anche la sua relazione buona con gli altri, con le persone che ha incontrato nel cammino della sua esistenza, viene azzerata dalla lettura che ne fanno sacerdoti, scribi e anziani: “Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso!” (Mt 27,42). Il finale della vita di Gesù sembra autorizzare i suoi avversari a invalidare tutto il bene che Gesù ha fatto in passato, a farlo entrare nel dimenticatoio.

E infine, dopo la sua autorità e la sua relazione con gli altri, perfino la sua fede in Dio viene messa in derisione e in discussione. “Ha confidato in Dio: lo liberi lui ora, se gli vuol bene” (Mt 27,43). L’aver avuto fiducia in Dio gli viene rinfacciato quasi come una colpa. Questo è l’atto più radicale e invadente di decostruzione e demolizione della vita precedente di Gesù, il più impudico, quello che si permette di giudicare l’intimità e l’ineffabilità della sua relazione con il Padre. L’osservatorio particolare costituito dalla fase finale dell’ esistenza di Gesù appare come ciò che consente di leggere come fasulla l’intera sua vita precedente, perfino la sua fede. E così un’intera esistenza vissuta e spesa nella donazione di sé per gli uomini e nella fedeltà obbediente al Padre, nel dare vita e nell’operare giustizia, nell’ amare e nel benedire, si trova a essere sepolta sotto il peso dell’infamia che Gesù subisce nei suoi ultimi momenti. Colui che passò sanando molti e benedicendo, ora si trova sprofondato nella maledizione e nell’impotenza.

È così per il Signore, può essere così anche per il discepolo che segue il Signore e che può trovarsi là dove il suo Signore si è trovato. Un’intera vita spesa nel perseguire l’amore di Dio e del prossimo, un’intera vita segnata dalla fede e dall’ obbedienza, traversata dal vigore profetico della denuncia delle infedeltà a Dio e dall’instancabile opera di aiuto ai deboli e ai poveri, può venire a trovarsi in una fase finale in cui il credente appare travolto dal male e dal peccato, a causa degli eventi e degli altri. Un servo di Dio può trovarsi in una situazione simile a quella del suo Signore, o perché si fa carico del peccato e del male altrui, quello che gli altri non saprebbero reggere né portare, o perché vittima della calunnia. Viene in mente il caso del cardinale Joseph Louis Bernardin, arcivescovo di Chicago dal 1982 al 1996, morto di cancro dopo aver subito l’onta di infamanti accuse false (6).

Ma può anche avvenire che una vita tutta segnata dalla ricerca della santità possa essere offuscata da una caduta. O che una vita spesa nell’ apostolato conosca nella parte finale il male dovuto all’ alienazione mentale o alla demenza. Ora, la verità di un uomo non è mai riducibile a un momento solo, fosse pure quello più vicino alla sua morte. E men che meno può essere riducibile a un momento di debolezza morale o di perdita della salute psichica o fisica. Dietro e dentro ogni uomo vi è sempre un desiderio di amore e di senso, di pienezza e di dedizione che non può essere smentito da circostanze che paiono essere di segno contrario. Un uomo è sempre tutta la sua vita. E questo chiede ai nostri occhi e ai nostri cuori di vincere le tentazioni di giudicare, di dare sentenze, di condannare, di definire, per assumere invece uno sguardo capace di misericordia e soprattutto di longanimità, di memoria e di fede.

Lo sguardo di fede è quello che sa vedere in Gesù crocifisso il Figlio di Dio. Che sa discernere la rivelazione del volto di Dio nel Gesù che subisce ogni sorta di violenza, che appare privato di ogni dignità umana fino a vedere non rispettata neppure la sua morte, che risulta essere condannato dalle autorità religiose e bandito dalla società civile: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (Mt 27,55), confessa il centurione ai piedi della croce. Lo sguardo di fede sa vedere la continuità della vita di Gesù anche in quei drammatici momenti finali, sa vedere in lui il profeta anche se ridotto al silenzio dell’ agnello afono, sa vedere in lui il maestro anche se privato oramai dei suoi discepoli, sa vedere in lui il Signore anche se privato perfino della sua stessa vita. È lo sguardo che sa riconoscere e dare espressione all’ amore e alla fede che Gesù continua a vivere anche allora. È così che, narrando la passione, i vangeli ci presentano un Gesù che si rivolge a Giuda chiamandolo amico (cf. Mt 26,50), che si volge con sguardo pieno di amore verso Pietro che lo ha rinnegato (cf. Lc 22,61), che guarisce il servo del sommo sacerdote ferito da uno che era con lui (cf. Lc 22,50-51), che invoca il perdono per i suoi aguzzini (cf. Lc 23,34), che prega il suo Dio affidandosi interamente a colui di cui ora conosce l’abbandono, quasi gli stesse dicendo: “Mio Dio, tu che mi hai abbandonato, tu solo sei e resti il mio Dio; in te solo, di cui ora sperimento l’abbandono, io spero e metto la fiducia”. La vittoria sulla morte con la resurrezione è preceduta da questa vittoria sulla croce che si trova a essere ri-significata da colui che vi viene steso sopra. E Gesù dà senso anche al patibolo della morte vergognosa portandovi la sua vita piena di amore per gli uomini e di obbedienza amorosa al Padre. Vi dà senso, ovvero, la vive nella libertà e nell’amore. Anche l’ultima fase della sua vita, per quanto segnata dal male e difficilmente leggibile come fase di fedeltà a Dio, è ancora traversata dalla forza dell’ amore più forte della morte. E questo dà speranza a ogni credente. Quale che possa essere la fase finale della sua esistenza.

 

La morte di Gesù nel Vangelo secondo Marco

 

Riporto il testo del racconto della morte di Gesù secondo il primo vangelo in una traduzione letterale.

 

Venuta l’ora sesta, si fece buio su tutta la terra fino all’ora nona. E all’ora nona Gesù gridò a gran voce: “Eloì, Eloì, lemà sabactàni?”, che tradotto significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. E alcuni dei presenti, udito ciò, dicevano: “Vedi! Chiama Elia”. Allora, un tale, andato di corsa a inzuppare di aceto una spugna e avendola posta su una canna, gli dava da bere dicendo: “Lasciate! Vediamo se viene Elia a calarlo giù”. Ma Gesù, emettendo una gran voce, spirò. E il velo del tempio si squarciò in due dall’alto in basso.

Ora, il centurione, che era presente di fronte a lui, vedendo che spirò così, disse: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,33-39).

 

Gesù è stato crocifisso all’ora terza (cf. Mc 15,25), cioè alle nove del mattino. Il tempo che intercorre fino all’ ora sesta, cioè a mezzogiorno, è riempito dagli scherni e dagli insulti dei passanti, dei sommi sacerdoti, degli scribi e anche dei due malfattori crocifissi accanto a lui (cf. Mc 15,29-32). Le tre lunghissime ore di agonia di Gesù morente sono segnate dall’ abbandono e dall’ assenza di compassione degli umani nei suoi confronti. Quelle ore sono accompagnate non da parole di vicinanza e di consolazione delle persone amate e care, ma dalle parole violente di sconosciuti e avversari. Gesù sprofonda nel silenzio, nell’isolamento e nell’impotenza.

Dall’ora sesta all’ ora nona (cioè da mezzogiorno alle tre del pomeriggio) una tenebra scende sulla terra. Questa tenebra è anzitutto evocazione simbolica della situazione tragica in cui si trova il giusto appeso alla croce: come per l’uomo sofferente che nel salmo 22 grida l’abbandono di Dio, anche per Gesù ora è notte (cf. Sal 22,3). E tuttavia essa riveste anche un significato teologico più rilevante. Ciò che sta avvenendo sulla croce è un evento che ha a che fare con la storia della salvezza, è un evento escatologico, un evento che dice l’intervento di Dio. Nell’ Antico Testamento l’intervento definitivo di Dio nella storia umana è evocato a volte con l’espressione” giorno del Signore”. Ebbene, il profeta Amos scrive che “in quel giorno” il Signore farà tramontare il sole a mezzogiorno e oscurerà la terra in pieno giorno; sarà un giorno di lutto come per la morte del figlio unico (cf. Am 8,9-10). La tenebra indica dunque che l’evento della morte di Gesù riguarda la storia intera dell’umanità, è evento decisivo nella storia della relazione di Dio con il mondo. E questo significa che quest’ora tragica e desolata è anche germinalmente gloriosa e abitata. Nella Bibbia la tenebra è spesso immagine della presenza di Dio. Certo, si tratta di una presenza nascosta, enigmatica, non rassicurante. Inoltre, al momento della morte di Gesù, questa presenza appare anche silenziosa, muta. Se al battesimo la presenza di Dio si era manifestata nei cieli squarciati e nella voce dall’ alto che si rivolgeva direttamente a Gesù proclamandolo suo Figlio amato (cf. Mc 1,9-11) e se alla trasfigurazione la stessa presenza di Dio si era svelata nella nube e nella voce che rivolgeva a tutti la medesima proclamazione (cf. Mc 9,7), ora la presenza di Dio nella tenebra resta muta. Dio non dice nulla. Non conferma il cammino di Gesù. Risuonano nella mente le parole degli oranti che nei salmi gridano a Dio: “Perché non rispondi? Perché resti muto?”; “Dio mio, invoco di giorno e non rispondi, grido di notte e non trovo riposo” (Sal 22,3). Abbandono dei discepoli, ostilità degli avversari, assenza di compassione dei compagni di condanna, e soprattutto silenzio di Dio: ecco che tutto questo esplode nel grido forte “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” 7. Marco riporta l’ora di tale grido (le tre del pomeriggio) e perfino le parole aramaiche pronunciate da Gesù: “Eloi, Eloi, lemà sabactàni”. Sono le parole del salmo 22,2. Gesù sta pregando. Mentre muore, il suo cuore e il suo pensiero vanno al suo Dio. E si tratta di un grido drammatico: Gesù si appella a Dio contro Dio. Dio resta il suo Dio, Gesù pone la sua fiducia incondizionata nel Dio che sempre è stato il suo Dio e lo è anche ora, nel momento della morte. E tuttavia a lui Gesù grida il suo enigma: “Perché mi hai abbandonato?” (8). La morte di Gesù è segnata da un enigma, da un “perché?”. Heinrich Schlier ha commentato con commossa partecipazione tale evento drammatico:

 

A chi doveva ancora rivolgersi il Gesù abbandonato e reietto, il Gesù tormentato e schernito? A chi se non a Dio, al quale si sono sempre rivolti i giusti e alla volontà del quale egli si era arreso nel Getsemani? Ma, adesso, neppure Dio c’è più per lui! Ora, anche lui lo ha abbandonato. Gesù deve ancora patire anche questo, che Dio gli si sottragga e si nasconda e si spalanchi attorno a lui il tenebroso vuoto del nessuno e del nulla. Ora egli attinge il profondo e beve fino alla feccia il calice della passione. Anche Dio l’abbandona. Egli esperimenta per noi l’abbandono totale. “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Ma neppure in questo momento, egli abbandona Dio! Proprio adesso, nel momento in cui Dio gli fa gustare anche questo: l’essere senza Dio, il dover patire senza Dio e il morire, egli si volge a Dio e si tiene saldo a lui. Prega, non grida nel vuoto, ma a lui, verso di lui! Egli si volge, senza Dio, a Dio! Depone ai piedi di Dio ogni angoscia, e, ora, anche questa tremenda angoscia del morire senza Dio. “Mio Dio, mio Dio…”. Proprio così facendo, alla fine, egli diviene per tutti il vincitore del morire abbandonati da Dio e il vincitore della morte senza Dio – per tutti (9).

 

Sappiamo che ciò che storicamente rendeva le crocifissioni particolarmente macabre e angoscianti erano le grida di rabbia e dolore, le selvagge maledizioni e le esplosioni violente di disperazione delle vittime. Ma Gesù fa del suo grido una preghiera. Tuttavia Marco annota che anche la sua preghiera viene distorta e non compresa: i presenti credono che stia chiamando Elia, che nella pietà popolare ebraica era ritenuto il protettore dei morenti, dei casi disperati. Per deridere Gesù fino alla fine, ecco che uno dei presenti va a inzuppare nell’aceto (o vino acidulo, usato forse a fini anestetici) una spugna per far bere Gesù, ridargli un po’ di forza e prolungare cosi la sua agonia e vedere se effettivamente Elia viene a salvarlo. Lo sguardo di fede dell’ evangelista sa cogliere in questo gesto un’allusione al destino del giusto sofferente che, nel salmo 69,22, dice: “Nella mia sete mi fanno bere l’aceto”. Ma l’agitazione dei presenti viene interrotta dal grido di Gesù che muore. Gesù muore gridando. Ma questo evento, così tragicamente frequente all’ epoca, poiché erano molti i crocifissi, manifesta subito la sua qualità teologale: il velo del tempio si squarcia in due dall’ alto in basso e il centurione confessa che quell’uomo, morto così “male” era veramente il Figlio di Dio. Il velo di cui si parla era la tenda, la cortina che separava il luogo più interno del tempio, il Santo dei Santi, dal resto del complesso sacro. Nel Santo dei Santi entrava soltanto il sommo sacerdote una sola volta all’ anno in occasione del Giorno dell’espiazione. Simbolicamente Marco sta affermando che la comunione con Dio passa oramai attraverso Cristo, non attraverso il tempio. E se il sistema di santità del tempio era basato su separazioni e distinzioni successive e progressive, il corpo di Gesù e la santità che egli vive è inclusiva: egli muore accanto a malfattori, come era stato battezzato in mezzo a peccatori, e a tutti porta la comunione di Dio. Per Marco è proprio vedendo Gesù morire “in quel modo” che il centurione lo confessa Figlio di Dio. Se al battesimo era stata la voce divina a proclamare la dignità filiale di Gesù, sotto la croce è invece la voce di un uomo, di un pagano. Con questa morte Gesù raggiunge ogni uomo e ogni angolo della terra. Oramai non vi è più alcuna situazione di disgrazia o inferno che non possa essere abitata dalla presenza di Dio in Cristo Gesù. E sotto la croce si prepara già la nascita di qualcosa di nuovo: la presenza discreta delle donne discepole, unica presenza fisicamente fedele a Gesù dalla Galilea fino alla fine, già prelude a quell’alba del primo giorno dopo il sabato in cui esse andranno al sepolcro e riceveranno l’annuncio: “È risorto! Non è qui! Andate a dire ai suoi discepoli e a Pietro che vi… precede in Galilea: là lo vedrete, come vi ha detto” (Mc 16,6-7).

 

La morte di Gesù nel Vangelo secondo Matteo

 

La narrazione matteana della morte di Gesù presenta significative differenze rispetto a quella di Marco. Eccone tLna versione fedele al testo greco:

 

Dall ‘ora sesta si fece buio su tutta la terra fino all’ora nona. Verso l’ora nona Gesù gridò a gran voce, dicendo: “Elì, Elì, lemà sabactàni?”, cioè: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Alcuni di coloro che erano là presenti, udito ciò, dicevano: “Costui chiama Elia”. E subito uno di loro, andato di corsa a prendere una spugna e avendola inzuppata di aceto e post:a su una canna, gli dava da bere. Ma gli altri dicevano: “Lascia! Vediamo se viene Elia a salvarlo!”. Ma Gesù, avendo di nuovo gridato a gran voce, emise lo spirito. Ed ecco, il velo del tempio si squarciò in due dall’ alto in basso e la terra fu scossa, le rocce furono squarciate, i sepolcri furono aperti e molti corpi di santi addormentati risuscitarono e, uscendo dai sepolcri, dopo la sua resurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti. Ora, il centurione e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, vedendo il terremoto e ciò che accadeva, furono presi da grande timore e dicevano: “Veramente questi era Figlio di Dio” (Mt 27.45-54).

 

La prima parte della narrazione della morte di Gesù secondo Matteo è piuttosto simile a quella di Marco. Matteo, che a differenza di Marco non aveva annotato l’ora della crocifissione di Gesù (cf. Mc 15,25), adesso indica la durata delle tenebre: tre ore, da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Tre ore di silenzio, di immobilità, in cui l’evangelista non registra né parole né azioni. “Verso” le tre Gesù grida con voce forte le parole che danno inizio al salmo 22. Questo grido paradossale esprime bene il senso della relazione con Dio da parte del credente ebreo, dunque anche di Gesù. Noi siamo abituati a definire il rapporto con Dio una “fede” il cui soggetto è l’uomo. Un uomo crede, oppure no, in Dio. Ma il rapporto con Dio come emerge nei salmi (e Gesù sta pregando un salmo) e in genere nella preghiera biblica, è diverso. Là, il soggetto è Dio. E il rapporto con Dio sgorga da Dio stesso. Sicché anche quando l’uomo dispera di Dio, non può staccarsi da lui. Qui Gesù si sente abbandonato da Dio, e il suo grido dice tale angoscia, ma al tempo stesso egli non può far altro che rivolgersi a quello che rimane il suo Dio. Gesù si manifesta come credente anche nel momento supremo della sofferenza e della morte. E si manifesta anche come obbediente. Così appare dall’espressione utilizzata per indicare il morire di Gesù: “Emise -letteralmente ‘lasciò andare’ -lo spirito” (Mt 27,50). La morte come gesto di obbedienza! Questa espressione può significare semplicemente il morire di Gesù, ma dato che il termine pneuma (“spirito”) in Matteo non ha mai valore antropologico, non si può escludere un riferimento allo Spirito santo e a un senso teologico dell’ espressione non distante da quello che troveremo nella narrazione della morte di Gesù secondo Giovanni (cf. Gv 19,30). Questa valenza teologica della morte di Gesù e l’eventuale dono dello Spirito sono in linea con la valenza rivelativa di tale morte che Matteo mette in luce. Morte che comunque è preceduta, come in Marco, dall’incomprensione del grido di Gesù che viene inteso come invocazione di salvezza da parte di Elia (cf. Mt 27.47-49) (10).

Ma ecco la parte più originale della narrazione di Matteo. La morte di Gesù è accompagnata da una serie di eventi sconvolgenti (cf. Mt 27,51-53). Se la lacerazione del velo del tempio era già ricordata da Marco, non così gli altri segni: la terra scossa, le rocce spezzate, i sepolcri aperti, la resurrezione di molti morti, la loro uscita dalle tombe e la loro apparizione a molti in Gerusalemme. Anzitutto va rilevato che i verbi greci usati per descrivere questi eventi sono al passivo: si tratta di una forma linguistica particolare per indicare che il vero soggetto di quanto avviene è Dio. Nella morte di Gesù avviene qualcosa di divino, dice Matteo. La morte di Gesù è l”’ora” finale della storia, è l’evento escatologico per eccellenza. In effetti Matteo riesce a radunare con mirabile sintesi, nel momento della morte di Gesù, sia la menzione della sua resurrezione che della resurrezione dei giusti. Nel momento della morte ecco i segni della vittoria della vita; al cuore della tenebra si fa strada la luce. La terra intera è coinvolta da ciò che avviene sulla croce. Come la nascita di Gesù secondo Matteo (cf. Mt 2,1-II) era stata salutata da una stella, così la sua morte è accompagnata dallo scuotimento della terra. Come al momento del battesimo di Gesù nel Giordano si erano aperti i cieli (cf. Mt 3,16), ora, al momento della sua morte, si aprono le tombe. Gli eventi elencati da Matteo non vanno intesi in senso storico, ma come segni del significato profondo dell’evento: la morte di Gesù è il crinale della storia umana; essa investe tutto il mondo e apre gli ultimi tempi, i tempi escatologici. E questa morte è indissolubile dalla resurrezione di Gesù (“Dopo la sua resurrezione”: Mt 27,53) e dalla resurrezione dei morti. Caratteristica peculiare della narrazione matteana della morte di Gesù è dunque l’anticipazione della resurrezione dei morti. Tutta la storia umana, fino alla consumazione dei secoli (cf. Mt 28,20), trova la sua chiave di lettura nell’ evento pasquale, nella morte e nella resurrezione di Gesù. Questa morte è giudizio e salvezza!

I fenomeni naturali elencati da Matteo sono posti in una sequenza logica: prima il terremoto, quindi le rocce che si spaccano, poi le tombe che si aprono, i santi morti che risuscitano, escono dalle tombe e sono visti nella città santa. Certamente Matteo sta affermando che nella morte di Gesù vi è il compimento di profezie veterotestamentarie. Forse vi è l’eco dell’ annuncio di Daniele della resurrezione, negli ultimi giorni, di “molti che dormono nella polvere” (Dn 12,2), ma certamente vi è il riferimento alla profezia di Ezechiele 37, 11 – 14. In quella pagina si parla di Dio che soffia il suo Spirito sulle ossa inaridite che rappresentano i figli di Israele. Dio annuncia tramite il profeta: “Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, popolo mio, e vi riconduco nel paese di Israele” (Ez 37,12). La morte di Gesù è evento che anticipa e rivela la fine della storia. In questo senso è “apocalisse”, cioè non tanto catastrofe o disgrazia, ma rivelazione, svelamento del senso profondo della storia (11). Possiamo pensare che quando, più tardi, Ignazio di Antiochia scriverà che Gesù “fu veramente crocifisso e morì mentre quelli nei cieli, sulla terra e sotto terra stavano a guardare” (12), egli avesse presente la narrazione di Matteo che elenca in successione segni nei cieli (tenebre), sulla terra (velo del tempio, terra scossa e rocce spezzate) e sotto terra (tombe aperte e morti che escono). Coloro che deridevano Gesù attendendo la venuta di Elia per salvarlo, ora sono smentiti da una risposta di Dio infinitamente più potente. I corpi dei santi (ovvero i giusti dell’ AT) morti (il testo usa l’eufemismo “addormentati”) escono dai sepolcri ed entrano in Gerusalemme, dove furono visti da molti. Cioè, mentre descrive la morte di Gesù, Matteo ne annuncia anche la resurrezione e annuncia anche la resurrezione dei santi morti. Davvero la morte di Gesù è la fine della storia, ma è anche ciò che dischiude il senso di tutta la storia. L’annuncio basilare della fede cristiana per cui Gesù Cristo è morto, risorto e apparso a molti, è il saldo fondamento della fede cristiana nella resurrezione dei morti.

Non a caso il centurione e l’intero corpo di guardia fecero la loro confessione di fede in Gesù “Figlio di Dio” avendo visto il terremoto e tutto ciò che accadeva. La confessione di fede non è individuale, ma collettiva, e non nasce semplicemente dalla visione della morte di Gesù (come in Marco 15,39), ma dalla constatazione dei segni che hanno accompagnato tale morte. Il timore che si impadronisce di loro è tipico della reazione davanti al manifestarsi di Dio (cf. Mt 27,54) e la loro confessione di fede parte dalla presa d’atto della potenza di Dio manifestatasi nella debolezza del crocifisso, mentre in Marco è l’esatto contrario. In Marco è la debolezza di Cristo (“Vedendo che spirò così”: Mc 15,39) che svela la potenza di Dio.

Ma siamo sempre di fronte all’unico e medesimo mistero della debolezza della croce che rivela la potenza di Dio e il mistero della salvezza.

 

La morte di Gesù nel Vangelo secondo Luca

 

Il racconto lucano della morte di Gesù presenta tratti peculiari e specifici sia rispetto a Marco che a Matteo:

 

Era già circa l’ora sesta e si fece buio su tutta la terra fino all’ora nona perché il sole si era eclissato. Il velo del tempio si squarciò nel mezzo e Gesù, esclamando a gran voce disse: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”. Detto questo, spirò. Ora, il centurione, vedendo l’accaduto, glorificava Dio dicendo: “Veramente quest’uomo era giusto!”. E tutte le folle accorse insieme a quella visione, avendo osservato l’accaduto, se ne tornavano percuotendo si il petto. Stavano là tutti i suoi conoscenti, da lontano, e anche le donne che l’avevano seguito insieme fin dalla Galilea, a vedere queste cose (Lc 23.44-49).

 

La morte di Gesù è preceduta da due segni: il segno cosmico del buio su tutta la terra e il lacerarsi del velo del tempio. Il buio in pieno giorno viene specificato come dovuto a un’ eclissi di sole. Si realizzano i segni predetti dai profeti come indicativi del giorno del Signore, il giorno escatologico: “Farò prodigi nel cielo e sulla terra… Il sole si cambierà in tenebre … prima che venga il giorno del Signore” (Gl 3,3-4); “In quel giorno – oracolo del Signore – farò tramontare il sole a mezzogiorno e oscurerò la terra in pieno giorno” (Am 8,9). A questo segno che avviene nel cosmo si accompagna un segno che avviene nel tempio, nel centro religioso della città santa, Gerusalemme: lo squarcio del velo del tempio. Questo segno in Luca precede la morte di Gesù, una morte che avviene nella preghiera.

Dopo che si è lacerata la tenda che dava accesso al Santo dei Santi, al luogo della comunione più intima con Dio, Gesù mostra di vivere la comunione con Dio con la sua preghiera fiduciosa e serena. Gesù non muore avendo in bocca le parole angosciate del salmo 22, ma un’espressione traboccante di fiducia in Dio tratta dal salmo 31: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”. Nessun grido angosciato di fronte all’ assenza da parte di Dio, ma una preghiera di abbandono fiducioso al Signore che esprime la filialità che Gesù ha sempre vissuto: Gesù muore abbandonandosi al Dio che chiama “Padre” (13). Già prima, sulla croce, Gesù si era rivolto a Dio chiamandolo “Padre” e invocando da lui il perdono dei suoi aguzzini (cf. Lc 23,34). Questa invocazione era in bocca a Gesù dodicenne al tempio (Lc 12,49, letteralmente: “lo devo rimanere nelle cose [nello spazio] del Padre mio”) e in verità dietro di essa vi è l’esperienza di fede e di preghiera che ha retto tutta la vita di Gesù. La sua morte è in continuità con tutta la sua vita, e questa continuità egli la vive e la esprime nella preghiera, nella sua relazione con il Padre. Nel momento finale Gesù sintetizza in unità tutta la sua vita, passato e presente, e affronta con fiducia il futuro ponendolo nelle mani del Padre. Gesù non subisce la morte, ma la vive come un attivo affidamento a Dio. Gesù, che secondo Luca ha continuato a fare il bene fino alla fine (si pensi alla guarigione dell’ orecchio del servo del sommo sacerdote al momento dell’arresto: cf. Lc 22,50-51), muore come un “giusto”, cioè certamente come un innocente, ma soprattutto in conformità con il volere divino. Così la sua morte diviene esemplare: negli Atti degli apostoli Stefano muore come Gesù (cf. At 7,59-60). Come si può seguire Gesù nella vita, così lo si può seguire nella morte. La morte di Gesù è esempio delle morti dei martiri. Gesù è il “giusto” servo, la cui morte giustificheràmolti, come afferma Isaia 53,1 I. Ma è anche il Messia, come appare dal suo rivolgersi a Dio come Padre: Gesù è il Figlio che ha vissuto tale filialità nella preghiera, nel dialogo con il Padre. Se subito dopo il battesimo Gesù aveva ascoltato la voce dal cielo che gli diceva: “Tu sei mio Figlio, l’amato, in te mi sono compiaciuto” (Lc 3,22), ora, alla fine del suo ministero e della sua vita, egli si rivolge spesso e intensamente a Dio chiamandolo “Padre” (cf. Lc 22,42; 23,34.46). Gesù è il Figlio di Dio, è il Messia che si rivolge a Dio dicendogli: “Tu sei mio Padre” (Sal 89,27; 2Sam 7,14) (14).

Certo se, come riconosce il centurione, Gesù era giusto, la sua condanna è stata una contraddizione. Cogliamo qui un aspetto tipico della passione e della morte di Gesù secondo Luca: Gesù è segno di contraddizione, è colui che svela i pensieri e i sentimenti dei cuori (cf. Lc 2,34-35). La presenza di Gesù suscita una divisione perché obbliga a prendere una posizione. Avviene così anche tra i due malfattori crocifissi con Gesù: uno lo riconosce come Messia e lo prega, l’altro lo bestemmia (cf. Lc 23,39-43). Tutta la narrazione della passione è la storia dello svelamento delle intenzioni dei cuori dei personaggi che incontrano Gesù, i quali sono normalmente colti nella loro incoerenza e nella loro contraddizione. La passione è la storia di una contraddizione: l’innocente è condannato, un omicida viene rilasciato dal carcere, i giudei vogliono la condanna del Messia loro destinato, Pilato riconosce l’innocenza di Gesù e poi lo consegna alla morte, Pietro rinnega tre volte il suo Signore, Giuda tradisce il suo maestro e lo tradisce “con un bacio” (Lc 22,48), cioè con il segno di devozione del discepolo al maestro, le donne che piangono Gesù (le “piangenti”, donne che a pagamento seguivano i condannati a morte per fare il lutto su di loro) sono aspramente rinviate a piangere su se stesse e su Gerusalemme (cf. Lc 23,26-31).

Ma questa storia della contraddizione umana di fronte al Figlio di Dio, diviene anche storia dell’instaurazione della verità, del ritrovamento della verità.

E questo avviene proprio alla croce. Croce che per Luca è evento che deve essere contemplato, visto. Egli parla infatti delle folle che “erano accorse a questo spettacolo” (Lc 23,48), usando il termine greco theoria, che indica la contemplazione, ciò che deve esser osservato e contemplato. Ora, dalla visione del Crocifisso le folle sono condotte a un ripensamento dei fatti accaduti e a una loro inedita interpretazione: “Se ne tornavano percuotendo si il petto” (Lc 23,48). Il ritrovamento della verità, della giusta relazione con il Signore passa attraverso una rinnovata visione di sé: di fronte al Giusto condannato a morte emerge la contraddizione del proprio cuore e il ritorno intrapreso altro non è che il movimento della conversione, del cambiare strada. Si esce dalla contraddizione come Pietro che piange amaramente il proprio rinnegamento (cf. Lc 22,62), come il buon ladrone che riconosce il male che ha fatto e la giustizia di Gesù (cf. Lc 23,40-42), come le folle che dopo la visione della croce se ne tornano battendosi il petto e riconoscendo il proprio peccato (cf. Lc 23,48). La tenebra in cui è sprofondato il cosmo nei momenti che precedono la morte del Messia è lo spazio della contemplazione: la tenebra abitata da Gesù (e segno della presenza divina anche nell’ AT) diviene rivelazione delle tenebre che sono nel cuore dell’uomo.

In particolare, nel dialogo tra Gesù e il buon ladrone appare che il Messia morente promette al condannato la comunione con lui: “In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso” (Lc 23,43). L’evento della morte viene sottratto alla sua forza isolante, e diviene occasione di comunione. “Con me”: la salvezza trova il suo contenuto in queste due parole. Il salmista esprime la sua fiducia in Dio cantando: “Se anche vado in una valle oscura, non temo alcun male perché tu sei con me” (Sal 23,4); Gesù si presenta come Messia affidabile promettendo: “Oggi sarai con me”. La morte di Gesù, proprio nella sua irripetibile unicità in quanto morte del Messia e del Figlio di Dio, si rivela decisiva e illuminante per aiutarci a vivere la nostra morte, per innestare la speranza cristiana proprio al cuore dell’ evento ineluttabile della fine della vita: “Oggi sarai con me in paradiso” (15).

 

La morte di Gesù nel Vangelo secondo Giovanni

 

Il quarto vangelo narra la morte di Gesù in maniera assolutamente originale rispetto ai racconti dei tre vangeli sinottici:

 

Dopo questo, Gesù, sapendo che tutto era oramai compiuto, affinché si compisse la Scrittura, dice: “Ho sete”. C’era là un vaso pieno di aceto. Avendo dunque messo una spugna piena di aceto attorno a [una canna di] issopo, [la] portarono alla sua bocca. Quando dunque ebbe preso l’aceto, Gesù disse: “È compiuto”, e chinato il capo, consegnò lo spirito (Gv 19,28-30).

 

Il racconto della morte di Gesù è strettamente legato a ciò che precede, come appare dall’espressione iniziale “dopo questo” (v. 28). Ovvero dopo la scena in cui Gesù, dalla croce, si rivolge a sua madre e al discepolo amato. Si tratta di una scena che non deve essere letta banalmente come affidamento della madre che resta sola al discepolo amato e fidato che si dovrà prendere cura di lei. Questa lettura che intende il gesto di Gesù come gesto di bontà e pietà filiale corrisponde in realtà a una griglia morale che non si addice alla profondità teologica del quarto vangelo. Il quarto evangelista ci presenta qui una scena di rivelazione: Gesù “vede” (v.26a), “dice” (v. 26b), “ecco” (v. 27). I tre elementi si trovano sempre in scene di rivelazione. E la rivelazione concerne la costituzione del popolo escatologico di Dio, del popolo messianico che in Cristo trova la sua unità. La scena di Maria sotto la croce rinvia a quella delle nozze di Cana (cf. Gv 2,1-12) che si trova all’inizio del quarto vangelo: anche là era presente la madre di Gesù. Ma se a Cana l’ora di Gesùnon era ancora arrivata (cf. Gv 2,4), al Calvario l’ora è giunta (“Da quell’ora”: v. 27). Se a Cana Gesù dava il vino, al momento della crocifissione dona il suo sangue. L’alleanza inaugurata a Cana si compie sulla croce16. E alla croce abbiamo la creazione, a opera del Signore, del nuovo popolo di Dio. Il testo presenta dunque anche una valenza ecclesiologica: la chiesa nasce sotto la croce. È il figlio che crea la madre, è il Signore che crea la chiesa. Maria viene stabilita nella maternità spirituale dei credenti. Anche il discepolo amato, il garante della tradizione del quarto vangelo e della comunità giovannea, è collocato all’interno di questa relazione di filialità nei confronti della madre di Gesù. Maria è l’Israele fedele che ha generato il Messia riconosciuto e confessato dai discepoli. Maria sintetizza in sé i due aspetti di figura della sinagoga e di inizio della chiesa (17).

Ebbene è “dopo questo” che il quarto vangelo riporta le ultime parole e gli ultimi gesti di Gesù prima della morte. Una morte che per Giovanni non è una fine ma un compimento: per tre volte ricorre il verbo “compiere” (vv. 28bis.30) che dà una precisa tonalità a tutta la scena.

La morte di Gesù si configura anzitutto come compimento delle Scritture (cf. v. 28) (18). Il compimento, perseguito da Gesù in tutto il suo ministero, si manifesta nella spartizione delle vesti (cf. Gv 19,24; Sal 22,19) come nella costituzione del nuovo popolo di Dio (cf. Gv 19,25-27; Is 60,4-5; 66,8; Bar 4,36-5,9), e infine nel suo stesso corpo morto che sembra incorporare fisicamente il compimento della Scrittura (cf. Gv 19,35-37). Dopo aver infatti annotato che i giudei domandarono a Pilato che venissero spezzate le gambe ai crocifissi perché era la Parasceve, cioè la vigilia della Pasqua, ed essi temevano di restare contaminati se i corpi restavano sulla croce (il condannato a morte che veniva appeso non doveva restare tutta la notte sul patibolo, ma doveva essere sepolto lo stesso giorno per non contaminare il paese: cf. Dt 21,22-23), Giovanni rileva che i soldati spezzarono le gambe ai due crocifissi con Gesù, ma non a Gesù stesso che era già morto (cf. Gv 19,31-33). La pratica del crurifragium (spezzare le gambe dei condannati) era volta ad affrettarne la morte: con le gambe spezzate essi non potevano più reggersi, cadevano in avanti, si chiudevano le possibilità di respiro ed essi morivano per asfissia. Gesù, invece, viene colpito da un soldato con un colpo di lancia al costato “e subito uscì sangue e acqua” (Gv 19,34). Ebbene, dopo questo, l’autore del quarto vangelo interviene nella narrazione atte stando che tutti questi eventi non sono stati casuali, ma hanno compiuto le Scritture:

 

Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa di dire il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si adempisse la Scrittura: “Non gli sarà spezzato alcun osso” (Es 12,46; Nm 9,12). E un altro passo della Scrittura dice ancora: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Zc 12,10) (Gv 19,35-37).

 

Inoltre Gesù compie, nella sua morte, anche la propria missione, e lo proclama: “È compiuto” (v. 30). Gesù ha compiuto l’opera di rivelazione del Padre.

E ha compiuto la sua obbedienza e la sua libertà. Gesù inclina il capo prima di spirare, mentre normalmente dovrebbe avvenire il contrario. Il capo che si reclina sembra alludere a un atto di obbedienza, quell’obbedienza che ha retto tutta la vita di Gesù, le sue parole e le sue azioni perché egli non dice se non ciò che ha ascoltato dal Padre e non compie se non le azioni del Padre. L’obbedienza di Gesù avviene nello spazio della sua libertà, sottolineata dal “sapendo” che dàinizio alla scena. Gesù sa, è pienamente cosciente della morte che arriva e del disegno divino che si compie.

La morte di Gesù appare poi compimento dell’ amore. Ciò che era stato profetizzato nel gesto di deposizione delle vesti per inchinarsi davanti ai suoi discepoli e lavare loro i piedi, ora avviene. E Giovanni aveva introdotto la scena della lavanda dei piedi con queste parole: “Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1). La croce è il sigillo di una vita donata fino all’ estremo, fino alla fine, fina al punto di non ritorno. Gesù l’aveva detto: “Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i pr-opri amici” (Gv 15, 13). E Gesù dona la vita anche per il nemico e continua a chiamare amico colui che g-li si fa nemico, così come lava i piedi anche a Giuda che ha già in animo il tradimento. La croce è l’evento della libertà dell’amore che giunge ad amare il nemico.

E la morte è per Gesù anche il compimento del suo desiderio. Desiderio espresso da quella sete (cf. v. 28) che non sarà estinta da una bevanda ma dall’ abbraccio con il Padre. Il testo allude certamente alla sete terribile del crocifisso, ma dietro a quella sete materiale vi è la sete di compiere la volontà del Padre.

Alla luce di tutto questo non stupisce che la morte di Gesù in Giovanni non appaia come una sconfitta, ma come una vittoria: con la sua morte in croce egli ha “vinto il mondo” (Gv 16,33). Anzi, il verbo che Giovanni utilizza- per indicare il morire di Gesù designa l’atto di un v-ivente. Giovanni non dice che Gesù”spirò”, ma che” consegnò lo spirito” (v. 30). Si tratta del gesto cosciente e libero di un vivente. L’ultimo gesto di Gesù è ancora un donare: dopo aver donato se stesso, dopo aver- fatto il bene per tutta la sua vita, giunto all’estremo del suo cammino terreno, Gesù ancora dona. E lo spirito che egli dona può benissimo essere inteso come lo Spirito, con la maiuscola, dunque come riferimento allo Spirito santo. La morte di Gesù, da evento di isolamento e di non relazione, diviene transitivamente evento di vita. La morte, come consegna dello Spirito santo, diviene una pentecoste, evento che trasmette il principio della vita spirituale all’ esistenza del cristiano. Così si definisce ulteriormente la concezione della morte di Gesù nel quarto vangelo: la morte, la croce è gloria. Gesù appare come un re (si pensi alla corona di spine: cf. Gv 19,2-3), e la sua via crucis è in verità un cammino di intronizzazione regale. La croce è innalzamento e giudizio sul mondo, è un andare al Padre, è un esodo verso il Padre. Una pasqua, un passaggio da questo mondo al Padre. Nella croce, per Giovanni, è già insita l’interezza del mistero pasquale.

 

 

 

[1] Cf. E. Jüngel, Morte, Queriniana, Brescia I972.

[2] Cf. X. Léon-Dufour, Face à la mort. Jésus et Paul, Seuil, Paris I979.

[3] Cf. J. Massonet, s.v. “Sanhédrin”, in Supplément au Dictionnaire de la Bible XI, Letouzey & Ané, Paris 1986, coll. 1353-1413.

[4] Cf. H. Schuermann, Comment Jésus a-t-il véçu sa mort?, Cerf, Paris 1977; M. Bastin, Jésus devant sa passion, Cerf, Paris 1976.

[5] Cf. B. Gerhardsson, “Jésus livré et abandonné d’après la passion selon saint Matthieu”, in Revue Biblique 2 (I969), pp. 206-227.

[6] Cf. J. Bernardin, Il dono della pace. Riflessioni personali, Queriniana, Brescia 1997.

[7] Cf. E. Manicardi, “Gesù e la sua morte secondo Me 15,33-37″, in Associazione biblica italiana, Gesù e la sua morte. Atti della XXVII settimana biblica, Paideia, Brescia 1984, pp. 9-28.

[8] Cf. R. E. Brown, La morte del Messia. Un commentario ai racconti della passione nei quattro vangeli, Queriniana, Brescia 1999, pp. 1175-1202.

[9] H. Sehlier, La passione secondo Marco, Jaca Book, Milano 1979, pp. 97-98.

[10] Cf. D. Senior, La passione di Gesù nel Vangelo di Matteo, Ancora, Milano 1990, pp. 134-147.

[11] Cf. R. A. Monasterio, Exegesis de Mateo 27,51b-53. Para una teologia de la muerte de Jesus en el Evangelio de Mateo, Editorial Eset, Vitoria 1980.

[12] Ignazio di Antiochia, Ai Tralliani 9,1.

[13] Cf. R. E. Brown, La morte del Messia, pp. 1202-1205.

[14] Cf. E. Manicardi, “L’atteggiamento di Gesù nell’imminenza della sua morte nel Vangelo secondo Luca”, in Parola, Spirito e Vita 32 (1995), pp. 97-119.

[15] Cf. D. Senior, La passione di Gesù nel Vangelo di Luca, Ancora, Milano 1992, pp. 125-146.

[16] Cf. A. Serra, Maria a Cana e presso la croce, Centro di cultura mariana Mater ecclesiae, Roma 1978.

[17] Cf. I. de la Potterie, “La passione secondo Giovanni (18,1-19,42)”, in A. Vanhoye, I. de la Potterie, Ch. Duquoc, E. Charpentier, La passione secondo i quattro vangeli, Queriniana, Brescia 19883 pp. 55-71.

[18] Cf. R. Vignolo, “La morte di Gesù nel Vangelo di Giovanni”, in Parola, Spirito e Vita 32 (1995), pp. 121-142.

 

 

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