DON VITO PALAZZINI – Angelo Nocent

Vito PALAZZINI

E’ un sacerdote che non ho mai conosciuto di persona ma che sembra venirmi a cercare.

  • Di lui  ho sentito parlare da ragazzo. Di un suo discorso ho citato qualche riga su Cronace in “Fatebenefratelli”. Non ricordo la data precisa ma è nei primi anni sessanta. Ricorreva un  anniversario  della Cappella Madonna di Loreto, che si venera nell’Ospedale San Giuseppe di Milano e mi avevano chiesto due righe per evidenziare la ricorrenza, probabilmente centenaria. Non conoscendo la storia delle origini, frugando, avevo trovato un suo scritto sull’agomento.
  • Di lui ho letto “San Giovanni di Dio”, Ed. S.Paolo,  terza ed. 1957, Imprimatur: Brixiae, 12 Augusti 1943.
  • Di lui  conservo un’immagine che ricorda il XXV Anniversario della sua Ordinazione Sacerdotale ricevuta dal Beato Card. Ildefonso SChuster il 23 luglio 1933. L’ho rinvenuta  recentemente  in un volume, da anni in letargo nella mia libreria:  MESSAGGIO SOCIALE DEL CRISTIANESIMO, un’opera ponderosa di Igino Giordani, altro narratore di San Giovanni di Dio .
  • Non so nulla della sua biografia, al di fuori di ciò che ho sempre saputo: che è appartenuto alla Famiglia Spirituale dei Fatebenefratelli. Poiché l’immagine riporta i passaggi salienti del suo peregrinare, ho pensato di lasciarne traccia sul web.
  • Si tratta di un figlio di San Giovanni di Dio che ha voluto molto bene a suo padre  e che di lui ha scritto cose molto dificanti.S o che nella sua ultima Parrocchia di Cremignane d’Iseo lo ha fatto immortalare in una tela – non quella qui riportata – che ha voluto riprodurre anche sull’immaginetta-ricordo, quasi a sigillo di un legame mai venuto meno. E lo si evince anche dalla  sofferta preghiera posta sotto l’effigie.

SAN GIOVANNI DI DIO

Fondatore dei Fatebenefratelli

Celeste patrono degli ammalati.

O Padre diletto,

ottienimi lo spirito della tua dolcezza

- ardore di carità –

amore alla croce

affinché dopo tanti dolori e tante prove

possa nell’esultanza

ottenere la mercede del mio lavoro!

Cremignano di Iseo, 23 luglio 1958

….

 

 

ITER AD CRUCEM…AD LUCEM

 

“Iter ad crucem…ad Lucem”, così il sacerdote VITO PALAZZINI definiva il suo cammino nel XXV di Ordinazione Sacerdotale. Di lui ho sentito parlare da ragazzo ma non l’ho mai conosciuto.

 

 

Egli è l’ultimo dei biografi del Santo che abbia ritenuto di riproporre ai lettori anche alcuni dei cosiddetti “FIORETTI” di San Giovanni di Dio, citandone la fonte e con la seguente motivazione: “Raccolgo sotto questo titolo quegli episodi della vita di S. Giovanni di Dio che per essere formati i fatti soprannaturali o comunque straordinari hanno un sapore tutto speciale e potrebbero far sorgere sulle labbra di alcuni, che si chiamano spiriti superiori, il sorriso della incredulità. Noi li accogliamo così con semplicità di cuore ed edificazione delle anime nostre”.

 

A dire il vero, anche Igino Giordani lo ha fatto, ma come lui stesso scrive nella sua agiografia, ha usato “con molta parsimonia, la Historia de la esclarecida vida, i miraglos del bienaventurad san Juan de Dios…, escrita por D.FR.ANTONIO DE GOVA, obispo di Sirene, Madrid, P. de Val,1659.

Il Govea, vescovo titolare di Cirene, agostiniano, morto nel 1628, scrisse la vita di San Giovanni di Dio dopo il 1620, durante lo svolgimento del processo per la beatificazione, col titolo: Historia de la  esclarecida vida, i miraglos del bienaventurad del Glorioso Patriarca Juan de Dios, Fundador de la Religion de lo pobres infermos. L’edizione  del 1659 fu curata ed ampliata dal sacerdote fatebenefratello P. Agostino Vitoria”.

Oggi, 7 Dicembre 2008, festa di Sant’Ambrogio, patrono della Provincia Lombardo-Veneta dei Fatebenefratelli, ho sentito come un forte richiamo a riportare in superficie uno dei suoi figli che il tempo ha eclissato dalla memoria di cui ormai pochissimi sarebbero in grado di riferire di lui. Una data in particolare mi ha bloccato e stupito ed è la prima che figura nella scaletta delle sue peregrinazioni che riproduco: il 1927, l’anno in cui il Dr. Erminio Pampuri entra in noviziato ed assume il nome di Fra Riccardo.

 

  • GENNAIO 1927 – Ingresso nella famiglia spirituale di San Giovanni di Dio. “Questa è la mia dimora…in essa abiterò perché me la sono scelta” (Sal. 131, 14)
  • 27 luglio 1933 – Ordinazione Sacerdotale ricevuta dal Beato Card. Ildefonso Schuster.
  • MAGGIO 1937 – “Parti dalla tua terra da (questa) casa di tuo padre, e vieni nel paese che io ti mostrerò” (Genesi 12,1)
  • 31 LUGLIO 1938 – Fondazione della parrocchia di S: Rocco in Voghera. Ritornando a Tortona riferite all’Angelo della diocesi i miei sentimenti, assicuratelo che tutti i fedeli che partecipano alla nuova famiglia spirituale sono a Lui uniti, intorno alla sua cattedra. Ma se per questa Unione occorresse una vittima: Eccomi pronto.” (Dal discorso di inaugurazione – Parole rivolte al Cancelliere Vescovile che dava esecuzione al decreto di erezione della Parrocchia).
  • 6 AGOSTO 1939 – Fondazione della Parrocchia di Salice Terme. “Dammi, o Signore, anime; toglimi tutto il resto”.
  • LUGLIO 1942 – “Miei Salicesi, ancora una volta la mia infermità mi obbliga a partire; parto ammalato, povero, abbandonato. Ma quando sarò partito comprenderete quanto vi ho amato; ogni cosa, ogni pietra, ogni mattone, ogni sacra suppellettile, tutto dirà a voi, ai vostri figli, ai vosri nipoti come il povero primo Parroco di Salice abbia compiuto il suo programma di amore disinteressato, di dedizione completa! (Dal discorso di addio ai Parrocchiani di Salice Terme).
  • 1947 – 1958 – Predicazione di 132 corsi di Missione. (Pregate per me…affinché dopo aver predicato agli altri, non diventi reprobo io stesso” (1 Cor 2,47).
  • 1 LUGLIO 1958 – Sesto anniversario della venuta a Cremignane d’Iseo. “Siam passati attraverso il fuoco e l’acqua, ma Tu ci hai tratto in luogo di refrigerio!” (Salmo 65,12) “Non entrare in giudizio col tuo servo, o Signore, perché nessuno sarà trovato giusto presso di Te”. (Liturgia dei defunti).

 

Qui si fermano le notizie cronologiche in mio possesso. Ma mi piace riportare la dedica della menzionata vita di San Giovanni di Dio, la cui prefazione è del Vescovo di Brescia Mons. Paolo Guerrini (Novembre 1943):

 

AI FIGLI DI S. GIOVANNI DI DIO

E’ DEDICATA QUEST’OPERA

CHE DESCRIVE E ILLUSTRA

LE RICCHEZZE INESAURIBILI

DEL PADRE

PERCHE’ A PIENE MANI ATTINGANO

TESORI DI CARITA’ E DI SACRIFICIO

 

FRATERNAMENTE L’AUTORE

Granada – Basilica di San Giovanni di Dio – Qui è conservata l’urna che raccoglie le sue spoglie mortali

Sacerdote Vito Palazzini 5

Sacerdote Vito Palazzini 2

Sacerdote Vito Palazzini

Sacerdote Vito Palazzini 2

 

 

DALLA BIOGRAFIA DI SAN GIOVANNI DI DIO

 

 

LA LAMPADA SI SPEGNE   

 

Riporto due capitoli del volume che suscitano nostalgia di Cielo e passione ardente per questo Mondo tanto amato da Dio:

 

“Durante i primi giorni di malattia nonostante la febbre e il progressivo peggioramento, voleva essere informato dell’andamento dell’ospedale. Non potendo andare alla questua, scriveva ai suoi benefattori sollecitando le loro offerte; offerte che non mancavano, che anzi abbondavano in quei giorni in modo particolare [1]

 

Ma ecco che Iddio voleva un altro sacrificio da lui:l distacco dai suoi poveri, dai suoi confratelli, dall’ospedale! Non può misurare, se non chi l’ha provato, lo strazio del distacco e dell’abbandono forzato di un’opera che abbiamo fatta nascere nel dolore, che abbiamo irrigato con le nostre lagrime e col nostro sangue, che ci è costata privazioni, incomprensioni, critiche, calunnie! La debolezza umana ama quest’opera come una madre può amare il suo figliuolo, non può pensare se non con immensa afflizione al doloroso momento in cui l’obbedienza o altra disposizione di avvenimenti reciderà (sia pure soltanto materialmente) i legami che uniscono l’opera e il suo ideatore e costruttore!

 

Se, chi ha autorità, ponesse sulla bilancia questo dolore che dilania un cuore, in rapporto ai calcoli meschini di opportunità. Di convenienza e forse di semplice capriccio, come cercherebbe di evitare di essere causa di questo Martirio che, se non è cruento, non è per questo meno straziante.

 

Certo Giovanni di Dio avrà desiderato terminare i suoi giorni là nel suo ospedale, in mezzo ai suoi, finire la sia vita nella sua cella, non importa se disadorna e priva di qualsiasi comodità, ma là dove aveva tanto pregato, dove aveva lottato con lo spirito delle tenebre, dove il Cielo si era aperto tante volte alle sue suppliche, ai suoi richiami.

 

Ma ecco che la premura umana, unita al desiderio sincero di poter riuscire a vincere il male, lo toglie di là per fargli passare gli ultimi giorni in una casa ricca e confortevole.

 

Entra in campo una delle principali signore di Granata, la signora Anna Ossorio, maritata a Don Garzia de Pisa, donna di grande pietà e di grande carità. Alla nobiltà dei natali univa nobiltà di sentimenti [2]

Risaputa l’infermità di Giovanni di Dio, si recò a visitarlo. Lo trovò nella sua misera e squallida cella, vestito dell’abito religioso, disteso sopra tavole con una semplice stuoia per materasso, un mantello lacero per coperta, e la sporta che usava per la questua, come guanciale, tutto ansimante per la febbre.

 

Anche in  quello stato i poveri non lo lasciavano tranquillo, ma si avvicendavano nella cella e lo importunavano con le loro richieste.

 

Nella decisione di toglierlo di là entrò anche affezione del fratello Antonio Martino che alla signora raccontò come sarebbe stato impossibile sperare in un miglioramento lasciandolo in quell’ambiente.

 

La signora de Pisa, donna energica e fattiva, decise di toglierlo dall’ospedale e di portarlo in casa sua per esservi meglio curato.

 

Si vede però che conosceva bene il servo di Dio, perché, prima di proporgli la cosa, si recò dall’Arcivescovo a cui espresse le circostanze in cui si trovava Giovanni di Dio e il proposito che aveva di trasportarlo in sua casa, pregò il prelato di intervenire con la sua autorità, che altrimenti egli a nessun costo avrebbe abbandonato l’ospedale.

 

L’Arcivescovo ben volentieri aderì al desiderio della nobile Signora e le consegnò per lui un ordine scritto con cui gli comandava di lasciarsi trasportare in casa di donna de Pisa e di attenersi alle prescrizioni dei medici.

 

Munita di questo scritto ritornò dall’infermo e dopo aver cercato di persuaderlo a lasciarsi trasportare a casa sua per farsi curare onde guarire più prontamente e ritornare poi al suo santo ministero, visto che la sua voce e le sue insistenze non l’avrebbero rimosso dalla decisione di terminare i suoi giorni tra i suoi poveri, gli presentò l’ordine dell’Arcivescovo. Ubbidì allora come il Divin Figliuolo obbedì all’Eterno Padre fino alla morte e alla morte di Croce.

 

E’ sempre con grande commozione che io penso a questa traslazione prima della morte.

 

E’ il passaggio di un tenero padre e di un pontefice attraverso le corsie dell’ospedale e le strade della città di Granata. Vuol rivedere la cappella, pregare dinnanzi a Cristo Sacramento e ivi vorrebbe prolungare la sua adorazione e la sua preghiera e ne è tolto quasi a viva forza: sorretto dai confratelli passa nelle corsie dell’ospedale per salutare i suoi poveri, meglio i suoi signori, come egli li chiamava.

 

Il pianto di lui e dei suoi beneficati si fonde insieme, strazio di cuori che sentono la tortura del distacco; li vuol rivedere ad uno ad uno e tutti conforta e tutti benedice. “Vivete in pace e, se non ci rivedremo più, pregate il Signore per me!”.

 

Il dolore fu troppo grande e cadde in deliquio. Ritornato in sé, venne trasportato subito fuori dall’ospedale, fatto  sedere sopra una poltrona e, alzata da quattro persone, trasportato attraverso le strade della città alla casa de Pisa.

 

Era il pontefice della carità, che seduto sulla portantina dei poveri, passava alto su tutti, a tutti monito e benedizione!

Vorrei essere pittore sommo per poter riprodurre la scena così come la vede la mia anima, come la sente il mio cuore; la penna mi cade dalle mani, impotente alla descrizione sublime.

 

E’ il trionfo della grazia, dell’umiltà, del sacrificio, della santa ospitalità!

Granata vive di lui in quei giorni della sua malattia, la folla si assiepa intorno al palazzo De Pisa, fortunato chi può raggiungere la sua stanza e sentire la parola stanca ma sempre affabile.

 

 

Quando si volle impedire l’entrata, venne forzata la posta e fu necessario porre delle guardie al palazzo per evitare l’ingresso.

 

I maggiorenti della città deputarono una commissione perché fosse presso di lui l’interprete dei sentimenti di riconoscenza e dei voti di tutti i cittadini.

 

L’Arcivescovo don Piero Guerrero lo visitò ripetutamente, lo assistette con affetto paterno, a lui Giovanni affidò la sua opera, da lui ebbe la promessa che i debiti dell’ospedale sarebbero stati tutti pagati.

 

Intorno al suo letto si succedevano i confratelli e specialmente Antonio Martino. A lui manifestò il segreto della visita dell’Arcangelo Raffaele e l’assistenza che la Vergine Santa, S. Giovanni Evangelista e lo stesso Arcangelo avrebbero sempre avuto per l’ospedale e per coloro che avrebbero in esso esercitata la carità.

 

Ricevette gli ultimi conforti di nostra santa religione dalle mani stesse dell’Arcivescovo che celebrò la S. Messa nella sua camera.

 

Nell’ardore della febbre egli parlava con la Vergine, la stella della sua vita, con l’Arcangelo Raffaele, il celeste infermiere che aveva con lui condiviso le fatiche della ospitalità; li vedeva a lui presenti invitarlo alla suprema beatitudine.

 

Devotissimo della passione del Signore, desiderò che se gliene leggesse la storia secondo il racconto di S. Giovanni.

 

La lettura degli spasimi sofferti da Cristo Signore e dell’amore suo infinito, rianimò le stanche membra di Giovanni, gli brillarono gli occhi, il volto pallido si soffuse di calore, sembrava che il suo corpo si rinnovasse e si rinvigorisse.

 

Il racconto evangelico lo rapì in estasi dolcissima, rispettata dai presenti che ad essa assistettero riverenti ne silenziosi.

 

La notte di quel venerdì era calata sopra Granata. Intorno al letto di Giovanni di Dio con Antonio Martino e con la signora Ossolo c’erano alcuni intimi.

 

Quando rinvenne dall’estasi, pregò i presenti che lo lasciassero solo per avere un po’ di riposo, ed essi vedendolo rianimato lo accontentarono.

 

Quando fu solo, sentendo vicino il momento del suo trapasso,raccolse le ultime forze del fragile corpo, indossò l’abito religioso, prese in mano il Crocefisso e si trascinò fino all’altare dove l’arcivescovo aveva celebrato la S. Messa. Si inginocchiò e, stringendo Cristo Crocefisso, in quella posizione, sorretto forse dagli Angeli, spirò e volò in seno a Dio, suo divino tormentatore, suo supremo premio.

 

Era passata da poco la mezzanotte del giorno otto marzo dell’anno di grazia millecinquecentocinquanta.

Quando i suoi assistenti entrarono nella stanza, lo pensarono assorto in preghiera, poi avvicinatisi ne constatarono il supremo trapasso.

Così concludevasi la vita terrena di Giovanni di Dio, spegnevasi la lampada che Cristo aveva acceso  nel cielo della Spagna, per riaccendersi, stella lucentissima nella storia della santità cristiana.

 

...E SI RIACCENDE IN CIELO

 

Alla morte di S. Giovanni di Dio la camera fu inondata da profumo soavissimo e il suo corpo rimase nella posizione in cui era spirato per lo spazio di sei ore [3]

 

La notizia del sereno trapasso commosse la città. La sua camera, trasformata in cappella ardente, divenne la meta del pellegrinaggio di tutti i cittadini di Granata. Vennero eretti altri due altari e si succedettero molti sacerdoti nella celebrazione del Divin Sacrificio, primo l’Arcivescovo Don Pietro Guerrero.

 

Si decise di dargli sepoltura nella chiesa della Madonna della Vittoria dei Minimi di S: Francesco nel sepolcro gentilizio dei signori de Pisa.

 

I suoi funerali riuscirono la vera apoteosi della carità, i suoi biografi  ce ne tramandarono la descrizione nei più minimi particolari.

 

Dalla Cappella ardente alla porta di casa, quattro personaggi dei più illustri della città trasportarono la salma ed essi furono:

i marchesi di Tariffa e di Senalvo, Don Pietro di Bodaglia e Don Giovanni di Guervara.

Dalla casa alla chiesa si succedettero nel pietoso ufficio a turno i religiosi della città incominciando dai Minimi di San Francesco.

 

Aprivano il corteo i poveri dell’ospedale assieme ai confratelli del Santo, seguivano le donne convertite e beneficate dal Santo[4], venivano poi le confraternite con labari e croci a ci succedevano le comunità religiose e da ultimo il clero, il capitolo della Cattedrale, l’Arcivescovo in abiti pontificali. Seguiva il feretro l’autorità civile e una fiumana di popolo.

 

Le campane di tutte le chiese suonarono a mesti rintocchi durante la cerimonia funebre[5]. Il corteo che era partito alle ore nove dalla casa de Pisa raggiunse a mezzogiorno la chiesa della Madonna della Vittoria, tal era la ressa che ne intralciava lo svolgersi; ressa che si era fatta ancora più fitta sulla piazza antistante alla chiesa.

 

Tutti volevano ancora vedere il sacro corpo, toccare la bara.

 

Quando Iddio volle, il corteo entrò in chiesa. Cantò la Messa da Requiem il Generale dei Minimi e tenne l’orazione funebre un altro religioso dello stesso Ordine.

 

La bara fu lasciata per nove giorni in chiesa e nove diversi oratori si succedettero sul pulpito a tessere l’elogio del Padre dei poveri.

 

La sua morte commosse tutta la Spagna ed in modo particolare l’Adalusia e Granata.

 

L’Arcivescovo Don Pietro Guerrero, che lo chiamava quando era in vita “l’uomo nascosto” ora lo soprannominava “l’uomo esaltato”.

 

Il Beato Giovanni d’Avila, suo Direttore spirituale e depositario della sua coscienza, nelle sue prediche lo proponeva come modello di penitenza e di umiltà.

 

Il Cardinale Deza, che l’aveva conosciuto nel suo soggiorno a Granata come presidente della grande cancelleria lo chiamava “l’uomo meraviglioso” e quando a Roma gli giunse la notizia della sua morte narrò al Papa e ai Cardinali le sue opere meravigliose.

 

La camera dove spirò venne convertita in Cappella e nel 1607 venne eretta una chiesa a Montemaggiore il Nuovo sul luogo dove sorgeva la casa dove egli vide la luce e divenne santuario famoso a cui accorrevano pellegrini innumerevoli.

 

Fioriscono sulla sua tomba grazie e miracoli, il suo Crocefisso e il suo bastone operano prodigi.

 

La fama della sua santità varca i confini della Spagna, dell’Europa. Si iniziano i processi per la beatificazione.

 

La bolla di beatificazione è del 21 Settembre 1630, il 16 Ottobre 1690 Alessandro VIII nella Basilica Vaticana ne celebra la solenne canonizzazione [6].

 

Il corpo di S:Giovanni di Dio, sepolto nella tomba gentilizia dei de Pisa nella Chiesa della Madonna della Vittoria, enne il 6 settembre 1625 trasportato e posto sotto l’altare della Cappella e il 28 novembre 1664 venne solennemente traslato dalla Chiesa dei Minimi alla Chiesa del Convento degli ospitali eri.

 

Sorse là “uno splendido tempio; esso s’impone per la maestosa grandezza e per le magnifiche opere d’arte che l’ornano, tanto all’esterno quanto all’interno, alcune delle quali risalgono alla metà del secolo XVIII…il tempio è riccamente arredato e vi si conservano molte reliquie di santi, custodite in preziose urne e teche. Vi si venera particolarmente il Sacro Corpo di S. Giovanni di Dio, racchiuso in una grande urna d’argento situata sopra l’altare maggiore”.

 



[1] Penso che di questo tempo sia una delle lettere alla duchessa di Sessa, quella che nel libro citato dal Padre Meyer viene come prima. Ricorda parecchie volte in questa lettera la grave malattia da cui è afflitto e termina così: “Mia cara sorella in Gesù Cristo, il dolore che io mi sento mi riduce all’estremo e non mi permette più di scrivere: io desidero prendere un po’ di riposo per poter in seguito scrivere più lungamente se noi non potremo più vederci, Gesù Cristo sia con Voi e con tutta la vostra famiglia”.

[2] Il Padre Santos, a pagina 40 de “I cinco primeros compañeros etc.”, dice che essa era “Muyer del Veinte i Quatro Pisa”.

Anche la bolla di canonizzazione parla diffusamente del trasporto alla casa di Madama Ossorio (Bollario, P. RISI, pag.8, paragr.11).

[3] Tutti gli autori parlano del profumo che inondò la sua stanza e nella posizione in cui restò il corpo di S.Giovanni di Dio, ciò è anche ricordato dalla Bolla di canonizzazione (Bollario del P.RISI, pag.3, paragr. 16). “La suave odeur dont on parlé là-dessus, continua pendant neuf jour non seulment dan la chambre où le Saint avait rendu le dernier soupir, mais encore par toute la maisone de dona Ossorio; elle se renouvela dans la souite toutes les semines dans la nuit du vendredi au samedi; et cela plus de 50 ans.

 

La chambre où mourut nostre Fondateur fut convertie en une chapelle ed devint un lieu de pé lerinage trés fréquenté et trés célèbre, par le grand nombre de miracles que Dieu y a opéréen faveur de ceux qui y ont inviqué sainy Jean de Dieu. Cette chapelle a été desservie, pendant longtemps, par les prȇtres de nôtre Ordre; mais, malheureusement, il n’en est plus ainsi ajourd’hui” (P. R. MEYER, opera cit., pag.3-4)

[4] Erano certamente quelle che, come a suo tempo abbiamo detto, egli raccoglieva in diverse case e che vivevano  una specie di vita comune.

[5] Alcuni biografi vogliono che alla sua morte si rinnovasse il miracolo del suono spontaneo delle campane di Granata, come era avvenuto a Montemaggiore il Nuovo il giorno della sua nascita.

[6] Dopo la beatificazione la causa di canonizzazione restò sospesa fino al 1667: ai quattro ottobre di quell’anno Clemente IX segnava la Commissione per la riassunzione e prosecuzione della causa: ai 20 dicembre 1678 nella Congregzione generale tenuta innanzi al Pontefice Innocenzo XI, venivano discussi i miracoli e il 13 giugno 1679 veniva emesso dalla S.Congregazione dei Riti il decreto col quale si dichiarava potersi venire sicuramente (Tuto) alla solenne canonizzazione del B.Giovanni di Dio. La solennissima cerimonia della canonizzazione (si veda l’ampia descrizione nel Bollario del CUGGIO’, pag.6-12) fu fatta dal Papa Alessandro VIII al 16 Ottobre 1690.

 

Questo Pontefice non potè spedire la bolla di canonizzazione perché morì pochi mesi dopo (1° febbraio 1691), il ché fece il successore Innocenzo XII il 15 luglio 1691.

[7] Dal Rescritto col quale Benedetto XV dichiarava la Chiesa di S.Giovanni di Dio in Branata Basilica minore.

Angelo Nocent

 

 

Presentazione 14a Giornata Mondiale del Malato 2006

   

Ufficio Nazionale per la pastorale della sanità

Presentazione 14a Giornata Mondiale del Malato 2006

 

 

 

Presentazione del Sussidio

 

 

nelle comunità parrocchiali, nelle strutture sanitarie, nei gruppi di operatori sanitari e pastorali, nelle associazioni dei malati e per i malati.

Con l’augurio che la preparazione e la celebrazione di questa 14a Giornata Mondiale del Malato ci aiuti tutti a crescere nell’impegno di seminare e di testimoniare quei valori ispirati dalla giustizia, dalla solidarietà e dall’amore, c

Il tema “Alla scuola del malato”, scelto per la preparazione e la celebrazione della 14a Giornata Mondiale del Malato, per essere meglio compreso e valorizzato, deve essere collocato all’interno di una visione e attuazione globale della nostra azione pastorale nel mondo della salute, in continuità e collegamento con le altre riflessioni da noi sviluppate in questi anni, in riferimento alle finalità che la stessa celebrazione della GMM si propone.

 

Questa collocazione più ampia e più attenta permetterà di non pensare o interpretare il tema in modo isolato o semplicemente come indicazioni, per quanto importanti, per promuovere una spiritualità del malato. Anzi, proprio a partire da questo ascolto e da un nostro metterci “alla scuola del malato”, tutti come comunità cristiana e come società e istituzioni civili, possiamo essere provocati a ripensare e a migliorare oggi la cura della salute e a riscoprire che la salute non è innanzitutto o esclusivamente un problema medico, ma è strettamente collegata a condizioni di natura culturale, sociale, politica, economica ed esistenziale.

 

In particolare, nella utilizzazione del presente sussidio, siamo invitati a non pensare “un malato” in astratto, ma a tutte le persone che vivono e soffrono situazioni sempre singolari con malattie diverse, alle loro famiglie, alle numerose associazioni di malati, a quei malati, spesso nascosti, quali sono i malati mentali e le tante persone che soffrono uno stato di depressione.

 

Fra l’altro, ad Adelaide (Australia), luogo simbolico dove dal Pontificio Consiglio per la pastorale della salute si celebrerà, l’11 febbraio 2006, la GMM, l’accento verrà messo proprio su questo tema.

 

Questo metterci in ascolto e “alla scuola del malato” dovrà significare, soprattutto, metterci alla scuola di colui che, assumendo su di sé ogni nostro limite umano, la nostra sofferenza e la nostra stessa morte, ci apre l’orizzonte e la certezza di una guarigione definitiva e di una salute – salvezza piena.

 

Al centro, infatti, del cammino formativo e promozionale nella cura della salute, dei malati e dei sofferenti, che il presente sussidio intende sostenere, c’è ancora una volta la necessità di fissare i nostri occhi sulla persona e il mistero di Gesù Cristo, in cui solo trova piena luce il mistero dell’uomo e si trova la sorgente dell’amore che cura e risana.

 

   

Con un grazie fraterno alle persone che hanno collaborato per preparare e redigere questo sussidio, auspico che esso venga utilizzato creativamente per diversi incontri formativi (gli stessi titoli interni possono essere di aiuto)he possono favorire una nuova qualità nella cura della vita e della salute, a partire dal riconoscimento e dal rispetto della uguale dignità di ogni persona.


 

Mons. Sergio Pintor

Direttore dell’Ufficio Nazionale CEI

per la pastorale della salute




 

 

 

 

 

La rapida evoluzione tecnologica, culturale e sociale, oltre gli innegabili vantaggi, genera anche preoccupazioni e paure sulla salute degli uomini e sul futuro del pianeta.

Tale situazione fa emergere interrogativi sull’esistenza, sul senso del dolore e sofferenza e sul modo di affrontarli. Fondamentale diventa la testimonianza umana e cristiana dei malati i quali possono diventare vangelo vivente di Cristo tra gli uomini.

Se la sofferenza è maestra di vita, il malato può diventare un buon insegnante.

 

 

 

La vita “dono e mistero”

“…la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio” (Col. 3,3).

Solo comprendendo e percependo la dimensione misteriosa della vita, si può essere disponibili a ricercarne il senso e il valore e a riscoprirla come dono, di cui essere riconoscenti e responsabili.

“Fissare lo sguardo su Gesù” e fare memoria della sua vita mortale è scoprire una chiave interpretativa e una finalizzazione umanamente impensabile del limite che causa sofferenza, dolore, morte.

 

“Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv. 10,10).

Gesù promuove la vita e guarisce i malati, come segno del Regno di Dio, dove la malattia, la sofferenza e la morte non sono ultima parola ma vengono superate in una visione di una salute di vita piena e integrale. L’offerta di noi stessi, soprattutto nel nostro servire e nella cura delle persone sofferenti, grazie alla presenza e al dono di Gesù, ci pone a servizio e ci fa vivere una solidarietà costruttiva. Nel momento supremo della Croce il Figlio di Dio, Buon Pastore, dona la vita per le sue pecore e dona ad esse di vivere la stessa vita di relazione obbediente e filiale al Padre, per la salvezza del mondo. Anche la nostra sofferenza, nella croce di Cristo si porta dentro una certezza e una promessa: la vittoria definitiva della vita sul male e sulla morte.

 

Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per gli amici” (Gv.15,13).

Gesù non solo ha guarito i malati ma ha vinto e ha dato senso alla sofferenza, assumendola su di sé per amore e così, vincendo malattia e morte, ci ha fatto il dono della salute piena che è la salvezza. Gesù è andato incontro alla morte con consapevolezza e libertà. Gesù non vuole il dolore; come ogni uomo Egli vuole la vita, la gioia. Incontra però il male, la sofferenza, la morte sul cammino che Egli percorre insieme agli uomini. Egli vuole eliminare il male, ma il modo di eliminazione ci sorprende. Dio elimina il male non ignorandolo o aggirandolo, ma aggredendolo e trasformandolo dal di dentro con la forza dell’amore.

Il discepolo riceve dal suo Signore Maestro lo stesso compito: trasformare ogni croce umana in croce di Cristo.

 

“Andate, annunciate e curate” (Cfr. Lc. 9,1-2).

La comunità cristiana si caratterizza come comunità di vita nuova e liberata, inviata come segno e strumento del Cristo, datore di vita e di salute piena. Tuttavia non mancano situazioni in cui questo volto della comunità non sia ancora pienamente riconosciuto da alcuni pastori; fedeli, associazioni e movimenti. Il lavorare in modo individualistico, la sorte di delega in bianco a quanti, per carisma o doti personali, continuano con passione e tenacia a proseguire progetti possibili, non sono garanzia di efficacia ecclesiale

 

“…perché si manifestassero in lui le opere di Dio” (Gv. 9,3).

La comunità è chiamata a “riconoscere” la presenza del malato e il suo essere soggetto attivo della comunità umana e cristiana, perché attraverso l’esperienza di malattia e sofferenza, vissuta e condivisa alla luce della Pasqua di Cristo, si possa manifestare oggi la potenza delle sue opere salvifiche. La persona sofferente ci richiama ad una adeguata attenzione circa l’integrazione personale ed ecclesiale a partire dalla specifica ricchezza evangelica e cristiana. Contro il mito dell’uomo perfetto e della società libera dalla sofferenza, la comunità cristiana, che non rinuncia a porsi la domanda sul perché della sofferenza, attinge una luce particolare dall’incontro pasquale di Gesù.

 

 

 

 

Alla scuola del malato

 

Per una nuova cultura della salute e dell’amore.

Se l’ambito della cura della salute è chiamato a diventare il “laboratorio” di una nuova civiltà dell’amore, c’è da chiedersi se questo può avvenire senza che una società e una comunità cristiana si mettano in attento ascolto del magistero del malato. Nella nostra epoca i successi della scienza e della tecnica permettono di raggiungere, in grado finora sconosciuto, un benessere materiale che mentre favorisce alcuni conduce altri alla emarginazione. Ciò può comportare anche una graduale scomparsa della sensibilità per l’uomo, per ciò che è essenzialmente umano. In questo senso, soprattutto ai nostri giorni, attendono la manifestazione di quel “genio” della persona sofferente che assicuri la sensibilità per l’uomo in ogni circostanza: per il fatto che è uomo.

 

Il malato soggetto attivo di evangelizzazione.

Va superata una visione riduttiva e perfino il rischio della presunzione che porta a pensare la persona, in condizione di malattia e sofferenza, solo come oggetto passivo di aiuto e non come soggetto attivo di comunicazione di valori che consentano di comprendere meglio il senso e la ricchezza inesauribile della vita e cosa significhi ‘prendersi cura della salute’ a tutti i livelli. Le persone sofferenti non siano solo accolte passivamente nelle nostre parrocchie, come se i malati fossero solo ricettori di una prestazione pastorale. Siano riconosciuti non solo come invitati da Dio a unire le loro sofferenze, ma anche inviati nella vigna del Signore a trasmettere agli altri la forza del rinnovamento e la gioia del Cristo Risorto.

 

Una costruttiva visione della vita e della salute.

La società e la cultura appaiono segnate – in modo ambivalente e secondo le situazioni – o da una resa passiva davanti al limite umano o dallo stesso rifiuto nell’accettarlo, oppure d’atteggiamenti presuntuosi di onnipotenza umana. La crisi di verticalità che tenta di nascondere Dio, l’individualismo che porta a bilanciare tutto su se stessi, la fatica di vivere nel tempo e di avere un giusto senso del tempo, sembrano determinanti nel processo di interpretazione del proprio soffrire e influiscono sulla portata di senso. Non mancano atteggiamenti sociali e culturali di indifferenza e passività nei confronti dei malati.

In questo contesto, il mettersi alla scuola dell’esperienza del malato e del sofferente non potrebbe diventare un percorso di una più sapiente e costruttiva visione della vita e della cura di essa?

 

 

 

 

L’insegnamento del malato

 

 

Il malato testimonia:

 

* l’importanza e il valore della vita in ogni istante e situazione, in un contesto che talvolta o spesso non la considera nella sua totalità o la strumentalizza o addirittura la disprezza. La testimonianza del malato consiste nel favorire una comunità che si adoperi per una cultura capace di promuovere i valori della vita, di aiutare a riflettere sul dono della salute e sull’esperienza della vulnerabilità e della morte come realtà esistenziali.

 

* la necessità di una personale e collettiva responsabilità nel prevenire le cause di malattia assumendo stili sani di vita. Dobbiamo impegnarci tutti, a tutti i livelli, per cercare una via di speranza, di relazione e di crescita umana.

 

* l’urgenza che la persona in condizione di malattia non sia lasciata sola e venga debitamente

curata dalla società e dalla comunità cristiana. La pastorale della salute richiede “testimoni che non siano condizionati dalla frettolosità, dall’individualismo, dall’approccio devozionale o dal facile richiamo alla rassegnazione, ma capaci di instaurare dialoghi aperti e sananti.

 

 

Il malato educa:

 

* scoprire il valore delle realtà essenziali della vita: è strano, però capita di riconoscere, non senza sorpresa, quanto in realtà sono importanti e preziose le persone con le quali si vive insieme soltanto nel momento in cui sopraggiunge la sofferenza.

 

* a scoprire il limite e la provvisorietà della vita umana: esprime la verità della persona di fronte al grande mistero dell’esistenza umana. Il vissuto di sofferenza nelle piccole e grandi imprese della vita obbliga a pensare più umilmente riguardo a se stesso.

 

* a comprendere alla luce della fede, che la sofferenza, pur conservando i tratti dell’assurdo, pur restando sorgente di lacerazione interiore, proiettata sullo sfondo della croce di Cristo, assume un significato che va oltre la semplice valorizzazione umana.

 

 

Il malato chiede:

 

* che la professione sanitaria abbia un’anima: è urgente l’impegno per una ripersonalizzazione delle professioni sanitarie, che favoriscano l’instaurarsi di un rapporto dalle dimensioni umane con il malato.

 

* che l’economia non sia prepotente: la salute dei costi, ma non deve avere prezzo. Per salvare il bisogno integrale di salute, di fronte a una cultura che spinge a considerare l’intero sistema sanità come una qualsiasi azienda, la salute come un prodotto e il malato come un cliente, è urgente e necessario riaffermare la centralità della persona umana.

 

* che la riorganizzazione sanitaria abbia sempre come finalità la cura di ogni persona e che

la scienza sia sempre a servizio della vita.

 

* che la comunità cristiana sia più attenta al mondo della salute e della malattia per

riconoscerlo come terreno privilegiato di Vangelo e si impegni a crescere come comunità che

educa alla cura della salute.

Per questo va rivalutata la missione della comunità cristiana che si prende cura dei sofferenti, quale contesto vitale che concorre a far uscire il malato dall’isolamento e dalla condizione di inutilità.

 

 

 

Conclusione 

 

La Vergine Maria, che fin dall’inizio ha compreso che la sua vocazione di donna e di madre era segnata dal mistero dell’amore e del servizio, ma anche della sofferenza e l’ha accettata con umiltà e abbandono, ci aiuti a leggere in questa luce la nostra vita e ci renda capaci di donarci in umiltà e serenità perché nessuna croce umana sia trascurata e dimenticata, e nessuna rimanga senza senso e senza ascolto.

 

 

 

 

 

“I malati e tutti i sofferenti possono diventare veramente soggetto attivo di comunicazione in vista di una società più degna.

Quanti valori, quante dimensioni umane, quanti reconditi significati della vita i ‘cosiddetti sani o normali’ sono tentati di trascurare!

Il malato, il sofferente, chiunque è debole e trascurato, invece, se viene cordialmente aiutato, può diventare per tutta la società un richiamo potentissimo, che riesce ad esprimere dal proprio cuore e dal cuore di chi è solidale con lui, sentimenti ignorati e disattesi, quali, il coraggio, la speranza, la non rassegnata sopportazione, la fraterna dipendenza reciproca, il senso del limite, l’attesa operosa di un mondo nuovo creato dall’amore di Dio” (Card. C. M. Martini 1980).

 

 

 

 

“L’amore, certo, non riesce su questa terra ad eliminare ogni handicap ed ogni sofferenza, ma questo non significa che esso diventi inutile ed inoperoso.

La riabilitazione, le cure mediche, gli interventi tecnici hanno un limite; l’amore no!

Quando le altre cose finiscono, l’amore continua la sua opera di promozione dell’uomo.

Anzi si può dire che comincia il tempo più vero dell’amore:

- è il tempo della condivisione, del ‘portare gli uni i pesi degli altri’ per renderli più sopportabili;

- è il tempo del coraggio e della speranza;

- è il tempo dell’umile e magnanima accettazione della propria condizione umana;

- è il tempo della fiducia in Dio e nella sua promessa di vita e di gioia;

- è il tempo della scoperta di nuove dimensioni della vita umana e di nuove forme di comunicazione” (Card. C. M. Martini 1981).

 

 

 

 

 

 

 

 

TIZIANO TERZANI “anam” IL SENZANOME -Videoconversazione

TIZIANO TERZANI

A proposito di quanto ho scritto nel post precedente (“La cura”), vi invito a vedere il documentario “Anam – il senzanome”. Si tratta dell’ultima intervista al celebre giornalista e scrittore Tiziano Terzani: sono 50 minuti indimenticabili.

Buon week end Scritto da: Princy60 alle ore 16:33 |

DON ANDREA GALLO: UN TRAVESTITO DA “SAN GIOVANNI DI DIO” – A. Nocent

martedì, 28 aprile 2009
Don Gallo
Nella foto: Don Andrea Gallo nel suo studio
  San Giovanni di Dio padre dei poveri

San Giovanni di Dio era uomo destinato, fatto e finito, per scandalizzare il suo tempo.

Hai discepoli ha semplicemente insegnato a sviluppare due organi: la vista e l’olfatto.

  • Il primo per guardarsi intorno, andare oltre il naso e vedere lontano…;  

  • L’olfatto per fiutare i bisogni nascosti di persone sepolte sotto le macerie, sorprese da  improvvise e sconvolgenti scosse sismiche che la vita può riservare a qualsiasi ora ed età. 

Questo è tutto. Nulla di più.

 Quando frana il terreno sotto i piedi e vien giù la casa, i problemi son sempre gli stessi:

  • come affrontare l’emergenza,

  • dove sbatter la testa

  • non farsi prendere dal panico,

  • da dove cominciare la ricostruzione. 

 La soluzione ai problemi va cercata di volta in volta perché ogni generazione ha le sue risposte pratiche, legate alla tecnologia sempre più avanzata. Ma non vanno tralasciate le perenni risposte della fede, il cemento che tiene insieme i mattoni. Lo abbiamo imparato in questi giorni all’Aquila: mai mescolare sottoprodotti con il Cemento, nè diluirlo con l’acqua delle astute convenienze. Prima o poi si paga.

 Chi la soluzione la vorrebbe una volta per tutte, vive fuori dal mondo e perciò non s’accorge della sua permanente trasformazione.

La FEDE è un vedere con l’occhio che ci impresta il Signore.

La riflessione di questi giorni mi ha portato su pagine che fanno pensare. Le avevo lette appena pubblicate. Le ho rilette con nuova commozione perché nel mondo della psichiatria ufficiale  mancano proprio questi ”frati da marciapiede“. Che, se  fossero un’associazione, il capostipite  di diritto non potrebbe essere che lui: il portoghese Giovanni Ciudade, detto San Giovanni di Dio.

Ma il Don Andrea Gallo, un giovanotto nato a Genova il 18 luglio 1928 e sacerdote dal 1959,  gli tiene dietro con passo altrettanto spedito e con fantasia non meno audace.

“La sede principale della mia comunità non ha insegne e nemmeno un campanello. Non so perché ma, nonostante l’anonimato, tante persone continuano a presemntarsi alla mia porta, di giorno e di notte, sicure di trovare altre persone pronte ad accoglierle”. (Don Andrea Gallo)

Non importa che tu lo sappia, Don Andrea. E’ importante che lo sappiamo noi. E noi lo sappiamo bene il perché.

Di lui ne hanno dette e scritte di tutti i colori. E ne diranno ancora. Se la Chiesa tollera, è perché lo Spirito non autorizza a “procedere”.

Fin che la barca va… Buon toscano, Don Andrea! Ora è meglio che faccia parlare al mio posto il tuo amico Vasco Rossi.

Angelo Nocent

vasco rossi_1

Dalla Prefazione

E’ un “prete da marciapiede”, lo dice lui stesso. O meglio ancora, un uomo “angelicamente anarchico”. Questa definizione che Don Gallo dà di se stesso, è quella che, secondo me, gli sta più a pennello. Perché effettivamente lui – con quella sua faccia aperta, onesta e simpatica, l’eterno mozzicone di sigaro in bocca – lo è.

Un po’ anarchico, meno rispettoso di regole e convenzioni ma molto più della libertà e delle scelte altrui, e un po’ angelo, sempre disposto a dare una mano senza pregiudizi, a offrire un aiuto concreto e generoso a chiunque ne abbia bisogno. E chi non ne ha bisogno, in questa nostra cosiddetta società “avanzata”, purtroppo ancora dominata dall’”Indifferenza” e dal’ “Intolleranza”, due dei peggiori mali che possano insidiare l’uomo e la sua dignità?

Don Gallo questi mali d’oggi li ha combattuti entrambi fondando un’isola di solidarietà nel cuore di Genova. Una comunità le cui porte sono sempre aperte a tutti, a chiunque sia in difficoltà anche solo momentanea.

Io don Gallo l’ho conosciuto un paio di anni fa a Genova, nella “sua” città e nella “sua” Comunità di San Benedetto al Porto, e subito mi ha conquistato con il suo  coraggio, la sua semplicità, la sua serena e totale disponibilità verso gli altri.

Sapevo già chi era, lo avevo seguito in qualche rara occasione pubblica…a dire il vero lo invitano poco in televisione perché lui è una voce fuori dal coro, lui affronta davvero – e con intelligenza – le realtà scomode…

Da sempre è vicino agli ultimi e agli emarginati, come quella volta che li fece sedere  in prima fila al Teatro Carlo Felice dove si cantava De André, uno dei suoi primi grandi amici.

Be’, quella volta che lo andai a trovare a Genova fu una giornata particolare, speciale. Insieme a tutti i suoi inaugurammo la nuova sede della Comunità di San Benedetto al Porto, una palazzina a più piani, allegra e accogliente, dove si respira un’aria pulita di amicizia e di concretezza. La palazzina è proprio di fronte al porto, da tutte le finestre, dal terrazzo si vede e si respira il mare e la città intera che pulsa.

Quella Genova che don Gallo conosce come le sue tasche e dove tutti lo amana, lo rispettano, lo salutano per strada. Dove ha combattuto e continua a combattere contro i pregiudizi e i falsi perbenismi.

Sepre sulla strada, perché lì è il suo posto, accanto ai più deboli per i quali riserva sempre un gesto concreto, “un pasto caldo”..anche per l’anima.

Accanto ai bisogni di affetto e di solidarietà.

Accanto a quelli che pensano di non avere più speranza. Che cercano un senso.  

 Vasco Rossi 

  

don_gallo-300x200Auguroni a Don Andrea Gallo che compie 80 anni.

Il vero peccato è il consumismo che ci ha cambiati tutti” dice, e chiede un regalo:

 “Ecco, vorrei che si smettessero i litigi per dare la moschea ai fratelli islamici. Genova l´ha sempre avuta, sin da quando era la Repubblica, perché adesso no?

Sono colpito come uomo prima di tutto, perché come Einstein che, a chi gli chiedeva la razza, rispose umana, io credo alla fratellanza“.

Don Gallo angelicamente anarchico

«Sono angelicamente anarchico»

di Laura Calevo

Un’autobiografia di Don Gallo che raccoglie storie, riflessioni, ritratti di personaggi e gente comune. Il 6/4 la presentazione al Modena

 
6 APRILE 2005

È pomeriggio inoltrato quando entro nel portoncino verde della Comunità di San Benedetto al Porto. Cinzia, la segretaria, mi fa accomodare nel piccolo studio di Don Gallo: «apriamo la finestra che questo odor di sigaro ci intossica tutti. Scusa sai, Andrea odia far aspettare la gente, ma è arrivato un suo amico all’ultimo momento».

Entra aria fresca mescolata al rumore del traffico che ricopre la sopraelevata e all’odore del porto a portata di sguardo. Cinzia è una ex tossicodipendente che sta con Don Gallo da ventisei anni.

«Allora sono qui, cosa vuole lei?». La domanda arriva diretta e cordiale, un po’ ruvida, e tradisce l’indole di chi è abituato a parlare senza peli sulla lingua, da sempre. 

Angelicamente anarchico (Mondadori, 14 euro) è un’autobiografia, con prefazione di Vasco Rossi, che verrà presentata mercoledì 6 aprile alle ore 17 al Teatro Modena. .

È una raccolta di episodi di vita vissuta, idee, riflessioni, ritratti di personaggi noti e di persone comuni o ai margini, una panoramica su ciò che significa “essere Don Gallo”.

«Non l’ho mica deciso io di scrivere questo libro. È quello della Mondadori che si è messo questa idea in testa e mi ha seguito per due anni. Si chiama Andrea anche lui e adesso siamo diventati amici: ha raccolto un malloppo di cose scritte o dette da me e poi mi ha spedito tutto cinque mesi fa», spiega Don Gallo.

 «Nella vita mi hanno apostrofato in ogni modo, da chierico rosso a prete comunista, ma l’appellativo che sento più mio l’ha trovato un regista argentino che era ospite con me da Costanzo: angelicamente anarchico.

Ho vissuto una svolta epocale della cultura della pace essendo discepolo prediletto di Padre Balducci, fondatore dell’Università della Pace.

Il terzo millennio è dominato da grandi contraddizioni: dobbiamo fronteggiare la minaccia ecologica, il problema di un’Europa che si chiude all’immigrazione e di un occidente alla ricerca di un nemico sempre nuovo da combattere.

E l’unica strada è dire basta alle armi. Pensa che mi sono venuti a trovare i registi Mario Monicelli ed Ettore Scola, tutti e due per pormi la stessa domanda: riusciremo a sradicare nelle nuove generazioni l’assenza di futuro?».

Don Gallo mi parla al di là della scrivania, con un mezzo sigaro toscano in bocca, che riaccende di tanto in tanto.
 

«Penso che la fede cristiana non vada identificata con l’ordine politico, la Chiesa non deve sostenere il potere. Così facendo si rischia di andare verso uno stato confessionale e sfociare nel fondamentalismo.

 La mia non è una scelta ideologica, semplicemente scelgo di essere discepolo di Cristo, scelgo i poveri, scelgo una giusta laicità, ovvero una dimensione in cui tutti possano sentirsi rappresentati indipendentemente dalla cultura, dall’etica e dalla fede che hanno fatto propria. Evangelizzare significa rinunciare ad imporre il cristianesimo con la politica».

 Una voce fuori dal coro quella di Don Gallo, una voce che non conosce mezzi termini né fumosi giri di parole.

 «La Chiesa di oggi? È agonizzante come lo è stato il suo papa. Giovanni Paolo II ha fatto grandi cose per quanto riguarda la pace ma non ha affrontato temi importanti quali contraccezione, celibato, ruolo femminile.

 Ma cosa scegliamo, una Chiesa-comunione o una Chiesa-gerarca?

 Gli strumenti per trovare le soluzioni li abbiamo già, basta riprendere i testi del Concilio Vaticano II che sono tuttora validi. Per quel che riguarda la morte del papa, sarebbe il caso di fare silenzio; qualcuno una volta ha detto: “la persona umana non deve essere disturbata da nessuno quando prega, quando fa l’amore e quando muore”. È il caso di smetterla con questo assurdo bombardamento mediatico».

 Positivo è invece il giudizio sui recenti cambiamenti della città:

 «Genova è una nobile decaduta che sta riscoprendo il gusto della partecipazione politica e i risultati delle scorse elezioni sono un segnale positivo in questo senso: il cittadino cerca di uscire dal ruolo dell’eterno aspettante e accetta di mettersi in gioco, di aprirsi, di essere solidale. Vorrei che ogni genovese dicesse al mattino: “buon giorno Genova: cosa posso fare di buono per te?”».

 Don Gallo, arrivato alla sua settantaseiesima primavera, non si arrende e continua a combattere con coerenza per costruire un’alternativa allo stato attuale delle cose, cercando di trovare un equilibrio tra libertà e uguaglianza. A questo proposito voglio concludere con un suo pensiero, tratto dal libro Angelicamente anarchico:.

Don Gallo mi parla del suo ultimo libro, quello che, a detta di Cinzia, rispecchia meglio la personalità del suo autore.

 

  CONTAGIATOO

ALL’ALLEGRIA

DI DON BOSCO

 

Don Gallo angelicamente anarchico

Finita la guerra, ricevetti subito un altro grande segno. Ai bordi di un campo sportivo incontrai Don Piero Doveri, un prete salesiano di nessuna fama, ma di eccezionale caratura. Fu l’incontro che cambiò la mia vita. 

Avevo organizzato una partita di calcio insieme con alcuni amici. Erano tempi in cui i giochi erano semplici, poco sofisticati. Bastava una bella giornata di sole, il passaparola con gli amici del quartiere, qualcuno che avesse una palla, ed il divertimento era assicurato.

Il capo sportivo dove ci eravamo dati appuntamento con il nostro misero armamentario di calciatori non era granché.

Genova era ancora in ginocchio, distrutta nell’anima dal conflitto, piena di miseria e di macerie. Si giocava su campi di sabbia, con spogliatoi fatiscenti, privi di servizi, e nient’altro, a parte una grande voglia di stare insieme. Un contesto così spoglio e privo di distrazioni esaltava chi aveva dentro di sé un talento speciale.

Don Doveri aveva un rapporto straordinario con i suoi ragazzi: aperto, democratico, pieno di quell’allegria che ho poi scoperto essere la stessa di don Bosco. Quel giorno la sperimentai dentro di me. Io, che ero stato educato dal fascismo alla gerarchia, alla forma, alla razza superiore, fui iulluminato dalla franchezza e dalla gioia di vivere con gli altri e per gli altri di questo prete.

Dentro di me, allora, si fece avanti una domanda: “E se diventassi anch’io un prete di don Bosco?”.

fabIZIO DE ANDRé fumaLa chiesa era stracolma. C’ero anch’io, commosso. Ma non dietro l’altare, fra vescovo e arcipreti. Ero nella piazza, insieme agli anarchici, con un fazzoletto rosso al collo e sotto la loro bandiera nera.

Quel giorno Genova si fermò tutta. Anche nei bassifondi, nelle strade di confine, periferia abbandonata alla dimenticanza e alla solitudine.

Quel giorno tutta Genova si fermò per salutare uno dei suoi figli prediletti, che tornava nella sua città per testimoniare che da lì era partito per spendere una vita a poetare di prostitute e sbandati.

Fabrizio De André è morto da più di cinque anni. Ma i frutti della sua opera sono, se possibile, cresciuti, e la sua poesia sta vivendo una risurrezione laica.

L’ho conosciuto quando era ragazzo non ancora autore affermato. De André faceva parte del gruppo di anarcoidi tiratardi che, quando la sera a Genova chiudeva tutto, anche i casini, si davano appuntamento al Ragno verde, un locale, giù al porto, dove si facevano le ore piccole. Insieme con lui Paolo Villaggio e tanti altri.

In seguito De André ha imboccato la sua parabola di cantautore che lo ha portato a Milano, in Sardegna, nel mondo. Ma continuano a tenerlo legato a Genova la sua visione del mondo, la sua galleria di personaggi e il cordone ombelicale più forte: l’ispirazione poetica che né la distanza né il tempo possono recidere.

 

Dori Ghezzi ha detto pubblicamente che faccio parte della famiglia De André. Questa frase è stata un grande dono per me perché credo che io e Fabrizio in un certo senso avessimo dei parenti in comune o, per lo meno, freuqentassimo le stesse persone, le stesse storie dignitose o disperate. Io nella mia vita di strada e nella mia comunità, lui nell’umanità dolente delle sue canzoni.

 

IL VANGELO SECONDO DE ANDRE’

 

Che fatica essere umani

 

“Padre Turoldo ha scritto una frase che trovo magnifica:

” una fatica divina essere umani tutti i giorni .

In molte occasioni il dolore accompagna la nostra vita. Ci sforziamo di trovarvi un senso, come quello di aiutarci a maturare, a capire il significato profondo delle cose.

Io credo al diritto alla “non sofferenza“. Chi soffre deve reagire invece di arrendersi, denunciare il sopruso invece di subire la violenza. Più Vangelo che Croce, nel segno del riscatto dell’Uomo e contro la rassegnazione”  (pag.53)

 

Quando leggo IL PESCATORE

 

pescatore

  

Secondo molti scienziati, in noi esiste un tipo di intelligenza per mezzo della quale non captiamo solo i fattile idee e le emozioni, ma percepiamo i contesti più grandi, totalità significative insieme alle quali ci sentiamo insertiti in un tutto. Il nostro quoziente di spiritualità ci rende sensibili alle questioni legate alla trascendenza ed è definito dai neurobiologi come il “Punto di Dio”.

 

In tutte le canzoni di De André è palese e firte una voce che parte dal profondo dell’uomo, che grida giustizia in modo radicale, permeandoci così di una cultura libertaria. La spiritualità appartiene alla dimensione umana e non “appartiene” alle religioni; piuttosto le religioni sono espressione di questo “Punto di Dio”.

Perciò, Fabrizio è a pieno titolo un evangelista: portavoce della profonda coscienza, dell’energia vitale che ribalta le vicende umane. La sua voce è il sigillo autorevole di un’anima, la possibilità irripetibile, per la canzone, di diventare il più alto e più alto strumento artistico della cultura popolare, una specie di teologia della liberazione. Tanto è vero che, dopo sei anni, nessuno sembra disposto a lasciar cadere le sue canzoni, a dimenticarle, ad accettare che quella storia sia finita per sempre.

 

Tutti siamo attratti dalla bellezzza, dalla profondità, dalla struggente ricerca di riscatto della condizione umana che caratterizza l’annuncio di Fabrizio. E’ il fulcro del cristianesimo: nessuno si libera da solo, nessuno libera un altro, ci si libera tutti insieme.

 

Le canzoni di De ASndré sono coscienza civile, comprensione umana, preghiera, guerra alle ipocrisie, amore per i derelitti e gli emarginati, per i “perdenti” che il mondo lascia sul terreno nella sua inarrestabile corsa verso il trionfo del materiale.

 

Il Vangelo secondo De André è un percorso di comunione, di vera “metanoia”, cambiamento di mentalità, di rotta sui temi della pace, della guerra. “Chi viaggia in direzione ostinata e cotraria col suo marchio  speciale di speciale disperazione…tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi per consegnare alla morte una goccia di splendore di umanità di verità“.

Fabrizio non aveva l’ambizione di “indicare la strada”,  di trasmettere una sua verità. Casomai, l’unica sua presunzione era quella di riconoscere a se stesso e agli altri la “libertà di scelta”. Anche Gesù, del resto, disse ai suoi discepoli:  “Volete andarvene via anche voi?”.

 

Fabrizio è stato semplicemente un anarchico, perché l’anarchia, prima ancora che un’appartenenza politica, è un modo di essere. Basta scorrere il canzoniere di De André: donne, prostitute, suicidi, ultimi, zingari. Come nel vangelo: ” I piubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio “.

 

La scelta  di Fabrizio non accetta etichette, non è mai ideologica. Chi sceglie un’ideologia può anche sbagliare; chi sceglie i poveracci, i senza voce, i fragili, non sbaglia mai.

 

“Essere anarchico” non significa seguire un catechismo o un decalogo, tanto meno un dogma. E’ uno stato d’animo, una categoria dello spirito.  E Faber aveva lo spirito anarchico, lo spirito libertario.

 

Per Faber,  amico fragile, l’inquietudine dello spirito coincideva con l’aspirazione profonda alla libertà: “Signora libertà, signorina anarchia”.

 

Fabrizio si è divertito a rimescolare le categorie del bene e del male, fino a farne emergere gli imprevisti: le puttane insegnano e i professori vanno a lezione. I suoi personaggi sono ricchi di una fragilità che ce li rende cari e capaci di coinvolgerci e indurci a cercarli fra i vicoli della città vecchia e nelle periferie.

 

Quanti Miché, Marinella, Bocca di rosa…

 Sono vite perdute, ma anime salve. Uomini e donne che vivono in una condizione diversa da quella di chi vive schiacciato e reso ottuso proprio da ciò che “non gli manca”.

 

Qualcuno potrebbe trovare forzato e bizzarro il rapporto di De André con la religione. Il Dio con cui lui parla viene continuamente sfidato a presentarsi come “uomo”, l’unico modo in cui forse De André trova possibile e desiderabile l’incontro.

 

L’intero album “La buona novella” ne è testimonianza; ma già precedentemente, nella canzone Si chiamava Gesù, il Cristo era stato raccontato come un uomo fra gli uomini, che non era riuscito a eliminare il male dalla Terra, e ne aveva accettato lacrime e spine.

 

Fabrizio ha contestato i comandamenti a uno a uno con il Testamento di Tito, ma ha poroposto, per ognuno di essi, un suo personale, terreno e schiettamente imperfetto modo di appropriarsene, riempiendo lo sguardo dell’uomo di quanta più vita possibile, bonificando l’umana pietà dal rancore. Perché “…dai diamanti non nasce niente, dal letame sbocciano i fiori“. 

Il pescatore è la canzone simbolo del suo annuncio: la vita come cammino e incontro, un attimo di luce tra due oscurità. La scoperta della precarietà dell’esistenza che permette a ogni individuo di diventare veramente uomo solo attraverso una serie di esperienze e di incontri.

La scoperta dell’amore, la capacità di accettare la morte e l’attesa della risurrezione, “…dell’ultimo sole…”, una volta che si è capito il senso della vita. E poi, ancora, la vita come servizio, e persino se chi mi implora e tende la mano, per gli altri, è un assassino !

Quella capacità di accoglienza grazie alla quale il pescatore “sorride” dopo aver offerto all’assassino il vino e il pane (anche io, quando presiedo l’Eucaristia, “verso il vino, spezzo il pane” perché qualcuno mi dice e continua a dirmi: “Ho sete e fame”) .

 

 

Infine, delicata chiusura, la chiamata alla trascendenza, il “guardare oltre” del pescatore.

YouTube – Il pescatore (versione originale) – Fabrizio De André

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2 min 19 sec – 27 set 2007 –

Classificato con 4,9 su 5,0

Il celeberrimo singolo di Faber nella sua prima – sconosciuta ai più – versione datata 1970.

All’ombra dell’ultimo sole
s’era assopito un pescatore
e aveva un solco lungo il viso
come una specie di sorriso.

 Venne alla spiaggia un assassino,
due occhi grandi da bambino,
due occhi enormi di paura,
eran lo specchio d’un’avventura.

E chiese al vecchio, Dammi il pane,
ho poco tempo e troppa fame,
e chiese al vecchio, Dammi il vino,
ho sete e sono un assassino.

Gli occhi dischiuse il vecchio al giorno,
non si guardò neppure intorno
ma versò il vino e spezzò il pane
per chi diceva
, Ho sete, ho fame.

E fu il calore di un momento,
poi via di nuovo verso il vento,
davanti agli occhi ancora il sole,
dietro alle spalle un pescatore.

Dietro alle spalle un pescatore,
e la memoria è già dolore,
è già il ricordo di un aprile
giocato all’ombra d’un cortile
.

Vennero in spiaggia due gendarmi,
vennero in sella con le armi
e chiesero al vecchio se, li’ vicino,
fosse passato un assassino.

Ma all’ombra dell’ultimo sole
s’era assopito un pescatore
e aveva un solco lungo il viso
come una specie di sorriso

e aveva un solco lungo il viso
come una specie di sorriso. 

L’intera opera di DeAndré è annunci, è buona novella, è Vangelo con tanto di motto: PER CRUCEM AD LUCEM.

 

Don Andrea Gallo (3)

 

1948

Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo

Articolo 1

Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza“.

Ieri, 22 luglio 2008, si è svolta la marcia per le strade del centro fiorentino, organizzata dalla Comunità delle Piagge (quartiere della periferia fiorentina di cui è parroco Don Santoro, studioso di Don Milani e fondatore della Comunità stessa), di cui ho scritto in questo blog per darne notizia. 

In apertura abbiamo ascoltato l’autorevole intervento di Umberto Allegretti, docente di diritto pubblico all’Università di Firenze, che ci ha illustrato come l’iniziativa di Maroni violi pesantemente e inequivocabilmente le norme della Costituzione e la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo.
.
Per la cronaca, molti manifestanti portavano addosso un simpatico ed espressivo manifestino, in formato A4, con l’mmagine di un bambino dall’espressione dolcemente aggressiva, che mette in primo piano il suo dito medio e con la scritta “per maggior sicurezza porgi un dito a Maroni”…:-)
.
Dopo aver sfilato, al suono della Banda ( bellissimi i brani di Bregovic) ed esserci fermati alcune volte per ascoltare i vari interventi siamo infine arrivati in piazza della Signoria, dove ci ha letteralmente emozionati Don Andrea Gallo, che con la sua carismatica comunicatività è riuscito a donarci indimenticabili momenti di commozione e ilarità allo stesso tempo, di quelli che ti danno la carica insomma.
.
Don Gallo, sono felice di averti conosciuto, tu lasci il segno…l’impronta…per rimanere in tema!
.
Prima di andare via ognuno di noi ha lasciato le proprie impronte da inviare a Maroni.

 

Questa foto l’ho scattata ieri: è Don Gallo con una ragazza rom in un momento della manifestazione.

mercoledì, 23 luglio 2008

 
Rom e scuola 

 Don Andrea Gallo

 

Voglio portare all’attenzione dei lettori di questo spazio un interessante articolo letto nella rubrica “lettere e commenti”, pag 12, su “Il Manifesto” di oggi. Ne è autrice Antonia Sani, coordinatrice dell’associazione nazionale “per la scuola della repubblica”.
.
Il tema è, come da titolo, la scolarizzazione dei Rom. Tralascio la parte introduttiva che riguarda le vicende, ormai tristemente note, della discriminazione nei confronti dei Rom da parte del nostro governo e la risposta della UE.
.
Riporto invece le parole sul diritto all’istruzione pubblica, il solo in grado di portare l’individuo  alla libertà autentica, quella libertà che consiste nell’autodeterminazione; sull’educazione, attuata attraverso il pluralismo culturale ed il rispetto per la Persona, orientata alla formazione di cittadini diversi ma uguali, pensanti e non manipolabili.

“…non possiamo non registrare i risultati positivi che l’aumento della scolarizzazione di questi ultimi quindici anni ha provocato tra i rom. Il merito va a quei docenti che hanno saputo praticare l’accoglienza pur tra mille difficoltà ambientali e renderla fattore di integrazione  nel rispetto delle diverse culture….”

“…La scuola deve diventare per i rom che vivono in italia un obbligo generalizzato…
Coloro che hanno frequentato in questi anni regolarmente la scuola hanno acquistato coscienza di sé, non sono più disposti a farsi strumentalizzare da organizzazioni e enti, chiedono in prima persona abitazioni, occupazione, occasioni di partecipazione alla vita sociale e politica.
.
Ribadiamo con forza che tra gli impegni del prossimo anno scolastico va inserita ai primi posti la scolarizzazione dei bimbi e dei giovani rom, affinché l’istruzione dia loro la consapevolezza e gli strumenti per battersi per l’affermazione della loro dignità e dei loro diritti: primo fra tutti il diritto a una casa non fuori sdal raccordo anulare, dove campi, sia pure attrezzati, legati a una realtà di nomadismo non più attuale, continuerebbero a configurare oggi una ghettizzazione estranea all’inserimento regolare in un contesto scolastico. “
 

 

ADESSO – COMPAGNIA DEI GLOBULI ROSSI

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COSTITUZIONI Ordine Ospedaliero di san Giovanni di Dio – 1984

 

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Testo Ufficiale approvato nel 1984

Capitolo primo

COSTITUZIONE FONDAMENTALE

 

Atto di fondazione

 

1. Noi Fatebenefratelli

rendiamo grazie al Signore

per il dono che ha fatto alla sua Chiesa

in San Giovanni di Dio.

Egli, sotto l’impulso dello Spirito Santo

e trasformato interiormente

dall’amore misericordioso del Padre,

visse in perfetta unità

l’amore a Dio e al prossimo.[1]

Si dedicò completamente

alla salvezza dei suoi fratelli

e imitò fedelmente il Salvatore

nei suoi atteggiamenti e gesti di misericordia.

Assillato da debiti,

preoccupazioni e sollecitudini,

confidò totalmente in Gesù Cristo

e si donò interamente

al servizio dei poveri e dei malati

nella città di Granada, in Spagna,

da dove ritornò al Padre nell’anno 1550.

Il nostro Ordine Ospedaliero

nasce perciò dal vangelo della misericordia,[2]

quale lo visse in pienezza San Giovanni di Dio,

che proprio per questa sua caratteristica

riteniamo giustamente come nostro Fondatore.

Egli effettivamente comprese

che il segno più evidente

del passaggio dalla morte alla vita

è l’amore ai fratelli

esercitato non solo a parole,

ma coi fatti e nella verità.[3]

La famiglia religiosa alla quale apparteniamo

fu approvata, su richiesta dei Confratelli,

dal Papa San Pio V il 1° gennaio 1572

ed è conosciuta nella Chiesa

con la denominazione di

ORDINE OSPEDALIERO

DI SAN GIOVANNI DI DIO.

Questa denominazione

esprime la nostra identità,

poiché il motivo della nostra esistenza nella Chiesa

è vivere e manifestare

il carisma dell’ospitalità

secondo lo stile di San Giovanni di Dio.

Consacrati al Padre dallo Spirito,

seguiamo più da vicino Cristo casto,

povero, obbediente e misericordioso.

In questo modo

cooperiamo alla edificazione della Chiesa,

servendo Dio nell’uomo sofferente.

Il nostro Ordine è un istituto laicale;

tuttavia, fin dalla sua approvazione,

fu concesso che alcuni Confratelli

potessero accedere al sacerdozio

per provvedere all’esercizio del sacro ministero tra gli ammalati

e nelle nostre comunità e opere ospedaliere.

 

 

Carisma del nostro Ordine

 

2. Il nostro carisma nella Chiesa

è un dono dello Spirito,

che porta a configurarci

con il Cristo compassionevole e misericordioso del Vangelo,

il quale passò per questo mondo

facendo il bene a tutti[4]

«e curando ogni sorta di malattie e di infermità».[5]

In virtù di questo dono,

siamo consacrati dall’azione dello Spirito Santo,[6]

che ci rende partecipi, in modo singolare,

dell’amore misericordioso del Padre.

Questa esperienza ci comunica

atteggiamenti di benevolenza e di donazione,

ci rende capaci di compiere la missione

di annunciare e di realizzare il Regno

tra i poveri e gli ammalati;[7]

essa trasforma la nostra esistenza

e fa sì che attraverso la nostra vita

si renda manifesto l’amore speciale del Padre

verso i più deboli,

che noi cerchiamo di salvare

secondo lo stile di Gesù.

Mediante questo carisma,

manteniamo viva nel tempo

la presenza misericordiosa di Gesù di Nazareth:

Egli, accettando la volontà del Padre,

con l’incarnazione si fa simile agli uomini, suoi fratelli;[8]

assume la condizione di servo;[9]

si identifica con i poveri,

gli ammalati e i bisognosi;[10]

si dedica al loro servizio

e dona la sua vita in riscatto per tutti.[11]

 

 

La nostra spiritualità peculiare

 

3. Come Fatebenefratelli,

aspiriamo a incarnare

con sempre maggiore profondità

i sentimenti di Cristo[12]

verso l’uomo ammalato e bisognoso

e a manifestarli con gesti di misericordia:

ci facciamo deboli con il debole[13]

e lo assistiamo come prediletto del Regno;

gli annunciamo l’amore del Padre

e il mistero della sua salvezza integrale;

difendiamo i suoi diritti

e offriamo la vita per lui.

Ci dedichiamo con gioia

all’assistenza di chi soffre,[14]

con gli atteggiamenti e i gesti

caratteristici del Fatebenefratello:

servizio umile, paziente e responsabile;

rispetto e fedeltà alla persona;

comprensione, benevolenza e abnegazione;

partecipazione alle sue angosce e alle sue speranze.

La nostra vita è per lui segno e annuncio

della venuta del regno di Dio.[15]

 

4. Rinnoviamo la coscienza della nostra vocazione

nella celebrazione e nella contemplazione

del mistero di Cristo.

La Parola di Dio e l’Eucaristia

occupano un posto centrale nella nostra vita;

contempliamo Gesù

nel suo modo di trattare con gli ammalati

e principalmente nella sua passione e morte,

suprema manifestazione del suo amore all’uomo.

Questo ci rinvigorisce nella carità

e ci stimola a realizzare la nostra missione

imitando la vita del nostro Salvatore.[16]

Seguire e servire nostro Signore Gesù Cristo

è la maggiore preoccupazione della nostra vita;

desideriamo amarlo

al di sopra di tutte le cose del mondo

e per amore suo e bontà

vogliamo fare il bene e la carità

ai poveri e ai bisognosi.

Accogliamo e compiamo la volontà di Dio

imitando semplicità, disponibilità,

dedizione e fedeltà di nostra Signora

la Vergine Maria, [17] “sempre intatta”;

cerchiamo di riflettere il suo amore materno[18]

nel nostro apostolato verso i sofferenti.

La ringraziamo

per il suo speciale patrocinio su di noi

e sulle persone che assistiamo;

ci rallegriamo del posto che occupa nella Chiesa

e la veneriamo con affetto di pietà filiale.

 

 

La nostra missione nella Chiesa

 

5. Incoraggiati dal dono ricevuto,

ci consacriamo a Dio

e ci dedichiamo al servizio della Chiesa

nell’assistenza agli ammalati e ai bisognosi,

con preferenza per i più poveri.

In questo modo manifestiamo

che il Cristo compassionevole

e misericordioso del Vangelo

rimane vivo tra gli uomini

e collaboriamo con Lui alla loro salvezza.

Chiamandoci ad essere Fatebenefratelli,

Dio ci ha eletti

per formare una comunità di vita apostolica:[19]

vogliamo vivere in comunione

l’amore a Dio e al prossimo.

Ci sentiamo fratelli di tutti gli uomini

e ci dedichiamo al servizio principalmente

dei deboli e degli ammalati:

le loro necessità e le loro sofferenze

commuovono il nostro cuore,[20]

ci spingono a offrire loro rimedio

e ci stimolano a favorirne la promozione personale.

Come membra viventi della Chiesa,

aspiriamo a manifestare

la supremazia dell’amore di Dio

e desideriamo raggiungere

la perfezione della carità

verso Dio e verso il prossimo,

mediante l’esercizio costante di tutte le virtù,

la professione pubblica dei voti

di castità, povertà, obbedienza e ospitalità,

l’adesione allo spirito

della Regola di Sant’Agostino

e l’osservanza delle Costituzioni dell’Ordine.

 

 

Attuazione del nostro carisma

 

6. Ci sentiamo depositari e responsabili

del dono dell’ospitalità,

che definisce l’identità del nostro Ordine.

Questo ci impegna a vivere in fedeltà

il nostro carisma,

a custodirlo, ad approfondirlo

e a svilupparlo costantemente nella Chiesa.

La nostra apertura allo Spirito,

ai segni dei tempi e alle necessità degli uomini,

ci indicherà

come dobbiamo incarnarlo creativamente

in ogni momento e situazione.

La ricchezza stessa del carisma ricevuto

suppone la possibilità

di esprimerlo in forme diverse,

in armonia con le circostanze di tempo e di luogo.

Appunto per questo viviamo

in atteggiamento

di discernimento e di conversione,

affinché la nostra missione nella Chiesa

risponda sempre alla volontà di Dio su di noi

ed esprima il nostro senso di unità.

I Confratelli che esercitano

il servizio di governo

hanno una speciale responsabilità

nella custodia e nello sviluppo del carisma:

spetta a loro,

in comunione con gli altri Confratelli,

determinare le opere

che rientrano realmente nella missione dell’Ordine

e decidere quali siano le attività caritatevoli

più urgenti o più convenienti

nelle quali potremo o dovremo esprimere

il dono dell’ospitalità.

Nell’attuazione del nostro carisma

ci sentiamo particolarmente uniti

agli istituti, alle associazioni e ai movimenti

che hanno una missione simile alla nostra.

Una speciale comunione spirituale

ci unisce a quelli che,

avendo avuto origine in qualche modo

dal nostro Ordine,

sono manifestazione della vitalità

del nostro carisma ospedaliero.

 

Capitolo secondo

LA NOSTRA CONSACRAZIONE NELL’ORDINE

 

Donazione totale a dio

 

7. Il Padre ci ha amati ed eletti

«prima della creazione del mondo»,[21]

destinandoci a riprodurre

«l’immagine del Figlio suo».[22]

Nel battesimo,

Cristo ci ha associati

alla sua morte e alla sua risurrezione[23]

e ci ha segnati con lo Spirito Santo

per essere un inno alla sua gloria[24]

e fecondi per Dio[25]

nel servire ed edificare

il Corpo di Cristo.[26]

Lo Spirito che abbiamo ricevuto nel battesimo

e nel quale siamo stati confermati nella cresima,

ci invita a vivere in comunità

la nostra filiazione divina.

Per questo siamo stati nuovamente consacrati,

con un dono speciale,

per vivere nella castità, povertà,

obbedienza e ospitalità,

allo scopo di rappresentare nella Chiesa

il genere di vita che Cristo scelse per sé

durante la sua vita terrena.

E così, offrendo la nostra esistenza

come Sacrificio vivo e consacrato,[27]

ci uniamo al culto autentico

offerto da Cristo nella Chiesa

e partecipiamo al suo ufficio sacerdotale[28]

nel disimpegno della nostra missione ospedaliera.

 

8. Con la nostra donazione

libera e totale a Dio,

accettiamo di essere inviati al mondo

come segni del suo amore Misericordioso.

La semplicità della nostra vita annuncia

che la trasformazione delle realtà umane

è possibile solo

con lo spirito delle beatitudini.

Siamo testimoni che Cristo

è il signore della storia;[29]

proclamiamo la grandezza dell’amore di Dio

e mostriamo agli uomini

che Lui continua a interessarsi

della loro vita e delle loro necessità.

 

9. Mediante i voti di castità,

povertà, obbedienza e ospitalità,

manifestiamo pubblicamente

la nostra donazione totale a Dio.

La Chiesa riceve la nostra oblazione

e l’associa al mistero pasquale di Cristo;

l’Ordine ci lega a sé

e ci procura i mezzi

per vivere la nostra vocazione;

noi ci impegniamo

a rispondere fedelmente alla chiamata di Dio,

sforzandoci sempre

di essere membra vive e creative

della Chiesa e dell’Ordine.

La professione solenne,

con la quale ci consacriamo definitivamente

a Dio, alla Chiesa e all’Ordine,

nel servizio degli ammalati e dei bisognosi,

dev’essere preceduta

dalla professione temporanea,

emessa per il periodo di un anno

e rinnovata di anno in anno

fino a un minimo di cinque anni

e a un massimo di sei anni continui.

A richiesta del Provinciale

col consenso del suo Consiglio,

il Generale può dispensare,

in casi speciali,

dal tempo minimo dei voti temporanei,

purché durino almeno tre anni continui.

In casi particolari,

il Generale può permettere

la rinnovazione dei voti temporanei

fino a un massimo di nove anni continui.

L’ammissione alla prima professione

e alla professione solenne

viene fatta dal Provinciale

con il consenso del suo Consiglio

e il permesso del Generale.

È competenza del Provinciale,

con il consenso del suo Consiglio,

l’ammissione alla rinnovazione

della professione temporanea.

Sia la professione solenne

che quella temporanea

si fanno a norma del diritto universale

e del nostro diritto proprio,

secondo la formula seguente:

 

Nel nome di nostro Signore

Gesù Cristo benedetto. Amen.

Io,…, nato il…, a…,

parrocchia di…, diocesi di….,

a maggior gloria di Dio,

mosso da ferma volontà

di consacrarmi più intimamente a Lui

e seguire Cristo più da vicino,

oggi…, a…,

dinanzi ai Confratelli qui Presenti,

nelle tue mani, …,

faccio i voti (semplici) solenni

di castità, povertà, obbedienza e ospitalità,

nel servizio dei poveri e degli infermi,

(per un anno) per tutta la vita,

secondo la Regola di Sant’Agostino

e le Costituzioni del nostro Ordine,

donandomi con tutto il cuore

a questa famiglia religiosa,

perché, con la grazia dello Spirito Santo,

l’aiuto della beata Vergine Maria

e l’intercessione dei Padri nostri

santi Agostino e Giovanni di Dio,

possa conseguire la carità perfetta

nel servizio di Dio e della Chiesa.

Ed in fede di quanto sopra,

mi sottoscrivo di propria mano…

 

 

Castità per il regno dei cieli

 

10. La castità consacrata

è un dono insigne della grazia.

L’amore di Dio, «diffuso nei nostri cuori

dallo Spirito Santo che ci è stato dato»,[30]

ci spinge a consacrare al Padre,

sull’esempio e sulla parola di Gesù,[31]

tutta la nostra persona

e la nostra capacità di amare.

Con il voto di castità

ci impegniamo a vivere

la continenza perfetta

nel celibato;

in questo modo richiamiamo immediatamente

l’unione di amore tra Cristo e la Chiesa

e ci sentiamo più liberi e capaci

di amare tutti gli uomini.[32]

La sequela di Cristo vergine,

nella sua totale donazione di amore

al Padre e ai fratelli,

è sorgente e alimento della nostra comunità,

che ha origine,

non da sangue né da volere di carne,

ma dall’amore di Dio.[33]

Per mezzo della castità,

vissuta come Fatebenefratelli,

sperimentiamo e manifestiamo

la fecondità della nostra vita

nell’apostolato di carità,

poiché con esso adempiamo la missione

di servire e promuovere la vita[34]

e affermiamo la dignità e il valore del corpo.[35]

 

11. La castità per il regno dei cieli,

oltre che chiamata e dono di Dio,

è anche risposta libera

che possiamo dare e mantenere

solamente con la forza dello Spirito.

Questo ci invita a coltivare il dono ricevuto,

mediante il nostro rapporto di intimità con Cristo

nella preghiera

e nella celebrazione dei sacramenti;

e ci invita a vivere la nostra fraternità,

con semplicità e gioia,

dando importanza alle relazioni di amicizia

che il Signore ha stabilito tra di noi.[36]

Inoltre consideriamo importante

l’uso dei mezzi naturali e ascetici

comprovati dall’esperienza

e la conoscenza delle realtà umane

per camminare sempre

verso l’equilibrio e la maturità

che sorreggono la fedeltà a questo voto.

 

 

Povertà evangelica

 

12. Pienamente fiduciosi in Gesù Cristo,

ci impegniamo a seguirlo e a imitarlo

nella povertà evangelica.

Rendiamo visibile nella Chiesa

il suo annientamento salvatore;[37]

confessiamo con lui

la nostra piena fiducia nel Padre;

proclamiamo la precarietà dei beni

di questo mondo

e annunciamo quelli definitivi.

Con la professione della povertà,

ci distacchiamo dai beni terreni

per essere più disponibili nel seguire Gesù

che, essendo ricco,

si fece povero per noi.[38]

Egli, mediante la sua incarnazione,

è divenuto solidale con noi uomini,

sperimentando la nostra debolezza[39]

e le nostre privazioni.[40]

Ci insegnò così

il cammino dell’autentica libertà.

Come Gesù, ci dedichiamo

ad annunciare il Regno ai poveri;[41]

sorretti dalla nostra povertà,

possiamo entrare in comunione con i deboli

e comprendere esistenzialmente

la loro situazione;

lavoriamo per la loro promozione,

impegnandoci evangelicamente

contro ogni forma di ingiustizia

e manipolazione umana;

collaboriamo al dovere di risvegliare le coscienze

di fronte al dramma della miseria.

 

13. Chiamati per vocazione speciale

a realizzare la nostra missione

in ambienti nei quali l’uomo soffre

per malattia o per altre forme di emarginazione,

ci sentiamo stimolati a vivere

e a manifestare con chiarezza

la povertà che abbiamo professato.

Questo comporta:

– evitare che nelle nostre opere

esista la ricerca di lucro;

– adempiere scrupolosamente

i principi della giustizia sociale

che derivano dal Vangelo,

dalla dottrina della Chiesa

e dalle leggi giuste di ogni paese;

– organizzare le strutture

in funzione della nostra missione,

utilizzando i beni,

non come strumento di potere,

ma di servizio;

– vivere la nostra condizione di poveri,

accettando in libertà di spirito

l’obbligo comune del lavoro,

come mezzo di sostentamento

e di apostolato.[42]

 

14. Come nella primitiva comunità cristiana,

mettiamo in comune i beni personali;[43]

rendiamo partecipi i Confratelli della comunità

di ciò che siamo e abbiamo:

il frutto del nostro lavoro

contribuisce ad alleviare le necessità comuni;

viviamo in disponibilità,

apertura e servizio,

come testimonianza

della comunione spirituale che ci unisce

e del carattere di dipendenza

inerente alla povertà;

tutto ciò permette di accettare

con semplicità e gratitudine

quanto riceviamo dagli altri.

Manifestiamo la povertà

superando la mentalità del consumismo

nella vita personale e comunitaria,[44]

con uno stile di vita semplice

e avendo cura dei beni della comunità.

In solidarietà con i Confratelli,

superiamo l’affanno di accumulare

e pratichiamo la comunicazione dei beni

tra le comunità e le province dell’Ordine.

Parimenti, per non cadere nel pericolo

di rinchiuderci nelle nostre opere

e nelle nostre strutture,

ci manteniamo sensibili alle necessità

di chi vive accanto a noi

e collaboriamo a risolverle.

 

15. In tal modo ricordiamo agli uomini

la vera finalità dei beni temporali

e diamo senso al nostro voto di povertà,

in virtù del quale ci obblighiamo

a usarli e disporne

in dipendenza dai superiori legittimi,

a norma del diritto universale

e del nostro diritto proprio.

I professi di voti temporanei,

benché conservino la proprietà dei loro beni

e la capacità di acquistarne altri,

prima della professione

devono cedere la loro amministrazione

a chi preferiscono

e disporre liberamente

del loro uso e usufrutto.

I professi di voti solenni

rinunciano al diritto di proprietà

e non possono perciò

acquistare né possedere

cosa alcuna come propria.

Tutto ciò che i Confratelli acquistano

con la propria industria

o a motivo dell’Istituto

e quanto può loro pervenire

a titolo di pensione, sussidio o assicurazione,

rimane acquisito dall’Ordine,

a norma del nostro diritto.

Nella pratica della povertà

non ci accontentiamo

di essere soggetti ai superiori

nell’uso e disposizione dei beni,

ma ci sforziamo anche di viverla

realmente e interiormente

con l’impegno personale e comunitario.

 

 

Obbedienza nella libertà dei figli di Dio

 

16. La nostra obbedienza si fonda

sull’aspirazione di identificarci a Cristo,

che con la sua obbedienza compì la redenzione:

venne nel mondo

per fare la volontà del Padre

e la adempì a servizio degli uomini;[45]

si offrì senza riserve

ai disegni divini[46]

e, «pur essendo Figlio,

mediante la sofferenza imparò a obbedire»[47]

fino alla morte.[48]

Mediante l’obbedienza

offriamo a Dio tutta la nostra volontà,

come sacrificio di noi stessi.

In questo modo ci uniamo più intimamente

alla volontà salvifica di Dio,

che si manifesta a noi

attraverso la sua Parola,

il Magistero della Chiesa,

la Regola, le Costituzioni,

il diritto particolare dell’Ordine,

le disposizioni dei superiori,

il dialogo con i nostri Confratelli

la lettura dei segni dei tempi.

Così annunciamo

che la libertà che ci ha conquistato Cristo

e alla quale ci sentiamo chiamati,

ci permette di vivere al servizio degli altri,

superando il servilismo[49]

l’autoritarismo,[50] l’egoismo,

la mancanza di solidarietà con la comunità

e tutte quelle situazioni

in cui sia compromessa la dignità dell’uomo.

 

17. La nostra obbedienza è un atto personale,

radicato nella fede e nell’amore,

che ci aiuta a conseguire

la libertà dei figli di Dio[51]

e che favorisce la nostra maturità integrale,

poiché sia l’autorità come l’obbedienza

sono al servizio della persona,

della comunità e della missione.

Esercitiamo la nostra obbedienza,

anzitutto con la fedeltà al nostro carisma

e con la sincera ricerca in comune

della volontà di Dio sull’Ordine,

sulle nostre comunità e su ognuno dei Confratelli.

Dalla nostra disponibilità nasce lo spirito

che ci mantiene liberi

di rispondere con prontezza

alle necessità dell’uomo sofferente,

al cui servizio consacriamo la nostra vita,

accettando di essere inviati ovunque

e di compiere la missione che l’Ordine ci affida.

 

18. Con il voto di obbedienza

accettiamo liberamente e incondizionatamente

la volontà di Dio su di noi,

impegnandoci a compiere

ciò che i nostri legittimi superiori dispongono

in conformità con le Costituzioni dell’Ordine.

Poiché con il nostro carisma

e con il nostro apostolato

partecipiamo in modo speciale

alla vita e alla missione della Chiesa,

obbediamo al Papa,

anche in virtù del voto,

come al nostro superiore supremo.

Egli è colui che presiede

la comunità universale della carità,

perciò l’amore e l’obbedienza che a lui prestiamo,

ci uniscono in modo speciale

al mistero della Chiesa.

La nostra presenza nella chiesa locale

ci porta anche a seguire con fedeltà

gli orientamenti e le disposizioni

dei suoi Pastori.

A imitazione di Gesù,[52]

i Confratelli esercitano il servizio di governo

con lo stimolare

la nostra crescita personale e comunitaria,

aiutando a discernere la volontà del Signore;

col garantire, mediante la fedeltà al carisma,

l’unità nel pluralismo;

col promuovere

l’obbedienza attiva e responsabile;

col prendere, all’occorrenza,

le necessarie decisioni.

 

19. Illuminati e fortificati dalla fede,

l’obbedienza ci conduce,

mediante un aperto e fraterno dialogo,

a scoprire i carismi apostolici

della comunità e dei suoi membri,

con i quali lo Spirito Santo

aiuta l’Ordine a realizzare la sua missione.

Lo stesso clima di dialogo e comprensione,

ci consente di sviluppare in comunità

il senso della corresponsabilità,

che favorisce la mutua unione nel servizio a Dio

e ai nostri fratelli poveri e ammalati.

 

 

Ospitalità secondo lo stile

del nostro Fondatore

 

20. La nostra ospitalità ha la sua origine

nella vita di Gesù di Nazareth:

unto e inviato dallo Spirito

a recare la Buona Novella ai poveri

e a curare gli ammalati,[53]

Egli opera e presenta le sue guarigioni

come segno messianico

della venuta del Regno di Dio.[54]

Nel suo messaggio ci rivela

l’amore misericordioso, la fedeltà,

la fiducia e la benevolenza

di Dio Padre per l’uomo;[55]

proclama che è stato inviato da Lui

per comunicare la vita;[56]

consapevole della sua missione,[57]

si dedica con predilezione ai deboli,

agli ammalati e ai peccatori,[58]

che riceve e accoglie con parole e gesti

di profonda comprensione e umanità;[59]

soffre con chi soffre;[60]

si identifica con il povero,

l’ammalato e il bisognoso,

elevandoli alla categoria

di segni viventi della sua presenza,

per cui, quanto noi facciamo ad uno di essi,

Egli lo accoglie come fatto a se stesso.[61]

 

21. Attratti dalla sua persona

e soprattutto dagli atteggiamenti

che Gesù aveva con i più deboli,

noi, unti con lo stesso Spirito,

ci consacriamo nell’Ospitalità

per compiere il mandato di Cristo

di curare gli infermi.[62]

Con la nostra vita, donata all’amore di Dio

nel servizio dei poveri e dei bisognosi,

annunciamo il Regno secondo lo stile di Gesù.

Egli non ha soppresso la sofferenza,

né ha voluto svelarne completamente il mistero;

però l’uomo che soffre,

illuminato dalla fede

e unito a Cristo sofferente,

sa che può contribuire con il suo dolore

alla salvezza del mondo.

Perciò viviamo la nostra assistenza agli ammalati

e il nostro servizio in favore dei bisognosi,

come annuncio e segno

della vita nuova ed eterna

conquistata dalla redenzione di Cristo.

 

22. Con il voto di ospitalità ci dedichiamo,

sotto l’obbedienza dei superiori,

all’assistenza degli ammalati e dei bisognosi,

impegnandoci a prestare loro

tutti i servizi necessari,

anche i più umili e con pericolo della propria vita,

a imitazione di Cristo,

che ci amò fino a morire per la nostra salvezza.[63]

La maggiore nostra felicità

consiste nel vivere a contatto con i destinatari

della nostra missione:

li accogliamo e li serviamo

con l’amabilità, la comprensione

e lo spirito di fede,

che essi meritano

come persone e come figli di Dio;

e mettiamo a loro disposizione

tutte le nostre energie

e tutte le nostre capacità,

nei vari uffici che ci vengono affidati.

 

23. L’ospitalità che abbiamo professato

ci impegna a difendere e vegliare

sui diritti della persona a nascere,

a vivere decorosamente,

a essere assistita nelle infermità

e a morire con dignità.

Ci sforziamo affinché,

nel nostro apostolato ospedaliero,

appaia con chiarezza in ogni momento

che il centro di interesse

è la persona bisognosa o ammalata

e viviamo così compenetrati con la nostra missione

che i nostri collaboratori

si sentono spinti ad agire nello stesso modo.

Il nostro spirito ospedaliero

non lo manifestiamo solo nelle istituzioni dove operiamo,

ma lo estendiamo anche

a tutti coloro che mancano di cibo e di bevanda,

di vestiti, di casa, di medicine,

o si trovano afflitti da tribolazioni

o da malferma salute.

Il nostro cuore soffre

di non poterli assistere e accogliere tutti;

essi perciò hanno un posto privilegiato

nella nostra preghiera

e ci sentiamo uniti a tutti coloro che operano

per realizzare un mondo più umano e più cristiano.

 

24. La nostra consacrazione a Dio

nel servizio ai bisognosi

è il frutto più prezioso

della nostra sequela del Signore

nella via dei consigli evangelici,

poiché la castità, la povertà e l’obbedienza

rafforzano la nostra capacità di amare

e ci rendono più disponibili

per servire gli ammalati e i poveri

nell’apostolato ospedaliero.

 

 

La Vergine Maria modello

della nostra consacrazione

 

25. La Vergine Maria è per noi

modello singolare di consacrazione.

Ella, infatti, accettando la Parola divina,

si consacrò totalmente alla persona e all’opera di Gesù.

È parimenti la Vergine «sempre intatta»[64]

e l’umile e povera[65] ancella del Signore[66]

che ci stimola col suo esempio

alla fedeltà ai disegni dello Spirito Santo.

È inoltre la «Madre di misericordia»

e la salute degli infermi»,

che ci insegna a compatire il dolore umano

e ad alleviare

i patimenti e le tribolazioni dei sofferenti.[67]

 

 

 

Capitolo terzo

LA NOSTRA COMUNITÀ OSPEDALIERA

 

 

26. La nostra comunità ospedaliera

nasce e cresce dall’amore

che lo Spirito Santo

diffonde nei nostri cuori;[68]

il suo centro è il Signore risorto,

nel cui nome ci riuniamo

per camminare insieme incontro al Padre

e per comunicare agli uomini

la buona novella della salvezza.

Seguendo l’esempio della Chiesa primitiva,

nella quale «la moltitudine dei credenti

aveva un cuore solo e un’anima sola»[69]

e metteva in comune tutto ciò che possedeva,[70]

la nostra vita dimostra al mondo

la possibilità della convivenza umana

e della realizzazione in comune

dei valori del Regno;

è segno della presenza del Signore

e invita gli uomini ad avere fede in Cristo.[71]

La partecipazione allo stesso carisma

ci costituisce in una famiglia

nella quale celebriamo la fede,

ci sentiamo e viviamo come fratelli

e compiamo la comune missione

di servire gli ammalati e i bisognosi.

I. Comunità di fede e di preghiera

 

27. Come famiglia riunita

nel nome del Signore,[72]

la nostra comunità, per sua natura,

è il luogo privilegiato dove l’esperienza di Dio

deve potersi raggiungere nella sua pienezza

ed essere comunicata agli altri.

In essa viviamo la nostra fede

come risposta personale di amore a Dio,

che ci ha amato per primo,[73]

e la esprimiamo accettando con semplicità

la sua salvezza,

che trasforma gradualmente la nostra vita

ed esige che la manifestiamo

nel nostro modo di agire.

La nostra vita di credenti,

aperta alla rivelazione del Padre

e alla comunione con Lui,

mediante Cristo, nello Spirito Santo,[74]

ci permette di partecipare al mistero trinitario[75]

nella fede, nella speranza e nell’amore.

Questa partecipazione è la sorgente

dell’atteggiamento contemplativo della nostra vita.

 

28. La fonte prima

della nostra missione caritativa

è l’amore misericordioso del Padre.[76]

Questo esige che noi favoriamo,

personalmente e comunitariamente,

nel dialogo della preghiera,

l’integrazione tra la vita interiore

e l’attività apostolica,

per renderci capaci di vivere l’amore a Dio

in sintonia col servizio ai fratelli.[77]

Ogni giorno perciò dedichiamo almeno un’ora

all’adorazione mentale e alla lettura spirituale.

L’orientamento fondamentale

della nostra comunità verso Dio

si esprime nella lettura e nella meditazione

della Sacra Scrittura;

nella partecipazione alla vita divina

che ci viene trasmessa dai sacramenti;

nella preghiera comunitaria e personale;

nel desiderio e nella ricerca costante di Dio,

la cui presenza riconosciamo

e umilmente adoriamo nel prossimo,

in modo particolare nei nostri Confratelli

e negli ammalati.

 

29. La Parola di Dio,

che è per noi l’incontro quotidiano

con la «conoscenza sublime di Cristo Gesù»,[78]

illumina la nostra vita:

è fonte di ispirazione per la nostra preghiera;

orienta il nostro rinnovamento

personale e comunitario

e guida la nostra riflessione

sul mistero di Dio e della Chiesa

e sulle realtà dell’uomo e della società.

 

30. La nostra comunità ospedaliera

riceve la sua vita dall’Eucaristia;

pertanto:

– la celebriamo e vi partecipiamo attivamente

tutti i giorni.

Essendo fonte e apice di tutta la vita cristiana,

forma il centro insostituibile e animatore

della dimensione contemplativa della nostra vita.

In essa esercitiamo, in modo speciale,

il nostro sacerdozio ospedaliero:

rinnoviamo l’offerta del nostro essere al Padre

e, con noi, presentiamo

il dolore e la speranza degli uomini che serviamo

e ai quali dedichiamo la nostra esistenza.

La partecipazione comune

alla mensa della Parola

e del Corpo e del Sangue del Signore,

ravviva la nostra comunione con Cristo

e l’unione con i Confratelli;

l’esempio del nostro Salvatore

che si immola per darei la vita,

rinnova il nostro spirito ospedaliero

e ci aiuta a fare come Lui

nel servizio agli ammalati e ai bisognosi.

– viviamo visibilmente intorno ad un oratorio,

nel quale la presenza reale di Gesù nell’Eucaristia

esprime e realizza la nostra missione

come famiglia ospedaliera;

contempliamo, adoriamo

e benediciamo il Signore

per il suo amore verso di noi;

la sua permanente disponibilità

ad essere fortezza, consolazione

e viatico degli ammalati,

ci stimola a perseverare

accanto all’uomo che soffre,

accompagnandolo nel suo dolore

e nella sua solitudine.

 

31. Siamo consapevoli di essere peccatori[79]

e che il nostro orientamento verso Dio

e la vera fraternità

non possono mantenersi

senza un atteggiamento costante,

personale e comunitario, di conversione.

Perciò esaminiamo ogni giorno la coscienza

e ci accostiamo frequentemente

al sacramento della penitenza.

In tal modo ravviviamo

in noi la grazia del battesimo,

ci riconciliamo con i nostri Confratelli

e celebriamo la gioia della salvezza nel perdono.

 

32. Celebriamo quotidianamente in comune

la liturgia delle Lodi e dei Vespri,

nella quale prolunghiamo

il ringraziamento dell’Eucaristia

e santifichiamo il corso della giornata,

il lavoro e ogni nostro sforzo.

Ci uniamo così a Cristo e alla Chiesa

nel culto al Padre

rafforzando la comunione con i Confratelli

e con tutti gli uomini;

presentando al Signore con particolare interesse

le angosce e le speranze

di quanti vivono afflitti dalla malattia

o da qualsiasi necessità.

 

33. La nostra missione

ci mette costantemente in contatto

con la sofferenza degli uomini;

perciò la contemplazione della Passione di Cristo,

«Uomo dei dolori»,[80]

occupa un posto di rilievo

nella nostra spiritualità:

in essa, infatti, scopriamo

il senso salvifico del dolore;

da essa riceviamo forza e consolazione

nelle prove e nelle debolezze;

con essa, infine, impariamo il modo

di presentare il Signore ai sofferenti,

come segno di speranza e di vita.

 

34. Maria, la Donna fedele, la Vergine orante,

si offre a noi

come modello sovreminente della Chiesa

nell’ordine della fede, della carità

e della perfetta unione con Cristo.

Ella, in piedi, vicino alla croce del Signore,[81]

ci insegna ad associarci al sacrificio del suo Figlio

che si prolunga nel dolore dell’umanità.

Nostra Signora, come «Salute degli infermi»,

ha sempre avuto un posto singolare

nella vita della nostra comunità ospedaliera.

Manifestiamo a Lei il nostro amore,

soprattutto, imitandola nelle sue virtù;

celebriamo le sue feste,

in particolare quella del suo Patrocinio;

e la onoriamo con le nostre preghiere,

specialmente con il Rosario.

 

35. Tra i santi, veneriamo principalmente

il nostro Padre San Giovanni di Dio

e i Confratelli dell’Ordine

che la Chiesa ci propone

come esempio di vita e di apostolato,

perché ci sforziamo di seguirli e di imitarli.

 

 

II. Comunità di amore fraterno

 

36. Chiamati da Gesù

per vivere con Lui come amici,[82]

ci stimoliamo vicendevolmente

a compiere il comandamento del Signore

di amarci come Lui ci ama[83]

e ci sforziamo di mantenere l’unità

che lo Spirito crea

nel vincolo della pace.[84]

L’ospitalità che abbiamo ricevuto come dono,

ci impegna a vivere la fraternità con semplicità:

ci aiutiamo perciò scambievolmente

e ci perdoniamo nelle nostre debolezze;[85]

gareggiamo nella stima reciproca,

siamo riconoscenti tra di noi

e ci sentiamo solidali con i Confratelli

nelle loro necessità,

nelle loro afflizioni e nelle loro gioie.[86]

 

37. In forza dei suddetti atteggiamenti,

la nostra comunità,

nonostante la diversità delle persone:

– accetta e stima i giovani

che hanno abbracciato da poco

la nostra vita ospedaliera

e ci arricchiscono con il loro entusiasmo

e con la loro creatività;

– cura e ama i Confratelli ammalati e anziani

che, con la loro esperienza,

con il loro sacrificio e con la loro preghiera,

sono membra feconde

sia per la Chiesa che per l’Ordine;

– ricorda i Confratelli defunti,

che ci hanno preceduto con il segno della fede,

e prega per loro offrendo i dovuti suffragi.

 

38. La nostra comunità si realizza e cresce

quando:

– ognuno di noi si adopera

per ottenere la propria integrazione personale,

che ci permette di vivere rapporti equilibrati

e di dedicare al bene comune

le qualità e le capacità che abbiamo;

– viviamo coscientemente la gioia

e la responsabilità di essere comunità,

partecipando alle sue manifestazioni;[87]

– esistono momenti di dialogo,

di revisione e di valutazione,

in cui poniamo Cristo al centro,[88]

e ci lasciamo guidare dallo Spirito

per discernere la volontà del Padre

sulla comunità e su ogni persona;

– il Confratello che esercita

il servizio di governo

è segno di unione e vincolo di carità,

anima la vita spirituale,

aiuta a vivere il progetto comunitario,

coordina e armonizza

i piani personali dei Confratelli

con quelli della comunità,

dedica tempo a ogni Confratello

e sa consigliarsi prima di prendere decisioni

riguardanti la vita comune;

– accettiamo nella vita comunitaria

e nella missione

la diversità dei doni

con i quali lo Spirito Santo

arricchisce ogni Confratello;[89]

– creiamo un ambiente nel quale sia possibile

la preghiera, lo studio e il riposo personale;

– adoperiamo la necessaria discrezione

nell’uso degli strumenti

della comunicazione sociale,

evitando quanto può ostacolare

la vita spirituale,

le relazioni comunitarie e l’apostolato;

– facciamo nostro il progetto di vita

espresso nelle Costituzioni, vivendo

in costante atteggiamento di conversione.

 

39. Siamo accoglienti con le persone

che giungono nelle nostre case

e le riceviamo con bontà e semplicità,

praticando l’ospitalità.

Tuttavia, una parte della casa

è sempre riservata ai Confratelli

per favorire e assicurare

la vita propria della famiglia religiosa.

 

40. Il nostro inserimento nell’ambiente dei poveri,

degli ammalati e dei bisognosi,

e la nostra convivenza con loro

sono un segno di salvezza e di vita nuova.

Allo stesso tempo la loro realtà ci interpella

e ci stimola a rivedere costantemente

il nostro stile di vita,

per verificare se risponde realmente

al carisma e alla missione che abbiamo ricevuto.

 

 

III. Comunità di servizio apostolico

 

41. La nostra comunità

raggiunge il suo pieno significato

nella missione per la quale

lo Spirito Santo l’ha suscitata nella Chiesa.

Essa, quale continuatrice

del mistero salvifico di Cristo,

ci affida il compito di farlo presente

nel nostro apostolato di carità.

La nostra vita ospedaliera nella Chiesa

si fonda sulla persona e sui gesti di Gesù

che, durante la sua vita terrena,

predilesse in modo speciale

gli ammalati, i poveri e gli umili.[90]

Nei suoi gesti di bontà[91]

e nelle sue parole di conforto e di speranza,[92]

scopriamo i sentimenti che dobbiamo assumere

per far trasparire l’amore di Dio

nel nostro apostolato ospedaliero;

la sua identificazione

con il debole e l’indigente,[93] 

ci invita a impegnare la nostra vita

nell’evangelizzazione

dei poveri e degli ammalati.[94]

 

42. Rafforziamo la fecondità

del nostro servizio apostolico:

– nell’intima unione con Cristo,

che ci fa partecipi

dell’amore misericordioso del Padre[95]

affinché lo manifestiamo con gesti d’amore

verso gli ammalati e verso i bisognosi;[96]

– con il nostro inserimento nella Chiesa

che ci mette in comunione

con quanti sono stati inviati da Gesù

a proclamare il Regno

curando gli ammalati:[97]

ci uniamo così, in modo speciale,

alla Vergine Maria,

membro sovraeminente della Chiesa

e profondamente ospitale nella vita

come appare nella sua visita a Elisabetta,[98]

nelle nozze di Cana,[99] e soprattutto

nell’intimo e fedele amore a suo Figlio,

da Nazareth al calvario;[100]

– nella comunione con quelli che soffrono,

consapevoli

che il nostro amore misericordioso per loro

non è mai un atto unilaterale:

anche noi, infatti, quando serviamo gli ammalati,

siamo sempre beneficati.

La fecondità del nostro apostolato si rafforza

nella misura in cui cerchiamo di stabilire

un rapporto reciproco di amore

con le persone che assistiamo.

 

43. Con la nostra missione ospedaliera,

realizziamo e sviluppiamo

il meglio del nostro essere

e sentiamo l’esigenza di vivere coerentemente

la nostra identità.

Questo suppone:

– una profonda vita di fede,

che dobbiamo alimentare costantemente

nell’intimità della preghiera,

per poter vivere in armonia

l’amore a Dio e al prossimo,

offrendo agli ammalati e ai bisognosi

la presenza amabile di Cristo

che, mediante il nostro servizio,

comunica loro la speranza e la salvezza;

– il senso di appartenenza alla comunità,

che ci invia e che rappresentiamo:

essa sostiene il nostro apostolato

ed è luogo privilegiato

dove possiamo condividere le gioie

e il peso del nostro lavoro;

questa esperienza di amore fraterno

ci rinnova interiormente

e ci stimola a continuare nell’amore gratuito;[101]

– la preparazione umana,

teologica e professionale,

come requisiti indispensabili,

per offrire agli ammalati

e a ogni persona bisognosa

il servizio efficiente

che meritano e giustamente attendono da noi.

 

 

Senso del nostro apostolato

 

Nell’ambiente tecnicizzato e consumista

della società moderna,

nella quale si scoprono ogni giorno

nuove forme di emarginazione e di sofferenza,

il nostro apostolato ospedaliero

è pienamente attuale.

In questa situazione,

noi siamo chiamati

– a realizzare la nostra missione

con atteggiamenti e modi umanizzanti;

– a proclamare, come Gesù,

che i deboli e gli emarginati

sono i nostri prediletti;[102]

– a vivere il nostro servizio

come espressione del valore escatologico

della vita umana.

 

 

Destinatari della nostra missione

 

45. Come Fatebenefratelli,

siamo stati chiamati a realizzare nella Chiesa

la missione di annunciare il Vangelo

agli ammalati ed ai poveri,[103]

curando le loro sofferenze

e assistendoli integralmente.

In ogni uomo vediamo un nostro fratello;

accogliamo e serviamo,

senza alcuna discriminazione,

chi si trova nel bisogno.

La nostra fedeltà alla Chiesa,

all’uomo che soffre e allo spirito dell’Ordine,

ci impegna alla opportuna revisione

delle nostre opere,

affinché rispondano sempre

al nostro carisma e alla nostra missione.

Affinché il nostro apostolato ospedaliero

resti in consonanza

con i valori e le esigenze del Regno,

ci manteniamo attenti ai segni dei tempi,

interpretandoli sempre alla luce del Vangelo.

Gli atteggiamenti di servizio e di apertura

propri della nostra missione,

ci muovono a cooperare con altri organismi,

della Chiesa o della società,

nel campo del nostro apostolato specifico.

 

 

Stile e forme di apostolato

 

46. La nostra presenza

tra gli infermi e coloro che soffrono

risponde alle esigenze del nostro carisma,

quando:

– stiamo con loro come fratelli e amici,

gioiendo con chi gioisce

e soffrendo con chi soffre,[104]

facilitando quanto contribuisce

alla loro guarigione

e al loro benessere integrale;

– consapevoli dei nostri limiti,

ricerchiamo e accettiamo

la collaborazione di altre persone,

professionisti o no, volontari o collaboratori,

ai quali ci sforziamo

di partecipare il nostro spirito

nella realizzazione della nostra missione;

– viviamo la nostra consacrazione

con semplicità evangelica,

fedeli al dono ricevuto.

 

47. Le esigenze del nostro apostolato ci portano

a impegnarci a favore delle persone che soffrono,

in forme concrete di azione,

come espressione

dell’amore misericordioso del Padre.

Pertanto:

– lavoriamo in ospedali propri,

collaborando all’assistenza del paese

e prestando i servizi necessari ai cittadini;

– accettiamo i centri che ci affidano,

quando sono in consonanza con il nostro carisma

e vi possiamo esercitare l’apostolato ospedaliero

secondo i principi della nostra identità;

– ci inseriamo,

individualmente o come comunità,

nei centri o negli organismi

della Chiesa o dello Stato,

per svolgervi una missione di evangelizzazione

e di servizio nel mondo della salute;

– creiamo centri e organismi

a favore degli emarginati della società

che non sono tutelati dalla legislazione;

– ci inseriamo nei luoghi in cui

la povertà e l’emarginazione sono evidenti,

come ad esempio i quartieri poveri

o le zone rurali,

facendo fronte alle loro necessità

nel campo del nostro carisma.

 

48. Il mandato di annunciare il Vangelo

a tutte le genti,

che la Chiesa ha ricevuto dal suo Signore,[105]

riguarda anche noi come Fatebenefratelli.

Consapevoli della nostra responsabilità

nella diffusione della Buona Novella,

manteniamo sempre vivo lo spirito missionario.

Esercitiamo l’apostolato ospedaliero

potenziando costantemente la nostra presenza

in terra di missione,

particolarmente nei paesi meno favoriti,

nei quali cerchiamo di distinguerci:

– per lo spirito apostolico,

che ci incita non solo a disporre gli animi,

mediante la testimonianza della nostra carità,

ad accogliere l’annuncio del Vangelo,

ma anche a collaborare attivamente,

quando se ne presenta l’occasione,

nel far conoscere il mistero di Cristo

a coloro che lo ignorano;

– per la disponibilità a collaborare

con le istituzioni ecclesiali e civili

interessate alla promozione

di una vita più umana e più dignitosa

e a partecipare, soprattutto,

al miglioramento della salute pubblica;

– per la valorizzazione e l’accoglienza

delle tradizioni autoctone

procurando il nostro inserimento

nelle culture dei rispettivi paesi.

 

49. La Sacra Scrittura esorta

coloro che possiedono i beni della terra

a condividerli con i poveri[106]

per alleviare le loro necessità.

Fedeli al nostro spirito,

promuoviamo l’esercizio dell’elemosina

come forma di apostolato.

La consideriamo non soltanto

come opera di misericordia

che ci dà la possibilità

di aver i mezzi per aiutare i bisognosi,

ma anche come un bene che fa a se stesso

chi la pratica;[107]

inoltre come annuncio della giustizia e della carità,

per contribuire ad abbattere

le barriere esistenti tra le classi sociali.

 

 

Pastorale ospedaliera

 

50. Il dono dell’ospitalità che abbiamo ricevuto

ci impegna in modo speciale

nella pastorale ospedaliera.

La pratichiamo, soprattutto:

– con la nostra testimonianza evangelica

tra i malati e i bisognosi;

– con l’annuncio della Parola

che dà senso alla vita del credente;

– con la celebrazione dei sacramenti

che liberano l’uomo dal peccato

e lo fortificano nella fede.

 

51. Nella pastorale ospedaliera

siamo chiamati a collaborare

tutti noi credenti che lavoriamo

nell’assistenza agli ammalati e ai bisognosi.

Quindi:

– la nostra presenza tra loro

si distingue per l’impegno pastorale

e per lo zelo con cui poniamo in risalto

i valori dell’etica cristiana e professionale;

– agiamo con il massimo rispetto

delle convinzioni e delle credenze delle persone;

però tenendo presente che gli uomini

provati dalla sofferenza e dalla malattia

sentono più profondamente i propri limiti

e sperimentano la necessità

di un sostegno maggiore,

li aiutiamo a scoprire la bontà del Signore

e il vero senso della vita umana,

principalmente

con la testimonianza della nostra carità;

– indirizziamo la nostra pastorale

anche verso i familiari degli ammalati,

animandoli affinché valorizzino

il mistero cristiano del dolore

e collaborino positivamente

durante la malattia dei loro cari;

– sensibilizziamo i nostri collaboratori

affinché, esercitando le loro capacità

umane e professionali,

agiscano sempre con il massimo rispetto

per i diritti dei malati;

invitiamo a partecipare

direttamente alla pastorale

coloro che si sentono motivati dalla fede;

– facilitiamo l’assistenza religiosa

a coloro che professano altre credenze;

– in accordo con il nostro carisma,

ci impegniamo attivamente

a promuovere la pastorale ospedaliera

nella Chiesa locale.

 

 

Confratelli sacerdoti

 

52. I nostri Confratelli sacerdoti,

in virtù della loro ordinazione a titolo di ospitalità,

sono chiamati nell’Ordine

principalmente all’esercizio del sacro ministero

e all’animazione del servizio pastorale.

Perciò, senza la dispensa della Sede Apostolica,

non possono essere eletti alle cariche

di Generale, Provinciale o Superiore locale.

A loro spetta, soprattutto:

– annunciare la Parola di Dio,

celebrare l’Eucaristia

e i sacramenti della riconciliazione

e dell’unzione degli infermi;

– confortare con la loro presenza,

la loro dottrina e la loro preghiera,

gli ammalati, in modo speciale

coloro che si trovano in pericolo di morte

o in agonia,

offrendo loro il conforto della fede

e della speranza cristiana;

– animare la vita spirituale e pastorale

nelle nostre comunità e opere apostoliche;

– collaborare nella Chiesa locale,

in consonanza con la loro identità ospedaliera.

 

Capitolo quarto

FORMAZIONE ALLA NOSTRA VITA OSPEDALIERA

 

 

La vocazione ospedaliera

 

53. La vocazione ospedaliera

che abbiamo ricevuto,

è un dono che si sviluppa in noi

nella misura in cui rispondiamo ogni giorno

all’invito di Dio

che ci chiama a identificarci con Cristo

nell’amore verso gli uomini

e specialmente nel servizio

agli ammalati e ai bisognosi.

La gioia che sperimentiamo

nella fedele sequela di Gesù,

ci spinge a offrire agli altri

la possibilità di condividere la nostra vita.[108]

Consapevoli che Dio sceglie mediazioni umane

per manifestare a ogni persona

la sua vocazione,[109]

ci sentiamo responsabili di collaborare con Lui

affinché coloro che hanno ricevuto

il nostro stesso dono

abbiano la possibilità di scoprirlo

e di ascoltare la voce del Signore.

Nel vedere tanti uomini, nostri fratelli,

sommersi nel dolore e nella necessità,

e nel verificare le nostre insufficienze

per poter far giungere il nostro aiuto a tutti,

innalziamo la nostra preghiera,

personale e comunitaria,

al Padre della messe,

affinché mandi nuovi operai alla sua Chiesa,[110]

disposti a imitare Cristo

nella sua missione salvifica,

mediante il servizio apostolico ospedaliero.

Secondo gli orientamenti della Chiesa,

abbiamo Confratelli che organizzano

e coordinano la pastorale vocazionale

per presentare al popolo di Dio

la missione caritatevole del nostro Ordine.

 

54. Le nostre comunità sono aperte per ricevere

coloro che desiderano vedere come viviamo;[111]

offriamo loro la possibilità di condividere,

in qualche modo,

la realtà della nostra missione

e di sperimentare la felicità di donarsi a Dio

nel servizio del prossimo.[112]

 

 

Elementi costitutivi della formazione nell’ordine

 

Principi generali

55. La fedeltà alla nostra identità ospedaliera

richiede da ogni Confratello

una formazione integrale, solida e permanente,

in accordo con le attitudini delle persone

e con le condizioni di ogni tempo e luogo,

affinché possa rispondere

alle esigenze della propria vocazione.

 

Finalità della formazione nel nostro Ordine

56. Tutto il processo formativo è indirizzato

verso lo sviluppo armonico

e coerente della persona,

affinché sia capace di assimilare

e di vivere con profondo spirito evangelico

il nostro carisma.

La formazione deve favorire,

promuovere e sviluppare

i valori umani, cristiani e religiosi

in consonanza con la nostra identità ospedaliera.

 

Responsabili della formazione

57. L’agente principale della formazione

è lo Spirito Santo che, progressivamente,

ci conduce alla piena conoscenza di Cristo;[113]

primo responsabile

nell’assecondare questa azione

è lo stesso candidato.

I superiori maggiori,

per quanto riguarda la formazione,

hanno la responsabilità di:

– provvedere alla preparazione, alla nomina

e all’aggiornamento dei formatori,

poiché dalla loro idoneità e dalla loro azione

dipende in gran parte

la vitalità religiosa e lo sviluppo dell’Ordine;

– vegliare affinché i programmi di formazione

e il dovuto coordinamento tra i diversi centri

rispondano sempre

agli orientamenti della Chiesa e dell’Ordine

e alle diverse circostanze di tempo e di luogo;

– procurare agli interessati

il tempo e i mezzi necessari

perché la formazione raggiunga i suoi obiettivi.

 

Discernimento e orientamento delle vocazioni

58. La migliore scuola

di orientamento vocazionale

è offrire ai candidati

la nostra testimonianza di fede,

di fraternità e di servizio apostolico.

Il discernimento sulle capacità

e sulla determinazione del candidato

di rispondere alla chiamata di Dio,

si attuerà in un clima di preghiera e di dialogo,

verificando inoltre se possiede:

– buona salute fisica e psichica;

– idoneità intellettuale, morale e spirituale;

– attitudine a vivere in comunità;

– atteggiamento di apertura e di servizio

dinanzi al dolore ed alle necessità del prossimo;

– capacità di prendere decisioni coerenti;

– un livello adeguato di educazione nella fede

e di apertura all’azione di Dio nella sua vita.

 

59. La formazione

stimola le attitudini dei candidati

e li aiuta a integrarle armonicamente nella vita.

È suo compito promuovere:

– nel campo umano:

- la capacità riflessiva e critica;

- il senso di responsabilità nella libertà;

- l’idoneità a vivere relazioni interpersonali autentiche;

– nel campo soprannaturale:

- la crescita nella fede,

manifestata come accettazione di Dio

nella propria esistenza

e come impegno a vivere in armonia

con i valori del Vangelo;[114]

- la crescita nella speranza,

vissuta come modo abituale

di essere e di agire,

nell’attesa della venuta del Signore;[115]

- la crescita nella carità, che si traduce:

in spirito di pietà filiale verso Dio[116]

e verso la Vergine Maria;[117]

in atteggiamento di comunione con la Chiesa;

in spirito di fraternità, frutto dell’amore di Dio per noi;[118]

– nel campo della vita consacrata:

- la sequela di Cristo

che ci richiede l’impegno

di configurarci progressivamente a Lui

nelle dimensioni essenziali della sua vita

quali la verginità, la povertà, l’obbedienza

e l’amore misericordioso verso gli ammalati;

- le qualità umane e cristiane,

che favoriscono la vita comunitaria,

educando allo spirito di fraternità e di servizio;

– nel campo della nostra vita ospedaliera:

i valori umani, cristiani ed evangelici

che permettono di realizzarci

in armonia con lo stile di vita

e con le finalità dell’Ordine.

 

Inserimento progressivo

60. I candidati si inseriranno progressivamente

nella vita della nostra comunità,

secondo le tappe e i momenti

della loro formazione.

Parteciperanno alla vita di preghiera,

di fraternità e di servizio apostolico

nella misura in cui ciò possa favorire

l’esperienza e l’assimilazione

dei valori evangelici della vita comune.

 

61. I programmi di formazione saranno elaborati

tenendo conto delle persone

e delle finalità delle tappe rispettive,

armonizzando i contenuti teorici

con lo sviluppo, con le espressioni

e con la comunicazione dei sentimenti del candidato.

 

62. Il luogo dove si stabilisce

un centro di formazione

deve essere adeguato per raggiungere

gli obiettivi del rispettivo periodo;

perciò sussisterà un clima che favorisca

il silenzio, la preghiera, lo studio

e la possibilità di un’esperienza graduale

della nostra vita comunitaria

nelle sue varie manifestazioni.

 

 

Formazione iniziale

 

63. La formazione iniziale nel nostro Ordine

è orientata a che i candidati

raggiungano quella maturità umana e di fede

che permetta loro di vivere responsabilmente,

in libertà e fedeltà, la sequela di Cristo

secondo il nostro carisma e stile di vita.

Le tappe che in modo organico e progressivo

conducono a questo fine sono:

il prenoviziato, il noviziato e lo scolasticato.

 

Maestri e comunità dei centri di formazione

64. I superiori maggiori

affidano l’orientamento e l’animazione

di ognuna di queste tappe formative

a un Confratello che dovrà:

– possedere l’equilibrio personale

e la preparazione umanistica

e teologica sufficiente

per svolgere adeguatamente

il compito affidatogli;

– mantenersi aperto all’azione di Dio

nella propria vita,

manifestando nel suo modo abituale di agire

la maturità nella fede,

propria di una persona adulta;

– stimolare l’amore e la fedeltà

al nostro carisma e alla nostra missione

nella fedeltà agli orientamenti

della Chiesa e dell’Ordine;

– assecondare l’azione dello Spirito Santo

sui candidati avendo con loro

lo stesso atteggiamento di Gesù

con i suoi discepoli:

fiducia nei loro sforzi,

comprensione nelle loro debolezze

e sempre spirito di servizio.[119]

Perché un Confratello possa essere nominato

maestro dei novizi o degli scolastici,

oltre a possedere le qualità precedenti

e una buona esperienza nell’apostolato ospedaliero,

è necessario che sia professo solenne.

 

65. I Confratelli che compongono la comunità

dove si trova un centro di formazione,

coscienti della loro responsabilità

e dell’importanza della loro testimonianza

per la crescita dei candidati:

– si sforzano di vivere saldi

nella loro vocazione e nel loro apostolato;

– sono aperti ai segni dei tempi,

alla gioventù e al dialogo

con i formatori e i candidati;

– stimolano costantemente lo spirito di unità,

affinché i candidati e i nuovi Confratelli

imparino attraverso l’esperienza

il valore dell’aiuto fraterno

come elemento di crescita e di perseveranza

nella propria vocazione.

 

Prenoviziato

66. Affinché i futuri candidati al nostro Ordine

possano realizzare un primo discernimento

della propria vocazione,

le Province dispongono

di centri di orientamento vocazionale,

organizzati secondo le diverse circostanze.

Durante il postulantato, che è il periodo

di preparazione immediata al noviziato

e deve durare almeno sei mesi,

il candidato approfondisce

il discernimento della propria vocazione:

– con la preghiera e la riflessione;

– con il dialogo sincero con i formatori;

– con una partecipazione adeguata

alla vita della comunità;

– con lo studio delle materie previste

nel programma formativo dell’Ordine.

 

Noviziato

67. Il noviziato ha come fine principale

di far vivere ai novizi l’esperienza profonda

dell’incontro personale con Dio,

con la comunità e con l’uomo che soffre.

Questo richiede un clima di silenzio,

di preghiera, di austerità, di gioia e di fraternità,

che metta i novizi in condizione

di crescere nella conoscenza di se stessi,

di interiorizzare il senso di appartenenza all’Ordine

e di discernere la propria vocazione,

per poter rispondere

liberamente e responsabilmente

alla chiamata di Cristo.

In conformità

al programma formativo dell’Ordine,

i novizi devono ricevere una formazione

che li aiuti a integrare

i diversi aspetti della vita del Fatebenefratello:

occorre perciò aiutarli

a coltivare le virtù umane e cristiane;

introdurli

in un più impegnativo cammino di perfezione

mediante l’orazione e il rinnegamento di sé;

guidarli

alla contemplazione del mistero della salvezza

e alla lettura e meditazione delle sacre Scritture;

prepararli a rendere culto a Dio

nella sacra liturgia;

formarli

alle esigenze della vita consacrata a Dio

e agli uomini in Cristo

attraverso la pratica dei consigli evangelici

e dell’ospitalità;

informarli infine sull’indole e lo spirito,

le finalità e la disciplina,

la storia e la vita del nostro Ordine,

ed educarli all’amore verso la Chiesa

e i suoi sacri Pastori.

L’ammissione dei postulanti al noviziato

viene fatta dal Provinciale

con il consenso del suo Consiglio.

Nessun candidato può essere ammesso

nel nostro Ordine

se non ha le qualità necessarie

per assumere il genere di vita

proprio del nostro Istituto.

Il tempo del noviziato nel nostro Ordine

è di due anni.

Per la validità del noviziato si richiede

che il primo anno si compia in una casa

legittimamente designata a questo scopo.

Una assenza, durante questo tempo,

che superi i tre mesi, continui o discontinui,

rende invalido il noviziato;

una assenza che superi i quindici giorni

deve essere ricuperata.

Circa le condizioni previe all’ammissione

e le altre esigenze del noviziato

si osservino le norme del diritto universale

e del nostro diritto proprio.

 

68. Terminato il periodo del noviziato

e verificata sufficientemente la vocazione

il novizio si dona al Signore

legandosi all’Ordine con i voti temporanei.

Nell’atto della professione

riceve l’abito dell’Ordine

che i Confratelli portano

quale segno della loro consacrazione

e testimonianza di povertà.

 

Scolasticato

69. Lo scolasticato è il periodo di formazione

tra la prima professione

e la professione solenne.

Ha come fine di aiutare i Confratelli

a progredire nella perfezione della carità

e a raggiungere un grado di maturità

umana e spirituale

che permetta loro di comprendere e vivere

la loro consacrazione nell’Ordine,

come un vero bene per sé e per gli altri.

Durante questo tempo, gli scolastici:

– conseguono la formazione

professionale e pastorale

che dà loro la possibilità di realizzare

la missione apostolica dell’Ordine;

– approfondiscono le motivazioni e le esigenze

della loro consacrazione a Dio

e il senso di appartenenza all’Ordine.

 

70. Terminato il periodo dei voti temporanei,

i Confratelli che volontariamente lo chiedono

e sono ammessi dai superiori competenti,

si consacrano definitivamente a Dio

con la professione solenne.

Per questa decisiva scelta

c’è un periodo di preparazione,

durante il quale essi

sono liberi da altre preoccupazioni.

In un clima di maggior riflessione e preghiera

confrontano la loro vita con il Vangelo,

approfondiscono il significato

della loro consacrazione,

nonché lo spirito e il carisma dell’Ordine.

 

71. Tutti ci sentiamo responsabili

della formazione dei giovani,

perciò li accogliamo e li aiutiamo

nel processo della loro maturazione,

soprattutto con la testimonianza

della nostra consacrazione,

gioiosamente vissuta in comunione fraterna.

A loro volta, i Confratelli giovani

devono aprirsi con generosità e semplicità

ai rapporti comunitari, dedicandosi totalmente

al servizio e alla missione dell’Istituto

come espressione di gratitudine

verso i Confratelli che ci hanno preceduti,

dai quali abbiamo ricevuto

il patrimonio spirituale dell’Ordine.

 

 

Formazione permanente

 

72. La formazione permanente

è un’esigenza della stessa vita

e la risposta continua

all’azione rinnovatrice dello Spirito,

che ci invita ad assecondare

i piani di Dio sul mondo

con il dinamismo, l’attualità e la competenza

richiesti dalla nostra consacrazione

nella vita ospedaliera.

È un compito che dura tutta la vita,

il quale ci impegna nell’approfondimento costante

di quanto è stato acquisito

durante la formazione iniziale

e che esige di aggiornarci

nei valori della cultura contemporanea,

per raggiungere il perfezionamento progressivo

della missione specifica

che la Chiesa ci ha affidato.

 

73. Ci sentiamo tutti responsabili

della nostra formazione

che ci mantiene aperti alla volontà di Dio

in un mondo che cambia;

pertanto tutti contribuiamo,

secondo le nostre possibilità,

affinché nella nostra comunità

si raggiunga questo scopo.

L’ambiente normale dove la nostra vita cresce,

è la comunità locale,

che deve mantenersi

in atteggiamento di costante progresso.

Tuttavia, alcuni momenti

della formazione permanente

li realizziamo anche ad altri livelli,

onde favorire l’arricchimento

e l’unità dell’Ordine.

 

 

Capitolo quinto

GOVERNO DEL NOSTRO ORDINE

 

 

Principi di governo

 

74. La Chiesa ha ricevuto dal Signore Gesù,

suo divino fondatore, il potere

che Egli ebbe dal Padre celeste.[120]

Il nostro Ordine,

essendo stato approvato dalla Sede Apostolica,

è un istituto di diritto pontificio

e partecipa di tale potestà

nei superiori legittimamente eletti o nominati.

Questa autorità nell’Ordine

è un vero servizio di amore,

che i superiori esercitano per il bene comune,

a imitazione di Gesù Cristo,[121]

nella ricerca della volontà di Dio

sull’Istituto, sulle comunità e su ogni Confratello.

 

75. I superiori pertanto

esercitino l’autorità con spirito fraterno,

chiedendo pareri, stimolando iniziative,

e tenendo presente

il diritto universale della Chiesa

e il diritto proprio dell’Ordine.

Si sforzino affinché i Confratelli loro affidati

cerchino sinceramente Dio,

coltivino tra loro la vera comunione fraterna

e aiutino il prossimo

in conformità al nostro carisma ospedaliero.

Seguendo la nostra Regola,

siano per tutti modello di ben operare,

ammoniscano gli inquieti, incoraggino i timidi,

accolgano gli infermi

e siano pazienti con tutti.[122]

 

76. Il dono della ospitalità,

che abbiamo ricevuto dallo Spirito Santo,

lo viviamo in una istituzione

approvata dalla Chiesa;

per questo il nostro Ordine, come la Chiesa,

è allo stesso tempo

una realtà carismatica e istituzionale.

Una conveniente normativa

favorisce l’esercizio del carisma

e aiuta a viverlo in pienezza,

agevolando la missione

al servizio del popolo di Dio.

Perciò il nostro Ordine è regolato

dal diritto universale della Chiesa

e dal nostro diritto proprio,

contenuto nelle Costituzioni,

negli Statuti Generali

e nei documenti della Santa Sede

riguardanti il nostro Istituto.

 

 

Struttura organica del nostro Ordine

 

77. Il nostro Ordine, nella Chiesa universale,

forma un solo corpo, composto da:

– COMUNITÀ LOCALI,

stabilite in un determinato luogo

per l’esercizio del nostro apostolato

e la partecipazione alla vita fraterna

sotto la responsabilità di un superiore;

– PROVINCE,

costituite da un certo numero di comunità,

che hanno tra loro

uno speciale rapporto di fratellanza

e di servizio apostolico,

sotto la guida di un superiore maggiore;

– VICEPROVINCE,

che sono le Province

in fase di costituzione;

– DELEGAZIONI GENERALI,

costituite da una o più comunità

poste sotto l’immediata dipendenza

del Definitorio Generale;

– DELEGAZIONI PROVINCIALI,

costituite, in casi particolari,

da una o più comunità locali,

dipendenti da una Provincia.

 

78. L’erezione e la soppressione

delle Province, delle Viceprovince

e delle Delegazioni Generali,

e anche gli eventuali cambiamenti

nelle rispettive delimitazioni,

spettano al Definitorio Generale,

sentito il parere

dei Definitori Provinciali interessati.

L’erezione, la soppressione

e il mutamento di finalità

delle comunità locali e delle opere ospedaliere

spettano al Definitorio Generale

con il consenso del Definitorio Provinciale,

sentite le comunità interessate

e osservando inoltre

quanto prescrive il diritto universale.

L’erezione, la soppressione

e gli eventuali cambiamenti

nella delimitazione delle Delegazioni Provinciali,

spettano al Definitorio Provinciale

con l’approvazione del Generale.

 

79. Quanto viene stabilito dalle Costituzioni

e dagli Statuti Generali

per le Province e per i Provinciali,

vale anche, se non si dice il contrario,

rispettivamente

per le Viceprovince e per i Viceprovinciali.

 

 

Organi di governo

 

80. a) Esercizio della potestà:

La potestà che il nostro Ordine

ha ricevuto da Dio,

mediante il ministero della Chiesa,

viene esercitata:

– in modo straordinario,

dal Capitolo Generale su tutto l’Ordine,

dal Capitolo Provinciale sulla Provincia

e dal Capitolo locale sulla Comunità;

– in modo ordinario,

dal Generale, dal Provinciale

o dal Superiore locale,

ognuno entro i limiti della propria competenza,

coadiuvati dai rispettivi Consigli.

 

b) Per quanto concerne i Capitoli:

– Perché possano essere celebrati si richiede

che siano presenti almeno i due terzi

di quelli che devono essere convocati.

– Trattandosi di elezioni,

si procede a voti segreti

e si ritiene eletto colui che avrà riportato

la maggioranza assoluta dei voti

di coloro che sono presenti;

– dopo due scrutini inefficaci,

si procede al terzo,

nel quale godono di voce passiva

solo i due candidati

che nel secondo scrutinio

hanno ottenuto il maggior numero di voti;

– se nel terzo scrutinio vi sarà parità di voti,

si consideri eletto il più anziano

per la professione solenne;

e se i candidati si pareggino anche

nella data della professione,

si ritenga eletto il più anziano per età;

– per l’elezione del Generale,

si procede nel modo sopraindicato,

previa la elezione di un Presidente

per la rispettiva sessione,

eletto dal Capitolo tra i suoi membri;

– tutte le elezioni fatte nei Capitoli

necessitano della conferma del Presidente;

questi, però, non è tenuto a concederla,

eccetto quando si tratta delle elezioni

che si fanno nel Capitolo Generale.

– Negli altri affari,

se il Capitolo stesso non stabilisce

che si faccia in modo diverso,

si decide anche a voti segreti

e con la maggioranza assoluta

di coloro che sono presenti;

però, dopo due scrutini con suffragi uguali,

il Presidente può dirimere la parità

con il suo voto.

 

c) Temporaneità delle cariche:

Le cariche per il governo dell’Ordine

sono temporanee;

la loro durata è legata

alla celebrazione dei Capitoli,

nei quali ciascuna di esse dev’essere rinnovata.

Tutti i superiori maggiori

e i rispettivi Consiglieri

possono essere rieletti

per un secondo sessennio o triennio,

ma non immediatamente per la terza volta.

La postulazione non può ammettersi

se non in casi straordinari

e perché abbia valore

si richiedono almeno i due terzi dei voti.

 

81. I Consigli e i Capitoli,

ciascuno nell’ambito delle proprie attribuzioni,

sono l’espressione della partecipazione

e della sollecitudine di tutti al bene comune.

 

 

Governo Generale

 

Capitolo Generale

82. Il Capitolo Generale

è la forma più profonda di comunione

nel carisma dell’Ordine

ed è il momento nel quale si manifesta

in modo speciale la collegialità.

Ha la suprema autorità all’interno dell’Ordine

ed è, pertanto, il principale responsabile

dell’orientamento del nostro Istituto

nell’attuazione della missione

affidatagli dallo Spirito Santo nella Chiesa.

Tutti i Confratelli, perciò,

ciascuno nell’ambito delle sue competenze,

devono contribuire affinché il Capitolo

raggiunga le sue finalità,

sia partecipando come capitolari

alla sua celebrazione,

sia collaborando responsabilmente

alla sua preparazione con l’elezione dei Vocali,

sia presentando i suggerimenti

che ritengono opportuni per il bene dell’Ordine,

sia, soprattutto, chiedendo umilmente

l’aiuto del Signore.

 

83. Il Capitolo Generale:

– esamina lo stato dell’Ordine

in relazione alle esigenze della vita religiosa,

secondo la dottrina della Chiesa;

– studia, promuove e propone autenticamente

i diversi modi di manifestare il nostro carisma;

– risolve, con una dichiarazione pratica,

i dubbi e le difficoltà che possono presentarsi

circa le Costituzioni;

– elegge il Superiore Generale

e almeno quattro Consiglieri Generali;

– promulga i decreti che ritiene convenienti

per il bene dell’Ordine.

 

84. Il Capitolo Generale si celebra:

– ogni sei anni;

– alla fine del primo triennio,

se si deve eleggere il Generale

per vacanza dell’ufficio,

avvenuta durante il suddetto primo triennio.

Viene convocato dal Generale

o dal Vicario Generale.

 

85. Hanno l’obbligo di parteciparvi,

come membri di diritto:

– il Generale o il Vicario Generale,

in qualità di Presidente;

– i Consiglieri Generali;

– i Provinciali

o i Vicari Provinciali;

– i Viceprovinciali

o i Vicari delle Viceprovince;

– i Delegati Generali

che governano le Delegazioni Generali.

Parteciperanno inoltre

i Vocali eletti a norma degli Statuti Generali,

i quali devono essere Confratelli di voti solenni

e in numero non inferiore

ai suddetti partecipanti per diritto.

 

86. Il Generale,

col consenso del suo Consiglio,

può disporre che,

tra un Capitolo Generale e il seguente,

si celebri una Conferenza Generale dell’ordine,

a norma degli Statuti Generali.

 

Superiore Generale

87. Il Superiore Generale è anzitutto

il vincolo di unione di tutto l’Ordine;

più di ogni altro ha il dovere

di custodire e promuovere fedelmente,

tra i nostri Confratelli e nelle nostre opere,

lo spirito proprio del nostro Istituto.

Egli, perciò, dovrà riflettere

nella propria persona e nel proprio governo

il genuino carisma dell’Ordine

e il suo apostolico ideale di carità,

tenendo conto delle sane tradizioni

e promuovendo nuove iniziative

adeguate ai tempi e ai luoghi.

Nessun Confratello può essere

Superiore Generale,

se non ha compiuto dodici anni

di professione solenne.

L’autorità del Generale si estende

su tutte le Province, sulle comunità,

sulle opere ospedaliere

e sui Confratelli dell’Ordine,

a norma del diritto universale

e del nostro diritto proprio.

Durante il tempo del suo ufficio,

farà personalmente,

o per mezzo di un delegato,

almeno una volta, la visita canonica

a tutte le comunità e opere dell’Ordine.

Esistendo una causa proporzionata,

riguardante il bene comune,

può rimuovere o trasferire i Confratelli

da qualunque carica o ufficio

a norma degli Statuti Generali.

 

Consiglieri Generali

88. I Consiglieri Generali

collaborano con il Generale

nel governo dell’Ordine

e così esprimono la fraternità

di tutto il nostro Istituto.

Essi, perciò, danno al Generale,

con fedeltà, sincerità e piena libertà,

il proprio consiglio,

quando ne sono richiesti

e tutte le volte che lo credono utile nel Signore.

I Consiglieri Generali

devono essere Confratelli

con almeno sei anni di professione solenne.

Insieme al Generale

costituiscono il Definitorio Generale.

 

89. Vacante, per qualunque motivo,

l’ufficio del Generale,

il primo Consigliere governerà l’Ordine

come Vicario Generale

fino alla celebrazione del Capitolo Generale.

Assente o impedito il Generale,

ne farà le veci il primo Consigliere;

nel caso però che anche questi

fosse assente o impedito,

subentrerà il Consigliere più prossimo

non impedito.

Questo vicario occasionale,

tranne speciale mandato,

non può modificare le disposizioni del Generale.

Per aiutare il governo generale dell’Ordine,

esistono anche gli uffici di Procuratore,

di Economo e di Segretario Generale,

i quali non sono necessariamente legati

alla carica di Consigliere Generale.

I Confratelli designati per questi uffici

devono essere professi solenni

da almeno sei anni.

Circa le loro funzioni

e le condizioni per la nomina o l’elezione

si osservino le norme degli Statuti Generali.

 

 

Governo provinciale

 

Capitolo Provinciale

90. Il Capitolo Provinciale,

salvo sempre l’autorità del Capitolo Generale

e del Generale,

è l’organo straordinario

del governo della Provincia;

in esso si manifesta, in modo particolare,

la comunione delle diverse comunità locali

tra loro e con tutto l’Ordine.

I Confratelli della Provincia,

tenuto conto dell’importanza che esso ha

per la vita e per l’apostolato

della Provincia,

parteciperanno responsabilmente

alla sua preparazione o alla sua celebrazione

ciascuno secondo i propri compiti.

 

91. Nel Capitolo Provinciale:

– si esamina lo stato della Provincia

sotto tutti gli aspetti

della nostra vita religiosa;

– si applicano le decisioni e gli orientamenti

del Capitolo Generale,

tenendo conto delle circostanze

e delle esigenze locali;

– si eleggono o si nominano,

a norma degli Statuti Generali,

il Provinciale,

almeno due Consiglieri Provinciali,

i Delegati Provinciali,

i Superiori locali

e i Maestri dei novizi e degli scolastici;

– si emanano i decreti convenienti

per il bene della Provincia.

 

92. Il Capitolo Provinciale

si celebra ogni tre anni

e viene convocato dal Generale.

 

93. Hanno l’obbligo di parteciparvi,

come membri di diritto:

– il Generale o il suo Delegato,

in qualità di Presidente;

– il Provinciale o il Vicario Provinciale;

– i Consiglieri Provinciali;

– i Delegati Provinciali

che governano le Delegazioni Provinciali.

Parteciperanno inoltre

i Vocali designati negli Statuti Generali,

i quali devono essere Confratelli di voti solenni

e in numero non inferiore

ai suddetti partecipanti per diritto.

 

94. In ogni Provincia,

tra un Capitolo Provinciale e il seguente,

si celebra almeno una volta

la Conferenza Provinciale,

in conformità con gli Statuti Generali.

 

Superiore Provinciale

95. Il Provinciale, come superiore maggiore,

è il principale responsabile

della promozione della vita religiosa

e di tutte le attività formatile e apostoliche

della Provincia.

Perché un Confratello

possa essere Provinciale

deve aver compiuto sei anni

di professione solenne.

L’autorità del Provinciale si estende

su tutte le comunità e opere

e su tutti i Confratelli della Provincia,

secondo il diritto universale

e il diritto proprio dell’Ordine.

Durante il triennio del suo ufficio,

almeno una volta, farà la visita canonica

in tutte le comunità

e le opere della Provincia.

 

Consiglieri Provinciali

96. I Consiglieri Provinciali

collaborano fraternamente con il Provinciale

nel governo della Provincia.

Coscienti della propria responsabilità,

danno il loro parere, i loro consigli

e i loro avvisi al Provinciale,

non solo quando sono da lui richiesti,

ma ogni volta che lo credono opportuno

per il bene comune.

Devono essere Confratelli

con almeno tre anni di voti solenni.

Insieme al Provinciale

costituiscono il Definitorio Provinciale.

 

97. Vacante, per qualsiasi motivo,

l’ufficio del Provinciale,

governerà la Provincia, come Vicario Provinciale,

il primo Consigliere,

a norma degli Statuti Generali.

Assente o impedito il Provinciale,

ne farà le veci il primo Consigliere;

nel caso che anche quest’ultimo

fosse assente o impedito,

subentrerà il Consigliere più prossimo

non impedito.

Questo vicario occasionale non può modificare,

tranne speciale mandato,

le disposizioni del Provinciale.

Per aiutare il governo provinciale

esistono anche gli uffici

di Economo e Segretario.

Circa la nomina e i requisiti

per questi uffici

si stia agli Statuti Generali.

 

Governo locale

 

Superiore locale e suo Consiglio

98. Il Superiore locale, in virtù del suo ufficio,

è l’animatore principale della comunità

e gode dell’autorità che gli concedono

il diritto universale

e il diritto proprio dell’Ordine,

Non può essere Superiore locale

il Confratello che non è professo solenne,

a norma degli Statuti Generali.

Essendo il responsabile principale

della famiglia religiosa,

i Confratelli gli dimostrino la dovuta deferenza

e gli siano di valido aiuto

nel disimpegno del suo ufficio.

Osservi e procuri fraternamente

che siano osservate le Costituzioni

e le altre norme dell’Istituto,

mettendo una speciale attenzione

perché si vivano le esigenze

della vita di comunità.

Avvicini spesso i suoi Confratelli

in aperto dialogo e, ascoltandoli cordialmente,

si informi delle loro aspirazioni

e delle loro necessità,

per aiutarli a conseguire lo scopo

della vita religiosa.

Almeno nelle comunità

dove vi è un minimo di sei Confratelli professi,

siano designati, a norma degli Statuti Generali,

un Vicesuperiore e due Consiglieri.

 

Capitolo locale

99. Il Capitolo locale ha il compito

di esaminare e decidere i temi

che si riferiscono alla vita della comunità,

secondo il nostro diritto proprio

e il diritto universale.

È uno dei momenti principali

durante i quali si esprimono gli atteggiamenti

di dialogo e di corresponsabilità

dei Confratelli che lo compongono.

Il Superiore locale, pertanto,

non modifichi le legittime consuetudini

e non faccia innovazioni,

senza aver prima sentito il Capitolo locale

o, secondo i casi, senza il suo consenso;

inoltre, quando è richiesto,

deve avere anche il permesso del Provinciale.

 

Amministrazione dei beni temporali

 

100. Il nostro Ordine come tale,

le sue Province, le sue comunità e le sue Opere,

a norma del diritto universale

e del nostro diritto proprio,

godono di personalità giuridica

e di conseguenza hanno la facoltà di acquistare,

di possedere, di amministrare e di alienare

quanto è conveniente per il sostentamento

e lo sviluppo della nostra vita

e della nostra missione caritativa e ospedaliera.

Spetta ai rispettivi superiori,

da se o per mezzo di altri,

compiere qualunque atto di amministrazione,

come pure accettare donazioni, eredità o legati

per l’Ordine, per la Provincia,

per la comunità locale,

per le opere o per i singoli Confratelli,

fatti a qualsiasi titolo,

e firmare i relativi documenti,

osservate sempre le prescrizioni

del diritto universale e proprio.

I nostri Confratelli abbiano presente

che non sono padroni dei beni temporali,

ma solo rappresentanti e amministratori.

L’amministrazione dei beni

deve essere ordinata

a vantaggio degli infermi e dei bisognosi,

in conformità alle leggi della Chiesa,

alle nostre Costituzioni,

agli Statuti Generali

e alle disposizioni giuste

in vigore nei diversi paesi.

 

Capitolo sesto

FEDELTÀ ALLA NOSTRA VOCAZIONE OSPEDALIERA

 

 

Risposta al dono di Dio

 

101. La fedeltà alla vocazione

che abbiamo ricevuto,

è possibile

grazie alla fedeltà immutabile di Dio.[123]

Egli, scegliendoci per riprodurre

l’immagine di suo Figlio,[124]

ci arricchì con i doni dello Spirito,[125]

come garanzia della irrevocabilità

del suo amore e della sua chiamata.[126]

Questo atteggiamento di Dio

esige da noi una risposta costante di fedeltà:[127]

– a Dio stesso,

vivendo in comunione con Lui,

compiendo la sua volontà;[128]

– a noi stessi,

coltivando i doni che abbiamo ricevuto;[129]

– ai nostri Confratelli,

aiutandoli nella loro realizzazione personale;[130]

– alla Chiesa,

esercitando la nostra missione

conforme al carisma che ci è stato dato,[131]

– agli ammalati e ai bisognosi,

offrendo loro il nostro servizio

come manifestazione

dell’amore di Dio per loro.[132]

 

102. Siamo coscienti di vivere il dono ricevuto

condizionati dalla nostra fragilità umana[133]

e da un ambiente che ci spinge continuamente

ad assumere valori estranei al Vangelo.[134]

Questo ci induce a vivere

in atteggiamento di costante umiltà

e di conversione,

accettando la necessità dell’ascesi personale,[135]

come mezzo per conseguire la fedeltà.

Coltiviamo questo atteggiamento:

– nel rapporto con Dio,

in momenti di raccoglimento e di silenzio

nei quali ci incontriamo personalmente con Lui,

rinnoviamo il senso della nostra esistenza

e accogliamo gli altri nella loro realtà;

– nell’incontro fraterno,

dove secondo l’opportunità

le nostre relazioni comunitarie diventano

stimolo, comprensione, semplicità

o correzione fraterna.[136]

 

 

Fedeltà alle nostre virtù peculiari

 

103. La nostra spiritualità si compendia

nel vivere in intima relazione

l’amore verso Dio

e verso il prossimo bisognoso.[137]

Manifestiamo ogni giorno

questo atteggiamento fondamentale

della nostra vita

con gesti di solidarietà, di servizio

e di dedizione ai poveri e agli infermi.

Conserveremo vivo questo spirito

nella misura in cui terremo i sofferenti

al centro di tutta la nostra attività apostolica

e di tutte le nostre preoccupazioni.

Tutto ciò richiede da noi

una particolare attenzione,

sia individualmente sia comunitariamente,

perché tutte le nostre doti

di carattere spirituale, intellettuale e materiale,

siano sempre al servizio dei poveri.

Ugualmente, tutto ciò ci aiuta a restare sempre

nella semplicità e nella austerità

proprie della nostra vocazione,

rinunciando volontariamente a quelle cose che,

quantunque renderebbero più piacevole

la nostra vita,

non contribuiscono ad avvicinarci a Dio.

 

Senso di appartenenza all’Ordine

 

104. Essere Fatebenefratelli

è per noi il modo concreto

di vivere come cristiani e come religiosi.

Ci teniamo pertanto

a manifestare la nostra identità.[138]

Questo ci incoraggia a dedicarci completamente

al progresso del nostro Ordine

e alla realizzazione della sua missione

nella Chiesa;

come pure a sentire come proprie

le gioie e le difficoltà

dei nostri Confratelli di tutto il mondo.[139]

Ci interessiamo a conoscere e approfondire

la storia e la spiritualità del nostro Ordine

e ci sforziamo costantemente di vivere

nel rispetto delle sue sane tradizioni.

 

 

Separazione dall’ordine

 

105. Se qualche Confratello, dopo la professione,

trovasse difficoltà a restare nell’Ordine,

anzitutto cercherà la volontà di Dio su di sé

con un serio discernimento.

In tale circostanza, i Confratelli,

in particolare i superiori,

procureranno di stargli vicini

soprattutto con la preghiera e il dialogo fraterno.

Qualora si dovesse arrivare

alla decisione della separazione,

temporanea o definitiva, dall’Ordine,

sia per volontà del Confratello

sia per determinazione dei superiori,

si proceda a norma del diritto proprio

e del diritto universale della Chiesa.

Il Confratello che lascia l’Ordine,

sia volontariamente

sia per legittima dimissione,

non può esigere nulla dall’Istituto

per qualunque attività in esso compiuta;

i superiori, però, procureranno di aiutarlo

secondo l’equità e la carità evangelica.

 

 

Costituzioni dell’ordine

 

106. Per poter introdurre cambiamenti

nel testo delle presenti Costituzioni

si richiede l’approvazione del Capitolo Generale,

espressa con almeno due terzi dei voti,

e il consenso della Santa Sede,

alla quale appartiene pure

la loro autentica interpretazione.

 

107. Gli Statuti Generali

contengono le norme pratiche più necessarie

per l’applicazione dei principi

contenuti nelle Costituzioni.

I cambiamenti che con il tempo

si riterrà opportuno introdurre,

sono riservati al Capitolo Generale,

che dovrà esprimere la sua volontà, in ogni caso,

con almeno i due terzi dei voti.

 

108. L’osservanza delle Costituzioni

è una espressione

della nostra comunione con la Chiesa

e un mezzo molto valido

per conservare sempre vivo il nostro carisma;

per questo, ricordando il dovere di osservarle

che abbiamo assunto nella professione,

ci sforziamo costantemente

di scoprire il loro genuino significato

e di adeguare a esse la nostra vita.

 


[1] Cfr 1Gv 4, 20-21; Mt 22, 36-40

[2] Cfr Mt 8, 17; 25, 34-46

[3] Cfr lGv 3, 14.18

[4] Cfr At 10, 38

[5] Mt 4, 23; 9, 35

[6] Cfr Lc 4, 18

[7] Cfr Lc 4, 18; Mt 11, 5

[8] Cfr Eb 2, 17; 5, 8

[9] Cfr Mt 12, 15-21

[10] Cfr Mt 8, 16-17; 25, 35-40

[11] Cfr Mt 20, 28

[12] Cfr Fil 2, 5.7

[13] Cfr 1Cor 9, 22

[14] Cfr Rm 12, 8

[15] Cfr Lc 10, 9; Mt 10, 7-8

[16] Cfr Rm 8, 29; Lc 4,40; Mc 7,37

[17] Cfr Lc 1, 38.39.56

[18] Cfr Gv 2, 3.5; 19, 25

[19] Cfr Mc 3, 13-14

[20] Cfr Mt 15, 32; 20, 34; Mc 1, 41; Lc 7, 13

[21] Ef 1, 4

[22] Rm 8, 29

[23] Cfr Rm 6, 4; Col 2, 12

[24] Cfr Ef 1, 13-14

[25] Cfr Rm 7, 4

[26] Cfr Ef 4, 12-13

[27] Cfr Rm 12, 1

[28] Cfr 1Pt 2, 5; Ap 1, 6

[29] Cfr Fil 2, 11

[30] Rm 5,5

[31] Cfr Mt 19, 11-12

[32] Cfr 1Cor 7, 32-35

[33] Cfr Gv 1, 13

[34] Cfr Gv 10,10

[35] Cfr 1Cor 6, 19; 3, 16

[36] Cfr Gv 15, 13-17

[37] Cfr Fil 2, 5-6

[38] Cfr 2Cor 8, 9

[39] Cfr Eb 2, 14-18

[40] Cfr Mt 8, 20

[41] Cfr Lc 7, 22

[42] Cfr 2Ts 3, 7 14; At 20, 35

[43] Cfr At 2, 44; 4, 32

[44] Cfr lTm 6, 8-10

[45] Cfr Gv 4, 34; 6, 38-39; 10, 14-18

[46] Cf, Lc 22, 41-42; Gv 12, 27-29

[47] Eb 5, 8

[48] Cfr Fil 2, 8

[49] Cfr Gal 5, 1.13.14

[50] Cfr Mt 20, 25-26

[51] Cfr Rm 8, 2; Gal 5, 1

[52] Cfr Lc 22, 26-27

[53] Cfr Lc 4, 18-19

[54] Cfr Lc 7, 19-23

[55] Cfr Mt 5, 43-48; Lc 6, 36

[56] Cfr Gv 10, 10; lGv 4, 9

[57] Cfr Lc 4, 21

[58] Cfr Mt 9, 12; Lc 18, 15-16; Mt 8, 16-17

[59] Cfr Lc 4, 38-41

[60] Cfr Lc 7, 11-13; Gv 11, 33-36

[61] Cfr Mt 25, 34-45

[62] Cfr Mt 10, 7-8; Lc 9, 2

[63] Cfr Gal 2, 20; Ef 5, 2; lGv 3, 16

[64] Cf, Lc 1, 34-37; Mt 1, 18-20

[65] Cfr Lc 1, 48

[66] Cfr Lc 1, 38

[67] Cfr Gv 2, 3; 19, 26

[68] Cfr Rm 5, 5

[69] At 4, 32

[70] Cfr At 2, 44-45

[71] Cfr Gv 17, 21

[72] Cfr Mt 18, 20

[73] Cfr 1Gv 4, 10.19

[74] Cfr Gv 14, 8; 1Gv 1, 3; Ef 2, 11-13.19-22

[75] Cfr 1Cor 2, 10; Ef 1, 3-12; Gv 14, 23

[76] Cfr 1Gv 4, 10-11

[77] Cfr 1Gv 4, 19-20

[78] Fil 3, 8

[79] Cfr Gc 3, 2

[80] Is 53, 3

[81] Cfr Gv 19, 25

[82] Cfr Gv 15, 14-15

[83] Cfr Gv 13, 34-35; 15, 12-13

[84] Cfr Ef 4, 1-6

[85] Cfr Col 3, 12-13; 1Pt 3, 8-9

[86] Cfr Rm 12, 9-10; Fil 2, 3-4; 1Cor 10, 24

[87] Cfr Eb 10, 24-25

[88] Cfr Mt 18, 20

[89] Cfr 1Cor 12, 4-7. 12 13

[90] Cfr Mc 1, 32 34; Lc 6, 20; 15, 1-10; 18, 15-17

[91] Cfr Lc 4, 40; 5, 13; 19, 1-10

[92] Cfr Lc 7, 13; 8, 48; Gv 8, 10-11

[93] Cfr Mt 25, 34-40

[94] Cfr Lc 9, 1-2; 10, 1-9; Mc 16, 15

[95] Cfr Gv 15, 4-5.9

[96] Cfr Gv 13, 13-15; Mt 10, 8; 1Gv 3, 16-18

[97] Cfr Lc 9, 1-2

[98] Cfr Lc 1, 39-40.56

[99] Cfr Gv 2, 3

[100] Cfr Lc 1, 31-38; 2, 7.48.51; Gv 19, 25

[101] Cfr Mt 10, 8

[102] Cfr Mt 9, 10-13; 11, 28-30; 18, 1-6

[103] Cfr Lc 4, 18

[104] Cfr Mt 8, 17; Lc 7, 13-14; Rm 12, 15

[105] Cfr Mc 16, 15

[106] Cfr Tb 4, 7; 12, 8-10; Mt 6, 2-4; Lc 12, 33

[107] Cfr Prv 11, 17; Dn 4, 24; Sir 3, 30

[108] Cfr 1Gv 1, 1-4

[109] Cfr Gv 1, 41-42.45-46; At 9, 6,17

[110] Cfr Mt 9, 37-38

[111] Cfr Gv 1, 39

[112] Cfr Mc 8, 35; 10, 22; Lc 10, 17.20

[113] Cfr Gv 14, 26; 16, 13

[114] Cfr Rm 1, 16

[115] Cfr 1Pt 1, 3 5.13.21; 2Pt 3, 13-14; Ap 22, 17-20

[116] Cfr 1Gv 3, l; Rm 8, 15 17

[117] Cfr Gv 19, 27

[118] Cfr lGv 4, 7-12

[119] Cfr Mt 10, 5-8.16.26; 26, 40-45; 20, 28

[120] Cfr Mt 28, 18-20; Gv 20, 21

[121] Cfr Mt 20, 28

[122] Cfr 1Ts 5, 14

[123] Cfr Es 34, 6-9; Is 49, 14-16; 1Cor 1, 8-9

[124] Cfr Rm 8, 29; Ef 1, 4

[125] Cfr Rm 3, 24; 8, 14-16; 1Cor 12, 3-11; Gal 5, 22-23

[126] Cfr Rm 8, 35-39; 11, 29

[127] Cfr 2Pt 1, 3-10; 2Ts 1, 11-12

[128] Cfr Mt 7, 21; Gv 15, 10-14

[129] Cfr Mt 25, 14-30; Lc 19, 11-26

[130] Cfr Fil 2, 2-5; Gc 4, 11; 1Pt 4, 8-10

[131] Cfr Ef 4, 1.11-13; Rm 12, 6-8

[132] Cfr lGv 4, 9-12

[133] Cfr Rm 7, 14-25; 2Cor 4, 7; 12, 7

[134] Cfr Mt 18, 7

[135] Cfr Mt 26, 41; Lc 13, 5; 1Cor 9, 24-27; 1Pt 5, 8

[136] Cfr Rm 15, 1-2.7.14; Gal 6, 1-2; Eb 3, 13

[137] Cfr Lc 10, 27; lGv 4, 12

[138] Cfr Mt 10, 32-33; Lc 9, 26

[139] Cfr Rm 12, 15; 1Cor 12, 26

RELIGIOSI E LAICI nella gioia della fede e nella prospettiva della missione – A. Nocent

 

RELIGIOSI E LAICI

 

nella gioia della fede 

e nella prospettiva della missione

 

Angelo Nocent

Istituto Nazionale per lo Studio e la Cura dei Tumori – MIlano

 

20 Gennaio 2007, ricorrenza della “Conversione di san Giovanni di Dio”.

Incontro all’Università Cattolica di Milano il Direttore di questa rivista. E’ così buono che mi rinnova la collaborazione e mi  propone di spingere la riflessione sul carisma dell’ hospitalitas in direzione del binomio “Religiosi/Laici collaboratori”. E’ un tema emblematico perché, dopo gli approcci tentati in questi ultimi anni, sembra esservi in atto un timido fidanzamento che fatica ad essere coronato con le nozze. Spero che mai e poi mai assuma il significato di un matrimonio “riparatore”, dovuto alla carenza di vocazioni. Oggi si tratta di passare dagli “ammiccamenti” ad un rapporto non tanto di collaborazione quanto di    ”corresponsabilità”  che è poi la lezione che ci viene dalla Chiesa italiana convocata a Verona proprio in concomitanza del LXVI Capitolo Generale.

Tra identità e nuove sfide


Gratificato dall’attestazione di fiducia, ho prontamente accettato, senza tuttavia rendermi conto della gravosità del tema. Infatti, da subito mi sono accorto che sarei andato fuori strada se al centro non avessi messo i “sofferenti” che non solo sono i nostri padroni, come amavano sottolineare i santi della carità, ma anche i nostri  “docenti”, come ci insegnano i Vescovi Italiani nei recenti indirizzi pastorali che avremo modo di considerare. Naturalmente il Rettore Magnifico di questa Università non potrà essere che il Sofferente numero uno: Gesù di Nazareth, il Crocifisso-Risorto. Di conseguenza,  la fonte bibliografica più accreditata non potrà essere che il Paràclito. Eglici parlerà  sia attraverso le Scritture che attraverso il Maestro interiore. Da Lui invoco i lumi e la sapienza per dire cose sensate e proporre scelte lungimiranti. Guardando ai testimoni del passato, chiedo a Dio acutezza di sguardo nel cogliere l’autenticità attingibile dalla profondità della Rivelazione: “Tutto ciò che è Mio è tuo”. (Lc 15, 31)

Nel confermare gli altri nella fede, testimoniando le ragioni “della speranza che è in me” (cfr. 1Pt 3,15), più che di essere arguto e brillante scrittore, qui mi viene primariamente chiesto di essere “credente”. Ciò che ha animato l’apostolo Paolo nella lettera ai Galati, deve ispirare ogni cresimato che si metta al servizio della Parola: “Dinanzi ai vostri occhi non ho presentato se non Cristo e Cristo crocifisso” (1Cor 2,1). Giustifica il fatto di essere qui a mostrare Cristo con la penna, l’aver visto personalmente Gesù, l’averne avvertito esattamente il Suo sguardo personale d’amore, così ospitale, accogliente, nonostante una vita insulsa e ingrata.

Se scrivo di hospitalitas è perché credo, e con me i Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio, che anche questo è un servizio che rientra nel carisma del Fondatore. Egli infatti che fu pure venditore di libri, dapprima ambulante e poi stabile in Granada fino alla conversione, ha questuato, organizzato, assistito, curato…e perfino scritto e dettato lettere. Le poche rimaste, se sono rivelatrici del temperamento, evidenziano il variegato carisma: anche “la carità della verità” rientra nel suo piano di attenzione all’uomo, nell’ottica delle opere di misericordia spirituali. Naturalmente, trattandosi di carisma, Giovanni di Dio non inventa nulla ma riceve in dote i Sette Santi Doni. Con tale ricchezza, reso partecipe della fantasia di Dio, si ritrova a tempo pieno tra i  ” collaboratori della verità ” (3 Gv, 8). Ed è su questo tema  che vorrei soffermarmi.

 

Collaboratori della verità

I laici che si mettessero in mente di camminare sulle orme di San Giovanni di Dio, prima o poi saranno colti di sorpresa dalla stessa domanda che un giorno si sentirono rivolgere due fratelli, Andrea e Simone:

“Gesù si voltò e vide che lo seguivano. Allora disse:- Che cosa volete? Essi gli dissero:- Dove abiti, rabbì? (rabbì vuol dire: maestro). Gesù rispose:- Venite e vedrete. Quei due andarono, videro dove Gesù abitava e rimasero con lui il resto della giornata. Erano circa le quattro del pomeriggio” (Gv 1, 38-39)

Con l’invito a rileggere il testo evangelico parola per parola, perché fondamentale per chi intende mettersi in viaggio, mi auguro che la reazione personale sia identica. Ma vorrei portare velocemente ad un’ ulteriore fondamentale considerazione. “L’altra grande immagine della Chiesa in Giovanni – che assomiglia molto a quella di Paolo – è al Cap. XV, quello della vite e dei tralci: “Chi è in me porta molto frutto, altrimenti viene tagliato e viene gettato via”. Paolo dirà che il l cuore della Chiesa è Cristo, che è il capo, mentre noi siamo le membra, e tutti facciamo un corpo solo. Giovanni riporta questa poderosa immagine della vite e Gesù che dice: “Chi è in me porta frutto”. Noi possiamo veramente vivere la nostra fede, la speranza e la carità nella Chiesa nella misura in cui siamo in Cristo. E guardate che tutte le grandi crisi che la Chiesa vive nei secoli, è perché forse viene meno qualche volta questa centralità di Cristo: magari un papa può pensare di essere lui il grande, ma è Gesù il Pastore e questo guardate dà una grande libertà, nella misura in cui noi siamo comunità in Cristo e da lui abbiamo l’acqua della vita eterna” (Ghezzi).

Le applicazioni nel nostro campo più ristretto sono identiche: tutto funziona “nella misura in cui siamo in Cristo”. Nella foga del dibattito di questi anni, forse è sfuggito un particolare che, se recepito, potrebbe ribaltare il rapporto non ancora ben definito religiosi/laici. L’apostolo Giovanni in una sua lettera, facendo riferimento agli evangelizzatori, non solo apostoli, li definisce “collaboratori della verità” (3 Gv, 8). E ne spiega le ragioni. E’ importante osservare che questa formula esprime la partecipazione di tutti i credenti all’opera di evangelizzazione e, insieme la dimensione “cattolica” della fede. Lui, che si definisce l’anziano, esorta all’ospitalità verso chi annuncia la fede. A tal proposito ho trovato sapienti e preziose considerazioni dell’ allora Card.  Ratzingher nella prefazione di un suo libro. Esse ci permettono di estendere gli orizzonti del nostro intendere l’ hospitalitas, quasi sempre esclusivamente legata al malato.

” Egli [l'Apostolo] mette così in guardia dal ripiegamento in sé e dall’isolamento di quelle comunità che si concepiscono come ambiti chiusi.

  • Negare ospitalità a  coloro che recano la buona novella del Vangelo è per lui espressione di un rinnegamento dell’autenticità cattolica e in questo modo è’ anche un atto di chiusura nei confronti della verità.

  • All’opposto, l’amore, la premura con cui i credenti offrono cibo e ricovero agli apostoli e missionari, nelle loro peregrinazioni, è già di per sé servizio alla verità.

  • Mediante la carità, essi rendono possibile la predicazione e in questo modo divengono a pieno titolo collaboratori del Vangelo.

  • Dunque, in questa breve formula ["collaboratori della verità "] già traluce l’intimo legame tra verità e amore, tra fede personale e cattolicità che e’ tipico della Chiesa, ma anche la correlazione vicendevole tra chi esercita un ministero e i semplici fedeli: essi, pur nella diversità del loro servizio all’unità, raggiungono insieme l’onere e la grazia della proclamazione del Vangelo”.

Queste indicazioni magisteriali cadono a proposito: esse illuminano quella difficoltà che si fa ormai sempre più evidente: sincronizzare il rapporto tra religiosi e laici collaboratori. Se il concetto venisse recepito, l’orizzonte si amplificherebbe fino a coinvolgere ospedale e Chiesa locale. Dove ognuno si trova collocato nelle 24 ore della sua giornata, lì è presente un “collaboratore della verità”, lì salta fuori il profeta-servo di Dio inviato a portare la buona notizia ai poveri, a predicare l’anno della misericordia, a sanare ogni infermità. Volendo stilare un elenco, si rischierebbe di tralasciare qualche umile figura che ne farebbe parte a pieno titolo. Ma si può benissimo schematizzare:  il vescovo, i presbiteri e i diaconi, i religiosi, i laici nella molteplice espressione dei movimenti…Ed in posizione privilegiata: i sofferenti. Tutti nella Chiesa di Dio ed in modo davvero personale, siamo dei cooperatori.

Più che una curiosa divagazione, ritengo che quella della cooperazione sia una premessa necessaria e fondante l’ hospitalitas. Ciò  significa che nella fortezza apparentemente inespugnabile della sanità,  bisogna starci con le mani sul malato, gl’occhi sulla Parola e questa consapevolezza:

  • nessun cristiano parla e agisce a titolo proprio, bensì nell’ “appartenenza” e nella “comunione” con un Altro da sé.

  • Io faccio quello che devo fare, solo quando opero “con” Cristo e “con” l’intera tradizione vivente della Chiesa di ogni tempo e di ogni luogo.

  • Il mio compito non e’ di costruire un ambiente che fa per me, ma di edificare a Cristo la sua Chiesa.

  • ll votato all’ospitalità e’ paragonabile a una guida di montagna che aiuta nella scalata a raggiungere la vetta. Ma Cristo è la via perché è la verità (Gv 13,34).

  • La profondità dell’annuncio recato dai “collaboratori della verità ” sta proprio nell’intima correlazione tra verità e amore.

  • Il “Comandamento nuovo” (Gv 13,34) lasciatoci dal Maestro richiede accoglienza ed ospitalità vicendevoli, riflessione e fede, apertura e sguardo fisso e penetrante sulla verità del Vangelo.

Epperò, “… la verità della vita cristianaè come la manna nel deserto: non la si può mettere da parte e conservare; oggi è fresca, domani è marcia. Una verità che continui solo ad essere trasmessa, senza essere ripensata a fondo, ha perso la sua forza vitale. Il vaso che la contiene – per esempio la lingua, il mondo delle immagini e dei concetti – s’ impolvera, si arrugginisce, si sbriciola. Ciò che è vecchio resta giovane solo se, con il più giovanile vigore, viene riferito a ciò che è ancora più antico, e sempre attuale, la Rivelazione di Dio”. (Hans Urs von Balthasar, Abbattere i bastioni, 1962)

Poiché ad essere cristiani s’impara giorno dopo giorno, – così Giovanni di Dio, così Riccardo Pampuri e tutti gl’altri -, religiosi o laici, non resta che rimboccare le maniche e procedere con l’ardore del santo Papa Giovanni Paolo II: “E’ l’ora della fantasia della carità ”  (Novo millennio ineunte). Senza dimenticare però che “se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme” (1 Cor 12,26).

Contributo al discernimento da parte dei collaboratori laici

Devo confessare che l’idea dei cosiddetti collaboratori laici, almeno quella emersa nel dibattito di questi anni, non mi ha mai convinto più di tanto. Men che meno, dopo aver letto la petizione che la rappresentanza internazionale ha espresso al 66° Capitolo Generale. Ho appena finito di sfogliare il Documento Finale elaborato dalla Provincia Lombardo Veneta nel 1994 per il Sinodo dei Vescovi ed il Capitolo. Trovo che gli Autori

(Quattrocchi, Faustini o.h., Merlo, Inzoli, Pulici, Ferrara, Santini o.h.,  Fiume, Bresciani, Giuliani) abbiano avuto valide intuizioni ed elaborato utili proposte. Un solo torto: un’eccessiva dose di ottimismo. Infatti, l’ “Allenaza” stipulata allora con i Collaboratori, ha subìto negl’anni successivi forti sbalzi di tensione, forse legata all’instabilità dell’animazione locale. Ma non solo. Segno evidente, dunque, che le buone intenzioni non bastano.

Il termine “collaboratori” è stato frettolosamente coniato dagli Istituti Religiosi per definire i laici presenti nelle rispettive attività ospedaliere, scolastiche, assistenziali, ecc. Sarebbe stato necessario guardare più scrupolosamente alle origini semantiche del termine perchè il rischio di moltiplicare la confusione, secondo me esiste, eccome!  Ciò emerge proprio quando si va a rileggere la “Christifideles laici” che parla appunto di laici discepoli di Cristo. Laico è un termine funzionale; teologicamente non significa nulla. E’ come il generico impiegato o il generico esaurimento nervoso: se non si precisa, si specifica, si qualifica, se ne sa quanto prima. E il Papa non ha lasciato nell’incertezza: laici discepoli di Cristo.

La questione dei collaboratori andrebbe presa da lontano. Quando si parla dei laici che partecipano al carisma dei Fondatori – nel nostro caso di hospitalitas e di san Giovanni di Dio – coloro che intendono aderirvi (e l’adesione non deve essere estorta o scontata), hanno tutto il diritto di sapere il più concretamente possibile di cosa si tratta.

Comincerei col dire che per i col-laboratori che intendono aderirvi, ossia i lavoratori con…qualcuno (nel nostro caso con i religiosi FBF), dev’essere l’inizio di una scoperta che porta la firma di San Giovanni di Dio: la letizia e la libertà dell’incontro con Cristo, per seguirlo, senza stanchezze sproporzionate e faticosi programmi culturali, nel Suo cammino in mezzo agli uomini. In altre parole, farsi servitori della verità sull’uomo.

Ciò significa che io aderisco, vengo a far parte di un movimento. Ma devo sapere che l’innesto nel movimento dell’hospitalitas può attecchire e posso partecipare al carisma nella misura in cui anch’io mi pongo in movimento, ossia mi apro allo Spirito. Noi possiamo aspirare ai carismi ma è solo Lui che può donarli. Inoltre il movimento ha per definizione una sua originalità di cui devo rendermi consapevole e scoprire  le ragioni della speranza che racchiude in se’. (1 Pt 3,15).

 Allora va benissimo che si usi la terminologia di “collaboratori laici“, a patto che si viva coscientemente lo stato di un’appartenenza stabile: entro a far parte di un movimento carismatico che traduce nel linguaggio  ecclesiale e sociale del nostro tempo l’aforisma latino “Ubi caritas et amor, Desu ibi est“. Che è poi l’equivalente Juandediano: “Dio sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesu’ “. E proprio perché questo Dio, questa voce fuori campo che mi chiama e sollecita ad uscire dall’isolamento non é un Solitario ma la Trinità nell’Unità, mi raccapezzo nella misura in cui anch’io trovo ad attendermi una Fraternità nell’unità con la Trinità. Diversamente, sono un disorientato.

La tentazione dell’utopia è sempre in agguato: vi si cade quando si cede, finendo – magari involontariamente – per ridurre Gesù Cristo a puro pretesto. Come dice il termine utopia  che significa non-luogo, cedere alla tentazione dell’utopia significa non partire dalla realtà ma imporre alla realtà una teoria fabbricata a tavolino e costringerla nella gabbia della nostra limitata misura. La gabbia è l’imprigionarsi dentro l’utopia che basti lanciare ai laici che lavorano nei Centri FBF, un messaggio che li classifica d’ufficio “collaboratori”, ossia partecipi del carisma di San Giovanni di Dio. Nessuna disposizione legislativa, per quanto animata da buone intenzioni, può dichiarare sano di mente uno che non lo è.

Nella storia recente della psichiatria abbiamo assistito anche a questa forzatura e subìto poi le conseguenze. Bisogna evitare di scivolare in due fuorvianti semplificazioni:

  1. quella di non passare  dal cuore di ogni uomo e donna che lavorano nei Centri FBF;

  2. quella di ignorare totalmente la grande massa  dei laici Christifideles che operano nelle Istituzioni Pubbliche e nel sociale, quasi fossero “altro da noi”, cosa che non ci riguarda, frangia del Popolo di Dio assegnato alla Pastorale Sanitaria dei cappellani ospedalieri.

La paura porta a sacrificare il grande obiettivo di estendere e dilatare al massimo il grande carisma Giovandiano, giustificato da una considerazione ritenuta più realistica: meglio cominciare a guardare in casa propria prima di pensare alle espansioni.

Le conclusioni degli scettici sono penalizzanti; l’avvilimento li porta ad esclamare che ” sono cambiati i tempi…non c’è via d’uscita…chi vivrà, vedrà…” E’ un’ insinuazione diabolica e bisogna reagire investendo: in preghiera, adorazione, riflessione, ricerca, mobilitazione…La via esiste. Solo che è ardua perché passa per la via del cuore e non dell’ideologia né dell’utopia, che immaginano ciò che non è.

L’hospitalitas passa attraverso l’educazione alla fede, lavoro personale e di gruppo. L’hospitalitas non è carisma condivisibile se non attraverso un cammino ed un’esperienza di forte appartenenza alla “fraternita’” del Centro FBF, vitale, concretamente incontrabile. Le Fraternità o sono luogo di educazione permanente alla carità, al giudizio sulla realtà (cultura), a vivere le dimensioni del mondo (missione) o non sono.

I Laici al 66° Capitolo Generale

Presente per la prima volta una rappresentanza così numerosa di collaboratori laici, dagli stessi è stato interpretato come un segno di apertura e di speranza e sembra che il tema del rapporto tra collaboratori e religiosi sia stato forse quello più dibattuto al Capitolo. Invito a cogliere subito la sfumatura che considero preoccupante: “Su richiesta del Governo generale è stato chiesto al gruppo dei collaboratori laici invitati al Capitolo di formulare alcune indicazioni come contributo al discernimento dei Padri Capitolari nella elezione del nuovo Superiore generale e del suo Consiglio”.

Leggendo e rileggendo  il documento elaborato dagli stessi, nasce un fondato sospetto che già ci si stia muovendo, più o meno consapevolmente, nell’ottica del “potere”.  Essi vogliono contare. Perfino “in materia di dottrina”. E lo chiedono formalmente nelle seguenti dieci formulazioni che mi limito a citare per titoli. Per quanto legittime, sono rivelatrici di una sintomatica povertà propositiva che non andrebbe sottovalutata.

” Al nuovo Superiore Generale e al suo Consiglio chiediamo:

1) Riconoscimento del carisma.
2) Consultazione dei laici.
3) Messaggio di fiducia.
4) Apprezzamento dei collaboratori.
5) Condivisione e integrazione.
6) Coraggio del rischio.
7) Valorizzare l’umanizzazione.
8) Incontri internazionali.
9) Opere gestite da laici.
10) Scuola dell’Ospitalità.

Per il testo integrale dove i titoli vengono sviluppati,  invito a prendere in mano il testo integrale contenuto nell’inserto dell’ultimo numero della Rivista. Forte del punto 6, “Il rischio del coraggio”, mi permetterò alcune scottanti provocazioni:

1. Il documento precisa: “Richiesti di formulare…” Vuol dire che la ventina di rappresentanti dei 43 mila operatori laici che operano nelle strutture dell’Ordine, si sono presentati al Capitolo a mani vuote.

2. Le spiegazioni fornite non sono molto convincenti sia per ragioni di forma che di sostanza. Come si fa a collocare la “Scuola di Ospitalità” al decimo posto e poi mettere al primo “Il riconoscimento del carisma” che si dà per posseduto ?

3. Non si parla di conversione né di “disposizione a testimoniare con la fede e col sangue che c’è un Cielo”, come direbbe Teresa di Gesù Bambino;

4. Non emerge un carisma sapienziale come il “gusto di Dio”, l’ardore per il suo Regno, a Parola, la Chiesa…

5. Nonemerge la profezia: un amore che discende verso la miseria, la povertà umana, compresa quella dei “poveri ricchi”;

6. Non emerge il cuore di donne e uomini, normalmente coniugati, che sono anche genitori, educatori…

7. Non emerge l’affidamento alla Provvidenza ma alle capacità menageriali.

8. Al punto 3 si equivoca: il laicato sembra inteso, in ultima istanza, come un superamento della vita religiosa, salvandone il carisma: ”l’Ordine non si estinguerà, anche con l’attuale futura penuria dei religiosi, fino a quando ci saranno laici che responsabilmente parteciperanno al suo carisma, lo custodiranno e lo attueranno”. Io invece non ho dubbi: non si estinguerà, a prescindere dalle buone intenzioni di salvataggio dei laici.

Poi ci sono alcuni punti non facili da digerire senza bicarbonato, perché intaccano la sostanza:

· p. 5) CONDIVISIONE E INTEGRAZIONE: “Chiediamo che siano definitivamente superate le logiche proprietarie”. La motivazione non è certamente francescana. Qui affiora il vero problema: la borsa, i soldi.

Domanda: i laici vogliono diventare comproprietari, soci in affari? E cosa portano, solo il capitale lavoro? Coniugati o meno, a nessuno viene in mente di allegare una “cambiale di matrimonio” con “Madonna Povertà”, di farsi una sola carne con Lei nel senso autentico ed originale che sarebbe rivoluzionario anche per il nostro tempo: mi voto alla libertà?

Va detto per inciso che questa aspirazione moderna Francesco la chiamava povertà. Che non aveva il concetto capitalista, pauperista, economico che abbiamo noi della povertà. Per noi il povero è colui che non posiede, perchè il nostro riferimento è l’avere. Il ricco, invece, possiede molto. Per il Santo universale, povertà è la capacità di dare, dare e dare ancora una volta; dare e darsi. Quanto più ti dai, tanto più libero ti rendi e tanto più possiedi. Nella logica dell’essere, quanto più dai e ti dai, tanto più sei e ricevi, in umanità e cordialità. L’Hospitalitas è una scelta, un voto, un impegno…di povertà, ossia di libertà. Vale per laici e consacrati.

· p. 8) INCONTRI INTERNAZIONALI:“Istituzionalizzare momenti di incontro internazionale per collaboratori laici… anche al di là di questi brevi scambi capitolari, durante i quali confrontarsi e portare avanti le problematiche dell’Ordine in una prospettiva laicale, guardando da un lato alla mondialità dell’Ordine, dall’altro alla specificità regionale delle sue Province”. Si badi: non in prospettiva evangelica.

· 9) OPERE GESTITE DAI LAICI: mentre s’invoca una formazione adeguata – non si comprende perché solo di alcuni – subito si chiede “che in tutto l’Ordine si affidi l’intera gestione di alcune opere a laici preparati e partecipi del carisma in nome e per conto dell’Ordine“. Non solo si chiede ma si sollecita “fin da adesso”.

Me lo si permetta: questa è  farneticazione pura!  Sono proposte all’insegna dell’improvvisazione, non della sofferta meditazione. La piena realizzazione umana ha un nome evangelico: santità. Che non si trova nella linea del fare ma dell’essere, quell’essere che si rivela, ovviamente, nel fare. Sembra che nessuno abbia mai letto due documenti importanti: la lettera dell’uscente Generale, Fra Pasqual Piles, “Lasciatevi guidare dallo Spirito” ed il recente volume voluto dallo stesso, “Spiritualità dell’Ordine”.

Possono sembrare parole esagerate le mie e me ne scuso perché sono certo che i redattori della petizione sono meno maliziosi di me ed hanno operato in buona fede. Ma per chi legge, le parole talvolta possono tradire le intenzioni. Il guazzabuglio di idee confuse che sono emerse potrebbero essere il risultato anche di una malintesa interpretazione dell’ “umanizzazione“  che ha il suo eroico paladino nell’ uomo psichico, il cosiddetto ‘ “animalis homo“, secondo la traduzione latina della Vulgata, che ognuno si porta dentro.

Lo spazio tiranno non permette di aprire subito un capitolo chiarificatore sull’argomento, appena riproposto anche in un convegno alla Cattolica. Ciò che era chiaro nella mente propositiva del Padre Marchesi, non è detto che lo sia altrettanto in quella dei suoi nuovi  lettori e discepoli. Se personalmente m’infiammo è perché in un momento di transizione così delicato, non è permesso partire con il piede sbagliato: una solenne cantonata iniziale equivarrebbe a infilare il primo bottone nell’asola sbagliata: i successivi farebbero la stessa fine.

Mi sovviene la figura di Francesco inginocchiato davanti a Papa Innocenzo III° a chiedere l’approvazione della regola. Si noti: “Regola dei Frati Minori che è questa: osservare il Santo Vangelo di Nostro Signore Gesù Cristo”. Capite cosa Francesco va a chiedere a Roma? Come si avverte che le richieste dei nostri amici non sono prima state sottoposte, in ginocchio, allo Spirito Santo!

Perchè non appaia che si tratti di mie idee cervellotiche, invito a riflettere sul cap. X del Vangelo di Giovanni. Se c’e’ un testo dove appare la Chiesa è proprio quello del Buon Pastore: “Io sono il buon pastore, questo è il mio gregge“. Secondo il mio amico don Enrico Ghezzi che ha appena scritto un libro di mille pagine su questo vangelo, le cose stanno così: c’è il gregge di cui Gesù è il pastore e, attenti bene,

  • di questo gregge che è la Chiesa, è Gesù il buon pastore, non altri,

  • noi siamo tutti al servizio di questo buon pastore che è  Gesù,

  • nessuno di noi – né il papa, né i vescovi, né i sacerdoti, nessuno nella Chiesa – deve avere il potere, se non l’autorità nella carità e il servizio che provengono dal seguire Gesù e fare la Sua volontà. “(Don Enrico Ghezzi)

Se le cose stanno così, possono essere parole di scoraggiamento le mie? Vorrei sperare di no. Anzi: vorrei che fossero recepite

  • nel segno dello stupore dei primi cinque seguaci di Giovanni di Dio e della loro prima Impresa Missionaria;

  • e stimolare a quella comunione, di collegialità e di Spirito Santo che è stato possibile vivere durante il Concilio Vaticano II e che ormai non è più memoria viva se non per pochi testimoni.

Perciò:

  • Se non prendo come archetipo centrale la santa umanità di Gesù,

  • se non voglio imitare il Maestro in tutta la sua grandezza, se non passo attraverso la “stigmatizzazione” delle mani e del costato che equivale al dono del carisma dell’hospitalitas, ossia l’accettazione del dare la vita, di metterla a disposizione di Dio, identificandomi con Cristo e Cristo crocifisso, il Vivente nei crocifissi della terra…

  • se non nascono gruppi al maschile e al femminile di “folli” ossia di pazzi che sognano la regola del Vangelo prima degli Statuti giuridici e canonici, lievito e fermento sul posto di lavoro, cellule che si moltiplicano, “ponti” tra ospedale e Chiesa locale, con una travolgente forza interire che viene dalla dimensione contemplativa della vita, alla Scuola della Parola…

  • se non possiedo la libertà del mio fratello Gesù, se non abbandono i miei feticci per mettermi a Sua completa disposizione, senza interessi, senza niente che si interponga tra me e gl’altri,

sarebbe meglio lasciar perdere! Perché si va incontro ad un fallimento annunciato. E, dall’esperienza negativa, una sfiducia contagiosa nel “Cristifidelis laicus”, il laico discepolo di Cristo che invece è un segno dei tempi.

Ma come far emergere un’intesa realistica e compatibile? Ribaltando il problema: più che formulare ai laici la richiesta di offrirsi come collaboratori dei religiosi, ogni progetto dovrebbe mobilitare entrambe le parti su un terreno di parità accettato e condiviso: “collaboratori della verità” (3Gv 8). Questo concetto supera di gran lunga il concetto ristretto e asfittico di “collaboratori alle dipendenze” ed apre spazi di cooperazione che può essere anche statutaria, ai laici non solo dei Centri FBF ma della Chiesa locale, della Salute Pubblica, dell’ Università, della Politica…Tale proposta ha un pregio: quello di essere parola di Dio. Il proponente e Lui.

Vogliamo esempi di concretezza? Porto un’esperienza che vivo. Tre volte la settimana la Comunità di Sant’Egidio che è in Milano, quella che conosco io, convoca i suoi membri, donne e uomini di ogni estrazione di età e culturale, nella restaurata ma non riscaldata chiesa di San Bernardino alle Monache, in via Lanzone, a due passi dall’Ospedale San Giuseppe dei Fatebenefratelli.

Si ritrovano ogni martedì, mercoledì e sabato alle ore 20,30. Abitando io nel cremasco, quando posso, vi partecipo per ossigenarmi. L’Eucaristia non viene conservata perché, normalmente il tempio è chiuso al pubblico. Non presenzia né un presbitero né un diacono. Cantano i salmi accompagnati da un’organista, leggono la Parola di Dio, una donna preparata la commenta, si prega per la Chiesa e si chiude in bellezza. Poi si passa allo scambio dei saluti e si fa ritorno a casa.

Alcuni prendono le borse depositate all’ingresso, piene di viveri, bevande, indumenti e vanno a distribuire in tre punti diversi della Milano-notte. Più che per offrire ristoro, ben gradito, l’occasione è per “parlare” con coloro che vivono emarginati e attendono questo momento unico. Un signore sulla cinquantina mi ha detto che lo fa da tre anni. Verso mezzanotte rincasa, fa la doccia e si prepara la cena.

Cosa mi preme sottolineare? Che i carismi non cadono dagl’alberi come le foglie né possono essere assegnati d’ufficio con un attestato o una benemerenza. Necessita un processo di ri-conversione individuale maturato nel contesto di una fraternità, una compagnia… Se non sono inserito in una comunità, sono destinato a perdermi, sopraffatto dagli impegni e dalla noia. Chi vuol appartenere alla “Chiesa sanante”, partecipare all’Hospitalitas, deve lasciarsi coinvolgere in un cammino impegnativo, più che pensare ai convegni internazionali o ad amministrare istituzioni religiose. Senza basi solide, prima o poi la casa crolla. Bando alle illusioni! Se ai discepoli di Gesù tre anni di scuola ad alta specializzazione tenuta dal Maestro stesso non sono bastati a farli restare sul campo al momento della prova e sono tutti fuggiti, perché il miracolo dovrebbe compiersi ora, senza premesse?

La richiesta dei Laici Collaboratori termina con un proposito: “Saremo in comunione con voi, accompagnandovi con il nostro affetto e la nostra preghiera allo Spirito Santo”. Si riferivano all’elezione canonica del Priore Generale. Nulla di più lodevole. Mi si dice che Fra Donatus Forkan sia uomo di grande spiritualità. Ha posto nello stemma generalizio i tre amori: la croce, al centro, il melograno dell’Hospitalitas, l’icona dell’ in-yang, simbolo della Corea dove è vissuto a lungo, ossia la missionarietà. E c’è anche un motto: “Hospitality always”.

Ci uniamo in quel “sempre”, non solo da vivi e da morti. E gli auguriamo di far attraversare alla grande comitiva che lo segue, il Mar Rosso della sofferenza umana, additandoci il nome della terra promessa che é la “divinizzazione” dell’uomo. Non in contrapposizione all’ ”umanizzazione” che ha pieno diritto di cittadinanza, ma come traguardo di una via già indicata dai Padri della Chiesa delle origini.

Senza offesa per nessuno, in questo preciso momento, l’ottimismo sui laici e dei laici sa più di scaramantico che di fondato, di malcelata paura, di auspicio più che evento di spessore, utopistico dunque, nella misura in cui, mancando di “profezia”, resterà inchiodato nell’immobilismo degli slogan e delle frasi ad effetto. Auspico un “foglio” di collegamento, snello, quindicinale o mensile, per comunicare nella fede e per la circolazione delle idee. L’alternativa al movimento è la staticità di cui nessuno avverte il bisogno.

Prima del carisma viene il Fatto

Non s’è mai chiesto nessuno come abbia fatto Don Giussani ad aggregare migliaia di giovani e non in tutto il mondo?

La Chiesa riafferma con forza che i laici non sono cristiani di “serie B”, ma discepoli del Signore chiamati a testimoniare la fede nella realtà di tutti gli uomini e di tutti i giorni: famiglia, società, scuola, lavoro, economia, politica, sanità…) “Essere laici e’ dunque una chiamata, una vocazione, un dono che viene da Dio e che invia a un compito alto e difficile: incarnare la fede e darle forma nelle realtà quotidiane“.

Senza la preoccupazione formativa e di un suo cammino permanente, metodico, integrato e completo, coloro che si ripropongono di testimoniare la loro fede nel sociale, e che desiderano educare altri a questo fondamentale compito, rischiano di cadere in un pragmatismo di cui oggi soffre la nostra società . Il Papa della Centesimus annus è molto esplicito:

“51. Tutta l’attività umana ha luogo all’interno di una cultura e interagisce con essa. Per un’adeguata formazione di tale cultura si richiede il coinvolgimento di tutto l’uomo, il quale vi esplica la sua creatività, la sua intelligenza, la sua conoscenza del mondo e degli uomini.

Egli, inoltre, vi investe la sua capacità di autodominio, di sacrificio personale, di solidarietà e di disponibilità per promuovere il bene comune.

Per questo, il primo e più importante lavoro si compie nel cuore dell’uomo, ed il modo in cui questi si impegna a costruire il proprio futuro dipende dalla concezione che ha di se stesso e del suo destino“.

Il laico Giorgio La Pira, sindaco di Firenze, già nel giugno del 1953 in un convegno per la pace indicava le basi ideali e i muri maestri ideali che devono sempre essere presenti:

  • “Il valore della persona umana – in Dio radicata -, vertice in qualche modo della creazione;

  • il valore della libertà umana, sigillo indistruttibile di perfezione;

  • il valore del lavoro, solida base di ogni duratura edificazione sociale;

  • il valore della preghiera e della poesia, apertura dell’uomo al cielo dell’eternità;

  • la missione ed il valore della città, dei popoli, delle nazioni, membra essenziali di quell’unico corpo sociale nel quale si articola e si sviluppa nei secoli, l’intera famiglia umana (Multi unum corpus sumus!)

Ecco, in qualche modo, le basi ideali e i  muri maestri ideali di questa civiltà che tutti ci accomuna. Sopra questa, già di per sè preziosa incomparabile ricchezza,  di valori, si è riversato come rugiada fecondatrice, il lievito redentore, santificatore e perfezionatore dell’evangelo”.Perché ho citato La Pira?  Perché è un laico che insegna a volare alto.

Ma veniamo a noi. L’ hospitalitas prima di essere un carisma è un Fatto, un Avvenimento, un’ Esperienza, una Persona: l’incontro con Gesù di Nazareth, il Figlio del Dio vivente, la folgorazione del Suo sguardo,  il “vieni e seguimi”, il “ti faro’ pescatore di uomini”, il “se vuoi…”

Sarebbe fuorviante pensare che sono parole rivolte solo ai chiamati al sacerdozio o alla vita consacrata…Si tratta delle scelte battesimali di coloro che divengono adulti e, dopo aver chiesto responsabilmente alla Chiesa la fede, ricevono con la sacra unzione crismale, il mandato di andare oltre i confini della terra, di prendere il largo.

Lui, l’Ospitante, farà di me una persona capace di ospitare, accogliere;  una casa, una porta aperta, una dimora… Se manca questa premessa, possiamo fare tutti i convegni del mondo, partecipare a tutte le Assisi Capitolari: tempo perso. Non lo dico per scoraggiare ma come stimolo per non illudersi  e illudere.

Quella che si vede nascere è una pianta selvatica che non potrà fruttificare se non innestata nell’albero buono. Già Paolo VI nella Octogesima adveniens esprimeva la sua preoccupazione: ” Ciascuno esamini se stesso per vedere quello che finora ha fatto e quello che deve fare. Non basta ricordare i principi, affermare le intenzioni, sottolineare le stridenti ingiustizie e proferire denunce profetiche: queste parole non avranno peso reale se non sono accompagnate in ciascuno da una presa di coscienza più viva della propria responsabilità e da un’azione effettiva. È troppo facile scaricare sugli altri la responsabilità delle ingiustizie, se non si è convinti allo stesso tempo che ciascuno vi partecipa e che è necessaria innanzi tutto la conversione personale”.

Predicare e curare

Sopra ho accennato alla CEI. Per il momento non si può’ che procedere schematicamente. Cosa chiedono i Vescovi col documento “Predicate il Vangelo e curate i malati” ? Una svolta storica fatta di gesti concreti, di segni credibili: essere tralci di un’unica Vite

  • per promuovere la salute (coinvolgimento di tutte le componenti del popolo di Dio nella pastorale della salute) n. 4

  • per dare voce alle chiese locali (sostenere l’integrazione della pastorale sanitaria nella pastorale d-insieme delle comunità cristiane) n. 4

  • per educare alla “speranza che non delude” (progettualità…itinerari formativi) n.4

Si tratta di mettere in evidenza le coordinate:

  • La grande tradizione, nata nella Chiesa “quale espressione del suo amore per l’uomo” (40).

  • La Chiesa “profezia della speranza”…(21).

  • Una comunità ospitale “che si prende cura”…(22) affinché la presenza delle istituzioni sanitarie cattoliche possa esercitare un influsso positivo sulla comunità ecclesiale e sulla società, occorre che vengano compiuti alcuni passi. Il primo porta le istituzioni a superare l’isolamento, rendendole sempre più visibili nella comunità ecclesiale.

  • La popolazione del territorio deve poter riconoscere in esse un punto di riferimento, uno strumento di sensibilizzazione ai problemi della salute, della morte, della vecchiaia e della disabilità.

  • Ciò costituisce il compito carismatico dei religiosi che le gestiscono: la missione loro affidata di servire i malati e di promuovere la salute appartiene a tutta la Chiesa.

  • A loro incombe il dovere di aiutare la comunità ecclesiale a diventarne maggiormente consapevole” (42)

Da dove cominciare? Il primo segnale di un cambiamento di rotta potrebbe essere la creazione di “gemellaggi”. I primi saranno timidi, poi si faranno più arditi. Se ogni ospedale o struttura sanante confessionale adottasse un ospedale, una struttura pubblica, nascerebbe un proficua sinergia d’intenti e di carismi che finiranno per stimolare e coinvolgere anche la comunità ecclesiale. Solo così sarà in grado di maturare nel suo seno la consapevolezza e l’importanza di ospitare i collaboratoti del vangelo che “predicano e curano”.

Da “Fatebenefratelli” Genn/Mar 2007

LA REAZIONE DEI LAICI: IL SASSO NELLO STAGNO/

 

ACQUA – NADiRinforma incontra p. Alex Zanotelli

 

NADiRinforma incontra p. Alex Zanotelli

 

Il 5 novembre 2008 presso la Casa dei Comboniani a Bologna abbiamo scambiato due chiacchiere con p. Alex Zanotelli partendo dalla spinosa questione “acqua libera di essere privatizzata” in quanto il Parlamento ha votato, il 5 Agosto del 2008 l’articolo 23 bis del decreto legge numero 112 con il quale scatta la privatizzazione dell’acqua. La follia collettiva sapientemente indotta e condotta che nutre un sistema globale completamente staccato dall’essere umano dove ci sta portando ? … e se provassimo a leggere il Vangelo ? Un libro scritto più di 2000 anni fa stranamente ed inspiegabilmente attuale … ascoltiamo p. Alex … e se ci venisse in mente qualche idea orientata alla salvaguardia di noi stessi e del pianeta ove viviamo ?!

Visita il sito: http://www.mediconadir.it

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MedicoN.A.Di.R. e NADiRinforma vi augurano un Felice Natale proponendovi alcune considerazioni di p. Alex Zanotelli. Quale persona più adeguata di lui può aiutarci nell’augurarvi “Buon Natale” ?!

  Un altro Natale non solo è possibile ma è urgente e necessario!
Boicottiamo il Natale dei pesciolini esotici: il Natale dei consumi, dei regali, degli affari, un Natale ‘pagano’ che ha ben poco da spartire con quel Bimbo che nasce in una mangiatoia  alla periferia dell’impero, fuori dell’acquario  anche lui indistinguibile volto nero in mezzo agli altri volti scuri. 
 

Diciamo no al consumismo vieppiù indotto e incentivato e diciamo sì alla festa natalizia della famiglia allargata a nonni, cugini, zii, nipoti  ma anche alla famiglia dell’immigrato che lavora per noi o che ci è più vicino.

Diciamo no al decadente e ripetitivo tango di regali, e diciamo sì ad un consumo critico,  al regalo fatto in casa con amore e con le proprie mani, o a quello equo e solidale  di lavoro fatto “in dignità”.

Diciamo no alla stupida pervasività televisiva e diciamo sì alle relazioni umane in famiglia, ritornando a raccontarci gioie e dolori e a riprendere confidenza con l’immaginario, la fiaba prendendo a cuore anche la bellezza del celebrare insieme il fascino del Natale.

Diciamo no alla violenza e alla guerra e diciamolo con fierezza, e diciamo sì alla pace e alla nonviolenza con evidenza mettendo bandiere arcobaleno ai nostri balconi e camminando con uno “straccetto bianco di pace”.

Solo così il Natale ritornerà ad essere  la festa della vita che farà rifiorire la speranza di un altro mondo possibile.
Coraggio, dunque, ci può ancora essere un Buon Natale!”

Guarda il filmatoNADiRinforma incontra

p. Alex Zanotelli

 

Il 5 novembre 2008 presso la Casa dei Comboniani a Bologna abbiamo scambiato due chiacchiere con p. Alex Zanotelli partendo dalla spinosa questione “acqua libera di essere privatizzata” in quanto il Parlamento ha votato, il 5 Agosto del 2008 l’articolo 23 bis del decreto legge numero 112 con il quale scatta la privatizzazione dell’acqua. La follia collettiva sapientemente indotta e condotta che nutre un sistema globale completamente staccato dall’essere umano dove ci sta portando ? … e se provassimo a leggere il Vangelo ? Un libro scritto più di 2000 anni fa stranamente ed inspiegabilmente attuale … ascoltiamo p. Alex … e se ci venisse in mente qualche idea orientata alla salvaguardia di noi stessi e del pianeta ove viviamo ?! >>>> segue

 L’assoc. MedicaN.A.Di.R. (Organizzazione di Volontariato – Onlus), nata per il trattamento dei DCA, nel tempo e con l’esperienza ha abbracciato nel processo di reintegrazione nel contesto sociale tutti coloro che si vivono disempowered . Gli individui disempowered non percepiscono le loro stesse potenzialità di espressione, non hanno sentore delle loro potenzialità e, tentando l’omologazione in virtù della ricerca dell’integrazione-accettazione sociale, vivono ed esprimono il loro disagio. Il disagio sociale si esprime per lo più attraverso sintomi che possono confluire in sindromi a carattere autolesivo: dipendenze, DCA, ansia inondante sino a debordare in attacchi di panico, depressione reattiva, incapacità di comunicare, incapacità a vivere il gruppo, la comunità con conseguente isolamento.

I gruppi esperienziali proposti dallo staff medico-psicologico di N.A.Di.R. aiutano a prendere coscienza delle proprie potenzialità, insegnano l’arte della comunicazione e dell’integrazione al di là del muro dell’omologazione. Le dinamiche stesse del gruppo favoriscono attraverso l’azione-specchio l’elevamento dell’autostima e l’interscambio stimolando le enormi potenzialità che le esperienze individuali rivestono per la crescita del gruppo stesso.

Il passaggio di conoscenze, gli stimoli a carattere sociale abbattono il muro dei pregiudizi, inducono l’attivazione del pensiero critico individuale, favoriscono l’apertura di un nuovo canale di comunicazione arrivando a costruire un assetto comunitario in divenire.

 

Assoc. Cult. NADiRinforma

Il progetto “Salute & Informazione”, sostenuto da MedicoN.A.Di.R. ed Arcoiris Tv inserito nel programma di empowerment clinico, da pseudopodo di MedicoN.A.Di.R., ha assunto vita propria trasformandosi in associazione culturale a seguito della riorganizzazione di Arcoiris Tv che a tutt’oggi si avvale del supporto di diverse redazioni sparse sul territorio italiano, NADiRinforma rappresenta la Redazione di Bologna.
L’Associazione si propone di favorire la diffusione di un’informazione libera, plurale e pluralista per la promozione e la divulgazione della cultura e della conoscenza, sulla base del principio dello scambio di informazioni, al di là di qualsiasi posizione ideologica, perseverando, così nell’azione di empowerment clinico promossa dal programma di MedicoN.A.Di.R.
A tal proposito, l’Associazione NADiRinforma vuole essere apartitica e aconfessionale, e ripudia ogni discriminazione basata sul sesso, la razza, la nazionalità e la religione. Sulla base di tali precetti l’Associazione intende:
>>>> segue

Quando si vive la propria DIVERSITA’, UNICITA’, in contrasto con ciò che l’ambiente richiede nasce quel DISAGIO che può portarci all’ ISOLAMENTO.Tendiamo a difenderci utilizzando alcuni comportamenti che rischiano di lederci

L’approccio di N.A.Di.R. è classificabile nell’EMPOWERMENT CLINICO persegue:

Lo sviluppo del senso di appartenenza.

Il coinvolgimento e la partecipazione del singolo nel gruppo – parte integrante di un processo in movimento.

L’impegno attivo e l’alleanza nell’azione.

Il supporto medico-psicologico è integrato da un ventaglio di attività che all’interno della comunità aperta si propongono di abbracciare, approfondire ed arricchire aspetti della vita individuale, familiare e sociale.

 

TUTTO POSSO IN COLUI CHE MI DA’ FORZA – Angelo Nocent

  

OMNIA POSSUM…

Kairòs 

 

“Una volta trovandosi  [l'Apostolo] in gravi strettezze, incarcerato per la confessione della verità, gli fu mandato dai fratelli quel che occorreva al suo bisogno e necessità. Rispose ringraziandoli e dicendo: Avete fatto bene a provvedere ai miei bisogni 12. Io infatti ho imparato a bastare a me stesso: so abbondare e so sopportare le privazioni; tutto posso in colui che mi dà forza; tuttavia voi avete fatto bene a venirmi incontro nelle mie necessità 13. Per dimostrare poi a che cosa egli mirasse plaudendo all’opera buona da loro compiuta 14 e per non rientrare nella categoria di quei pastori che pascono se stessi e non le pecore, eccolo godere non tanto per l’aiuto recato alle sue necessità quanto piuttosto per la fecondità degli offerenti. Che cosa dunque ricercava l’Apostolo? Dice: Non cerco doni, ma esigo frutti 15. Cioè: Non sono io che debbo essere ben provvisto, ma siete voi che non dovete rimanere infecondi.” (Dal Sermone 46 – Sant’Agostino) 

 

Chi ha i capelli bianchi come me,  dovrebbe poter affermare senza esitazione: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita che vivo nella carne, la vivo nella fede del figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20-21)

 

Non si scoraggino i giovani perché questo è un punto d’arrivo di un cammino lungo e non rettilineo. Chi vi scrive ha imboccato strade contorte, conosciuto soste, deviazioni, correzioni, riprese. Si sono alternati momenti di grazia con altri di fatiche e delusioni. Ma bisogna guardare a Lui: “attirerò tutti a me”. (Gv 12,32)

 

Oggi sono in vena di prediche. Ma sia chiaro: le faccio a me stesso, ad alta voce, per vincere la mia sordità. Che, se giungono all’orecchio anche di altri, è per via dell’eco.

 

Noi, io, siamo chiamati a ri-dire le parole del Signore. In quel “ripetermele dentro”, come Maria, perché non tutto mi appare immediatamente chiaro, a poco a poco mi trasforma il cuore. “Ella non capiva ciò che egli diceva, ma conservava tutte quelle cose e se le ripeteva nel cuore” (Luca 2,51).

Lo so fin troppo bene: tutto avviene nel tempo, col tempo, mettendovi del tempo, perché il discernimento dello Spirito non funzione come il caffè liofilizzato istantaneo.

 

Questa mattina, appena sveglio, mi ha preso questo pensiero insistente e martellante: “Ciascuno assuma la sua responsabilità di laico impegnato per il Regno di Dio e, pur nell’anonimato, si senta parte di una Fraternità più estesa, dilatata, nella quale dà e riceve”.

 

Cosa può significare? Il bene e il male che faccio ancorchè nessuono lo veda o lo sappia, ha ripercussioni nel Corpo di Cristo che è la Chiesa, il tessuto in cui vivo, mi muovo e sono. Ognuno di noi ha il suo posto e, quindi, anche il suo peso. Ma conosce anche il suo esodo, la sua prova.

Epperò io non sono mai solo: il sentirmi in COMPAGNIA… nella Chiesa di Dio che è di Santi perché Lui è il Santo, mi aiuta a superare e a riprendere la marcia proprio quando viene la tentazione di mollare.

  • · Sono parte di un Tutto.

  • · Se respiro con il respiro di Dio, se vedo con i Suoi occhi, io sono tralcio vivo di un’unica Vite.

  • · Se nelle mie vene circola il sangue di Cristo, i miei globuli rossi ben ossigenati dal suo Spirito mi danno una carica missionaria irresistible, ancorché ne fossi fisicamente impedito, vedi San Riccardo, Santa Teresa.

  • · Religiosi e laici, tutti in prima linea, insieme collaboratori della Verità, coinvolti nel progetto di Dio: questo siamo.

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 Ieri sera m’è girato di spedire al Priore Generale FBF questa lettera:

 

Al Rev.mo Priore Generale

dei Fatebenefratelli

Fra Donatus Forkan, O.H.

Sua sede – Roma 

 Milano, 9 Aprile 2008

 

Rev.mo Padre ,

 

sento il desiderio di esternarLe un sentimento che mi domina da due giorni: dirLe grazie per la pagina memorabile che ha deciso di indirizzare  ai Confratelli convocati a Monguzzo dal 3 al 5 Aprile 2008. Essa è destinata a ribaltare una situazione stagnante ma solo apparentemente irreversibile.

 

Aspettavamo da quarant’anni che fosse presa in seria considerazione un’istanza di base un tempo molto sentita, spesso rimasta soffocata e silenziosa ma sempre marcatamente sofferta e macerata nella Passione del Signore Risorto. Se, per i nostri gusti, le sue parole giungono un po’ in ritardo, nella logica dello Spirito, esse cadono al “momento opportuno”, giacché il kairòs di Dio si manifesta sempre nel momento maturo,  i Suoi tempi non sono i nostri ed i mezzi che usa, insindacabili.

 

Grazie, Padre, per quelle considerazioni benedette, chiare e precise e per i riferimenti biblici che Lei ha indirizzato ai religiosi ma, indirettamente, anche ai laici e alla Chiesa.

 

Il 2 Novembre 2007, liturgia dei defunti, dopo la festa della Comunione dei Santi, mi accorgo si aver aperto un nuovo blog, denominato http://frariccardo.splinder.com . Non avevo le idee chiare e, proprio perché andava ad aggiungersi ai già numerosi esistenti che assorbono tempo ed energie per seguirli, quest’ultimo mi sembrava davvero un di più…Ma, rileggendo quella pagina iniziale, mi rendo conto che dietro c’era una sollecitazione della stessa mano già manifestatasi altre volte e che non è il caso di riferire ora: quella di San Riccardo Pampuri.

 

santa-teresa-di-gesu-bambino-e-san-riccardo-pampuri-f1cd_11-150x150Se avrà il tempo e la bontà di leggerla, si accorgerà che anche la sua penna è stata in qualche modo pilotata da quella stessa “mente patrocinante”, che continua a lavorare con grande discrezione per la Terra e per i Fatebenefratelli. Lui che ha tanto parlato da laico ed è rimasto incredibilmente altrettanto silenzioso da religioso, continua ad operare profeticamente. Non significa nulla il fatto che abbia compiuto due miracoli determinanti, proprio nelle mani dei suoi Confratelli ?

 

Il primo è avvenuto nell’Ospedale di San Giusto, a Gorizia e il secondo all’Ospedale San Giuseppe di Milano, grazie alle invocazioni e sollecitazioni, in entrambi i casi, proprio dei suoi prediletti e in ospedali in cui aveva anche soggiornato anche da paziente, accettando  il disegno di Dio che gli chiede di sacrificare il suo 110 e lode in medicina e chirurgia per  assumere il ruolo di “malato”. E’ sconvolgente: da samaritano che era, è passato dall’altra parte, ossia nel ruolo di ”un tale”, incappato in una febbre subdola, ladrona, che lo spoglia, lo percuote, lo rende un morto ambulante, fino al tracollo, in via San Vittore, 12 a Milano.

 

Il 24 Ottobre 2008 San Riccardo celebrerà in Cielo l’ottantesimo di Professione Religiosa. Sarebbe un peccato lasciar perdere una data così rilevante, proprio per il clima e gli eventi che dominano la scena attuale.

Veda, Rev.mo Padre, di far tornare la sua urna nella Chiesa di sant’Orsola, a Brescia, dove ha fatto la vestizione, il noviziato, dove ha pregato, lavorato, servito, sofferto, emesso i voti religiosi, curato anche i seminaristi…La sua presenza, preparata per tempo, farà bene a tutti: ai religiosi, al clero, ai laici che operano nei servizi socio-sanitari, alla Chiesa locale, all’Università, agli Oratori che stanno vivendo proprio quest’anno la parabola del Samaritano con un titolo suggestivo: “Per CASO una LOCANDA”, Vedi: http://www.oratori.brescia.it/index.php

 

Sono certo che vorrà perdonare questa mia invadenza che origina dall’amore per la Famiglia Ospedaliera e che non può venir meno proprio in questo frangente difficile in cui s’è venuta a trovare.

Suo dev.mo

 

Angelo Nocent

 

 Michelini - 3 Trasfigurazione


Anche se per molti non è chiaro l’intento, ognuno partecipi  pregando ed offrendo” per le mani di Maria. Da Lei che ha in pugno le situazioni di ognuno, accettando la Sua mediazione, riceverà ispirazione e luce per i suoi passi-in-comunione.

Consigliera e maternamente vigile sui passi di ogni figlio, Lei ci incoraggia: “Fate ciò che Egli vi dirà” (Gv 2, 5

  • · Lazzaro, ti raccomando, fai pregare…Chi può, si colleghi con le sue diavolerie informatiche e si unisca al gruppo trascinatore. Questo è il sito: PREGA CON ME

  • · Lucia, non lasciarci e non stancarti: parlaci di quei meravigliosi “mascalzoni” di cui mi hai accennato, che amano lo Spirito Santo e hanno il Fuoco nelle vene…Ti ricordi?

  • · Coloro che penano, offrano per i progetti di Maria…

Disponiamo di una grande ricchezza: sono le nostre debolezze rovesciate nel Calice della Passione-Risurrezione del Signore, la grande Fornace ardente, la Centrale Termica – Fornax ardens caritatis – il Cuore pulsante dellUniverso.

Se me lo ricordassi più di sovente:

  • · “Omnia possum in eo qui me confortat”, TUTTO POSSO IN COLUI CHE MI DA’ FORZA (Filippesi, 4,13).

  • · Metto spazzatura nel suo Cuore e mi restituisce Energia pulita.

  • · Non è un miracolo della scienza e della tecnica ma dell’ Amore di Dio che ”ha tanto amato il mondo da dare il suo unico Figlio perché chi crede in lui non muoia ma abbia vita eterna”  (Giovanni 3,16).

 

 sk. trasfigurazione

 

La Trasfigurazione che preannuncia la passione, la morte e la Resurrezione di Cristo

http://digilander.libero.it/Mdvd86/mostra_foto.htm

 Trasfigurazione 144

TESTIMONI DELLA LUCE – Ermes Ronchi

luce

Testimoni della luce

di Ermes Ronchi

Avvenire 11/12/2008

III Domenica di Avvento Anno B

Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e levìti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaìa». (…).

Venne un uomo mandato da Dio…. per dare testimonianza alla luce.

Ecco cos’è un profeta:

  • testimone della luce e non dell’ombra;
  • annunciatore del bene non dello sfascio o del degrado del mondo;
  • sentinella del positivo non dei difetti o dei peccati che assediano ogni epoca e ogni vita;
  • testimone che ogni Adamo ha conservato in sé, sotto la tunica di pelle, una tunica di bellezza che il Messia, nei giorni più veri, riporterà alla vista e alla gioia di tutti.
  • Come Giovanni, io voglio testimoniare un Dio di luce, un Dio solare e felice, che ha fatto risplendere la vita (2 Tm 1,10), ha dato splendore e bellezza all’esistenza, ha immesso e continua a seminare frammenti di sole dentro le vene oscure della storia.
  • Io testimonio non obblighi o divieti, ma il fascino della luce;
  • profeta non della legge ma della grazia,
  • non della verità ma della bontà immensa che penetra l’universo,
  • di un Dio liberatore, che va in cerca dei prigionieri per rimetterli nel sole.
  • Con i miei peccati e le mie ombre, con tutte le cose che sbaglio e non capisco, con la mia fragilità e i miei errori, nonostante tutto, io posso essere testimone che «Dio è luce e in lui non vi sono tenebre» (I Gv 1,5);
  • che il mondo si regge su di un principio di luce, un principio di bene e di bellezza, che è da sempre, più antico, più profondo, più originale del male.
  • C’è una primogenitura della luce, nella Bibbia e nell’uomo: «in principio Dio disse: sia la luce».
  • Il mondo non poggia sul male o sul peccato, non si regge neppure su di un moralismo rigoroso e sterile, ma sulla primogenitura del bene che discende dal cuore di luce di Dio.

Tu, chi sei? Chiedono a Giovanni ed egli per tre volte risponde: io non sono. Maschere che cadono:

  • io non sono ciò che gli altri credono di me,
  • io non sono il mio ruolo
  • e nemmeno il mio peccato.
  •  
  • Io sono voce, un Altro è la parola;
  • io sono voce, trasparenza di qualcosa che viene da oltre, eco di significati che sono da prima di me, che saranno dopo di me.

Giovanni ha trovato la sua identità, ma in un Altro. Solo Dio svela quello che io sono in profondità: il mio segreto è oltre me. La sua venuta non mortifica ma incrementa la mia persona. A Natale Dio entra e l’uomo diventa un «nido di sole» (Turoldo). Venne un uomo mandato da Dio: ognuno è quest’uomo mandato, ognuno voce e sillaba della Parola, testimone che Dio c’è, che Dio è luce. E il tuo cuore ti dirà che tu sei fatto per la luce. (Letture: Isaia 61,1-2.10-11; Luca 1; 1 Tessalonicesi 5,16-24; Giovanni 1,6-8.19-28)

 

SUL BENEDICTUS [Terapia contro il sordomutismo] Pino Stancari s.j.

 

 

SUL BENEDICTUS

 

di Pino Stancari

 

 

Zaccaria, suo padre, fu pieno di Spirito Santo, e profetò dicendo:

 

  • Benedetto il Signore Dio d’Israele,
    perché ha visitato e redento il suo popolo,

  • e ha suscitato per noi una salvezza potente
    nella casa di Davide, suo servo,

  • come aveva promesso
    per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo:

  • salvezza dai nostri nemici,
    e dalle mani di quanti ci odiano.

  • Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri
    e si è ricordato della sua santa alleanza,

  • del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre,
    di concederci, liberati dalle mani dei nemici,
    di servirlo senza timore, 75in santità e giustizia
    al suo cospetto, per tutti i nostri giorni.

  • E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo
    perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade,

  • per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza
    nella remissione dei suoi peccati,

  • grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio,
    per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge

  • per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre
    e nell’ombra della morte

  • e dirigere i nostri passi sulla via della pace”.

 

Il fanciullo cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele. (Luca 1,67 -80)

 

 la profezia per eccellenza

 

Il Benedictus (Lc 1,67-79) è sempre presente nella preghiera quotidiana della chiesa: il popolo cristiano tutti i giorni, all’alba di un giorno nuovo, saluta il sole che sorge cantando come Zaccaria. Il Testo evangelico afferma che «Zaccaria, suo padre, fu pieno di Spirito Santo, e profetò dicendo..» Non dice: cantò, dice: profetò. Non è un verbo usato a caso da Luca. Profetò dicendo… Nella tradizione benedettina, che è poi la tradizione ispiratrice di tutta la storia della preghiera e della ricerca spirituale nella vita cristiana del mondo occidentale, quando si dice “profezia”, si intende il cantico di Zaccaria, Il Benedictus, dalla prima parola che in latino apre il canto. Il Benedictus, è la profezia per antonomasia, è la profezia per eccellenza.

 

 

 

 

la crisi del sacerdozio

 

E’ importante ricordare il contesto dell’episodio in cui si colloca il cantico: siamo giunti all’ottavo giorno della nascita del bambino e si tratta di circonciderlo e di imporgli il nome. C’è un problema per quanto riguarda il nome da assegnare al bambino, i parenti vorrebbero chiamarlo Zaccaria, il nome della famiglia, mentre la madre insiste: si deve chiamare Giovanni. Nessuno si capacita di questa sua determinazione. Interrogano Zaccaria, il padre, e lo interrogano passando attraverso quella distanza segnata dallo stato di mutismo e di sordità in cui Zaccaria si trova. Zaccaria è muto, e deve essere anche sordo, se è vero che gli domandavano con cenni come voleva che si chiamasse il figlio. Zaccaria per rispondere scrive: Giovanni è il suo nome. Tutti furono meravigliati: «In quel medesimo istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio».

 

Il cantico riportato successivamente è l’ingrandimento di questo versetto, esso affiora sulla bocca di Zaccaria nel momento in cui lo stato di mutismo e di sordità, di cui è prigioniero, viene rimosso. Non è più muto e non è più nemmeno sordo. Non è più distante dagli altri e dall’ambiente che lo circonda. Non è più prigioniero di quell’ incomunicabilità in cui si è trovato relegato. Zaccaria canta, o meglio, Zaccaria sta profetando.

 

Il cantico segna il passaggio dal silenzio profondo in cui Zaccaria si trovava ad una nuova capacità di relazioni con gli altri, con l’ambiente, con il mondo, con la storia umana. Questa nuova relazione che rimuove lo stato antecedente di mutismo e sordità, dipende certamente dalla relazione con il Signore. Che cosa è successo? Ma chiediamoci prima ancora: come mai Zaccaria è muto?

 

Dopo il prologo del suo vangelo Luca ci informa che «al tempo di Erode, re della Giudea, c’era un sacerdote chiamato Zaccaria, della classe di Abìa, e aveva in moglie una discendente di Aronne chiamata Elisabetta. Erano giusti davanti a Dio, osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore. Ma non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni».

 

Questa è la situazione: Zaccaria è sacerdote, sposato con Elisabetta, non ci sono figli. Sterilità di ordine biologico. Altri casi del genere sono segnalati nella storia della salvezza, non è una novità. Ma questa sterilità ha delle caratteristiche del tutto singolari: Zaccaria viene messo in scena nel racconto evangelico nel momento in cui svolge una funzione pubblica. Zaccaria è sacerdote, Zaccaria svolge un ministero che ha un significato strutturale nella vita e nella storia del popolo, nella relazione tra Dio e il suo popolo, relazione sintetizzata nella dinamica dell’alleanza. E’ per un motivo di amore che Dio ha scelto il suo popolo e ha donato la legge, per ottenere dal suo popolo la risposta secondo il suo gradimento: da Dio al popolo il dono della legge, dal popolo a Dio la risposta del culto, la risposta con cui le creature umane possono accostarsi a colui che è il Santo. Ed è in questo incontro con il Santo che è possibile prendere contatto con la sorgente della vita, dall’incontro con il Santo scaturiscono, infatti, tutte le benedizioni.

 

Il sacerdozio è quella struttura di mediazione che garantisce il buon funzionamento del culto. Il popolo è in grado di presentare a Dio l’offerta che Dio gradisce, attraverso il ministero sacerdotale; è attraverso la presenza, il gesto, la parola, il servizio del sacerdote che dal Santo viene riversata sul popolo la benedizione di cui tutti hanno bisogno per vivere.

 

Sono due movimenti fondamentali che caratterizzano il funzionamento del sacerdozio. Il primo è un movimento ascensionale: il sacerdote avanza, sale, porge l’offerta. Se non ci fosse il sacerdote non sapremmo come procedere, non sapremmo quale itinerario seguire, come presentarci. E’ necessaria la presenza del sacerdote che svolge un ruolo imprescindibile nel contesto dell’alleanza: attraverso di lui l’offerta viene presentata fino a prendere contatto con il Santo.

 

Il secondo movimento è discendente. C’è un movimento ascensionale, o offertoriale e c’è un movimento benedicente. Il sacerdote ritorna al popolo e impartisce la benedizione. E’ in quanto esiste questa struttura di mediazione, che consente il contatto tra il popolo e il Dio vivente, che l’alleanza realizza i frutti che erano stati programmati fin dall’inizio. Per questo Dio ha fatto alleanza con il suo popolo, per coinvolgerlo in una relazione di vita. Questo dinamismo è realizzato in pienezza tramite la funzione del sacerdote, che avanza e ritorna, che offre e benedice, che ascende e discende. Se il sacerdozio non funziona, tutto il meccanismo salta per aria, o comunque è inutile: è sterile. Qui è in questione non semplicemente la sterilità biologica di una coppia, una storia privata, qui è in questione la sterilità dell’alleanza che è sintesi di tutta la storia della salvezza, per come Dio si è rivelato al suo popolo.

Zaccaria viene colto nel momento in cui sta compiendo un atto ufficiale, l’atto più prestigioso che possa mai possa essere compiuto da un sacerdote. 

Quel giorno «Zaccaria officiava davanti al Signore nel turno della sua classe». I sacerdoti non sono sempre in funzione. Entrano in funzione due volte in una settimana, nel corso dell’anno. Sono 24 classi, composte da alcune centinaia di sacerdoti, che si avvicendano di settimana in settimana. E’ un lavoro piuttosto massacrante quello che svolgono, oltre alle altre cose da fare, come la famiglia, i loro interessi ecc. Ogni classe entra in funzione per una settimana. Sono 24 classi, 48 settimane in un anno lunare, nel corso dell’anno 2 settimane, e ogni giorno viene sorteggiato il sacerdote che entrerà nel Santo, ne varcherà la soglia, il primo velo, e offrirà l’incenso alla sera di quel giorno. Un unico sacerdote compie questo gesto. Viene sorteggiato appositamente. Può darsi che ci siano sacerdoti che nel corso della loro vita una volta hanno compiuto questo gesto.

 

E’ un momento solennissimo, di forte commozione, il popolo è in attesa, poi vengono i momenti di partecipazione corale.. Ecco: il sacerdote entra nel santuario, varca il primo velo. Questo avviene ogni giorno. Il sommo sacerdote, lui solo, una volta all’anno entra nel Santo dei Santi, varca il secondo velo per la festa della grande espiazione, il Kippur, ma quotidianamente un sacerdote varca il primo velo ed entra nel santuario. Lì c’è la lampada a 7 braccia, la Menerà, lì c’è l’altare dei profumi, là il tavolo su cui vengono esposti i pani e sull’altare dei profumi viene bruciato l’incenso. Questo è il gesto che Zaccaria sta compiendo. Non è casuale che sia messo in scena all’inizio del vangelo secondo Luca proprio in questo in questo frangente, nell’atto di compiere un gesto così solenne dal punto di vista liturgico, che fa del sacerdote il centro della relazione tra il popolo e Dio.

 

Quando il sacerdote esce dal santuario, proclama la grande benedizione. Il testo della benedizione sacerdotale è nel libro dei Numeri al cap. 6, il Signore ha spiegato queste cose a Mosè, e Mosè le ha insegnate a sua volta ad Aronne, che è il capostipite di tutti i sacerdoti:

«Voi benedirete così gli Israeliti; direte loro:

Ti benedica il Signore e ti protegga.

Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio.

Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace». 

Questa è la formula della benedizione. Per 3 volte viene proclamato il nome del Signore sul popolo. Non si sa bene se in epoca antica il nome del Signore fosse pronunciato. Certo dall’epoca rabbinica in poi il nome del Signore non viene più pronunciato. «Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò». La benedizione è descritta in questa maniera: è il nome del Signore che cala, che si posa, che prende contatto con la presenza del popolo:

«Ti benedica il Signore e ti protegga.

Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio.

Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace».

 

Questo testo torna nella nostra preghiera liturgica, e ritorna anche nella devozione cristiana nel corso dei secoli, basti pensare a san Francesco di Assisi.

Il sacerdote esce. Quando Zaccaria esce dopo avere compiuto il gesto della offerta del profumo d’incenso bruciato sull’altare, è muto. Questo vuol dire che non può benedire. Il mutismo e la sordità di Zaccaria mettono in evidenza una situazione sconvolgente: se la benedizione non viene pronunciata sul popolo, l’alleanza non funziona più, la relazione fra Dio e il suo popolo deve arrestarsi dinanzi a una contraddizione, c’è un ostacolo, c’è una barriera invalicabile, c’è una distanza incolmabile: sterilità.

 

In questione non è semplicemente la sterilità di Zaccaria o di sua moglie; è una coppia di gran brava gente, credenti impegnati nelle cose di Dio, che invecchiano senza figli. Il punto è che sterile è il funzionamento del sacerdozio nell’ambito di una storia che è stata predisposta proprio per rendere fluente e intenso un rapporto di amore, di vita tra Dio e il suo popolo. Ebbene il sacerdozio non funziona…. E perché non funziona? Perché Zaccaria è muto. Appena Zaccaria ritrova l’uso della parola benedice Dio, gli è rimasta la benedizione bloccata in bocca. E non è un guaio semplicemente suo, è un problema del popolo in quanto tale, di una storia che sembra sfumare nella intimità più tragica; una storia inutile, una fatica inconcludente.

 

Zaccaria è muto. Mentre si trova nel santuario per offrire il profumo, incontra l’angelo Gabriele che gli annuncia la nascita del figlio. Non si tratta semplicemente dell’annuncio che deve dare consolazione ad un povero anziano che oramai si era messo l’animo in pace, e forse stava scivolando sempre più tristemente nella disperazione.. L’annuncio dell’angelo a Zaccaria riguarda il senso della relazione tra Dio e il suo popolo, riguarda l’impostazione di tutta la storia della salvezza, riguarda il funzionamento dell’alleanza. A questo riguardo Zaccaria è in ritardo; in un certo senso, il fatto che l’angelo gli annunci che nascerà a lui e a sua moglie un figlio, non sembra scomporlo più di tanto. E l’angelo insiste: vedi che io ti parlo di queste cose non per manifestare un segno di benevolenza a tuo riguardo, ma proprio perché è in questione il tuo sacerdozio. Tu ora sei muto. Zaccaria è muto, è il sacerdozio che non si può più esprimere come strumento di benedizione. Zaccaria esce fuori dal santuario, il popolo sta in attesa, si meraviglia, è sconcertato per il suo indugiare nel tempio. Uscito, il sacerdote non può parlare loro. Nel racconto è messo in risalto questo particolare: non poteva benedire, allora capirono che era successo qualcosa di strano. Se ne vanno quatti quatti, con la coda tra le gambe, perché non c’è la benedizione.

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l’annuncio della salvezza

 

Zaccaria torna a casa con tutti i giorni del suo servizio e dopo quei giorni Elisabetta concepì. Anche qui una stranezza. Noi diremmo: dovrebbe fare salti di gioia, dovrebbe telefonare a tutte le amiche e le parenti, anche più lontane, tutto il mondo dovrebbe conoscere questa novità straordinaria che ha consolato la sua vita. E invece non è così: concepì e si tenne nascosta per cinque mesi. Elisabetta dice: qui è in questione la mia vergogna tra gli uomini. Strano. Noi sappiamo che la situazione si sblocca nel momento in cui l’angelo Gabriele si presenta a Maria nella casa di Nazaret e le dice: vedi, tu sei madre e tua cugina ha concepito ed è giunta al sesto mese. Maria fa la visita a sua cugina. La situazione si sblocca così, ma per 5 mesi, siamo giunti al sesto, Elisabetta si è tenuta nascosta, perché deve fare i conti con la sua vergogna. Fosse soltanto la soddisfazione di mettere al mondo un uomo, dovrebbe gongolare, lei e, accanto a lei, suo marito, il quale è addirittura muto e sordo, quasi una specie di larva umana, accantonata in un angolo della casa, che non serve più niente e non solo come sacerdote. Il fatto è che ha senso mettere al mondo un uomo solo nella prospettiva dell’alleanza; ha senso mettere al mondo un uomo solo nella storia della salvezza, una storia di amore. Al di fuori da questa prospettiva, mettere al mondo un uomo è una vergogna prolungata, diffusa, di vergogna in vergogna. Perché mettere al mondo un uomo quando la vergogna domina la scena della storia umana?

 

La situazione si sblocca quando Elisabetta riceve la visita di Maria, e il bambino che Elisabetta porta in grembo sussulta, si agita, le trasmette un impulso di gioia che subito Elisabetta sa interpretare. Da parte sua si rende conto che Maria è madre, nessuno l’ha informata: tu sei madre. Tra madri si intendono nella prospettiva di una maternità che non è semplicemente la soddisfazione di mettere al mondo una creatura, ma è generata per quella storia di amore che Dio ha voluto e realizzato. Siamo madri in obbedienza ad un bisogno di fecondità che è per la vita, non per la vergogna; che è per la salvezza, e non per il fallimento. Tu sei madre del Signore, dice Elisabetta, il bambino che porto in grembo ha esultato di gioia, benedetta tu fra le donne. Maria, che è stata visitata dall’angelo, da Dio, porta in grembo il figlio che ha concepito, visita sua cugina Elisabetta.

 

La scena evangelica è icona rappresentativa di quel disegno che si compie nel corso di tutta la storia della salvezza fina alla pienezza dei tempi: è la visita di Dio che entra nella storia umana per portare a compimento la sua intenzione di amore. E’ questa visita di Dio che diventa evangelo, che diventa quel particolare modo di entrare nella casa di Elisabetta, quel particolare modo di salutare, di cantare con cui lei stessa, Maria, madre del Signore, si esprimerà nel Magnificat.

 

L’evangelo rompe la sterilità. Fosse semplicemente un problema di ordine fisiologico, si potrebbe ancora affrontare e risolvere, ma non è così. L’evangelo rompe, apre, l’evangelo interviene con l’urgenza della visita che porta in sé la misteriosa potenza, tutta la travolgente dolcezza del Dio vivente. Maria nella casa di Elisabetta e di Zaccaria, è giunta nella montagna di Giuda, saluta.

 

Arriviamo così al Benedictus, Elisabetta esce dallo stato di vergogna in cui era nascosta. Ancora 3 mesi di gravidanza, poi il parto: nasce. E nasce non semplicemente il figlio, nasce il figlio redento, nasce il figlio che appartiene a quella novità che Dio ha introdotto nella storia umana, visitando le sue creature per la salvezza. Questo figlio che nasce è profeta, cioè colui che prende posizione in rapporto alla visita, si accorge del fatto che Dio è presente, che Dio è operante, e si atteggia di conseguenza. Sarà col suo vissuto, sarà con le parole i gesti di cui è capace, sarà anche assumendosi delle responsabilità, ma queste sono tutte specificazioni ulteriori. Profeta nella sua forma primigenia è ogni uomo che scopre di essere chiamato da Dio, di essere coinvolto in una relazione, di essere destinatario di una visita e spettatore di una visita che riguarda la storia umana. Magari il profeta queste cose non le sa dire, non sa come spiegarle, ma ci è calato dentro con tutta la sua vita.

visitazione 2 

 

la visitazione

 

Nella nostra tradizione devozionale il mistero cui siamo dinanzi si intitola: visitazione. E’ una visita. E’ un latinismo usato non casualmente, proprio perché si vuole dare al significato di quella visita un’intensità teologica: non è una visita qualunque, non è un segno di benevolenza, non è la disponibilità di una donna servizievole, come Maria, che, informata della gravidanza della cugina, la soccorre. Tutte queste sono considerazioni di contorno, ammennicoli dolciastri che servono alla predicazione più onesta. Non è una visita, è una “visitazione”, proprio perché quella visita ha un significato più cogente, più intenso, ha un significato teologico: è la visita di Dio che rende benedetta la fecondità della donna che genera un uomo, perché genera un profeta. Non genera più un uomo, ma un profeta. Genera un uomo coinvolto in quella novità di cui Dio è l’autore, un uomo salvato, un uomo redento, un uomo messo in grado di reagire, di corrispondere, di accogliere la visita e di adeguarsi ad essa.

 

Elisabetta già lo dice nel momento in cui accoglie il saluto di Maria: il bambino che porto in grembo si è agitato. Fino a quel momento sembra che il bambino sia rimasto tranquillo e pacifico, avvolto nel suo nascondimento e nella sua invisibilità nel grembo di sua madre, madre assai problematica, come si è visto. Adesso il bambino si è scatenato. Ed è questo scatenarsi della gioia nel grembo di Elisabetta che le dà motivo di reinterpretare totalmente la sua maternità, e, di riflesso, la maternità di Maria: a che debbo che la Madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo.

 

Facciamo un passo indietro: l’angelo aveva detto a Zaccaria: sarà profeta fin dal grembo di sua madre. Già eravamo orientati in questa direzione. Il testo rievoca quanto già si diceva nell’AT a proposito di altre grandi figure profetiche, come Geremia o il deutero Isaia: profeta fin dal grembo di sua madre.

 

Il bambino è nato, la circoncisione 8 giorni dopo, e Zaccaria è interpellato: si chiama Giovanni. Così l’angelo lo aveva presentato al padre: nascerà il figlio, si chiamerà Giovanni, si chiamerà profeta fin dal grembo di sua madre. Zaccaria non si rendeva conto, scalpitava, sprofondato in quello stato di mutismo che lo aveva isolato in maniera sempre più amara. Adesso il figlio è nato: si chiama Giovanni. Zaccaria ritrova l’uso della parola. E’ finito il tempo del grande silenzio, è finita la notte, il tempo del buio. La tradizione orante della chiesa, come si è detto, colloca il Benedictus ogni mattina, all’alba.

 

Siamo veramente usciti fuori dal tunnel, innanzi a noi la luce che sorge, alla quale non ci si può più sottrarre. Ormai il tempo del silenzio, della vergogna, della solitudine, il tempo della storia umana come successione di fallimenti senza risultati è finito.

 

L’evangelo fa di ogni bambino che nasce da grembo di donna un profeta, un uomo chiamato ad accogliere la visita di Dio. Zaccaria, ritrovato l’uso della parola, pieno di Spirito Santo profetò dicendo… Non è tornato indietro, non è semplicemente tornato nei suoi panni prima di quel disastro, di quella malattia, di quell’ictus che gli ha tolto l’uso della parola in modo così inopinato e sconveniente, tra l’altro impedendogli di esercitare il ministero sacerdotale.

 

Adesso ha trovato l’uso della parola, ha acquisito dignità di profeta. Questa profezia che adesso contrassegna Zaccaria viene messa in risalto in rapporto a quella che sarà la profezia di Giovanni. Un bambino, per ora, appena nato. E’ una novità profetica quella che segna la vita di Zaccaria, da cui dipende il suo stesso sacerdozio e da cui dipende ogni altra vocazione nel popolo di Dio, e nella storia dell’umanità. Non c’è vocazione che non sia segnata da questa stretta profetica.

 

Ogni chiamata degna di Dio fa di un uomo nella sua particolare condizione, nella sua particolare situazione, nel suo momento, nel suo luogo, nelle sue responsabilità, un profeta. 

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il cantico: passato e futuro

 

Il cantico si può dividere in due parti: la prima parte (vv. 68-75) è caratterizzata dall’uso di verbi al passato; la seconda parte (vv. 76-79) è caratterizzata dall’uso di verbi al futuro. C’è un perno tra la prima e la seconda parte:

«E tu bambino sarai chiamato profeta dell’Altissimo».

 

Il cantico è incorniciato all’interno di un doppio uso del verbo episkeptomai, che vuol dire visitare: “Benedetto il Signore, Dio d’Israele, perché ha visitato..”, al passato, all’inizio; “verrà a visitarci”, al futuro. E’ la cornice che inquadra tutto il cantico: è la visita. Ci ha visitati, ci visiterà. E’ il senso della storia umana, dal passato all’avvenire, ogni memoria e ogni aspettativa. Tutto prende senso in quanto diventa interpretazione di una storia ormai visitata da Dio, che recupera, visitandolo, il nostro passato e già imposta il nostro avvenire. La memoria ci riconduce a Lui, visitatore nostro, episkopos; la nostra spinta verso l’avvenire ci conduce fino ad incontrarlo come colui che viene a visitarci. Non c’è altra storia. L’evangelo fa di noi dei profeti e Zaccaria sta profetando.

 

Ritorniamo indietro. Prima parte del cantico, tre brevi strofe. Prima strofa: vv. 68-69:

«Benedetto il Signore Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo, e ha suscitato per noi una salvezza potente nella casa di Davide, suo servo».

 

Questo è il motivo per cui benediciamo il Signore, perché ha visitato. E’ una visita operosa, efficace: ha redento il suo popolo, ha suscitato per noi una salvezza potente. Il termine soterìa, salvezza, ritorna altre 2 volte nel cantico nel v. 71 e nel v. 77. La visita di Dio determina questo effetto nella storia degli uomini: si chiama salvezza. Quando Dio ci ha visitati, questo è stato il risultato che abbiamo potuto cogliere e di cui siamo stati destinatari. Salvezza è un termine che qualche volta per noi diventa un poco vago, astratto. Salvezza è il termine che serve ad indicare la situazione in cui si trova qualcuno che era stretto in un angolo, in uno spazio circoscritto, in un ambiente un po’ soffocante, ed ecco gli si fa largo d’intorno, gli si aprono delle strade, si spalanca l’orizzonte..; una barca e un bastimento in secca e poi ecco di nuovo galleggia e può intraprendere le rotte più impegnative. Salvezza. Per coloro che erano intrappolati dentro situazioni di ristrettezza, di avvilimento, di schiacciamento, di soffocamento, adesso uno spazio nuovo.

 

il cantico: i nostri nemici

 

Seconda strofa: vv. 70-71. Questa seconda strofa precisa che l’effetto dalla visita di Dio, ossia la salvezza, è quanto già era stato promesso fin dall’epoca più antica; promesse che adesso siamo in grado di ricordare, rievocare, di ricostruire, promesse di cui forse ci eravamo dimenticati, che forse avevamo addirittura trascurato, forse addirittura considerato come degli imbrogli, per cui le avevamo messe da parte. Ed invece quelle promesse vanno rievocate perché si sono compiute.

«Come aveva promesso per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo: salvezza dai nostri nemici, e dalle mani di quanti ci odiano».

 

Tutti quanti ci odiano: questa è una citazione del Salmo 106, il cantico è un intarsio di citazioni anticotestamentarie. La salvezza è criterio che ci consente di reinterpretare tutta la storia del passato, è la storia impostata a partire da delle promesse che adesso si sono compiute: salvezza dai nostri nemici.

I “nemici” compaiono qui nel cantico. I “nemici” compaiono in lungo e in largo nel libro dei Salmi. Li incontriamo tanto spesso e qualche volta ci sentiamo un po’ imbarazzati. Possibile che ci siano tanti nemici e che sbucano in tutti gli angoli e ce li troviamo sempre tra i piedi? Vorremmo insomma affrontare il cammino della vita cristiana, almeno il cammino della preghiera in modo un po’ più pacifico, un po’ più disinvolto, un po’ più amichevole e senza inimicizie. E lì, invece, nemici da tutte le parti. Per “nemici” bisogna intendere situazioni di fatto dalle quali noi comunque non possiamo prescindere, ossia i limiti della nostra condizione umana che comunque ci contengono, ci stringono: limiti di ordine fisico, psichico, emotivo; limiti nel tempo e nello spazio; limiti nelle relazioni, in cui certamente sono implicati anche gli altri, relazioni di tipo familiare, sociale, politiche. Limiti, insufficienze, slittamenti, regressioni, contraddizioni: i nostri “nemici”. Io sussisto nel tempo e nello spazio, ma il tempo e lo spazio che mi definiscono e mi delimitano. La storia a cui appartengo, la lingua che parlo, la cultura di cui sono impregnato: tutti limiti. Ebbene, quando si parla della salvezza dai nostri “nemici”, vuol dire che non sono più i miei limiti che mi definiscono. I limiti ci sono, certo, ma io non sono più prigioniero dei miei limiti: salvezza.

 

Terza strofa: vv. 72-75.

«Egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre».

Tutto questo già lo sappiamo, è la storia della salvezza già impostata fin dall’inizio, mediante il dono delle promesse: Abramo, i Patriarchi, e poi ecco lui si è ricordato, lui ha portato a compimento. Il giuramento, la promessa «di concederci, liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni».

 

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il cantico: liberàti dalla paura della morte

 

Qui Zaccaria sta considerando il nemico per eccellenza: quel limite che contiene tutti i limiti, che li sintetizza tutti, che li attrae a sé, li sottolinea, li esalta, in modo definitivo, quel limite è la morte. Non soltanto la morte come scadenza ultima che sta dinanzi a noi, ma la morte in quanto anticipata dalla nostra paura di morire. La nostra paura di morire fa di noi dei prigionieri, degli ambulanti che sono preda dei nemici e del nemico che incalza e domina la scena della nostra cosiddetta vita: abbiamo paura di morire. Lo dice san Paolo in 1Cor 15: è l’ultima nemica, la morte. E’ la nemica estrema, è la nemica che ricapitola tutte le altre forme di inimicizia, è il limite per eccellenza: la mia morte. Ed è un limite anticipato nella paura di morire che diventa condizionamento intrinseco di quelle che pure sono le manifestazioni vitali della mia esistenza. Ma già è come se l’ombra della morte mi intrappolasse.

 

Ecco qui esplicitato il contenuto di quella salvezza che è effetto della visita: la liberazione dalla morte, liberazione dalla paura di morire, il giuramento «di concederci, liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza paura (aphobos, è un avverbio), in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni». Noi non siamo più trattenuti dalla paura, siamo ormai sottratti alle grinfie della morte, che sta dinanzi a noi, ma già incalza dall’interno il procedere dei nostri giorni. Noi siamo liberati dalla paura per servirlo, e qui il verbo ha un significato liturgico nella traduzione in greco dell’AT.

 

E’ interessante che questo verbo compaia adesso sulla bocca di Zaccaria, che è un esperto a riguardo di queste cose. Noi siamo messi in grado di avvicinarci a Lui, di superare le distanze: in santità e giustizia, al suo cospetto per tutti i nostri giorni. Siccome siamo liberati dalla paura, possiamo farci avanti. Questo è il gesto che è prerogativa del sacerdote: si fa avanti.

 

Questo gesto viene prospettato da Zaccaria a tutti coloro che sono stati salvati in seguito alla visita di Dio. Siamo stati liberati dalla paura di morire e siamo messi nella condizione di comparire dinanzi alla presenza del Santo e del Vivente per servirlo. Questa nostra esistenza umana, limitatissima con tutte le contraddizioni che porta in se stessa, con tutti i compromessi da cui non veniamo mai fuori interamente, questa nostra esistenza umana è liberata e noi ne possiamo fare un’offerta gradita al vivente, al Santo, per servirlo senza più paura, in santità e giustizia, al suo cospetto per tutti i nostri giorni. Questo è il tema tipico della teologia sacerdotale: comparire davanti alla sua presenza, al suo cospetto, varcare il velo per comparire là dove il Santo ci attende. Ed è Lui stesso che ci viene incontro, ed è lui stesso che irrompe con tutta la ricchezza gratuita della sua benedizione.

E qui il perno centrale:

«E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo».

 

Zaccaria si sofferma a considerare il bambino che è nato da otto giorni. E’ Giovanni Battista, sarà il profeta per antonomasia. E’ interessante questa identificazione tra il bambino e il profeta: i bambini sono profeti, sono i primi a reagire, a percepire le cose nuove, a intuire che una visita è in corso. Ed è anche vero che se non ci sono tanti bambini in circolazione, questo inevitabilmente vuol dire che ci sono pochi profeti. Viceversa il profeta è sempre bambino. E’ nella sua apertura di cuore pronto ad accogliere la visita. Giovanni Battista viene descritto in questo modo.

vv.76-77: «E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati».

 

Adesso i verbi sono al futuro. Chi è il profeta? Profeta è colui che va incontro al Signore. Non è precursore nel senso che lo precede, che gli fa strada, ma nel senso che gli va incontro. Il profeta è colui che trascina dietro di sé un popolo di peccatori, in questo senso è veramente consolatore per antonomasia; è colui che spinge, che si prende cura di testimoniare a tutto un popolo come la strada sia aperta per andare incontro al Signore. Non c’è motivo per restare a distanza, per temere l’incontro. Il suo compito è “dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati». Il profeta è nel popolo per testimoniare che la strada è aperta in vista di quell’incontro che realizza la remissione dei peccati.

 

 

il cantico: per viscera misericordiae

 

Seconda strofa: vv. 78-79: «grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte e dirigere i nostri passi sulla via della pace».

L’ultima parola del cantico è il termine pace, che è anche l’ultima parola della benedizione sacerdotale in Numeri 6. E’ come se Zaccaria, avendo ritrovato l’uso della parola, avesse veramente ritrovato il gusto della sapienza e della benedizione sacerdotale: cantando così e profetando così, sta realizzando in pienezza il suo ministero sacerdotale.

 

La prima strofa ci presentava il profeta come colui che trascina dietro a sé un popolo di peccatori, perché la remissione dei peccati è già realizzata e nessuno può tenersi in disparte, tenersi indietro, rifiutare l’incontro. E adesso dice: per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre. Espressione interessante. In greco dice: dia splankna eleous, la traduzione in latino alla lettera diceva: per viscera misericordiae, attraverso viscere di misericordia. Per cui egli verrà a visitarci dall’alto come un sole che sorge. Attenzione a questo “dall’alto”: è dall’alto, ma anche dal profondo, dal di fuori, ma anche dal di dentro. Che vuol dire dall’alto? Da destra, da sinistra? Dal passato, e dall’avvenire, viene a visitarci, come sole che sorge. Perché? Perché il profeta sta spiegando al popolo che il cammino nel quale siamo impegnati è l’attraversamento di un grembo, il grembo della misericordia di Dio. Non è soltanto un incontro che si prospetta dinanzi a noi peccatori che possiamo farci avanti perché c’è colui che viene e che ci ha rimessi i peccati.

 

Noi ci guardiamo attorno, guardiamo al passato e guardiamo all’avvenire, guardiamo fuori e guardiamo dentro di noi, guardiamo ai lontani e guardiamo ai vicini, guardiamo a quelli che fanno parte di noi, guardiamo a noi stessi e in tutte le direzioni, dovunque guardiamo il nostro sguardo, comunque ci muoviamo, in qualunque direzione ci smarriamo e precipitiamo, noi cadiamo nel grembo della misericordia. Noi stiamo attraversando il grembo. Anzi, se abbiamo l’impressione di essere ancora la buio è perché non siamo ancora nati; se urtiamo contro una barriera, è la parete del grembo; e se stiamo inciampando, è perché stiamo ruzzolando come il piccolo Giovanni nel grembo di sua madre. E la madre non ha alcun dubbio: quel razzolamento del bambino nel suo grembo è espressione di una gioia profetica.

 

Noi stiamo attraversando le viscere della misericordia, ci stiamo dentro: terreno sotto i miei piedi, soffitto sopra di me. Il cielo, l’abisso più profondo. Da dove venga e dove va, fuori e dentro, noi stiamo percorrendo l’itinerario della creatura che viene alla luce e il grembo che già ci avvolge, ci contiene, che già ci fa vivere e che già preme su di noi per farci nascere, è il grembo della misericordia, il mistero del Dio vivente. Così verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre. In questo sta il significato della uscita dalle tenebre, dall’ombra della morte per dirigere i nostri passi sulla via della pace. E’ la luce del giorno che sorge per non tramontare mai più ed è quella luce che sorge per spiegarci come le tenebre erano già in modo straordinariamente fecondo e pacificante rivelazione della misericordia eterna del Dio vivente.

 

 

Santuario della Visitazione

Sul muro posto di fronte a questa facciata sono esposte due versioni del Magnificat

 

 

in lingua ebraica

 

e in lingua italiana

 

Monastero francescano di S. Giovanni Battista.
Sul muro posto di fronte a questa facciata sono collocate le versioni
nelle varie lingue del Cantico di Zaccaria, il Benedictus (Luca 1,57-80).

IMMAGINI di Claudio Elidoro

http://digilander.libero.it/elidoro/terrasanta/ainkarem_2.html

E’ autorizzato il libero uso di queste immagini per fini non commerciali.
Nel caso di utilizzo è comunque gradita la segnalazione della provenienza.

 

LA PAROLA SIA CON TE – Quando…quando…quando…

 

LA PAROLA DI DIO SIA CON TE QUANDO…  

Bach: Air from Suite No.3 (Air on a G String)

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Quando ti senti triste, leggi:

  • i Salmi 33; 40; 51;  
  • il Vangelo di Giovanni, cap. 14.

Quando gli amici ti abbandonano, leggi:

  • i Salmi 26; 35;  
  • il Vangelo di Matteo, cap. 10;  
  • il Vangelo di Luca, cap. !7;  
  • la Lettera ai Romani, cap. 12,

Quando hai peccato, leggi:

  • ·         i Salmi 50; 31; 129; 
  •  il Vangelo di Luca, cap. 15 e 19,1-10.

Quando vai in chiesa per una visita, prega

  • con i Salmi 83; 121.

Quando ti trovi nei pericoli, leggi:

  • ·         i Salmi 20; 69; 90; 
  • .      il Vangelo di Luca, cap. 8, 22-25.

Quando Dio ti sembra lontano, leggi:

  • ·         i Salmi 59, 138;
  • ·         il Profeta Isaia 55, 6-9;
  • e anche il Vangelo di Matteo, cap. 6, 25-34

Quando ti senti depresso, leggi:

  • ·         i Salmi 12; 30; 41; 42;
  • e la Prima lettera di Giovanni 3, 1-3. 

 

Quando ti assale il dubbio, leggi:

  • ·         il Salmo 108; 
  • ·          il Vangelo di Luca, cap. 9, 18-22, 
  •  e il Vangelo di Giovanni cap. 20, 19-29. 

 

Quando senti il bisogno di pregare, ricorri:

  • ·         ai Salmi 6; 20; 25; 42; 62;
  • ·         al Vangelo di Matteo, cap. 6, 5-15;
  • e al Vangelo di Luca, cap. 11, 1-3. 

 

Quando sei ammalato, prega:

  • ·         con i Salmi 6; 32; 38; 40;
  • ·         con il profeta Isaia 38, 10-20,
  • ·         con il Vangelo di Matteo, cap. 26; 39;
  • ·         con la Lettera ai Romani 5, 3-5;
  • ·         con al Lettera agli Ebrei 12, 1-11;
  • e con quella a Tito 5, 11. 

 

Quando sei nella tentazione, prega:

  • ·         con i Salmi 21; 45; 55; 130;
  • ·         con il Vangelo di Matteo cap. 4, 1-11;
  • ·         il Vangelo di Marco cap. 9, 42;
  • e di Luca cap. 21, 33-36. 

 

Quando sei nel dolore, prova a leggere:

  • ·         i Salmi 16, 31; 34; 38;
  • e il Vangelo di Matteo cap. 5, 3-12. 

 

Quando sei stanco, rifugiati:

  • ·         nei Salmi 4; 27; 55; 60; 90;
  • e nella lettura del Vangelo di Matteo cap. 11, 28-30. 

 

Quando senti il bisogno di ringraziare, prova a meditare:

  • ·         i Salmi 18, 65; 84; 92; 95; 100; 103; 116; 136; 147;
  • ·         la Prima Lettera ai Tessalonicesi 5, 18;
  • la Lettura ai Colossesi 3, 12-17; e il Vangelo di Luca cap. 17, 11-19. 

 

Quando ti senti in crisi, prega

  • con i Salmi 22; 42; 45; 55; 6. 

 

Quando sei nella gioia, prega leggendo:

  • ·         i Salmi 8; 97; 99; 
  • ·          il Vangelo di Luca cap. 1, 46-56; 
  •  e la Lettera ai Filippesi 4, 4-7.. 

 

Quando senti il bisogno di pace, ricorri:

  • ·         ai Salmi 1; 4; 85; 
  • ·          al Vangelo di Luca cap. 10, 38-42; 
  • e alla Lettera agli Efesini 2, 14-18.

bibbia - il ibro

Non stancarti di leggere quotidianamente la Bibbia:

è la Parola che esce per noi

dalla bocca e dal cuore del Signore.

Granada e San Giovanni di Dio – Giuseppe Magliozzi o.h.

  

 

 

Granada e San Giovanni di Dio

 

Tra i più tipici oggetti ricordi che vengono offerti in vendita ai turisti di Granada ci sono delle ceramiche con l’invito a far l’elemosina al cieco, poiché non esiste pena maggiore che vivere a Granada e non aver occhi per ammirarne la bellezza. Davvero Granada è una città affascinante, ma una parte del suo fascino è in cose che non occorre vedere, ma basta sentire; una di queste è il legame viscerale che gli abitanti di Granada, secolo dopo secolo, continuano a provare per la figura del nostro Fondatore San Giovanni di Dio, un umile portoghese che, arrivato a Granada, non solo non seppe più staccarsene ma, docile al soffio dello Spirito, si consumò in un’epopea di carità, la cui fiamma s’è propagata da allora in tutto il mondo.

Ayala Francisco

 

In questo mese di novembre è morto a Madrid, alla veneranda età di 103 anni, uno dei più illustri figli di Granada, Francisco Ayala, docente universitario ed autore d’innumerevoli opere di saggistica e di narrativa, per le quali ottenne i più prestigiosi premi letterari spagnoli. Visse per lunghi decenni in America, ma Granada non gli uscì mai dal cuore.

Ayala  libro

 Quando la Spagna mon aveva ancora adottato l’euro, ebbi occasione di comprare per solo 100 pesetas un libro ultratascabile del 1993, formato 10 x 15, con due sue novelle brevi, di cui una intitolata “San Juan de Dios”. Lo scrittore la scrisse in Argentina nel 1947 e la inizia confidando che rimaneva vivissimo in lui il ricordo infantile di un ritratto di San Giovanni di Dio che troneggiava nella casa di famiglia a Granada e che raffigurava il Santo nel momento della sua morte in ginocchio, stringendo il crocifisso.

 

 

-

 

 

Quel ricordo indelebile lo spinse a leggersi una biografia del Santo ed a utilizzarne giusto alcuni spunti: la clamorosa conversione ascoltando predicare il Maestro Avila, la capacità di riconciliare nemici irriducibili e mutarli in suoi collaboratori a servizio dei sofferenti, la sensibilità per l’infanzia abbandonata, l’umiltà d’accettare insulti durante la questua e l’abilità di guadagnarsi come benefattrice qualche nobildonna. Su questi pochi spunti lo scrittore ricamò con lussureggiante fantasia, intrecciando intorno ad appena quattro personaggi un’intrigante e fitta sequenza di imprese e dialoghi dai colori violenti e drammatici, che avvince il lettore fino al tragico epilogo durante un’ipotetica peste, che in realtà sappiamo mai colpì Granada in quegli anni.

Mi piace immaginare che se, come spero, il Buon Dio avrà già misericordiosamente accolto in Cielo lo scrittore, il nostro Santo gli muoverà incontro sorridendo e gli dirà: “Grazie, caro amico Francisco, di non aver mai dimenticato Granada e d’avermi dedicato una novella. Lo so che magari qualche mio confratello avrà storto le labbra per la poca storicità delle vicende che hai ricamato sui personaggi che mi ruotano attorno e perfino inventandoti una mia passata viltà nel difendere la fede cattolica, ma l’importante è che hai saputo con la tua vena di narratore avvincere i lettori e trasmettere loro il messaggio che Dio volle indegnamente affidarmi in Granada: ogni peccato può essere cancellato amando e soccorrendo i nostri fratelli nel bisogno.

 

 

  

Casa de Los Pisas

Casa de Los Pisas

 

Voglio inoltre informarti che se a Madrid, dove hai chiuso i tuoi lunghissimi giorni, dicono che dal Cielo c’è un buchino da cui tornare a veder Madrid, per dare invece uno sguardo a Granada c’è qui addirittura a disposizione uno spaziosissimo balcone e perfino un potente telescopio con cui puoi rimirarti, meglio che con Google Maps, il portichetto del palazzo de los Pisas, al quale dedicasti un’appassionata pagina scrivendo del fascino monumentale ed intimo di Granada…”.

 

Fra Giuseppe Magliozzi o.h.

Los Pisas 3 San Jian de dios

 

  

Anno XI, n. 33 Manila, 14 novembre 2009

 

 

 

 

 

LE DOMANDE CHE PUNGONO SUL VIVO – Angelo Nocent

 

 

 

 

Le  domande che pungono sul vivo

  

 

Di Angelo Nocent 

 

Shalðm! 

Sul nostro percorso incontriamo parole che confondono, altre illuminanti. L’idea che la Parola di Dio, quando raggiunge il mio Dna ne influenzi le frequenze e ne modifichi i suoi componenti può essere credibile? 

E’ di questi giorni l’ultima notizia che, se attendibile, potrebbe metterci di fronte a una svolta epocale. La bomba  messa in circolazione è questa: il Dna ci parla di altri universi. Stando alle ricerche di scienziati russi (Garjajev) comunicate dai tedeschi G. Gosar e F. Bludorf nel libro “Vernetze intelligenz”, sembrerebbe proprio di sì.

 

Questi scienziati avrebbero studiato con genetisti e linguisti per dimostrare che il Dna serve da magazzino di informazioni e per la comunicazione, avrebbe un comportamento vibratorio emettitore di frequenze e ricettore, a sua volta, di frequenze. In sostanza, parole pronunciate con il tono appropriato o suoni specifici, potrebbero influenzare le frequenze del Dna, modificando i suoi comportamenti.

 

Qualcuno vi ha gia letto i miracoli di Cristo: la sua voce raggiungeva il Dna. Naturalmente gli scienziati sono andati oltre questo semplice accenno. Al di là delle suggestioni di queste ipotesi, ho voluto riprendere la notizia perché mi premeva questo: sottolineare che la Parola di Dio ha davvero una forza capace di cambiarmi profondamente il cuore, ossia di andare alla radice del mio essere. Poi, sul come interagisca sulle mie cellule, ce lo faremo spiegare dagli studiosi un’altra volta.

 

Test sperimentale

 

    Gesù risorto appare ai discepoli di Emmaus  (Luca 24, 13-35)  (vedi anche Marco 16, 12-13)

13

Quello stesso giorno due discepoli stavano andando verso Emmaus, un villaggio lontano circa undici chilometri da Gerusalemme.

 14

Lungo la via parlavano tra loro di quel che era accaduto in Gerusalemme in quei giorni.
15

Mentre parlavano e discutevano, Gesù si avvicinò e si mise a camminare con loro. 16

Essi però non lo riconobbero, perché i loro occhi erano come accecati.
17

Gesù domandò loro:
- Di che cosa state discutendo tra voi mentre camminate?
Essi allora si fermarono, tristi.

 18

Uno di loro, un certo Clèopa, disse a Gesù:
- Sei tu l’unico a Gerusalemme a non sapere quel che è successo in questi ultimi giorni?
19

Gesù domandò:
- Che cosa?
Quelli risposero:
- Il caso di Gesù, il Nazareno! Era un profeta potente davanti a Dio e agli uomini, sia per quel che faceva sia per quel che diceva.

20

Ma i capi dei sacerdoti e il popolo l’hanno condannato a morte e l’hanno fatto crocifiggere.

21

Noi speravamo che fosse lui a liberare il popolo d’Israele! Ma siamo già al terzo giorno da quando sono accaduti questi fatti.

 22

Una cosa però ci ha sconvolto: alcune donne del nostro gruppo sono andate di buon mattino al sepolcro di Gesù

 23

ma non hanno trovato il suo corpo. Allora sono tornate indietro e ci hanno detto di aver avuto una visione: alcuni angeli le hanno assicurate che Gesù è vivo.

 24

Poi sono andati al sepolcro altri del nostro gruppo e hanno trovato tutto come avevano detto le donne, ma lui, Gesù, non l’hanno visto.
25

Allora Gesù disse:
- Voi capite poco davvero; come siete lenti a credere quel che i profeti hanno scritto!

26

Il Messia non doveva forse soffrire queste cose prima di entrare nella sua gloria?
27

Quindi Gesù spiegò ai due discepoli i passi della Bibbia che lo riguardavano. Cominciò dai libri di Mosè fino agli scritti di tutti i profeti.
28

Intanto arrivarono al villaggio dove erano diretti, e Gesù fece finta di continuare il viaggio.

29

Ma quei due discepoli lo trattennero dicendo: “Resta con noi perché il sole ormai tramonta”. Perciò Gesù entrò nel villaggio per rimanere con loro.

30

Poi si mise a tavola con loro, prese il pane e pronunziò la preghiera di benedizione; lo spezzò e cominciò a distribuirlo.
31

In quel momento gli occhi dei due discepoli si aprirono e riconobbero Gesù, ma lui spari dalla loro vista.

32

Si dissero l’un l’altro: “Non ci sentivamo come un fuoco nel cuore, quando egli lungo la via ci parlava e ci spiegava la Bibbia?”.
33

Quindi si alzarono e ritornarono subito a Gerusalemme. Là, trovarono gli undici discepoli riuniti con i loro compagni.
34

Questi dicevano: “Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone”.

35

A loro volta i due discepoli raccontarono quel che era loro accaduto lungo il cammino, e dicevano che lo avevano riconosciuto mentre spezzava il pane.

 

Questa è la parabola che ci ritrae come singoli e come comunità, famiglia. Soli o in compagnia, girovaghiamo tra delusioni e sconforti. I produttori di ansiolitici e psicofarmaci fanno affari d’oro perché la domanda cresce in modo esponenziale.

Se a bruciapelo uno mi porgesse questo quesito: ma tu, come vivi il tuo rapporto col Signore? Lo senti davvero vicino a te, come una presenza viva? Oppure è un rapporto più che altro razionale, che rischia però di rimanere sterile?

Quello di stabilire un rapporto con Dio, ma di perderne la dimensione viva, vitale, personale è un rischio che corrono sia i professionisti che i consumatori del sacro, ossia tutti noi: preti e laici.  Se questa domanda mi venisse posta mentre mi trovo davanti a un piatto fumante di spaghetti, la probabilità di strapparmi una risposta deludente sarebbe molto elevata. Perché ho tirato fuori gli spaghetti? Perché parliamo di famiglia  e perché i discorsi più profondi sul Signore e col Signore, come ci attestano i Vangeli e lo stesso brano riportato, si fanno proprio a tavola.  

Questa è una domanda che punge sul vivo, perché raramente il Signore è immediatamente percepibile. Se guardo dentro di me, con tutta onestà  mi rendo conto che il rapporto con Dio non è mai garantito, non va mai dato per scontato. Talvolta  il Signore lo sento lontano, come lontano da lui mi sento io quando mi rendo conto di prendere le distanze dalla missione che mi ha   affidato, dalla via che mi ha indicato.

 

Adesso provo a rivoltare la domanda:

  • dov’è il tuo Signore?
  • Ti accompagna nel cammino?

La risposta ognuno se la dia tra sé e sé.

 

Rimando la riflessione sul brano evangelico di Emmaus ed invito a concentrare l’attenzione su queste parole:

  • 32 Si dissero l’un l’altro:Non ci sentivamo come un fuoco nel cuore, quando egli lungo la via ci parlava e ci spiegava la Bibbia?”.
  • 33 Quindi si alzarono e ritornarono subito a Gerusalemme. Là, trovarono gli undici discepoli riuniti con i loro compagni.

Mi limito a evidenziare che la parabola racchiude in sé un invito ad abbandonare l’inerzia. Anche il girare a vuoto è inerzia, anche perdersi in ore ed ore di navigazione su Internet può celare uno stato di oziosità spirituale: vorrei, ma non so, non oso, non me la sento, non vedo nulla di concreto…

 

Il messaggio che vorrei far passare oggi è questo: avete in mente i pipistrelli senza piume del nostro premio Nobel James D. Watson? Ebbene, si possono mettere le piume solo prendendo confidenza con la Bibbia. Così scriveva l’Arcivescovo Martini alla sua Diocesi:

 

  • “Per un primo impatto con la fede cristiana, una ben studiata aderenza alla pedagogia del testo biblico favorisce un contatto con gli elementi essenziali della fede;
  • permette itinerari diversi e complementari, sempre orientati alla centralità del mistero pasquale;
  • assicura quel costante contatto con la realtà storica, che dà fondamento critico alle certezze della fede;
  • assume un andamento esistenziale e narrativo, che permette di congiungere una estrema concretezza con inesauribili risorse contemplative e spunti riflessivi;
  • propone una mirabile varietà di formule sintetiche, con cui la fede, senza nulla perdere della sua vastità e complessità, riesce però a dire la sua pregnante compiutezza nel giro di poche parole.”

Ad una famiglia qualsiasi che decide di muovere i primi passi, farei due considerazioni:

  • Tu hai  “fame di Parola”, noi abbiamo “fame di Parola”.
  • Non è sufficiente che io ti regali una Bibbia,
  • non basta che tu ce l’abbia nella tua vetrina, bella, elegante, illustrata,
  • non è sufficiente che qualcuno metta nelle tue mani il testo delle Scritture,
  • non è sufficiente che tu l’ascolti nella lingua volgare.
  • Bisogna che tu sia abilitato a tale ascolto, attraverso la frequenza a conferenze, a scuole della Parola, a sussidi, incontri con competenti che prevedano l’apprendimento delle metodologie della lettura, della meditazione e dell’attualizzazione della Bibbia.

Per evitare di farne una lettura letteralistica e mitica, uno deve acquisire la capacità di accostare la Bibbia, libro di sua natura complesso, perché comprende generi letterari diversi, dovuti al fatto di essere stata composta lentamente attraverso i secoli  e conclusasi con l’Apocalisse. Suggerirei di iniziare affrontando alcuni temi biblici particolarmente significativi che avranno certamente una ricaduta anche sulla tematica familiare che ci siamo dati come obiettivo:

 

  • misericordia,fedeltà, peccato, liberazione

 

Una buona provocazione spirituale può venire dai seguenti testi:

 

  • Luca   4, 16-30 con i salmi 46, 72 e il canto d’Isaia 61;
  • Luca   23, 32-54 con il salmo 31;
  • Luca   6, 20-38 con i salmi 27, 73,131;
  • Luca   12, 13-34 con i salmi 130, 136, 133;
  • Giovanni 13, 1-17  con i salmi 130, 136, 133

 

Meriterebbe affrontare da subito la parabola dei talenti (Mt 25, 14-30) che non va letta in modo moralistico. I talenti non sono le nostre qualità personali, bensì i grandi doni che ci sono stati annunciati:

 

  • il Cristo,
  • il Regno,
  • la Parola,
  • le Beatitudini,
  • la libertà,
  • l’abbandono,
  • l’agàpe, cioè l’amore gratuito.

 

Il Regno costituisce il vero punto di partenza di una famiglia in cammino. Se non viene colto il senso, si finisce in breve tempo in un vicolo cieco.

 

La Bibbia nella famiglia –  Ascoltatori smemorati

 

Il Card. Carlo Maria Martini nella lettera al clero e ai fedeli sul tema: “La parola di Dio nella liturgia e nella vita” così scriveva a proposito della Bibbia nella famiglia:

 

“[23]   Dobbiamo, purtroppo, collocare la famiglia tra gli ambiti di difficile penetrazione della Parola di Dio. La famiglia, di per sé, dovrebbe essere un luogo di intensa comunicazione non solo della parola di Dio, ma anche di quelle fondamentali parole umane che introducono al senso profondo della vita. In realtà la famiglia vede molto compromessa, nella società attuale, la sola insostituibile funzione educativa. Alcuni sintomi allarmanti denunciano la crisi profonda di quei valori umani, di cui la famiglia è portatrice in modo specifico e costitutivo.

 

            Per esempio, il rapporto uomo-donna tende a perdere la sua specifica caratteristica di dedizione incondizionata e definitiva, per uniformarsi ad altri rapporti umani a breve scadenza, fondati sull’interesse, sull’arbitrio, su quello che di volta in volta appare come utile e piacevole, senza il coraggio della libera scelta irrevocabile.

 

            Così la tipicità del rapporto genitori-figli viene intaccata sia dal fatto che il figlio tende ad essere visto come un fenomeno accessorio o addirittura fastidioso del rapporto coniugale, sia dal fatto che altre e contraddittorie figure di adulti, che si presumono autorevoli, impongono se stesse ai figli, non in collaborazione con l’autorevolezza dei genitori, ma spesso in sottile o clamoroso contrasto, rendendo ancora più difficile il dialogo familiare, già disturbato dall’ingigantito “salto generazionale”.

 

            La conseguenza di tutto ciò è una grave riduzione del rilievo sociale e culturale della famiglia. Il senso pregnante di quelle fondamentali parole a cui uno deve far riferimento per orientarsi nella vita – come amore, lavoro, amicizia, apertura al mistero, nascita, morte, dolore, onestà sociale ecc. – non è più determinato dall’ambito familiare, con la sua carica di vita vissuta, di sapienza tradizionale, di affetto rispettoso, ma tende a essere influenzato sempre più da mille altre voci extra-familiari, spesso caratterizzate da superficialità, da distorsioni, da intenti di strumentalizzazione e di cattura psicologica. Anche i tempi del dialogo familiare e dell’intimità post-lavorativa vengono invasi dai mezzi di comunicazione sociale, che condizionano pesantemente la vita intellettuale e affettiva della famiglia.

 

            Occorre aiutare la famiglia a ritrovare il gusto e la responsabilità di quei valori umani originali, che in essa vengono celebrati a beneficio delle persone e, a lungo andare, dell’intera convivenza sociale.

 

            Se la famiglia riuscisse a raccogliere se stessa, intorno alla parola di Dio, o riandando a ciò che fu proclamato in chiesa, durante la liturgia, o leggendo direttamente e organicamente le pagine bibliche, troverebbe una fonte inesauribile di messaggi preziosi circa la vita stessa della famiglia, circa le vicende che i familiari attraversano nelle diverse stagioni della vita, circa gli avvenimenti che succedono nel mondo d’oggi. Allora fatti e situazioni entrerebbero nella famiglia, non più in forma grezza e incombente, ma attraverso quel filtro di sapienza e di serenità che è la parola di Dio. Questa Parola, inoltre, potrebbe stimolare le famiglie a inventare una socialità nuova, superando, anche a prezzo di tempo e di fatica, le aggregazioni istintive e discriminanti, fondate sulla comune estrazione sociale e culturale.

 

            Le parrocchie si impegnino a preparare sussidi opportuni, utilizzando il bollettino parrocchiale, prevedendo nel programma di catechesi dei ragazzi qualche parte da svolgere in famiglia con i genitori, educando le famiglie più sensibili a una meditazione comune dei testi biblici almeno nei tempi forti dell’anno liturgico.

 

            La visita annuale alle famiglie (trovando ad esempio anche il tempo di leggere insieme un Salmo e attualizzandolo brevemente) sarà un tempo propizio per stimolare questa apertura della comunità familiare alla parola di Dio.”

 

Il fatto che un gruppo di persone abbia pensato di sviluppare queste tematiche che vivono per prime come meglio possono nelle rispettive famiglie, è un tentativo in atto di aprire la comunità familiare alla Parola di Dio.

 

L’amore di Gesù si esprime anche con gli ammonimenti. Eccone uno:

 

  •  “Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano” (Lc 11, 28).
  • Giovanni 13, 17:“Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica” .
  • San Giacomo esorta a non essere “come un ascoltatore smemorato” (Giac 1, 25).

 

I verbi da memorizzare:

  • ascoltare la Parola,
  • vivere la Parola, c
  • ustodire la Parola,
  • praticare la Parola.

 

Per non perdere il contatto con la parabola, una sottolineatura: quelli che erano tornati a Emmaus per mettere fine al loro peregrinare, per rinunciare alla loro missione, capiscono che il cammino deve proseguire; e il loro cammino riceve una nuova direzione. Non è più il cammino mesto e rassegnato di chi se ne torna a casa con le pive nel sacco, ma il cammino gioioso di chi sfida la notte e i suoi pericoli per correre alla città santa e annunziare agli altri discepoli la buona notizia della risurrezione del Cristo.

 

Ecco un miracolo della Parola operato in persone sfiduciate. Esso è destinato a ripetersi, ripetersi, ripetersi…

 

Angelo Nocent

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1 GIORNO CAPITOLO GENERALE STRAORDINARIO – Notiziario

02 giorno capitolo generale straordinario

01 giorno Apertura General

Notizie dal Capitolo
 

Primo giorno, 9 novembre 2009

 

Il 67° Capitolo Generale Straordinario dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, convocato per prendere in esame ed approvare la revisione dei cambiamenti negli Statuti Generali, ha avuto inizio il giorno 9 novembre 2009 presso la Casa per Ritiri “Nazaret”, a circa 15 chilometri da Guadalajara, in Messico.

Vi partecipano 75 Capitolari, in rappresentanza dei Confratelli dei 5 continenti e di 50 Paesi diversi. Collaborano al buon svolgimento dei lavori alcuni Confratelli e Collaboratori che si occupano delle traduzioni, della segreteria e della logistica.

Il programma del primo giorno comprendeva nella mattinata una riflessione spirituale, guidata dal Rev. Domenico Di Raimondo, msps. Il tema era “Riuniti nello Spirito per continuare a costruire la Famiglia di San Giovanni di Dio”, ed ha invitato il Capitolo ad assumere in questa Famiglia un ruolo parentale, guidandola, attraverso i nuovi Statuti Generali, ad una maggiore integrazione e unità nella visione. La riflessione della mattina è culminata con l’Eucaristia di apertura, presieduta dal Consigliere Generale Fra Jesús Etayo Arrondo.

Nel pomeriggio i Confratelli si sono riuniti per la prima sessione del Capitolo, ed il Provinciale Messicano, Fra César Sánchez González, ha dato loro il benvenuto in Messico e nella sua Provincia. Il Priore Generale, Fra Donatus Forkan, ha quindi aperto ufficialmente il Capitolo con un discorso di apertura, per passare ad alcune formalità che prevedono l’elezione del Segretario del Capitolo (Fra Gian Carlo Lapic’), e degli Scrutatori (Fra Aires Gameiro e Fra Gustavo Muchiutti Panozzo). I Capitolari accettano all’unanimità la Metodologia proposta per l’esame dei nuovi Statuti Generali, poi di seguito approvano l’elezione del Prof. Nicola De Carlo come Moderatore e del Prof. Andrés Gutierrez come Consulente in Diritto Canonico.

Prima di prendere in considerazione i cambiamenti apportati agli Statuti Generali, il Capitolo ha avuto l’opportunità di esercitare un’opzione, secondo quanto indicato dalla Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, ed ha votato favorevolmente per modificare l’articolo 107b degli Statuti Generali, consentendo così di apportare cambiamenti al testo degli Statuti con la maggioranza assoluta dei voti, e non dei 2/3, come invece richiesto dal suddetto articolo.

La giornata si conclude con una presentazione, da parte di Fra Jesus Etayo, del lavoro di revisione degli Statuti Generali proposto al Capitolo.  

01 giorno Aula

01 giorno Canonista

01 giorno Escrutador1

01 giorno  Aula2

 

 01 giorno Escrutador2

 

 

LABOREM EXERCENS – Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II

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Giovanni Paolo II

Laborem exercens

Lettera Enciclica


14 settembre 1981

I. INTRODUZIONE

1. Il lavoro umano a novant’anni dalla Rerum Novarum.

a) L’enciclica è dedicata al lavoro umano e più ancora all’uomo che lavora.

Poiché si sono compiuti il 15 maggio dell’anno corrente, novant’anni dalla pubblicazione – ad opera del grande Pontefice della questione sociale, Leone XIII – di quell’enciclica di importanza decisiva, che inizia con le parole Rerum Novarum, desidero dedicare il presente documento proprio al lavoro umano, e ancora di più desidero dedicarlo all’uomo nel vasto contesto di questa realtà che è il lavoro. Se, infatti, come mi sono espresso nell’enciclica Redemptor hominis, pubblicata all’inizio del mio servizio nella Sede romana di San Pietro, l’uomo è la prima e fondamentale via della Chiesa, e ciò proprio in base all’inscrutabile mistero della Redenzione in Cristo, allora occorre ritornare incessantemente su questa via e proseguirla sempre di nuovo secondo i vari aspetti, nei quali essa ci svela tutta la ricchezza e al tempo stesso tutta la fatica dell’esistenza umana sulla terra.

b) Oggi si pongono nuovi interrogativi e problemi.

Il lavoro è uno di questi aspetti, perenne e fondamentale, sempre attuale e tale da esigere costantemente una rinnovata attenzione e una decisa testimonianza. Perché sorgono sempre nuovi interrogativi e problemi, nascono sempre nuove speranze, ma anche timori e minacce connesse con questa fondamentale dimensione dell’umano esistere, con la quale la vita dell’uomo è costruita ogni giorno, dalla quale essa attinge la propria specifica dignità, ma nella quale è contemporaneamente contenuta la costante misura dell’umana fatica, della sofferenza e anche del danno e dell’ingiustizia che penetrano profondamente la vita sociale, all’interno delle singole Nazioni e sul piano internazionale. Se è vero che l’uomo si nutre col pane del lavoro delle sue mani, e cioè non solo di quel pane quotidiano col quale si mantiene vivo il suo corpo, ma anche del pane della scienza e del progresso, della civiltà e della cultura, allora è pure una verità perenne che egli si nutre si questo pane col sudore del volto, cioè non solo con lo sforzo e la fatica personali, ma anche in mezzo a tante tensioni, conflitti e crisi che, in rapporto con la realtà del lavoro, sconvolgono la vita delle singole società ed anche di tutta l’umanità.

c) Alla vigilia di nuovi sviluppi tecnologici, economici e politici nel mondo del lavoro.

Celebriamo il 90° anniversario dell’enciclica Rerum Novarum alla vigilia di nuovi sviluppi nelle condizioni tecnologiche, economiche e politiche che, secondo molti esperti, influiranno sul mondo del lavoro e della produzione non meno di quanto fece la rivoluzione industriale del secolo scorso. Molteplici sono i fattori di portata generale: l’introduzione generalizzata dell’automazione in molti campi della produzione; l’aumento del prezzo dell’energia e delle materie di base; la crescente presa di coscienza della limitatezza del patrimonio naturale e del suo insopportabile inquinamento; l’emergere sulla scena politica dei popoli che, dopo secoli di soggezione, richiedono il loro legittimo posto tra le nazioni e nelle decisioni internazionali. Queste nuove condizioni ed esigenze richiederanno un riordinamento e un ridimensionamento delle strutture dell’economia odierna, nonché della distribuzione del lavoro. Tali cambiamenti potranno forse significare, purtroppo, per milioni di lavoratori qualificati, la disoccupazione, almeno temporanea, o la necessità di un riaddestramento; comporteranno con molta probabilità una diminuzione o una crescita meno rapida del benessere materiale per i Paesi più sviluppati; ma potranno anche dare sollievo e speranza ai milioni di uomini che oggi vivono in condizioni di vergognosa e indegna miseria. Non spetta alla Chiesa analizzare scientificamente le possibili conseguenze di tali cambiamenti sulla convivenza umana. La Chiesa però ritiene suo compito di richiamare sempre la dignità e i diritti degli uomini del lavoro e di stigmatizzare le situazioni, in cui essi vengono violati, e di contribuire ad orientare questi cambiamenti perché si avveri un autentico progresso dell’uomo e della società.

2. Il lavoro nello sviluppo organico dell’azione e dell’insegnamento sociale della Chiesa.

a) Dalla Rerum Novarum in poi la Chiesa si è sempre occupata dei problemi sociali.

Certamente il lavoro, come problema dell’uomo, si trova al centro stesso di quella questione sociale, alla quale durante i quasi cento anni trascorsi dalla menzionata enciclica si svolgono in modo speciale l’insegnamento della Chiesa e le molteplici iniziative connesse con la sua missione apostolica. Se su di esso desidero concentrare le presenti riflessioni, ciò voglio fare non in modo difforme, ma piuttosto in collegamento organico con tutta la tradizione di questo insegnamento e di queste iniziative. Al tempo stesso, però, faccio questo, secondo l’orientamento del Vangelo, per estrarre dal patrimonio del Vangelo cose antiche e cose nuove. Certamente, il lavoro è una cosa antica – tanto antica quanto l’uomo e la sua vita sulla terra. La situazione generale dell’uomo nel mondo contemporaneo, diagnosticata ed analizzata nei vari aspetti geografici, di cultura e di civiltà, esige, tuttavia, che si scoprano i nuovi significati del lavoro umano, e che si formulino, altresì, i nuovi compiti che in questo settore sono posti di fronte ad ogni uomo, alla famiglia, alle singole Nazioni, a tutto il genere umano e, infine, alla Chiesa stessa. Nello spazio degli anni che sono passati dalla pubblicazione dell’enciclica Rerum Novarum, la questione sociale non ha cessato di occupare l’attenzione della Chiesa. Ne danno testimonianza i numerosi documenti del Magistero, emanati sia dai Pontefici sia anche dal Concilio Vaticano II; ne danno testimonianza le enunciazioni dei singoli Episcopati; ne dà testimonianza l’attività dei vari centri di pensiero e di concrete iniziative apostoliche, sia a livello internazionale che a livello delle Chiese locali. É difficile enumerare qui in forma particolareggiata tutte le manifestazioni del vivo impegno della Chiesa e dei cristiani nella questione sociale, perché esse sono molto numerose. Come risultato del Concilio, il principale centro di coordinamento in questo campo è diventata la Pontificia Commissione Iustitia et Pax, la quale trova i suoi Organismi corrispondenti nell’ambito delle singole Conferenze Episcopali. Il nome di questa istituzione è molto significativo: esso indica che la questione sociale deve essere trattata nella sua dimensione integrale e complessa. L’impegno in favore della giustizia deve essere intimamente unito a quello per la pace nel mondo contemporaneo. Certamente, si è pronunciata in favore di questo duplice impegno la dolorosa esperienza delle due grandi guerre mondiali, che durante gli ultimi 90 anni hanno scosso molti Paesi sia del Continente europeo sia, almeno parzialmente, degli altri Continenti. In suo favore si pronunciano, specialmente dopo la fine della seconda guerra mondiale, la permanente minaccia di una guerra nucleare e la prospettiva della terribile autodistruzione, che ne emerge.

b) Il centro della questione sociale è il problema del lavoro in dimensione mondiale.

Se seguiamo la linea principale di sviluppo dei documenti del supremo Magistero della Chiesa, troviamo in essi l’esplicita conferma proprio di tale impostazione del problema. La posizione chiave, per quanto riguarda la questione della pace nel mondo, è quella dell’Enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII. Se si considera, invece, l’evoluzione della questione della giustizia sociale, si deve notare che, mentre nel periodo che va dalla Rerum Novarum alla Quadragesimo anno di Pio XI, l’insegnamento della Chiesa si concentra soprattutto intorno alla giusta soluzione della cosiddetta questione operaia nell’ambito delle singole Nazioni, nella fase successiva esso allarga l’orizzonte alle dimensioni di tutto il globo. La distribuzione sproporzionata di ricchezza e di miseria, l’esistenza di Paesi e di Continenti sviluppati e non esigono una perequazione e la ricerca delle vie per un giusto sviluppo di tutti. In questa direzione procede l’insegnamento contenuto nell’enciclica Mater et Magistra di Giovanni XXIII, nella Costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II e nell’enciclica Populorum progressio di Paolo VI. Questa direzione di sviluppo dell’insegnamento e dell’impegno della Chiesa nella questione sociale corrisponde esattamente al riconoscimento oggettivo dello stato delle cose. Se nel passato al centro di tale questione si metteva soprattutto in luce il problema della classe, in epoca più recente si pone in primo piano il problema del mondo. Si considera, perciò, non solo l’ambito della classe, ma quello mondiale delle disuguaglianze e delle ingiustizie e, di conseguenza, non solo la dimensione di classe, ma quella mondiale dei compiti sulla via che porta alla realizzazione della giustizia nel mondo contemporaneo. L’analisi completa della situazione del mondo di oggi ha manifestato in modo ancora più profondo e più pieno il significato dell’anteriore analisi delle ingiustizie sociali ed è il significato che oggi si deve dare agli sforzi che tendono a costruire la giustizia sulla terra, non nascondendo con ciò le strutture ingiuste, ma postulando il loro esame e la loro trasformazione in una dimensione più universale.

3. Il problema del lavoro chiave della questione sociale.

La dottrina sociale della Chiesa deriva direttamente dalla Sacra Scrittura.

In mezzo a tutti questi processi sia della diagnosi dell’oggettiva realtà sociale, sia anche dell’insegnamento della Chiesa nell’ambito della complessa e molteplice questione sociale – il problema del lavoro umano compare naturalmente molte volte. Esso è, in qualche modo, una componente fissa come della vita sociale, così dell’insegnamento della Chiesa. In questo insegnamento, peraltro, l’attenzione al problema risale ben al di là degli ultimi novant’anni. La dottrina sociale della Chiesa, infatti, trova la sua sorgente nella Sacra Scrittura, a cominciare dal Libro della Genesi e, in particolare, nel Vangelo e negli scritti apostolici. Essa appartenne fin dall’inizio all’insegnamento della Chiesa stessa, alla sua concezione dell’uomo e della vita sociale e, specialmente, alla morale sociale elaborata secondo le necessità delle varie epoche. Questo patrimonio tradizionale è poi stato ereditato e sviluppato dall’insegnamento dei Pontefici sulla moderna questione sociale, a partire dall’Enciclica Rerum Novarum. Nel contesto di tale questione, gli approfondimenti del problema del lavoro hanno avuto un continuo aggiornamento, conservando sempre quella base cristiana di verità, che possiamo chiamare perenne. Se nel presente documento ritorniamo di nuovo su questo problema – senza peraltro avere l’intenzione di toccare tutti gli argomenti che lo concernono -, non è tanto per raccogliere e ripetere ciò che è già contenuto nell’insegnamento della Chiesa, ma piuttosto per mettere in risalto – forse più di quanto sia stato compiuto finora – il fatto che il lavoro umano è una chiave, e probabilmente la chiave essenziale, di tutta la questione sociale, se cerchiamo di vederla veramente dal punto di vista del bene dell’uomo. E se la soluzione o, piuttosto, la graduale soluzione della questione sociale, che continuamente si ripresenta e si fa sempre più complessa, deve essere cercata nella direzione di rendere la vita umana più umana, allora appunto la chiave, che è il lavoro umano, acquista un’importanza fondamentale e decisiva.

II. IL LAVORO E L’UOMO

4. Il lavoro nel Libro della Genesi.

a) Il lavoro costituisce una dimensione fondamentale dell’uomo sulla terra.

La Chiesa è convinta che il lavoro costituisce una dimensione fondamentale dell’esistenza dell’uomo sulla terra. Essa si conferma in questa convinzione anche considerando tutto il patrimonio delle molteplici scienze, dedicate all’uomo: la antropologia, la paleontologia, la storia, la sociologia, la psicologia, ecc.: tutte sembrano testimoniare in modo irrefutabile questa realtà. La Chiesa, tuttavia, attinge questa sua convinzione soprattutto alla fonte della Parola di Dio rivelata e, perciò, quella che è una convinzione dell’intelletto acquista in pari tempo il carattere di una convinzione di fede. La ragione è che la Chiesa – vale la pena di osservarlo fin d’ora – crede nell’uomo: essa pensa all’uomo e si rivolge a lui non solo alla luce dell’esperienza storica, non solo con l’aiuto dei molteplici metodi della conoscenza scientifica, ma in primo luogo alla luce della parola rivelata del Dio vivente. Riferendosi all’uomo, essa cerca di esprimere quei disegni eterni e quei destini trascendenti, che il Dio vivente, creatore e redentore, ha legato all’uomo. La Chiesa trova già nelle prime pagine del Libro della Genesi la fonte della sua convinzione che il lavoro costituisce una fondamentale dimensione dell’esistenza umana sulla terra. L’analisi di tali testi ci rende consapevoli del fatto che in essi – a volte con un modo arcaico di manifestare il pensiero – sono state espresse le verità fondamentali intorno all’uomo, già nel contesto del mistero della Creazione. Sono queste le verità che decidono dell’uomo sin dall’inizio e che, al tempo stesso tracciano le grandi linee della sua esistenza sulla terra, sia nello stato della giustizia originaria, sia anche dopo la rottura, determinata dal peccato, dell’originaria alleanza del Creatore con il creato, nell’uomo. Quando questi, fatto a immagine di Dio… maschio e femmina, sente le parole: Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela, anche se queste parole non si riferiscono direttamente ed esplicitamente al lavoro, indirettamente già glielo indicano al di là di ogni dubbio come un’attività da svolgere nel mondo. Anzi, esse ne dimostrano la stessa essenza più profonda. L’uomo è immagine di Dio tra l’altro, per il mandato ricevuto dal suo Creatore di soggiogare, di dominare la terra. Nell’adempimento di tale mandato, l’uomo, ogni essere umano, riflette l’azione stessa del Creatore dell’universo.

b) Come risulta dalla Bibbia il concetto di lavoro suppone un dominio dell’uomo sulla terra.

Il lavoro inteso come un’attività transitiva, cioè tale che, prendendo l’inizio nel soggetto umano, è indirizzata verso un oggetto esterno, suppone uno specifico dominio dell’uomo sulla terra ed a sua volta conferma e sviluppa questo dominio. É chiaro che col termine terra, di cui parla il testo biblico, si deve intendere prima di tutto quel frammento dell’universo visibile, del quale l’uomo è abitante; per estensione, però, si può intendere tutto il mondo visibile, in quanto esso si trova nel raggio d’influsso dell’uomo e della sua ricerca di soddisfare alle proprie necessità. Le parole soggiogate la terra hanno un’immensa portata. Esse indicano tutte le risorse che la terra (e indirettamente il mondo visibile) nasconde in sé, e che, mediante l’attività cosciente dell’uomo, possono essere scoperte e da lui opportunamente usate. Così quelle parole, poste all’inizio della Bibbia, non cessano mai di essere attuali. Esse abbracciano ugualmente tutte le epoche passate della civiltà e dell’economia, come tutta la realtà contemporanea e le fasi future dello sviluppo, le quali, in qualche misura, forse si stanno già delineando, ma in gran parte rimangono ancora per l’uomo quasi sconosciute e nascoste.

 

c) Questo concetto di dominio vale anche oggi.

Se a volte si parla di periodi di accelerazione nella vita economica e nella civilizzazione dell’umanità o delle singole Nazioni, unendo queste accelerazioni al progresso della scienza e della tecnica e, specialmente, alle scoperte decisive per la vita socio-economica, si può dire al tempo stesso che nessuna di queste accelerazioni supera l’essenziale contenuto di ciò che è stato detto in quell’antichissimo testo biblico. Diventando – mediante il suo lavoro – sempre di più padrone della terra, e confermando – ancora mediante il lavoro – il suo dominio sul mondo visibile, l’uomo, in ogni caso ed in ogni fase di questo processo, rimane sulla linea di quell’originaria disposizione del Creatore, la quale resta necessariamente e indissolubilmente legata al fatto che l’uomo è stato creato, come maschio e femmina, a immagine di Dio. Questo processo è, al tempo stesso, universale: abbraccia tutti gli uomini, ogni generazione, ogni fase dello sviluppo economico e culturale, ed insieme è un processo che si attua in ogni uomo, in ogni consapevole soggetto umano. Tutti e ciascuno sono contemporaneamente da esso abbracciati. Tutti e ciascuno, in misura adeguata e in un numero incalcolabile di modi, prendono parte a questo gigantesco processo, mediante il quale l’uomo soggioga la terra col suo lavoro.

5. Il lavoro in senso oggettivo: la tecnica.

a) L’uomo soggioga la terra mediante il lavoro sfruttando le risorse naturali.

Questa universalità e, al tempo stesso, questa molteplicità del processo del soggiogare la terra gettano luce sul lavoro umano, poiché il dominio dell’uomo sulla terra si compie nel lavoro e mediante il lavoro. Emerge così il significato del lavoro in senso oggettivo, il quale trova la sua espressione nelle varie epoche della cultura e della civiltà. L’uomo domina la terra già per il fatto che addomestica gli animali, allevandoli e ricavandone per sé il cibo e gli indumenti necessari, e per il fatto che può estrarre dalla terra e dal mare diverse risorse naturali. Molto di più, però, l’uomo soggioga la terra, quando comincia a coltivarla e successivamente rielabora i suoi prodotti, adattandoli alle proprie necessità. L’agricoltura costituisce cosi un campo primario dell’attività economica e un indispensabile fattore, mediante il lavoro umano, della produzione. L’industria, a sua volta, consisterà sempre nel coniugare le ricchezze della terra – sia le risorse vive della natura, sia i prodotti dell’agricoltura, sia le risorse minerarie o chimiche – ed il lavoro dell’uomo, il lavoro fisico come quello intellettuale. Ciò vale, in un certo senso, anche nel campo della cosiddetta industria dei servizi, e in quello della ricerca, pura o applicata. Oggi nell’industria e nell’agricoltura l’attività dell’uomo ha cessato in molti casi di essere un lavoro prevalentemente manuale poiché la fatica delle mani e dei muscoli è aiutata dall’opera di macchine e di meccanismi sempre più perfezionati. Non soltanto nell’industria, ma anche nell’agricoltura, siamo testimoni delle trasformazioni rese possibili dal graduale e continuo sviluppo della scienza e della tecnica. E questo, nel suo insieme, è diventato storicamente una causa di grandi svolte della civiltà, dall’origine dell’ era industriale alle successive fasi di sviluppo per il tramite di nuove tecniche, come quelle dell’elettronica o dei microprocessori negli ultimi anni.

b) Lo sviluppo della tecnica ripropone in modo nuovo il problema del lavoro umano.

Se può sembrare che nel processo industriale lavori la macchina mentre l’uomo solamente attende ad essa, rendendo possibile e sostenendo in diversi modi il suo funzionamento, è anche vero che proprio per questo lo sviluppo industriale pone la base per riproporre in modo nuovo il problema del lavoro umano. Sia la prima industrializzazione che ha creato la cosiddetta questione operaia, sia i successivi cambiamenti industriali, dimostrano eloquentemente che, anche nell’epoca del lavoro sempre più meccanizzato, il soggetto proprio del lavoro rimane l’uomo. Lo sviluppo dell’industria e dei diversi settori con essa connessi, fino alle più moderne tecnologie dell’elettronica specialmente nel campo della miniaturizzazione, dell’informatica, della telematica ed altri, indica quale immenso ruolo assume, nell’interazione tra il soggetto e l’oggetto del lavoro (nel più ampio senso di questa parola), proprio quell’alleata del lavoro, generata dal pensiero umano, che è la tecnica. Intesa in questo caso non come una capacità o una attitudine al lavoro, ma come un insieme di strumenti dei quali l’uomo si serve nel proprio lavoro, la tecnica è indubbiamente un’alleata dell’uomo. Essa gli facilita il lavoro, lo perfeziona, lo accelera e lo moltiplica. Essa favorisce l’aumento dei prodotti del lavoro, e di molti perfeziona anche la qualità. É un fatto, peraltro, che in alcuni casi la tecnica da alleata può anche trasformarsi quasi in avversaria dell’uomo, come quando la meccanizzazione del lavoro soppianta l’uomo, togliendogli ogni soddisfazione personale e lo stimolo alla creatività e alla responsabilità; quando sottrae l’occupazione a molti lavoratori prima impiegati, o quando, mediante l’esaltazione della macchina, riduce l’uomo ad esserne il servo. Se le parole bibliche soggiogate la terra, rivolte all’uomo fin dall’inizio, vengono intese nel contesto dell’intera epoca moderna, industriale e post-industriale, allora indubbiamente esse racchiudono in sé anche un rapporto con la tecnica, con quel mondo di meccanismi e di macchine che è il frutto del lavoro dell’intelletto umano e la conferma storica del dominio dell’uomo sulla natura. La recente epoca della storia dell’umanità, e specialmente di alcune società porta con sé una giusta affermazione della tecnica come un coefficiente fondamentale di progresso economico; al tempo stesso, però, con questa affermazione sono sorti e continuamente sorgono gli interrogativi essenziali riguardanti il lavoro umano in rapporto al suo soggetto, che è appunto l’uomo. Questi interrogativi racchiudono in sé una carica particolare di contenuti e di tensioni di carattere etico ed etico-sociale. E perciò essi costituiscono una sfida continua per molteplici istituzioni, per gli Stati e per i governi, per i sistemi e le organizzazioni internazionali; essi costituiscono anche una sfida per la Chiesa.

6. Il lavoro in senso soggettivo: l’uomo-soggetto del lavoro.

a) L’uomo, come immagine di Dio e soggetto del lavoro, deve dominare la terra e tutto ciò che è prodotto dal lavoro.

Per continuare la nostra analisi del lavoro legata alla parola della Bibbia, in forza della quale l’uomo deve soggiogare la terra, bisogna che concentriamo la nostra attenzione sul lavoro in senso soggettivo, molto più di quanto abbiamo fatto in riferimento al significato oggettivo del lavoro, toccando appena quella vasta problematica, che è perfettamente e dettagliatamente nota agli studiosi nei vari campi ed anche agli stessi uomini del lavoro secondo le loro specializzazioni. Se le parole del Libro della Genesi, alle quali ci riferiamo in questa nostra analisi, parlano in modo indiretto del lavoro nel senso oggettivo, così, nello stesso modo, parlano anche del soggetto del lavoro; ma ciò che esse dicono è molto eloquente e carico di un grande significato. L’uomo deve soggiogare la terra, la deve dominare, perché come immagine di Dio è una persona, cioè un essere soggettivo capace di agire in modo programmato e razionale, capace di decidere di sé e tendente a realizzare se stesso. Come persona, l’uomo è quindi soggetto del lavoro. Come persona egli lavora, compie varie azioni appartenenti al processo del lavoro; esse, indipendentemente dal loro contenuto oggettivo, devono servire tutte alla realizzazione della sua umanità, al compimento della vocazione ad essere persona, che gli è propria a motivo della stessa umanità. Le principali verità su questo tema sono state ultimamente ricordate dal Concilio Vaticano II nella costituzione Gaudium et spes particolarmente nel capitolo I dedicato alla vocazione dell’uomo. E così quel dominio, del quale parla il testo biblico qui meditato, si riferisce non solamente alla dimensione oggettiva del lavoro, ma ci introduce contemporaneamente alla comprensione della sua dimensione soggettiva. Il lavoro inteso come processo, mediante il quale l’uomo e il genere umano soggiogano la terra, corrisponde a questo fondamentale concetto della Bibbia solo quando contemporaneamente in tutto questo processo l’uomo manifesta e conferma se stesso come colui che domina. Quel dominio, in un certo senso, si riferisce alla dimensione soggettiva ancor più che a quella oggettiva: questa dimensione condiziona la stessa sostanza etica del lavoro. Non c’è, infatti, alcun dubbio che il lavoro umano abbia un suo valore etico, il quale senza mezzi termini e direttamente rimane legato al fatto che colui che lo compie è una persona, un soggetto consapevole e libero, cioè un soggetto che decide di se stesso. Questa verità che costituisce in un certo senso lo stesso fondamentale e perenne midollo della dottrina cristiana sul lavoro umano, ha avuto ed ha un significato primario per la formulazione degli importanti problemi sociali a misura di intere epoche.

b) Nobiltà del lavoro manuale, anche perché vissuto da Gesù sulla terra.

L’età antica introdusse tra gli uomini una propria tipica differenziazione in ceti a seconda del tipo di lavoro che seguivano. Il lavoro che richiedeva da parte del lavoratore l’impiego delle forze fisiche, il lavoro dei muscoli e delle mani, era considerato indegno degli uomini liberi, e alla sua esecuzione venivano, perciò, destinati gli schiavi. Il cristianesimo, ampliando alcuni aspetti propri già dell’Antico Testamento, ha operato qui una fondamentale trasformazione di concetti, partendo dall’intero contenuto del messaggio evangelico e soprattutto dal fatto che Colui, il quale essendo Dio è divenuto simile a noi in tutto, dedicò la maggior parte degli anni della sua vita sulla terra al lavoro manuale, presso un banco di carpentiere. Questa circostanza costituisce da sola il più eloquente Vangelo del lavoro, che manifesta come il fondamento per determinare il valore del lavoro umano non sia prima di tutto il genere di lavoro che si compie, ma il fatto che colui che lo esegue è una persona. Le fonti della dignità del lavoro si devono cercare soprattutto non nella sua dimensione oggettiva, ma nella sua dimensione soggettiva.

c) Il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro.

In una tale concezione sparisce quasi il fondamento stesso dell’antica differenziazione degli uomini in ceti, a seconda del genere di lavoro da essi eseguito. Ciò non vuol dire che il lavoro umano, dal punto di vista oggettivo, non possa e non debba essere in alcun modo valorizzato e qualificato. Ciò vuol dire solamente che il primo fondamento del valore del lavoro è l’uomo stesso, il suo soggetto. A ciò si collega subito una conclusione molto importante di natura etica: per quanto sia una verità che l’uomo è destinato ed è chiamato al lavoro, però prima di tutto il lavoro è per l’uomo, e non l’uomo per il lavoro. Con questa conclusione si arriva giustamente a riconoscere la preminenza del significato soggettivo del lavoro su quello oggettivo. Dato questo modo di intendere, e supponendo che vari lavori compiuti dagli uomini possano avere un maggiore o minore valore oggettivo, cerchiamo tuttavia di porre in evidenza che ognuno di essi si misura soprattutto con il metro della dignità del soggetto stesso del lavoro, cioè della persona, dell’uomo che lo compie. A sua volta: indipendentemente dal lavoro che ogni uomo compie, e supponendo che esso costituisca uno scopo – alle volte molto impegnativo – del suo operare, questo scopo non possiede un significato definitivo per se stesso. Difatti, in ultima analisi, lo scopo del lavoro, di qualunque lavoro eseguito dall’uomo – fosse pure il lavoro più di servizio, più monotono, nella scala del comune modo di valutazione, addirittura più emarginante – rimane sempre l’uomo stesso.

7. Una minaccia al giusto ordine dei valori.

a) Anche oggi il lavoro umano viene trattato come merce, in conseguenza di una concezione materialistica ed economicistica.

Proprio queste affermazioni basilari sul lavoro sono sempre emerse dalle ricchezze della verità cristiana, specialmente dal messaggio stesso del Vangelo del lavoro, creando il fondamento del nuovo modo di pensare, di valutare e di agire degli uomini. Nell’epoca moderna, fin dall’inizio dell’era industriale, la verità cristiana sul lavoro doveva contrapporsi alle varie correnti del pensiero materialistico ed economicistico. Per alcuni fautori di tali idee, il lavoro era inteso e trattato come una specie di merce, che il lavoratore – e specialmente l’operaio dell’industria -vende al datore di lavoro, che e al tempo stesso possessore del capitale, cioè dell’insieme degli strumenti di lavoro e dei mezzi che rendono possibile la produzione. Questo modo di concepire il lavoro era diffuso, in particolare, nella prima metà del secolo XIX. In seguito le esplicite formulazioni di questo tipo sono pressoché sparite, cedendo ad un modo più umano di pensare e di valutare il lavoro. L’interazione fra l’uomo del lavoro e l’insieme degli strumenti e dei mezzi di produzione ha dato luogo all’evolversi di diverse forme di capitalismo – parallelamente a diverse forme di collettivismo – dove si sono inseriti altri elementi socioeconomici a seguito di nuove circostanze concrete, dell’opera delle associazioni dei lavoratori e dei poteri pubblici, dell’apparire di grandi imprese transnazionali. Ciononostante, il pericolo di trattare il lavoro come una merce sui generis, o come una anonima forza necessaria alla produzione (si parla addirittura di forza-lavoro ), esiste sempre, e specialmente qualora tutta la visuale della problematica economica sia caratterizzata dalle premesse dell’economismo materialistico.

b) L’uomo trattato come uno strumento di produzione nella concezione errata del capitalismo.

Un’occasione sistematica e, in certo qual senso, perfino uno stimolo per questo modo di pensare e di valutare è costituito dall’accelerato processo di sviluppo della civiltà unilateralmente materialistica, nella quale si dà prima di tutto importanza alla dimensione oggettiva del lavoro, mentre la dimensione soggettiva – tutto ciò che è in rapporto indiretto o diretto con lo stesso soggetto del lavoro – rimane su di un piano secondario. In tutti i casi di questo genere, in ogni situazione sociale di questo tipo avviene una confusione o, addirittura, un’inversione dell’ordine stabilito all’inizio con le parole del Libro della Genesi: l’uomo viene trattato come uno strumento di produzione, mentre egli – egli solo, indipendentemente dal lavoro che compie – dovrebbe essere trattato come suo soggetto efficiente e suo vero artefice e creatore. Proprio tale inversione d’ordine, a prescindere dal programma e dalla denominazione secondo cui essa si compie, meriterebbe – nel senso indicato qui sotto più ampiamente – il nome di capitalismo. Si sa che il capitalismo ha il suo preciso significato storico in quanto sistema, e sistema economico-sociale, in contrapposizione al socialismo o comunismo. Ma, alla luce dell’analisi della realtà fondamentale dell’intero processo economico e, prima di tutto, della struttura di produzione – quale appunto è il lavoro – conviene riconoscere che l’errore del primitivo capitalismo può ripetersi dovunque l’uomo venga trattato, in un certo qual modo, al pari di tutto il complesso dei mezzi materiali di produzione, come uno strumento e non invece secondo la vera dignità del suo lavoro – cioè come soggetto e autore, e per ciò stesso come vero scopo di tutto il processo produttivo.

c) Il concetto dell’uomo soggetto del lavoro deve trovare un posto centrale nella sfera sociale ed economica del mondo intero.

Da questo si comprende come l’analisi del lavoro umano fatto alla luce di quelle parole, che riguardano il dominio dell’uomo sopra la terra, penetri al centro stesso della problematica etico-sociale. Questa concezione dovrebbe pure trovare un posto centrale in tutta la sfera della politica sociale ed economica, sia nell’ambito dei singoli Paesi, sia in quello più vasto dei rapporti internazionali ed intercontinentali, con particolare riferimento alle tensioni, che si delineano nel mondo non solo sull’asse Oriente-Occidente, ma anche sull’asse Nord-Sud. Hanno rivolto una decisa attenzione a queste dimensioni della problematica etico-sociale contemporanea sia Giovanni XXIII nell’enciclica Mater et Magistra, sia Paolo VI nell’enciclica Populorum progressio.

8. Solidarietà degli uomini del lavoro.

a) Nel secolo scorso è nata la cosiddetta questione operaia e il movimento operaio come reazione allo sfruttamento del lavoro umano.

Se si tratta del lavoro umano, nella fondamentale dimensione del suo soggetto, cioè dell’uomo persona che esegue un dato lavoro, si deve da questo punto di vista fare almeno una sommaria valutazione degli sviluppi, che nei novant’anni trascorsi dalla Rerum Novarum sono avvenuti in rapporto all’aspetto soggettivo del lavoro. Difatti, per quanto il soggetto del lavoro sia sempre lo stesso, cioè l’uomo, tuttavia nell’aspetto oggettivo si verificano notevoli variazioni. Benché si possa dire che il lavoro, a motivo del suo soggetto è uno (uno e ogni volta irripetibile), tuttavia, considerando le sue oggettive direzioni, bisogna constatare che esistono tanti lavori: tanti diversi lavori. Lo sviluppo della civiltà umana porta in questo campo un arricchimento continuo. Al tempo stesso, però, non si può non notare come nel processo di questo sviluppo non solo compaiono nuove forme di lavoro, ma pure che altre spariscono. Pur concedendo che in linea di massima questo sia un fenomeno normale, bisogna, tuttavia, vedere se non si infiltrino in esso, e in quale misura, certe irregolarità, che per motivi etico-sociali possono essere pericolose.

Proprio a motivo di una tale anomalia di grande portata è nata nel secolo scorso la cosiddetta “questione operaia”, definita a volte come questione proletaria. Tale questione – con i problemi ad essa connessi – ha dato origine ad una giusta reazione sociale, ha fatto sorgere e quasi irrompere un grande slancio di solidarietà tra gli uomini del lavoro e, prima di tutto, tra i lavoratori dell’industria. L’appello alla solidarietà e all’azione comune, lanciato agli uomini del lavoro – soprattutto a quelli del lavoro settoriale, monotono, spersonalizzante nei complessi industriali, quando la macchina tende a dominare sull’uomo – aveva un suo importante valore e una sua eloquenza dal punto di vista dell’etica sociale. Era la reazione contro la degradazione dell’uomo come soggetto del lavoro, e contro l’inaudito, concomitante sfruttamento nel campo dei guadagni, delle condizioni di lavoro e di previdenza per la persona del lavoratore. Tale reazione ha riunito il mondo operaio in una comunità caratterizzata da una grande solidarietà.

b) La naturale reazione contro le ingiustizie, deriva anche da una maggiore presa di coscienza.

Sulle orme dell’enciclica Rerum Novarum e di molti documenti successivi del Magistero della Chiesa bisogna francamente riconoscere che fu giustificata, dal punto di vista della morale sociale, la reazione contro il sistema di ingiustizia e di danno, che gridava vendetta al cospetto del Cielo, e che pesava sull’uomo del lavoro in quel periodo di rapida industrializzazione. Questo stato di cose era favorito dal sistema socio-politico liberale che, secondo le sue premesse di economicismo, rafforzava e assicurava l’iniziativa economica dei soli possessori del capitale, ma non si preoccupava abbastanza dei diritti dell’uomo del lavoro, affermando che il lavoro umano è soltanto uno strumento di produzione e che il capitale è il fondamento, il coefficiente e lo scopo della produzione. Da allora, la solidarietà degli uomini del lavoro, insieme con una presa di coscienza più netta e più impegnativa circa i diritti dei lavoratori da parte degli altri, ha prodotto in molti casi cambiamenti profondi. Si sono escogitati diversi nuovi sistemi. Si sono sviluppate diverse forme di neocapitalismo e di collettivismo. Non di rado gli uomini del lavoro possono partecipare, ed effettivamente partecipano, alla gestione ed al controllo della produttività delle imprese. Per il tramite di appropriate associazioni, essi influiscono sulle condizioni di lavoro e di rimunerazione, come anche sulla legislazione sociale. Ma nello stesso tempo vari sistemi ideologici o di potere, come anche nuove relazioni, sorte ai diversi livelli della convivenza umana, hanno lasciato persistere ingiustizie flagranti o ne hanno creato di nuove. A livello mondiale, lo sviluppo della civiltà e delle comunicazioni ha reso possibile una più completa diagnosi delle condizioni di vita e di lavoro dell’uomo in tutta la terra, ma ha anche messo in luce altre modalità di ingiustizia, ben più vaste di quelle che, nel secolo scorso, stimolarono l’unione degli uomini del lavoro per una particolare solidarietà nel mondo operaio. Così nei Paesi che hanno già compiuto un certo processo di rivoluzione industriale; così anche nei Paesi nei quali il cantiere primario del lavoro non cessa di essere la coltivazione della terra, o altre occupazioni ad essa consimili. Movimenti di solidarietà nel campo del lavoro – di una solidarietà che non deve mai essere chiusura al dialogo e alla collaborazione con gli altri – possono essere necessari anche in riferimento alle condizioni di ceti sociali che prima non erano in essi compresi, ma che subiscono, nei sistemi sociali e nelle condizioni di vita che cambiano, un’effettiva proletarizzazione, o addirittura si trovano in realtà già in una condizione di proletariato, la quale, anche se non ancora conosciuta con questo nome, di fatto è tale da meritarlo. In questa condizione possono trovarsi alcune categorie o gruppi dell’ intellighenzia lavorativa, specialmente quando insieme con l’accesso sempre più largo all’istruzione, col numero sempre crescente delle persone, che hanno conseguito diplomi per la loro preparazione culturale diminuisce il fabbisogno del loro lavoro. Tale disoccupazione degli intellettuali avviene o aumenta, quando l’istruzione accessibile non è orientata verso i tipi di impiego o di servizi richiesti dai veri bisogni della società, o quando il lavoro, per il quale si esige l’istruzione, almeno professionale, è meno ricercato o meno pagato di un lavoro manuale. É ovvio che l’istruzione di per se stessa costituisce sempre un valore ed un importante arricchimento della persona umana; ma ciononostante, taluni processi di proletarizzazione restano possibili indipendentemente da questo fatto.

c) Necessità di nuovi movimenti di solidarietà degli uomini del lavoro e con gli uomini del lavoro.

Perciò, bisogna continuare a interrogarsi circa il soggetto del lavoro e le condizioni in cui egli vive. Per realizzare la giustizia sociale nelle varie parti del mondo, nei vari Paesi e nei rapporti tra di loro, sono necessari sempre nuovi movimenti di solidarietà degli uomini del lavoro e di solidarietà con gli uomini del lavoro. Tale solidarietà deve essere sempre presente là dove lo richiedono la degradazione sociale del soggetto del lavoro, lo sfruttamento dei lavoratori e le crescenti fasce di miseria e addirittura di fame. La Chiesa e vivamente impegnata in questa causa, perché la considera come sua missione, suo servizio, come verifica della sua fedeltà a Cristo, onde essere veramente la Chiesa dei poveri. E i poveri compaiono sotto diverse specie; compaiono in diversi posti e in diversi momenti; compaiono in molti casi come risultato della violazione della dignità del lavoro umano: sia perché vengono limitate le possibilità del lavoro – cioè per la piaga della disoccupazione -, sia perché vengono svalutati il lavoro ed i diritti che da esso scaturiscono, specialmente il diritto al giusto salario, alla sicurezza della persona del lavoratore e della sua famiglia.

9. Lavoro: dignità della persona.

a) Alcuni problemi che definiscono meglio la dignità del lavoro umano.

Rimanendo ancora nella prospettiva dell’uomo come soggetto del lavoro, ci conviene toccare, almeno sinteticamente, alcuni problemi che definiscono più da vicino la dignità del lavoro umano, poiché permettono di caratterizzare più pienamente il suo specifico valore morale. Occorre far questo tenendo sempre davanti agli occhi quella vocazione biblica a soggiogare la terra, nella quale si è espressa la volontà del Creatore, perché il lavoro rendesse possibile all’uomo di raggiungere quel dominio che gli è proprio nel mondo visibile. La fondamentale e primordiale intenzione di Dio nei riguardi dell’uomo, che Egli creò… a sua somiglianza, a sua immagine, non è stata ritrattata né cancellata neppure quando l’uomo, dopo aver infranto l’originaria alleanza con Dio, udì le parole: Col sudore del tuo volto mangerai il pane. Queste parole si riferiscono alla fatica a volte pesante, che da allora accompagna il lavoro umano; però, non cambiano il fatto che esso è la via sulla quale l’uomo realizza il dominio, che gli è proprio, sul mondo visibile soggiogando la terra. Questa fatica è un fatto universalmente conosciuto, perché universalmente sperimentato. Lo sanno gli uomini del lavoro manuale, svolto talora in condizioni eccezionalmente gravose. Lo sanno non solo gli agricoltori, che consumano lunghe giornate nel coltivare la terra, la quale a volte produce pruni e spine, ma anche i minatori nelle miniere o nelle cave di pietra, i siderurgici accanto ai loro altiforni, gli uomini che lavorano nei cantieri edili e nel settore delle costruzioni in frequente pericolo di vita o di invalidità. Lo sanno, al tempo stesso, gli uomini legati al banco del lavoro intellettuale, lo sanno gli scienziati, lo sanno gli uomini sui quali grava la grande responsabilità di decisioni destinate ad avere vasta rilevanza sociale. Lo sanno i medici e gli infermieri, che vigilano giorno e notte accanto ai malati. Lo sanno le donne, che, talora senza adeguato riconoscimento da parte della società e degli stessi familiari, portano ogni giorno la fatica e la responsabilità della casa e dell’educazione dei figli. Lo sanno tutti gli uomini del lavoro e, poiché è vero che il lavoro è una vocazione universale, lo sanno tutti gli uomini. Eppure, con tutta questa fatica – e forse, in un certo senso, a causa di essa – il lavoro è un bene dell’uomo. Se questo bene comporta il segno di un bonum arduum secondo la terminologia di San Tommaso, ciò non toglie che, come tale, esso sia un bene dell’uomo. Ed è non solo un bene utile o da fruire, ma un bene degno, cioè corrispondente alla dignità dell’uomo, un bene che esprime questa dignità e la accresce. Volendo meglio precisare il significato etico del lavoro, si deve avere davanti agli occhi prima di tutto questa verità. Il lavoro è un bene dell’uomo – e un bene della sua umanità – perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, diventa più uomo.

 

b) Per non usare il lavoro contro l’uomo bisogna unire la virtù della laboriosità con l’ordine sociale del lavoro.

Senza questa considerazione non si può comprendere il significato della virtù della laboriosità, più particolarmente non si può comprendere perché la laboriosità dovrebbe essere una virtù: infatti, la virtù come attitudine morale, è ciò per cui l’uomo diventa buono in quanto uomo. Questo fatto non cambia per nulla la nostra giusta preoccupazione, affinché nel lavoro, mediante il quale la materia viene nobilitata, l’uomo stesso non subisca una diminuzione della propria dignità. É noto, ancora, che è possibile usare variamente il lavoro contro l’uomo, che si può punire l’uomo col sistema del lavoro forzato nei lager, che si può fare del lavoro un mezzo di oppressione dell’uomo, che infine si può in vari modi sfruttare il lavoro umano, cioè l’uomo del lavoro. Tutto ciò depone in favore dell’obbligo morale di unire la laboriosità come virtù con l’origine sociale del lavoro, che permetterà all’uomo di diventare più uomo nel lavoro, e non già di degradarsi a causa del lavoro, logorando non solo le forze fisiche (il che, almeno fino a un certo grado, è inevitabile), ma soprattutto intaccando la dignità e soggettività, che gli sono proprie.

10. Lavoro e società: famiglia, nazione.

a) Il lavoro è il fondamento su cui si forma la vita familiare e l’educazione nella famiglia.

Confermata in questo modo la dimensione personale del lavoro umano, si deve poi arrivare al secondo cerchio di valori, che è ad esso necessariamente unito. Il lavoro è il fondamento su cui si forma la vita familiare, la quale è un diritto naturale ed una vocazione dell’uomo. Questi due cerchi di valori – uno congiunto al lavoro, l’altro conseguente al carattere familiare della vita umana – devono unirsi tra sé correttamente, e correttamente permearsi. Il lavoro è, in un certo modo, la condizione per rendere possibile la fondazione di una famiglia, poiché questa esige i mezzi di sussistenza, che in via normale l’uomo acquista mediante il lavoro. Lavoro e laboriosità condizionano anche tutto il processo di educazione nella famiglia, proprio per la ragione che ognuno diventa uomo, fra l’altro, mediante il lavoro, e quel diventare uomo esprime appunto lo scopo principale di tutto il processo educativo. Evidentemente qui entrano in gioco, in un certo senso, due aspetti del lavoro: quello che consente la vita ed il mantenimento della famiglia, e quello mediante il quale si realizzano gli scopi della famiglia stessa, soprattutto l’educazione. Ciononostante, questi due aspetti del lavoro sono uniti tra di loro e si completano in vari punti. Nell’insieme si deve ricordare ed affermare che la famiglia costituisce uno dei più importanti termini di riferimento, secondo i quali deve essere formato l’ordine socio-etico del lavoro umano. La dottrina della Chiesa ha sempre dedicato una speciale attenzione a questo problema, e nel presente documento occorrerà che ritorniamo ancora su di esso. Infatti, la famiglia è, al tempo stesso, una comunità resa possibile dal lavoro e la prima interna scuola di lavoro per ogni uomo.

b) Funzione sociale dei tre cerchi di valori: lavoro e persona, famiglia, nazione.

Il terzo cerchio di valori che emerge nella presente prospettiva – nella prospettiva del soggetto del lavoro – riguarda quella grande società, alla quale l’uomo appartiene in base a particolari legami culturali e storici. Tale società – anche quando non ha ancora assunto la forma matura di una nazione – è non soltanto la grande educatrice di ogni uomo, benché indiretta (perché ognuno assume nella famiglia i contenuti e valori che compongono, nel suo insieme, la cultura di una data nazione), ma è anche una grande incarnazione storica e sociale del lavoro di tutte le generazioni. Tutto questo fa sì che l’uomo unisca la sua più profonda identità umana con l’appartenenza alla nazione, ed intenda il suo lavoro anche come incremento del bene comune elaborato insieme con i suoi compatrioti rendendosi così conto che per questa via il lavoro serve a moltiplicare il patrimonio di tutta la famiglia umana di tutti gli uomini viventi nel mondo. Questi tre cerchi conservano permanentemente la loro importanza per il lavoro umano nella sua dimensione soggettiva. E tale dimensione, cioè la concreta realtà dell’uomo del lavoro, ha la precedenza sulla dimensione oggettiva. Nella dimensione soggettiva si realizza, prima di tutto, quel dominio sul mondo della natura, al quale l’uomo è chiamato sin dall’inizio secondo le parole del Libro della Genesi. Se il processo stesso di soggiogare la terra, cioè il lavoro sotto l’aspetto della tecnica, è segnato nel corso della storia e, specialmente, negli ultimi secoli, da uno sviluppo immenso dei mezzi produttivi, allora questo è un fenomeno vantaggioso e positivo, a condizione che la dimensione oggettiva del lavoro non prenda il sopravvento sulla dimensione soggettiva, togliendo all’uomo o diminuendo la sua dignità e i suoi inalienabili diritti.

III. IL CONFLITTO TRA LAVORO E CAPITALE NELLA PRESENTE FASE STORICA

11. Dimensione di tale conflitto.

a) L’insegnamento della Chiesa sui problemi fondamentali del lavoro è rimasto sempre valido.

L’abbozzo della fondamentale problematica del lavoro qual è stato delineato sopra, come si riferisce ai primi testi biblici, così costituisce, in un certo senso, la stessa struttura portante dell’insegnamento della Chiesa, che si mantiene immutato attraverso i secoli, nel contesto delle varie esperienze della storia. Tuttavia, sullo sfondo delle esperienze che hanno preceduto la pubblicazione dell’enciclica Rerum Novarum e che la hanno seguita, esso acquista una particolare espressività ed un’eloquenza di viva attualità. Il lavoro appare in questa analisi come una grande realtà, che esercita un fondamentale influsso sulla formazione in senso umano del mondo affidato all’uomo dal Creatore, ed e una realtà strettamente legata all’uomo, come al proprio soggetto, ed al suo razionale operare. Questa realtà, nel corso normale delle cose, riempie la vita umana e incide fortemente sul suo valore e sul suo senso. Anche se unito con la fatica e con lo sforzo, il lavoro non cessa di essere un bene sicché l’uomo si sviluppa mediante l’amore per il lavoro. Questo carattere del lavoro umano, del tutto positivo e creativo, educativo e meritorio, deve costituire il fondamento delle valutazioni e delle decisioni, che oggi si prendono nei suoi riguardi, anche in riferimento ai diritti soggettivi dell’uomo, come attestano le Dichiarazioni internazionali ed anche i molteplici Codici del lavoro, elaborati sia dalle competenti istituzioni legislative dei singoli Paesi, sia dalle Organizzazioni che dedicano la loro attività sociale o anche scientifico-sociale alla problematica del lavoro. Un organismo che promuove a livello internazionale tali iniziative è l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, la più antica Istituzione specializzata dell’O.N.U. Nella parte successiva delle presenti considerazioni ho intenzione di ritornare in modo più dettagliato su questi importanti problemi ricordando almeno gli elementi fondamentali della dottrina della Chiesa intorno a questo tema. Prima però conviene toccare un cerchio molto importante di problemi, tra i quali si è venuto formando questo insegnamento nell’ultima fase, cioè nel periodo, la cui data, in un certo senso simbolica, è l’anno della pubblicazione dell’enciclica Rerum Novarum.

b) Il conflitto tra il mondo del capitale e il mondo del lavoro nasce dal conflitto ideologico tra il liberalismo ed il marxismo.

É noto che in tutto questo periodo, il quale non è affatto ancora terminato, il problema del lavoro è stato posto in base al grande conflitto che nell’epoca dello sviluppo industriale ed insieme con esso si è manifestato tra il mondo del capitale e il mondo del lavoro, cioè tra il gruppo ristretto, ma molto influente, degli imprenditori, proprietari o detentori dei mezzi di produzione, e la più vasta moltitudine di gente che era priva di questi mezzi, e che partecipava, invece, al processo produttivo esclusivamente mediante il lavoro. Tale conflitto è stato originato dal fatto che i lavoratori mettevano le loro forze a disposizione del gruppo degli imprenditori, e che questo, guidato dal principio del massimo profitto della produzione, cercava di stabilire il salario più basso possibile per il lavoro eseguito dagli operai. A ciò bisogna aggiungere anche altri elementi di sfruttamento, collegati con la mancanza di sicurezza del lavoro ed anche di garanzie circa le condizioni di salute e di vita degli operai e delle loro famiglie. Questo conflitto, interpretato da certuni come un conflitto socio-economico a carattere di classe, ha trovato la sua espressione nel conflitto ideologico tra il liberalismo, inteso come ideologia del capitalismo, ed il marxismo, inteso come ideologia del socialismo scientifico e del comunismo, che pretende di intervenire in veste di portavoce della classe operaia, di tutto il proletariato mondiale. In questo modo il reale conflitto, che esisteva tra il mondo del lavoro ed il mondo del capitale, si è trasformato nella lotta programmata di classe, condotta con metodi non solo ideologici, ma addirittura, e prima di tutto, politici. É nota la storia di questo conflitto, come note sono anche le richieste dell’una e dell’altra parte. Il programma marxista, basato sulla filosofia di Marx e di Engels, vede nella lotta di classe l’unica via per l’eliminazione delle ingiustizie di classe, esistenti nella società, e delle classi stesse. L’attuazione di questo programma permette la collettivizzazione dei mezzi di produzione, affinché, mediante il trasferimento di questi mezzi dai privati alla collettività, il lavoro umano venga preservato dallo sfruttamento.

c) Secondo il principio della dittatura del proletariato, il marxismo tende al monopolio del potere nelle singole società.

A questo tende la lotta condotta con metodi non solo ideologici, ma anche politici. I raggruppamenti, ispirati dall’ideologia marxista come partiti politici, tendono, in funzione del principio della dittatura del proletariato ed esercitando influssi di vario tipo, compresa la pressione rivoluzionaria, al monopolio del potere nelle singole società, per introdurre in esse, mediante l’eliminazione della proprietà privata dei mezzi di produzione, il sistema collettivistico. Secondo i principali ideologi e capi di questo ampio movimento internazionale, lo scopo di un tale programma di azione è quello di compiere la rivoluzione sociale e di introdurre in tutto il mondo il socialismo e, in definitiva, il sistema comunista. Toccando questo cerchio estremamente importante di problemi, che costituiscono non solo una teoria, ma proprio un tessuto di vita socio-economica, politica e internazionale della nostra epoca, non si può e non è nemmeno necessario entrare in particolari, poiché questi sono conosciuti sia grazie ad una vasta letteratura, sia in base alle esperienze pratiche. Si deve, invece, risalire dal loro contesto al problema fondamentale del lavoro umano, al quale sono dedicate soprattutto le considerazioni contenute nel presente documento. Al tempo stesso, infatti, è evidente che questo problema capitale, sempre dal punto di vista dell’uomo – problema che costituisce una delle fondamentali dimensioni della sua esistenza terrena e della sua vocazione -, non può essere altrimenti spiegato se non tenendo conto del pieno contesto della realtà contemporanea.

12. Priorità del lavoro.

a) Il lavoro ha la priorità nei confronti del capitale.

Di fronte all’odierna realtà, nella cui struttura si trovano così profondamente in scritti tanti conflitti causati dall’uomo, e nella quale i mezzi tecnici – frutto del lavoro umano – giocano un ruolo primario (si pensi qui anche alla prospettiva di un cataclisma mondiale nell’eventualità di una guerra nucleare dalle possibilità distruttive quasi inimmaginabili), si deve prima di tutto ricordare un principio sempre insegnato dalla Chiesa. Questo è il principio della priorità del lavoro nei confronti del capitale. Questo principio riguarda direttamente il processo stesso di produzione, in rapporto al quale il lavoro è sempre una causa efficiente primaria, mentre il capitale, essendo l’insieme dei mezzi di produzione, rimane solo uno strumento o la causa strumentale. Questo principio è verità evidente che risulta da tutta l’esperienza storica dell’uomo. Quando nel primo capitolo della Bibbia sentiamo che l’uomo deve soggiogare la terra, noi sappiamo che queste parole si riferiscono a tutte le risorse, che il mondo visibile racchiude in sé, messe a disposizione dell’uomo. Tuttavia, tali risorse non possono servire all’uomo se non mediante il lavoro. Col lavoro rimane pure legato sin dall’inizio il problema della proprietà: infatti, per far servire a sé e agli altri le risorse nascoste nella natura, l’uomo ha come unico mezzo il suo lavoro. É per poter far fruttificare queste risorse per il tramite del suo lavoro, l’uomo si appropria di piccole parti delle diverse ricchezze della natura: del sottosuolo, del mare, della terra, dello spazio. Di tutto questo egli si appropria facendone il suo banco di lavoro. Se ne appropria mediante il lavoro e per un ulteriore lavoro. Lo stesso principio si applica alle fasi successive di questo processo, nel quale la prima fase rimane sempre la relazione dell’uomo con le risorse e con le ricchezze della natura. Tutto lo sforzo conoscitivo, tendente a scoprire queste ricchezze, a individuare le varie possibilità della loro utilizzazione da parte dell’uomo e per l’uomo, ci rende consapevoli che tutto ciò che nell’intera opera di produzione economica proviene dall’uomo, sia il lavoro come pure l’insieme dei mezzi di produzione e la tecnica collegata con essi (cioè la capacità di adoperare questi mezzi nel lavoro), suppone queste ricchezze e risorse del mondo visibile, che l’uomo trova, ma non crea. Egli le trova, in un certo senso, già pronte, preparate per la scoperta conoscitiva e per la corretta utilizzazione nel processo produttivo. In ogni fase dello sviluppo del suo lavoro, l’uomo si trova di fronte al fatto della principale donazione da parte della natura, e cioè in definitiva da parte del Creatore. All’inizio del lavoro umano sta il mistero della creazione. Questa affermazione, già indicata come punto di partenza, costituisce il filo conduttore di questo documento, e verrà sviluppata ulteriormente nell’ultima parte delle presenti riflessioni.

b) I mezzi di produzione sono il frutto del patrimonio storico del lavoro umano.

La successiva considerazione dello stesso problema deve confermarci nella convinzione circa la priorità del lavoro umano in rapporto a ciò che, col passar del tempo, si è abituati a chiamare capitale. Se infatti nell’ambito di quest’ultimo concetto rientrano, oltre che le risorse della natura messe a disposizione dell’uomo, anche quell’insieme di mezzi, mediante i quali l’uomo se ne appropria, trasformandole a misura delle sue necessità (e in questo modo, in qualche senso, umanizzandole ), allora già qui si deve constatare che quell’insieme di mezzi è frutto del patrimonio storico del lavoro umano. Tutti i mezzi di produzione, dai più primitivi fino a quelli ultramoderni, è l’uomo che li ha gradualmente elaborati: l’esperienza e l’intelletto dell’uomo. In questo modo sono sorti non solo gli strumenti più semplici che servono alla coltivazione della terra, ma anche – con un adeguato progresso della scienza e della tecnica – quelli più moderni e complessi: le macchine le fabbriche, i laboratori e i computers. Così, tutto ciò che serve al lavoro, tutto ciò che costituisce – allo stato odierno della tecnica – il suo strumento sempre più perfezionato, è frutto del lavoro. Questo gigantesco e potente strumento – l’insieme dei mezzi di produzione, che sono considerati, in un certo senso, come sinonimo di capitale -, è nato dal lavoro e porta su di sé i segni del lavoro umano. Al presente grado di avanzamento della tecnica, l’uomo, che è il soggetto del lavoro, volendo servirsi di quest’insieme di moderni strumenti, ossia dei mezzi di produzione, deve prima assimilare sul piano della conoscenza il frutto del lavoro degli uomini che hanno scoperto quegli strumenti, che li hanno programmati, costruiti e perfezionati, e che continuano a farlo. La capacità di lavoro – cioè di partecipazione efficiente al moderno processo di produzione – esige una preparazione sempre maggiore e, prima di tutto, una adeguata istruzione. Resta chiaro ovviamente che ogni uomo, che partecipa al processo di produzione, anche nel caso che esegua solo quel tipo di lavoro, per il quale non sono necessari una particolare istruzione e speciali qualificazioni, e tuttavia in questo processo di produzione il vero soggetto efficiente, mentre l’insieme degli strumenti, anche il più perfetto in se stesso è solo ed esclusivamente strumento subordinato al lavoro dell’uomo. Questa verità, che appartiene al patrimonio stabile della dottrina della Chiesa, deve esser sempre sottolineata in relazione al problema del sistema di lavoro, ed anche di tutto il sistema socio-economico. Bisogna sottolineare e mettere in risalto il primato dell’uomo nel processo di produzione, il primato dell’uomo di fronte alle cose. Tutti ciò che e contenuto nel concetto di capitale – in senso ristretto – è solamente un insieme di cose. L’uomo come soggetto del lavoro, ed indipendentemente dal lavoro che compie, l’uomo, egli solo, è una persona. Questa verità contiene in sé conseguenze importanti e decisive.

13. Economismo e materialismo.

a) Occorre superare l’antinomia tra capitale e lavoro.

Prima di tutto, alla luce di questa verità, si vede chiaramente che non si può separare il capitale dal lavoro, e che in nessun modo si può contrapporre il lavoro al capitale né il capitale al lavoro, né ancora meno – come si spiegherà più avanti – gli uomini concreti, che sono dietro a questi concetti, gli uni agli altri. Retto, cioè conforme all’essenza stessa del problema; retto, cioè intrinsecamente vero e al tempo stesso moralmente legittimo, può essere quel sistema di lavoro che alle sue stesse basi supera l’antinomia tra lavoro e capitale, cercando di strutturarsi secondo il principio sopra esposto della sostanziale ed effettiva priorità del lavoro, della soggettività del lavoro umano e della sua efficiente partecipazione a tutto il processo di produzione, e ciò indipendentemente dalla natura delle prestazioni che sono eseguite dal lavoratore. L’antinomia tra lavoro e capitale non ha la sua sorgente nella struttura dello stesso processo di produzione, e neppure in quella del processo economico. In generale questo processo dimostra, infatti, la reciproca compenetrazione tra il lavoro e ciò che siamo abituati a chiamare il capitale; dimostra il loro legame indissolubile. L’uomo, lavorando a qualsiasi banco di lavoro, sia esso relativamente primitivo oppure ultra-moderno, può rendersi conto facilmente che col suo lavoro entra in un duplice patrimonio, cioè nel patrimonio di ciò che è dato a tutti gli uomini nelle risorse della natura, e di ciò che gli altri hanno già in precedenza elaborato sulla base di queste risorse, prima di tutto sviluppando la tecnica, cioè formando un insieme di strumenti di lavoro sempre più perfetti: l’uomo, lavorando, al tempo stesso subentra nel lavoro degli altri. Accettiamo senza difficoltà una tale immagine del campo e del processo del lavoro umano, guidati sia dall’intelligenza sia dalla fede che attinge la luce dalla Parola di Dio. É questa un’immagine coerente, teologica ed insieme umanistica. L’uomo è in essa il padrone delle creature, che sono messe a sua disposizione nel mondo visibile. Se nel processo del lavoro si scopre qualche dipendenza, questa è la dipendenza dal Datore di tutte le risorse della creazione, ed è a sua volta la dipendenza da altri uomini, da coloro al cui lavoro ed alle cui iniziative dobbiamo le già perfezionate e ampliate possibilità del nostro lavoro. Di tutto ciò che nel processo di produzione costituisce un insieme di cose, degli strumenti, del capitale, possiamo solo affermare che esso condiziona il lavoro dell’uomo; non possiamo, invece, affermare che esso costituisca quasi il soggetto anonimo che rende dipendente l’uomo e il suo lavoro.

b) L’errore dell’economismo è stato quello di contrapporre il capitale al lavoro e viceversa.

La rottura di questa coerente immagine, nella quale è strettamente salvaguardato il principio del primato della persona sulle cose, si è compiuta nel pensiero umano, talvolta dopo un lungo periodo di incubazione nella vita pratica. E si è compiuta in modo tale che il lavoro è stato separato dal capitale e contrapposto al capitale, e il capitale contrapposto al lavoro, quasi come due forze anonime, due fattori di produzione messi insieme nella stessa prospettiva economistica. In tale impostazione del problema vi era l’errore fondamentale, che si può chiamare l’errore dell’economismo, se si considera il lavoro umano esclusivamente secondo la sua finalità economica. Si può anche e si deve chiamare questo errore fondamentale del pensiero un errore del materialismo, in quanto l’economismo include, direttamente o indirettamente, la convinzione del primato e della superiorità di ciò che è materiale, mentre invece esso colloca ciò che è spirituale e personale (l’operare dell’uomo, i valori morali e simili), direttamente o indirettamente, in una posizione subordinata alla realtà materiale. Questo non è ancora il materialismo teorico nel pieno senso della parola; però, è già certamente materialismo pratico, il quale, non tanto in virtù delle premesse derivanti dalla teoria materialistica, quanto in virtù di un determinato modo di valutare, quindi di una certa gerarchia dei beni, basata sulla immediata e maggiore attrattiva di ciò che è materiale, è giudicato capace di appagare i bisogni dell’uomo.

c) L’economismo è una causa dell’impostazione non umanistica del problema del lavoro.

L’errore di pensare secondo le categorie dell’economismo è andato di pari passo col sorgere della filosofia materialistica, con lo sviluppo di questa filosofia dalla fase più elementare e comune (chiamata anche materialismo volgare, perché pretende di ridurre la realtà spirituale ad un fenomeno superfluo) alla fase del cosiddetto materialismo dialettico. Sembra tuttavia che – nel quadro delle presenti riflessioni -, per il fondamentale problema del lavoro umano e, in particolare, per quella separazione e contrapposizione tra lavoro e capitale, come tra due fattori della produzione considerati in quella stessa prospettiva economistica, di cui sopra, l’economismo abbia avuto un’importanza decisiva ed abbia influito, proprio su tale impostazione non-umanistica di questo problema, prima del sistema filosofico materialistico. Nondimeno, è cosa evidente che il materialismo, anche nella sua forma dialettica, non è in grado di fornire alla riflessione sul lavoro umano basi sufficienti e definitive perché il primato dell’uomo sullo strumento-capitale, il primato della persona sulle cose, possa trovare in esso un’adeguata ed irrefutabile verifica e appoggio. Anche nel materialismo dialettico l’uomo non è, prima di tutto, soggetto del lavoro e causa efficiente del processo di produzione, ma rimane inteso e trattato in dipendenza da ciò che è materiale come una specie di risultante dei rapporti economici e di produzione, predominanti in una data epoca.

d) L’antinomia tra lavoro e capitale è sorta soprattutto dal desiderio smodato di arricchimento.

Evidentemente l’antinomia tra lavoro e capitale qui considerata – l’antinomia nel cui quadro il lavoro è stato separato dal capitale e contrapposto ad esso, in un certo senso anticamente, come se fosse un elemento qualsiasi del processo economico – ha inizio non solamente nella filosofia e nelle teorie economiche del secolo XVIII, ma molto più ancora in tutta la prassi economico-sociale di quel tempo, che era quello dell’industrializzazione che nasceva e si sviluppava precipitosamente, nella quale si scopriva in primo luogo la possibilità di moltiplicare grandemente le ricchezze materiali, cioè i mezzi, ma si perdeva di vista il fine, cioè l’uomo, al quale questi mezzi devono servire. Proprio questo errore di ordine pratico ha colpito prima di tutto il lavoro umano, l’uomo del lavoro, e ha causato la reazione sociale, eticamente giusta, della quale si è già parlato. Lo stesso errore, che ormai ha il suo determinato aspetto storico, legato col periodo del primitivo capitalismo e liberalismo, può però ripetersi in altre circostanze di tempo e di luogo, se si parte, nel ragionamento, dalle stesse premesse sia teoriche che pratiche. Non si vede altra possibilità di un superamento radicale di questo errore, se non intervengono adeguati cambiamenti sia nel campo della teoria, come in quello della pratica, cambiamenti che procedano su una linea di decisa convinzione del primato della persona sulle cose, del lavoro dell’uomo sul capitale come insieme dei mezzi di produzione.

14. Lavoro e proprietà.

a) Il pensiero della Chiesa su lavoro e proprietà differisce sia dal marxismo che dal capitalismo.

Il processo storico – qui brevemente presentato – che è certo uscito dalla sua fase iniziale ma che continua ad essere in vigore, anzi ad estendersi nei rapporti tra le nazioni e i continenti, esige una precisazione anche da un altro punto di vista. É evidente che, quando si parla dell’antinomia tra lavoro e capitale non si tratta solo di concetti astratti o di forze anonime operanti nella produzione economica. Dietro l’uno e l’altro concetto ci sono gli uomini, gli uomini vivi, concreti. da una parte coloro che eseguono il lavoro senza essere proprietari dei mezzi di produzione, e dall’altra coloro che fungono da imprenditori e sono proprietari di questi mezzi, oppure rappresentano i proprietari. Così, quindi nell’insieme di questo difficile processo storico sin dall’inizio si inserisce il problema della proprietà. L’enciclica Rerum Novarum, che ha come tema la questione sociale, pone l’accento anche su questo problema, ricordando e confermando la dottrina della Chiesa sulla proprietà, sul diritto di proprietà privata, anche quando si tratta dei mezzi di produzione. Lo stesso ha fatto l’enciclica Mater et Magistra. Il suddetto principio, così come fu allora ricordato e come è tuttora insegnato dalla Chiesa, diverge radicalmente dal programma del collettivismo, proclamato dal marxismo e realizzato in vari Paesi del mondo nei decenni seguiti all’epoca dell’enciclica di Leone XIII. Esso, al tempo stesso, differisce dal programma del capitalismo praticato dal liberalismo e dai sistemi politici, che ad esso si richiamano. In questo secondo caso, la differenza consiste nel modo di intendere lo stesso diritto di proprietà. La tradizione cristiana non ha mai sostenuto questo diritto come un qualcosa di assoluto ed intoccabile. Al contrario, essa l’ha sempre inteso nel più vasto contesto del comune diritto di tutti ad usare i beni dell’intera creazione: il diritto della proprietà privata come subordinato al diritto dell’uso comune, alla destinazione universale dei beni.

 

b) La proprietà si acquista prima di tutto mediante il lavoro perché essa serva al lavoro.

Inoltre, la proprietà secondo l’insegnamento della Chiesa non è stata mai intesa in modo da poter costituire un motivo di contrasto sociale nel lavoro. Come è già stato ricordato precedentemente in questo testo, la proprietà si acquista prima di tutto mediante il lavoro perché essa serva al lavoro. Ciò riguarda in modo particolare la proprietà dei mezzi di produzione. Il considerarli isolatamente come un insieme di proprietà a parte al fine di contrapporlo nella forma del capitale al lavoro e ancor più di esercitare lo sfruttamento del lavoro, è contrario alla natura stessa di questi mezzi e del loro possesso. Essi non possono essere posseduti contro il lavoro, non possono essere neppure posseduti per possedere, perché l’unico titolo legittimo al loro possesso – e ciò sia nella forma della proprietà privata, sia in quella della proprietà pubblica o collettiva – è che essi servano al lavoro; e che conseguentemente, servendo al lavoro, rendano possibile la realizzazione del primo principio di quell’ordine, che è la destinazione universale dei beni e il diritto al loro uso comune. Da questo punto di vista, quindi, in considerazione del lavoro umano e dell’accesso comune ai beni destinati all’uomo, è anche da non escludere la socializzazione, alle opportune condizioni, di certi mezzi di produzione. Nello spazio dei decenni che ci separano dalla pubblicazione dell’enciclica Rerum Novarum, l’insegnamento della Chiesa ha sempre ricordato tutti questi principi, risalendo agli argomenti formulati nella tradizione molto più antica, per esempio ai noti argomenti della Summa Theologiae di San Tommaso d’Aquino.

c) Il concetto di proprietà privata dei mezzi di produzione deve essere riveduto.

Nel presente documento, che ha come tema principale il lavoro umano, conviene confermare tutto lo sforzo con cui l’insegnamento della Chiesa sulla proprietà ha cercato e cerca sempre di assicurare il primato del lavoro e, per ciò stesso, la soggettività dell’uomo nella vita sociale e, specialmente, nella struttura dinamica di tutto il processo economico. Da questo punto di vista, continua a rimanere inaccettabile la posizione del rigido capitalismo, il quale difende l’esclusivo diritto della proprietà privata dei mezzi di produzione come un dogma intoccabile nella vita economica. Il principio del rispetto del lavoro esige che questo diritto sia sottoposto ad una revisione costruttiva, sia in teoria che in pratica. Se infatti è una verità che il capitale, come l’insieme dei mezzi di produzione, è al tempo stesso il prodotto del lavoro di generazioni, allora è parimente vero che esso si crea incessantemente grazie al lavoro effettuato con l’aiuto di quest’insieme dei mezzi di produzione, che appaiono come un grande banco di lavoro, al quale s’impegna, giorno per giorno, la presente generazione dei lavoratori. Si tratta qui, ovviamente, delle varie specie di lavoro, non solo del cosiddetto lavoro manuale, ma anche del molteplice lavoro intellettuale, da quello di concetto a quello direttivo.

d) Numerose le proposte della dottrina sociale della Chiesa circa la comproprietà dei mezzi di lavoro e la gestione delle imprese.

In questa luce acquistano un significato di particolare rilievo le numerose proposte avanzate dagli esperti della dottrina sociale cattolica ed anche dal supremo Magistero della Chiesa. Sono, queste, le proposte riguardanti la comproprietà dei mezzi di lavoro, la partecipazione dei lavoratori alla gestione e/o ai profitti delle imprese, il cosiddetto azionariato del lavoro, e simili. Indipendentemente dall’applicabilità concreta di queste diverse proposte, rimane evidente che il riconoscimento della giusta posizione del lavoro e dell’uomo del lavoro nel processo produttivo esige vari adattamenti nell’ambito dello stesso diritto della proprietà dei mezzi di produzione; e ciò prendendo in considerazione non solo le situazioni più antiche, ma prima di tutto la realtà e la problematica, che si è creata nella seconda metà del secolo in corso, per quanto riguarda il cosiddetto Terzo Mondo ed i vari nuovi Paesi indipendenti che son sorti, specialmente ma non soltanto in Africa, al posto dei territori coloniali di una volta.

 

e) La proprietà privata dei mezzi di produzione non può essere eliminata aprioristicamente.

Se dunque la posizione del rigido capitalismo deve essere continuamente sottoposta a revisione in vista di una riforma sotto l’aspetto dei diritti dell’uomo, intesi nel modo più vasto e connessi con il suo lavoro, allora dallo stesso punto di vista si deve affermare che queste molteplici e tanto desiderate riforme non possono essere realizzate mediante l’eliminazione aprioristica della proprietà privata dei mezzi di produzione. Occorre, infatti, osservare che la semplice sottrazione di quei mezzi di produzione (il capitale) dalle mani dei loro proprietari privati non è sufficiente per socializzarli in modo soddisfacente. Essi cessano di essere proprietà di un certo gruppo sociale, cioè dei proprietari privati, per diventare proprietà della società organizzata, venendo sottoposti all’amministrazione ed al controllo diretto di un altro gruppo di persone, di queste cioè che, pur non avendone la proprietà, ma esercitando il potere nella società, dispongono di essi al livello dell’intera economia nazionale oppure dell’economia locale.

f) Uno Stato attua una vera socializzazione solo se ogni lavoratore si sente comproprietario degli strumenti del proprio lavoro.

Questo gruppo dirigente e responsabile può assolvere i suoi compiti in modo soddisfacente dal punto di vista del primato del lavoro – ma può anche adempierli male, rivendicando al tempo stesso per sé il monopolio dell’amministrazione e della disposizione dei mezzi di produzione e non arrestandosi neppure davanti all’offesa dei fondamentali diritti dell’uomo. Così, quindi, il solo passaggio dei mezzi di produzione in proprietà dello Stato, nel sistema collettivistico, non è certo equivalente alla socializzazione di questa proprietà. Si può parlare di socializzazione solo quando sia assicurata la soggettività della società, cioè quando ognuno, in base al proprio lavoro, abbia il pieno titolo di considerarsi al tempo stesso il com-proprietario del grande banco di lavoro, al quale s’impegna insieme con tutti. E una via verso tale traguardo potrebbe essere quella di associare, per quanto è possibile, il lavoro alla proprietà del capitale e di dar vita a una ricca gamma di corpi intermedi a finalità economiche, sociali, culturali: corpi che godano di una effettiva autonomia nei confronti dei pubblici poteri, che perseguano i loro specifici obiettivi in rapporti di leale collaborazione vicendevole, subordinatamente alle esigenze del bene comune, e che presentino forma e sostanza di una viva comunità, cioè che in essi i rispettivi membri siano considerati e trattati come persone e stimolati a prendere parte attiva alla loro vita.

15. Argomento personalistico.

a) La priorità del lavoro nei confronti del capitale discende dalla morale sociale.

Così, quindi, il principio della priorità del lavoro nei confronti del capitale è un postulato appartenente all’ordine della morale sociale. Tale postulato ha la sua importanza-chiave tanto nel sistema costruito sul principio della proprietà privata dei mezzi di produzione, quanto nel sistema in cui la proprietà privata di questi mezzi è stata limitata anche radicalmente. Il lavoro è, in un certo senso, inseparabile dal capitale e non accetta sotto nessuna forma quell’antinomia, cioè la separazione e la contrapposizione in rapporto ai mezzi di produzione, che ha gravato sopra la vita umana negli ultimi secoli, come risultato di premesse unicamente economiche. Quando l’uomo lavora servendosi dell’insieme dei mezzi di produzione, egli al tempo stesso desidera che i frutti di questo lavoro servano a lui e agli altri e che, nel processo stesso del lavoro, possa apparire come corresponsabile e co-artefice al banco di lavoro, presso il quale si applica.

b) Secondo l’insegnamento della Chiesa il lavoro umano riguarda sia l’economia che le persone.

Da ciò nascono alcuni specifici diritti dei lavoratori, che corrispondono all’obbligo del lavoro. Se ne parlerà in seguito. Ma già qui bisogna sottolineare, in generale, che l’uomo che lavora desidera non solo la debita remunerazione per il suo lavoro, ma anche che sia presa in considerazione nel processo stesso di produzione la possibilità che egli lavorando, anche in una proprietà comune, al tempo stesso sappia di lavorare in proprio. Questa consapevolezza viene spenta in lui nel sistema di un’eccessiva centralizzazione burocratica, nella quale il lavoratore si sente un ingranaggio di un grande meccanismo mosso dall’alto e – a più di un titolo – un semplice strumento di produzione piuttosto che un vero soggetto di lavoro, dotato di propria iniziativa. L’insegnamento della Chiesa ha sempre espresso la ferma e profonda convinzione che il lavoro umano non riguarda soltanto l’economia, ma coinvolge anche, e soprattutto, i valori personali. Il sistema economico stesso e il processo di produzione traggono vantaggio proprio quando questi valori personali sono pienamente rispettati. Secondo il pensiero di San Tommaso d’Aquino, è soprattutto questa ragione che depone in favore della proprietà privata dei mezzi stessi di produzione. Se accettiamo che per certi, fondati motivi, eccezioni possono essere fatte al principio della proprietà privata – e nella nostra epoca siamo addirittura testimoni che è stato introdotto il sistema della proprietà socializzata – tuttavia l’argomento personalistico non perde la sua forza né a livello di principi, né a livello pratico. Per essere razionale e fruttuosa, ogni socializzazione dei mezzi di produzione deve prendere in considerazione questo argomento. Si deve fare di tutto perché l’uomo, anche in un tale sistema, possa conservare la consapevolezza di lavorare in proprio. In caso contrario, in tutto il processo economico sorgono necessariamente danni incalcolabili, e danni non solo economici, ma prima di tutto danni nell’uomo.

IV. DIRITTI DEGLI UOMINI DEL LAVORO

16. Nel vasto contesto dei diritti dell’uomo.

a) Il rispetto dei diritti umani è la condizione fondamentale per la pace nel mondo contemporaneo.

Se il lavoro – nel molteplice senso di questa parola – è un obbligo, cioè un dovere, al tempo stesso esso è anche una sorgente di diritti da parte del lavoratore. Questi diritti devono essere esaminati nel vasto contesto dell’insieme dei diritti dell’uomo, che gli sono connaturali, molti dei quali sono proclamati da varie istanze internazionali e sempre maggiormente garantiti dai singoli Stati per i propri cittadini. Il rispetto di questo vasto insieme di diritti dell’uomo costituisce la condizione fondamentale per la pace nel mondo contemporaneo: per la pace sia all’interno dei singoli Paesi e società, sia nell’ambito dei rapporti internazionali, come è già stato notato molte volte dal Magistero della Chiesa, specialmente dal tempo dell’enciclica Pacem in terris. I diritti umani che scaturiscono dal lavoro rientrano precisamente nel più vasto contesto di quei fondamentali diritti della persona.

b) Obbligo morale del lavoro per ogni uomo.

Tuttavia, nell’ambito di questo contesto, essi hanno un carattere specifico, rispondente alla specifica natura del lavoro umano delineata precedentemente, e proprio secondo questo carattere occorre guardarli. Il lavoro è – come è stato detto – un obbligo, cioè un dovere dell’uomo, e ciò nel molteplice senso di questa parola. L’uomo deve lavorare sia per il fatto che il Creatore gliel’ha ordinato, sia per il fatto della sua stessa umanità, il cui mantenimento e sviluppo esigono il lavoro. L’uomo deve lavorare per riguardo al prossimo, specialmente per riguardo alla propria famiglia, ma anche alla società, alla quale appartiene, alla nazione, della quale è figlio o figlia, all’intera famiglia umana, di cui è membro, essendo erede del lavoro di generazioni e insieme co-artefice del futuro di coloro che verranno dopo di lui nel succedersi della storia. Tutto ciò costituisce l’obbligo morale del lavoro, inteso nella sua ampia accezione. Quando occorrerà considerare i diritti morali di ogni uomo per riguardo al lavoro, corrispondenti a questo obbligo, si dovrà avere sempre davanti agli occhi l’intero vasto raggio di riferimenti, nei quali si manifesta il lavoro di ogni soggetto lavorante. Infatti, parlando dell’obbligo del lavoro e dei diritti del lavoratore corrispondenti a questo obbligo, noi abbiamo in mente, prima di tutto, il rapporto tra il datore di lavoro – diretto o indiretto – e il lavoratore stesso. La distinzione tra datore di lavoro diretto ed indiretto pare molto importante in considerazione sia della reale organizzazione del lavoro, sia della possibilità del formarsi di giusti od ingiusti rapporti nel settore del lavoro. Se il datore di lavoro diretto è quella persona o istituzione, con la quale il lavoratore stipula direttamente il contratto di lavoro secondo determinate condizioni, allora come datore di lavoro indiretto si devono intendere molti fattori differenziati, oltre il datore di lavoro diretto, che esercitano un determinato influsso sul modo in cui si formano sia il contratto di lavoro, sia, in conseguenza, i rapporti più o meno giusti nel settore del lavoro umano.

17. Datore di lavoro: indiretto e diretto.

a) Le responsabilità morali verso i lavoratori valgono anche per il datore di lavoro indiretto.

Nel concetto di datore di lavoro indiretto entrano sia le persone sia le istituzioni di vario tipo, come anche i contratti collettivi di lavoro e i principi di comportamento, stabiliti da queste persone ed istituzioni, i quali determinano tutto il sistema socio-economico o da esso risultano. Il concetto di datore di lavoro indiretto si riferisce così a molti e vari elementi. La responsabilità del datore di lavoro indiretto è diversa da quella del datore di lavoro diretto – come indica la stessa parola: la responsabilità è meno diretta -,ma essa rimane una vera responsabilità: il datore di lavoro indiretto determina sostanzialmente l’uno o l’altro aspetto del rapporto di lavoro, e condiziona in tal modo il comportamento del datore di lavoro diretto, quando quest’ultimo determina concretamente il contratto ed i rapporti di lavoro. Una constatazione del genere non ha come scopo quello di esimere quest’ultimo dalla responsabilità che gli è propria, ma solamente di richiamare l’attenzione su tutto l’intreccio di condizionamenti che influiscono sul suo comportamento. Quando si tratta di stabilire una politica del lavoro corretta dal punto di vista etico, bisogna tenere davanti agli occhi tutti questi condizionamenti. Ed essa è corretta, allorché sono pienamente rispettati gli oggettivi diritti dell’uomo del lavoro.

b) Lo Stato come primo datore di lavoro indiretto deve condurre una giusta politica del lavoro.

Il concetto di datore di lavoro indiretto si può applicare ad ogni singola società e, prima di tutto, allo Stato. É, infatti, lo Stato che deve condurre una giusta politica del lavoro. É noto, però, che nel presente sistema dei rapporti economici nel mondo, si verificano tra i singoli Stati molteplici collegamenti, che si esprimono per esempio nel processo d’importazione e d’esportazione, cioè nel reciproco scambio dei beni economici, siano essi le materie prime, o i semilavorati, o, infine, i prodotti industriali finiti. Questi rapporti creano anche reciproche dipendenze e, di conseguenza, sarebbe difficile parlare di piena autosufficienza, cioè di autarchia, in riferimento a qualunque Stato, fosse pure il più potente in senso economico. Un tale sistema di reciproca dipendenza è normale in se stesso: tuttavia, può facilmente diventare occasione di varie forme di sfruttamento o di ingiustizia, e, di conseguenza, influire sulla politica di lavoro dei singoli Stati ed, in ultima analisi, sul singolo lavoratore, che è il soggetto proprio del lavoro. Ad esempio i Paesi altamente industrializzati e, più ancora, le imprese che dirigono su grande scala i mezzi di produzione industriale (le cosiddette società multinazionali o transnazionali), dettano i prezzi più alti possibili per i loro prodotti, cercando contemporaneamente di stabilire i prezzi più bassi possibili per le materie prime o per i semilavorati, il che, fra altre cause, crea come risultato una sproporzione sempre crescente tra i redditi nazionali dei rispettivi Paesi. La distanza tra la maggior parte dei Paesi ricchi e i Paesi più poveri non diminuisce e non si livella, ma aumenta sempre di più, ovviamente a scapito di questi ultimi. É evidente che ciò non può rimanere senza effetto sulla politica locale del lavoro e sulla situazione dell’uomo del lavoro nelle società economicamente svantaggiate. Il datore diretto di lavoro, trovandosi in un simile sistema di condizionamenti, fissa le condizioni del lavoro al di sotto delle oggettive esigenze dei lavoratori, specialmente se egli stesso vuole trarre i profitti più alti possibili dall’impresa da lui condotta (oppure dalle imprese da lui condotte, se si tratta di una situazione di proprietà socializzata dei mezzi di produzione).

 

c) Appello agli Organismi internazionali perché contribuiscano alla salvaguardia dei diritti oggettivi dell’uomo del lavoro.

Questo quadro delle dipendenze, relative al concetto di datore indiretto di lavoro, è – come è facile dedurre – enormemente esteso e complicato. Per determinarlo si deve prendere in considerazione, in un certo senso, l’insieme degli elementi decisivi per la vita economica nel profilo di una data società e Stato; però si deve, al tempo stesso, tener conto di collegamenti e di dipendenze molto più vaste. La realizzazione dei diritti dell’uomo del lavoro non può, tuttavia, essere condannata a costituire solamente un derivato dei sistemi economici, i quali su scala più larga o più ristretta siano guidati soprattutto dal criterio del massimo profitto. Al contrario, e precisamente il riguardo per i diritti oggettivi dell’uomo del lavoro – di ogni tipo di lavoratore: manuale, intellettuale, industriale, agricolo, ecc. – che deve costituire l’adeguato e fondamentale criterio della formazione di tutta l’economia nella dimensione sia di ogni società e di ogni Stato, sia nell’insieme della politica economica mondiale e dei sistemi e rapporti internazionali, che ne derivano. In questa direzione dovrebbero esercitare il loro influsso tutte le Organizzazioni Internazionali a ciò chiamate, cominciando dall’Organizzazione delle Nazioni Unite. Pare che l’Organizzazione Mondiale del Lavoro (OIT), nonché l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) ed altre ancora, abbiano da offrire nuovi contributi particolarmente su questo punto. Nell’ambito dei singoli Stati esistono ministeri o dicasteri del potere pubblico ed anche vari Organismi sociali istituiti a questo scopo. Tutto ciò indica efficacemente quale grande importanza abbia – come è stato detto sopra – il datore di lavoro indiretto nella realizzazione del pieno rispetto dei diritti dell’uomo del lavoro, perché i diritti della persona umana costituiscono l’elemento chiave di tutto l’ordine morale e sociale.

18. Il problema dell’occupazione.

a) Lo Stato ha il compito fondamentale di provvedere un’occupazione adatta per tutti mediante una pianificazione globale.

Considerando i diritti degli uomini del lavoro proprio in relazione a questo datore di lavoro indiretto, cioè all’insieme delle istanze a livello nazionale ed internazionale che sono responsabili di tutto l’orientamento della politica del lavoro, si deve prima di tutto rivolgere l’attenzione ad un problema fondamentale. Si tratta del problema di avere un lavoro, cioè in altre parole, del problema di un’occupazione adatta per tutti i soggetti che ne sono capaci. L’opposto di una giusta e corretta situazione in questo settore è la disoccupazione, cioè la mancanza di posti di lavoro per i soggetti che di esso sono capaci. Può trattarsi di mancanza di occupazione in genere, oppure in determinati settori di lavoro. Il compito di queste istanze, che qui si comprendono sotto il nome di datore di lavoro indiretto, è di agire contro la disoccupazione, la quale è in ogni caso un male e, quando assume certe dimensioni, può diventare una vera calamità sociale. Essa diventa un problema particolarmente doloroso, quando vengono colpiti soprattutto i giovani, i quali, dopo essersi preparati mediante un’appropriata formazione culturale, tecnica e professionale, non riescono a trovare un posto di lavoro e vedono penosamente frustrate la loro sincera volontà di lavorare e la loro disponibilità ad assumersi la propria responsabilità per lo sviluppo economico e sociale della comunità. L’obbligo delle prestazioni in favore dei disoccupati, il dovere cioè di corrispondere le convenienti sovvenzioni indispensabili per la sussistenza dei lavoratori disoccupati e delle loro famiglie, è un dovere che scaturisce dal principio fondamentale dell’ordine morale in questo campo, cioè dal principio dell’uso comune dei beni o, parlando in un altro modo ancora più semplice, dal diritto alla vita ed alla sussistenza. Per contrapporsi al pericolo della disoccupazione, per assicurare a tutti un’occupazione, le istanze che sono state qui definite come datore di lavoro indiretto devono provvedere ad una pianificazione globale in riferimento a quel banco di lavoro differenziato, presso il quale si forma la vita non solo economica, ma anche culturale di una data società; esse devono fare attenzione, inoltre, alla corretta e razionale organizzazione del lavoro a tale banco. Questa sollecitudine globale in definitiva grava sulle spalle dello Stato, ma non può significare una centralizzazione unilateralmente operata dai pubblici poteri. Si tratta invece di una giusta e razionale coordinazione, nel quadro della quale deve essere garantita l’iniziativa delle singole persone, dei gruppi liberi, dei centri e complessi di lavoro locali, tenendo conto di ciò che e già stato detto sopra circa il carattere soggettivo del lavoro umano.

b) Oggi è necessaria una collaborazione internazionale per la migliore organizzazione del lavoro.

Il fatto della reciproca dipendenza delle singole società e Stati e la necessità di collaborazione in vari settori richiedono che, mantenendo i diritti sovrani di ciascuno di essi nel campo della pianificazione e dell’organizzazione del lavoro nella propria società, si agisca al tempo stesso, in questo settore importante, nella dimensione della collaborazione internazionale mediante i necessari trattati e accordi. Anche qui è necessario che il criterio di questi patti e di questi accordi diventi sempre più il lavoro umano, inteso come un fondamentale diritto di tutti gli uomini, il lavoro che dà a tutti coloro che lavorano analoghi diritti, così che il livello della vita degli uomini del lavoro nelle singole società presenti sempre meno quelle urtanti differenze, che sono ingiuste e atte a provocare anche violente reazioni. Le Organizzazioni Internazionali hanno in questo settore compiti enormi da svolgere. Bisogna che esse si lascino guidare da un’esatta diagnosi delle complesse situazioni e dei condizionamenti naturali, storici, civili, ecc.; bisogna anche che esse, in relazione ai piani di azione stabiliti in comune, abbiano una maggiore operatività, cioè efficacia nella realizzazione. Su tale via si può attuare il piano di un universale e proporzionato progresso di tutti, secondo il filo conduttore dell’enciclica di Paolo VI Populorum progressio. Bisogna sottolineare che l’elemento costitutivo e, al tempo stesso, la più adeguata verifica di questo progresso nello spirito di giustizia e di pace, che la Chiesa proclama e per il quale non cessa di pregare il Padre di tutti gli uomini e di tutti i popoli, è proprio la continua rivalutazione del lavoro umano, sia sotto l’aspetto della sua finalità oggettiva, sia sotto l’aspetto della dignità del soggetto d’ogni lavoro, che è l’uomo. Il progresso, del quale si tratta, deve compiersi mediante l’uomo e per l’uomo e deve produrre frutti nell’uomo. Una verifica del progresso sarà il sempre più maturo riconoscimento della finalità del lavoro e il sempre più universale rispetto dei diritti ad esso inerenti, conformemente alla dignità dell’uomo, soggetto del lavoro.

c) Un adatto sistema di istruzione e di educazione per tutti deve unirsi ad una utilizzazione razionale delle risorse terrestri.

Una ragionevole pianificazione ed una adeguata organizzazione del lavoro umano, a misura delle singole società e dei singoli Stati, dovrebbero facilitare anche la scoperta delle giuste proporzioni tra le diverse specie di occupazione: il lavoro della terra, dell’industria, nei molteplici servizi, il lavoro di concetto ed anche quello scientifico o artistico, secondo le capacità dei singoli uomini e per il bene comune di ogni società e di tutta l’umanità. All’organizzazione della vita umana secondo le molteplici possibilità del lavoro dovrebbe corrispondere un adatto sistema di istruzione e di educazione, che prima di tutto abbia come scopo lo sviluppo di una matura umanità, ma anche una specifica preparazione ad occupare con profitto un giusto posto nel grande e socialmente differenziato banco di lavoro. Gettando lo sguardo sull’intera famiglia umana, sparsa su tutta la terra, non si può non rimanere colpiti da un fatto sconcertante di proporzioni immense; e cioè che, mentre da una parte cospicue risorse della natura rimangono inutilizzate, dall’altra esistono schiere di disoccupati o di sotto-occupati e sterminate moltitudini di affamati: un fatto che, senza dubbio, sta ad attestare che sia all’interno delle singole comunità politiche, sia nei rapporti tra esse su piano continentale e mondiale -per quanto concerne l’organizzazione del lavoro e dell’occupazione vi è qualcosa che non funziona, e proprio nei punti più critici e di maggiore rilevanza sociale.

 

19. Salario e altre prestazioni sociali.

a) Una giusta remunerazione del lavoro è il problema chiave dell’etica sociale.

Dopo aver delineato il ruolo importante, che ha l’impegno di dare un’occupazione a tutti i lavoratori – al fine di garantire il rispetto degli inalienabili diritti dell’uomo in considerazione del suo lavoro – conviene toccare più da vicino questi diritti, i quali, in definitiva, si formano nel rapporto tra il lavoratore e il datore di lavoro diretto. Tutto ciò che è stato detto finora sul tema del datore di lavoro indiretto ha come scopo di precisare più da vicino proprio questi rapporti mediante la dimostrazione di quei molteplici condizionamenti, nei quali essi indirettamente si formano. Questa considerazione, però, non ha un significato puramente descrittivo; essa non è un breve trattato di economia o di politica. Si tratta di mettere in evidenza l’aspetto deontologico e morale. Il problema-chiave dell’etica sociale, in questo caso, è quello della giusta remunerazione per il lavoro che viene eseguito. Non c’è nel contesto attuale un altro modo più importante per realizzare la giustizia nei rapporti lavoratore-datore di lavoro, di quello costituito appunto dalla remunerazione del lavoro. Indipendentemente dal fatto che questo lavoro si effettui nel sistema della proprietà privata dei mezzi di produzione oppure in un sistema, nel quale questa proprietà ha subìto una specie di socializzazione, il rapporto tra il datore di lavoro (prima di tutto diretto) e il lavoratore si risolve in base al salario, cioè mediante la giusta remunerazione del lavoro che è stato eseguito.

b) Il giusto salario rimane la via concreta per accedere all’uso comune dei beni.

Occorre anche rilevare come la giustizia di un sistema socio-economico e, in ogni caso, il suo giusto funzionamento meritino, in definitiva, di essere valutati secondo il modo in cui il lavoro umano è in quel sistema equamente remunerato. A questo punto arriviamo di nuovo al primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale, e cioè al principio dell’uso comune dei beni. In ogni sistema, senza riguardo ai fondamentali rapporti esistenti tra il capitale e il lavoro, il salario, cioè la remunerazione del lavoro, rimane una via concreta, attraverso la quale la stragrande maggioranza degli uomini può accedere a quei beni che sono destinati all’uso comune: sia beni della natura, sia quelli che sono frutto della produzione. Gli uni e gli altri diventano accessibili all’uomo del lavoro grazie al salario, che egli riceve come remunerazione per il suo lavoro. Di qui, proprio il giusto salario diventa in ogni caso concreta verifica della giustizia di tutto il sistema socio-economico e, ad ogni modo, del suo giusto funzionamento. Non è questa l’unica verifica, ma è particolarmente importante ed è, in un certo senso, la verifica-chiave. Questa verifica riguarda soprattutto la famiglia. Una giusta remunerazione per il lavoro della persona adulta, che ha responsabilità di famiglia, è quella che sarà sufficiente per fondare e mantenere degnamente una famiglia e per assicurarne il futuro. Tale remunerazione può realizzarsi sia per il tramite del cosiddetto salario familiare – cioè un salario unico dato al capofamiglia per il suo lavoro, e sufficiente per il bisogno della famiglia, senza la necessità di far assumere un lavoro retributivo fuori casa alla coniuge -, sia per il tramite di altri provvedimenti sociali, come assegni familiari o contributi alla madre che si dedica esclusivamente alla famiglia, contributi che devono corrispondere alle effettive necessità, cioè al numero delle persone a carico per tutto il tempo che esse non siano in grado di assumersi degnamente la responsabilità della propria vita.

c) Per la vera promozione della donna necessita la rivalutazione sociale dei suoi compiti materni.

L’esperienza conferma che bisogna adoperarsi per la rivalutazione sociale dei compiti materni, della fatica ad essi unita e del bisogno che i figli hanno di cura, di amore e di affetto per potersi sviluppare come persone responsabili, moralmente e religiosamente mature e psicologicamente equilibrate. Tornerà ad onore della società rendere possibile alla madre – senza ostacolarne la libertà, senza discriminazione psicologica o pratica, senza penalizzazione nei confronti delle sue compagne – di dedicarsi alla cura e all’educazione dei figli secondo i bisogni differenziati della loro età. L’abbandono forzato di tali impegni, per un guadagno retributivo fuori della casa, è scorretto dal punto di vista del bene della società e della famiglia, quando contraddica o renda difficili tali scopi primari della missione materna. In tale contesto si deve sottolineare che, in via più generale, occorre organizzare e adattare tutto il processo lavorativo in modo che vengano rispettate le esigenze della persona e le sue forme di vita, innanzitutto della sua vita domestica, tenendo conto dell’età e del sesso di ciascuno. É un fatto che in molte società le donne lavorano in quasi tutti i settori della vita. Conviene, però, che esse possano svolgere pienamente le loro funzioni secondo l’indole ad esse propria, senza discriminazioni e senza esclusione da impieghi dei quali sono capaci, ma anche senza venir meno al rispetto per le loro aspirazioni familiari e per il ruolo specifico che ad esse compete nel contribuire al bene della società insieme con l’uomo. La vera promozione della donna esige che il lavoro sia strutturato in tal modo che essa non debba pagare la sua promozione con l’abbandono della famiglia, nella quale ha come madre un ruolo insostituibile.

d) Assicurare le altre prestazioni sociali necessarie per la vita e la salute dei lavoratori e delle loro famiglie.

Accanto al salario, qui entrano in gioco ancora varie prestazioni sociali, aventi come scopo quello di assicurare la vita e la salute dei lavoratori e quelle della loro famiglia. Le spese riguardanti le necessità della cura della salute, specialmente in caso di incidenti sul lavoro esigono che il lavoratore abbia facile accesso all’assistenza sanitaria, e ciò, in quanto possibile, a basso costo, o addirittura gratuitamente. Un altro settore, che riguarda le prestazioni, è quello collegato al diritto al riposo: prima di tutto, si tratta qui del regolare riposo settimanale, comprendente almeno la Domenica, ed inoltre un riposo più lungo, cioè le cosiddette ferie una volta all’anno, o eventualmente più volte durante l’anno per periodi più brevi. Infine si tratta qui del diritto alla pensione e all’assicurazione per la vecchiaia ed in caso di incidenti collegati alla prestazione lavorativa. Nell’ambito di questi diritti principali, si sviluppa tutto un sistema di diritti particolari, che insieme con la remunerazione per il lavoro decidono della corretta impostazione di rapporti tra il lavoratore e il datore di lavoro. Tra questi diretti va sempre tenuto presente quello ad ambienti di lavoro ed a processi produttivi, che non rechino pregiudizio alla sanità fisica dei lavoratori e non ledano la loro integrità morale.

20. L’importanza dei sindacati.

a) Il sindacato operaio è sorto nel sec. XIX per la difesa degli interessi di ogni singola professione.

Sulla base di tutti questi diritti, insieme con la necessità di assicurarli da parte degli stessi lavoratori, ne sorge ancora un altro: vale a dire, il diritto di associarsi, cioè di formare associazioni o unioni, che abbiano come scopo la difesa degli interessi vitali degli uomini impiegati nelle varie professioni. Queste unioni hanno il nome di sindacati. Gli interessi vitali degli uomini del lavoro sono fino ad un certo punto comuni per tutti; nello stesso tempo, però, ogni tipo di lavoro, ogni professione possiede una propria specificità, che in queste organizzazioni dovrebbe trovare il suo proprio riflesso particolare. I sindacati trovano la propria ascendenza, in un certo senso, già nelle corporazioni artigianali medioevali, in quanto queste organizzazioni univano tra di loro uomini appartenenti allo stesso mestiere e, quindi, in base al lavoro che effettuavano. Al tempo stesso, però, i sindacati differiscono dalle corporazioni in questo punto essenziale: i moderni sindacati sono cresciuti sulla base della lotta dei lavoratori, del mondo del lavoro e, prima di tutto, dei lavoratori industriali, per la tutela dei loro giusti diritti nei confronti degli imprenditori e dei proprietari dei mezzi di produzione. La difesa degli interessi esistenziali dei lavoratori in tutti i settori, nei quali entrano in causa i loro diritti, costituisce il loro compito. L’esperienza storica insegna che le organizzazioni di questo tipo sono un indispensabile elemento della vita sociale, specialmente nelle moderne società industrializzate. Ciò, evidentemente, non significa che soltanto i lavoratori dell’industria possano istituire associazioni di questo tipo. I rappresentanti di ogni professione possono servirsene per assicurare i loro rispettivi diritti. Esistono, quindi, i sindacati degli agricoltori e dei lavoratori di concetto; esistono pure le unioni dei datori di lavoro. Tutti, come già è stato detto, si dividono ancora in successivi gruppi o sottogruppi, secondo le particolari specializzazioni professionali.

b) Le organizzazioni sindacali debbono lottare per la giustizia sociale.

La dottrina sociale cattolica non ritiene che i sindacati costituiscano solamente il riflesso della struttura di classe della società e che siano l’esponente della lotta di classe, che inevitabilmente governa la vita sociale. Sì, essi sono un esponente della lotta per la giustizia sociale, per i giusti diritti degli uomini del lavoro a seconda delle singole professioni. Tuttavia, questa lotta deve essere vista come un normale adoperarsi per il giusto bene: in questo caso, per il bene che corrisponde alle necessità e ai meriti degli uomini del lavoro, associati secondo le professioni; ma questa non è una lotta contro gli altri. Se nelle questioni controverse essa assume anche un carattere di opposizione agli altri, ciò avviene in considerazione del bene della giustizia sociale, e non per la lotta, oppure per eliminare l’avversario. Il lavoro ha come sua caratteristica che, prima di tutto, esso unisce gli uomini, ed in ciò consiste la sua forza sociale: la forza di costruire una comunità. In definitiva, in questa comunità devono in qualche modo unirsi tanto coloro che lavorano, quanto coloro che dispongono dei mezzi di produzione, o che ne sono i proprietari. Alla luce di questa fondamentale struttura di ogni lavoro – alla luce del fatto che, in definitiva, in ogni sistema sociale il lavoro e il capitale sono le indispensabili componenti del processo di produzione – l’unione degli uomini per assicurarsi i diritti che loro spettano, nata dalle necessità del lavoro, rimane un fattore costruttivo di ordine sociale e di solidarietà, da cui non è possibile prescindere. I giusti sforzi per assicurarsi i diritti dei lavoratori che sono uniti dalla stessa professione, devono sempre tener conto delle limitazioni che impone la situazione economica generale del paese. Le richieste sindacali non possono trasformarsi in una specie di egoismo di gruppo o di classe, benché esse possano e debbano tendere pure a correggere – per riguardo al bene comune di tutta la società – anche tutto ciò che è difettoso nel sistema di proprietà dei mezzi di produzione o nel modo di gestirli e di disporne. La vita sociale ed economico-sociale è certamente come un sistema di vasi comunicanti, ed a questo sistema deve pure adattarsi ogni attività sociale, che ha come scopo quello di salvaguardare i diritti dei gruppi particolari.

c) Compito dei sindacati non è quello di fare politica di partito.

In questo senso l’attività dei sindacati entra indubbiamente nel campo della politica, intesa questa come una prudente sollecitudine per il bene comune. Al tempo stesso, però, il compito dei sindacati non è di fare politica nel senso che comunemente si dà oggi a questa espressione. I sindacati non hanno il carattere di partiti politici che lottano per il potere, e non dovrebbero neppure essere sottoposti alle decisioni dei partiti politici o avere dei legami troppo stretti con essi. Infatti, in una tale situazione essi perdono facilmente il contatto con ciò che è il loro compito specifico, che è quello di assicurare i giusti diritti degli uomini del lavoro nel quadro del bene comune dell’intera società, e diventano, invece, uno strumento per altri scopi. Parlando della tutela dei giusti diritti degli uomini del lavoro a seconda delle singole professioni, occorre naturalmente aver sempre davanti agli occhi ciò che decide circa il carattere soggettivo del lavoro in ogni professione, ma al tempo stesso, o prima di tutto, ciò che condiziona la dignità propria del soggetto del lavoro. Qui si dischiudono molteplici possibilità nell’operato delle organizzazioni sindacali, e ciò anche nel loro impegno di carattere istruttivo, educativo e di promozione dell’autoeducazione. Benemerita è l’opera delle scuole, delle cosiddette università operaie e popolari, dei programmi e corsi di formazione, che hanno sviluppato e tuttora sviluppano proprio questo campo di attività. Si deve sempre auspicare che, grazie all’opera dei suoi sindacati, il lavoratore possa non soltanto avere di più, ma prima di tutto essere di più: possa, cioè, realizzare più pienamente la sua umanità sotto ogni aspetto.

d) Lo sciopero deve servire ai sindacati come estremo rimedio per la difesa dei giusti diritti dei loro membri.

Adoperandosi per i giusti diritti dei loro membri, i sindacati si servono anche del metodo dello sciopero cioè del blocco del lavoro, come di una specie di ultimatum indirizzato agli organi competenti e, soprattutto, ai datori di lavoro. Questo è un metodo riconosciuto dalla dottrina sociale cattolica come legittimo alle debite condizioni e nei giusti limiti. In relazione a ciò i lavoratori dovrebbero avere assicurato il diritto allo sciopero, senza subire personali sanzioni penali per la partecipazione ad esso. Ammettendo che questo è un mezzo legittimo, si deve contemporaneamente sottolineare che lo sciopero rimane, in un certo senso, un mezzo estremo. Non se ne può abusare; non se ne può abusare specialmente per giochi politici. Inoltre, non si può mai dimenticare che quando trattasi di servizi essenziali alla convivenza civile, questi vanno, in ogni caso, assicurati mediante, se necessario, apposite misure legali. L’abuso dello sciopero può condurre alla paralisi di tutta la vita socio-economica, e ciò è contrario alle esigenze del bene comune della società, che corrisponde anche alla natura rettamente intesa del lavoro stesso.

21. Dignità del lavoro agricolo.

a) Importanza fondamentale del mondo agricolo per la società intera.

Tutto ciò che è stato detto in precedenza sulla dignità del lavoro, sulla dimensione oggettiva e soggettiva del lavoro dell’uomo, trova un’applicazione diretta al problema del lavoro agricolo e alla situazione dell’uomo che coltiva la terra nel duro lavoro dei campi. Si tratta, infatti, di un settore molto vasto dell’ambiente di lavoro del nostro pianeta, non circoscritto all’uno o all’altro continente non limitato alle società che hanno già conquistato un certo grado di sviluppo e di progresso. Il mondo agricolo, che offre alla società i beni necessari per il suo quotidiano sostentamento, riveste una importanza fondamentale. Le condizioni del mondo rurale e del lavoro agricolo non sono uguali dappertutto e diverse sono le posizioni sociali dei lavoratori agricoli nei diversi Paesi. E ciò non dipende soltanto dal grado di sviluppo della tecnica agricola, ma anche, e forse ancora di più, dal riconoscimento dei giusti diritti dei lavoratori agricoli e infine, dal livello di consapevolezza riguardante tutta l’etica sociale del lavoro.

b) Gli uomini dell’agricoltura, per le condizioni in cui spesso lavorano si sentono socialmente emarginati.

Il lavoro dei campi conosce non lievi difficoltà, quali lo sforzo fisico continuo e talvolta estenuante, lo scarso apprezzamento, con cui è socialmente considerato, al punto da creare presso gli uomini dell’agricoltura il sentimento di essere socialmente degli emarginati, e da accelerare in essi il fenomeno della fuga in massa dalla campagna verso le città e purtroppo verso condizioni di vita ancor più disumanizzanti. Si aggiungano la mancanza di adeguata formazione professionale e di attrezzi appropriati, un certo individualismo serpeggiante ed anche situazioni obiettivamente ingiuste. In taluni Paesi in via di sviluppo, milioni di uomini sono costretti a coltivare i terreni di altri e vengono sfruttati dai latifondisti senza la speranza di poter mai accedere al possesso neanche di un minimo pezzo di terra in proprio. Mancano forme di tutela legale per la persona del lavoratore agricolo e per la sua famiglia in caso di vecchiaia, di malattia o di mancanza di lavoro. Lunghe giornate di duro lavoro fisico vengono miseramente pagate. Terreni coltivabili vengono lasciati abbandonati dai proprietari. titoli legali al possesso di un piccolo terreno, coltivato in proprio da anni, vengono trascurati o rimangono senza difesa di fronte alla fame di terra di individui o di gruppi più potenti. Ma anche nei Paesi economicamente sviluppati, dove la ricerca scientifica, le conquiste tecnologiche o la politica dello Stato hanno portato l’agricoltura ad un livello molto avanzato, il diritto al lavoro può essere leso quando si nega al contadino la facoltà di partecipare alle scelte decisionali concernenti le sue prestazioni lavorative, o quando viene negato il diritto alla libera associazione in vista della giusta promozione sociale, culturale ed economica del lavoratore agricolo. In molte situazioni sono dunque necessari cambiamenti radicali ed urgenti per ridare all’agricoltura – ed agli uomini dei campi – il giusto valore come base di una sana economia, nell’insieme dello sviluppo della comunità sociale. Perciò occorre proclamare e promuovere la dignità del lavoro, di ogni lavoro, e specialmente del lavoro agricolo, nel quale l’uomo in modo tanto eloquente soggioga la terra ricevuta in dono da Dio ed afferma il suo dominio nel mondo visibile.

 

22. La persona handicappata e il lavoro.

a) L’handicappato è uno di noi e deve partecipare pienamente alla vita sociale, svolgendo un lavoro adatto alle sue possibilità

Recentemente le comunità nazionali e le organizzazioni internazionali hanno rivolto la loro attenzione ad un altro problema connesso col lavoro, e che è ricco di incidenze: quello delle persone handicappate. Anche esse sono soggetti pienamente umani, con corrispondenti diritti innati, sacri e inviolabili che pur con le limitazioni e le sofferenze inscritte nel loro corpo e nelle loro facoltà, pongono in maggior rilievo la dignità e la grandezza dell’uomo. Poiché la persona portatrice di handicaps è un soggetto con tutti i suoi diritti essa deve essere facilitata a partecipare alla vita della società in tutte le dimensioni e a tutti i livelli, che siano accessibili alle sue possibilità. La persona handicappata è uno di noi e partecipa pienamente alla nostra stessa umanità. Sarebbe radicalmente indegno dell’uomo, e negazione della comune umanità, ammettere alla vita della società, e dunque al lavoro, solo i membri pienamente funzionali perché, così facendo, si ricadrebbe in una grave forma di discriminazione, quella dei forti e dei sani contro i deboli ed i malati. Il lavoro in senso oggettivo deve essere subordinato anche in questa circostanza alla dignità dell’uomo, a; soggetto del lavoro e non al vantaggio economico. Spetta quindi alle diverse istanze coinvolte nel mondo del lavoro, al datore diretto come a quello indiretto di lavoro, promuovere con misure efficaci ed appropriate il diritto della persona handicappata alla preparazione professionale e al lavoro, in modo che essa possa essere inserita in una attività produttrice per la quale sia idonea. Qui si pongono molti problemi pratici, legali ed anche economici, ma spetta alla comunità, cioè alle autorità pubbliche, alle associazioni e ai gruppi intermedi, alle imprese ed agli handicappati stessi di mettere insieme idee e risorse per arrivare a questo scopo irrinunciabile: che sia offerto un lavoro alle persone handicappate, secondo le loro possibilità, perché lo richiede la loro dignità di uomini e di soggetti del lavoro. Ciascuna comunità saprà darsi le strutture adatte per reperire o per creare posti di lavoro per tali persone sia nelle comuni imprese pubbliche o private, offrendo un posto ordinario di lavoro o un posto più adatto, sia nelle imprese e negli ambienti cosiddetti protetti.

b) Una retta concezione del lavoro deve portare ad un retto impiego per gli handicappati.

Una grande attenzione dovrà essere rivolta, come per tutti gli altri lavoratori, alle condizioni di lavoro fisiche e psicologiche degli handicappati, alla giusta remunerazione, alla possibilità di promozioni ed all’eliminazione dei diversi ostacoli. Senza nascondersi che si tratta di un impegno complesso e non facile, ci si può augurare che una retta concezione del lavoro in senso soggettivo porti ad una situazione che renda possibile alla persona handicappata di sentirsi non ai margini del mondo del lavoro o in dipendenza della società, ma come un soggetto del lavoro di pieno diritto, utile, rispettato per la sua dignità umana, e chiamato a contribuire al progresso e al bene della sua famiglia e della comunità secondo le proprie capacità.

23. Il lavoro e il problema dell’emigrazione.

a) L’emigrazione per lavoro è un fenomeno antico

Occorre, infine, pronunciarsi almeno sommariamente sul tema della cosiddetta emigrazione per lavoro. Questo è un fenomeno antico, ma che tuttavia si ripete di continuo ed ha, anche oggi, grandi dimensioni per le complicazioni della vita contemporanea. L’uomo ha il diritto di lasciare il proprio Paese d’origine per vari motivi – come anche di ritornarvi – e di cercare migliori condizioni di vita in un altro Paese. Questo fatto, certamente, non è privo di difficoltà di varia natura; prima di tutto, esso costituisce, in genere, una perdita per il Paese dal quale si emigra. Si allontana un uomo e insieme un membro di una grande comunità, ch’è unita dalla storia, dalla tradizione, dalla cultura, per iniziare una vita in mezzo ad un’altra società unita da un’altra cultura e molto spesso anche da un’altra lingua. Viene a mancare in tale caso un soggetto di lavoro, il quale con lo sforzo del proprio pensiero o delle proprie mani potrebbe contribuire all’aumento del bene comune nel proprio Paese; ed ecco, questo sforzo, questo contributo viene dato ad un’altra società, la quale, in un certo senso, ne ha il diritto minore che non la patria d’origine.

b) Anche se l’emigrazione è un male, in determinate circostanze è un male necessario.

E tuttavia, anche se l’emigrazione è sotto certi aspetti un male, in determinate circostanze questo e, come si dice, un male necessario. Si deve far di tutto – e certamente molto si fa a questo scopo – perché questo male in senso materiale non comporti maggiori danni in senso morale, anzi perché, in quanto possibile, esso porti perfino un bene nella vita personale, familiare e sociale dell’emigrato, per quanto riguarda sia il Paese nel quale arriva, sia la patria che lascia. In questo settore moltissimo dipende da una giusta legislazione, in particolare quando si tratta dei diritti dell’uomo del lavoro. E s’intende che un tale problema entra nel contesto delle presenti considerazioni, soprattutto da questo punto di vista.

c) L’emigrante non deve essere svantaggiato riguardo ai suoi diritti come lavoratore.

La cosa più importante è che l’uomo, il quale lavora fuori del suo Paese natio tanto come emigrato permanente quanto come lavoratore stagionale, non sia svantaggiato nell’ambito dei diritti riguardanti il lavoro in confronto agli altri lavoratori di quella determinata società. L’emigrazione per lavoro non può in nessun modo diventare una occasione di sfruttamento finanziario o sociale. Per quanto riguarda il rapporto di lavoro col lavoratore immigrato, devono valere gli stessi criteri che valgono per ogni altro lavoratore in quella società. Il valore del lavoro deve essere misurato con lo stesso metro, e non con riguardo alla diversa nazionalità, religione o razza. A maggior ragione non può essere sfruttata una situazione di costrizione, nella quale si trova l’emigrato. Tutte queste circostanze devono categoricamente cedere – naturalmente dopo aver preso in considerazione le speciali qualifiche – di fronte al fondamentale valore del lavoro, il quale e collegato con la dignità della persona umana. Ancora una volta va ripetuto il fondamentale principio: la gerarchia dei valori, il senso profondo del lavoro stesso esigono che sia il capitale in funzione del lavoro, e non il lavoro in funzione del capitale..

V. ELEMENTI PER UNA SPIRITUALITÀ DEL LAVORO

24. Particolare compito della Chiesa.

Operare per la formazione di una spiritualità del lavoro.

Conviene dedicare l’ultima parte delle presenti riflessioni sul tema del lavoro umano, collegate col 90° anniversario dell’enciclica Rerum Novarum, alla spiritualità del lavoro nel senso cristiano dell’espressione. Dato che il lavoro nella sua dimensione soggettiva è sempre un’azione personale, actus personae, ne segue che ad esso partecipa l’uomo intero, il corpo e lo spirito, indipendentemente dal fatto che sia un lavoro manuale o intellettuale. All’uomo intero è pure indirizzata la Parola del Dio vivo, il messaggio evangelico della salvezza, nel quale troviamo molti contenuti – come luci particolari – dedicati al lavoro umano. Ora, è necessaria una adeguata assimilazione di questi contenuti; occorre lo sforzo interiore dello spirito umano, guidato dalla fede, dalla speranza e dalla carità, per dare al lavoro dell’uomo concreto, con l’aiuto di questi contenuti, quel significato che esso ha agli occhi di Dio, e mediante il quale esso entra nell’opera della salvezza al pari delle sue trame e componenti ordinarie e, al tempo stesso, particolarmente importanti. Se la Chiesa considera come suo dovere pronunciarsi a proposito del lavoro dal punto di vista del suo valore umano e dell’ordine morale, in cui esso rientra, in ciò ravvisando un suo compito importante nel servizio che rende all’intero messaggio evangelico, contemporaneamente essa vede un suo dovere particolare nella formazione di una spiritualità del lavoro, tale da aiutare tutti gli uomini ad avvicinarsi per il suo tramite a Dio, Creatore e Redentore, a partecipare ai suoi piani salvifici nei riguardi dell’uomo e del mondo e ad approfondire nella loro vita l’amicizia con Cristo, assumendo mediante la fede una viva partecipazione alla sua triplice missione: di Sacerdote, di Profeta e di Re, così come insegna con espressioni mirabili il Concilio Vaticano II.

25. Il lavoro come partecipazione all’opera del Creatore.

 

a) L’uomo, creato ad immagine di Dio, mediante il lavoro partecipa all’opera del Creatore.

Come dice il Concilio Vaticano II, per i credenti una cosa è certa: l’attività umana individuale e collettiva, ossia quell’ingente sforzo col quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita, considerato in se stesso, corrisponde al disegno di Dio. L’uomo infatti, creato a immagine di Dio, ha ricevuto il comando di sottomettere a se la terra con tutto quanto essa contiene per governare il mondo nella giustizia e nella santità, e così pure di riportare a Dio se stesso e l’universo intero, riconoscendo in lui il Creatore di tutte le cose, in modo che, nella subordinazione di tutta la realtà all’uomo, sia glorificato il nome di Dio su tutta la terra. Nella Parola della divina Rivelazione è iscritta molto profondamente questa verità fondamentale, che l’uomo, creato a immagine di Dio, mediante il suo lavoro partecipa all’opera del Creatore, ed a misura delle proprie possibilità, in un certo senso, continua a svilupparla e la completa, avanzando sempre più nella scoperta delle risorse e dei valori racchiusi in tutto quanto il creato. Questa verità noi troviamo già all’inizio stesso della Sacra Scrittura, nel Libro della Genesi, dove l’opera stessa della creazione è presentata nella forma di un lavoro compiuto da Dio durante i sei giorni, per riposare il settimo giorni. D’altronde, ancora l’ultimo libro della Sacra Scrittura risuona con lo stesso accento di rispetto per l’opera che Dio ha compiuto mediante il suo lavoro creativo, quando proclama: Grandi e mirabili sono le tue opere, o Signore Dio onnipotente, analogamente al Libro della Genesi, il quale chiude la descrizione di ogni giorno della creazione con la affermazione: E Dio vide che era una cosa buona.

b) Dio stesso ha presentato la propria opera creatrice sotto le immagini di lavoro e di riposo.

Questa descrizione della creazione, che troviamo già nel primo capitolo del Libro della Genesi è al tempo stesso in un certo senso il primo Vangelo del lavoro. Essa dimostra, infatti, in che cosa consista la sua dignità: insegna che l’uomo lavorando deve imitare Dio, suo Creatore, perché porta in se – egli solo – il singolare elemento della somiglianza con lui. L’uomo deve imitare Dio sia lavorando come pure riposando, dato che Dio stesso ha voluto presentargli la propria opera creatrice sotto la forma del lavoro e del riposo. Quest’opera di Dio nel mondo continua sempre, così come attestano le parole di Cristo: Il Padre mio opera sempre… : opera con la forza creatrice, sostenendo nell’esistenza il mondo che ha chiamato all’essere dal nulla, e opera con la forza salvifica nei cuori degli uomini, che sin dall’inizio ha destinato al riposo in unione con se stesso, nella casa del Padre. Perciò, anche il lavoro umano non solo esige il riposo ogni settimo giorno, ma per di più non può consistere nel solo esercizio delle forze umane nell’azione esteriore; esso deve lasciare uno spazio interiore, nel quale l’uomo, diventando sempre più ciò che per volontà di Dio deve essere, si prepara a quel riposo che il Signore riserva ai suoi servi ed amici. La coscienza che il lavoro umano sia una partecipazione all’opera di Dio, deve permeare – come insegna il Concilio – anche le ordinarie attività quotidiane. Gli uomini e le donne, infatti, che per procurarsi il sostentamento per sé e per la famiglia, esercitano le proprie attività così da prestare anche conveniente servizio alla società, possono a buon diritto ritenere che col loro lavoro essi prolungano l’opera del Creatore, si rendono utili ai propri fratelli e danno un contributo personale alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia.

 

c) Una spiritualità cristiana del lavoro deve divenire patrimonio comune di tutti.

Bisogna, dunque, che questa spiritualità cristiana del lavoro diventi patrimonio comune di tutti. Bisogna che, specialmente nell’epoca odierna, la spiritualità del lavoro dimostri quella maturità, che esigono le tensioni e le inquietudini delle menti e dei cuori: I cristiani, dunque, non solo non pensano di contrapporre le conquiste dell’ingegno e della potenza dell’uomo alla potenza di Dio, quasi che la creatura razionale sia rivale del Creatore, ma, al contrario, essi piuttosto sono persuasi che le vittorie dell’umanità sono segno della grandezza di Dio e frutto del suo ineffabile disegno. E quanto più cresce la potenza degli uomini, tanto più si estende e si allarga la loro responsabilità individuale e collettiva… Il messaggio cristiano, lungi dal distogliere gli uomini dal compito di edificare il mondo, lungi dall’incitarli a disinteressarsi del bene dei propri simili, li impegna piuttosto a tutto ciò con un obbligo ancora più pressante. La consapevolezza che mediante il lavoro l’uomo partecipa all’opera della creazione, costituisce il più profondo movente per intraprenderlo in vari settori: I fedeli perciò – leggiamo nella Costituzione Lumen gentium – devono riconoscere la natura intima di tutta la creazione, il suo valore e la sua ordinazione alla lode di Dio e aiutarsi a vicenda per una vita più santa anche con opere propriamente secolari, affinché il mondo sia imbevuto dello spirito di Cristo e raggiunga più efficacemente il suo fine nella giustizia, nella carità e nella pace… Con la loro competenza, quindi nelle discipline profane e con la loro attività, elevata intrinsecamente dalla grazia di Cristo, contribuiscano validamente a che i beni creati, secondo la disposizione del Creatore e la luce del suo Verbo, siano fatti progredire dal lavoro umano, dalla tecnica e dalla civile cultura.

26. Cristo, l’uomo del lavoro.

a) Gesù Cristo che proclamava il Vangelo del lavoro è stato l’uomo del lavoro.

Questa verità, secondo cui mediante il lavoro l’uomo partecipa all’opera di Dio stesso, suo Creatore, è stata in modo particolare messa in risalto da Gesù Cristo – quel Gesù del quale molti dei suoi primi uditori a Nazareth rimanevano stupiti e dicevano: Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data?… Non è costui il carpentiere?. Infatti, Gesù non solo proclamava, ma prima di tutto compiva con l’opera il Vangelo a lui affidato, la parola dell’eterna Sapienza. Perciò, questo era pure il Vangelo del lavoro perché colui che lo proclamava, era egli stesso uomo del lavoro, del lavoro artigiano come Giuseppe di Nazaret. E anche se nelle sue parole non troviamo uno speciale comando di lavorare – piuttosto, una volta, il divieto di una eccessiva preoccupazione per il lavoro e l’esistenza -, però, al tempo stesso, l’eloquenza della vita di Cristo è inequivoca: egli appartiene al mondo del lavoro, ha per il lavoro umano riconoscimento e rispetto; si può dire di più: egli guarda con amore questo lavoro, le sue diverse manifestazioni, vedendo in ciascuna una linea particolare della somiglianza dell’uomo con Dio, Creatore e Padre. Non è lui a dire: il Padre mio è il vignaiolo…, trasferendo in vari modi nel suo insegnamento quella fondamentale verità sul lavoro, la quale si esprime già in tutta la tradizione dell’Antico Testamento, iniziando dal Libro della Genesi ?

b) L’insegnamento di Gesù si richiama spesso al lavoro umano e trova corrispondenza nella predicazione di S. Paolo.

Nei libri dell’Antico Testamento non mancano molteplici riferimenti al lavoro umano, alle singole professioni esercitate dall’uomo: così per es. al medico al farmacista, all’artigiano-artista, al fabbro – si potrebbero riferire queste parole al lavoro del siderurgico d’oggi -, al vasaio, all’agricoltore, allo studioso, al navigatore, all’edile, al musicista, al pastore, al pescatore. Sono conosciute le belle parole dedicate al lavoro delle donne. Gesù Cristo nelle sue parabole sul Regno di Dio si richiama costantemente al lavoro umano: al lavoro del pastore, dell’agricoltore, del medico, del seminatore, del padrone di casa del servo, dell’amministratore, del pescatore, del mercante, dell’operaio. Parla pure dei diversi lavori delle donne. Presenta l’apostolato a somiglianza del lavoro manuale dei mietitori o dei pescatori. Inoltre, si riferisce anche al lavoro degli studiosi. Questo insegnamento di Cristo sul lavoro, basato sull’esempio della propria vita durante gli anni di Nazareth, trova un’eco particolarmente viva nell’insegnamento di Paolo Apostolo. Paolo si vantava di lavorare nel suo mestiere (probabilmente fabbricava tende), e grazie a ciò poteva pure come apostolo, guadagnarsi da solo il pane. Abbiamo lavorato con fatica e sforzo, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi. Di qui derivano le sue istruzioni sul tema del lavoro, che hanno carattere di esortazione e di comando: A questi… ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace, così scrive ai Tessalonicesi. Infatti, rilevando che alcuni vivono disordinatamente, senza far nulla l’Apostolo nello stesso contesto non esita a dire: Chi non vuol lavorare, neppure mangi. In un altro passo invece incoraggia: Qualunque cosa facciate, fatela di cuore come per il Signore e non per gli uomini, sapendo che quale ricompensa riceverete dal Signore l’eredità. Gli insegnamenti dell’Apostolo delle Genti hanno, come si vede, un’importanza-chiave per la morale e la spiritualità del lavoro umano. Essi sono un importante complemento a questo grande, anche se discreto, Vangelo del lavoro, che troviamo nella vita di Cristo e nelle sue parabole, in ciò che Gesù fece e insegnò.

c) Insegnamenti del Concilio sul giusto significato del progresso.

In base a queste luci emananti dalla Sorgente stessa, la Chiesa sempre ha proclamato ciò di cui troviamo l’espressione contemporanea nell’insegnamento del Vaticano II: L’attività umana, invero, come deriva dall’uomo, così è ordinata all’uomo. L’uomo infatti quando lavora, non soltanto modifica le cose e la società, ma perfeziona anche se stesso. Apprende molte cose sviluppa le sue facoltà, è portato a uscire da se e a superarsi. Tale sviluppo, se è bene compreso, vale più delle ricchezze esteriori che si possono accumulare… Pertanto, questa è la norma dell’attività umana: che secondo il disegno e la volontà di Dio essa corrisponda al vero bene dell’umanità, e permetta all’uomo singolo o come membro della società di coltivare e di attuare la sua integrale vocazione. Nel contesto di una tale visione dei valori del lavoro umano, ossia di una tale spiritualità del lavoro, si spiega pienamente ciò che nello stesso punto della Costituzione pastorale del Concilio leggiamo sul tema del giusto significato del progresso: L’uomo vale più per quello che è che per quello che ha. Parimenti tutto ciò che gli uomini fanno per conseguire una maggiore giustizia, una più estesa fraternità e un ordine più umano nei rapporti sociali, ha più valore dei progressi in campo tecnico. Questi, infatti, possono fornire, per così dire, la materia alla promozione umana, ma da soli non valgono in nessun modo ad effettuarla. Tale dottrina sul problema del progresso e dello sviluppo – tema così dominante nella mentalità moderna – può essere intesa solamente come frutto di una provata spiritualità del lavoro umano, e solamente in base a una tale spiritualità essa può essere realizzata e messa in pratica. Questa è la dottrina, ed insieme il programma, che affonda le sue radici nel Vangelo del lavoro.

27. Il lavoro umano alla luce della Croce e della Risurrezione di Cristo.

a) La fatica del lavoro è una conseguenza della maledizione per il peccato, e annuncia la morte di ogni essere umano.

C’è ancora un aspetto del lavoro umano, una sua dimensione essenziale, nella quale la spiritualità fondata sul Vangelo penetra profondamente. Ogni lavoro – sia esso manuale o intellettuale – va congiunto inevitabilmente con la fatica. Il Libro della Genesi lo esprime in modo veramente penetrante, contrapponendo a quella originaria benedizione del lavoro contenuta nel mistero stesso della creazione, ed unita all’elevazione dell’uomo come immagine di Dio, la maledizione che il peccato ha portato con sé: Maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Questo dolore unito al lavoro segna la strada della vita umana sulla terra e costituisce l’annuncio della morte: Col sudore del tuo volto mangerai il pane. finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto…. Quasi come un’eco di queste parole, si esprime l’autore di uno dei libri sapienziali: Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo durato a farle…. Non c’è un uomo sulla terra che non potrebbe far proprie queste espressioni. Il Vangelo pronuncia, in un certo senso, la sua ultima parola anche a questo riguardo nel mistero pasquale di Gesù Cristo. E qui occorre cercare la risposta a questi problemi così importanti per la spiritualità del lavoro umano. Nel mistero pasquale è contenuta la croce di Cristo, la sua obbedienza fino alla morte, che l’Apostolo contrappone a quella disubbidienza, che ha gravato sin dall’inizio la storia dell’uomo sulla terra. É contenuta in esso anche l’elevazione di Cristo, il quale mediante la morte di croce ritorna ai suoi discepoli con la potenza dello Spirito Santo nella risurrezione.

b) Il sudore e la fatica offrono ad ogni uomo la possibilità di partecipare all’opera redentrice del Cristo.

Il sudore e la fatica, che il lavoro necessariamente comporta nella condizione presente dell’umanità, offrono al cristiano e ad ogni uomo, che è chiamato a seguire Cristo, la possibilità di partecipare nell’amore all’opera che il Cristo è venuto a compiere. Quest’opera di salvezza è avvenuta per mezzo della sofferenza e della morte di croce. Sopportando la fatica del lavoro in unione con Cristo crocifisso per noi, l’uomo collabora in qualche modo col Figlio di Dio alla redenzione dell’umanità. Egli si dimostra vero discepolo di Gesù, portando a sua volta la croce ogni giorno nell’attività che è chiamato a compiere. Cristo, sopportando la morte per noi tutti peccatori, ci insegna col suo esempio che è necessario anche portare la croce; quella che dalla carne e dal mondo viene messa sulle spalle di quanti cercano la pace e la giustizia ; però, al tempo stesso, con la sua risurrezione costituito Signore, egli, il Cristo, a cui è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra, opera ormai nel cuore degli uomini con la virtù del suo spirito…. purificando e fortificando quei generosi propositi, con i quali la famiglia degli uomini cerca di rendere più umana la propria vita e di sottomettere a questo fine tutta la terra.

c) Mediante la fatica si partecipa all’annuncio dei nuovi cieli e di una terra nuova.

Nel lavoro umano il cristiano ritrova una piccola parte della croce di Cristo e l’accetta nello stesso spirito di redenzione, nel quale il Cristo ha accettato per noi la sua croce. Nel lavoro, grazie alla luce che dalla risurrezione di Cristo penetra dentro di noi, troviamo sempre un barlume della vita nuova, del nuovo bene, quasi come un annuncio dei nuovi cieli e di una terra nuova, i quali proprio mediante la fatica del lavoro vengono partecipati dall’uomo e dal mondo. Mediante la fatica – e mai senza di essa. Questo conferma, da una parte, l’indispensabilità della croce nella spiritualità del lavoro umano. d’altra parte, però, si svela in questa croce e fatica un bene nuovo, il quale prende inizio dal lavoro stesso: dal lavoro inteso in profondità e sotto tutti gli aspetti – e mai senza di esso.

d) Nella sollecitudine a coltivare questa terra cresce la nuova umanità che prefigura il nuovo mondo

É già questo nuovo bene – frutto del lavoro umano – una piccola parte di quella terra nuova, dove abita la giustizia?. In quale rapporto sta esso con la risurrezione di Cristo, se è vero che la molteplice fatica del lavoro dell’uomo è una piccola parte della croce di Cristo? Anche a questa domanda cerca di rispondere il Concilio, attingendo la luce dalle fonti stesse della Parola rivelata: Certo, siamo avvertiti che niente giova all’uomo se guadagna il mondo, ma perde se stesso (cfr. Lc 9, 25). Tuttavia, l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì stimolare piuttosto la sollecitudine a coltivare questa terra, dove cresce quel corpo dell’umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo. Pertanto, benché si debba accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del Regno di Cristo, tuttavia nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l’umana società, tale progresso è di grande importanza per il Regno di Dio. Abbiamo cercato, nelle presenti riflessioni dedicate al lavoro umano, di mettere in rilievo tutto ciò che sembrava indispensabile, dato che mediante esso devono moltiplicarsi sulla terra non solo i frutti della nostra operosità, ma anche la dignità dell’uomo, la fraternità e la libertà. Il cristiano che sta in ascolto della parola del Dio vivo, unendo il lavoro alla preghiera, sappia quale posto occupa il suo lavoro non solo nel progresso terreno, ma anche nello sviluppo del Regno di Dio, al quale siamo tutti chiamati con la potenza dello Spirito Santo e con la parola del Vangelo. Nel concludere queste riflessioni, mi è gradito impartire di vero cuore a tutti voi, venerati Fratelli, Figli e Figlie carissimi, la propiziatrice Benedizione Apostolica.

Questo documento, che avevo preparato perché si pubblicasse il 15 maggio scorso, nel 90° anniversario dell’enciclica Rerum Novarum, ha potuto essere da me definitivamente riveduto soltanto dopo la mia degenza ospedaliera.

MEDITAZIONE DAVANTI AL PRESEPE

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MEDITAZIONE DAVANTI AL PRESEPE

  

«Oggi ci è nato un Salvatore, che è il Cristo Signore, nella città di Davide» (Lc 2,11). Questa città è Betlemme ed è là che dobbiamo accorrere, come fecero i pastori appena ebbero udito l’annunzio.


«E’ questo per voi il segno: troverete un bambino, avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia» (Lc 2,12).


Egli è il Salvatore, egli è il Signore: è poi una cosa straordinaria essere avvolto in fasce, giacere in una mangiatoia?
Non si avvolgono in fasce anche gli altri bambini?
Che segno è questo? Grande certamente, se però riusciamo a comprenderlo. [...]

Betlemme, «casa del pane» è la santa Chiesa, in cui si dispensa il corpo di Cristo, il vero pane.
La mangiatoia di Betlemme è l’altare in chiesa. Qui si nutrono le creature di Cristo.
Di questa mensa è scritto: «Hai preparato una mensa dinanzi a me» (Sal 22,5).
In questa mangiatoia c’è Gesù avvolto in fasce.
Le fasce sono il velo del sacramento.


Qui sotto le specie del pane e del vino, c’è il vero corpo e sangue di Cristo. In questo sacramento noi crediamo che c’è Cristo vero, ma avvolto in fasce ossia invisibile. Non abbiamo nessun segno così grande ed evidente della natività di Cristo come il corpo che mangiamo e il sangue che beviamo ogni giorno accostandoci all’altare: ogni giorno vediamo immolarsi colui che una sola volta nacque per noi dalla Vergine Maria. Affrettiamoci dunque, fratelli, a questo presepe del Signore ma prima, per quanto ci è possibile, prepariamoci con la sua grazia a questo incontro, perché ogni giorno e in tutta la nostra vita, «con cuore puro, coscienza retta e fede sincera» (2Cor 6,6) possiamo cantare insieme agli angeli:


«Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 2,14).
 

Dai Discorsi di sant’Elredo, abate  Discorso 2 per Natale (PL 195, 209-210

 

 BUON NATALE A TUTTI !  Silvia

 

Inviato: 25/12/2008 4.29 

Cara Silvia, nella meditazione che ci hai proposto, riecheggia quanto in tempi più recenti ebbe a dire Giovanni Paolo II proprio la notte di Natale del 2004.

Il Papa fa una constatazione ed una preghiera, fa memoria e rende attuale l’Evento che, se non è contemporaneo, cessa di essere evento ma soltanto una bella fiaba da tramandarci vicino al caminetto.

“Latens Deitas: la nascosta Dvinità, dietro poveri segni. Oggi come ieri.   

 Il Papa:”stanotte nasce il pane della vita”      In lingua ebraica Betlemme significa “casa del pane”, là doveva nascere colui che si è definito “il pane della vita”. L’ha sottolineato il Papa, nel Natale dell’Anno eucaristico, durante la messa celebrata a mezzanotte, nel corso della quale Giovanni Paolo II ha pronunciato l’intera omelia. 

 

Città del Vaticano (AsiaNews)

 

 

 

 

  

“Adoro Te devote, latens Deitas”. “In questa Notte - ha detto il Papa – mi risuonano nel cuore le prime parole del celebre Inno eucaristico, che mi accompagna giorno dopo giorno in quest’anno particolarmente dedicato all’Eucaristia.

Nel Figlio della Vergine, “avvolto in fasce” e deposto “in una mangiatoia” (Lc 2,12), riconosciamo e adoriamo “il Pane disceso dal cielo” (Gv 6,41.51), il Redentore venuto sulla terra per dare la vita al mondo. 

2. Betlemme! Nella lingua ebraica la città dove secondo le Scritture nacque Gesù significa “casa del pane”. Là, dunque, doveva nascere il Messia, che avrebbe detto di sé: “Io sono il pane della vita” (Gv 6,35.48).

A Betlemme è nato Colui che, nel segno del pane spezzato, avrebbe lasciato il memoriale della sua Pasqua. L’adorazione del Bambino Gesù diventa, in questa Notte Santa, adorazione eucaristica. 

3. Adoriamo Te, Signore, realmente presente nel Sacramento dell’altare, Pane vivo che dai vita all’uomo. Ti riconosciamo come nostro unico Dio, fragile Bambino che stai inerme nel presepe! “Nella pienezza dei tempi, ti sei fatto uomo tra gli uomini per unire la fine al principio, cioè l’uomo a Dio” (cfr S. Ireneo, Adv. haer., IV, 20,4) .

Sei nato in questa Notte, nostro divin Redentore, e per noi, viandanti sui sentieri del tempo, ti sei fatto cibo di vita eterna.

Ricordati di noi, eterno Figlio di Dio, che nel grembo verginale di Maria Ti sei incarnato! L’intera umanità, segnata da tante prove e difficoltà, ha bisogno di Te.

Resta con noi, Pane vivo disceso dal Cielo per la nostra salvezza! Resta con noi per sempre. Amen!”  

 

Nel 2005 il Papa torna sull’argomento   

. Carissimi giovani di Roma e delle Diocesi del Lazio, il vostro incontro nella Basilica di San Giovanni in Laterano per adorare l’Eucaristia, in quest’anno ad essa dedicato, vuole essere un’occasione per meglio prepararvi alla Giornata Mondiale della Gioventù. Desidero unirmi spiritualmente a voi ed esprimervi tutto il mio affetto: so che voi mi siete sempre vicini e non vi stancate di pregare per me. Vi saluto e ringrazio di cuore.

Saluto con gratitudine il Cardinale Vicario, i Vescovi, i sacerdoti e le religiose che vi accompagnano, come pure quanti hanno organizzato questo vostro importante momento di riflessione e di preghiera. 

2. ‘Adoro Te devote, latens Deitas!’. Eleviamo insieme lo sguardo a Gesù Eucaristia; contempliamolo e ripetiamogli insieme queste parole di san Tommaso d’Aquino, che manifestano tutta la nostra fede e tutto il nostro amore: Gesù, Ti adoro nascosto nell’Ostia!

In un’epoca segnata da odi, egoismi, desideri di false felicità, da decadenza dei costumi, assenza di figure paterne e materne, instabilità in tante giovani famiglie e da tante fragilità e disagi di cui non pochi giovani sono vittime, noi guardiamo a Te, Gesù Eucaristia, con rinnovata speranza. Nonostante i nostri peccati, confidiamo nella tua divina Misericordia. A Te ripetiamo con i discepoli di Emmaus: ‘Mane nobiscum Domine!’, ‘Rimani con noi Signore!’.

Sant’Elredo ci mostra come il Natale sia una festa eucaristica.
Nella grotta di Betlemme Gesù ha celebrato la sua prima eucaristia, attorniato da Maria, Giuseppe, i pastori e gli animali portati in dono. Tutta la creazione era presente alla prima Messa di Gesù: gli angeli in cielo, uomini e animali in terra.Nell’Eucaristia Tu restituisci al Padre tutto ciò che da Lui proviene e si realizza così un profondo mistero di giustizia della creatura verso il Creatore. Il Padre celeste ci ha creati a sua immagine e somiglianza; da Lui abbiamo ricevuto il dono della vita, che tanto più riconosciamo preziosa dal momento del suo inizio fino alla morte, quanto più è minacciata e manipolata.

Noi Ti adoriamo, Gesù, e Ti ringraziamo perché nell’Eucaristia si rende attuale il mistero di quell’unica offerta al Padre che Tu hai compiuto duemila anni fa con il sacrificio della Croce; sacrificio che ha redento l’intera umanità e tutto il creato.   

3. ‘Adoro Te devote, latens Deitas!’. Ti adoriamo, Gesù Eucaristia! Adoriamo il tuo corpo ed il tuo sangue donati per noi e per tutti in remissione dei peccati: o Sacramento della nuova ed eterna Alleanza!

Mentre Ti adoriamo, come non pensare alle tante cose che dovremmo fare per darti gloria? Al tempo stesso, però, come non dare ragione a san Giovanni della Croce, che soleva dire: ‘Quelli che sono molto attivi e che pensano di abbracciare il mondo con le loro prediche e con le loro opere esteriori ricordino che sarebbero di maggior profitto per la Chiesa e molto più accetti a Dio, senza parlare del buon esempio che darebbero, se spendessero almeno la metà del tempo nello starsene con Lui in orazione’?

Aiutaci, Gesù, a capire che per ‘fare’ nella tua Chiesa, anche nel campo tanto urgente della nuova evangelizzazione, occorre imparare innanzitutto ad ‘essere’, a stare cioè con Te in adorazione, nella tua dolce compagnia. Solo da un’intima comunione con Te scaturisce l’azione apostolica autentica, efficace, vera.

Una grande Santa, che entrò nel Carmelo a Colonia, santa Benedetta Teresa della Croce, al secolo Edith Stein, amava ripetere: ‘Membra del corpo di Cristo, animati dal suo Spirito, noi ci offriamo vittime con Lui, per Lui, in Lui e ci uniamo all’eterna azione di grazie’. 

4. ‘Adoro Te devote, latens Deitas!’. O Gesù, Ti chiediamo che ogni giovane qui presente desideri unirsi a Te in un’eterna azione di grazie e s’impegni nel mondo di oggi e di domani per essere costruttore della civiltà dell’amore.

Metta Te al centro della sua vita: Ti adori e Ti celebri. Cresca la sua consuetudine con Te, o Gesù Eucaristia! Ti riceva, partecipando con assiduità alla Santa Messa la domenica e, se possibile, ogni giorno. Da questa intensa frequentazione nascano impegni di donazione libera della vita a Te, che sei piena e vera libertà. Scaturiscano sante vocazioni al sacerdozio: senza il sacerdozio non c’è l’Eucaristia, fonte e culmine della vita della Chiesa. Crescano numerose vocazioni alla vita religiosa; sboccino generose vocazioni alla santità, che è la misura alta della vita cristiana ordinaria, specialmente nelle famiglie: di questo oggi più che mai la Chiesa e la società hanno bisogno. 

5. O Gesù Eucaristia, Ti affido i giovani di Roma, del Lazio e del mondo intero: i loro sentimenti, i loro affetti, i loro progetti. Te li presento per le mani di Maria, tua e nostra Madre.

  • Gesù, che ti sei offerto al Padre: amali!
  • Gesù, che ti sei offerto al Padre: sana le ferite del loro spirito!
  • Gesù, che ti sei offerto al Padre, aiutali ad adorarti nella verità e benedicili. Ora e sempre. Amen!

A tutti con affetto imparto la mia Benedizione.

(Giovanni Paolo II) 2005       

Queste parole fanno bene anche ai non   più giovani.  razie per averci introdotti in questa dimensione contemplativa.   

 

 

 

 

Adóro te devóte, látens Déitas,
Quæ sub his figúris, vere látitas:
Tibi se cor meum totum súbjicit,
Quia, te contémplans, totum déficit.
 

Visus, tactus, gustus, in te fállitur,
Sed audítu solo tuto créditur:
Credo quidquid díxit Dei Fílius;
Nil hoc verbo veritátis vérius.[2]
 

In cruce latébat sola Déitas,
At hic látet simul et humánitas:
Ambo támen crédens átque cónfitens,
Peto quod petívit latro pœnitens.
 

Plagas, sicut Thomas, non intúeor,
Deum támen meum te confíteor.
Fac me tibi sémper mágis crédere,
In te spem habére, te dilígere.
 

O memoriále mortis Dómini,
Panis vivus, vitam præstans hómini,
Præsta meæ menti de te vívere,
Et te illi semper dulce sápere.
 

Pie pellicáne, Jesu Dómine,
Me immúndum munda tuo sánguine,
Cujus una stilla salvum fácere,
Totum mundum quit ab ómni scélere.
 

Jesu, quem velátum nunc aspício,
Oro fíat illud, quod tam sítio:
Ut, te reveláta cernens fácie,
Visu sim beátus tuæ glóriæ. Amen.

 

Traduzione italiana

Adoro Te devotamente, oh Deità che Ti nascondi,
Che sotto queste apparenze Ti celi veramente:
A te tutto il mio cuore si abbandona,
Perché, contemplandoTi, tutto vien meno.  

La vista, il tatto, il gusto, in Te si ingannano [3]
Ma solo con l’udito si crede con sicurezza:
Credo tutto ciò che disse il Figlio di Dio,
Nulla è più vero di questa parola di verità. 

Sulla croce era nascosta la sola divinità,
Ma qui è celata anche l’umanità:
Eppure credendo e confessando entrambe,
Chiedo ciò che domandò il ladrone penitente. 

Le piaghe, come Tommaso, non veggo,
Tuttavia confesso Te mio Dio.
Fammi credere sempre più in Te,
Che in Te io abbia speranza, che io Ti ami. 

Oh memoriale della morte del Signore,
Pane vivo, che dai vita all’uomo,
Concedi al mio spirito di vivere di Te,
E di gustarTi in questo modo sempre dolcemente. 

Oh pio Pellicano, Signore Gesù,
Purifica me, immondo, col tuo sangue,
Del quale una sola goccia può] salvare
Il mondo intero da ogni peccato. 

Oh Gesù, che velato ora ammiro,
Prego che avvenga ciò che tanto bramo,
Che, contemplandoTi col volto rivelato,
A tal visione io sia beato della tua gloria. Amen.

LUI VITE NOI TRALCI

 

TRALCI

 

 DI UN’UNICA VITE

 

  • PER PROMUOVERE LA SALUTE (coinvolgimento di tutte le componenti del popolo di Dio nella pastorale della salute) n.4

  • PER DARE VOCE ALLE CHIESE LOCALI (sostenere l’integrazione della pastorale sanitaria nella pastorale d’insieme delle comunità cristiane) n.4

  • PER EDUCARE ALLA “SPERANZA CHE NON DELUDE (progettualità…itinerari formativi) n.4 

  • claudia-koll-2004-05-24_bg_a-150x150E’ l’ora di una nuova “fantasia della carità”… (Giovanni Paolo II in Novo millennio ineunte) “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme” (1 Cor 12,26)

  • “La compagnia autentica è quella che nasce quando uno incontra un altro che ha visto qualche cosa di giusto, di bello e di vero, e glielo dice, e siccome anche lui desidera il giusto, il bello e il vero, si mette insieme.” (Don Giussani)

  • Nella foto: Claudia Koll

NOI SIAMO

CHIESA

  • “Tanto si ha lo Spirito Santo, quanto si ama la Chiesa.”

  • “Se vedi la carità,vedi la Trinità.”  (S.Agostino)  

Paolo VI accende una lampada

“…Il primo frutto della approfondita coscienza della Chiesa su se stessa è la rinnovata scoperta del suo vitale rapporto con Cristo. Notissima cosa, ma fondamentale, ma indispensabile, ma non mai abbastanza conosciuta, meditata, celebrata. Che cosa non si dovrebbe dire su questo capitolo centrale di tutto il nostro patrimonio religioso? 

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 …Non ci ha detto Gesù stesso ch’ Egli è la vite e noi siamo i tralci?

  • Non abbiamo noi davanti alla mente tutta la ricchissima dottrina di San Paolo, il quale non cessa dal ricordarci: “Voi siete una cosa sola in Cristo”?

  • e dal raccomandarci: “…che cresciamo sotto ogni aspetto verso di Lui, che è il capo, Cristo;

  • dal quale tutto il corpo…”?

  • e dall’ammonirci: “tutto e in tutti è Cristo”?

Ci basti, per tutti, ricordare fra i maestri S. Agostino:

  • “…Rallegriamoci e rendiamo grazie, non solo per essere divenuti cristiani, ma Cristo.

  • Vi rendete conto, o fratelli, capite voi il dono di Dio a nostro riguardo?

  • Siate pieni di ammirazione, godete: noi siamo divenuti Cristo. Poiché se Egli è il capo, noi siamo le membra: l’uomo totale, Lui e noi… La pienezza dunque di Cristo: il capo e le membra.

  • Cosa sono il capo e le membra? Cristo e la Chiesa”. (Paolo VI)

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Dio della luce, nella notte abbiamo accolto il tuo invito, ed eccoci alla tua presenza:

  • manda il tuo Spirito santo su di noi, perché

  • attraverso l’ascolto delle Scritture riceviamo la tua Parola,

  • attraverso la meditazione accresciamo la conoscenza di Te,

  • e attraverso la preghiera contempliamo il volto amato di tuo figlio Gesù Cristo, nostro unico Signore.

  • Con Maria, rendici protagonisti del Magnificat sulla scena di questo mondo. Amen.

 

“CHE COSA CERCATE?”  

“VENITE E VEDRETE…”(Gv 1, 35-39) Al pozzo di Samaria, la donna andava a prendere solo dell’acqua e invece ha incontrato Gesu’. Non si aspettava certo d’incontrarlo, ma l’ha incontrato!

“Siate  meglio  che potete, fratelli”

 

“Fate bene quello che sapete fare” 

 

 

“Non si è cristiani perché soltanto i cristiani giungono a salvarsi, ma si è cristiani perché la diakonia cristiana è significativa e necessaria nei confronti della storia” (Joseph Ratzingher in Introduzione al cristianesimo).  

 NON ABBIATE PAURA !

Aprite, anzi  spalancate le porte a Cristo! Al suo potere salvifico.

 Aprite le frontiere, i sistemi economici e politici,

i vasti campi della cultura, della civilta’ e dello sviluppo!

 ”Guarite i malati che trovate, e dite loro :«Il regno di Dio ora è vicino a voi».(Lc 10,9)

 

 

Karol Wojtyla

La nostra è una società spesso ripiegata su se stessa e chiusa dentro gli orizzonti immediati di un “tempo presente” da consumarsi, mentre bisognerebbe gardare oltre, oltre il “tempo presente”, verso nuovi approdi, verso nuove sfide, come ci ha educati Giovanni Paolo II.

Noi, COMPAGNIA DEI GLOBULI ROSSI,  non vogliamo rinunciare a investire sul nostro futuro ma tendere verso nuovi traguardi, puntare su alcuni grandi obiettivi per l’umanità.

 Ci sta principalmente a cuore la sofferenza del mondo in tutte le sue espressioni.  

 

  

NOI

CRESIMATI

Rallegriamoci e rendiamo grazie, non solo per essere divenuti cristiani, ma Cristo! 

SIGNORE, è capace di andare oltre il “tempo presente” solo chi è capace di sognare, di sperare, di soffrire per un futuro migliore. Perciò, Signore,

  • donaci occhi e cuore che  guardino lontano, in una dimensione che non sia la nostra di tutti i giorni.

  • Fa che urga in noi quell’ “inafferrabile”  che non riusciamo a cogliere quando siamo presi dai nostri schemi, dalle nostre faccende, dai nostri interessi.

  • Non ci importa tanto di essere compresi o incompresi quanto invece di essere approvati da Te che scruti nel cuore e conosci i pensieri più reconditi.

  • Fa che convivano in noi Marta e Maria perchè la prima si renda conto che la seconda forse non è una brava massaia, ma rappresenta quella luce che non si può spegnere se non si vuole, prima o poi, perdere la strada.

  • Fa di noi donne e uomini che hanno nel Vangelo la loro ispirazione, testardi testimoni dell’amore per Te, o Cristo,  e quindi per l’uomo, amato proprio come Tu ci hai amati.

  • Fai di noi una Chiesa di “poveri”, saldamente radicati alla tua Parola, unica ricchezza, e donaci una volontà in fedeltà creativa al Concilio, al Magistero della Chiesa e ai segni dei tempi da discernere per mezzo del Tuo Santo Spirito.

  • Siamo nel mondo, ma non del mondo. Memori delle Tue promesse, fai di noi una cosa sola :

20″Io non prego soltanto per questi miei discepoli, ma prego anche per altri, per quelli che crederanno in me dopo aver ascoltato la loro parola”.

http://compagniadeiglobulirossi.splinder.com    

 

L’amico in Cielo

  (Il  primo  dei Fatebenefratelli

a dare la sua adesione alla COMPAGNIA…)

 ”Vi leggo sempre.   

Almeno una volta tanto scrivo,

per porgere i più cordiali auguri.

[di Pasqua]“. 

Fra Raimondo Fabello o.h.

http://fraraimondo.splinder.com 

PIERLUIGI MICHELI

medico di Dio nella città dell’uomo

” Eccomi! Sono pronto alla chiamata.” (P.Micheli)

http://www.tuoblog.it/pierluigimicheli/ 

CARLO MARIA MARTINI

Arcivescovo di Milano

 

UNA CHIESA DI SOGNI E DI VISIONI

Premessa

“…Coricatomi con questa ossessione, mi sono svegliato presto e sono andato a cercare lumi dal mio maestro, il Car. Carlo Maria Martini che considero il Direttore Spirituale della Compagnia, il quale ha parole illuminanti anche su questo punto. 

A tal proposito, devo, solo per un momento, aprire una parentesi. Come forse avrai letto in altro punto del sito, il Card. Martini è l’ ispiratore della COMPAGNIA DEI GLOBULI ROSSI.  Intendimi bene:  

  • probabilmente lui non sa nemmeno della nostra esistenza;

  • epperò, la sua paternità spirituale ci ha generati;

  • il suo zelo pastorale ha suscitato ripensamenti, voglia di ri-cominciare, ri-partire, ri [e]cuperare, ri-educare…

  • Così che, mentre alla fonte dei suoi scritti spirituali ci dissetiamo,

  • contribuiamo almeno un poco a “tenere viva e presente la grande luce di fede e di intelligenza che, nel biblista e pastore Martini, Dio ha dato alla Chiesa e alla cultura del nostro tempo”. ( Brune Forte, Arcivescovo) “

  • La nostra è una Chiesa piena di sogni e di visioni. Sono frammentari, sbiaditi talvolta, ma ricalcano il grande sogno di Dio sull’uomo.

Il sogno di Compagnia dei Globuli Rossi si è manifestato nel contesto di Chiesa Ambrosiana, alla scuola del suo arcivescovo, il Cardinale Carlo Maria Martini, metropolita della Lombardia. Egli, intervenendo al Sinodo per l’Europa, il 7 Ottobre 1999, sviluppò il seguente tema: “…se, come e quando i nostri sogni possono diventare realtà”. 

La Compagnia perciò,  memorizzando il sogno del suo mite Arcivescovo per la Chiesa del futuro, nel suo piccolo, prova a trovare il suo ruolo nella Chiesa e nel Mondo, consapevole che l’antica profezia mantiene intatta la sua attualità’:  

“Allora Pietro si alzò insieme con gli altri undici apostoli. A voce alta parlò così: “Uomini di Giudea e voi tutti che vi trovate a Gerusalemme: ascoltate attentamente le mie parole e saprete che cosa sta accadendo.

 

15 Questi uomini non sono affatto ubriachi, come voi pensate, – tra l’altro è presto: sono solo le nove del mattino. – 16 Si realizza invece quello che Dio aveva annunziato per mezzo del profeta Gioele.

17 Ecco – dice Dio – ciò che accadrà negli ultimi giorni: 

  • manderò il mio Spirito su tutti gli uomini:

  • i vostri figli e le vostre figlie saranno profeti,

  • i vostri giovani avranno visioni,

  • i vostri anziani avranno sogni. 

  • 18 Su tutti quelli che mi servono, uomini e donne,
    in quei giorni io manderò il mio Spirito ed essi parleranno come profeti.” (Atti 2, 16-21)

Dal testo integrale ci lasciamo interrogare e provocare. Da esso possiamo attingere l’ispirazione per comporre il sogno della Compagnia già espresso da qualche altra parte del sito ma che va ripetutamente recuperato perchè si trasformi in un Magnificat di donne e uomini disposti ad essere “schiene a disposizione di Dio”, sull’esempio di Maria, di San Giovanni di Dio, di San Riccardo…

COSI’ L’ARCIVESCOVO AL SINODO 

“Ho ascoltato con vivo interesse tutti gli interventi fatti fin qui, cercando di capire in che modo rispondessero alla domanda: “come Gesù Cristo vivente nella Chiesa è oggi sorgente di speranza per l’Europa’?

Ma prima di esprimere qualche mio parere, vorrei fare memoria di una persona che parecchi di noi ricordano presente in quest’aula e che il Signore ha chiamato a sè il 17 giugno scorso: è il cardinale Basil Hume, arcivescovo di Westminster. Più di un intervento fatto da lui in Sinodo cominciò con le parole: “I had a dream”, “Ho fatto un sogno”.
Anch’io in questi giorni, ascoltando gli interventi, ho avuto un sogno, anzi parecchi sogni. Ne richiamo tre.

1. Anzitutto il sogno che attraverso una familiarità sempre più grande degli uomini e delle donne europee con la Sacra Scrittura letta e pregata da soli, nei gruppi e nelle comunità, si riviva quella esperienza del fuoco nel cuore che fecero i due discepoli sulla strada di Emmaus (Instrumentum laboris 27). Rimando per questo a quanto già detto da mons. Egger, vescovo di Bolzano-Dressanone. Anche per la mia esperienza la Bibbia. Letta e pregata, in particolare dai giovani, è il libro del futuro del continente europeo.

2. in secondo luogo, il sogno che la parrocchia continui ad attualizzare, col suo servizio profetico, sacerdotale e diaconale, quella presenza del Risorto nei nostri territori che i discepoli di Emmaus poterono sperimentare nella frazione del pane (IL 34,47). in questo Sinodo sono già state spese parecchie parole per evidenziare il ruolo dei movimenti ecclesiali in ordine alla vivificazione spirituale dell’Europa. Ma è necessario che i membri dei movimenti e delle nuove comunità si inseriscano vitalmente nella comunione della pastorale parrocchiale e diocesana, per mettere a disposizione di tutti i doni particolari ricevuti dal Signore e per sottoporli al vaglio dell’intero popolo di Dio (IL 47). Dove questo non avviene, ne soffre la vita intera della Chiesa, tanto quella delle comunità parrocchiali quanto quella degli stessi movimenti. Dove invece si realizza una efficace esperienza di comunione e di corresponsabilità la Chiesa si offre più facilmente come segno di speranza e proposta credibile alternativa alla disgregazione sociale ed etica da tanti qui lamentata.

3. Un terzo sogno è che il ritorno festoso dei discepoli di Emmaus a Gerusalemme per incontrare gli apostoli divenga stimolo per ripetere ogni tanto, nel corso del secolo che si apre, una esperienza di confronto universale tra i Vescovi che valga a sciogliere qualcuno di quei nodi disciplinari e dottrinali che forse sono stati evocati poco in questi giorni, ma che riappaiono periodicamente come punti caldi sul cammino delle Chiese europee e non solo europee.

Penso in generale agli approfondimenti e agli sviluppi dell’ecclesiologia di comunione del Vaticano II.
Penso alla carenza in qualche luogo già drammatica di ministri ordinati e alla crescente difficoltà per un vescovo di provvedere alla cura d’anime nel suo territorio con sufficiente numero di ministri del vangelo e dell’eucaristia (112 14).
Penso ad alcuni temi riguardanti la posizione della donna nella società e nella Chiesa (IL 48), la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali (IL 49), la sessualità, la disciplina del matrimonio, la prassi penitenziale, i rapporti con le Chiese sorelle dell’Ortodossia e più in generale il bisogno di ravvivare la speranza ecumenica (IL 60-61), penso al rapporto tra democrazia e valori e tra leggi civili e legge morale.

Non pochi di questi temi sono già emersi in Sinodi precedenti, sia generali che speciali, ed è importante trovare luoghi e strumenti adatti per un loro attento esame. Non sono certamente strumenti validi per questo le indagini sociologiche, nè le raccolte di firme, nè i gruppi di pressione. Ma forse neppure un Sinodo potrebbe essere sufficiente. Alcuni di questi nodi necessitano probabilmente di uno strumento collegiale più universale e autorevole, dove essi possano essere affrontati con libertà nel pieno esercizio della collegialità episcopale, in ascolto dello Spirito e guardando al bene comune della Chiesa e dell’umanità intera.

Siamo cioè indotti ad interrogarci se, quaranta anni dopo l’indizione del Vaticano II, non stia a poco a poco maturando, per il prossimo decennio, la coscienza dell’utilità e quasi della necessità di un confronto collegiale e autorevole tra tutti i vescovi su alcuni dei temi nodali emersi in questo quarantennio. V’è in più la sensazione di quanto sarebbe bello e utile per i Vescovi di oggi e di domani, in una Chiesa ormai sempre più diversificata nei suoi linguaggi, ripetere quella esperienza di comunione, di collegialità e di Spirito Santo che i loro predecessori hanno compiuto nel Vaticano II e che ormai non è più memoria viva se non per pochi testimoni.

Preghiamo il Signore, per intercessione di Maria che era con gli apostoli nel Cenacolo, perché ci illumini per discernere se, come e quando i nostri sogni possono diventare realtà. 

MATURITA’ SPIRITUALE

(Dall’Omelia di S.E.R. il card. C.M. Martini nella celebrazione eucaristica
di apertura per la XI Convocazione Nazionale del RnS [Rimini 22 aprile 1988], in Rinnovamento nello Spirito Santo, luglio/agosto 1988).

“[...] Sorge qui la domanda: in che consiste questa maturità spirituale? Che cosa è richiesto dal cammino ormai quindicennale del Rinnovamento nello Spirito?

Questo è il segreto di Dio e ve lo dirà il Signore.Ma noi possiamo chiederci ugualmente, partendo dai testi delle Scritture, quale sia il modo di santità a cui sono chiamati, oggi, anche i più semplici e umili tra noi. E io, con le stesse parole delle Scritture e con il coraggio che mi viene soltanto dalla parola di Dio, lo esprimerei sinteticamente così:

  • la maturità spirituale è crescere nella carità con tutti i suoi frutti.

  • Nel linguaggio giovanneo, è crescere nella coscienza di tralcio attaccato alla vite; come tralcio che è parte della vite, che cresce dalla vite, nella vite e con la vite.

  • Guai al tralcio che o si stacca dalla vite o si blocca nella sua crescita (cfr. Gv 15,1-6)!

Questo comporta due aspetti:

a ) il primo, negativo, è di non bloccarsi nella crescita, di non restare al di qua del guado di Cafarnao;

b) il secondo, positivo, è di crescere con la vigna, nella vigna, dalla vigna, insieme alla vigna intera [...].

1. Crescere anzitutto nella conoscenza e nell’amore della vigna che è lo stesso Gesù morto e risorto, nostra vita e Signore delle nostre vite.

2. Crescere nella conoscenza, amore e stima di quella vigna che Dio stesso ha piantato e per la quale Gesù è morto, cioè la santa Chiesa visibile, unita attorno al Papa, sotto la guida dei vescovi, amando ognuno e ciascuno dei più piccoli fratelli di essa.

3. Crescere nella conoscenza della Parola di Dio, studiata e approfondita secondo i criteri della Dei Verbum (capitoli III e VI), imparando a prendere la Scrittura come un insieme, come la rivelazione di un unico disegno di Dio sulla Chiesa e non come una semplice raccolta di parole staccate.

4. Crescere nell’interiorità della fede e della preghiera, imparando a fare una graduale economia dei segni esteriori e sensibili a favore di una preghiera interiore, di una adorazione umile e silenziosa.

5. Crescere nella forza evangelizzatrice che non viene dal gridare “Signore, Signore” ma, anzitutto, dal fare la volontà del Padre che è nei cieli: “Vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli” (cfr. Mt 5,16: questa è la prima evangelizzazione!).

6. Crescere nell’attenzione al contesto sociale, culturale e politico in cui la Chiesa opera, favorendo sempre più i gesti di prossimità concreta verso i più bisognosi

7. Crescere nella delicatezza delle espressioni delle preghiere private e pubbliche, non in commotione Domini. Crescere cioè nella dolce sensibilità del tocco leggero e soave della preghiera e dei gesti, nella delicatezza delle espressioni corporee, nella gioia intima e profonda, pudica e rispettosa, che non si esibisce ma, piuttosto si nasconde ed effonde soltanto una minima parte del suo ricchissimo tesoro interiore. Così sarà più facile far percepire ad altri, dal tenue profumo, la ricchezza del fiore nascosto e coltivarlo con attenzione anche nel proprio cuore.

8. Crescere nel dolore dei propri peccati; piangere per i peccati del mondo; contemplare senza sosta Cristo crocifisso; entrare nelle sue ferite e in quelle dell’umanità ferita e farsene carico come il buon Samaritano.

Se frutto del Rinnovamento nello Spirito sarà, anzitutto, il suscitare nella Chiesa intera, fino agli strati più semplici del popolo di Dio, presso tutti i laici, la gioia della lode, la lode spontanea, gratuita, nata dalla contemplazione del Signore crocifisso e risorto, e dalla misericordia di Dio per l’umanità perduta, tale lode potrà invadere tutte le Chiese e le parrocchie della terra quanto più sarà semplice, composta, rispettosa, autentica. Essa, allora, contagerà sempre più e cresceranno le comunità capaci di spezzare il pane con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo. Il Signore aggiungerà alla comunità un sempre maggior numero di salvati (cfr. At 2,46-48).

Ma la gioia della manna, l’alimento che “manifestava la dolcezza di Dio verso i suoi figli” (cfr. Sap 16,21), è dunque da lasciare cadere del tutto in vista di una lode puramente spirituale? Gesù non ha condannato la manna del deserto, anzi ha moltiplicato lui stesso i pani; però ci ha insegnato, nel discorso di Cafarnao, a cercare e gustare, a partire dalla manna e al di là di essa, quel frutto dello Spirito che è “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22).

  • Gesù ci insegna a capire come il vero pane del Cielo è lui.

  • Sei tu, Signore, il pane del Cielo,

  • sei tu che dai lo Spirito,

  • il Pane e lo Spirito che effonde nei cuori la carità

A queste cose occorre anzitutto aspirare. Sono esse che hanno una irradiazione gioiosa e contagiosa.

Gli altri carismi sono tappe intermedie, oasi nel deserto, stazioni di passaggio, aiuti per il cammino, manifestazioni per l’utilità; ma non sono un punto di arrivo, non sono la Terra Promessa, non sono lo stesso Cristo Signore, unico premio di coloro che lo cercano [...]“.

SCUOLA DI PREGHIERA – 23 GENNAIO 2004

6º incontro

“Senza di me non potete far nulla” – La preghiera dà equilibrio

Ringraziamo Dio per questa scuola di preghiera.

Io ringrazio voi per la pazienza la costanza di quasi tutti voi. Come dicevo l’altra volta non bisogna disperdere il patrimonio. Perché possa fruttare vi consiglio di prendervi del tempo, però tutto insieme, per rileggere o i sussidi o gli appunti che avete preso o entrambi. Ricordare l’esperienza del venerdì fare memoria, è un ottimo modo per non disperdere. Sul sussidio di stasera trovate semplicemente come si fa la lectio divina. E’ infatti quella che faremo un venerdì al mese da febbraio in poi. Le date le ho già stabilite, sono 4 venerdi sera adesso sto cercando qualche persona che le venga a fare. Ieri un giovane diceva “innamorato della lectio divina” non sapendo prima cos’era.

Il card. Martini ha puntato tutto sulla lectio divina considerata il metodo migliore per far parlare la Bibbia, per attualizzarla, per conoscerla, per una vera spiritualità cristiana. Posso testimoniare che da 22 anni faccio ogni giorno la lectio divina, instancabilmente, nel senso che mai me ne stanco, che preparo le omelie con la lectio e che ogni volta lo Spirito mi suggerisce molte cose, alcune delle quali dico. Anche in questo caso è vincente il principio della costanza.

Lo Spirito suggerisce solo a chi lo interpella continuamente. L’icona biblica di stasera è – tanto per cambiare – bellissima. Senza di me non potete far nulla. E’ tratta dal Vangelo di Gv precisamente dal discorso sulla vite e i tralci.

Cap 15, 1-11. E’ uno di quei brani sui quali tenere sempre un segno perché costituisce una ricchezza enorme per la vita interiore. Semplicemente e in forma un minimo solenne ve ne rileggo alcune parti, alcune frasi che dovete semplicemente ascoltare

  • Io sono la vera vite………..

  • Rimanete in me e io in voi………..

  • Io sono la vite, voi i tralci………..

  • Chi rimane in me e io in lui fa molto frutto……….

  • Ogni tralcio che porta frutto, il Padre lo pota perché porti più frutto………

  • Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato……….

  • Senza di me non potete far nulla!

Un metodo che suggerisco e suggerirò è quello di registrare su una cassetta alcuni semplici brani della Parola, anche un salmo, così lentamente. Poi riascoltarli nel silenzio. È ‘ un modo per imprimere dentro la Parola. Il Signore dice proprio così: nulla.

Dobbiamo guardare severamente al Vangelo e chiederci: cosa conterà alla fine dei tempi? Nel momento del giudizio finale? Evitare di pensare che saremo giudicati con un metro umano, la mente di Dio è molto più grande. Però un criterio serve. Uno dei criteri è evidenziato da Giovanni: Dio ci chiede di portare frutto. Di essere un albero non secco, potato si, ma non secco. Non da buttare.

E’ da ricordare anche l’immagine del fico seccato in Mt 21,18. Gesù è molto severo. Qui sappiamo da Lui che la condizione per non arrivare al nulla è di stare con Lui. E’ terribile questo nulla. Ci sono vite che portano al nulla. Non immaginiamo le vite dei depressi, dei malati psichici, nel senso di un nulla del pensiero, della mente, di un nulla inteso come malattia, dunque anche delle malattie fisiche che impediscono la mobilità o come pensavano certe correnti ebraiche di nulla nel senso della non fruttuosità efficiente della vita. Questi sono criteri umani. Che cos’è un nulla di fronte a Dio? Se non possiamo dire esattamente cosa è possiamo certo dire che se le cose non si fanno con Lui sono uguali al nulla. In questo senso la formula finale della preghiera eucaristica: per Cristo, con Cristo, in Cristo.

Per, con , in. Il primo è un per finale: io faccio le cose per Te. Il secondo è un complemento di compagnia: io faccio le cose insieme a Te. Il terzo è intraducibile, è di San Paolo. Fare le cose in Cristo è più o meno quello che dice qui Gv. Rimanendo in Lui. E per capire Gv ci offre la metafora del tralcio che non può fare  nulla senza la linfa della vite. Dunque è nulla tutto quello che non è alimentato da questa linfa della vite. E non si può dire: ma io come posso dire che questa cosa la faccio per Dio e quest’altra per me?

Non è il problema di distinguere cosa da cosa o di ammantare tutte le cose di una falsa spiritualità. Bisogna vivere una vita in Cristo, alimentarla con Cristo, modificarla con Cristo ( è Lui che la modifica quando fa la potatura) e allora si capisce bene che non andiamo verso il nulla. Anche se non possiamo fare grandissime cose,anche se ci confrontiamo con risultati di altri e vediamo che i nostri sono scarsi, quello non sarà il nulla davanti a Dio. Togliamoci dalla testa l’idea di un Dio che pesa i risultati con una bilancia.

Possiamo chiederci un’altra cosa: ma c’è il rischio dell’illusione? Noi ci diciamo credenti e poi pensiamo che solo per questo motivo le nostre cose saranno approvate da Dio. Questo è quello che ci rimproverano molti potenziali non credenti. Certo il rischio c’è. Per questo la preghiera è il criterio determinante. Se è vero che lo scopo della vita è conoscere Dio, e se è vero che ci saranno richiesti i frutti della vita, è così vero che solo chi prega costantemente è in Cristo e si salva dal rischio del nulla. Su questo punto io sono un po’ rigido. I cosiddetti atei o non praticanti che sono meglio dei praticanti, dal punto di vista morale è vero. Ma chi rifiuta di conoscere Dio avendone avuto la possibilità credo che sarà valutato nel nulla. Molti sostituiscono a Dio il pensiero, l’intelligenza o l’azione sociale. Sono tutte cose importanti ma non possono esser fatte valere la posto della fede.

E lo dico senza presunzione ma semplicemente perché il Vngelo è molto chiaro. A maggior ragione dico che è sciocco che un credente consapevole continui a ripetere questo ritornello quasi per autosqualificarsi. Se tu hai la grazia di credere e di volere conoscere Dio pensa a migliorare questa via e non ripetere che l’ateo è meglio di te. mi sembra davvero una cosa un pò stupida.

Quanto al fatto che uno possa dire davanti a Dio: è tutta colpa della chiesa che ho conosciuto, anche su questo non punterei ( se fossi ateo) molto. E questo naturalmente non è un modo per giudicare alcuno. Non è questione di giudicare, solo di essere consapevoli. Noi dobbiamo dunque salvarci dal nulla soprattutto da quel nulla mascherato da vita fruttuosa. Certo chi ha raggiunto grandi obiettivi nella vita, nel suo lavoro, nel potere deve assolutamente fare molta attenzione.

Anche però chi non ha raggiunto questi scopi e si è mantenuto più modesto non deve pensare che tutto sia fatto. Perché esiste anche la mediocrità, il culto di sé attraverso magari i propri fallimenti. Ovvero nessuna vita può fermarsi nel percorso verso Dio.

L’ultima cosa che ci chiediamo deriva dal titolo che abbiamo dato: la preghiera dà l’equilibrio. E’ una provocazione perché la parola equilibrio non compare mai nella Bibbia. E’ una parola del linguaggio della fisica entrata però nel linguaggio normale. A me molto cara. Henry Noween un autore di spiritualità che consiglio molto parla della sua amicizia con un gruppo di artisti del circo. Ha osservato il loro equilibrio, il perfetto coordinamento dei movimenti. Dio gli ha ispirato che quel tenersi per mano, quell’abbracciarsi nell’aria senza alcun appoggio fosse la metafora del nostro rapporto con Dio. Il trapezista si abbandona certo che se l’altro non ha precisamente coordinato il suo movimento potrà cadere.

Ma a Dio ci si può solo abbandonare. Gv stasera parla di rimanere in.

E’ un’immagine che richiama molto l’equilibrio. Rimanere è un verbo che indica la staticità nel senso della saldezza. Che cos’è dunque questo equilibrio?

Non è la perfezione. E’ ovvio. Non è nemmeno la sintesi tra il modo di fare dell’uno e il modo di fare dell’altro. Richiede ovviamente una consapevolezza delle proprie debolezze e ricchezze che spesso si acquisisce con una psicoterapia che non è assolutamente contraria alla fede.

Ma penso che senza una vera spiritualità la terapia non basti. L’ho visto su di me e su altri. Direi che l’equilibrio della preghiera (e della fede) è quella capacità di essere totalmente di Dio essendo nel mondo. Mi sembra un bellissimo obiettivo.

Oggi l’accezione più comune di equilibrio dice equilibrio=relax. Si moltiplicano le tecniche, prevalentemente di origine orientale. Nulla va ignorato ma non è questo l’equilibrio della fede. Gesù sapeva che i suoi dovevano essere nel mondo, non fuggirne. Ma voleva che rimanessero suoi. Voleva che stessero con Lui. Questo è il vero equilibrio. Possiamo anche essere stanchi, non rilassati ma non perdere il nostro equilibrio.

Dio ce lo consenta.

 

 

 

 Benedetto XVI ci presenta il mondo per quello che è:

 

 

  

IL GIOVANE CUORE DI SAN RICCARDO PAMPURI:

 

MODELLO FORMATIVO ORDINE OSPEDALIERO