LE STRADE APERTE DEL CELESTE IMPERO

  

Il REPORTAGE DALLA CINA  a confronto con il

nostro cristianesimo facile.

Una riflessione che a Natale deve aprire gli

orizzonti della COMPAGNIA.

E’ il sogno di Dio che va realizzandosi, con noi o senza di

noi.

  

  

LE STRADE APERTE

  

 

DEL CELESTE IMPERO

 

 

Viaggio nelle chiese di Pechino e Shanghai. Dove anche i cristiani vivono alle prese coi nuovi scenari di un Paese lanciato verso il futuro e che deve fare i conti con la recessione globale. Tra incertezze, occasioni nuove e inattese prossimità

di Gianni Valente
 

 

Una donna col figlio in preghiera in una chiesa cattolica
[© Reuters/Contrasto]

      È già sera da un pezzo, quando un po’ alla chetichella le strade e gli incroci intorno a Zhengyi Road si riempiono di guardie, vigili urbani, macchine della polizia con le luci intermittenti blu, accigliati figuri in borghese provvisti di ricetrasmittenti. Alle otto scatta l’ora X, il traffico viene bloccato per qualche minuto. Una piccola folla di curiosi assiste al veloce rito quotidiano del ritorno a casa di Wen Jiabao, che è il premier della Repubblica Popolare Cinese, e quindi è per statuto uno degli uomini più potenti della terra. Lì vicino, la Pechino più glamour di Wang Fu Jing Avenue continua indisturbata a celebrare i suoi fasti postolimpici. All’ombra del Beijing Hotel, l’albergo storico della nomenklatura maoista, rilanciato dal restyling come albergo extraluxe, va a spasso tra megastore sempre aperti e ristoranti affollati di un’umanità allegra e appagata, che non appare affatto disperata.  

Una processione davanti alla statua di Matteo Ricci a Pechino [© Associated Press/LaPresse]

      Dopo la Lettera 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

 

Il Seminario nazionale di Pechino

      Un sogno a rischio 


      I guru del Fondo monetario internazionale vanno a Hong Kong e dicono di star tranquilli, ché la Cina, con le sue robuste riserve monetarie, sarà una un’ancora di stabilità per il mondo intero, nell’uragano della recessione globale che spazzerà i prossimi due anni.

 Ma a Pechino non si fidano troppo degli alchimisti finanziari d’Oltreoceano. Nel Guangdong, già a fine ottobre, è cominciata la morìa delle fabbriche di giocattoli. Chiuse a decine, una dopo l’altra, e i lavoratori mandati a casa. «Aumenteranno i fattori contro la stabilità sociale», pronosticava proprio Wen Jiabao, già a inizio novembre.  

 

 

 

 

 

 

 

 

  

Bambini cinesi in preghiera [© Associated Press/LaPresse]

      Quelli della soglia 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

DA 30 GIORNI –  Dicembre 2008

      Giuseppe Xing dev’essere stanco, se si addormenta come un bambino lungo il breve tragitto che lo porta a Jiading, a quaranta chilometri da Shanghai. Il cambio di fuso si fa sentire: è appena tornato dalla Terra Santa, pellegrinaggio fatto in compagnia dei funzionari dell’Ufficio Affari religiosi. Ma nella cittadina dell’hinterland shanghaiese lo aspettano: deve celebrare più di cento cresime, e lui – lo sanno tutti – non mancherebbe mai a un impegno del genere. In fila, a farsi ungere la fronte, ci sono vecchie nonne ingobbite dagli anni, cinquantenni azzimati col vestito bello, madri di famiglia con i figli in braccio. E tanti ragazzi e ragazze, che si avvicinano all’altare con l’aria lieve e il cuore giovane, come quello della Cina urbana e moderna di cui sono figli.  

      Nessuno qui prende sul serio le fantasiose teorie di qualche intellettuale nordamericano, che vede all’orizzonte la conversione accelerata al cristianesimo di metà del popolo cinese per via “culturale”. Ma è un fatto che a Pechino, Shanghai e in qualche altra megalopoli cinese sono migliaia i battesimi di giovani e di adulti impartiti ogni anno nelle chiese cattoliche. Alcuni tra loro, uno a uno, si affacciano alla vita cristiana per caso, attirati anche dai richiami più fortuiti e apparenti: le luminarie che addobbano le chiese a Natale, la musica dell’organo e i canti liturgici ascoltati passando per caso davanti a qualche parrocchia; o addirittura la curiosità di capire bene chi sarà mai questo san Valentino che gli innamorati di tutto il mondo festeggiano il 14 febbraio.  

      Non fanno discorsi, non riescono a spiegare cosa li attrae. Per molti, all’inizio, è solo l’emozione di aver sentito parole di promessa e speranza che hanno toccato il cuore, la stessa su cui fanno affidamento gli evangelicals d’importazione. «Una volta entrati in chiesa», aggiunge padre Giovanni, «ci sono altre cose che misteriosamente lavorano: la liturgia, le storie di Gesù ascoltate durante la messa, la vista della gente che prega in silenzio, con tutta calma». Non sanno nulla della grande storia di testimonianza e martirio che ha custodito in terra cinese il dono della fede, quello che potrebbe arrivare fino a loro senza sforzo e senza alcuna tensione. Anche per questo, per non scandalizzare la loro inconsapevole simpatia da principianti – ripetono tutti –, è ora di mettere da parte le scorie tossiche dei conflitti ecclesiali del passato, e i carrierismi di nuovo conio che ancora li alimentano.  

      Per il resto, la schiera di preti e vescovi quarantenni che stanno assumendo il carico delle responsabilità nella Chiesa di Cina non sanno troppo bene che pesci pigliare. E i perduranti condizionamenti a cui è sottoposto il legame di comunione con il Papa sono solo una parte del rebus che hanno davanti. «Prima o poi, in un modo o nell’altro», dice ancora padre Giovanni, «la normalizzazione dei rapporti tra Pechino e il Vaticano arriverà. Ma intanto, qui tutto sta cambiando troppo in fretta. I vecchi testimoni se ne stanno andando, noi abbiamo davanti un mondo in continuo movimento. Non sappiamo bene cosa fare». L’assimilazione cinese della postmodernità globale sta mutando tutti i paradigmi sociali e culturali del passato. E a loro è toccato in sorte di portare il nome di Cristo nell’immenso cantiere della Cina, proprio mentre il grande Dragone sta di nuovo cambiando pelle. Con la tentazione di essere all’altezza, elucubrare strategie che siano adeguate al momento. E con la chance di non accorgersi che anche adesso, come sempre, per cogliere l’occasione che passa, basta che la Chiesa sia sé stessa. 

      A modo suo, è questo che il vecchio vicario generale Ai Zuzhang vorrebbe suggerire ai giovani preti di Shanghai. Lo fa con delicatezza, accennando di nuovo alla sua storia, mentre celebra con loro una messa per ricordare i quattrocento anni della diocesi shanghaiese: «Io ero ricco», dice, «così ricco che la mia famiglia pagava i domestici che mi accudivano anche quando ero già diventato prete. Avevo problemi di salute, non sapevo fare niente, non sapevo cosa fosse il lavoro. Quando sono finito nei campi di rieducazione, mi chiedevo: come farò a resistere? E invece, poi, è stato il dono di Dio che ha fatto tutto per me. Pure la salute è migliorata… La stessa cosa potrebbe capitare adesso a voi, davanti al compito che vi aspetta. Sul futuro che avete davanti, ci metterà le mani il Signore».  

 

 

      La Cina è una locomotiva lanciata a bomba verso il futuro. Negli ultimi anni i tassi globali di crescita economica del Paese erano costantemente a due cifre. Se adesso deragliasse in piena corsa – lo sanno tutti – le conseguenze sarebbero devastanti in ogni angolo del pianeta. La leadership cinese ha davanti a sé problemi dalle dimensioni ciclopiche, ed è meglio tenerne conto, anche quando si guarda alle vicende del piccolo gregge dei cattolici cinesi – tra i dieci e i dodici milioni, una goccia nebulizzata nel mare di un miliardo e trecentomila anime. 

 

      Negli ultimi due anni, con il gradualismo rituale che la contraddistingue, la dirigenza cinese aveva realizzato passaggi teorici interessanti riguardo alla questione religiosa. Nel 2007, all’ultimo congresso del Partito comunista cinese, la parola “religione” era stata inserita nella costituzione del Pcc. Per la prima volta, nella storia della Cina comunista, anche nella pianificazione teorica delle strategie politiche i soggetti religiosi praticanti venivano riconosciuti come componente sociale compatibile col modello di sviluppo del Paese, alla stregua delle minoranze etniche. Poi, a fine 2007, lo stesso Hu Jintao aveva sdoganato ai massimi livelli l’idea che le religioni possono tornare utili per costruire la società armoniosa, formula-chiave nel lessico recente del potere cinese: «Noi dobbiamo unire bene i credenti e le figure religiose presenti tra le masse intorno al partito e al governo, e lottare insieme con loro per costruire tutt’intorno una società prospera, mentre si affretta il passo verso la modernizzazione del socialismo», aveva detto il presidente cinese a conclusione di una sessione di studio del Politburo dedicata alla questione religiosa. Per questo, prima delle Olimpiadi, sembrava che il nuovo scenario teorico elaborato ai piani alti della nomenklatura cinese potesse per effetto domino far avanzare di qualche passo importante la marcia estenuante per la normalizzazione dei complessi rapporti tra governo comunista, Chiesa cattolica cinese e Santa Sede. Poi, passata l’eccitazione olimpica, i segnali provenienti di là dalla Grande Muraglia si sono fatti di nuovo rari ed enigmatici (vedi box). Tornano al pettine i vecchi nodi ancora irrisolti, come la pretesa degli organismi governativi di pilotare le nomine dei vescovi. Ma il contesto è cambiato, e conviene a tutti tenerne conto, per cogliere davvero come stanno le cose. 

  

      Il rapporto tra la Chiesa e il Celeste Impero ha sempre avuto le sue complicazioni specifiche. Ben prima di Mao, chi comanda in Cina ha sempre trovato difficoltà a riconoscere che il vescovo di Roma non è una specie di monarca spirituale universale, e i vescovi sparsi nel mondo non sono i suoi mandarini. Adesso, come ulteriore fattore di complicazione, la “questione cattolica” è inquadrata dai funzionari cinesi nel multiforme revival religioso che attraversa il Paese: fenomeno articolato, tenuto sotto controllo dal regime, che negli ultimi anni, accanto alle tradizionali “aree critiche” – come la questione tibetana o quella degli uyguri, l’inquieta popolazione musulmana del Xinjiang –, punta la sua attenzione anche sull’impressionante escalation della fluida galassia evangelico-protestante. Le comunità evangeliche militanti, legate in maniera più o meno diretta alle Chiese libere d’impronta nordamericana, col loro miracolismo emozionale espandono la loro rete di “chiese domestiche” con ritmi e metodi di difficile monitoraggio. La loro proliferazione sottotraccia ha certo superato di schianto la cifra di 16 milioni di fedeli che le statistiche di regime attribuiscono alle comunità protestanti “storiche” (luterani, calvinisti, riformati). Una crescita esponenziale celebrata come una vittoria dalle centrali d’informazione attive negli States, come la China Aid Association, che accredita la cifra inverificabile di 130 milioni di cinesi già diventati “cristiani rinati” nelle agguerrite house churches, presentandoli tutti come potenziali attivisti di battaglie antigovernative in nome della libertà religiosa e dei diritti umani.  

      Per ora, il ritorno del “fattore religioso” come fenomeno sociologicamente rilevante viene scrutato dai piani alti del potere cinese con cautela. Gli organismi culturali filogovernativi, come l’Accademia delle Scienze sociali, hanno ricevuto dall’alto l’input esplicito di studiare il fenomeno. Se il criterio-guida scontato del governo è la stabilità politica e la coesione sociale, le spie d’allarme sono pronte a scattare davanti a ogni realtà religiosa che punti a un impatto sociopolitico non assimilabile alle nuove parole d’ordine sulla “società armoniosa” e che sia percepita come forza antagonista. E il livello d’allerta non può che aumentare, con la recessione globale che minaccia anche il miracolo economico cinese. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

      Non è un caso che negli ultimi tempi la rete sfuggente delle chiese domestiche evangelical sia entrata stabilmente nel mirino dei controlli da parte degli apparati di polizia. E, in parte, le incertezze del momento potrebbero spiegare anche il temporaneo décalage di comunicazione nelle relazioni sino-vaticane. Dove il nodo più controverso resta quello delle nomine dei vescovi, coi funzionari cinesi che prendono tempo ed evitano di confrontarsi con soluzioni di compromesso accettabili anche per la Santa Sede. «Se il governo non molla la presa», spiega a 30Giorni un giovane prete cinese, «è anche perché sono abituati a considerare il vescovo come un uomo di potere, in grado di dettare la linea politica agli altri battezzati». Così, anche in una situazione anomala e complessa come quella cinese, l’attenzione concentrata al parossismo sul problema delle nomine episcopali produce alla lunga effetti deformanti. Con giovani preti contagiati da un paradossale carrierismo, «che passano il tempo a fare cordate e cercare sponde ecclesiali e anche politiche per diventare vescovi. E perdono di vista tutto il resto». 

 

 

 

 

 

  

 

 

 

 

 

 

  

 
 

 

      Al Seminario nazionale di Pechino, la pergamena con la benedizione di Benedetto XVI è appesa al muro in posizione defilata ma strategica. La vedi solo se scendi le scale che dalla chiesa portano alla cripta. Ma di lì, almeno una volta al giorno, ci passano tutti. I quasi ottanta seminaristi, la quarantina di sacerdoti e le quindici suore fanno una vita scandita con orari e disciplina da seminario modello: sveglia alle cinque e mezza, un’ora di preghiera, messa, colazione, mattinata di studio, ginnastica, letture spirituali durante i pasti, fino alla meditazione serale sul Vangelo e sui Padri fatta in silenzio, tutti insieme, nella chiesa. La vita che scorre nel seminario è un concentrato di tutti i paradossi che segnano le vicende anomale della cattolicità cinese. Nei dépliant informativi si ripete che il seminario è finanziato dal governo ed è sotto l’egida dell’Associazione patriottica dei cattolici cinesi, lo strumento con cui il regime vuole assicurarsi il pieno allineamento della Chiesa alla propria leadership politica, interferendo anche nella selezione dei vescovi. Ma poi, i preti e i seminaristi studiano senza censure il Codice di Diritto canonico, compresi i canoni dove è scritto che solo il Papa «nomina liberamente i vescovi, oppure conferma quelli che sono stati legittimamente eletti». E se viene portato in visita al seminario qualcuno dei pochi vescovi cinesi consacrati senza mandato pontificio, gli fanno il vuoto intorno e nessuno dei preti scende in cappella a dir messa insieme a lui. 

 

 

      A più di un anno dalla sua pubblicazione, anche la Lettera del Papa ai cattolici cinesi fa registrare reazioni ambivalenti e paradossali. «Per tutti noi», dice padre Giuseppe Jinde Lin, uno degli assistenti spirituali del seminario, «il Papa ha detto la parola definitiva su tante questioni che da decenni erano controverse. La Lettera ci dice che non è necessario contrapporsi a quelli che ci governano: adesso nessuno può più dire che chi dialoga con il governo non è per questo motivo un buon cristiano». Sono già una decina – e le richieste di questo tipo sono in continuo aumento – i seminaristi provenienti da comunità non registrate presso gli organismi governativi che hanno chiesto di proseguire la propria formazione presso il Seminario nazionale di Pechino, uscendo dalla condizione di clandestinità più o meno tollerata in cui era maturata la loro vocazione sacerdotale: uno dei tanti segnali della silenziosa riconciliazione che dentro la cattolicità cinese sta lentamente sanando le ferite e dissipando i rancori tra quelli che avevano già accettato di collaborare con la politica religiosa del regime e quanti rifiutavano il suo controllo sulla vita della Chiesa.

 

Le reazioni meno entusiaste davanti alle indicazioni e ai suggerimenti contenuti nella Lettera del Papa si registrano – ennesimo paradosso – alcuni isolati elementi dell’area clandestina, che magari per decenni avevano fatto dell’obbedienza al Papa la bandiera della propria fedeltà senza compromessi alla Sede apostolica. Un irrigidimento non sempre motivato da ragioni ideali. Qualcuno dei preti cosiddetti “clandestini” vive una condizione di paradossale privilegio: gestisce senza controllo le offerte per le messe che riceve dai fedeli, fruisce delle donazioni delle organizzazioni americane che sono contro il governo cinese, si muove di diocesi in diocesi, senza troppi vincoli da parte dei superiori.

 

Ma si tratta – ribadiscono anche al Seminario di Pechino – di poche eccezioni, singoli elementi che fanno molto rumore coi loro interventi scomposti affidati ai blog dei siti internet, dove scrivono anche che il Papa ha sbagliato o è stato ingannato. «La riconciliazione dei cuori, quella che conta, è già cominciata», assicura padre Giovanni Tian della chiesa di San Pietro a Shanghai.

«Anche i clandestini ora riconoscono che c’è piena comunione di fede coi cattolici che frequentano le chiese “aperte”. Sono spesso persone anziane, che certo non vanno a chattare su internet per criticare il Papa, a cui sono così devoti. Anche con loro va usata comprensione e misericordia. Le cose si risolveranno col tempo e con la pazienza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se non c’è il perdono, gli altri non possono accorgersi che tra di noi c’è Gesù». Intanto, la parrocchia di don Giovanni è tutta in subbuglio per i lavori di restauro. Ma nella piccola sala adibita a cappella c’è sempre il Santissimo esposto, e c’è sempre qualcuno che prega in silenzio, senza scarpe, davanti alla statuetta di Maria Rosa Mistica, quella con le tre rose sul petto. Lì fuori, anche il cuore indaffarato di Shanghai non si ferma mai, coi suoi ritmi tachicardici. 
     

 

 

 

 

      Vicino al primo ministro abita anche padre Giovanni. La chiesa di San Michele, dove è parroco, è a pochi numeri civici dal compound che ospita l’importante vicino di casa. Capita anche a lui di dribblare biciclette e vigilantes, quando torna a casa trascinato come gli altri nel viavai anonimo della sera, uno dei tanti. Eppure un giorno, qualche mese fa, tutti gli occhi della Cina, per qualche istante, sono stati idealmente puntati su di lui. La fiaccola olimpica era arrivata nella capitale dell’Impero, e lui era uno degli ultimi tedofori, quelli incaricati di portare il fuoco olimpico per poche decine di metri per le strade di Pechino. Quando è toccato a lui, senza starci a pensare, ha colto al volo l’occasione. Ha alzato la fiaccola davanti alla città in festa, e con quell’arnese-simbolo della nuova grandeur cinese, senza enfasi, ha tracciato veloce nell’aria il segno della Croce. Il gesto più semplice che gli è venuto in mente, per dire tutta la sua simpatia al pezzo immenso di mondo che si assiepava ai lati della sua breve corsa. 

 

 

      Quattrocento anni fa, già il grande gesuita Matteo Ricci era rimasto impressionato dalla grandezza umana del disegno politico che sorreggeva il Celeste Impero. Anche lui, guardando alla Cina del suo tempo, cercava un punto d’incastro, un’affinità minimale, una risonanza familiare anche lontana da cui partire affinché il seme cristiano fosse sparso in quella terra, senza venire subito respinto come un corpo estraneo. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

      Come allora, anche oggi, nella grande mutazione che la Cina sta vivendo, l’avventura dei cristiani sparsi nel grande Paese passa anche attraverso prossimità occasionali. Spiragli di simpatia gratuita che il buon Dio può destare tra i contadini del Sichuan e i manager di Shanghai, gli studenti universitari coi vestiti griffati e i pescatori di Fuzhou. E anche tra quelli che hanno il potere. 
     

 

 

 

 

FBF – VII INCONTRO DI FORMAZIONE PERMANENTE A BUONOS AIRES

VII Encuentro de Formación Permanente

29.11.2008

El sábado 29 de noviembre, mientras que en Cuba el Padre José Olallo Valdés (OH) era beatificado, en Buenos Aires se llevó a cabo la última jornada de trabajo del VII Encuentro de Formación Permanente del que participaron hermanos y colaboradores de Argentina, Bolivia y Chile.

por Matías Casano

Reunidos en San Miguel, en la Casa de Ejercicios Espirituales María Auxiliadora, las actividades comenzaron temprano con la oración del Laudes y el desayuno comunitario.

Ya en la sala de actos, el Ing. Víctor Primc –Director Provincial de Organización y Planificación– presentó las nuevas políticas de comunicación de la Provincia, que incluyen el diseño de un nuevo logo y la modernización del sitio web- y entregó a los gerentes de cada Casa el respectivo manual de identidad corporativa.

Seguidamente, el Ing. Primc y el Dr. Gustavo Cantero –Gerente del Hospital San Juan de Dios de Ramos Mejía- disertaron sobre Gestión Carismática. Para ello contaron con el invalorable testimonio del Arq. Gabirel Laurino, director de la Fundación Padre Mario Panteleo.

Luego de los testimonios, se pasó a un trabajo en taller. Para ello, los participantes se dividieron en grupos de acuerdo a su procedencia y trabajaron en mesas redondas en distintos sectores de la Casa de Ejercicios Espirituales.

Concluida esta etapa de trabajo, tuvo lugar un Plenario donde cada grupo presentó sus conclusiones, que se verán reflejadas en el documento final del Encuentro.

Antes del almuerzo, todos los presentes se dirigieron al parque de la Casa donde, junto a la bellísima imagen de María Auxiliadora, se tomó la ‘foto de familia’ de esta Jornada.

En horas de la tarde, se presentaron y aprobaron las conclusiones finales del Encuentro. Asimismo, Martha Sastre –Secretaria de la Curia Provincial– y el Hno. Gustavo Muchiutti –Secretario Provincial– leyeron un mensaje del Superior Provincial, Hno. Hermit Aguayo Garcés, quien no pudo estar presente por encontrarse en la ceremonia de beatificación del Padre José Olallo Valdés, en Camagüey, Cuba.

La Misa de cierre del Encuentro, presidida por el Hno. Antonio Pérez García, fue también una oportunidad para celebrar y agradecer por la beatificación del hermano Olallo. Y tomarlo a él como ejemplo y héroe de la Hospitalidad, especialmente en nuestra región americana.

Por último, la Lic. Marcela Manno -terapista ocupacional- presentó al coro de residentes de la Casa Nuestra Señora del Pilar que, con la dirección de la profesora Brunilda Godoy, nos regalaron un cierre a todo lujo. Las interpretaciones del coro merecieron la ovación de todos los presentes. Fue un contagio de energía y emoción. Evidentemente, el espíritu de San Juan de Dios estuvo allí presente. 

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 Miembros de la CAP, CAL y Colaboradores se reunieron en Ramos Mejía

27.11.2008
En el marco del VII Encuentro de Formación Permanente, el jueves 27 de noviembre se realizó en la sede de la Curia Provincial el Encuentro de los miembros de la CAP, CAL y Colaboradores de todas las comunidades de la Provincia.

El Dr. Gustavo Messina, coordinador de la Comisión de Animación Provincial, inició el Encuentro con unas palabras de apertura y bienvenida. A continuación, los presentes compartieron una reflexión a cargo del padre Antonio Fidalgo –sacerdote redentorista– quien se refirió a la virtud cristiana de la obediencia.

Durante el transcurso de la mañana se realizaron diversos talleres cuyos resultados fueron luego puestos en común en un plenario.

Tras esta etapa de trabajo, compartimos un delicioso almuerzo: asado, ensaladas y postre de chocolate.

A la tarde, las comisiones de animación local de cada uno de los centros presentó en el auditorio un informe sobre las actividades llevadas a cabo en el 2008 y las expectativas para el año que viene. Asimismo, se realizó una devolución de los Encuentros de Formación realizados en cada uno de los países que componen nuestra Provincia.

El cierre del encuentro estuvo a cargo del Dr. Enrique Romero.
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SISTERS OF SAINT JOHN OF GOD – Le Sorelle di San Giovanni di Dio

Welcome/Benvenuto

I CHI SIAMO

melograno-r1 We are an international Congregation of women religious, who endeavour to live a life of prayer and commitment to Gospel values.

   

  Siamo una Congregazione internazionale di donne consacrate che faranno del loro meglio per vivere una vita di preghiera e di impegno al servizio del Vangelo. 

  We share a common vision to bring God’s healing love to everyone, wherever we are.

   

 Noi condividiamo un comune ideale che è di portare l’amore sanante di Dio alle persone, nei luoghi in cui siamo presenti.  

 Each of us responded in faith to a call to join this particular Congregation and to be faithful to the dream that inspired our Founders.

   

 Ciascuna di noi, nella fede, ha risposto all’invito a far parte di questa particolare Congregazione e ad essere fedele al sogno che ha ispirato il nostro Fondatore.

   

 Through our various ministries in many parts of the world, we aim to give concrete expression to God’s compassionate care for all people and the whole of creation.

   

 Attraverso i nostri centri di operativi in molte parti del mondo, il nostro obiettivo è di dare concreta espressione alla volontà di Dio che è compassionevole verso tutti gli uomini e l’intera creazione.

  

LA NOSTRA MISSIONE

 

 

melograno sisters-n-logoIn collaboration with other women and men who share God’s Dream for the world, we try to respond to the call of the Christian Gospel to reach out with compassion to those who experience poverty and loss of respect for their dignity as human persons. 

 

In collaborazione con altre donne e uomini che condividono i sogni di Dio per il mondo, cerchiamo di rispondere alla chiamata del Vangelo che ci chiama compassione verso coloro che vivono l’esperienza della povertà e l’umiliazione della dignità umana calpestata.

While still involved in our traditional ministries of education and healthcare, we are open and responsive to the many concerns in our world today:

Mentre siamo coinvolti nel nostro tradizionale ministero nei settori dell’istruzione e della sanità, siamo aperti e sensibili alle molte preoccupazioni nel nostro mondo di oggi:  

  • The hunger for God and meaning in the world

  •  

  • La fame di Dio e significato nel mondo

  •  

  • Justice and peace issues

  •  

  • Le questioni della giustizia e della pace 

  •  

  • The plight of migrants and refugees

  •  

  • La drammatica situazione dei migranti e dei rifugiati

  •  

  • Inter-faith dialogue

  •  

  • Il dialogo interreligioso

  •  

  • The empowerment of women and children

  •  

  • *L’empowerment verso donne e i bambini

  •  

  • HIV/AIDS

  •  

  • L’HIV / AIDS

  •  

  • The exploitation and endangerment of the Earth

  •  

  • Lo sfruttamento e rischi della Terra

  •  

  • Poverty in all its forms

  •  

  • La povertà in tutte le sue forme

  •  

  •  Inspired by our Founders we desire to stand in solidarity with all people who are oppressed or alienated by unjust systems.  

    Ispirato dal nostro Fondatore, è in noi il desiderio di solidarizzare con tutti coloro che sono oppressi o alienata da ingiusti sistemi socio-economici.  

    Jesus came to set people free from all that oppressed them and as a Congregation we seek “To continue and make present again in concrete, specific time and place this liberating mission of Christ” (Constitutions: 3)

    Gesù è venuto per la liberazione del mondo da ogni oppressione e come Congregazione cerchiamo di “continuare a rendere presente e di nuovo in concreto, specifico tempo e luogo questa missione liberatrice di Cristo” (Costituzioni: 3)  

    _______________________________

    *L’empowerment può definirsi come un processo che dal punto di vista di chi lo esperisce, significa “sentire di avere potere” o “sentire di essere in grado di fare”.

    L’empowerment è un processo che dal punto di vista di chi lo esperisce, significa “sentire di avere potere” o “sentire di essere in grado di fare”. Costituisce una modalità dell’operatore sanitario e sociosanitario di accostarsi a chi ha un problema o a coloro che gli sono vicini (familiari/care giver) e fare in modo che questi possano aiutarsi più di quanto potrebbero fare se fossero lasciati da soli, sopraffatti dalle difficoltà e in preda all’impotenza.

    È alla base del lavoro di rete in quanto mira ad attribuire o a riattribuire potere d’azione ad una pluralità di persone inconnessione nell’ambito sociosanitario.

    Empowerment come promotore della salute.  

  • Esitono vari empowerment come quello psicologico, che riguarda le capacita individuali dell’individuo

  • delle organizzazione che riguarda la capacità degli attori presenti al suo interno di responsabilizzarsi e di coinvolgersi

  • delle comunità che riguarda la comunità stessa per a una migliore qualità sociosanitaria 

  •  

     

     

     Our Congregational Leadership Team

    Il nostro team di leadership congregazionale

      

      Srs. Sr. Mary Toomey, Mary Kiely, Brid Ryan (Congregational Leader) and Grainne McKelvey Maria Toomey, 2007 2.007 

     

    Address:

    St. John of God Congregational Centre, 1Summerhill Heights, Wexford, Ireland

    IRLANDAPhone

    Fax No:

    00353 – 53 – 9142396

     

    00353 – 53 – 9141500

    Email:

    stjohnogoffice@eircom.net

    LA LECTIO DIVINA – Card. Carlo Maria Martini

    La lectio divina  ha conosciuto nel dopo-Concilio una meravigliosa riscoperta grazie a maestri come il Card Martini, E. Bianchi, Masini, I. Gargano, e tanti altri. La svolta storica conciliare del superamento delle antiche remore di fronte al testo sacro ha riaperto ai credenti le sorgenti della spiritualità biblica che già avevano illuminato i primi secoli del cammino della Chiesa.

    I religiosi, i presbiteri e i laici, alla scuola dei ss. Padri e  Monaci hanno ripreso a nutrirsi personalmente della parola di Dio e a farne il  luogo privilegiato dell’ascolto e del dialogo con Dio superando lo sterile e stagnante  devozionalismo dei secoli passati.

    È  tanta la ricchezza e profondità  di questo filone spirituale che abbiamo pensato di dedicargli una pagina del nostro sito. «È un vero maestro della “lectio divina”, che aiuta a entrare nel vivo della Sacra Scrittura», ha detto di lui in piazza San Pietro Benedetto XVI.

    LA LECTIO DIVINA

    Secondo la mia abitudine, ho cercato di trasformare questa dizione in una domana:In quale modo utilizzare il testo biblico per una meditazione che sfoci un preghiera e in atti concreti di vita?

    L’orazione infatti tende al cambiamento del cuore, alla conversione. E confesso che è la domanda a cui mi sforzo di rispondere da una vita, una domanda sempre da rinnovare, da rilanciare, da rimettere i cantiere. Richiamerò dunque, brevemente, alcune parole chiave che formulo in latino  perché non è facile trovare in italiano un equivalente sufficientemente comprensivo:

    • lectio,

    • meditatio,

    • contemplatio,

    • oratio,

    • consolatio,

    • discretio,

    • deliberatio,

    • actio.

    Sono parole che mi permettono di cogliere come avviene il passaggio da testo biblico allavita, transitando per la preghiera e la contemplazione.

    “La lectio divina è un approccio graduale al testo biblico e risale all’antico metodo dei Padri, che a loro volta si richiamavano all’uso rabbinico.”

    Chi ha “inventato” questo metodo di lettura-preghiera?

    “La suddivisione classica in memoria, intelletto, volontà è molto antica ed è sviluppata in particolare da sant’Agostino per quanto riguarda il tema della memoria. Più tardi questa triade diviene sinonimo di un processo meditativo riferito alla Scrittura o a una verità di fede.

    Ricorderò anche, brevemente, il metodo della “contemplazione evangelica”, termine usato ordinariamente per indicare il modo di meditare una pagina del Vangelo: un significativo esempio l’abbiamo nel libretto de Gli Esercizi spirituali di Ignazio di Lojola, che a partire dalla II settimana parla di “contemplazione” perché al lavoro dell’intelletto subentra prevalentemente il coinvolgimento esistenziale e orante con la scena evangelica. Tutto questo ci sarà utile per comprendere meglio quale sia la caratteristica specifica della preghiera cristiana.”

    Dunque cosa devo fare? 

    “Il metodo patristico della lectio divina è semplicissimo e lo raccomando sempre ai giovani per entrare nella preghiera. Fondamentalmente prevede tre grandi gradini o momenti successivi: la lectio, la meditatio, la contemplatio.

    La LECTIO consiste nel leggere e rileggere la pagina della Scrittura, mettendo in rilievo gli elementi portanti. Per questo consiglio di leggere con la penna in mano, sottolineando le parole che colpiscono, oppure richiamando con segni grafici i verbi, le azioni, i soggetti, i sentimenti espressi o la parola-chiave. In tal modo la nostra attenzione viene stimolata, l’intelligenza, la fantasia e la sensibilità si muovono facendo sì che un brano, considerato magari arcinoto, appaia nuovo.

    A me che da tanti anni leggo il vangelo succede, ad esempio, che riprendendolo in mano scopro ogni volta delle cose nuove proprio attraverso il metodo della lectio.

    Questo primo lavoro può occupare parecchio tempo, se siamo aperti allo Spirito: si colloca il racconto letto nel contesto più vasto, sia dei brani vicini, sia dell’insieme di un libro, sia dell’intera Bibbia, per capire che cosa vuol dire.

    La MEDITATIO è la riflessione sui valori perenni del testo. Mentre nella lectio assumo le coordinate storiche, geografiche, culturali anche, del brano, qui si pone la domanda:

    • Che cosa dice a me?

    • Quale messaggio in riferimento all’oggi viene proposto autorevolmente dal brano come parola del Dio vivente?

    • Come vengo provocato dai valori permanenti che stanno dietro alle azioni, alle parole, ai soggetti?

    La CONTEMPLATIO è difficilmente esprimibile e spiegabile. Si tratta di dimorare con amore nel testo, anzi di passare dal testo e dal messaggio alla contemplazione di colui che parla attraverso ogni pagina della Bibbia: Gesù, Figlio del Padre, effusore dello Spirito.

    Contemplatio è adorazione, lode, silenzio davanti a colui che è l’oggetto ultimo della mia preghiera, il Cristo Signore vincitore della morte, rivelatore del Padre, mediatore assoluto della salvezza, donatore della gioia del Vangelo. Nella pratica i tre momenti non sono rigorosamente distinti, però la suddivisione è utile per chi ha bisogno di incominciare o di riprendere questo esercizio.

    Il nostro pregare è come un filo rosso che collega un po’ le giornate l’una all’altra e può succedere che sullo stesso testo della Scrittura ci soffermiamo un giorno soprattutto con la meditatio mentre un altro giorno passiamo rapidamente alla contemplatio.”

    Quali passi ulteriori fare per proseguire?

    “La triplice distinzione, tuttavia, esprime in maniera appena embrionale il dinamismo della lectio divina, che in qualche mio libro ho spiegato in tutta la sua ampiezza. Tale ampiezza, infatti, prevede otto progressivi gradini: lectio, meditatio, oratio, contemplatio, consolatio, discretio, deliberatio, actio. Mi sembra opportuno accennarli brevemente.

    • L’ORATIO è la prima preghiera che nasce dalla meditazione: Signore, fammi comprendere i valori permanenti del testo, che mi mancano, donami di capire qual è il tuo messaggio per la mia vita. E a un certo punto, questa preghiera si concentra nell’adorazione e nella contemplazione del mistero di Gesù, del volto di Dio. L’oratio si può esprimere anche in richiesta di perdono e di luce o in offerta.


    • La CONSOLATIO è molto importante per il nostro cammino di preghiera e sant’Ignazio di Lojola ne parla più volte nel suo libretto de Gli Esercizi spirituali. Senza questa componente, la preghiera perde di sale, di gusto. La consolatio è la gioia del pregare, è il sentire intimamente il gusto di Dio, delle cose di Cristo. t un dono che ordinariamente si produce nell’ambito della lectio divina, anche se evidentemente lo Spirito santo è libero di effonderlo quando vuole. Solo dalla consolatio nascono le scelte coraggiose di povertà, castità, obbedienza, fedeltà, perdono, perché è il luogo, l’atmosfera propria delle grandi opzioni interiori. Ciò che non viene da questo dono dello Spirito dura poco ed è facilmente frutto di moralismo che imponiamo a noi stessi.


    • La DISCRETIO esprime ancora più chiaramente la vitalità della consolatio. Infatti, mediante il gusto del Vangelo, mediante una sorta di fiuto spirituale per le cose di Cristo, diventiamo sensibili a tutto quello che è evangelico e a ciò che non lo è. Si tratta quindi di un discernimento importante perché noi non siamo chiamati solo a osservare i comandamenti all’ingrosso, ma a seguire Cristo Gesù.

    E la sequela non ha un’evidenza immediata nelle scelte quotidiane se non siamo per così dire entrati nella mente di Gesù, se non abbiamo gustato la sua povertà, la sua croce, l’umiltà del suo presepio, il suo perdono. Questa capacità di discernere, nelle ordinarie emozioni e nei movimenti del cuore, il marchio evangelico è un dono così grande che san Paolo lo chiedeva per tutti i fedeli: “Vi sia data abbondanza di sensibilità – páse aistései, nel testo greco – perché possiate discernere sempre il meglio, ciò che piace a Dio e ciò che è perfetto” (cf Fil 1, 9-10, Rm 12, 2).

    Oggi la Chiesa ha estremamente bisogno della discretio perché le scelte decisive non sono tanto sul bene e sul male (non ammazzare, non rubare), ma su ciò che è meglio per il cammino della Chiesa, per il mondo, per il bene della gente, per i giovani, per i ragazzi.

    • La DELIBERATIO è un successivo passo. Dalla esperienza interiore della consolazione o della desolazione, impariamo a discernere e, quindi, a decidere secondo Dio. Se analizziamo attentamente le scelte vocazionali, ci accorgiamo che hanno, magari inconsapevolmente, questo andamento. La vocazione, infatti, è una decisione presa a partire da ciò che Dio ha fatto sentire e dall’esperienza che se ne è fatta secondo i canoni evangelici. Anche la deliberatio, come la discretio, viene coltivata in particolare mediante il dinamismo della leccio divina.


    • L’ACTIO, infine, è il frutto maturo di tutto il cammino. La leccio e l’actio, perciò, la lezione biblica e l’agire, non sono affatto due binari paralleli. Non leggiamo la Scrittura per avere la forza di compiere quello che abbiamo deciso! Invece, leggiamo e meditiamo affinché nascano le giuste decisioni e la forza consolatrice dello Spirito ci aiuti a metterle in pratica. Non si tratta, come spesso pensiamo, di pregare di più per agire meglio; ma di pregare di più per capire ciò che devo fare e per poterlo fare a partire dalla scelta interiore.” (da Card. Carlo Maria Martini, “La gioia del Vangelo”, 1988)

    Dove porta questa esperienza?

    “(…) che un giovane si senta interpellato direttamente da Dio, che impari cioè ad ascoltarlo. Non semplicemente che conosca la Scrittura o ascolti un bravo biblista, ma che si senta personalmente interpellato dalla Parola. Quando questo accade, facciamo un’esperienza indimenticabile; basta farla una volta perché si radica nella vita e continua ad attrarci verso la Scrittura. (…)

    Allora non abbiamo più bisogno di altre raccomandazioni, di sussidi esterni perché la Parola ha colpito dentro. Allora la risposta di chi si sente interpellato diventa anche risposta vocazionale: Signore, che cosa vuoi da me?

    Dunque, il nostro desiderio è di aiutare tutti i giovani a lasciarsi interpellare da Dio, a imparare ad ascoltarlo anche (non solo) a partire dalle pagine bibliche dove Dio parla oggi all’uomo nello Spirito, così da rispondergli. E allorché un giovane capisce che le Scritture parlano di lui e a lui, si inizia quel dialogo che non si fermerà più, di cui si sentirà sempre nel profondo del cuore una grande nostalgia.


    La conoscenza di Gesù e del cristianesimo sarà solida, integrata, non appiccicata, e la persona diverrà essa stessa, in qualche modo, Parola di Dio per gli altri”.

    (Carlo Maria Card. Martini, Arcivescovo di Milano)


    ALLA SCUOLA DELLA PAROLA

    Martini ai giovani: apritela con fiducia, vi porterà oltre voi stessi.

    Come prendere in mano la Scrittura?

    I consigli del Cardinale, citato recentemente da Benedetto XVI come «maestro» della lectio divina.


    Giorgio Bernardelli


    (“Avvenire”, 4/5/’06)

    Giovani con la Bibbia in mano. Ma non da soli. Perché la Scrittura, per essere davvero «lampada per i propri passi», va letta con l’aiuto di qualche maestro. È il messaggio che Benedetto XVI ha affidato ai giovani il 7 aprile scorso, dialogando con loro in piazza San Pietro alla vigilia della XXI Giornata mondiale della gioventù.

    Un messaggio forte, da non lasciare cadere. Ed è per questo che abbiamo chiesto di aiutarci a riprenderlo a colui che il Papa stesso in quell’occasione ha citato davanti ai giovani. Il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo emerito di Milano, oggi vive a Gerusalemme proprio dedicando le sue giornate allo studio dei testi biblici. «È un vero maestro della “lectio divina”, che aiuta a entrare nel o della Sacra Scrittura», ha detto di lui in piazza San Pietro Benedetto XVI.


    Eminenza, come ha accolto queste parole del Papa?


    «Mi sono assai stupito della menzione che il Santo Padre ha voluto benevolmente fare del mio nome a proposito della “lectio divina” – risponde – . Me ne sono rallegrato a motivo della grande importanza che essa ha per tutti i cristiani, soprattutto per i più giovani. Ma non pensavo di essere menzionato io stesso, che non sono uno specialista; sono solo un umile discepolo della Parola, mentre molti altri nella Chiesa si sono dati da fare per questo impegno dei cristiani raccomandato dal Vaticano II nel capitolo VI della “Dei Verbum”».

    Che cosa ha rappresentato per lei da giovane la scoperta della parola di Dio?

    «Per rispondere a questa domanda dovrei raccontare una lunga storia, che inizia dall’età di circa dieci anni, quando ci insegnarono a meditare su una pagina di Vangelo. La riscoperta della forza della parola di Dio era in qualche modo presente fin dall’inizio ma si è resa esplicita progressivamente, e certamente un punto importante è stato il concilio Vaticano II».


    Che cosa vi ha trovato in più rispetto a tante altre parole?

    «Ho trovato la parola definitiva, quella che dà sicurezza assoluta, quella che fa appoggiare la vita sulla roccia che è Dio, quella che dura per tutta l’eternità. Ho trovato la parola che muove, commuove, coinvolge, stimola, invita, rimprovera, sollecita, incoraggia. Se “in principio era il Verbo” noi, che siamo stati creati in questo Verbo, ci ritroviamo in Lui ogni volta che ci mettiamo con coraggio dentro questa parola».


    Ha vissuto delle fatiche nel primo impatto con il metodo della lectio divina?

    «Non potrei parlare di primo impatto, nel senso che alla “lectio divina” metodica sono giunto piuttosto gradualmente, componendo quasi da me stesso il metodo, con l’aiuto di tanti scrittori, soprattutto padri della Chiesa antica e del Medio Evo. Non ho dunque vissuto fatiche del primo impatto. Piuttosto le fatiche vengono dopo, quando cioè si conosce molto la parola di Dio e allora bisogna diminuire il tempo dato alla “lectio” propriamente detta per lasciare più tempo alla preghiera e al silenzio adorante davanti a Dio. È questo un passaggio importante, che bisogna fare al tempo giusto».


    Quando andava in visita pastorale lei distribuiva ai giovani una penna che recava la scritta, «sottolinea il Vangelo». Perché in un racconto è così importante soffermarsi sulla singola parola, su una singola frase?

    «Insegnando a fare la “lectio” ho trovato molto utile che i giovani stessi scoprissero da soli le parole chiave dei testi, gli aggettivi, gli avverbi, i verbi dominanti, i soggetti delle azioni. Quando viene fatta così, la “lectio” fa leggere il testo come nuovo, e anche una pagina molto conosciuta ritorna brillante e luminosa».


    Lasciare spazio alla parola di Dio nella vita di un giovane può richiedere anche scelte impegnative. Lei invitava i giovani a eliminare o comunque ridurre fortemente, durante l’anno dedicato al discernimento vocazionale, l’uso della televisione. Perché?


    «Potrei raccontare a questo proposito che le regole erano due: rinunciare per un anno alla televisione, per esprimere la propria volontà di raccoglimento e di silenzio, ma anzitutto bandire ogni paura e preoccupazione circa il futuro. Molti giovani mi hanno detto che non era così difficile lasciare la televisione; era invece molto difficile superare le paure del futuro».

    I momenti di aridità spirituale: come riuscire ad affrontarli con la parola di Dio in mano?

    «Abbiamo l’esempio di San Carlo Borromeo, che portava sempre in tasca un piccolo libro dei Salmi. Quando andava a cavallo o si trovava in viaggio e sentiva qualche momento di depressione si metteva a leggere qualche salmo facile e a ripetere a Dio le parole che più lo colpivano. I salmi sono certamente un aiuto grande per superare i momenti di deserto interiore».


    Lei riceveva (e ancora riceve) molte lettere di giovani in cammino verso questo ascolto della parola di Dio. Che cosa la colpisce di questi scritti? Vede qualche differenza tra le lettere di oggi e quelle di qualche anno fa?

    «Vedo che il senso dell’importanza della parola di Dio, predicata per tanti anni, è rimasta viva nel cuore di molti giovani e adulti, e rimane forte il desiderio di approfondirla. Molti giovani di qualche anno fa mi raccontano i risultati meravigliosi ottenuti nelle scelte della vita a partire dalla parola di Dio. I giovani di oggi, che non hanno ancora fatto una scelta definitiva di vita, sono spesso preoccupati se la scelta sarà giusta o sbagliata e vorrebbero un metodo quasi matematico per evitare sbagli. Io dico loro che bisogna avere fiducia in Dio, della sua parola, buttarsi, rischiare. Occorre certamente pregare e ragionare, ma poi occorre uscire da sé. È inutile fare esperimenti continui per anni e anni. Bisogna tuffarsi come quando ci si butta in acqua e si deve nuotare per forza».


    Se dovesse suggerire oggi a un giovane qualche pagina da cui partire per introdursi alla bellezza di una vita scandita dalla Scrittura, quali sceglierebbe?

    «Indicherei qualche salmo, una pagina del Vangelo, o una delle lettere più facili di Paolo, come la lettera ai Filippesi. Ma lo Spirito Santo guiderà ciascuno a trovare la pagina giusta. Basta cominciare».



    LECTIO DIVINA E LITURGIA DELLA PAROLA

    Per la vostra dedicazione agli esercizi voi siete con ciò stesso esperti sul tema della Lectio divina e della liturgia della Parola e per questo non posso dirvi nulla di nuovo, e neppure qualcosa che io stesso non abbia già trattato in interventi precedenti.

    Mi limiterò quindi ad alcuni richiami:

    1. Che cosa intendiamo per Lectio divina?

    2. Lectio divina e Lectio continua

    3. Lectio divina e Liturgia

    4. Lectio divina e Esercizi Spirituali

    5. Come insegnare a vivere la liturgia della Parola come fondamento della Lectio divina?

    1. Che cosa intendiamo per Lectio divina?

    Che cosa è la LD? se ne parla tanto e talora il molto parlare oscura la semplicità della cosa. Per questo preferisco rifarmi alla descrizione classica di Guigo il Certosino, che la descrive secondo quattro momenti: lectio, meditatio, oratio, contemplatio: Guigo prende lo spunto dall’invito evangelico: “chiedete e vi sarà dato, cercava e troverete, bussate vi sarà aperto” ( Matteo 7,7 ). E commenta così: ” La lettura indaga, la meditazione trova, l’orazione chiede, la contemplazione assapora. La lettura è un accurato esame delle Scritture che muove da un impegno dello Spirito. La meditazione è un’opera della mente che si applica a scavare nella verità più nascosta sotto la guida della propria ragione. L’orazione è un impegno amante del cuore in Dio allo scopo di estirpare il male e conseguire il bene. La contemplazione è come un innalzamento al disopra di sé da parte dell’anima sospesa in Dio, che gusta le gioie della dolcezza terrena. ..”

    Lo stesso autore sottolinea come questi atti costituiscano una unità, che va mantenuta nella sua interezza. Si tratta di fasi non separabili: esse si intrecciano e si mescolano. Come afferma Guigo:” La lettura senza la meditazione è arida, la meditazione senza la lettura è soggetta a errore, la preghiera senza la meditazione è tiepida, la meditazione senza la preghiera è infruttuosa. L’orazione fatta con fervore porta all’acquisto della contemplazione, mentre il dono della contemplazione senza l’orazione è raro e miracoloso”.

    Ci si può domandare da dove venga questa espressione quasi intraducibile di Lectio divina? Sembra che essa risalga a una lettera di Origene scritta verso il 238 al proprio discepolo Gregorio detto il Taumaturgo, che si apprestava a evangelizzare il Ponto: “Dedicati alla lectio delle Scritture divine; applicati a questo con perseveranza… Impegnati nella lectio con l’intenzione di credere e di piacere a Dio…Applicandoti così alla lectio divina (theia anagnosis) cerca con lealtà e fiducia incrollabile in Dio il senso delle Scritture divine, che in esse si cela con grande ampiezza” (n.4).

    Oggi la lectio divina, a partire dal Vaticano II, è via via sempre più raccomandata a tutti i cristiani dai documenti della Chiesa. Basti citare la Dei Verbum n. 25, la Novo Millennio Ineunte n. 39, il documento dei Vescovi italiani Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 2002, n 49, e il documento della Sacra Congregazione per la vita consacrata Ripartire da Cristo n.24.

    2. La lectio divina e la lectio continua

    La lectio divina è, in quanto possibile, una lectio continua, o almeno va sempre fatta sullo sfondo dell’intera Scrittura.

    Giuseppe Dossetti, in una sua famosa conferenza dal titolo “L’esperienza religiosa: testimonianza di un monaco ” ( pag. 124 e segg) descrive come va fatta questa lettura:

    ” Essa parte con molta chiarezza da due premesse:

    - occorre immergere il brano di ogni giorno non solo nell’insieme del libro che si sta leggendo, ma anche nel tutto unitario della Bibbia: cioè occorre poter risalire all’intero arco della storia della salvezza. La Bibbia occorre veramente averla letta tutta e rileggerla e capirla sempre più nel suo insieme e portarla tutta nel cuore in modo che il contatto della singola pericope o della singola frase si carichi del potenziale enorme del tutto e possa – almeno ogni tanto – scattare la scintilla balenante, e tutto l’orizzonte interiore si illumini;

    - occorre inoltre che questa globalità e unità della Scrittura appaia sempre più quello che è, cioè un’unità vivente, anzi il Vivente stesso, Cristo crocifisso e glorioso: che in ogni versetto della Scrittura tocchiamo e ascoltiamo, o meglio ci tocca, ci monda (come ha fatto con il lebbroso ), ci trasforma e progressivamente ci assimila a sé e ci conduce al Padre: così tutta la Scrittura diventa un grande sacramento di Cristo ” (citaz. Da G. Dossetti, la Parola di Dio seme di vita e di fede incorruttibile, Bologna 2002, Introduzione, pp. 16-17).


    3. Lectio divina e liturgia

    Tutto questo fa vedere come la lectio divina ha il suo humus fondamentale nella Liturgia. La liturgia della Parola di ogni giorno e di ogni settimana, sia nella Liturgia eucaristica come nella Liturgia delle Ore, è infatti, almeno nell’intenzione, lettura di tutta la Scrittura, in forma continuativa e sistematica. La liturgia permette così di dare uno sfondo a ogni singola pericopa e toglierla da un suo potenziale isolamento.

    Inoltre la liturgia, soprattutto eucaristica, permette quel contatto con il Vivente che giustamente Dossetti pone come fondamentale per una lectio divina. In una sua lettera da Gerico del 6-7 novembre 1979 all’assemblea dei gruppi biblici della Chiesa di Bologna egli sottolineava l’importanza del capitolo XI del libro IV della Imitazione di Cristo, a partire dal titolo: Quod Corpus Christi et Sacra Scriptura maxime sint animae fideli necessaria, e aggiunge: “Per me – e per tutta la comunità di Monteveglio – l’impulso genetico primordiale e la norma direttiva a livello più profondo di oltre venticinque anni di esperienza, son già tutti qui: in questo accostamento, in questa endiadi” ( G.Dossetti, La Parola…p. 127). E aggiungeva: “Non solo e non tanto nel fatto che la Sacra Scrittura venga detta necessaria, anzi massimamente necessaria all’anima del fedele per restare tale e per realizzarsi, ma ancor più nel fatto che questa massima necessità della Scrittura sia accostata a quella del corpo di Cristo: “Di due cose specialmente io sento la necessità assoluta in questa vita, senza le quali diverrebbe impossibile sopportarne le miserie. Chiuso nella prigione di questo corpo, io confesso di avere bisogno di cibo e di luce. Perciò tu hai dato a questo infermo il tuo sacro corpo per nutrimento della mente e del corpo e hai posto sul mio cammino la tua Parola come una lucerna. Non potrei vivere senza codesti due sostegni: poiché la Parola di Dio è la luce dell’anima, il tuo sacramento è il pane per la vita, Sono come due mense poste da una parte e dall’altra del tesoro della Chiesa. L’una è la mensa del santo altare che porta un pane consacrato, cioè il prezioso corpo di Cristo, l’altra è quella della legge di Dio che contiene la dottrina santa, istruisce sulla vera fede ed è guida sicura fin dall’al di là del velario dove sta il Santo dei santi” ( Imitazione di Cristo, IV, cap. XI, n.4).

    Potrà sembrare a qualcuno che in questo testo più di una frase sia connotata da quel pessimismo e da quell’evasione storica che, secondo certi odierni maestri, segna l’inclinazione deviante del libro dell’ Imitazione. Ebbene, per me e per noi di Monteveglio, tutta la carica positiva nella costruzione e nella totale sottomissione di ogni nostra giornata e di ogni nostra scelta alla Scrittura, deriva proprio dall’aver assunto alla lettera questa precisa frase: ” Duo namque mihi necessaria permaxime sentio in hac vita, sine quibus mihi importabilis fore ista miserabilis vita”.

    Il pessimismo di questa visione esistenziale si è sempre rovesciato per noi in un ottimismo cristiano, esclusivamente cristico, cioè esclusivamente attraverso il Gesù delle Scritture, in vista di quello che il sacro testo stesso chiama la consolazione delle Scritture:”ora tutto ciò che è stato scritto prima di noi è stato scritto per nostro ammaestramento affinché per mezzo della perseveranza e della consolazione delle Scritture possiamo avere la speranza” (Rom 15,4) (Rossetti, o.c. p.127-128)

    Si potrebbe qui ancora notare che la Dei Verbum ha fatto sua questa affermazione delll’Imitazione di Cristo ma con una differenza: parla cioè al singolare di “mensa tam Verbi Dei quam Corporis Christi”, da cui assume un pane di vita (al singolare) e lo offre ai fedeli (n.21).

    4. Omologia tra lectio divina ed esercizi

    Prima di passare a qualche suggerimento pratico, vorrei sottolineare ancora una cosa importante, che io chiamo l’omologia tra la Sacra Scrittura e gli Esercizi spirituali di s. Ignazio.

    Vorrei dire cioè che la dinamica degli Esercizi di s. Ignazio, tutti fondati sulla Scrittura e caratterizzati da diverse tappe (le quattro settimane) e da momenti forti per ogni tappa (le cosiddette meditazioni fondamentali) corrisponde alla dinamica generale della rivelazione, espressa in tutta la Scrittura e condensata in alcune pagine chiave, che tutto concentrano su Gesù Cristo, sul suo cammino e in particolare sulla sua umiliazione, nel senso ad es. di Fil 2,5-11.

    V’è quindi un’analogia tra la lettura continua della Scrittura e la dinamica degli Esercizi, che spinge alcuni direttori di Esercizi a far leggere molte pagine dell’Antico Testamento tra la prima e la seconda settimana, quando gli Esercizi completi sono fatti a tappe nello spazio di più anni.

    La dimenticanza pratica di questa omologia conduce talora a confondere la semplice lectio divina con gli Esercizi veri e propri, cioè ad accontentarsi di sostituire gli Esercizi con una semplice lectio divina, il che non è senza utilità, ma non può essere proposto come se fossero Esercizi, e non è quindi senza qualche inconveniente e danno spirituale.

    5. Come insegnare a vivere la liturgia della Parola come fondamento della Lectio divina? (una breve spiegazione su ognuno di questi suggerimenti)

    1. Praticarla personalmente

    2. Una breve omelia in ogni santa Messa

    3. Settimane di esercizi spirituali nelle parrocchie

    4. Lectio dvina per i giovani, finché giungano a specchiarsi e a sentirsi interpellati dal testo biblico

    5. Esercizi su libri e personaggi biblici, ma inserendoli nella dinamica degli esercizi!

    Conclusione

    Vorrei in conclusione citare alcune parole degli orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il primo decennio del 2000 “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia “.

    ” La Chiesa può affrontare il compito dell’evangelizzazione solo ponendosi, anzitutto e sempre, di fronte a Gesù Cristo, parola di Dio fatta carne…. solo il continuo rinnovato ascolto del Verbo della vita, solo la contemplazione costante del suo volto permetteranno ancora una volta alla Chiesa di comprendere chi è il Dio vivo e vero, ma anche chi è l’uomo…

    Solo seguendo l’itinerario della missione dell’inviato – dal seno del padre fino alla glorificazione alla destra di Dio, passando per l’abbassamento all’umiliazione del Messia – , sarà possibile per la Chiesa assumere uno stile missionario conforme a quello del servo, di cui essa è serva ( n.10).

    E ancora: ” Assolutamente centrale sarà approfondire il senso della festa e della liturgia, della celebrazione comunitaria attorno alla mensa della parola e dell’eucaristia, nel cammino di fede costituito dall’anno liturgico.

    … Potrà aiutarci in questo la valorizzazione – sia nella vita personale dei credenti sia in quella delle comunità cristiane – della pratica della Lectio divina, intesa come continua e intima celebrazione dell’alleanza con il Signore mediante un ascolto orante delle sacre Scritture, capace di trasformare i nostri cuori e di iniziare ognuno di noi all’arte della preghiera e della comunione. Va coltivato l’assiduo contratto, personale e comunitario, con la Bibbia, diffondendone il testo, promuovendone la conoscenza, anche con incontri e gruppi biblici, sostenendone una lettura sapienziale, aiutando a pregare con la Bibbia soprattutto nelle famiglie. La qualità sia della presidenza eucaristica, sia dell’omelia, sia della preghiera dei fedeli ne risulterà rafforzata, resa più aderente alla parola di Dio e agli eventi della storia letti alla luce della fede. E’ nostro modello la Vergine Maria, che accoglie fatti e parole ” meditandole nel suo cuore ” ( Luca 2,19 ) e rilegge la sua esistenza mediante immagini e testi della Scrittura ( confronta Luca 1,46-55 ).

    LA PREGHIERA PERSONALE DEL PRSBITERO

    (Ritiro ai sacerdoti di Milano ad Avila)


    Specifico il tema della nostra meditazione con una domanda:

    • c’è un cammino di preghiera personale?

    • C’è un cammino per il tipo di preghiera che si fa nella lectio divina?

    La risposta è assai importante per noi presbiteri.

    Vi propongo in proposito due riferimenti del 470 Sinodo diocesano.


    • Il n. 475 inizia così: Il presbitero è anzitutto discepolo ». Discepolo è colui che impara, che compie un cammino di apprendimento che non finisce mai, perché tutta la vita è discepolato.

    • Il n. 499 menziona la lectio divina come modo tipico della preghiera del prete: coltivi la lettura della Bibbia e si eserciti, in particolare, nella lectio divina .

    Tenendo presenti i due riferimenti sinodali, entriamo nel vivo della nostra riflessione.
    Mi è venuta in mente la mia prima conversazione ai preti della Diocesi, che ho tenuto nella Quaresima 1980, quando, avendo iniziato da poco il servizio episcopale, sentivo il bisogno di incontrare i presbiteri delle sette zone pastorali. Nella meditazione, poi trascritta col titolo Dalla coscienza battesimale alla coscienza presbiterale, descrivevo il cammino del prete come discepolo che cresce nella sua coscienza, passando dalla coscienza di catecumeno a quella di battezzato, quindi a quella di evangelizzatore e infine di responsabile di comunità. Delineavo questo quadruplice cammino di crescita in rapporto ai quattro Vangeli: Marco, il Vangelo del catecumeno; Matteo, il Vangelo del Catechista; Luca, il Vangelo dell’evangelizzatore; Giovann, il Vangelo del presbitero. Sottolineando le caratteristiche di ogni Vangelo, mostravo come a esse corrispondono diverse tappe della nostra coscienza di cristiano discepolo che matura verso il presbiterato, la pienezza della maturità; segnalavo pure le tappe o stati di preghiera che accompagnano i momenti della crescita secondo il ritmo dei quattro Vangeli, nell’ordine indicato.
    Vi confesso che, a quindici anni di distanza, il cammino suggerito da quella conversazione mi appare ancora pertinente e suscettibile di approfondimento.
    Non intendo tuttavia riprendere quanto avevo detto, ma cercare di cogliere come la gradualità avviene nel cammino della lectio divina. La lectio divina ha infatti un cammino nella vita del presbitero ed è importante valutare la tappa nella quale ciascuno si trova, per non sbagliare nell’impostazione.


    La lectio divina


    La Lettera della Pontificia commissione biblica L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, del 15 aprile 1993, ci offre una definizione autorevole della lectio divina:

    “è una lettura, individuale o comunitaria, di un passo più o meno lungo della Scrittura accolta come parola di Dio e che si sviluppa sotto lo stimolo dello Spirito in meditazione, preghiera e contemplazione” .


    Di fronte a tale citazione, molto bella e densa, mi chiedo: la lectio divina comporta delle tappe nel cammino spirituale, specialmente nel cammino di maturazione dalla coscienza battesimale alla coscienza presbiterale pienamente integrata?


    Credo di sì; ne esprimo tre. Nella prima prevale la lectio, nella seconda la meditatio, nella terza la contemplatio. Prevalenza significa che nella lectio divina non manca mai nessuno dei tre elementi, però gradualmente l’uno prevale sull’altro e quasi lo ingloba.


    * La prima tappa, che non si può saltare, vede necessariamente una certa priorità della “lectio “, perché si conosce poco la Scrittura e occorre
    perciò leggerla e rileggerla, situando la pagina o il brano nel contesto (biblico, storico, geografico), con l’aiuto di buoni commenti. In questa tappa siamo spesso molto indietro sia come popoio cristiano sia forse come presbiteri. La Sacra Scrittura è orecchiata ma non veramente conosciuta anche da laici colti e da preti. Sorge spontanea la domanda: santa Teresa di Gesù praticava la lectio divina? Nel tempo in cui viveva si respirava la reazione antiprotestante, che durerà parecchi secoli. Concretamente i laici non avevano nessun accesso alla Scrittura; soltanto le persone colte che studiavano il latino potevano leggere la Bibbia nella traduzione della Volgata. Infatti san Giovanni della Croce, che era prete ed era colto, cita molto la Scrittura, a differenza di Teresa. Tale condizionamento storico va tenuto presente.
    Oggi è diverso e sono certo che anche Teresa si dedicherebbe con molto impegno alla lectio divina, così come amava praticarla la sua discepola Teresa di Gesù Bambino, che approfittava di ogni parola o frase biblica, benché neppure lei, nel suo secolo, potesse avere tra le mani tutta la Scrittura.
    La nostra è una situazione storica privilegiata, perché ci è dato di attingere direttamente alle ricchezze dei testi sacri, secondo quel programma che Gesù tracciava ai discepoli di Emmaus: da Mosè ai Profeti ai Salmi.

    • Dunque la prima tappa è indispensabile e non si può tralasciarla pena il fabbricarsi un Cristo a propria immagine e somiglianza, secondo la propria fantasia e i propri sentimenti, non il Cristo rivelatosi nella storia e manifestatosi nella carne. Toccare la carne di Cristo avviene congiuntamente nella Scrittura e nell’Eucaristia e le due realtà non sono separabili; se si cerca di separarle si corrono gravi rischi nel cammino spirituale. È la tappa a cui ci invita la Chiesa, mediante il ciclo delle letture della messa e del breviario. Ricordo che sta per uscire il secondo ciclo delle letture bibliche del breviario ambrosiano; avremo così modo di leggere interamente la Scrittura anche nell’Ufficio divino.


    • La lectio è sempre accompagnata dalla meditatio-oratio, dalla meditazione in preghiera. È la seconda tappa.

    Quando l’esercizio della lectio è stato compiuto con serietà e per qualche tempo, la Scrittura ci diventa familiare e a poco a poco ci accorgiamo che la meditatio prevale. Il testo, cioè, comincia a essere noto e più facilmente e immediatamente offre comunicazione di messaggi. Ci si ferma più a lungo per gustano e assaporarlo nel suo messaggio fondamentale, che è Cristo crocifisso e risorto, continuamente espresso nelle molteplici esperienze raccontate dalla Bibbia. Comprendo cosa dice il testo a me e parlo con Gesù che mi parla.
    Il secondo grado della lectio divina è nutrito dall’apporto di alcune teologie bibliche, da forme di riflessione esegetica più ampia.

    • Nel terzo momento, se si è stati fedeli alle prime due tappe, prevale la contemplazione. È proprio di questo specifico momento che parla santa Teresa, quando lo scopre, dopo diciotto anni di fedeltà — faticosa, sofferta, non sempre uguale — a un’attenzione al messaggio.

    Viene dunque il giorno in cui il testo sembra diventare trasparente, illanguidendosi in qualche modo o nascondendosi. È questo un passaggio assai faticoso e cruciale, perché si può avere l’impressione di non essere più capaci della lectio divina e che la Scrittura non dica più nulla. Di tale passaggio hanno scritto sapientemente Teresa di Gesù e, sistematicamente, Giovanni della Croce, con la dottrina delle notti del senso e dello spirito.
    Ascoltiamo Giovanni nel cap. 13 del libro II della Salita del monte Carmelo, il cui contenuto è sintetizzato in questi termini:

    ‘Si parla dei segni che l’anima deve scorgere in sé per sapere qual è il momento in cui sia necessario che ella abbandoni la meditazione e il discorso per passare allo stato di contemplazione’.

    Non viene considerata inutile la tappa della meditazione o del discorso (lectio-meditatio), però si afferma che può giungere il tempo del passaggio. È assolutamente necessario che il maestro di preghiera sappia discernerlo.

    «Perché la dottrina esposta non rimanga oscura è necessario far intendere allo spirituale qual è il tempo eil momento in cui egli debba lasciare l’atto della meditazione discorsiva usando di immagini, forme e figure [la Bibbia è piena di immagini, forme, figure, simboli] perché non l’abbandoni né prima né dopo che lo richieda lo Spirito».
    L’abbandonarlo prima è certamente fonte di grave smarrimento, l’abbandonarlo dopo può portare a inutili fatiche.
    «Infatti come per andare a Dio è necessario rinunziare tempestivamente a quelle immagini, forme e figure, perché non siano d’impedimento, così non è conveniente lasciare prima del tempo la meditazione per via di immagini, affinché non si torni indietro»
    Poi il Santo indica i segni dai quali ci si accorge che è arrivato il momento del passaggio, passaggio oscuro, una vera notte, che può continuare per molto tempo, un passaggio in cui ci auguriamo di incontrare maestri di preghiera in grado di guidarci.

    La lectio divina del prete

    Questa dottrina vale, con le dovute proporzioni, per la lectio divina. È possibile che ci sia una situazione dello spirito in cui la lectio divina come esercizio personale del presbitero diventa contemplatio (san Giovanni della Croce parla di quiete, silenzio, assenza di immagini, adesione silenziosa al Signore, mentre come esercizio da insegnare è ancora fruttuosa usando immagini, simboli e messaggi.
    Il cammino di ciascuno non è il cammino di tutti, e chi è più avanti facilmente sa guidare altri a iniziarlo.
    A me pare che Giovanni della Croce voglia oggi esortarci: ricevete con gioia quel tesoro della Chiesa che è la lectio divina e insieme praticatela con tale impegno da giungere in qualche modo a superarne le prime tappe ed entrare nella notte del mistero di Dio. È la notte di cui cogliamo le vestigia e i raggi straordinari di santità in questo luogo.
    In proposito vorrei leggere di nuovo un passo di Giovanni della Croce:
    ‘Errano molto le persone spirituali che, dopo essersi esercitate ad avvicinarsi a Dio per mezzo di immagini, di forme e meditazioni, come si conviene ai principianti, quando Egli vuole invitarle a beni più spirituali, interiori e invisibili, togliendo loro il gusto e il sapore della meditazione discorsiva, restano perplesse e non osano, né sanno distaccarsi da questi modi palpabili, a cui sono abituate. [...] In questo tentativo esse si affaticano molto e ne ricavano poco o nessun vantaggio’ .
    Ci doni il Signore di percorrere un itinerario vero di orazione che ci porti a gustare qualcosa della verità del messaggio del Santo.

    Conclusione
    a. La lectio divina non è un metodo statico da imparare e basta, ma è un cammino, un itinerario che può condurre molto lontano e molto in alto. Nel silenzio ci domandiamo: sto davvero camminando? Sono discepolo in quanto prete? Continuo, cioè, a imparare la strada della lectio divina?
    b. Il cammino della lectio divina è parallelo a quello della crescita di fede, speranza e carità, della crescita della vita secondo lo Spirito. E un’espressione privilegiata della vita cristiana, con la quale tuttavia si confonde, costituisce un tutt’uno.
    Interrogarci sul nostro cammino di lectio divina equivale a interrogarci sul nostro cammino di fede, speranza, carità. Domanda ardua, che semplifico così: di che cosa godo e di che cosa mi rattristo? Perché nella risposta sta certamente una valutazione del nostro cammino secondo lo Spirito.
    c. È importante esaminarsi e farsi guidare da maestri di preghiera per non errare nel valutare il momento del nostro cammino, in modo da comprendere se la ripugnanza o la fatica che stiamo vivendo nella lectio divina deriva da pigrizia o da grazia, da negligenza o da dono di Dio. Lo stesso stato psicologico può essere determinato infatti da due ragioni diverse e occorre che qualcuno ci aiuti a discernere il cammino, onde non rischiare di fermarci o di tornare indietro.
    Noi siamo qui proprio per prendere coscienza della missione che ci è data dal Signore, per intercessione di Giovanni della Croce: essere noi per primi discepoli nel cammino della preghiera, molto carente oggi nella Chiesa e sommamente necessario e godere qualcosa della meta ditale cammino, che è la comunione profonda col Signore.

    LECTIO DIVINA su Lc 18,1-8 a cura deo PP. CARMELITANI ( dal sito www. lachiesa)

    Una vera preghiera: l’esempio della vedova

    1. Orazione iniziale

    Signore Gesù, invia il tuo Spirito, perché ci aiuti a leggere la Scrittura con lo stesso sguardo, con il quale l’ hai letta Tu per i discepoli sulla strada di Emmaus. Con la luce della Parola, scritta nella Bibbia, Tu li aiutasti a scoprire la presenza di Dio negli avvenimenti sconvolgenti della tua condanna e della tua morte. Così, la croce che sembrava essere la fine di ogni speranza, è apparsa loro come sorgente di vita e di risurrezione.
    Crea in noi il silenzio per ascoltare la tua voce nella creazione e nella Scrittura, negli avvenimenti e nelle persone, soprattutto nei poveri e sofferenti. La tua Parola ci orienti, affinché anche noi, come i due discepoli di Emmaus, possiamo sperimentare la forza della tua risurrezione e testimoniare agli altri che Tu sei vivo in mezzo a noi come fonte di fraternità, di giustizia e di pace. Questo noi chiediamo a Te, Gesù, figlio di Maria, che ci hai rivelato il Padre e inviato lo Spirito. Amen.

    2. Lettura

    a) Chiave di lettura:
    La liturgia di questa domenica ci pone dinanzi un testo del Vangelo di Luca che parla di
    preghiera, un tema assai caro a Luca. E’ la seconda volta che questo evangelista riporta parole di Gesù per insegnarci a pregare. La prima volta (Lc 11,1-13), introduce il testo del Padre Nostro e mediante paragoni e parabole, ci insegna che dobbiamo pregare sempre, senza mai stancarci. Ora, questa seconda volta (Lc 18,1-4), Luca ricorre di nuovo a parabole estratte dalla vita di ogni giorno per dare istruzioni sulla preghiera: la parabola della vedova e del giudice (18,1-8), del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14). Luca presenta le parabole in modo assai didattico. Per ognuna di esse, fornisce una breve introduzione che serve da chiave di lettura. Poi viene la parabola ed, infine, Gesù stesso applica la parabola alla vita. Il testo di questa domenica si limita alla prima parabola della vedova e del giudice (Lc 18,1-8). Nel corso della lettura è bene prestare attenzione a quanto segue: “Quali sono gli atteggiamenti delle persone che appaiono in questa parabola?”

    b) Una divisione del testo per aiutare a leggerlo:
    Luca 18,1: Una chiave che Gesù offre per capire la parabola
    Luca 18,2-3: Il contrasto tra il Giudice e la Vedova
    Luca 18,4-5: Il mutamento del giudice ed il perché di tale mutamento
    Luca 18, 6-8a: Gesù applica la parabola
    Luca 18, 8b: Una frase finale per provocare

    c) Il testo:
    1 Raccontò loro una parabola per mostrare che dovevano pregare sempre, senza stancarsi mai. 2 «In una città viveva un giudice che non temeva Dio e non si curava di nessuno. 3 Nella stessa città viveva una vedova, che andava da lui e gli chiedeva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. 4 Per un po’ di tempo il giudice non volle, ma alla fine disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non mi prendo cura degli uomini, 5 tuttavia le farò giustizia e così non verrà continuamente a seccarmi”». 6 E il Signore soggiunse: «Avete udito ciò che dice il giudice ingiusto? 7 E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che lo invocano giorno e notte? Tarderà ad aiutarli? 8 Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

    3. Momento di silenzio orante
    perché la Parola di Dio possa entrare in noi ed illuminare la nostra vita.

    4. Alcune domande
    per aiutarci nella meditazione e nell’orazione.
    a) Quale punto di questo testo ti è piaciuto di più?
    b) Quali sono gli atteggiamenti della vedova? O cosa colpisce di più in quello che lei fa e dice?
    c) Cosa colpisce nell’atteggiamento e nel parlare del Giudice? Perché?
    d) Quale applicazione Gesù fa della parabola?
    e) Cosa ci insegna la parabola sul modo di vedere la vita e le persone?

    5. Una chiave di lettura
    per approfondire maggiormente il tema.

    a) Il contesto storico:
    Nell’analisi del contesto storico del Vangelo di Luca, dobbiamo tener conto sempre di questa duplice dimensione: l’epoca di Gesù degli anni 30, e l’epoca dei destinatari del Vangelo degli anni 80. Queste due epoche influiscono, ciascuna a modo suo, nella redazione del testo e devono essere presenti nello sforzo che compiamo per scoprire il senso che le parole di Gesù hanno oggi per noi.

    b) Il contesto letterario:
    Il contesto letterario immediato ci presenta due parabole sulla preghiera: pregare con insistenza e perseveranza (la vedova ed il giudice) (Lc 18,1-8); pregare con umiltà e realismo (il fariseo ed il pubblicano) (Lc 18,9-14). Malgrado la loro differenza, queste due parabole hanno qualcosa in comune. Ci indicano che Gesù aveva un altro modo di vedere le cose della vita. Gesù scorgeva una rivelazione di Dio lì dove tutti scorgevano qualcosa di negativo. Per esempio, vedeva qualcosa di positivo nel pubblicano, di cui tutti dicevano: “Non sa pregare!” E nella vedova povera, di cui si diceva: “E’ cosi insistente che importuna perfino il giudice!” Gesù viveva così unito al Padre che tutto si trasformava per lui in fonte di preghiera. Sono molti i modi in cui una persona può esprimersi nella preghiera. Ci sono persone che dicono: “Non so pregare”, ma conversano con Dio tutto il giorno. Voi conoscete persone così?

    c) Commento del testo:
    Luca 18,1: La chiave per capire la parabola
    Luca introduce una parabola con la frase seguente: “Raccontò loro una parabola per mostrare che dovevano pregare sempre, senza stancarsi mai”. La raccomandazione di “pregare senza stancarsi” appare molte volte nel Nuovo Testamento (1 Tes 5,17; Rom 12,12; Ef 6,18; ecc). Era una caratteristica della spiritualità delle prime comunità cristiane. Ed anche uno dei punti in cui Luca insiste maggiormente, sia nel Vangelo come negli Atti. Se vi interessa scoprire questa dimensione negli scritti di Luca, fate un esercizio: leggete il Vangelo e gli Atti ed annotate tutti i versi in cui Gesù o altre persone stanno pregando. Vi sorprenderete!


    Luca 18,2-3: Il contrasto tra la vedova ed il giudice


    Gesù ci mostra due personaggi della vita reale: un giudice senza considerazione verso Dio e verso il prossimo, ed una vedova che non desiste dal lottare per i suoi diritti presso il giudice. Il semplice fatto che Gesù ci mostra questi due personaggi rivela che conosce la società del suo tempo. La parabola non solo presenta la povera gente che lotta nel tribunale per vedere riconosciuti i suoi diritti, ma lascia anche intravedere il contrasto violento tra i gruppi sociali. Da un lato, un giudice insensibile, senza religione. Da un altro, la vedova che sa a quale porta bussare per ottenere ciò che le è dovuto.
    Luca 18,4-5: Il cambiamento che avviene nel giudice ed il perché del cambiamento
    Per molto tempo, chiedendo la stessa cosa ogni giorno, la vedova non ottiene nulla dal giudice insensibile. Infine il giudice malgrado “non temesse Dio e non si curasse di nessuno” decide di prestare attenzione alla vedova e farle giustizia. Il motivo è: liberarsi da questa continua seccatura. Motivo ben interessato! Pero’ la vedova ottiene ciò che vuole! E’ questo un fatto della vita di ogni giorno, di cui Gesù si serve per insegnare a pregare.
    Luca 18,6-8: Un’applicazione della parabola
    Gesù applica la parabola: “Avete udito ciò che dice il giudice ingiusto? E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che lo invocano giorno e notte, anche se li fa aspettare?” Ed aggiunge che Dio farà giustizia tra breve. Se non fosse Gesù a parlarci, non avremmo il coraggio di paragonare Dio con un giudice nel loro atteggiamento morale. Ciò che importa nel paragone è l’atteggiamento della vedova che grazie alla sua insistenza, ottiene ciò che vuole.
    Luca 18,8b: Parole sulla fede
    Alla fine Gesù esprime un dubbio: “Ma il Figlio dell’Uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” Avremo il coraggio di aspettare, di avere pazienza, anche se Dio tarda a risponderci? E’ necessario avere molta fede per continuare a resistere e ad agire, malgrado il fatto di non vedere il risultato. Chi aspetta risultati immediati, si lascerà prendere dallo sgomento. In diversi altri punti dei salmi si parla di questa stessa resistenza dura e difficile dinanzi a Dio, fino a che Lui risponde (Sl 71,14; 37,7; 69,4; Lm 3,26). Nel citare il Salmo 80, San Pietro dice che per Dio un giorno è come mille anni (2Pd 3,8; Sl 90,4).

    d) Approfondimento: La preghiera negli scritti di Luca

    I. Gesù che prega nel Vangelo

    I vangeli ci presentano un’immagine di Gesù che prega, che vive in contatto permanente con il Padre. L’aspirazione di vita di Gesù è fare la volontà del Padre (Gv 5,19). Luca è l’evangelista che ci dice più cose sulla vita di preghiera di Gesù. Ci presenta Gesù in costante preghiera. Gesù pregava molto ed insisteva, in modo che anche la gente ed i suoi discepoli facessero lo stesso. Ed è nel confronto con Dio dove appare la verità e la persona si incontra con se stessa in tutta la sua realtà ed umiltà. Ecco alcuni momenti nel Vangelo di Luca in cui Gesù appare pregando:

    Lc 2,46-50: Quando ha dodici anni, va al Tempio, nella Casa del Padre

    Lc 3,21: Quando è battezzato ed assume la missione, prega

    Lc 4,1-2: Quando inizia la missione, passa quaranta giorni nel deserto

    Lc 4,3-12: Nell’ora della tentazione, affronta il diavolo con i testi della Scrittura

    Lc 4,16: Gesù è solito partecipare alle celebrazioni, nelle sinagoghe, il sabato

    Lc 5,16; 9,18: Cerca la solitudine del deserto, per pregare

    Lc 6,12: La sera prima di scegliere gli Apostoli, trascorre la notte pregando

    Lc 9,16; 24,30: Prega prima dei pasti

    Lc 9,18: Prima di parlare della realtà e della sua passione, prega
    Lc 9,28: Durante la crisi, sul Monte per pregare, è trasfigurato quando prega
    Lc 10,21: Quando il Vangelo viene rivelato ai piccoli, dice: “Ti ringrazio, Padre…”
    Lc 11,1: Pregando, sveglia negli apostoli la volontà di pregare
    Lc 22.32: Prega per Pietro, per aumentare la sua fede
    Lc 22,7-14: Celebra la Cena Pasquale con i suoi discepoli
    Lc 22,41-42: Nell’Orto degli Ulivi, prega, sudando sangue
    Lc 22,40.46: Nell’angoscia dell’agonia chiede ai suoi amici di pregare con lui
    Lc 23,34: Nel momento di essere inchiodato alla croce, chiede perdono per i suoi carnefici
    Lc 23,46; Sl 31,6: Nell’ora della morte, dice: “Nelle tue mani consegno il mio spirito”
    Lc 23,46: Gesù muore con sulle labbra il grido del povero
    Questo elenco di citazioni indica che per Gesù, la preghiera era intimamente unita alla vita, ai fatti concreti, alle decisioni che doveva prendere. Per essere fedele al progetto del Padre, cercava di rimanere da solo con lui. Di ascoltarlo. Nei momenti difficili e decisivi della sua vita, Gesù pregava i Salmi. Come qualsiasi altro giudeo pio, li conosceva a memoria. La recita dei Salmi non spense in lui lo spirito creativo. Anzi, Gesù inventò lui stesso un salmo: E’ il Padre Nostro. La sua vita è stata una preghiera perenne: “In ogni momento faccio ciò che il Padre mi chiede di fare!” (Gv 5,19.30). A lui si applica ciò che dice il Salmo: “… mentre io sono in preghiera!” (Sl 109,4)


    II. Le Comunità oranti negli Atti degli Apostoli


    Come avviene nel Vangelo, anche negli Atti, Luca parla molto spesso di preghiera. I primi cristiani sono coloro che continuano la preghiera di Gesù. A continuazione, un elenco di testi che in un modo o nell’altro, parlano di preghiera. Se osservate con molta attenzione, ne scoprirete anche altri:


    At 1,14: La comunità persevera in preghiera con Maria, la madre di Gesù
    At 1,24: La comunità prega per sapere come scegliere il sostituto di Giuda
    At 2,25-35: Pietro cita i salmi durante la predicazione
    At 2,42: I primi cristiani sono assidui nella preghiera
    At 2,46-47: Frequentano il tempio per lodare Dio
    At 3,1: Pietro e Giovanni vanno al tempio per la preghiera dell’ora nona
    At 3,8: Lo storpio curato loda Dio
    At 4,23-31: La comunità prega nella persecuzione
    At 5,12: I primi cristiani rimangono nel portico di Salomone (tempio)
    At 6,4: Gli apostoli si dedicano alla preghiera ed alla parola
    At 6,6: Pregano prima di imporre le mani sui diaconi
    At 7,59: Nell’ora della morte, Stefano prega: “Signore, ricevi il mio spirito”
    At 7,60: E prima Stefano prega: “Signore, non imputar loro questo peccato”
    At 8,15: Pietro e Giovanni pregano affinché i convertiti ricevano lo Spirito Santo
    At 8,22: Al peccatore viene detto: Pentiti e prega, così otterrai il perdono
    At 8,24: Simone dice: “Pregate voi per me il Signore, perché non mi accada nulla di ciò che avete detto”
    At 9,11: Paolo sta pregando
    At 9,40: Pietro prega per la guarigione di “Gazzella”
    At 10,2: Cornelio pregava Dio costantemente
    At 10,4: Le preghiere di Cornelio salgono al cielo e sono ascoltate
    At 10,9: Nell’ora sesta, Pietro prega sulla terrazza della casa
    At 10,30-31: Cornelio prega nell’ora nona, e la sua preghiera è ascoltata
    At 11,5: Pietro informa la gente di Gerusalemme: “Lui stava in preghiera”!
    At 12,5: La comunità prega quando Pietro è in carcere
    At 12,12: In casa di Maria, ci sono molte persone raccolte in preghiera
    At 13,2-3: La comunità prega e digiuna prima di inviare Paolo e Barnaba
    At 13,48: I pagani si rallegrano e glorificano la Parola di Dio
    At 14,23: I missionari pregano per designare i coordinatori delle comunità
    At 16,13: A Filippo, accanto al fiume, c’è un luogo di preghiera
    At 16,16: Paolo e Sila andavano alla preghiera
    At 16,25: Di notte, Paolo e Sila cantano e pregano in prigione
    At 18,9: Paolo ha una visione del Signore durante la notte
    At 19,18: Molti confessano i loro peccati
    At 20,7: Erano riuniti per la frazione del pane (Eucaristia)
    At 20,32: Paolo raccomanda a Dio i coordinatori delle comunità
    At 20,36: Paolo prega in ginocchio con i coordinatori delle comunità
    At 21,5: Si inginocchiano sulla spiaggia per pregare
    At 21,14: Dinanzi all’inevitabile, la gente dice: Sia fatta la volontà di Dio!
    At 21,20: Glorificano Dio per quanto fatto da Paolo
    At 21,26: Paolo va al tempio a compiere una promessa
    At 22,17-21: Paolo prega nel tempio, ha una visione e parla con Dio
    At 23,11: In carcere a Gerusalemme: Paolo ha una visione di Gesù
    At 27,23ss: Paolo ha una visione di Gesù durante la tormenta sul mare
    At 27,35: Paolo prende il pane e rende grazie a Dio prima di arrivare a Malta
    At 28,8: Paolo prega sul padre di Publio colpito dalla febbre
    At 28,15: Paolo rende grazie a Dio vedendo i fratelli a Pozzuoli

    Questo elenco ci indica due cose molto significative. Da una parte che i primi cristiani conservano la liturgia tradizionale del popolo. Come Gesù, pregano in casa in famiglia, nella comunità e nella sinagoga ed insieme alla gente nel tempio. D’altro canto, oltre alla liturgia tradizionale, sorge tra di loro un nuovo modo di pregare in comunità con un nuovo contenuto. La radice di questa nuova preghiera nasce dalla nuova esperienza di Dio in Gesù e dalla coscienza chiara e profonda della presenza di Dio in mezzo alla comunità: “In lui viviamo, ci moviamo e siamo!” (At 17,28)

    6. Preghiera: Salmo 63 (62)

    Il desiderio di Dio che si esprime nella preghiera
    O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco,
    di te ha sete l’anima mia,
    a te anela la mia carne,
    come terra deserta,
    arida, senz’acqua.
    Così nel santuario ti ho cercato,
    per contemplare la tua potenza e la tua gloria.
    Poiché la tua grazia vale più della vita,
    le mie labbra diranno la tua lode.
    Così ti benedirò finché io viva,
    nel tuo nome alzerò le mie mani.
    Mi sazierò come a lauto convito,
    e con voci di gioia ti loderà la mia bocca.
    Quando nel mio giaciglio di te mi ricordo
    e penso a te nelle veglie notturne,
    a te che sei stato il mio aiuto,
    esulto di gioia all’ombra delle tue ali.
    A te si stringe l’anima mia
    e la forza della tua destra mi sostiene.
    Ma quelli che attentano alla mia vita
    scenderanno nel profondo della terra,
    saranno dati in potere alla spada,
    diverranno preda di sciacalli.
    Il re gioirà in Dio,
    si glorierà chi giura per lui,
    perché ai mentitori verrà chiusa la bocca.

    7. Orazione finale

    Signore Gesù, ti ringraziamo per la tua Parola che ci ha fatto vedere meglio la volontà del Padre. Fa’ che il tuo Spirito illumini le nostre azioni e ci comunichi la forza per eseguire quello che la Tua Parola ci ha fatto vedere. Fa’ che noi, come Maria, tua Madre, possiamo non solo ascoltare ma anche praticare la Parola. Tu che vivi e regni con il Padre nell’unità dello Spirito Santo, nei secoli dei secoli. Amen.

    UN METODO MAI TRAMONTATO

    Il culto è di due specie: esteriore e interiore. Il culto esterno però è ordinato da quello interiore: infatti i sacramenti della Chiesa, le lodi esteriori e tutto l’apparato delle cerimonie sono ordinati a edificare le disposizioni interiori dell’anima. Perciò il compito principale della vita religiosa di tutti i cristiani deve tendere a venerare Dio con gli atti interiori; sebbene non si debbano trascurare neppure gli atti esterni, soprattutto quelli ai quali si è obbligati. Ebbene, gli atti interni sono questi: leggere, pregare, meditare e contemplare, i quali appartengono all’intelletto; e mediante questi nascono la speranza, la carità, la devozione e tutti gli altri atti che appartengono alle facoltà affettive, in modo che l’uomo divenga perfetto nella conoscenza e nell’amore di Dio.  (…leggi tutto)

    OLTRE LA LECTIO, VERSO L’ACTIO E LA COLLACTIO

    Oggi, grazie a Dio, viene ripresa nella Chiesa l’antica pratica della lectio divina. Essa è ormai nota a tutti. La sua metodologia è molto varia, ma sostanzialmente si articola in varie tappe: la lectio, ossia l’ascolto e lo studio della Parola di Dio; la meditatio, la sua accoglienza e il confronto con la propria vita; l’oratio, la preghiera che sgorga dall’ascolto; la contemplatio, la comunione con Dio. È un dono immenso dello Spirito, di cui siamo grati.

    Tuttavia nella lectio spesso ci si ferma allo studio, alla meditatio, forse si giunge alla oratio, difficilmente alla contemplatio. Occorre andare oltre e spingersi fino all’actio o l’operatio, la vita e la testimonianza suscitate dalla Parola. Non basta ascoltare, leggere, studiare le Scritture. Non basta neppure meditarle o pregarle. La Parola accolta domanda la piena adesione, il totale abbandono a quanto Dio in essa manifesta. Essa richiede di essere tradotta in vita, coerentemente con l’insegnamento evangelico: il buon ascoltatore della Parola è colui che la mette in pratica (cf. Mt 7, 24). Solo a queste condizioni la Parola può esprimere tutta la sua forza trasformante. La lettera di Giacomo ammonisce: «Accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le vostre anime. Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi» (Gc 1, 21-22).

    E infine la collatio. La Parola ascoltata e vissuta domanda di comunicare i frutti da essa prodotti nella vita, delle esperienze che essa suscita. Anche in questo i fondatori e le fondatrici sono un modello. Essi non si sono inoltrati solitari sulle vie della Parola, ma sono stati capaci di guidare altri sulle medesime strade, di renderli partecipi della medesima esperienza e di orientarli, assieme a loro, verso il Vangelo, per fare di tutti un’unica Parola vivente.

    Anche oggi, come all’origine del nostro Istituto, la comunità religiosa sarà il frutto della costante comunione tra persone fecondate dalla Parola carismatica, tra “parole di Dio vive”.

    VIVERE IL VANGELO PER VIVERE IL CARISMA

    Praticare così la lectio divina ci porta anche al rinnovamento del nostro carisma, in continuità con l’esperienza dei nostri fondatori e fondatrici. Seguire le loro orme significa lasciarci condurre dallo Spirito, con la loro stessa docilità, là dove loro si sono lascianti condurre e dove ha avuto inizio il loro cammino carismatico: al Vangelo.

    Se i carismi e gli istituti possono essere paragonati a fiori sbocciati dal Vangelo, di certo essi conserveranno o ritroveranno la loro freschezza, e quindi saranno pienamente se stessi, nella misura in cui saranno capaci di andare alla radice da cui sono nati, immergendosi nuovamente nell’intero Vangelo e nella completezza del mistero di Cristo.

    A volte, guardando al giardino della Chiesa, si può avere l’impressione che tanti “fiori” siano appassiti. Per ridare vita al proprio “fiore”, al proprio carisma, è inutile soffiare sui petali, per rimanere nell’immagine, o puntellarli in modo che la corolla stia voltata in alto. È un’operazione effimera e inutile. Perché il fiore riabbia vita bisogna intervenire alla radice, non sulla corolla. Bisogna dare acqua alle radici. Fuori metafora. Si tenta in tutti i modi di salvare l’identità della propria spiritualità e lo specifico del proprio istituto studiando il proprio particolare, enfatizzandolo, cercando di proteggerlo da pretese ingerenze esterne… È un lavoro valido ma insufficiente. Occorre il coraggio di andare più in profondità. Occorre ritrovare la pienezza di vita evangelica che alimenta quella determinata spiritualità. L’acqua e l’humus fecondo sono comuni a tutti i fiori, quale che sia la loro varietà. Occorre quindi che tutti i carismi per essere loro stessi rimangano in costante contatto con la fonte da cui tutti sono sgorgati.

    Se i fondatori e le fondatrici appaiono parole dell’unica Parola, aspetti particolari della totalità del Vangelo, ogni istituto deve tornare ad essere parola nell’unica Parola. Si tratta di immergere nuovamente la “parola” evangelica su cui è nata ogni famiglia religiosa e che la alimenta, nell’intero Vangelo. Vivendo il Vangelo in pienezza si avrà poi luce per cogliere la particolare dimensione evangelica su cui si è innestato il proprio istituto.

    È un cammino da percorrere in comunione con le altre vocazioni, con la Chiesa intera. Se ogni istituto è nato nella Chiesa e per la Chiesa, per vivere e crescere ha intrinsecamente bisogno di una comunione vitale con tutte le diverse realtà carismatiche all’interno della Chiesa-comunione. Solo nell’unità dell’insieme si può cogliere pienamente il valore di ciascun particolare. Di qui il bisogno di attuare una unità sempre più profonda e concreta tra i membri dei differenti istituti di vita consacrata e con le diverse vocazioni ecclesiali: laici, presbiteri, vescovi, gruppi, movimenti, associazioni, e insieme con loro ritrovare la radice evangelica del vivere cristiano.

    Nell’unità tra di loro ricompongono l’unico Vangelo, la Parola, il Verbo. Significative le parole rivolte da Giovanni Paolo II ai religiosi: «La Chiesa (…) accoglie e nutre nel proprio seno Ordini e Istituti di stile tanto diverso, perché tutti insieme contribuiscano a rivelare la variegata natura e il polivalente dinamismo del Verbo di Dio incarnato e della stessa Comunità dei credenti in Lui» .

    p. FABIO CIARDI  OMI

    STUDIARE SILLABE PREZIOSE

    Intervista a

    FRANCESCO ROSSI DE GASPERIS S.J. *

    Francesco Rossi De GasperisMi si domanda qualche illustrazione degli studi biblici compiuti da Carlo Maria Martini, delle sue ricerche, del suo approccio ai testi delle Scritture. Di queste cose posso parlare, come so, solamente a posteriori, dal momento che non sono mai stato un compagno di studi teologici e biblici di Carlo Maria. Pur essendo quasi coetanei (io sono più vecchio di quattro mesi), e pur essendo entrati nel noviziato della Compagnia nello stesso anno 1944, padre Carlo Maria Martini apparteneva alla Provincia Torinese, mentre io appartenevo alla Provincia Romana.

    So che egli ha studiato teologia nella Compagnia di Gesù a Chieri, e che era stato destinato a diventare professore di quella facoltà, tanto che gli fu risparmiato persino il periodo di “magistero”, che noi normalmente inframezziamo tra gli studi filosofici e quelli teologici. Di conseguenza, venne ordinato sacerdote il 13 luglio 1952; dunque dopo soli otto anni di vita religiosa, mentre io, per esempio, sono stato ordinato il 6 luglio 1957.

    In vista della sua destinazione all’insegnamento, Carlo Maria fu mandato a Roma per ottenere un dottorato in teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Il risultato di questa sua prima missione di studio è consegnato nel volume: Il problema storico della risurrezione negli studi recenti (Analecta Gregoriana, 104), Libreria Editrice dell’Università Gregoriana, Roma 1959.

    Ho sentito dire che, poiché il suo insegnamento a Chieri sembrava ad alcuni “troppo avanzato”, il giovane professore venne indirizzato a più specializzati studi biblici, presso il Pontificio Istituto Biblico.

    Di nuovo studente a Roma, vi conseguiva il dottorato in Sacra Scrittura con una tesi di critica testuale, pubblicata poi con il titolo: Insight. A Study of Human Understanding, di Bernard J. F. Lonergan. Nel pensiero e nel discorso di Lonergan egli respirava a pieni polmoni l’aria pulita di un’intelligenza obbediente al vero e alla realtà, che si conosce solamente nei giudizi veri. Mi sembra di intravedere in questa consuetudine con il pensiero di Lonergan un segreto della fecondità della vita e del ministero del cardinale arcivescovo Martini.

    Professore di critica testuale al Pontificio Istituto Biblico dal 1962, padre Martini curava, nel 1964, una nuova edizione del Novum Testamentum graece et latine di A. Merk, e diveniva membro del comitato che pubblica il Novum Testamentum Graece di E. Nestle – K. Aland (27a edizione, 1995), identico alla quarta edizione (1993) di The Greek New Testament.

    Fino al 29 dicembre 1979, quando venne nominato arcivescovo di Milano da Giovanni Paolo II, padre Martini ha tenuto la cattedra di critica testuale presso l’Istituto Biblico di Roma, di cui è stato anche Rettore per diversi anni, prima di essere nominato Rettore anche della Pontificia Università Gregoriana.

    L’interesse di padre Martini per la Bibbia, nello spazio di diciassette anni, tuttavia, oltre a essere focalizzato sul testo del Nuovo Testamento, si è esteso specialmente alla testimonianza della comunità cristiana primitiva, studiata nel libro degli Atti degli Apostoli, di cui pubblicava alcuni commentari, specialmente uno molto apprezzato per la collana della nuovissima versione della Bibbia dai testi originali, delle Edizioni Paoline (1970).

    Egli rivedeva pure ampiamente la terza edizione dell’introduzione generale alla Bibbia dell’Editrice Elle Di Ci (Il Messaggio della salvezza, vol. I, Leumann, Torino 1968). Un’altra ottima introduzione alla Sacra Scrittura è quella che egli ha diretto con Luciano Pacomio (I Libri di Dio, Marietti, Torino 1975).

    Alcuni dei suoi più importanti articoli esegetici di questo periodo sono stati ripubblicati, all’indomani della sua nomina ad arcivescovo, dal Pontificio Istituto Biblico, nel volume 93 degli Analecta Biblica (La parola di Dio alle origini della Chiesa, Roma 1980). Tra di essi non manca di riapparire l’interesse originario del giovane teologo per la risurrezione di Gesù.

    Improvvisamente e inaspettatamente, da ventidue anni a oggi, la diaconia della Parola di Dio prestata da questo studioso del testo neotestamentario si è aperta, da un terreno molto limitato, riservato agli iniziati, a tutto il popolo di Dio. Essa partiva ormai da un osservatorio ben diverso da quello della piccola stanza di un istituto romano, e si trasferiva nella sede arcivescovile di una delle più grandi diocesi cattoliche del mondo.

    A partire dalle prime due lettere pastorali dirette al clero e ai fedeli dell’arcidiocesi ambrosiana per gli anni pastorali 1980- 81 (La dimensione contemplativa della vita) e 1981-82 (In principio la Parola), l’esegesi di Carlo Maria Martini, senza cessare di passare per lo scrutinio della scienza, si è offerta a tutte le istanze del ministero pastorale di un grande vescovo; un ministero che fa pensare a quello dei pastori della Chiesa, dei padri e dei dottori. La missione episcopale nella Chiesa di Dio pellegrina a Milano ha fatto sbocciare e ha rivelato nello studioso del testo del Nuovo Testamento la statura pienamente adulta dell’uomo di Chiesa.

    Gli scritti, le omelie, gli articoli, gli interventi, le iniziative a sfondo biblico del cardinale Martini, di questi ultimi due decenni, trasmessi in tante lingue e in molti Paesi, sono diventati punti di riferimento e luoghi di consolazione per una grande moltitudine di uomini e di donne, tormentati dalla nostalgia di una vita evangelica in questo mondo travagliato tra la fine del secondo millennio e gli albori del terzo. Sono testi noti a tutti, e io non debbo parlarne qui.

    Qui vorrei ricordare solamente che Carlo Maria ci confessò una volta che, durante un certo periodo di tempo, egli soleva leggere ogni giorno qualche pagina del volume, non poco impegnativo, di un comune nostro maestro gesuita: Insight. A Study of Human Understanding, di Bernard J. F. Lonergan. Nel pensiero e nel discorso di Lonergan egli respirava a pieni polmoni l’aria pulita di un’intelligenza obbediente al vero e alla realtà, che si conosce solamente nei giudizi veri. Mi sembra di intravedere in questa consuetudine con il pensiero di Lonergan un segreto della fecondità della vita e del ministero del cardinale arcivescovo Martini.

    Come Lonergan insegna, la vera intelligenza comincia scrutando senza posa, fino ai minimi dettagli, i dati dell’esperienza. Nella sua tesi sul Papiro Bodmer XIV (pp. XIV.VI), Martini si rifaceva a un testo che Erasmo da Rotterdam premetteva alla sua quarta edizione del Nuovo Testamento, del 1527. Egli ricordava quanta difficoltà e quanto sudore costasse la diligenza nell’occuparsi di tali minuzie. Se però una smile attenzione a sillabe e vocaboli è disprezzata da alcuni, i quali la ritengono troppo umile e puerile, Erasmo non se ne faceva impressionare. Consapevole come era della grande importanza del campo della teologia e di quanta riverenza sia dovuta ai libri sacri, egli aveva deciso di dedicarsi a ciò che in un tale compito era più piccolo.

    Da vescovo, Carlo Maria ha continuato a tener conto dei più piccoli dettagli della storia, della società, della politica e delle coscienze umane; dei credenti e dei non credenti (anche di quel “non credente” che è in lui); delle città e dell’internazionalità; dei carcerati e del mondo laico; eccetera.

    La vigilante e analitica attenzione al “particolare” in vista della “totalità” lo ha reso attento non soltanto a Gerusalemme e a Israele, ma lo ha preservato da ogni giudizio ‘con-clusivamente es-clusivo’, e dalle ideologie intolleranti, che sono proprie di ogni concettualismo conservatore. Egli è rimasto sempre irrevocabilmente aperto al dialogo con ogni pensiero e ogni mondo; amante della verità dei giudizi, molto più che delle loro “certezze”; una verità non raggiungibile mai da misteriose “intuizioni” immediate, ma da ricercare storicamente e da raggiungere laboriosamente e prudentemente, “provando e riprovando”, e progressivamente verificando “intelligenze e comprensioni”, senza impantanarsi nelle sabbie mobili di un mondo di concetti immutabili, immediatamente e automaticamente astratti.

    Solamente con questo tipo di intelligenza anche un Vescovo si può permettere di sognare. Basterà ricordare il discorso da lui tenuto nella cattedrale di Roma agli inizi dell’anno giubilare 2000, su invito del cardinale Camillo Ruini, sul significato di Gesù Cristo per la sua vita (cf. Rivista Diocesana di Roma 4, 1997, pagg. 302-311). In quell’occasione, egli ci ha raccontato il suo cammino di credente e di discepolo di Gesù attraverso l’oscura notte della ricerca critica, e ha reso una testimonianza commovente del proprio impegno e della devozione personale al Signore, ripercorrendo le tappe scientifiche ed esistenziali per le quali è passato, attraverso la sfida e la prova del dubbio fino a una fede in lui, adulta e pienamente consapevole.

    La sua testimonianza di uomo intelligente di Dio e della Chiesa nella storia degli uomini e delle donne di oggi mi suggerisce di non definirlo semplicemente un “biblista”, chiuso in una biblioteca di ricerca. Carlo Maria Martini è stato e rimane “un Vescovo-diacono della Parola di Dio per la Chiesa del nostro tempo”, di quella Parola che è Gesù il Natzoreo, il Risorto Messia d’Israele e delle nazioni, di cui hanno parlato per secoli Mosè, i Profeti e gli Scritti (la TaNa”Kh) d’Israele.

    Del Pontificio Istituto Biblico di Gerusalemme

    «Senza paure davanti alla Bibbia»

    LA PAROLA NELLA COMUNITA’

    E NELLA STORIA

    Come si esprime la Parola nella vita?

    La Parola domanda di inserirsi sempre di nuovo dentro le nostre parole e nella nostra vita. Essa vuole farsi testimonianza, attraverso alcuni passi progressivi.

    Anzitutto domanda umilmente di diventare “dono mutuo” tra di noi! La comunione esige di concretarsi nella comunicazione. Dobbiamo comunicarci tra di noi anzitutto la parola di Dio: “La parola di Cristo dimori tra di voi abbondantemente” (Lettera ai Colossesi 3,16).

    Con la Parola e nella Parola ci si edifica a vicenda, comunicandoci le rispettive reazioni e risonanze suscitate dallo Spirito. Ci si critica, anche, e ci si corregge a vicenda. La correzione fraterna autentica è una realtà profondamente evangelica.

    Siamo tutti responsabili gli uni per gli altri, tutti umili ascoltatori della Parola e bisognosi di mutua comunicazione nella fede. Solo per tale via si arriva a costruire la comunità nella comunione.

    Nasce la comunità come la realtà in cui crediamo, testimoniamo la fede e la diffondiamo missionariamente: “La parola del Signore riecheggia per mezzo vostro” (1 Lettera ai Tessalonicesi 1,8); “La nostra lettera siete voi” (2 Lettera ai Corinzi 3,2).

    Allenandosi a una più intensa comunicazione, le nostre comunità si abilitano a interpretare più efficacemente, nella luce della Parola, le diverse situazioni umane. Davanti a urgenti interpellanze provenienti dal mondo del lavoro, dalle nuove circostanze in cui vive la famiglia, dalla inquieta condizione dei giovani e delle donne, per citare solo alcuni casi significativi, le nostre comunità si trovano mute e impacciate, perché non sono abituate a un costante confronto, in cui il riferimento alla parola di Dio si intreccia con il riferimento alla concreta situazione umana vista in tutta la sua complessità e in tutte le sue sfaccettature.

    Solo in questo confronto la Parola rivela e attua la sua capacità di essere la “verità”, cioè il senso profondo e la salvezza integrale della storia umana. Non serve la Parola chi la ripete soltanto meccanicamente.

    A partire dalla comunità bisogna dunque leggere e decifrare la storia con la Parola. Ciò richiede tempo, pazienza, dialogo. Ma bisogna mettersi per questa strada e saper uscire fuori, anche lontano: interpretare le religioni del mondo, la religiosità popolare, le culture e le vicende culturali dei popoli e delle minoranze, le sofferenze e le ansie della nostra civiltà della tecnica, i fermenti nuovi, gli echi del passato e del futuro.

    Contro la tendenza a spegnere fermenti di vita, bisogna con la forza della Parola risuscitare i morti, ridare memoria e speranza. In un’epoca di disperati e senza senso, di smarriti in un universo che sembra spegnersi, solo la Parola dura in eterno, supera e salva ciò che muore.

    La Parola, che si incarna nella vita, tocca le situazioni difficili del nostro tempo.

    Carlo M. card. Martini, In principio la Parola, Milano 1981, 66-68


    MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI


    PER LAXXI GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ

    (9 APRILE 2006)


    “Lampada per i miei passi è la tua

    parola,

    luce sul mio cammino”


    (Sal 118[119], 105)


    Cari giovani!

    Nel rivolgermi con gioia a voi che state preparandovi alla XXI Giornata Mondiale della Gioventù, rivivo nel mio animo il ricordo delle arricchenti esperienze fatte nell’agosto dello scorso anno in Germania. La Giornata di quest’anno verrà celebrata nelle diverse Chiese locali e sarà un’occasione opportuna per ravvivare la fiamma di entusiasmo accesa a Colonia e che molti di voi hanno portato nelle proprie famiglie, parrocchie, associazioni e movimenti. Sarà al tempo stesso un momento privilegiato per coinvolgere tanti vostri amici nel pellegrinaggio spirituale delle nuove generazioni verso Cristo.

    Il tema che propongo alla vostra considerazione è un versetto del Salmo 118 [119]: “Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino” (v. 105). L’amato Giovanni Paolo II ha commentato così queste parole del Salmo: “L’orante si effonde nella lode della Legge di Dio, che egli adotta come lampada per i suoi passi nel cammino spesso oscuro della vita” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XXIV/2, 2001, p. 715).

    Dio si rivela nella storia, parla agli uomini e la sua parola è creatrice. In effetti, il concetto ebraico “dabar”, abitualmente tradotto con il termine “parola”, sta a significare tanto parola che atto. Dio dice ciò che fa e fa ciò che dice. Nell’Antico Testamento annuncia ai figli d’Israele la venuta del Messia e l’instaurazione di una “nuova” alleanza; nel Verbo fatto carne Egli compie le sue promesse. Lo evidenzia bene anche il Catechismo della Chiesa Cattolica: “Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, è la Parola unica, perfetta e definitiva del Padre, il quale in lui dice tutto, e non ci sarà altra parola che quella” (n. 65).

    Lo Spirito Santo, che ha guidato il popolo eletto ispirando gli autori delle Sacre Scritture, apre il cuore dei credenti all’intelligenza di quanto è in esse contenuto. Lo stesso Spirito è attivamente presente nella Celebrazione eucaristica quando il sacerdote, pronunciando “in persona Christi” le parole della consacrazione, converte il pane e il vino nel Corpo e Sangue di Cristo, perché siano nutrimento spirituale dei fedeli. Per avanzare nel pellegrinaggio terreno verso la Patria celeste, abbiamo tutti bisogno di nutrirci della parola e del pane di Vita eterna, inseparabili tra loro!

    Gli Apostoli hanno accolto la parola di salvezza e l’hanno tramandata ai loro successori come un gioiello prezioso custodito nel sicuro scrigno della Chiesa: senza la Chiesa questa perla rischia di perdersi o di frantumarsi. Cari giovani, amate la parola di Dio e amate la Chiesa, che vi permette di accedere a un tesoro di così alto valore introducendovi ad apprezzarne la ricchezza.


    Amate e seguite la Chiesa, che ha ricevuto dal suo Fondatore la missione di indicare agli uomini il cammino della vera felicità. Non è facile riconoscere ed incontrare l’autentica felicità nel mondo in cui viviamo, in cui l’uomo è spesso ostaggio di correnti di pensiero, che lo conducono, pur credendosi “libero”, a perdersi negli errori o nelle illusioni di ideologie aberranti. E’ urgente “liberare la libertà” (cfr Enciclica Veritatis splendor, 86), rischiarare l’oscurità in cui l’umanità sta brancolando.

    Gesù ha indicato come ciò possa avvenire: “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8, 31-32). Il Verbo incarnato, Parola di Verità, ci rende liberi e dirige la nostra libertà verso il bene. Cari giovani, meditate spesso la parola di Dio, e lasciate che lo Spirito Santo sia il vostro maestro. Scoprirete allora che i pensieri di Dio non sono quelli degli uomini; sarete portati a contemplare il vero Dio e a leggere gli avvenimenti della storia con i suoi occhi; gusterete in pienezza la gioia che nasce dalla verità. Sul cammino della vita, non facile né privo di insidie, potrete incontrare difficoltà e sofferenze e a volte sarete tentati di esclamare con il Salmista: “Sono stanco di soffrire” (Sal 118 [119], v. 107). Non dimenticate di aggiungere insieme con lui: “Signore, dammi vita secondo la tua parola… La mia vita è sempre in pericolo, ma non dimentico la tua legge” (ibid., vv. 107.109). La presenza amorevole di Dio, attraverso la sua parola, è lampada che dissipa le tenebre della paura e rischiara il cammino anche nei momenti più difficili.

    Scrive l’Autore della Lettera agli Ebrei: “La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (4,12). Occorre prendere sul serio l’esortazione a considerare la parola di Dio come un’”arma” indispensabile nella lotta spirituale; essa agisce efficacemente e porta frutto se impariamo ad ascoltarla, per poi obbedire ad essa. Spiega il Catechismo della Chiesa Cattolica: “Obbedire (ob-audire) nella fede è sottomettersi liberamente alla Parola ascoltata, perché la sua verità è garantita da Dio, il quale è la Verità stessa” (n. 144). Se Abramo è il modello di questo ascolto che è obbedienza, Salomone si rivela a sua volta un ricercatore appassionato della sapienza racchiusa nella Parola. Quando Dio gli propone: “Chiedimi ciò che io devo concederti”, il saggio re risponde: “Concedi al tuo servo un cuore docile” (1 Re 3,5.9). Il segreto per avere “un cuore docile” è di formarsi un cuore capace di ascoltare. Ciò si ottiene meditando senza sosta la parola di Dio e restandovi radicati, mediante l’impegno di conoscerla sempre meglio.

    Cari giovani, vi esorto ad acquistare dimestichezza con la Bibbia, a tenerla a portata di mano, perché sia per voi come una bussola che indica la strada da seguire. Leggendola, imparerete a conoscere Cristo. Osserva in proposito San Girolamo: “L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo” (PL 24,17; cfr Dei Verbum, 25). Una via ben collaudata per approfondire e gustare la parola di Dio è la lectio divina, che costituisce un vero e proprio itinerario spirituale a tappe. Dalla lectio, che consiste nel leggere e rileggere un passaggio della Sacra Scrittura cogliendone gli elementi principali, si passa alla meditatio, che è come una sosta interiore, in cui l’anima si volge a Dio cercando di capire quello che la sua parola dice oggi per la vita concreta. Segue poi l’oratio, che ci fa intrattenere con Dio nel colloquio diretto, e si giunge infine alla contemplatio, che ci aiuta a mantenere il cuore attento alla presenza di Cristo, la cui parola è “lampada che brilla in luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori” (2 Pt 1,19). La lettura, lo studio e la meditazione della Parola devono poi sfociare in una vita di coerente adesione a Cristo ed ai suoi insegnamenti.

    Avverte San Giacomo: “Siate di quelli che mettono in pratica la Parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi. Perché se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la Parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena s’è osservato, se ne va, e subito dimentica com’era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla” (1,22-25).

    Chi ascolta la parola di Dio e ad essa fa costante riferimento poggia la propria esistenza su un saldo fondamento. “Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica – dice Gesù – è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia” (Mt 7,24): non cederà alle intemperie.

    Costruire la vita su Cristo, accogliendone con gioia la parola e mettendone in pratica gli insegnamenti: ecco, giovani del terzo millennio, quale dev’essere il vostro programma! E’ urgente che sorga una nuova generazione di apostoli radicati nella parola di Cristo, capaci di rispondere alle sfide del nostro tempo e pronti a diffondere dappertutto il Vangelo. Questo vi chiede il Signore, a questo vi invita la Chiesa, questo il mondo – anche senza saperlo – attende da voi! E se Gesù vi chiama, non abbiate paura di rispondergli con generosità, specialmente quando vi propone di seguirlo nella vita consacrata o nella vita sacerdotale. Non abbiate paura; fidatevi di Lui e non resterete delusi.

    Cari amici, con la XXI Giornata Mondiale della Gioventù, che celebreremo il prossimo 9 aprile, Domenica delle Palme, intraprenderemo un ideale pellegrinaggio verso l’incontro mondiale dei giovani, che avrà luogo a Sydney nel luglio 2008. Ci prepareremo a questo grande appuntamento riflettendo insieme sul tema Lo Spirito Santo e la missione, attraverso tappe successive. Quest’anno l’attenzione si concentrerà sullo Spirito Santo, Spirito di verità, che ci rivela Cristo, il Verbo fatto carne, aprendo il cuore di ciascuno alla Parola di salvezza, che conduce alla Verità tutta intera. L’anno prossimo, 2007, mediteremo su un versetto del Vangelo di Giovanni: “Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (13,34) e scopriremo ancor più a fondo come lo Spirito Santo sia Spirito d’amore, che infonde in noi la carità divina e ci rende sensibili ai bisogni materiali e spirituali dei fratelli. Giungeremo, infine, all’incontro mondiale del 2008, che avrà per tema: “Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni” (At 1,8).

    Sin d’ora, in un clima di incessante ascolto della parola di Dio, invocate, cari giovani, lo Spirito Santo, Spirito di fortezza e di testimonianza, perché vi renda capaci di proclamare senza timore il Vangelo sino agli estremi confini della terra. Maria, presente nel Cenacolo con gli Apostoli in attesa della Pentecoste, vi sia madre e guida. Vi insegni ad accogliere la parola di Dio, a conservarla e a meditarla nel vostro cuore (cfr Lc 2,19) come Lei ha fatto durante tutta la vita. Vi incoraggi a dire il vostro “sì” al Signore, vivendo l’”obbedienza della fede”. Vi aiuti a restare saldi nella fede, costanti nella speranza, perseveranti nella carità, sempre docili alla parola di Dio. Io vi accompagno con la mia preghiera, mentre di cuore tutti vi benedico.

    Dal Vaticano, 22 Febbraio 2006, Festa della Cattedra di San Pietro Apostolo.
    BENEDICTUS PP. XVI

    © Copyright 2006 – Libreria Editrice Vaticana

    LA PRATICA DEL TESTO BIBLICO

    La lectio divina  ha conosciuto nel dopo-Concilio una meravigliosa riscoperta grazie a maestri come il Card Martini, E. Bianchi, Masini, I. Gargano, e tanti altri. La svolta storica conciliare del superamento delle antiche remore di fronte al testo sacro ha riaperto ai credenti le sorgenti della spiritualità biblica che già avevano illuminato i primi secoli del cammino della Chiesa.

    I religiosi, i presbiteri e i laici, alla scuola dei ss. Padri e  Monaci hanno ripreso a nutrirsi personalmente della parola di Dio e a farne il  luogo privilegiato dell’ascolto e del dialogo con Dio superando lo sterile e stagnante  devozionalismo dei secoli passati.

    È  tanta la ricchezza e profondità  di questo filone spirituale che abbiamo pensato di dedicargli una pagina del nostro sito.

    «È un vero maestro della “lectio divina”, che aiuta a entrare nel vivo della Sacra Scrittura», ha detto di lui in piazza San Pietro Benedetto XVI.

    LA LECTIO DIVINA

    Secondo la mia abitudine, ho cercato di trasformare questa dizione in una domana:

    In quale modo utilizzare il testo biblico per una meditazione che sfoci un preghiera e in atti concreti di vita?

    L’orazione infatti tende al cambiamento del cuore, alla conversione. E confesso che è la domanda a cui mi sforzo di rispondere da una vita, una domanda sempre da rinnovare, da rilanciare, da rimettere i cantiere.


    Richiamerò dunque, brevemente, alcune parole chiave che formulo in latino  perché non è facile trovare in italiano un equivalente sufficientemente comprensivo:

    • lectio,
    • meditatio,
    • contemplatio,
    • oratio,
    • consolatio,
    • discretio,
    • deliberatio,
    • actio.

    Sono parole che mi permettono di cogliere come avviene il passaggio da testo biblico allavita, transitando per la preghiera e la contemplazione.

    “La lectio divina è un approccio graduale al testo biblico e risale all’antico metodo dei Padri, che a loro volta si richiamavano all’uso rabbinico.”


    Chi ha “inventato” questo metodo di lettura-preghiera?

    “La suddivisione classica in memoria, intelletto, volontà è molto antica ed è sviluppata in particolare da sant’Agostino per quanto riguarda il tema della memoria. Più tardi questa triade diviene sinonimo di un processo meditativo riferito alla Scrittura o a una verità di fede.

    Ricorderò anche, brevemente, il metodo della “contemplazione evangelica”, termine usato ordinariamente per indicare il modo di meditare una pagina del Vangelo: un significativo esempio l’abbiamo nel libretto de Gli Esercizi spirituali di Ignazio di Lojola, che a partire dalla II settimana parla di “contemplazione” perché al lavoro dell’intelletto subentra prevalentemente il coinvolgimento esistenziale e orante con la scena evangelica. Tutto questo ci sarà utile per comprendere meglio quale sia la caratteristica specifica della preghiera cristiana.”

    Dunque cosa devo fare?

    “Il metodo patristico della lectio divina è semplicissimo e lo raccomando sempre ai giovani per entrare nella preghiera. Fondamentalmente prevede tre grandi gradini o momenti successivi: la lectio, la meditatio, la contemplatio.

    La LECTIO consiste nel leggere e rileggere la pagina della Scrittura, mettendo in rilievo gli elementi portanti. Per questo consiglio di leggere con la penna in mano, sottolineando le parole che colpiscono, oppure richiamando con segni grafici i verbi, le azioni, i soggetti, i sentimenti espressi o la parola-chiave. In tal modo la nostra attenzione viene stimolata, l’intelligenza, la fantasia e la sensibilità si muovono facendo sì che un brano, considerato magari arcinoto, appaia nuovo.

    A me che da tanti anni leggo il vangelo succede, ad esempio, che riprendendolo in mano scopro ogni volta delle cose nuove proprio attraverso il metodo della lectio.

    Questo primo lavoro può occupare parecchio tempo, se siamo aperti allo Spirito: si colloca il racconto letto nel contesto più vasto, sia dei brani vicini, sia dell’insieme di un libro, sia dell’intera Bibbia, per capire che cosa vuol dire.

    La MEDITATIO è la riflessione sui valori perenni del testo. Mentre nella lectio assumo le coordinate storiche, geografiche, culturali anche, del brano, qui si pone la domanda:

    • Che cosa dice a me?
    • Quale messaggio in riferimento all’oggi viene proposto autorevolmente dal brano come parola del Dio vivente?
    • Come vengo provocato dai valori permanenti che stanno dietro alle azioni, alle parole, ai soggetti?

    La CONTEMPLATIO è difficilmente esprimibile e spiegabile. Si tratta di dimorare con amore nel testo, anzi di passare dal testo e dal messaggio alla contemplazione di colui che parla attraverso ogni pagina della Bibbia: Gesù, Figlio del Padre, effusore dello Spirito.

    Contemplatio è adorazione, lode, silenzio davanti a colui che è l’oggetto ultimo della mia preghiera, il Cristo Signore vincitore della morte, rivelatore del Padre, mediatore assoluto della salvezza, donatore della gioia del Vangelo. Nella pratica i tre momenti non sono rigorosamente distinti, però la suddivisione è utile per chi ha bisogno di incominciare o di riprendere questo esercizio.

    Il nostro pregare è come un filo rosso che collega un po’ le giornate l’una all’altra e può succedere che sullo stesso testo della Scrittura ci soffermiamo un giorno soprattutto con la meditatio mentre un altro giorno passiamo rapidamente alla contemplatio.”

    Quali passi ulteriori fare per proseguire?

    “La triplice distinzione, tuttavia, esprime in maniera appena embrionale il dinamismo della lectio divina, che in qualche mio libro ho spiegato in tutta la sua ampiezza. Tale ampiezza, infatti, prevede otto progressivi gradini: lectio, meditatio, oratio, contemplatio, consolatio, discretio, deliberatio, actio.

    Mi sembra opportuno accennarli brevemente.

    • L’ORATIO è la prima preghiera che nasce dalla meditazione: Signore, fammi comprendere i valori permanenti del testo, che mi mancano, donami di capire qual è il tuo messaggio per la mia vita. E a un certo punto, questa preghiera si concentra nell’adorazione e nella contemplazione del mistero di Gesù, del volto di Dio. L’oratio si può esprimere anche in richiesta di perdono e di luce o in offerta.


    • La CONSOLATIO è molto importante per il nostro cammino di preghiera e sant’Ignazio di Lojola ne parla più volte nel suo libretto de Gli Esercizi spirituali. Senza questa componente, la preghiera perde di sale, di gusto. La consolatio è la gioia del pregare, è il sentire intimamente il gusto di Dio, delle cose di Cristo. t un dono che ordinariamente si produce nell’ambito della lectio divina, anche se evidentemente lo Spirito santo è libero di effonderlo quando vuole. Solo dalla consolatio nascono le scelte coraggiose di povertà, castità, obbedienza, fedeltà, perdono, perché è il luogo, l’atmosfera propria delle grandi opzioni interiori. Ciò che non viene da questo dono dello Spirito dura poco ed è facilmente frutto di moralismo che imponiamo a noi stessi.


    • La DISCRETIO esprime ancora più chiaramente la vitalità della consolatio. Infatti, mediante il gusto del Vangelo, mediante una sorta di fiuto spirituale per le cose di Cristo, diventiamo sensibili a tutto quello che è evangelico e a ciò che non lo è. Si tratta quindi di un discernimento importante perché noi non siamo chiamati solo a osservare i comandamenti all’ingrosso, ma a seguire Cristo Gesù.

    E la sequela non ha un’evidenza immediata nelle scelte quotidiane se non siamo per così dire entrati nella mente di Gesù, se non abbiamo gustato la sua povertà, la sua croce, l’umiltà del suo presepio, il suo perdono. Questa capacità di discernere, nelle ordinarie emozioni e nei movimenti del cuore, il marchio evangelico è un dono così grande che san Paolo lo chiedeva per tutti i fedeli: “Vi sia data abbondanza di sensibilità – páse aistései, nel testo greco – perché possiate discernere sempre il meglio, ciò che piace a Dio e ciò che è perfetto” (cf Fil 1, 9-10, Rm 12, 2).

    Oggi la Chiesa ha estremamente bisogno della discretio perché le scelte decisive non sono tanto sul bene e sul male (non ammazzare, non rubare), ma su ciò che è meglio per il cammino della Chiesa, per il mondo, per il bene della gente, per i giovani, per i ragazzi.

    • La DELIBERATIO è un successivo passo. Dalla esperienza interiore della consolazione o della desolazione, impariamo a discernere e, quindi, a decidere secondo Dio. Se analizziamo attentamente le scelte vocazionali, ci accorgiamo che hanno, magari inconsapevolmente, questo andamento. La vocazione, infatti, è una decisione presa a partire da ciò che Dio ha fatto sentire e dall’esperienza che se ne è fatta secondo i canoni evangelici. Anche la deliberatio, come la discretio, viene coltivata in particolare mediante il dinamismo della leccio divina.


    • L’ACTIO, infine, è il frutto maturo di tutto il cammino. La leccio e l’actio, perciò, la lezione biblica e l’agire, non sono affatto due binari paralleli. Non leggiamo la Scrittura per avere la forza di compiere quello che abbiamo deciso! Invece, leggiamo e meditiamo affinché nascano le giuste decisioni e la forza consolatrice dello Spirito ci aiuti a metterle in pratica. Non si tratta, come spesso pensiamo, di pregare di più per agire meglio; ma di pregare di più per capire ciò che devo fare e per poterlo fare a partire dalla scelta interiore.” (da Card. Carlo Maria Martini, “La gioia del Vangelo”, 1988)

    Dove porta questa esperienza?

    “(…) che un giovane si senta interpellato direttamente da Dio, che impari cioè ad ascoltarlo. Non semplicemente che conosca la Scrittura o ascolti un bravo biblista, ma che si senta personalmente interpellato dalla Parola. Quando questo accade, facciamo un’esperienza indimenticabile; basta farla una volta perché si radica nella vita e continua ad attrarci verso la Scrittura. (…)

    Allora non abbiamo più bisogno di altre raccomandazioni, di sussidi esterni perché la Parola ha colpito dentro. Allora la risposta di chi si sente interpellato diventa anche risposta vocazionale: Signore, che cosa vuoi da me?

    Dunque, il nostro desiderio è di aiutare tutti i giovani a lasciarsi interpellare da Dio, a imparare ad ascoltarlo anche (non solo) a partire dalle pagine bibliche dove Dio parla oggi all’uomo nello Spirito, così da rispondergli. E allorché un giovane capisce che le Scritture parlano di lui e a lui, si inizia quel dialogo che non si fermerà più, di cui si sentirà sempre nel profondo del cuore una grande nostalgia.


    La conoscenza di Gesù e del cristianesimo sarà solida, integrata, non appiccicata, e la persona diverrà essa stessa, in qualche modo, Parola di Dio per gli altri”.

    (Carlo Maria Card. Martini, Arcivescovo di Milano)


    ALLA SCUOLA DELLA PAROLA

    Martini ai giovani: apritela con fiducia, vi porterà oltre voi stessi.

    Come prendere in mano la Scrittura?

    I consigli del Cardinale, citato recentemente da Benedetto XVI come «maestro» della lectio divina.


    Giorgio Bernardelli


    (“Avvenire”, 4/5/’06)

    Giovani con la Bibbia in mano. Ma non da soli. Perché la Scrittura, per essere davvero «lampada per i propri passi», va letta con l’aiuto di qualche maestro. È il messaggio che Benedetto XVI ha affidato ai giovani il 7 aprile scorso, dialogando con loro in piazza San Pietro alla vigilia della XXI Giornata mondiale della gioventù.


    Un messaggio forte, da non lasciare cadere. Ed è per questo che abbiamo chiesto di aiutarci a riprenderlo a colui che il Papa stesso in quell’occasione ha citato davanti ai giovani. Il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo emerito di Milano, oggi vive a Gerusalemme proprio dedicando le sue giornate allo studio dei testi biblici. «È un vero maestro della “lectio divina”, che aiuta a entrare nel vivo della Sacra Scrittura», ha detto di lui in piazza San Pietro Benedetto XVI.

    • Eminenza, come ha accolto queste parole del Papa?


    «Mi sono assai stupito della menzione che il Santo Padre ha voluto benevolmente fare del mio nome a proposito della “lectio divina” – risponde – . Me ne sono rallegrato a motivo della grande importanza che essa ha per tutti i cristiani, soprattutto per i più giovani. Ma non pensavo di essere menzionato io stesso, che non sono uno specialista; sono solo un umile discepolo della Parola, mentre molti altri nella Chiesa si sono dati da fare per questo impegno dei cristiani raccomandato dal Vaticano II nel capitolo VI della “Dei Verbum”».

    • Che cosa ha rappresentato per lei da giovane la scoperta della parola di Dio?


    «Per rispondere a questa domanda dovrei raccontare una lunga storia, che inizia dall’età di circa dieci anni, quando ci insegnarono a meditare su una pagina di Vangelo. La riscoperta della forza della parola di Dio era in qualche modo presente fin dall’inizio ma si è resa esplicita progressivamente, e certamente un punto importante è stato il concilio Vaticano II».

    • Che cosa vi ha trovato in più rispetto a tante altre parole?


    «Ho trovato la parola definitiva, quella che dà sicurezza assoluta, quella che fa appoggiare la vita sulla roccia che è Dio, quella che dura per tutta l’eternità. Ho trovato la parola che muove, commuove, coinvolge, stimola, invita, rimprovera, sollecita, incoraggia. Se “in principio era il Verbo” noi, che siamo stati creati in questo Verbo, ci ritroviamo in Lui ogni volta che ci mettiamo con coraggio dentro questa parola».

    • Ha vissuto delle fatiche nel primo impatto con il metodo della lectio divina?


    «Non potrei parlare di primo impatto, nel senso che alla “lectio divina” metodica sono giunto piuttosto gradualmente, componendo quasi da me stesso il metodo, con l’aiuto di tanti scrittori, soprattutto padri della Chiesa antica e del Medio Evo. Non ho dunque vissuto fatiche del primo impatto. Piuttosto le fatiche vengono dopo, quando cioè si conosce molto la parola di Dio e allora bisogna diminuire il tempo dato alla “lectio” propriamente detta per lasciare più tempo alla preghiera e al silenzio adorante davanti a Dio. È questo un passaggio importante, che bisogna fare al tempo giusto».

    • Quando andava in visita pastorale lei distribuiva ai giovani una penna che recava la scritta, «sottolinea il Vangelo». Perché in un racconto è così importante soffermarsi sulla singola parola, su una singola frase?


    «Insegnando a fare la “lectio” ho trovato molto utile che i giovani stessi scoprissero da soli le parole chiave dei testi, gli aggettivi, gli avverbi, i verbi dominanti, i soggetti delle azioni. Quando viene fatta così, la “lectio” fa leggere il testo come nuovo, e anche una pagina molto conosciuta ritorna brillante e luminosa».

    Lasciare spazio alla parola di Dio nella vita di un giovane può richiedere anche scelte impegnative. Lei invitava i giovani a eliminare o comunque ridurre fortemente, durante l’anno dedicato al discernimento vocazionale, l’uso della televisione. Perché?


    «Potrei raccontare a questo proposito che le regole erano due: rinunciare per un anno alla televisione, per esprimere la propria volontà di raccoglimento e di silenzio, ma anzitutto bandire ogni paura e preoccupazione circa il futuro. Molti giovani mi hanno detto che non era così difficile lasciare la televisione; era invece molto difficile superare le paure del futuro».

    • I momenti di aridità spirituale: come riuscire ad affrontarli con la parola di Dio in mano?


    «Abbiamo l’esempio di San Carlo Borromeo, che portava sempre in tasca un piccolo libro dei Salmi. Quando andava a cavallo o si trovava in viaggio e sentiva qualche momento di depressione si metteva a leggere qualche salmo facile e a ripetere a Dio le parole che più lo colpivano. I salmi sono certamente un aiuto grande per superare i momenti di deserto interiore».

    • Lei riceveva (e ancora riceve) molte lettere di giovani in cammino verso questo ascolto della parola di Dio. Che cosa la colpisce di questi scritti? Vede qualche differenza tra le lettere di oggi e quelle di qualche anno fa?


    «Vedo che il senso dell’importanza della parola di Dio, predicata per tanti anni, è rimasta viva nel cuore di molti giovani e adulti, e rimane forte il desiderio di approfondirla. Molti giovani di qualche anno fa mi raccontano i risultati meravigliosi ottenuti nelle scelte della vita a partire dalla parola di Dio. I giovani di oggi, che non hanno ancora fatto una scelta definitiva di vita, sono spesso preoccupati se la scelta sarà giusta o sbagliata e vorrebbero un metodo quasi matematico per evitare sbagli. Io dico loro che bisogna avere fiducia in Dio, della sua parola, buttarsi, rischiare. Occorre certamente pregare e ragionare, ma poi occorre uscire da sé. È inutile fare esperimenti continui per anni e anni. Bisogna tuffarsi come quando ci si butta in acqua e si deve nuotare per forza».

    • Se dovesse suggerire oggi a un giovane qualche pagina da cui partire per introdursi alla bellezza di una vita scandita dalla Scrittura, quali sceglierebbe?


    «Indicherei qualche salmo, una pagina del Vangelo, o una delle lettere più facili di Paolo, come la lettera ai Filippesi. Ma lo Spirito Santo guiderà ciascuno a trovare la pagina giusta. Basta cominciare».


    LECTIO DIVINA E LITURGIA DELLA PAROLA

    Per la vostra dedicazione agli esercizi voi siete con ciò stesso esperti sul tema della Lectio divina e della liturgia della Parola e per questo non posso dirvi nulla di nuovo, e neppure qualcosa che io stesso non abbia già trattato in interventi precedenti.

    Mi limiterò quindi ad alcuni richiami:

    1. Che cosa intendiamo per Lectio divina?

    2. Lectio divina e Lectio continua

    3. Lectio divina e Liturgia

    4. Lectio divina e Esercizi Spirituali

    5. Come insegnare a vivere la liturgia della Parola come fondamento della Lectio divina?

    1. Che cosa intendiamo per Lectio divina?

    Che cosa è la LD? se ne parla tanto e talora il molto parlare oscura la semplicità della cosa. Per questo preferisco rifarmi alla descrizione classica di Guigo il Certosino, che la descrive secondo quattro momenti: lectio, meditatio, oratio, contemplatio: Guigo prende lo spunto dall’invito evangelico: “chiedete e vi sarà dato, cercava e troverete, bussate vi sarà aperto” ( Matteo 7,7 ). E commenta così: ” La lettura indaga, la meditazione trova, l’orazione chiede, la contemplazione assapora. La lettura è un accurato esame delle Scritture che muove da un impegno dello Spirito. La meditazione è un’opera della mente che si applica a scavare nella verità più nascosta sotto la guida della propria ragione. L’orazione è un impegno amante del cuore in Dio allo scopo di estirpare il male e conseguire il bene. La contemplazione è come un innalzamento al disopra di sé da parte dell’anima sospesa in Dio, che gusta le gioie della dolcezza terrena. ..”

    Lo stesso autore sottolinea come questi atti costituiscano una unità, che va mantenuta nella sua interezza. Si tratta di fasi non separabili: esse si intrecciano e si mescolano. Come afferma Guigo:” La lettura senza la meditazione è arida, la meditazione senza la lettura è soggetta a errore, la preghiera senza la meditazione è tiepida, la meditazione senza la preghiera è infruttuosa. L’orazione fatta con fervore porta all’acquisto della contemplazione, mentre il dono della contemplazione senza l’orazione è raro e miracoloso”.

    Ci si può domandare da dove venga questa espressione quasi intraducibile di Lectio divina? Sembra che essa risalga a una lettera di Origene scritta verso il 238 al proprio discepolo Gregorio detto il Taumaturgo, che si apprestava a evangelizzare il Ponto: “Dedicati alla lectio delle Scritture divine; applicati a questo con perseveranza… Impegnati nella lectio con l’intenzione di credere e di piacere a Dio…Applicandoti così alla lectio divina (theia anagnosis) cerca con lealtà e fiducia incrollabile in Dio il senso delle Scritture divine, che in esse si cela con grande ampiezza” (n.4).

    Oggi la lectio divina, a partire dal Vaticano II, è via via sempre più raccomandata a tutti i cristiani dai documenti della Chiesa. Basti citare la Dei Verbum n. 25, la Novo Millennio Ineunte n. 39, il documento dei Vescovi italiani Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 2002, n 49, e il documento della Sacra Congregazione per la vita consacrata Ripartire da Cristo n.24.

    2. La lectio divina e la lectio continua

    La lectio divina è, in quanto possibile, una lectio continua, o almeno va sempre fatta sullo sfondo dell’intera Scrittura.

    Giuseppe Dossetti, in una sua famosa conferenza dal titolo “L’esperienza religiosa: testimonianza di un monaco ” ( pag. 124 e segg) descrive come va fatta questa lettura:

    ” Essa parte con molta chiarezza da due premesse:

    - occorre immergere il brano di ogni giorno non solo nell’insieme del libro che si sta leggendo, ma anche nel tutto unitario della Bibbia: cioè occorre poter risalire all’intero arco della storia della salvezza. La Bibbia occorre veramente averla letta tutta e rileggerla e capirla sempre più nel suo insieme e portarla tutta nel cuore in modo che il contatto della singola pericope o della singola frase si carichi del potenziale enorme del tutto e possa – almeno ogni tanto – scattare la scintilla balenante, e tutto l’orizzonte interiore si illumini;

    - occorre inoltre che questa globalità e unità della Scrittura appaia sempre più quello che è, cioè un’unità vivente, anzi il Vivente stesso, Cristo crocifisso e glorioso: che in ogni versetto della Scrittura tocchiamo e ascoltiamo, o meglio ci tocca, ci monda (come ha fatto con il lebbroso ), ci trasforma e progressivamente ci assimila a sé e ci conduce al Padre: così tutta la Scrittura diventa un grande sacramento di Cristo ” (citaz. Da G. Dossetti, la Parola di Dio seme di vita e di fede incorruttibile, Bologna 2002, Introduzione, pp. 16-17).


    3. Lectio divina e liturgia

    Tutto questo fa vedere come la lectio divina ha il suo humus fondamentale nella Liturgia. La liturgia della Parola di ogni giorno e di ogni settimana, sia nella Liturgia eucaristica come nella Liturgia delle Ore, è infatti, almeno nell’intenzione, lettura di tutta la Scrittura, in forma continuativa e sistematica. La liturgia permette così di dare uno sfondo a ogni singola pericopa e toglierla da un suo potenziale isolamento.

    Inoltre la liturgia, soprattutto eucaristica, permette quel contatto con il Vivente che giustamente Dossetti pone come fondamentale per una lectio divina. In una sua lettera da Gerico del 6-7 novembre 1979 all’assemblea dei gruppi biblici della Chiesa di Bologna egli sottolineava l’importanza del capitolo XI del libro IV della Imitazione di Cristo, a partire dal titolo: Quod Corpus Christi et Sacra Scriptura maxime sint animae fideli necessaria, e aggiunge: “Per me – e per tutta la comunità di Monteveglio – l’impulso genetico primordiale e la norma direttiva a livello più profondo di oltre venticinque anni di esperienza, son già tutti qui: in questo accostamento, in questa endiadi” ( G.Dossetti, La Parola…p. 127). E aggiungeva: “Non solo e non tanto nel fatto che la Sacra Scrittura venga detta necessaria, anzi massimamente necessaria all’anima del fedele per restare tale e per realizzarsi, ma ancor più nel fatto che questa massima necessità della Scrittura sia accostata a quella del corpo di Cristo: “Di due cose specialmente io sento la necessità assoluta in questa vita, senza le quali diverrebbe impossibile sopportarne le miserie. Chiuso nella prigione di questo corpo, io confesso di avere bisogno di cibo e di luce. Perciò tu hai dato a questo infermo il tuo sacro corpo per nutrimento della mente e del corpo e hai posto sul mio cammino la tua Parola come una lucerna. Non potrei vivere senza codesti due sostegni: poiché la Parola di Dio è la luce dell’anima, il tuo sacramento è il pane per la vita, Sono come due mense poste da una parte e dall’altra del tesoro della Chiesa. L’una è la mensa del santo altare che porta un pane consacrato, cioè il prezioso corpo di Cristo, l’altra è quella della legge di Dio che contiene la dottrina santa, istruisce sulla vera fede ed è guida sicura fin dall’al di là del velario dove sta il Santo dei santi” ( Imitazione di Cristo, IV, cap. XI, n.4).

    Potrà sembrare a qualcuno che in questo testo più di una frase sia connotata da quel pessimismo e da quell’evasione storica che, secondo certi odierni maestri, segna l’inclinazione deviante del libro dell’ Imitazione. Ebbene, per me e per noi di Monteveglio, tutta la carica positiva nella costruzione e nella totale sottomissione di ogni nostra giornata e di ogni nostra scelta alla Scrittura, deriva proprio dall’aver assunto alla lettera questa precisa frase: ” Duo namque mihi necessaria permaxime sentio in hac vita, sine quibus mihi importabilis fore ista miserabilis vita”.

    Il pessimismo di questa visione esistenziale si è sempre rovesciato per noi in un ottimismo cristiano, esclusivamente cristico, cioè esclusivamente attraverso il Gesù delle Scritture, in vista di quello che il sacro testo stesso chiama la consolazione delle Scritture:”ora tutto ciò che è stato scritto prima di noi è stato scritto per nostro ammaestramento affinché per mezzo della perseveranza e della consolazione delle Scritture possiamo avere la speranza” (Rom 15,4) (Rossetti, o.c. p.127-128)

    Si potrebbe qui ancora notare che la Dei Verbum ha fatto sua questa affermazione delll’Imitazione di Cristo ma con una differenza: parla cioè al singolare di “mensa tam Verbi Dei quam Corporis Christi”, da cui assume un pane di vita (al singolare) e lo offre ai fedeli (n.21).

    4. Omologia tra lectio divina ed esercizi

    Prima di passare a qualche suggerimento pratico, vorrei sottolineare ancora una cosa importante, che io chiamo l’omologia tra la Sacra Scrittura e gli Esercizi spirituali di s. Ignazio.

    Vorrei dire cioè che la dinamica degli Esercizi di s. Ignazio, tutti fondati sulla Scrittura e caratterizzati da diverse tappe (le quattro settimane) e da momenti forti per ogni tappa (le cosiddette meditazioni fondamentali) corrisponde alla dinamica generale della rivelazione, espressa in tutta la Scrittura e condensata in alcune pagine chiave, che tutto concentrano su Gesù Cristo, sul suo cammino e in particolare sulla sua umiliazione, nel senso ad es. di Fil 2,5-11.

    V’è quindi un’analogia tra la lettura continua della Scrittura e la dinamica degli Esercizi, che spinge alcuni direttori di Esercizi a far leggere molte pagine dell’Antico Testamento tra la prima e la seconda settimana, quando gli Esercizi completi sono fatti a tappe nello spazio di più anni.

    La dimenticanza pratica di questa omologia conduce talora a confondere la semplice lectio divina con gli Esercizi veri e propri, cioè ad accontentarsi di sostituire gli Esercizi con una semplice lectio divina, il che non è senza utilità, ma non può essere proposto come se fossero Esercizi, e non è quindi senza qualche inconveniente e danno spirituale.

    5. Come insegnare a vivere la liturgia della Parola come fondamento della Lectio divina? (una breve spiegazione su ognuno di questi suggerimenti)

    1. Praticarla personalmente

    2. Una breve omelia in ogni santa Messa

    3. Settimane di esercizi spirituali nelle parrocchie

    4. Lectio dvina per i giovani, finché giungano a specchiarsi e a sentirsi interpellati dal testo biblico

    5. Esercizi su libri e personaggi biblici, ma inserendoli nella dinamica degli esercizi!

    Conclusione

    Vorrei in conclusione citare alcune parole degli orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il primo decennio del 2000 “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia “.

    ” La Chiesa può affrontare il compito dell’evangelizzazione solo ponendosi, anzitutto e sempre, di fronte a Gesù Cristo, parola di Dio fatta carne…. solo il continuo rinnovato ascolto del Verbo della vita, solo la contemplazione costante del suo volto permetteranno ancora una volta alla Chiesa di comprendere chi è il Dio vivo e vero, ma anche chi è l’uomo…

    Solo seguendo l’itinerario della missione dell’inviato – dal seno del padre fino alla glorificazione alla destra di Dio, passando per l’abbassamento all’umiliazione del Messia – , sarà possibile per la Chiesa assumere uno stile missionario conforme a quello del servo, di cui essa è serva ( n.10).

    E ancora: ” Assolutamente centrale sarà approfondire il senso della festa e della liturgia, della celebrazione comunitaria attorno alla mensa della parola e dell’eucaristia, nel cammino di fede costituito dall’anno liturgico.

    … Potrà aiutarci in questo la valorizzazione – sia nella vita personale dei credenti sia in quella delle comunità cristiane – della pratica della Lectio divina, intesa come continua e intima celebrazione dell’alleanza con il Signore mediante un ascolto orante delle sacre Scritture, capace di trasformare i nostri cuori e di iniziare ognuno di noi all’arte della preghiera e della comunione. Va coltivato l’assiduo contratto, personale e comunitario, con la Bibbia, diffondendone il testo, promuovendone la conoscenza, anche con incontri e gruppi biblici, sostenendone una lettura sapienziale, aiutando a pregare con la Bibbia soprattutto nelle famiglie. La qualità sia della presidenza eucaristica, sia dell’omelia, sia della preghiera dei fedeli ne risulterà rafforzata, resa più aderente alla parola di Dio e agli eventi della storia letti alla luce della fede. E’ nostro modello la Vergine Maria, che accoglie fatti e parole ” meditandole nel suo cuore ” ( Luca 2,19 ) e rilegge la sua esistenza mediante immagini e testi della Scrittura ( confronta Luca 1,46-55 ).

    LA PREGHIERA PERSONALE DEL PRSBITERO

    (Ritiro ai sacerdoti di Milano ad Avila)


    Specifico il tema della nostra meditazione con una domanda:

    • c’è un cammino di preghiera personale?
    • C’è un cammino per il tipo di preghiera che si fa nella lectio divina?

    La risposta è assai importante per noi presbiteri.

    Vi propongo in proposito due riferimenti del 470 Sinodo diocesano.


    • Il n. 475 inizia così: Il presbitero è anzitutto discepolo ». Discepolo è colui che impara, che compie un cammino di apprendimento che non finisce mai, perché tutta la vita è discepolato.
    • Il n. 499 menziona la lectio divina come modo tipico della preghiera del prete: coltivi la lettura della Bibbia e si eserciti, in particolare, nella lectio divina .

    Tenendo presenti i due riferimenti sinodali, entriamo nel vivo della nostra riflessione.
    Mi è venuta in mente la mia prima conversazione ai preti della Diocesi, che ho tenuto nella Quaresima 1980, quando, avendo iniziato da poco il servizio episcopale, sentivo il bisogno di incontrare i presbiteri delle sette zone pastorali. Nella meditazione, poi trascritta col titolo Dalla coscienza battesimale alla coscienza presbiterale, descrivevo il cammino del prete come discepolo che cresce nella sua coscienza, passando dalla coscienza di catecumeno a quella di battezzato, quindi a quella di evangelizzatore e infine di responsabile di comunità. Delineavo questo quadruplice cammino di crescita in rapporto ai quattro Vangeli: Marco, il Vangelo del catecumeno; Matteo, il Vangelo del Catechista; Luca, il Vangelo dell’evangelizzatore; Giovann, il Vangelo del presbitero. Sottolineando le caratteristiche di ogni Vangelo, mostravo come a esse corrispondono diverse tappe della nostra coscienza di cristiano discepolo che matura verso il presbiterato, la pienezza della maturità; segnalavo pure le tappe o stati di preghiera che accompagnano i momenti della crescita secondo il ritmo dei quattro Vangeli, nell’ordine indicato.
    Vi confesso che, a quindici anni di distanza, il cammino suggerito da quella conversazione mi appare ancora pertinente e suscettibile di approfondimento.
    Non intendo tuttavia riprendere quanto avevo detto, ma cercare di cogliere come la gradualità avviene nel cammino della lectio divina. La lectio divina ha infatti un cammino nella vita del presbitero ed è importante valutare la tappa nella quale ciascuno si trova, per non sbagliare nell’impostazione.


    La lectio divina


    La Lettera della Pontificia commissione biblica L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, del 15 aprile 1993, ci offre una definizione autorevole della lectio divina:

    “è una lettura, individuale o comunitaria, di un passo più o meno lungo della Scrittura accolta come parola di Dio e che si sviluppa sotto lo stimolo dello Spirito in meditazione, preghiera e contemplazione” .


    Di fronte a tale citazione, molto bella e densa, mi chiedo: la lectio divina comporta delle tappe nel cammino spirituale, specialmente nel cammino di maturazione dalla coscienza battesimale alla coscienza presbiterale pienamente integrata?


    Credo di sì; ne esprimo tre. Nella prima prevale la lectio, nella seconda la meditatio, nella terza la contemplatio. Prevalenza significa che nella lectio divina non manca mai nessuno dei tre elementi, però gradualmente l’uno prevale sull’altro e quasi lo ingloba.


    * La prima tappa, che non si può saltare, vede necessariamente una certa priorità della “lectio “, perché si conosce poco la Scrittura e occorre
    perciò leggerla e rileggerla, situando la pagina o il brano nel contesto (biblico, storico, geografico), con l’aiuto di buoni commenti. In questa tappa siamo spesso molto indietro sia come popoio cristiano sia forse come presbiteri. La Sacra Scrittura è orecchiata ma non veramente conosciuta anche da laici colti e da preti. Sorge spontanea la domanda: santa Teresa di Gesù praticava la lectio divina? Nel tempo in cui viveva si respirava la reazione antiprotestante, che durerà parecchi secoli. Concretamente i laici non avevano nessun accesso alla Scrittura; soltanto le persone colte che studiavano il latino potevano leggere la Bibbia nella traduzione della Volgata. Infatti san Giovanni della Croce, che era prete ed era colto, cita molto la Scrittura, a differenza di Teresa. Tale condizionamento storico va tenuto presente.
    Oggi è diverso e sono certo che anche Teresa si dedicherebbe con molto impegno alla lectio divina, così come amava praticarla la sua discepola Teresa di Gesù Bambino, che approfittava di ogni parola o frase biblica, benché neppure lei, nel suo secolo, potesse avere tra le mani tutta la Scrittura.
    La nostra è una situazione storica privilegiata, perché ci è dato di attingere direttamente alle ricchezze dei testi sacri, secondo quel programma che Gesù tracciava ai discepoli di Emmaus: da Mosè ai Profeti ai Salmi.

    • Dunque la prima tappa è indispensabile e non si può tralasciarla pena il fabbricarsi un Cristo a propria immagine e somiglianza, secondo la propria fantasia e i propri sentimenti, non il Cristo rivelatosi nella storia e manifestatosi nella carne. Toccare la carne di Cristo avviene congiuntamente nella Scrittura e nell’Eucaristia e le due realtà non sono separabili; se si cerca di separarle si corrono gravi rischi nel cammino spirituale. È la tappa a cui ci invita la Chiesa, mediante il ciclo delle letture della messa e del breviario. Ricordo che sta per uscire il secondo ciclo delle letture bibliche del breviario ambrosiano; avremo così modo di leggere interamente la Scrittura anche nell’Ufficio divino.


    • La lectio è sempre accompagnata dalla meditatio-oratio, dalla meditazione in preghiera. È la seconda tappa.

    Quando l’esercizio della lectio è stato compiuto con serietà e per qualche tempo, la Scrittura ci diventa familiare e a poco a poco ci accorgiamo che la meditatio prevale. Il testo, cioè, comincia a essere noto e più facilmente e immediatamente offre comunicazione di messaggi. Ci si ferma più a lungo per gustano e assaporarlo nel suo messaggio fondamentale, che è Cristo crocifisso e risorto, continuamente espresso nelle molteplici esperienze raccontate dalla Bibbia. Comprendo cosa dice il testo a me e parlo con Gesù che mi parla.
    Il secondo grado della lectio divina è nutrito dall’apporto di alcune teologie bibliche, da forme di riflessione esegetica più ampia.

    • Nel terzo momento, se si è stati fedeli alle prime due tappe, prevale la contemplazione. È proprio di questo specifico momento che parla santa Teresa, quando lo scopre, dopo diciotto anni di fedeltà — faticosa, sofferta, non sempre uguale — a un’attenzione al messaggio.

    Viene dunque il giorno in cui il testo sembra diventare trasparente, illanguidendosi in qualche modo o nascondendosi. È questo un passaggio assai faticoso e cruciale, perché si può avere l’impressione di non essere più capaci della lectio divina e che la Scrittura non dica più nulla. Di tale passaggio hanno scritto sapientemente Teresa di Gesù e, sistematicamente, Giovanni della Croce, con la dottrina delle notti del senso e dello spirito.
    Ascoltiamo Giovanni nel cap. 13 del libro II della Salita del monte Carmelo, il cui contenuto è sintetizzato in questi termini:

    ‘Si parla dei segni che l’anima deve scorgere in sé per sapere qual è il momento in cui sia necessario che ella abbandoni la meditazione e il discorso per passare allo stato di contemplazione’.

    Non viene considerata inutile la tappa della meditazione o del discorso (lectio-meditatio), però si afferma che può giungere il tempo del passaggio. È assolutamente necessario che il maestro di preghiera sappia discernerlo.

    «Perché la dottrina esposta non rimanga oscura è necessario far intendere allo spirituale qual è il tempo eil momento in cui egli debba lasciare l’atto della meditazione discorsiva usando di immagini, forme e figure [la Bibbia è piena di immagini, forme, figure, simboli] perché non l’abbandoni né prima né dopo che lo richieda lo Spirito».
    L’abbandonarlo prima è certamente fonte di grave smarrimento, l’abbandonarlo dopo può portare a inutili fatiche.
    «Infatti come per andare a Dio è necessario rinunziare tempestivamente a quelle immagini, forme e figure, perché non siano d’impedimento, così non è conveniente lasciare prima del tempo la meditazione per via di immagini, affinché non si torni indietro»
    Poi il Santo indica i segni dai quali ci si accorge che è arrivato il momento del passaggio, passaggio oscuro, una vera notte, che può continuare per molto tempo, un passaggio in cui ci auguriamo di incontrare maestri di preghiera in grado di guidarci.

    La lectio divina del prete

    Questa dottrina vale, con le dovute proporzioni, per la lectio divina. È possibile che ci sia una situazione dello spirito in cui la lectio divina come esercizio personale del presbitero diventa contemplatio (san Giovanni della Croce parla di quiete, silenzio, assenza di immagini, adesione silenziosa al Signore, mentre come esercizio da insegnare è ancora fruttuosa usando immagini, simboli e messaggi.
    Il cammino di ciascuno non è il cammino di tutti, e chi è più avanti facilmente sa guidare altri a iniziarlo.
    A me pare che Giovanni della Croce voglia oggi esortarci: ricevete con gioia quel tesoro della Chiesa che è la lectio divina e insieme praticatela con tale impegno da giungere in qualche modo a superarne le prime tappe ed entrare nella notte del mistero di Dio. È la notte di cui cogliamo le vestigia e i raggi straordinari di santità in questo luogo.
    In proposito vorrei leggere di nuovo un passo di Giovanni della Croce:
    ‘Errano molto le persone spirituali che, dopo essersi esercitate ad avvicinarsi a Dio per mezzo di immagini, di forme e meditazioni, come si conviene ai principianti, quando Egli vuole invitarle a beni più spirituali, interiori e invisibili, togliendo loro il gusto e il sapore della meditazione discorsiva, restano perplesse e non osano, né sanno distaccarsi da questi modi palpabili, a cui sono abituate. [...] In questo tentativo esse si affaticano molto e ne ricavano poco o nessun vantaggio’ .
    Ci doni il Signore di percorrere un itinerario vero di orazione che ci porti a gustare qualcosa della verità del messaggio del Santo.

    Conclusione
    a. La lectio divina non è un metodo statico da imparare e basta, ma è un cammino, un itinerario che può condurre molto lontano e molto in alto. Nel silenzio ci domandiamo: sto davvero camminando? Sono discepolo in quanto prete? Continuo, cioè, a imparare la strada della lectio divina?
    b. Il cammino della lectio divina è parallelo a quello della crescita di fede, speranza e carità, della crescita della vita secondo lo Spirito. E un’espressione privilegiata della vita cristiana, con la quale tuttavia si confonde, costituisce un tutt’uno.
    Interrogarci sul nostro cammino di lectio divina equivale a interrogarci sul nostro cammino di fede, speranza, carità. Domanda ardua, che semplifico così: di che cosa godo e di che cosa mi rattristo? Perché nella risposta sta certamente una valutazione del nostro cammino secondo lo Spirito.
    c. È importante esaminarsi e farsi guidare da maestri di preghiera per non errare nel valutare il momento del nostro cammino, in modo da comprendere se la ripugnanza o la fatica che stiamo vivendo nella lectio divina deriva da pigrizia o da grazia, da negligenza o da dono di Dio. Lo stesso stato psicologico può essere determinato infatti da due ragioni diverse e occorre che qualcuno ci aiuti a discernere il cammino, onde non rischiare di fermarci o di tornare indietro.
    Noi siamo qui proprio per prendere coscienza della missione che ci è data dal Signore, per intercessione di Giovanni della Croce: essere noi per primi discepoli nel cammino della preghiera, molto carente oggi nella Chiesa e sommamente necessario e godere qualcosa della meta ditale cammino, che è la comunione profonda col Signore.

    LECTIO DIVINA su Lc 18,1-8 a cura deo PP. CARMELITANI ( dal sito www. lachiesa)

    Una vera preghiera: l’esempio della vedova

    1. Orazione iniziale

    Signore Gesù, invia il tuo Spirito, perché ci aiuti a leggere la Scrittura con lo stesso sguardo, con il quale l’ hai letta Tu per i discepoli sulla strada di Emmaus. Con la luce della Parola, scritta nella Bibbia, Tu li aiutasti a scoprire la presenza di Dio negli avvenimenti sconvolgenti della tua condanna e della tua morte. Così, la croce che sembrava essere la fine di ogni speranza, è apparsa loro come sorgente di vita e di risurrezione.
    Crea in noi il silenzio per ascoltare la tua voce nella creazione e nella Scrittura, negli avvenimenti e nelle persone, soprattutto nei poveri e sofferenti. La tua Parola ci orienti, affinché anche noi, come i due discepoli di Emmaus, possiamo sperimentare la forza della tua risurrezione e testimoniare agli altri che Tu sei vivo in mezzo a noi come fonte di fraternità, di giustizia e di pace. Questo noi chiediamo a Te, Gesù, figlio di Maria, che ci hai rivelato il Padre e inviato lo Spirito. Amen.

    2. Lettura

    a) Chiave di lettura:
    La liturgia di questa domenica ci pone dinanzi un testo del Vangelo di Luca che parla di
    preghiera, un tema assai caro a Luca. E’ la seconda volta che questo evangelista riporta parole di Gesù per insegnarci a pregare. La prima volta (Lc 11,1-13), introduce il testo del Padre Nostro e mediante paragoni e parabole, ci insegna che dobbiamo pregare sempre, senza mai stancarci. Ora, questa seconda volta (Lc 18,1-4), Luca ricorre di nuovo a parabole estratte dalla vita di ogni giorno per dare istruzioni sulla preghiera: la parabola della vedova e del giudice (18,1-8), del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14). Luca presenta le parabole in modo assai didattico. Per ognuna di esse, fornisce una breve introduzione che serve da chiave di lettura. Poi viene la parabola ed, infine, Gesù stesso applica la parabola alla vita. Il testo di questa domenica si limita alla prima parabola della vedova e del giudice (Lc 18,1-8). Nel corso della lettura è bene prestare attenzione a quanto segue: “Quali sono gli atteggiamenti delle persone che appaiono in questa parabola?”

    b) Una divisione del testo per aiutare a leggerlo:
    Luca 18,1: Una chiave che Gesù offre per capire la parabola
    Luca 18,2-3: Il contrasto tra il Giudice e la Vedova
    Luca 18,4-5: Il mutamento del giudice ed il perché di tale mutamento
    Luca 18, 6-8a: Gesù applica la parabola
    Luca 18, 8b: Una frase finale per provocare

    c) Il testo:
    1 Raccontò loro una parabola per mostrare che dovevano pregare sempre, senza stancarsi mai. 2 «In una città viveva un giudice che non temeva Dio e non si curava di nessuno. 3 Nella stessa città viveva una vedova, che andava da lui e gli chiedeva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. 4 Per un po’ di tempo il giudice non volle, ma alla fine disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non mi prendo cura degli uomini, 5 tuttavia le farò giustizia e così non verrà continuamente a seccarmi”». 6 E il Signore soggiunse: «Avete udito ciò che dice il giudice ingiusto? 7 E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che lo invocano giorno e notte? Tarderà ad aiutarli? 8 Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

    3. Momento di silenzio orante
    perché la Parola di Dio possa entrare in noi ed illuminare la nostra vita.

    4. Alcune domande
    per aiutarci nella meditazione e nell’orazione.
    a) Quale punto di questo testo ti è piaciuto di più?
    b) Quali sono gli atteggiamenti della vedova? O cosa colpisce di più in quello che lei fa e dice?
    c) Cosa colpisce nell’atteggiamento e nel parlare del Giudice? Perché?
    d) Quale applicazione Gesù fa della parabola?
    e) Cosa ci insegna la parabola sul modo di vedere la vita e le persone?

    5. Una chiave di lettura
    per approfondire maggiormente il tema.

    a) Il contesto storico:
    Nell’analisi del contesto storico del Vangelo di Luca, dobbiamo tener conto sempre di questa duplice dimensione: l’epoca di Gesù degli anni 30, e l’epoca dei destinatari del Vangelo degli anni 80. Queste due epoche influiscono, ciascuna a modo suo, nella redazione del testo e devono essere presenti nello sforzo che compiamo per scoprire il senso che le parole di Gesù hanno oggi per noi.

    b) Il contesto letterario:
    Il contesto letterario immediato ci presenta due parabole sulla preghiera: pregare con insistenza e perseveranza (la vedova ed il giudice) (Lc 18,1-8); pregare con umiltà e realismo (il fariseo ed il pubblicano) (Lc 18,9-14). Malgrado la loro differenza, queste due parabole hanno qualcosa in comune. Ci indicano che Gesù aveva un altro modo di vedere le cose della vita. Gesù scorgeva una rivelazione di Dio lì dove tutti scorgevano qualcosa di negativo. Per esempio, vedeva qualcosa di positivo nel pubblicano, di cui tutti dicevano: “Non sa pregare!” E nella vedova povera, di cui si diceva: “E’ cosi insistente che importuna perfino il giudice!” Gesù viveva così unito al Padre che tutto si trasformava per lui in fonte di preghiera. Sono molti i modi in cui una persona può esprimersi nella preghiera. Ci sono persone che dicono: “Non so pregare”, ma conversano con Dio tutto il giorno. Voi conoscete persone così?

    c) Commento del testo:
    Luca 18,1: La chiave per capire la parabola
    Luca introduce una parabola con la frase seguente: “Raccontò loro una parabola per mostrare che dovevano pregare sempre, senza stancarsi mai”. La raccomandazione di “pregare senza stancarsi” appare molte volte nel Nuovo Testamento (1 Tes 5,17; Rom 12,12; Ef 6,18; ecc). Era una caratteristica della spiritualità delle prime comunità cristiane. Ed anche uno dei punti in cui Luca insiste maggiormente, sia nel Vangelo come negli Atti. Se vi interessa scoprire questa dimensione negli scritti di Luca, fate un esercizio: leggete il Vangelo e gli Atti ed annotate tutti i versi in cui Gesù o altre persone stanno pregando. Vi sorprenderete!


    Luca 18,2-3: Il contrasto tra la vedova ed il giudice


    Gesù ci mostra due personaggi della vita reale: un giudice senza considerazione verso Dio e verso il prossimo, ed una vedova che non desiste dal lottare per i suoi diritti presso il giudice. Il semplice fatto che Gesù ci mostra questi due personaggi rivela che conosce la società del suo tempo. La parabola non solo presenta la povera gente che lotta nel tribunale per vedere riconosciuti i suoi diritti, ma lascia anche intravedere il contrasto violento tra i gruppi sociali. Da un lato, un giudice insensibile, senza religione. Da un altro, la vedova che sa a quale porta bussare per ottenere ciò che le è dovuto.
    Luca 18,4-5: Il cambiamento che avviene nel giudice ed il perché del cambiamento
    Per molto tempo, chiedendo la stessa cosa ogni giorno, la vedova non ottiene nulla dal giudice insensibile. Infine il giudice malgrado “non temesse Dio e non si curasse di nessuno” decide di prestare attenzione alla vedova e farle giustizia. Il motivo è: liberarsi da questa continua seccatura. Motivo ben interessato! Pero’ la vedova ottiene ciò che vuole! E’ questo un fatto della vita di ogni giorno, di cui Gesù si serve per insegnare a pregare.
    Luca 18,6-8: Un’applicazione della parabola
    Gesù applica la parabola: “Avete udito ciò che dice il giudice ingiusto? E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che lo invocano giorno e notte, anche se li fa aspettare?” Ed aggiunge che Dio farà giustizia tra breve. Se non fosse Gesù a parlarci, non avremmo il coraggio di paragonare Dio con un giudice nel loro atteggiamento morale. Ciò che importa nel paragone è l’atteggiamento della vedova che grazie alla sua insistenza, ottiene ciò che vuole.
    Luca 18,8b: Parole sulla fede
    Alla fine Gesù esprime un dubbio: “Ma il Figlio dell’Uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” Avremo il coraggio di aspettare, di avere pazienza, anche se Dio tarda a risponderci? E’ necessario avere molta fede per continuare a resistere e ad agire, malgrado il fatto di non vedere il risultato. Chi aspetta risultati immediati, si lascerà prendere dallo sgomento. In diversi altri punti dei salmi si parla di questa stessa resistenza dura e difficile dinanzi a Dio, fino a che Lui risponde (Sl 71,14; 37,7; 69,4; Lm 3,26). Nel citare il Salmo 80, San Pietro dice che per Dio un giorno è come mille anni (2Pd 3,8; Sl 90,4).

    d) Approfondimento: La preghiera negli scritti di Luca


    I. Gesù che prega nel Vangelo
    I vangeli ci presentano un’immagine di Gesù che prega, che vive in contatto permanente con il Padre. L’aspirazione di vita di Gesù è fare la volontà del Padre (Gv 5,19). Luca è l’evangelista che ci dice più cose sulla vita di preghiera di Gesù. Ci presenta Gesù in costante preghiera. Gesù pregava molto ed insisteva, in modo che anche la gente ed i suoi discepoli facessero lo stesso. Ed è nel confronto con Dio dove appare la verità e la persona si incontra con se stessa in tutta la sua realtà ed umiltà. Ecco alcuni momenti nel Vangelo di Luca in cui Gesù appare pregando:
    Lc 2,46-50: Quando ha dodici anni, va al Tempio, nella Casa del Padre
    Lc 3,21: Quando è battezzato ed assume la missione, prega
    Lc 4,1-2: Quando inizia la missione, passa quaranta giorni nel deserto
    Lc 4,3-12: Nell’ora della tentazione, affronta il diavolo con i testi della Scrittura
    Lc 4,16: Gesù è solito partecipare alle celebrazioni, nelle sinagoghe, il sabato
    Lc 5,16; 9,18: Cerca la solitudine del deserto, per pregare
    Lc 6,12: La sera prima di scegliere gli Apostoli, trascorre la notte pregando
    Lc 9,16; 24,30: Prega prima dei pasti
    Lc 9,18: Prima di parlare della realtà e della sua passione, prega
    Lc 9,28: Durante la crisi, sul Monte per pregare, è trasfigurato quando prega
    Lc 10,21: Quando il Vangelo viene rivelato ai piccoli, dice: “Ti ringrazio, Padre…”
    Lc 11,1: Pregando, sveglia negli apostoli la volontà di pregare
    Lc 22.32: Prega per Pietro, per aumentare la sua fede
    Lc 22,7-14: Celebra la Cena Pasquale con i suoi discepoli
    Lc 22,41-42: Nell’Orto degli Ulivi, prega, sudando sangue
    Lc 22,40.46: Nell’angoscia dell’agonia chiede ai suoi amici di pregare con lui
    Lc 23,34: Nel momento di essere inchiodato alla croce, chiede perdono per i suoi carnefici
    Lc 23,46; Sl 31,6: Nell’ora della morte, dice: “Nelle tue mani consegno il mio spirito”
    Lc 23,46: Gesù muore con sulle labbra il grido del povero
    Questo elenco di citazioni indica che per Gesù, la preghiera era intimamente unita alla vita, ai fatti concreti, alle decisioni che doveva prendere. Per essere fedele al progetto del Padre, cercava di rimanere da solo con lui. Di ascoltarlo. Nei momenti difficili e decisivi della sua vita, Gesù pregava i Salmi. Come qualsiasi altro giudeo pio, li conosceva a memoria. La recita dei Salmi non spense in lui lo spirito creativo. Anzi, Gesù inventò lui stesso un salmo: E’ il Padre Nostro. La sua vita è stata una preghiera perenne: “In ogni momento faccio ciò che il Padre mi chiede di fare!” (Gv 5,19.30). A lui si applica ciò che dice il Salmo: “… mentre io sono in preghiera!” (Sl 109,4)


    II. Le Comunità oranti negli Atti degli Apostoli


    Come avviene nel Vangelo, anche negli Atti, Luca parla molto spesso di preghiera. I primi cristiani sono coloro che continuano la preghiera di Gesù. A continuazione, un elenco di testi che in un modo o nell’altro, parlano di preghiera. Se osservate con molta attenzione, ne scoprirete anche altri:


    At 1,14: La comunità persevera in preghiera con Maria, la madre di Gesù
    At 1,24: La comunità prega per sapere come scegliere il sostituto di Giuda
    At 2,25-35: Pietro cita i salmi durante la predicazione
    At 2,42: I primi cristiani sono assidui nella preghiera
    At 2,46-47: Frequentano il tempio per lodare Dio
    At 3,1: Pietro e Giovanni vanno al tempio per la preghiera dell’ora nona
    At 3,8: Lo storpio curato loda Dio
    At 4,23-31: La comunità prega nella persecuzione
    At 5,12: I primi cristiani rimangono nel portico di Salomone (tempio)
    At 6,4: Gli apostoli si dedicano alla preghiera ed alla parola
    At 6,6: Pregano prima di imporre le mani sui diaconi
    At 7,59: Nell’ora della morte, Stefano prega: “Signore, ricevi il mio spirito”
    At 7,60: E prima Stefano prega: “Signore, non imputar loro questo peccato”
    At 8,15: Pietro e Giovanni pregano affinché i convertiti ricevano lo Spirito Santo
    At 8,22: Al peccatore viene detto: Pentiti e prega, così otterrai il perdono
    At 8,24: Simone dice: “Pregate voi per me il Signore, perché non mi accada nulla di ciò che avete detto”
    At 9,11: Paolo sta pregando
    At 9,40: Pietro prega per la guarigione di “Gazzella”
    At 10,2: Cornelio pregava Dio costantemente
    At 10,4: Le preghiere di Cornelio salgono al cielo e sono ascoltate
    At 10,9: Nell’ora sesta, Pietro prega sulla terrazza della casa
    At 10,30-31: Cornelio prega nell’ora nona, e la sua preghiera è ascoltata
    At 11,5: Pietro informa la gente di Gerusalemme: “Lui stava in preghiera”!
    At 12,5: La comunità prega quando Pietro è in carcere
    At 12,12: In casa di Maria, ci sono molte persone raccolte in preghiera
    At 13,2-3: La comunità prega e digiuna prima di inviare Paolo e Barnaba
    At 13,48: I pagani si rallegrano e glorificano la Parola di Dio
    At 14,23: I missionari pregano per designare i coordinatori delle comunità
    At 16,13: A Filippo, accanto al fiume, c’è un luogo di preghiera
    At 16,16: Paolo e Sila andavano alla preghiera
    At 16,25: Di notte, Paolo e Sila cantano e pregano in prigione
    At 18,9: Paolo ha una visione del Signore durante la notte
    At 19,18: Molti confessano i loro peccati
    At 20,7: Erano riuniti per la frazione del pane (Eucaristia)
    At 20,32: Paolo raccomanda a Dio i coordinatori delle comunità
    At 20,36: Paolo prega in ginocchio con i coordinatori delle comunità
    At 21,5: Si inginocchiano sulla spiaggia per pregare
    At 21,14: Dinanzi all’inevitabile, la gente dice: Sia fatta la volontà di Dio!
    At 21,20: Glorificano Dio per quanto fatto da Paolo
    At 21,26: Paolo va al tempio a compiere una promessa
    At 22,17-21: Paolo prega nel tempio, ha una visione e parla con Dio
    At 23,11: In carcere a Gerusalemme: Paolo ha una visione di Gesù
    At 27,23ss: Paolo ha una visione di Gesù durante la tormenta sul mare
    At 27,35: Paolo prende il pane e rende grazie a Dio prima di arrivare a Malta
    At 28,8: Paolo prega sul padre di Publio colpito dalla febbre
    At 28,15: Paolo rende grazie a Dio vedendo i fratelli a Pozzuoli

    Questo elenco ci indica due cose molto significative. Da una parte che i primi cristiani conservano la liturgia tradizionale del popolo. Come Gesù, pregano in casa in famiglia, nella comunità e nella sinagoga ed insieme alla gente nel tempio. D’altro canto, oltre alla liturgia tradizionale, sorge tra di loro un nuovo modo di pregare in comunità con un nuovo contenuto. La radice di questa nuova preghiera nasce dalla nuova esperienza di Dio in Gesù e dalla coscienza chiara e profonda della presenza di Dio in mezzo alla comunità: “In lui viviamo, ci moviamo e siamo!” (At 17,28)

    6. Preghiera: Salmo 63 (62)

    Il desiderio di Dio che si esprime nella preghiera
    O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco,
    di te ha sete l’anima mia,
    a te anela la mia carne,
    come terra deserta,
    arida, senz’acqua.
    Così nel santuario ti ho cercato,
    per contemplare la tua potenza e la tua gloria.
    Poiché la tua grazia vale più della vita,
    le mie labbra diranno la tua lode.
    Così ti benedirò finché io viva,
    nel tuo nome alzerò le mie mani.
    Mi sazierò come a lauto convito,
    e con voci di gioia ti loderà la mia bocca.
    Quando nel mio giaciglio di te mi ricordo
    e penso a te nelle veglie notturne,
    a te che sei stato il mio aiuto,
    esulto di gioia all’ombra delle tue ali.
    A te si stringe l’anima mia
    e la forza della tua destra mi sostiene.
    Ma quelli che attentano alla mia vita
    scenderanno nel profondo della terra,
    saranno dati in potere alla spada,
    diverranno preda di sciacalli.
    Il re gioirà in Dio,
    si glorierà chi giura per lui,
    perché ai mentitori verrà chiusa la bocca.

    7. Orazione finale

    Signore Gesù, ti ringraziamo per la tua Parola che ci ha fatto vedere meglio la volontà del Padre. Fa’ che il tuo Spirito illumini le nostre azioni e ci comunichi la forza per eseguire quello che la Tua Parola ci ha fatto vedere. Fa’ che noi, come Maria, tua Madre, possiamo non solo ascoltare ma anche praticare la Parola. Tu che vivi e regni con il Padre nell’unità dello Spirito Santo, nei secoli dei secoli. Amen.

    UN METODO MAI TRAMONTATO

    Il culto è di due specie: esteriore e interiore. Il culto esterno però è ordinato da quello interiore: infatti i sacramenti della Chiesa, le lodi esteriori e tutto l’apparato delle cerimonie sono ordinati a edificare le disposizioni interiori dell’anima. Perciò il compito principale della vita religiosa di tutti i cristiani deve tendere a venerare Dio con gli atti interiori; sebbene non si debbano trascurare neppure gli atti esterni, soprattutto quelli ai quali si è obbligati. Ebbene, gli atti interni sono questi: leggere, pregare, meditare e contemplare, i quali appartengono all’intelletto; e mediante questi nascono la speranza, la carità, la devozione e tutti gli altri atti che appartengono alle facoltà affettive, in modo che l’uomo divenga perfetto nella conoscenza e nell’amore di Dio.  (…leggi tutto)

    OLTRE LA LECTIO, VERSO L’ACTIO E LA COLLACTIO

    Oggi, grazie a Dio, viene ripresa nella Chiesa l’antica pratica della lectio divina. Essa è ormai nota a tutti. La sua metodologia è molto varia, ma sostanzialmente si articola in varie tappe: la lectio, ossia l’ascolto e lo studio della Parola di Dio; la meditatio, la sua accoglienza e il confronto con la propria vita; l’oratio, la preghiera che sgorga dall’ascolto; la contemplatio, la comunione con Dio. È un dono immenso dello Spirito, di cui siamo grati.

    Tuttavia nella lectio spesso ci si ferma allo studio, alla meditatio, forse si giunge alla oratio, difficilmente alla contemplatio. Occorre andare oltre e spingersi fino all’actio o l’operatio, la vita e la testimonianza suscitate dalla Parola. Non basta ascoltare, leggere, studiare le Scritture. Non basta neppure meditarle o pregarle. La Parola accolta domanda la piena adesione, il totale abbandono a quanto Dio in essa manifesta. Essa richiede di essere tradotta in vita, coerentemente con l’insegnamento evangelico: il buon ascoltatore della Parola è colui che la mette in pratica (cf. Mt 7, 24). Solo a queste condizioni la Parola può esprimere tutta la sua forza trasformante. La lettera di Giacomo ammonisce: «Accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le vostre anime. Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi» (Gc 1, 21-22).

    E infine la collatio. La Parola ascoltata e vissuta domanda di comunicare i frutti da essa prodotti nella vita, delle esperienze che essa suscita. Anche in questo i fondatori e le fondatrici sono un modello. Essi non si sono inoltrati solitari sulle vie della Parola, ma sono stati capaci di guidare altri sulle medesime strade, di renderli partecipi della medesima esperienza e di orientarli, assieme a loro, verso il Vangelo, per fare di tutti un’unica Parola vivente.

    Anche oggi, come all’origine del nostro Istituto, la comunità religiosa sarà il frutto della costante comunione tra persone fecondate dalla Parola carismatica, tra “parole di Dio vive”.

    VIVERE IL VANGELO PER VIVERE IL CARISMA

    Praticare così la lectio divina ci porta anche al rinnovamento del nostro carisma, in continuità con l’esperienza dei nostri fondatori e fondatrici. Seguire le loro orme significa lasciarci condurre dallo Spirito, con la loro stessa docilità, là dove loro si sono lascianti condurre e dove ha avuto inizio il loro cammino carismatico: al Vangelo.

    Se i carismi e gli istituti possono essere paragonati a fiori sbocciati dal Vangelo, di certo essi conserveranno o ritroveranno la loro freschezza, e quindi saranno pienamente se stessi, nella misura in cui saranno capaci di andare alla radice da cui sono nati, immergendosi nuovamente nell’intero Vangelo e nella completezza del mistero di Cristo.

    A volte, guardando al giardino della Chiesa, si può avere l’impressione che tanti “fiori” siano appassiti. Per ridare vita al proprio “fiore”, al proprio carisma, è inutile soffiare sui petali, per rimanere nell’immagine, o puntellarli in modo che la corolla stia voltata in alto. È un’operazione effimera e inutile. Perché il fiore riabbia vita bisogna intervenire alla radice, non sulla corolla. Bisogna dare acqua alle radici. Fuori metafora. Si tenta in tutti i modi di salvare l’identità della propria spiritualità e lo specifico del proprio istituto studiando il proprio particolare, enfatizzandolo, cercando di proteggerlo da pretese ingerenze esterne… È un lavoro valido ma insufficiente. Occorre il coraggio di andare più in profondità. Occorre ritrovare la pienezza di vita evangelica che alimenta quella determinata spiritualità. L’acqua e l’humus fecondo sono comuni a tutti i fiori, quale che sia la loro varietà. Occorre quindi che tutti i carismi per essere loro stessi rimangano in costante contatto con la fonte da cui tutti sono sgorgati.

    Se i fondatori e le fondatrici appaiono parole dell’unica Parola, aspetti particolari della totalità del Vangelo, ogni istituto deve tornare ad essere parola nell’unica Parola. Si tratta di immergere nuovamente la “parola” evangelica su cui è nata ogni famiglia religiosa e che la alimenta, nell’intero Vangelo. Vivendo il Vangelo in pienezza si avrà poi luce per cogliere la particolare dimensione evangelica su cui si è innestato il proprio istituto.

    È un cammino da percorrere in comunione con le altre vocazioni, con la Chiesa intera. Se ogni istituto è nato nella Chiesa e per la Chiesa, per vivere e crescere ha intrinsecamente bisogno di una comunione vitale con tutte le diverse realtà carismatiche all’interno della Chiesa-comunione. Solo nell’unità dell’insieme si può cogliere pienamente il valore di ciascun particolare. Di qui il bisogno di attuare una unità sempre più profonda e concreta tra i membri dei differenti istituti di vita consacrata e con le diverse vocazioni ecclesiali: laici, presbiteri, vescovi, gruppi, movimenti, associazioni, e insieme con loro ritrovare la radice evangelica del vivere cristiano.

    Nell’unità tra di loro ricompongono l’unico Vangelo, la Parola, il Verbo. Significative le parole rivolte da Giovanni Paolo II ai religiosi: «La Chiesa (…) accoglie e nutre nel proprio seno Ordini e Istituti di stile tanto diverso, perché tutti insieme contribuiscano a rivelare la variegata natura e il polivalente dinamismo del Verbo di Dio incarnato e della stessa Comunità dei credenti in Lui» .

    p. FABIO CIARDI  OMI

    STUDIARE SILLABE PREZIOSE

    Intervista a

    FRANCESCO ROSSI DE GASPERIS S.J. *

    Mi si domanda qualche illustrazione degli studi biblici compiuti da Carlo Maria Martini, delle sue ricerche, del suo approccio ai testi delle Scritture. Di queste cose posso parlare, come so, solamente a posteriori, dal momento che non sono mai stato un compagno di studi teologici e biblici di Carlo Maria. Pur essendo quasi coetanei (io sono più vecchio di quattro mesi), e pur essendo entrati nel noviziato della Compagnia nello stesso anno 1944, padre Carlo Maria Martini apparteneva alla Provincia Torinese, mentre io appartenevo alla Provincia Romana.

    So che egli ha studiato teologia nella Compagnia di Gesù a Chieri, e che era stato destinato a diventare professore di quella facoltà, tanto che gli fu risparmiato persino il periodo di “magistero”, che noi normalmente inframezziamo tra gli studi filosofici e quelli teologici. Di conseguenza, venne ordinato sacerdote il 13 luglio 1952; dunque dopo soli otto anni di vita religiosa, mentre io, per esempio, sono stato ordinato il 6 luglio 1957.

    In vista della sua destinazione all’insegnamento, Carlo Maria fu mandato a Roma per ottenere un dottorato in teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Il risultato di questa sua prima missione di studio è consegnato nel volume: Il problema storico della risurrezione negli studi recenti (Analecta Gregoriana, 104), Libreria Editrice dell’Università Gregoriana, Roma 1959.

    Ho sentito dire che, poiché il suo insegnamento a Chieri sembrava ad alcuni “troppo avanzato”, il giovane professore venne indirizzato a più specializzati studi biblici, presso il Pontificio Istituto Biblico.

    Di nuovo studente a Roma, vi conseguiva il dottorato in Sacra Scrittura con una tesi di critica testuale, pubblicata poi con il titolo: Insight. A Study of Human Understanding, di Bernard J. F. Lonergan. Nel pensiero e nel discorso di Lonergan egli respirava a pieni polmoni l’aria pulita di un’intelligenza obbediente al vero e alla realtà, che si conosce solamente nei giudizi veri. Mi sembra di intravedere in questa consuetudine con il pensiero di Lonergan un segreto della fecondità della vita e del ministero del cardinale arcivescovo Martini.

    Professore di critica testuale al Pontificio Istituto Biblico dal 1962, padre Martini curava, nel 1964, una nuova edizione del Novum Testamentum graece et latine di A. Merk, e diveniva membro del comitato che pubblica il Novum Testamentum Graece di E. Nestle – K. Aland (27a edizione, 1995), identico alla quarta edizione (1993) di The Greek New Testament.

    Fino al 29 dicembre 1979, quando venne nominato arcivescovo di Milano da Giovanni Paolo II, padre Martini ha tenuto la cattedra di critica testuale presso l’Istituto Biblico di Roma, di cui è stato anche Rettore per diversi anni, prima di essere nominato Rettore anche della Pontificia Università Gregoriana.

    L’interesse di padre Martini per la Bibbia, nello spazio di diciassette anni, tuttavia, oltre a essere focalizzato sul testo del Nuovo Testamento, si è esteso specialmente alla testimonianza della comunità cristiana primitiva, studiata nel libro degli Atti degli Apostoli, di cui pubblicava alcuni commentari, specialmente uno molto apprezzato per la collana della nuovissima versione della Bibbia dai testi originali, delle Edizioni Paoline (1970).

    Egli rivedeva pure ampiamente la terza edizione dell’introduzione generale alla Bibbia dell’Editrice Elle Di Ci (Il Messaggio della salvezza, vol. I, Leumann, Torino 1968). Un’altra ottima introduzione alla Sacra Scrittura è quella che egli ha diretto con Luciano Pacomio (I Libri di Dio, Marietti, Torino 1975).

    Alcuni dei suoi più importanti articoli esegetici di questo periodo sono stati ripubblicati, all’indomani della sua nomina ad arcivescovo, dal Pontificio Istituto Biblico, nel volume 93 degli Analecta Biblica (La parola di Dio alle origini della Chiesa, Roma 1980). Tra di essi non manca di riapparire l’interesse originario del giovane teologo per la risurrezione di Gesù.

    Improvvisamente e inaspettatamente, da ventidue anni a oggi, la diaconia della Parola di Dio prestata da questo studioso del testo neotestamentario si è aperta, da un terreno molto limitato, riservato agli iniziati, a tutto il popolo di Dio. Essa partiva ormai da un osservatorio ben diverso da quello della piccola stanza di un istituto romano, e si trasferiva nella sede arcivescovile di una delle più grandi diocesi cattoliche del mondo.

    A partire dalle prime due lettere pastorali dirette al clero e ai fedeli dell’arcidiocesi ambrosiana per gli anni pastorali 1980- 81 (La dimensione contemplativa della vita) e 1981-82 (In principio la Parola), l’esegesi di Carlo Maria Martini, senza cessare di passare per lo scrutinio della scienza, si è offerta a tutte le istanze del ministero pastorale di un grande vescovo; un ministero che fa pensare a quello dei pastori della Chiesa, dei padri e dei dottori. La missione episcopale nella Chiesa di Dio pellegrina a Milano ha fatto sbocciare e ha rivelato nello studioso del testo del Nuovo Testamento la statura pienamente adulta dell’uomo di Chiesa.

    Gli scritti, le omelie, gli articoli, gli interventi, le iniziative a sfondo biblico del cardinale Martini, di questi ultimi due decenni, trasmessi in tante lingue e in molti Paesi, sono diventati punti di riferimento e luoghi di consolazione per una grande moltitudine di uomini e di donne, tormentati dalla nostalgia di una vita evangelica in questo mondo travagliato tra la fine del secondo millennio e gli albori del terzo. Sono testi noti a tutti, e io non debbo parlarne qui.

    Qui vorrei ricordare solamente che Carlo Maria ci confessò una volta che, durante un certo periodo di tempo, egli soleva leggere ogni giorno qualche pagina del volume, non poco impegnativo, di un comune nostro maestro gesuita: Insight. A Study of Human Understanding, di Bernard J. F. Lonergan. Nel pensiero e nel discorso di Lonergan egli respirava a pieni polmoni l’aria pulita di un’intelligenza obbediente al vero e alla realtà, che si conosce solamente nei giudizi veri. Mi sembra di intravedere in questa consuetudine con il pensiero di Lonergan un segreto della fecondità della vita e del ministero del cardinale arcivescovo Martini.

    Come Lonergan insegna, la vera intelligenza comincia scrutando senza posa, fino ai minimi dettagli, i dati dell’esperienza. Nella sua tesi sul Papiro Bodmer XIV (pp. XIV.VI), Martini si rifaceva a un testo che Erasmo da Rotterdam premetteva alla sua quarta edizione del Nuovo Testamento, del 1527. Egli ricordava quanta difficoltà e quanto sudore costasse la diligenza nell’occuparsi di tali minuzie. Se però una smile attenzione a sillabe e vocaboli è disprezzata da alcuni, i quali la ritengono troppo umile e puerile, Erasmo non se ne faceva impressionare. Consapevole come era della grande importanza del campo della teologia e di quanta riverenza sia dovuta ai libri sacri, egli aveva deciso di dedicarsi a ciò che in un tale compito era più piccolo.

    Da vescovo, Carlo Maria ha continuato a tener conto dei più piccoli dettagli della storia, della società, della politica e delle coscienze umane; dei credenti e dei non credenti (anche di quel “non credente” che è in lui); delle città e dell’internazionalità; dei carcerati e del mondo laico; eccetera.

    La vigilante e analitica attenzione al “particolare” in vista della “totalità” lo ha reso attento non soltanto a Gerusalemme e a Israele, ma lo ha preservato da ogni giudizio ‘con-clusivamente es-clusivo’, e dalle ideologie intolleranti, che sono proprie di ogni concettualismo conservatore. Egli è rimasto sempre irrevocabilmente aperto al dialogo con ogni pensiero e ogni mondo; amante della verità dei giudizi, molto più che delle loro “certezze”; una verità non raggiungibile mai da misteriose “intuizioni” immediate, ma da ricercare storicamente e da raggiungere laboriosamente e prudentemente, “provando e riprovando”, e progressivamente verificando “intelligenze e comprensioni”, senza impantanarsi nelle sabbie mobili di un mondo di concetti immutabili, immediatamente e automaticamente astratti.

    Solamente con questo tipo di intelligenza anche un Vescovo si può permettere di sognare. Basterà ricordare il discorso da lui tenuto nella cattedrale di Roma agli inizi dell’anno giubilare 2000, su invito del cardinale Camillo Ruini, sul significato di Gesù Cristo per la sua vita (cf. Rivista Diocesana di Roma 4, 1997, pagg. 302-311). In quell’occasione, egli ci ha raccontato il suo cammino di credente e di discepolo di Gesù attraverso l’oscura notte della ricerca critica, e ha reso una testimonianza commovente del proprio impegno e della devozione personale al Signore, ripercorrendo le tappe scientifiche ed esistenziali per le quali è passato, attraverso la sfida e la prova del dubbio fino a una fede in lui, adulta e pienamente consapevole.

    La sua testimonianza di uomo intelligente di Dio e della Chiesa nella storia degli uomini e delle donne di oggi mi suggerisce di non definirlo semplicemente un “biblista”, chiuso in una biblioteca di ricerca. Carlo Maria Martini è stato e rimane “un Vescovo-diacono della Parola di Dio per la Chiesa del nostro tempo”, di quella Parola che è Gesù il Natzoreo, il Risorto Messia d’Israele e delle nazioni, di cui hanno parlato per secoli Mosè, i Profeti e gli Scritti (la TaNa”Kh) d’Israele.

    Del Pontificio Istituto Biblico di Gerusalemme

    «Senza paure davanti alla Bibbia»

    LA PAROLA NELLA COMUNITA’

    E NELLA STORIA


    Come si esprime la Parola nella vita?

    La Parola domanda di inserirsi sempre di nuovo dentro le nostre parole e nella nostra vita. Essa vuole farsi testimonianza, attraverso alcuni passi progressivi.

    Anzitutto domanda umilmente di diventare “dono mutuo” tra di noi! La comunione esige di concretarsi nella comunicazione. Dobbiamo comunicarci tra di noi anzitutto la parola di Dio: “La parola di Cristo dimori tra di voi abbondantemente” (Lettera ai Colossesi 3,16).

    Con la Parola e nella Parola ci si edifica a vicenda, comunicandoci le rispettive reazioni e risonanze suscitate dallo Spirito. Ci si critica, anche, e ci si corregge a vicenda. La correzione fraterna autentica è una realtà profondamente evangelica.

    Siamo tutti responsabili gli uni per gli altri, tutti umili ascoltatori della Parola e bisognosi di mutua comunicazione nella fede. Solo per tale via si arriva a costruire la comunità nella comunione.

    Nasce la comunità come la realtà in cui crediamo, testimoniamo la fede e la diffondiamo missionariamente: “La parola del Signore riecheggia per mezzo vostro” (1 Lettera ai Tessalonicesi 1,8); “La nostra lettera siete voi” (2 Lettera ai Corinzi 3,2).

    Allenandosi a una più intensa comunicazione, le nostre comunità si abilitano a interpretare più efficacemente, nella luce della Parola, le diverse situazioni umane. Davanti a urgenti interpellanze provenienti dal mondo del lavoro, dalle nuove circostanze in cui vive la famiglia, dalla inquieta condizione dei giovani e delle donne, per citare solo alcuni casi significativi, le nostre comunità si trovano mute e impacciate, perché non sono abituate a un costante confronto, in cui il riferimento alla parola di Dio si intreccia con il riferimento alla concreta situazione umana vista in tutta la sua complessità e in tutte le sue sfaccettature.

    Solo in questo confronto la Parola rivela e attua la sua capacità di essere la “verità”, cioè il senso profondo e la salvezza integrale della storia umana. Non serve la Parola chi la ripete soltanto meccanicamente.

    A partire dalla comunità bisogna dunque leggere e decifrare la storia con la Parola. Ciò richiede tempo, pazienza, dialogo. Ma bisogna mettersi per questa strada e saper uscire fuori, anche lontano: interpretare le religioni del mondo, la religiosità popolare, le culture e le vicende culturali dei popoli e delle minoranze, le sofferenze e le ansie della nostra civiltà della tecnica, i fermenti nuovi, gli echi del passato e del futuro.

    Contro la tendenza a spegnere fermenti di vita, bisogna con la forza della Parola risuscitare i morti, ridare memoria e speranza. In un’epoca di disperati e senza senso, di smarriti in un universo che sembra spegnersi, solo la Parola dura in eterno, supera e salva ciò che muore.

    La Parola, che si incarna nella vita, tocca le situazioni difficili del nostro tempo.

    Carlo M. card. Martini, In principio la Parola, Milano 1981, 66-68


    MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI


    PER LAXXI GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ

    (9 APRILE 2006)


    “Lampada per i miei passi è la tua

    parola,luce sul mio cammino” (Sal 118[119], 105)


    Cari giovani!

    Nel rivolgermi con gioia a voi che state preparandovi alla XXI Giornata Mondiale della Gioventù, rivivo nel mio animo il ricordo delle arricchenti esperienze fatte nell’agosto dello scorso anno in Germania. La Giornata di quest’anno verrà celebrata nelle diverse Chiese locali e sarà un’occasione opportuna per ravvivare la fiamma di entusiasmo accesa a Colonia e che molti di voi hanno portato nelle proprie famiglie, parrocchie, associazioni e movimenti. Sarà al tempo stesso un momento privilegiato per coinvolgere tanti vostri amici nel pellegrinaggio spirituale delle nuove generazioni verso Cristo.

    Il tema che propongo alla vostra considerazione è un versetto del Salmo 118 [119]: “Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino” (v. 105). L’amato Giovanni Paolo II ha commentato così queste parole del Salmo: “L’orante si effonde nella lode della Legge di Dio, che egli adotta come lampada per i suoi passi nel cammino spesso oscuro della vita” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XXIV/2, 2001, p. 715).

    Dio si rivela nella storia, parla agli uomini e la sua parola è creatrice. In effetti, il concetto ebraico “dabar”, abitualmente tradotto con il termine “parola”, sta a significare tanto parola che atto. Dio dice ciò che fa e fa ciò che dice. Nell’Antico Testamento annuncia ai figli d’Israele la venuta del Messia e l’instaurazione di una “nuova” alleanza; nel Verbo fatto carne Egli compie le sue promesse. Lo evidenzia bene anche il Catechismo della Chiesa Cattolica: “Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, è la Parola unica, perfetta e definitiva del Padre, il quale in lui dice tutto, e non ci sarà altra parola che quella” (n. 65).

    Lo Spirito Santo, che ha guidato il popolo eletto ispirando gli autori delle Sacre Scritture, apre il cuore dei credenti all’intelligenza di quanto è in esse contenuto. Lo stesso Spirito è attivamente presente nella Celebrazione eucaristica quando il sacerdote, pronunciando “in persona Christi” le parole della consacrazione, converte il pane e il vino nel Corpo e Sangue di Cristo, perché siano nutrimento spirituale dei fedeli. Per avanzare nel pellegrinaggio terreno verso la Patria celeste, abbiamo tutti bisogno di nutrirci della parola e del pane di Vita eterna, inseparabili tra loro!

    Gli Apostoli hanno accolto la parola di salvezza e l’hanno tramandata ai loro successori come un gioiello prezioso custodito nel sicuro scrigno della Chiesa: senza la Chiesa questa perla rischia di perdersi o di frantumarsi. Cari giovani, amate la parola di Dio e amate la Chiesa, che vi permette di accedere a un tesoro di così alto valore introducendovi ad apprezzarne la ricchezza.


    Amate e seguite la Chiesa, che ha ricevuto dal suo Fondatore la missione di indicare agli uomini il cammino della vera felicità. Non è facile riconoscere ed incontrare l’autentica felicità nel mondo in cui viviamo, in cui l’uomo è spesso ostaggio di correnti di pensiero, che lo conducono, pur credendosi “libero”, a perdersi negli errori o nelle illusioni di ideologie aberranti. E’ urgente “liberare la libertà” (cfr Enciclica Veritatis splendor, 86), rischiarare l’oscurità in cui l’umanità sta brancolando.

    Gesù ha indicato come ciò possa avvenire: “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8, 31-32). Il Verbo incarnato, Parola di Verità, ci rende liberi e dirige la nostra libertà verso il bene. Cari giovani, meditate spesso la parola di Dio, e lasciate che lo Spirito Santo sia il vostro maestro. Scoprirete allora che i pensieri di Dio non sono quelli degli uomini; sarete portati a contemplare il vero Dio e a leggere gli avvenimenti della storia con i suoi occhi; gusterete in pienezza la gioia che nasce dalla verità. Sul cammino della vita, non facile né privo di insidie, potrete incontrare difficoltà e sofferenze e a volte sarete tentati di esclamare con il Salmista: “Sono stanco di soffrire” (Sal 118 [119], v. 107). Non dimenticate di aggiungere insieme con lui: “Signore, dammi vita secondo la tua parola… La mia vita è sempre in pericolo, ma non dimentico la tua legge” (ibid., vv. 107.109). La presenza amorevole di Dio, attraverso la sua parola, è lampada che dissipa le tenebre della paura e rischiara il cammino anche nei momenti più difficili.

    Scrive l’Autore della Lettera agli Ebrei: “La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (4,12). Occorre prendere sul serio l’esortazione a considerare la parola di Dio come un’”arma” indispensabile nella lotta spirituale; essa agisce efficacemente e porta frutto se impariamo ad ascoltarla, per poi obbedire ad essa. Spiega il Catechismo della Chiesa Cattolica: “Obbedire (ob-audire) nella fede è sottomettersi liberamente alla Parola ascoltata, perché la sua verità è garantita da Dio, il quale è la Verità stessa” (n. 144). Se Abramo è il modello di questo ascolto che è obbedienza, Salomone si rivela a sua volta un ricercatore appassionato della sapienza racchiusa nella Parola. Quando Dio gli propone: “Chiedimi ciò che io devo concederti”, il saggio re risponde: “Concedi al tuo servo un cuore docile” (1 Re 3,5.9). Il segreto per avere “un cuore docile” è di formarsi un cuore capace di ascoltare. Ciò si ottiene meditando senza sosta la parola di Dio e restandovi radicati, mediante l’impegno di conoscerla sempre meglio.

    Cari giovani, vi esorto ad acquistare dimestichezza con la Bibbia, a tenerla a portata di mano, perché sia per voi come una bussola che indica la strada da seguire. Leggendola, imparerete a conoscere Cristo. Osserva in proposito San Girolamo: “L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo” (PL 24,17; cfr Dei Verbum, 25). Una via ben collaudata per approfondire e gustare la parola di Dio è la lectio divina, che costituisce un vero e proprio itinerario spirituale a tappe. Dalla lectio, che consiste nel leggere e rileggere un passaggio della Sacra Scrittura cogliendone gli elementi principali, si passa alla meditatio, che è come una sosta interiore, in cui l’anima si volge a Dio cercando di capire quello che la sua parola dice oggi per la vita concreta. Segue poi l’oratio, che ci fa intrattenere con Dio nel colloquio diretto, e si giunge infine alla contemplatio, che ci aiuta a mantenere il cuore attento alla presenza di Cristo, la cui parola è “lampada che brilla in luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori” (2 Pt 1,19). La lettura, lo studio e la meditazione della Parola devono poi sfociare in una vita di coerente adesione a Cristo ed ai suoi insegnamenti.

    Avverte San Giacomo: “Siate di quelli che mettono in pratica la Parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi. Perché se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la Parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena s’è osservato, se ne va, e subito dimentica com’era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla” (1,22-25).

    Chi ascolta la parola di Dio e ad essa fa costante riferimento poggia la propria esistenza su un saldo fondamento. “Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica – dice Gesù – è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia” (Mt 7,24): non cederà alle intemperie.

    Costruire la vita su Cristo, accogliendone con gioia la parola e mettendone in pratica gli insegnamenti: ecco, giovani del terzo millennio, quale dev’essere il vostro programma! E’ urgente che sorga una nuova generazione di apostoli radicati nella parola di Cristo, capaci di rispondere alle sfide del nostro tempo e pronti a diffondere dappertutto il Vangelo. Questo vi chiede il Signore, a questo vi invita la Chiesa, questo il mondo – anche senza saperlo – attende da voi! E se Gesù vi chiama, non abbiate paura di rispondergli con generosità, specialmente quando vi propone di seguirlo nella vita consacrata o nella vita sacerdotale. Non abbiate paura; fidatevi di Lui e non resterete delusi.

    Cari amici, con la XXI Giornata Mondiale della Gioventù, che celebreremo il prossimo 9 aprile, Domenica delle Palme, intraprenderemo un ideale pellegrinaggio verso l’incontro mondiale dei giovani, che avrà luogo a Sydney nel luglio 2008. Ci prepareremo a questo grande appuntamento riflettendo insieme sul tema Lo Spirito Santo e la missione, attraverso tappe successive. Quest’anno l’attenzione si concentrerà sullo Spirito Santo, Spirito di verità, che ci rivela Cristo, il Verbo fatto carne, aprendo il cuore di ciascuno alla Parola di salvezza, che conduce alla Verità tutta intera. L’anno prossimo, 2007, mediteremo su un versetto del Vangelo di Giovanni: “Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (13,34) e scopriremo ancor più a fondo come lo Spirito Santo sia Spirito d’amore, che infonde in noi la carità divina e ci rende sensibili ai bisogni materiali e spirituali dei fratelli. Giungeremo, infine, all’incontro mondiale del 2008, che avrà per tema: “Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni” (At 1,8).

    Sin d’ora, in un clima di incessante ascolto della parola di Dio, invocate, cari giovani, lo Spirito Santo, Spirito di fortezza e di testimonianza, perché vi renda capaci di proclamare senza timore il Vangelo sino agli estremi confini della terra. Maria, presente nel Cenacolo con gli Apostoli in attesa della Pentecoste, vi sia madre e guida. Vi insegni ad accogliere la parola di Dio, a conservarla e a meditarla nel vostro cuore (cfr Lc 2,19) come Lei ha fatto durante tutta la vita. Vi incoraggi a dire il vostro “sì” al Signore, vivendo l’”obbedienza della fede”. Vi aiuti a restare saldi nella fede, costanti nella speranza, perseveranti nella carità, sempre docili alla parola di Dio. Io vi accompagno con la mia preghiera, mentre di cuore tutti vi benedico.

    Dal Vaticano, 22 Febbraio 2006, Festa della Cattedra di San Pietro Apostolo.
    BENEDICTUS PP. XVI

    © Copyright 2006 – Libreria Editrice Vaticana

    Carlo Maria MARTINI INCONTRA GLI STUDENTI AL BIBLICO DI ROMA

      
     
    INCONTRO DEL CARD. CARLO MARIA MARTINI
    CON GLI S
    TUDENTI DEL PONTIFICIO ISTITUTO BIBLICO
    (23 maggio 2002
    )

         Giovedì, 23 maggio 2002 (h. 21.00), su iniziativa del gruppo di studenti italiani, in particolare del loro rappresentante P. Lorenzo Gasparro C.SS.R., è stato invitato all’Istituto Sua Em. Rev.ma il Card. Carlo Maria Martini «per una conversazione e un dialogo a proposito della Sacra Scrittura e della sua importanza nella vita del credente».
          Quello che segue è il testo della «conversazione» stampato dagli studenti (e non rivisto dal cardinale) e distribuito durante la messa d’inaugurazione dell’anno accademico (10.10.2002).
       

    Introduzione:

    Benvenuto fra noi” [di Marco D'Agostino, rappresentante degli studenti italiani per l'anno accademico 2002-03]

         Gli incontri con le persone hanno sempre la forza di creare atmosfere belle, di partecipazione e di condivisione. Ne sono testimonianza in un certo senso i nostri incontri quotidiani. L’amico che ti chiede un favore, la persona che incontri per caso, la telefonata che ti giunge all’improvviso, gli insegnante che ti spiega una cosa a cui non avevi mai pensato. Ogni volta che si ascolta la vita se ne esce arricchiti dentro. E se al centro di questo ascolto c’è un maestro che parla con autorità, che ti fa ardere il cuore mentre sei per via, che ti chiama per nome e ti fa scendere subito dagli alberi, perché deve fermarsi a casa tua, allora davvero l’incontro con lui appare diverso, coinvolgente. E la bellezza delle sue parole ogni volta ci incanta. Non è mai vecchia la Parola di Dio! 

     

          E credo che sia per questo che siamo qui sta sera, perché qualcuno ci dica che incontrare una parola “viva”, quella di Dio, è un’esperienza di vita che parla al cuore. Che lasciarsi prendere per mano da una presenza che ci accompagna come ha guidato i nostri padri e come ha risuonato nella Chiesa degli Apostoli, è un’esperienza da fare da ripetere e da incoraggiare. Che se alla porta c’è un Dio che bussa, si deve trovare il coraggio di aprire questa porta. Ed è bello che questa sera in quest’aula, a lei e noi studenti altrettanto abituale, si ricrei in un’atmosfera davvero familiare uno scambio di idee, una proposta di vita, un ascolto di esperienze. Riconosco come la mia voce da sola sia ben poca cosa per darle stasera il benvenuto, ma le assicuro che la gioia d’averla qui tra noi è condivisa da tutti quanti, non vogliamo sovraccaricare quest’incontro di un’importanza e di una retorica che non ha, rovinerei con le parole rituali la bellezza che nasce dallo stare insieme, dall’ascoltarci a vicenda, dal gioire del bene che ciascuno di noi compie laddove è chiamato a vivere.
    .

     

           Quest’incontro si inserisce nella semplicità del nostro cammino di studenti qui al PIB. Un cammino, quello dei gruppi, che vuole animare la vita degli studenti, con incontri di riflessione, incontri di preghiera, e anche incontri festosi. Il gruppo italiano che nell’anno accademico che si sta concludendo è stato guidato con umiltà e intelligenza da Padre Lorenzo Gasparro, Redentorista, che ha avuto non solo l’intuizione di invitare lei questa sera, ma di portare avanti incontri significativi durante l’anno. Per la capacità di Lorenzo, di comunione fra gli studenti italiani, e come significativo punto di collegamento fra tutti i gruppi linguistici dell’Istituto, credo che sia giusto stasera pubblicamente ringraziarlo per il servizio che ha svolto a beneficio di tutti.
    .
           Come lei sa, la vita dell’Istituto è fatta di un quotidiano che sa di fatica e di impegno, ma che ha tanti aspetti umani e spirituali che ci fanno crescere: lezioni che si stemperano nei semestri, volti che s’intrecciano, parole che risuonano, amicizie forti che nascono e durano nel tempo, pazienze e gioie che il cammino scolastico di ciascuno comporta. Ma tutto tende e inevitabilmente ci conduce all’incontro con quell’unica parola che non passa, di cui le nostre sono sempre un timido riflesso.
    .

     

    La gioia di condividere con lei questa serata, vuole essere per noi un aiuto: ascoltare la Parola di Dio e anche il dono di sentirne risuonare la voce interiormente. È difficile dare agli altri quello che fatichiamo ad accogliere noi per primi. Vorremmo che come per i due di Emmaus, il Dio che parla al cuore divenga carburante per i nostri passi. Per questo le è stato chiesto di parlarci non della Parola di Dio in generale, ma del suo rapporto con questa parola, di come lei si è sentito sostenuto dalla parola che ha ascoltato, studiato, approfondito, insegnato agli altri. Soprattutto di quelle volte in cui nella sua lunga esperienza è stato testimone dell’efficacia di quell’effatà, che ogni volta dischiude situazioni e persone fuori… , all’esperienza bella di un Dio che non ci abbandona. È vero! Ogni pensiero è affascinante, ogni ragionamento interessante, ma quanto più lo divengano quando trovano case nelle persone nelle esperienze e negli incontri. Davvero la ringraziamo per il tempo che ci dedica e vorremmo in qualche modo ricambiare.
    .
           
    L’aiuti Maria di Nazareth, la cui fede generosa, vissuta nel sabato santo, la testimonianza e intercessione, hanno accompagnato il suo servizio pastorale. Grazie per la sua presenza, grazie per la disponibilità, grazie se ancora vorrà tornare a farci visita.

     

     

     

     

     

     

    L’intervento del Cardinale

           Grazie vivissime di queste parole, grazie del vostro invito che ho accettato molto volentieri, quando mi fu fatto per iscritto da p. Lorenzo, e grazie anche per la vostra presenza questa sera. 

           Certamente per me è motivo di grande commozione di ritrovarmi qui in quest’aula, nella quale sono stato prima studente dal ’54 al 56-57. Allora erano nostri grandi maestri p. Zerwick, p. Lyonnet, figure per cui abbiamo una grande venerazione, un grande ricordo. Poi dopo il mio superiore provinciale mi disse che se continuavo a studiare al Biblico, c’era il pericolo che mi fermassero a Roma. Allora mi mandò in Gregoriana a preparare una tesi in Teologia fondamentale. Insegnai 5 anni Teologia Fondamentale, ma poi ritornai qui nel ’62, mi pare, per insegnare anzitutto critica testuale e quindi ho un ricordo da allora di quest’aula, non solo come studente fra i tanti, qualche volta anche un po’ assonnato, ma come professore qui. Mi ricordo questa lavagna che utilizzavo moltissimo, perché ho sempre creduto molto nella lavagna, nella quale si scrive lo appening dello scrivere nella lavagna che crea quel senso anche di attesa, di suspense che ci vuole anche in una lezione. E ho insegnato in momenti durissimi per il Biblico, perché erano gli anni 62-63-64, quando era il massimo della crisi contro l’esegesi storico-critica.
     
    Il biblico sembrava dovesse naufragare. ricordo che quando mi chiamarono qui, io pensavo: “Mi chiamano in una nave che sta per naufragare”, e abbiamo cercato di remare, di resistere e così quei tempi sono stati superati. Ma io mi ricordo quando venni qui, nello stesso anno p. Lyonnet e p. Zerwick avevano avuto il divieto di insegnare. Quindi era un momento difficilissimo, in cui ammirai fortemente l’amore alla Chiesa di entrambi: l’obbedienza umile. P. Lyonnet – ricordo – disse: “Bene! Io per tanti anni ho chiesto di fare un anno sabbatico, mi viene dato. Ringrazio!” E questo umorismo riuscì a farci superare quel momento molto molto difficile. E fu merito del nuovo Papa Paolo VI, di restituire l’onore, la fiducia all’Istituto Biblico.
     
    Furono anche quelli del Concilio: quindi momenti di entusiasmo e insieme di paura. Ricordo benissimo, padre Lohfink che adesso insegna in questo semestre. Che in quell’anno, doveva essere il ’63, gli facemmo difendere la tesi alla Gregoriana per avere il massimo numero di Padri conciliari nella grande aula d’ingresso. E così dare un segnale d’interesse dei padri conciliari per l’Istituto Biblico. Difese mirabilmente quella tesi, mi ricordo bene come andò. E vennero almeno 500 padri conciliari. Questo fu un segno che nel concilio c’era attenzione per l’Istituto Biblico. Ricordo un cardinale che entrando, disse una parola molto semplice: “Vengo per venire”. Non era un interesse propriamente scientifico.
     
    Quelli furono anni molto combattuti, ma molto belli perché a poco a poco la Dei Verbum nacque in quegli anni. Io mi ricordo giorno dopo giorno le discussioni che si facevano: i vescovi che venivano qui per consultarsi; i testi che si rivedevano. Ecco tutte cose che la storia del Concilio non potrà scrivere se non in parte. Ecco quei fatti dettero origine alla DV che fu appunto come una riaffermazione e conferma del cammino dell’Istituto Biblico. Mi rimase molto impressa, anche se non ero per nulla padre conciliare, né esperto, ma seguimmo giorno dopo giorno la formazione della DV e quando diventai vescovo nel 1980, mi proposi, anche senza dirlo, come programma pastorale, mettere in pratica in una Chiesa il capitolo VI della DV. E mi sembra un programma pastorale straordinario che comporta tante conseguenze, che ha una base conciliare solida. Tutte le vicende vissute qui, tra cui la seconda tesi che difesi qui all’Istituto Biblico in quest’aula ancora. Tutto tremante anche se il professore ci confortava, dicendo: “L’importante è trovare la sedia”. Ricordo ancora come nacque quella tesi: nacque sull’erba, prendendo un caffé.
     
    Appena arrivato qui comincia ad insegnare Critica Testuale nel 1963-64. Io andai a Münster a frequentare i corsi di critica testuale del grande professore Aland, nella facoltà protestante di Münster, mio grande maestro, ora già morto, l’autore del Nestle – Aland. Là abitavo dai Gesuiti di Münster, vicino alla città. E scopersi che vicino alla casa dei Gesuiti abitava il famoso esegeta Henri … autore di un commento agli Atti, a quel tempo molto conosciuto. E lui mi incitò una sera a prendere un caffé. Aveva un bel giardino sul prato, c’erano i conigli che andavano da lui alla casa dei Gesuiti e tornavano. Mi disse prendendo il caffé: “È uscito da poco l’edizione ormai a stampa del papiro Bodmer decimoquarto. Ho guardato un po’ e mi sembra che quel papiro, è un po’ come il Codice B”. Io stavo cercando un argomento di tesi, stavo lavorando su Giustino, le citazioni neotestamentarie di Giustino. Facevo fatica.
     
    Mi prese quell’idea e dissi: “Cominciamo a vedere”. Fino a quel tempo il codice Vaticano 1209 greco, si riteneva frutto di una revisione dotta fatta ad Alessandria nell’inizio del IV secolo e quindi un testo cosiddetto rivisto, una recensionale, chiamato anche allora “esichiano”. Ma quest’ipotesi mi fece colpo e cominciai a dire. Ma vediamo un po’ quest’idea, se è possibile elencare o provare i modi di verifica, se quest’idea fosse vera che cosa dovrebbe verificarsi e che cosa non dovrebbe verificarsi nel Codice. Così con quest’ipotesi cominciai ad esaminare il papiro in relazione al codice e scopersi che tutte quelle caratteristiche che gli autori avevano ritenute redazionali nel Codice, erano due secoli prima in Bodmer. Questo rompeva un mito della storia del testo. Una piccola cosa, ma la gioia di essere riuscito a trovare una verità sulla storia del testo, provandola a partire da un ipotesi, con una verifica che conducesse poi ad una conclusione scientifica solida.
     
    Ecco questo mi fu di immenso aiuto perché mi servì per conoscere qual’è il processo di ogni conoscenza scientifica come si parte dall’osservazione dei dati, si fa un’ipotesi, si danno le leggi di verifica, si fa la verifica e si giunge al giudizio o di falsificazione o di verificazione. Questo fatto mi aiutò moltissimo, fu un’esperienza straordinaria. Ogni lavoro di tesi di laurea serve se è quest’esperienza, cioè dire “Ho trovato una metodologia che è dentro di me e che mi guida”. Mentre ricordo che la prima tesi di laurea che avevo fatto alla Gregoriana, era ancora fatta sul criterio quantitativo, cioè leggere il massimo numero possibile di opere sull’argomento, cercare di sintetizzarle. Era un lavoro quantitativo. Oggi con il computer tutti possono fare, cani e gatti. Allora occorreva battere tutto a mano. Oggi invece credo il computer ha eliminato tutte quelle forme di lavoro materiale che allora sembravano lavori scientifici, ma ci permette di mettere in luce su che cosa si fonda una affermazione scientifica seria, con quale tipo di procedura vi si arriva. E questo mi ha aiutato moltissimo, mi ha aiutato il modo di pensare le cose, di verificarle, perché non vale soltanto per la conoscenza della critica testuale, ma di qualunque conoscenza seria di vita.
     
    Così ho insegnato un po’ in quegli anni, cominciando con Critica Testuale con molto gusto, con molta passione, ma poi l’obbedienza mi ha chiamato prima ad essere decano, poi dopo tre anni rettore, poi dopo nove anni direttorato rettore alla Gregoriana, e allora certamente il lavoro scientifico si è un po’ bloccato e adesso che ho quasi terminato il servizio ecclesiale, se il Signore mi da vita, conterei di ritornare al lavoro scientifico di critica testuale, perché mi pare che sul tema della storia del testo greco nei secoli II e III, è stato fatto poco. È un lavoro molto arido, un lavoro di retro cucina, non è neanche una cucina. Pochi hanno voglia di farlo, invece a me piaceva perché da il gusto del romanzo poliziesco, bisogna trovare l’assassino. Bisogna fare un’ipotesi e vedere se la pista è giusta. Quindi mi piacerebbe riprendere questo lavoro perché sono convinto che il lavoro che ho fatto per oltre 22 anni come vescovo a Milano è un servizio di Chiesa, che avrà un suo effetto, ma poi scompare, ci si dimentica. Mentre il lavoro scientifico fatto sui testi, può servire, se è veramente serio, anche per le generazioni successive.
     
    Penso che la Chiesa si serve in un modo e nell’altro. E io sono contento di averla potuta servire in un modo e nell’altro, e se posso continuerò a servirla nel silenzio, nella preghiera e nello studio scientifico. Questo per dirvi quanto mi ha dato il Biblico. Veramente se come vescovo ho potuto far amare la Scrittura, era perché avevo dato tanto. Ricordo quando venni al Biblico la prima volta, studente timoroso nel settembre 1954, avevo in mente questo verso di Dante, che dice a Virgilio: “Vagliami il lungo studio e il grande amore che m’ha fatto cercare lo tuo volume”. Ecco io applicavo questo al volume della Scrittura, all’amore, al desiderio, quasi al fanatismo di capirne ogni parola, di penetrarne il senso di gustarla e per questo mi piaceva tanto la critica testuale, perché prende le parole e le pesa, le soppesa come parole analoghe, come varianti e quindi è come un gustare, un masticare il testo.
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           Ecco questa è l’esperienza che ho fatto e che mi ha permesso a Milano, in mezzo a tanti problemi di amministrazione ecclesiastica, di continuare in qualche modo a servire la Scrittura, prendendo come riferimento, come ho detto, il Concilio Vaticano II capitolo VI del DV, e soprattutto quel punto dove dice: “Ogni cristiano deve acquistare una familiarità orante con la Scrittura”. Quindi la Lectio Divina, non solo insegnare la Scrittura, l’esegesi, ma imparare a pregare a partire dalla Scrittura. E in tutti questi anni in centinaia di incontri con i giovani, con gli adulti, con gli esercizi spirituali con i non credenti ho cercato sempre innanzitutto di pregare io a partire dalla Scrittura e poi di aiutare a pregare a partire dalla Scrittura. Se resterà qualche cosa sono contento. Hanno fatto una celebrazione in mio onore nel palazzo dello sport con rappresentanti di tutta la diocesi, e ho visto che il tema che avevano ritenuto era proprio questo: “Sulla tua parola getterò le reti”. Quindi il tema della Parola è entrato abbastanza, poi ci vogliono secoli evidentemente. Ogni generazione deve riprendere questo tema.
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    Come vescovo ho fatto tre grandi esperienze di comunicazione della Parola.
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    1) La Scuola della Parola per giovani, che ho cominciato a tenere in Duomo fin dai primi mesi di episcopato, vedendo con sorpresa come i giovani riempivano sempre più il Duomo fino ad essere fino a quattro, cinque , seimila ad ascoltare e non era né una catechesi, né un’esegesi, ma un tentativo di mettere di fronte al testo biblico, perché personalmente vi reagissero con una riflessione e una preghiera. Questo è continuato e siccome il Duomo non bastava più abbiamo moltiplicato le chiese, si tiene in circa 50-60 chiese della diocesi ogni mese. Ora li conducono altri preti o laici, io non li seguo più, ma mi pare che continua ancora anche se sono tutte cose che andrebbero ripensate. Io ho sempre avuto il principio che quando una cosa va bene, bisogna troncarla, incominciarne un’altra, perché quando va bene vuol dire che comincia l’abitudine.
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    2) Gli esercizi spirituali biblici sono l’altra grande esperienza che mi hanno dato molto. Cioè ho dato in tantissime parti del mondo, non solo in diocesi, esercizi spirituali dove ogni volta prendevo come tema, pur mantenendo la struttura di sant’Ignazio che mi è molto congeniale, un libro o un personaggio della Bibbia: Davide, Abramo, Mosé, il Vangelo di Marco, Paolo, Pietro. Cercando per una settimana di penetrare insieme agli ascoltatori questo testo.
     
    E ho sempre voluto cambiare libro, proprio per non ripetermi, perché è odiosissimo il ripetermi per me almeno, e l’idea era di essere stimolato ogni volta, anche se non avevo tempo, a studiare molto, a mettermi di fronte a un nuovo libro biblico e a cercare di penetrarlo non tanto in una lectio esegetica continua, ma cercando il dinamismo interno di conversione che il libro suscita. E anche questo è un tipo di ricerca interessante. Questa è una seconda esperienza che ho fatto in tante parti del mondo perché ho cercato di dare almeno un corso nel mese di luglio, quando a Milano per il troppo caldo non c’è più nessuno, quindi sono andato in Ciad, in Zaire, in Giappone, in Taiwan, in Messico, in Venezuela, negli Stati Uniti, ogni volta dando un corso di esercizi, con un tema diverso. In questo mi ha aiutato molto il vedere che pur parlando a culture diversissime da Taiwn a Tokyo, a Guadalajara, a Caracas, in California, tuttavia la Scrittura parla ovunque, cioè io non mi sono mai sforzato di fare chissà quale salto culturale. Mi sono detto: “Prendo la Scrittura”, ma la Scrittura è così umana, così profonda, tocca così profondamente le corde intime del cuore che viene ascoltata ovunque. Questa è stata un’esperienza molto bella, arricchente e io stesso come dice san Gregorio Magno, ho imparato molto spiegando così la Scrittura. Perché allora diventava nuova anche per me.
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    3) Una terza ed ultima esperienza che vi racconto e poi lascio a voi lo spazio per le domande per conoscere voi, è stata la cosiddetta  Cattedra dei non credenti, che non è di per sé un’iniziativa biblica, ma che nasce dalla Scrittura. “Dice l’empio non c’è Dio”, dunque ascoltiamo l’empio. Cioè chiamiamo in cattedra non credenti a spiegarci perché non credono. Poi non facciamo con loro un dibattito o una conferenza apologetica, cerchiamo di ascoltarci. Con la percezione che c’è in ciascuno di noi, almeno in me, una duplice personalità: un credente e un non credente che continuamente fa obiezioni, pone domande, problemi. Allora diamo voce pubblica e chiamiamo non quelli che vanno già in Chiesa, quindi è proibito l’ingresso, diciamo alle suore. L’ingresso era permesso solo per persone in ricerca: non credenti.
     
    Ho avuto una sorpresa che quando facciamo questi incontri c’è una file per entrare già un’ora e mezza prima, per prendere il posto, benché tutti sono fatti per inviti personali, quindi distribuiamo 2000 inviti per circa 1800 posti si riempiono tutti. Adesso concluderò con l’ultimo incontro il 28 maggio, sempre in un ambiente laico, in un’università statale, senza preghiere, perché molti non sono credenti, né praticanti. Il tema, questa volta, sarà “Domande sulla Giustizia”, e io vorrei trattare il tema “Quali domande sulla giustizia mettono in crisi la mia fede”. Quindi affronto un problema grave per cercare insieme di inquietare le coscienze e di suscitare le risposte, senza darle io possibilmente, ma inquietando la gente. Ho visto che questo modo di parlare attira molti non credenti, perché non si sentono quasi accalappiati, ma si sentono stimolati e quasi ascoltati.  
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            Ecco queste sono alcune cose che mi sono state suggerite dal contatto con la Scrittura e mi hanno aiutato a parlare con la gente, ad ascoltarla, anche se uno giunto al termine del suo cammino, uno si accorge che molto più sono le lacune, le cose non fatte, di quelle fatte e per cui ho scritto l’ultima mia lettera pastorale, sulla triplex confessio: confessio laudis ciò per cui ringrazio Dio, confessio vitae ciò di cui ho mancato e di cui chiedo perdono alla mia gente, alla mia diocesi, confessio fidei ciò in cui confido per cui Dio ci aiuterà e perdonerà. Questo per dirvi qualche cosa di sconnesso, ma frutto della mia esperienza. E ora la parola alle domande per quanto posso.


     Dibattito (domande varie e risposte del Cardinale)

    DOMANDA: Che cosa le ha dato il suo servizio di vescovo al suo modo di leggere la Scrittura? Quale differenza ha trovato tra l’esegeta che legge la Bibbia e un vescovo che legge la Bibbia? Quale contributo ha ricevuto l’esegeta dall’uomo di Chiesa?

    MARTINI: Questa è una domanda molto profonda. Rispondo a flash. Non ho trovato un salto difficile tra l’insegnamento dato all’Istituto Biblico e la spiegazione della Scrittura. Non ho incontrato nessun contrasto. Ho trovato l’utilità di aver avuto la possibilità di un’analisi critica approfondita dei testi. Quindi il poterne parlare con una certa cognizione di causa e insieme ne ho percepito meglio il significato ecclesiologico, teologico, il contesto vivo nel quale sono stati scritti.   Per essere più concreto: mi hanno molto aiutato tre cose che non erano presenti nell’insegnamento storico critico, ma permesse da quest’ultimo.
          

    Primo: la percezione che le pagine bibliche parlano di me, cioè mi svelano, sono uno specchio; essendo io stato creato nel Verbo, in questa Parola io sono chiarito a me stesso. Difatti parlando ai giovani io ho detto molto volte: “Il punto in cui voi farete il giro di boa sarà quando, leggendo, questa pagina evangelica, non direte: dice così e così, ma parla di me! Dice qualcosa che io vivo, anzi mi spiega cosa mi sta succedendo”.
     
     Perché molti giovani, come sapete meglio di me, sono confusi, non sanno chi sono, hanno mille tensioni e pulsioni, non sanno ordinarle. Mentre le pagine della Scrittura con la loro ricchezza di umanità e anche con le figure che presentano chiariscono. “Riconosco qualcosa di me nel giovane ricco, in Pietro, in Davide”. Questo mi è stato aggiunto. Nel Biblico non lo avevamo mai trattato, o almeno rapidamente. Quindi la Scrittura parla di me.
     
    Secondo:questa pagina parla a me”. Sentire l’appello che viene rivolta a me adesso da questa pagina. Questa pagina l’ho studiata nella sua origine storica nella sua preistoria, nella sua traditionsgeschichte, wertungsgeschichte. Ma questa wertungsgeschichte arriva sino a me. E questa parola mi parla, mi interpella, mi chiama, mi sgrida, mi consola, mi conforta. La teologia biblica ce ne aveva parlato in generale, averlo fatto capire ai giovani e averlo capito io, mi ha aiutato molto. Quindi è una continuazione di quanto studiato qui.
     
    Terzo: Questa pagina mi invita a rispondere”: la preghiera. Rispondere con dialogo che è preghiera. Perché colui che mi parla in questa pagina, è colui al quale io posso parlare familiarmente. Quindi senza nessuna interruzione di continuità, ciò che avevo appreso al Biblico, mi ha aiutato a prolungare in questa triplice dimensione d’insegnamento della Scrittura, guidando parecchie persone a orientarsi con la Bibbia, a sentirsi interpellati dalla Bibbia e a pregare con la Bibbia, perché la DV ci chiede questo, che si arrivi a pregare con la Scrittura. 

    DOMANDA: Quale la pagina biblica che più le ha parlato e più le ha rivelato se stesso?

    MARTINI: È una domanda molto personale. Quando sono diventato vescovo, ho dovuto scegliere un motto e non proviene dalla Bibbia, ma da Gregorio Magno che si riferisce a un episodio biblico. Gregorio Magno nella Ars pastoralis, dice che bisogna avere paura delle circostanze favorevoli e amare le circostanze sfavorevoli. Il motto mio è: “Pro veritate adversa diligere”, cioè  essere contento delle contraddizioni. Un motto molto utile, perché viene a proposito. Gregorio lo riporta prima di Gv 6, poi dopo la passione. Quando vennero per incoronarlo re, Gesù fuggì e si nascose; quando vennero per arrestarlo, si presentò, insegnandoci che dobbiamo “pro veritate adversa diligere et prospera … declinare“.

    Questa è certamente una pagina che mi ha ispirato, ma se mi chiedi quale sia la pagina che mi ispira di più, non saprei risponderti, in quanto sono tante ed è difficile trarne una. La pagina che mi piacerebbe fosse scritta sulla mia tomba è: “Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino”. C‘è un’altra parola evangelica che mi dice molto, tenetela presente che vi sarà utile anche più tardi. È la pagina ripetuta tre volte in Mt 6: Il Padre vostro che vede nel segreto, vi ricompenserà”.

    Questa è una sintesi di spiritualità biblica straordinaria e appunto dice che tutto dobbiamo fare di fronte al Padre e basta. È una frase che ha un potere liberante straordinario. Non rispondo con una risposta sola per dirvi che ci sono pagine veramente straordinarie che m’ispirano molto. Certamente brani evangelici che sono stati per me di riferimento. Un brano evangelico al quale personalmente ho fato sempre riferimento e al quale ho ispirato le prime cinque lettere pastorali, era il brano di Emmaus; perché è un brano sintetico di tutto il cammino cristiano: dalla non conoscenza e dalla confusione alla progressiva chiarezza e all’Eucarestia. L’ho preso come riferimento per i primi cinque anni di lettere pastorali, riferendo ciascuna ad una parte di questo brano. La Bibbia è ricca, non possiamo ridurla, però pagina chiama pagina e quindi dovrei menzionarne molte altre.

     Cercate la vostra pagina biblica! Cercate il vostro salmo!   Quello che vi parla di più, quello che vi fotografa meglio!

    Lo vedo che quando mi consegnano le regole di vita. Noi abbiamo una tradizione a Milano: i giovani dal 17° al 19° anno di età, chi lo desidera, sono un bel numero, compiono un cammino con incontri nei decanati e nelle parrocchie, che si conclude con la consegna al vescovo della regola di vita, scritta nel corso degli esercizi di tre giorni. Queste migliaia di giovani che seguono questo itinerario vengono da me in Duomo e mi consegnano una per una la loro regola. Io non le leggo tutte, ma quasi sempre sono ispirate da qualche frase biblica. Questo vuol dire che hanno cercato la loro pagina della Scrittura.

    DOMANDA: Geremia ci invita ad andare tra la gente senza temere le conseguenze dell’annuncio. Ma mi accorgo che i giovani vengono sempre meno nelle parrocchie. Forse il problema sta negli “addetti ai lavori”, i quali temono di sporcarsi le mani tra la gente e non sanno ascoltare chi gli sta di fronte con le esigenze che vivono

    MARTINI: Questo è un problema pastorale molto ampio, sul quale ci sarebbe molto da discutere, che non ammette una risposta semplice, ma avrebbe bisogno di un’analisi molto complessa. La difficoltà dei giovani a partecipare alla vita parrocchiale è sentita da tutti e le radici di questo malessere sono da trovare in più parti. Io sottolineerei quest’aspetto: non siamo noi a non portare il messaggio o a non trasmetterlo bene.

    Credo invece che sia molto importante cercare di capire quali siano le domande vere che i giovani portano dentro. Non i giovani in generale, parola con cui s’indica una categoria puramente biologica, ma queste persone che ho davanti. Io ho fatto un’esperienza molto interessante. Ho scritto alcuni anni fa un testo che ho pubblicato in forma di lettera intestandola “Ai giovani che non incontro”. Il titolo mi è stato suggerito da un incontro che appunto avevo fatto. Alcuni giovani mi avevano detto: “Non è possibile incontrarci dove era lei non venivamo noi, e dove siamo noi non veniva lei”. Non c’era possibilità d’incontro.

     Allora ho avuto l’infelice o felice idea, non so, di invitarli a scrivermi. Ho ricevuto molte centinaia di lettere e ancora oggi continuo a riceverle da tutte le parti d’Italia, anche dall’estero. Molti giovani ragazzi e ragazze che mi dicono: “Io andavo in Chiesa, ora non la frequento più”. Ognuno ha una storia diversa. L’importante è cercare di capire che cosa ha dentro, quali sono le sue domande non astratte (bisogno di senso), ma concrete spesso sono problemi di amicizia, di famiglia di affettività mancata, di confusione interiore, di pregiudizi: ciascuno il suo . Per cui stare vicino, cercare di ascoltare e di decifrare, per me è la prima regola.

    Di fatti noi abbiamo un fatto sinodo dei giovani a partire dalla giornata di Torvergata di due anni fa. Abbiamo invitato tutti i giovani che avevano partecipato a diventare secondo la dizione del papa, “sentinelle del mattino”, cioè a farsi carico di annunciare alla Chiesa, di che colore ha il giorno che viene. E di farlo anzitutto attraverso l’ascolto dei loro compagni, prima di tutto a coloro che non vanno in Chiesa. Sono stati nelle carceri, nelle comunità di tossicodipendenti, hanno compiuto un bel lavoro di ascolto. E hanno detto: “Questo ascolto ci ha dato la percezione di un metodo di avvicinamento. Perché non esiste la chiave che apre ogni cassaforte, perché la libertà umana è inviolabile.  

    Occorre partire dalle domande che ci sono dentro. Se riesco a mostrare al giovane che le domande interiori hanno in una pagina biblica una risposta concreta, incisiva, inattesa e sorprendente, ho raggiunto già un obiettivo importante. Questo il suggerimento che io darei: bisogna partire dalle domande e sapere che le domande hanno rispettivamente una risposta concreta e incisiva che il giovane è chiamato a scoprire da solo personalmente, altrimenti non serve.

     Ci sono momenti di riflessione in cui la persona è in ricerca, partendo da questi si riesce ad aiutarla. Il progetto di pastorale biblica per i prossimi cinque anni nasce da questa constatazione. Il frutto del sinodo dei giovani s’è concretizzato in un libretto che raccoglie le loro esperienze e le loro proposte. Io ho mandato una risposta basandomi sulla pagina di Zaccheo: “Gesù attraversava la città”. Non abbiate paura di attraversare la città e di ascoltare per dare le risposte e vedremo, cercheremo di lanciare anche questo, sapendo che è lo Spirito Santo che conduce e guida. Non esiste nessun metodo a priori che abbia sicure condizioni di riuscita.

    Di giovani che cercano Dio, ce ne sono ancora, giovani che desiderano compiere un cammino serio sono tanti, pur essendo una minoranza. Ma è sempre stata una minoranza che ha diretto l’umanità. “Non temere piccolo gruppo, perché è piaciuto darti il Regno”. Non spaventarsi di essere minoranza, perché se siamo minoranza incisiva e decisa possiamo fare molto.

    DOMANDA: La chiave fondamentale per leggere la Bibbia secondo lei?

    MARTINI: La domanda per me è troppo semplice: non credo che ci sia una chiave. La Bibbia stessa ci parla della Parola di Dio, è la Parola stessa che ci apre, non siamo noi ad aprirla. Nella Bibbia che noi siamo contenuti. È la Bibbia stessa che è la Chiave della nostra vita. Io rovescerei la domanda. Fin dall’inizio quando ho scritto la seconda lettera pastorale dal titolo: “In principio la Parola”. Dove enunciavo la principalità della Scrittura. Partivo da questo: la Bibbia che ci rappresenta il mondo ella Parola di Dio, è quella cosa in cui noi siamo dentro e di cui non possiamo coglierne i limiti, che ci supera da ogni parte e che ci contine, che ci spiega, che ci interpella. Quindi qualunque approccio va bene, purché lasci che la Bibbia, come Parola di Dio, mi spieghi, mi interpelli, mi dia una risposta. Poi per ciascuno sarà diversissima l’apertura, l’ingresso. Questo lo vedo dalla mia esperienza, le persone che ho conosciuto, vi sono entrate da cammini profondamente diversi. Per cui preferirei dire: “La Bibbia ha la chiave della Bibbia”. È ciò che io devo scoprire con la Bibbia la chiave di me stesso. Il cardinale Bea da questa cattedra offriva una risposta più pragmatica. Quando cominciava le lezioni di metodologia, diceva: “Sappiate che la prima lingua orientale è il tedesco”.

    DOMANDA: Il rapporto tra Bibbia, Chiesa e giudaismo. Ho l’impressione che ultimamente la Chiesa negli ultimi documenti, soprattutto con questo ultimo (ndr. “Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia Cristiana”), cerca di calmare gli animi e ridimensionare le critiche che possono arrivare da parte del giudaismo, cercando di mostrare solo quello che ci unisce. Mi sembra che manca un annuncio di Cristo, della salvezza da un punto di vista biblico. Ci si è soffermati soprattutto sugli aspetti teologici e dogmatici.

    MARTINI: Sto lottando anch’io con questo tema. Sì, è vero che con l’ultimo documento della Pont. Comm. Biblica, concede delle formule più larghe possibili per favorire la comprensione, l’avvicinamento. C’è una frase che io non avrei mai osato dire, ma che viene detta in una di quelle pagine: “In fondo dobbiamo ritenere che l’interpretazione cristiana dell’AT è un’interpretazione, e che l’interpretazione ebraica ha anche la sua legittimità”. Questa è la frase più concessiva che si può dire in un documento. Quindi la stessa esegesi rabbinica ha continuato un’interpretazione legittima, prescindendo dal fatto di Cristo. Per cui il momento storico è dovuto a:

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           Primo nel passato abbiamo molto mancato nei confronti del popolo ebraico. Io, quando leggo alcune omelie del mio predecessore s. Ambrogio, sono contento siano in un latino difficile. Così anche san Zenone e i padri di quel tempo affermavano delle cose terribili. Noi oggi ci vergogniamo quasi un po’ di questo. Allora vogliamo soprattutto sottolineare gli aspetti positivi e di continuità. 

    DOMANDA: Visto che lei ha compiuto il percorso come allievo, professore in questo centro e in seguito si è dedicato all’attività pastorale più direttamente. Quale consiglio ci suggerirebbe a noi studenti e professori che stiamo approfondendo la Parola?

    MARTINI: Anch’io avevo chiesto consigli e li avevo seguiti, ma poi dopo ho ritenuto di seguire la mia strada; quindi è bene che ognuno tracci la propria strada. Quello che ci hanno sempre detto, è che la base linguistica è fondamentale, di lingue antiche e lingue moderne, senza questo non si può andare avanti. L’importante per me sempre andare alle ragioni di fondo. Perché si afferma qualcosa, con quali ragioni? Se io rovescio la posizione che cosa me ne viene? Per spiegarmi vorrei esprimermi con un episodio accaduto di un padre gesuita che era stato preconizzato per insegnare al Biblico. Entrò nella Biblioteca e vedendo tutta quella massa di libri si spaventò, dicendo: No, io non potrei mai fare questo lavoro. Io mi dicevo: sarebbe bastato dirgli che la metà di questi libri sono stati scritti per confutare l’altra metà.

    Per dire che non è l’accomulazione, anche se bisogna leggere molto, leggere in fretta, imparare a farlo. Ma sempre domandarsi che cosa e chi ha valore. Perché questo testo è significativo, perché questa interpretazione? Come si dimostra? Quali ragioni per questo pensiero? Tendere molto di più a cercare le ragioni che non ad accumulare le opinioni. Ormai anche con il computer è facile fare queste accumulazioni di bibliografia, di citazioni, ma poi gli autori veramente intelligenti e perspicaci non sono molti.

    Purtroppo l’intelligenza è rara. Bisogna trovarla, scavare là dove ci sono veri segni di intelligenza. Ci sono commenti che ripetono tutte le cose ovvie che già sappiamo e che non spiegano le cose che veramente chiediamo al testo. Ci sono alcuni commenti che rispondono alla mia domanda. Mi dice e quindi c’è molta differenza. Bisogna accuire la mente critica per distinguere l’uno dall’altro. Allora uno guadagna in gioia, in tempo, in sintesi. Per questo è necessario un’ampia lettura, cioè il contatto con i dati. Poi fare una cernita e stendere delle ipotesi di lavoro, verificarle, questo suggerirei, ma a ciascuno il suo metodo.

    DOMANDA: In generale la Bibbia ci insegna che la parola die profeti ha messo spesso in crisi e in difficoltà i profeti, per questo hanno avuto momenti di paura e di esitazione. Io vorrei chiedere il suo rapporto con la Parola di Dio è stato sempre pacifico o ci sono stati momenti dove la parola di Dio, l’ha messo in crisi nell’annunciarla?

    MARTINI: La Parola di Dio è un tormento. Mette sempre in crisi, io l’ho scritto anche nell’ultima lettera pastorale facendo la confessio vitae, spiegando che cosa in questi anni mi ha turbato od ho sbagliato. È l’angoscia di un responsabile di chiesa che continuamente si domanda, ma noi stiamo davvero vivendo il Vangelo, lo stiamo mettendo in pratica, non stiamo sbagliando? Questo è un continuo stimolo, non deve diventare una cosa che non lascia dormire, altrimenti è peggio.

     Però la Parola di Dio mette sempre in questione, scuote, inquieta. Magari in piccole cose, ma anche nelle vicende più grandi: ci fa capire che abbiamo bisogno di misericordia. Non siamo all’altezza e la stessa Parola ci da questa misericordia, siamo peccatori salvati. Io meditavo stamattina, mentre celebravo la Messa con tutti i vescovi italiani in San Pietro e io mi domandavo: “Che cosa ha a che fare tutto questo con il Vangelo? Tutto questo ha a che fare con il Vangelo? Con l’uomo che è stato crocifisso con la testa in giù. Quello è il valore fondamentale di quel posto. Tutto il resto ha un significato, perché poi la vita è complessa, ci vogliono tante cose, però la Scrittura inquieta continuamente e non solo nel mettere in pratica il Vangelo in maniera perfetta.

    Un’interpretazione rigorista porta al settarismo all’illusione, al delirio di onnipotenza, e in fondo all’ipocrisia. È molto meglio dire “Questa parola m’interpella cerco di fare quello che posso, so che i posteri diranno che ho sbagliato in tante cose, mi affido alla misericordia di Dio”. Questa è l’ultima parola evangelica: “misericordia per i peccatori”. In questo senso la Parola inquieta e pacifica. Pacifica quando riconosciamo che siamo molto lontani e che c’è molto cammino da fare, e che l’ideale evangelico è sempre molto al di là di noi e che tuttavia Gesù ha misericordia di me, non mi abbandona, non mi respinge, piuttosto m’incorggia, prende quel poco di buono che ho, lo fa lavorare.

     È importante questo atteggiamento di fronte alla parola non solo per i profeti, ma anche per i sacerdoti del NT e ogni cristiano si sente impari. Io confesso, quando devo spiegare un testo biblico, anche se l’ho detto mille volte, la prima impressione è di paura e di estraneità. Questo testo è così lontano da me come cultura, come lingua, come mentalità, come abitudini. Devo mettermi a lottare come Giacobbe e solo a poco a poco mi parla, mi conforta, mi chiarisce, proprio perché rimane lontano da noi, anche come ideale. “Come il cielo sovrasta la terra, così i miei pensieri non sono i vostri pensieri”. Quest’esperienza la si fa, ma non dovremmo viverla come il fariseo, ma il pubblicano che dice: “Signore abbi pietà di peccatore”. In tutto ciò che ho sbagliato correggimi. Sapendo che Gesù ha corretto Pietro, Pietro ha sbagliato, Gesù lo ha corretto di nuovo e lo ha riabilitato. Quindi il Vangelo di senso della debolezza umana e della misericordia divina che ci restituisce giorno dopo giorno. Quindi l’esperienza dei profeti è vera. La si fa, ma non vorrei fiscalizzarla in un sistema critico autosufficiente che presume di sè.

           Secondo: questo è più grave. La shoa ha creato una coscienza “colpevole” in tutto il mondo occidentale. Questo non lascia quasi respirare, perché qualunque cosa si dica, si può sentire rispondere: “Ma voi avete fatto… Pio XII ha taciuto…”. Restiamo senza fiato. Credo però che questo impedisca una maggiore scioltezza di dialogo. Del resto con la guerra attuale tutto è interpretato strumentalmente, pro o contro. Come dicevo a tavola è il momento di Amos 5,13. Voi tutti sapete cosa significa, io devo dire che non lo sapevo. Perché mi ha scritto, un mese fa circa, un amico ebreo dell’università di Gerusalemme, raccontandomi le sofferenze e dicendo: “È il tempo di Amos 5,13″. Io ho rabbrividito e ho dovuto andare a cercare: laken hamashkyl ba’et hahy’ yddom ky ‘et ra’ah hy’ - “Il prudente in un tempo come questo tacerà, perché è un tempo cattivo”.

    Questo è un punto che dobbiamo tenere presente. Tuttavia ho trovato delle formule molto belle in un professore che voi conoscete: un ebreo di origine, un benedettino che insegna a Sant’Anselmo, Salmann: ha un libro grosso in cui tratta il problema ebraico cristiano e dice: “Gli ebrei sono destinati ad essere spina gli uni per gli altri”. In senso positivo è inutile di pensare di trovare una rappacificazione completa; saremo sempre spina e stimolo, l’importante sarà viverlo non in forma conflittuale, contraddittoria, ma amichevole e comprensiva.

    Sapendo che c’è una differenza irriducibile e questa farà si che loro saranno stimolo per noi e noi per loro se riusciremo a vivere questo, in pace e in dialogo sereno allora sarà molto bello. Ma non essendo possibile adesso, allora Am 5,13 mi darà ragione. Ma il punto sul quale mi interrogo molto, cercando di leggere abbastanza teologia dell’Ebraismo: quanti tentativi di cercare il valore salvifico dell’ebraismo odierno, come giustificarlo, quale missione.

    Ci sono tanti libri che danno l’impressione di arrampicarsi sui vetri. Anche se dicono cose belle e interessanti. Forse non siamo ancora arrivati ad avere il contesto di serenità, né la profondità teologica. Però certo la Chiesa deve molto imparare dalle sue radici, perché sono convinto, come altri prima di me hanno sostenuto, che il distacco plurisecolare della Chiesa dall’ebraismo, ha prodotto danni nella teologia, non solo nella comprensione mutua, ma nell’approfondimento del dogma, nella spiritualità. Questo è un lungo cammino che ci sta davanti. Dobbiamo soffrire un po’ perché non abbiamo soluzioni facili. Chi offre soluzioni troppo facili, è da diffidare, perché il problema è aperto. San Paolo stesso lo considerava aperto fino alla manifestazione definitiva di Cristo. Dico sempre quando vado in visita pastorale che fino a una certa ora un angelo buono è presente, poi scappa e viene un angelo cattivo.  

     

    LETTERA APERTA ALLA PSICOLOGA MARIA ELENA BOERO – Angelo Nocent

    Boero Maria Elena psicologa

    Carissina Dott.sa Maria Elena Boero,

    nell’inserto della rivista “Fatebenefratelli” ho letto con interesse l’esperienza maturatasi negl’anni nell’Istituto di cura che lei frequenta come psicologo.

    Se mi permetto di sottoporle la riflessione del Padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia che riporto di seguito, è perché vorrei che provasse, per un momento, a considerare il camice bianco che probabilmente indossa nella funzione di psicoterapeuta, come la casula che veste il sacerdote per celebrare.

    Comunque, provi per un attimo ad immedesimarsi nel ruolo ”sacerdotale” in campo psico-terapeutico. Stante l’attuale struttura, in quel di San Maurizio Canavese (FATEBENEFRATELLI allegato : n.3  - http://www.fatebenefratelli.it/pdf/2009/rivista_2009-03.pdf ) lei ed i suoi colleghi, siete i “mediatori” tra Dio e i pazienti.

    Secondo me, qui viene descritto il tassello che manca alla psicologia ed alla psichiatria, scienze di per sè limitate per definizione. Il perché lo dice l’autore:Al centro di ogni essere umano c’è un punto di unità e di verità che chiamiamo cuore, coscienza, io profondo, centro della personalità o con altri nomi ancora. È più facile conoscere ed entrare in contatto con il mondo intero fuori di noi che non giungere a questo centro di noi stessi, come è più facile, per gli scienziati, inviare sonde su Marte ed esplorare gli spazi interplanetari che esplorare cosa c’è, a poche migliaia di chilometri da noi, al centro della terra, dove nessuno infatti è mai arrivato“.

    La rivoluzione iniziata dal Prof. Basaglia è stato un momento importante perché ha permesso di sgomberare il campo dalle macerie di tante contraddizioni che si erano accumulate nel tempo. Più difficile si è dimostrata la fase “construens“.

    Le nostre comunità cristiane - sostiene P. Raniero - devono diventare autentiche scuole di preghiera, dove l’incontro con Cristo non si esprima soltanto in implorazione di aiuto, ma anche in rendimento di grazie, lode, adorazione, contemplazione, ascolto, ardore di affetti…”

    Merini Alda poetessaA tal proposito, come non ricordare il Magnificat

    della poetessa  ALDA MERINI

    (alda merini poetessa)

    recentemente scomparsa:

     

    Se Tu sei la mia mano,
    il mio dito,
    la mia voce,
    se Tu sei il vento
    che mi scompiglia i capelli,
    se Tu sei la mia adolescenza
    io ho il diritto di servirti
    e il dovere,
    perché l’adolescenza
    non ha mai chiesto nulla
    alle sue stagioni.


    Tu mi hai presa
    perché io non ero una donna
    ma solo una bambina.
    E le bambine si accolgono
    e si avvolgono di mistero.
    Tu mi hai resa donna, Signore,
    e la donna è soltanto
    un pugno di dolore.

    Ma questo pugno
    io non lo batterò
    verso il mio petto,
    lo allargherò verso di Te
    come una mano
    che chiede misericordia.
    Tu sei la mia mano, Signore,
    Tu sei la vita,
    e quando una donna partorisce un figlio
    la disgrazia e l’amore
    abitano in lei
    come il dubbio della sua esistenza.

    Tu mi hai redenta
    nella mia carne
    e sarò eternamente giovane
    e sarò eternamente madre.
    E poiché mi hai redenta
    posi vicino a Te
    la pietra della Tua resurrezione.

    E poiché mi hai redenta
    fammi carne di spirito
    e spirito di carne.
    E poiché mi hai redenta
    Dammi un figlio
    atrocemente mio.

    Qualche psicanalista ha già intrapreso questa strada da tempo, ottenendo risultati inimmaginabili.  Dal momento che si pretende di camminare sulle orme del pioniere San Giovanni di Dio, è un discorso che meriterebbe di essere approfondito e che andrebbe avviato senza esitazione, propro perché “lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza“. (Rm 8, 26-27). Tra la scienza e la fede non c’è un muro. L’enciclica “Spe salvi” di Benedetto XVI è un grande aiuto che viene offerto agli operatori socio-sanitari. Giovanni di Dio non avrebbe esitato un attimo a prenderla in seria considerazione.

    Così Sergio Centofanti su Radio Vaticana:

    “La redenzione, la salvezza, secondo la fede cristiana – spiega il Papa nell’introduzione – non è un semplice dato di fatto. La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino”. (1)

    Perciò “elemento distintivo dei cristiani” è “il fatto che essi hanno un futuro: … sanno … che la loro vita non finisce nel vuoto”. Il Papa sottolinea che il messaggio cristiano non è solo “informativo”, ma “performativo”. Questo significa che “il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova”. Sulla scia di San Paolo, il Papa esorta i cristiani a non affliggersi “come gli altri che non hanno speranza” e con San Pietro ci invita a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi. (2)

    “Giungere a conoscere Dio – il vero Dio, questo significa ricevere speranza”. Questo lo comprendevano bene i primi cristiani, come gli Efesini, che prima di incontrare Cristo avevano molti dèi ma vivevano “senza speranza e senza Dio”. Il problema per i cristiani di antica data – sottolinea – è l’abitudine al Vangelo: la speranza “che proviene dall’incontro reale con … Dio, quasi non è più percepibile”. Qui il Papa cita un primo testimone della speranza cristiana: Santa Giuseppina Bakhita. Nata nel 1869 nel Darfur, in Sudan, viene rapita a nove anni e venduta come schiava: dopo prove terribili giunge in Italia dove conosce “la grande speranza” e può dire: “io sono definitivamente amata e qualunque cosa accada – io sono attesa da questo Amore”. (3)

    Il Papa ricorda che Gesù non ha portato “un messaggio sociale-rivoluzionario” come Spartaco, e “non era un combattente per una liberazione politica, come Barabba o Bar-Kochba”. Ha portato “qualcosa di totalmente diverso: … l’incontro con il Dio vivente … l’incontro con una speranza che era più forte delle sofferenze della schiavitù e che per questo trasformava dal di dentro la vita e il mondo”, “anche se le strutture esterne rimanevano le stesse”. (4)

    Cristo ci rende veramente liberi: “Non siamo schiavi dell’universo” e delle “leggi della materia e dell’evoluzione”. San Gregorio Nazianzeno vede nei Magi guidati dalla stella “la fine dell’astrologia”, una concezione – afferma il Papa – “nuovamente in auge anche oggi”: “non sono gli elementi del cosmo … che in definitiva governano il mondo e l’uomo, ma un Dio personale governa le stelle, cioè l’universo”. Siamo liberi perché “il cielo non è vuoto”, perché il Signore dell’universo è Dio che “in Gesù si è rivelato come Amore”. (5)

    Cristo è il “vero filosofo” che “ci dice chi in realtà è l’uomo e che cosa egli deve fare per essere veramente uomo”. “Egli indica anche la via oltre la morte; solo chi è in grado di fare questo, è un vero maestro di vita”. (6) E ci offre una speranza che è insieme attesa e presenza: perché “il fatto che questo futuro esista, cambia il presente”. Infatti “per la fede … sono già presenti in noi”, ad uno stato iniziale, “le cose che si sperano: il tutto, la vita vera”. Il futuro è attirato “dentro il presente” e noi lo possiamo già percepire e “questa presenza di ciò che verrà crea anche certezza”, “costituisce per noi una ‘prova’ delle cose che ancora non si vedono”. (7)

    Questa speranza non è qualcosa ma Qualcuno: non è fondata su cose che passano e ci possono essere tolte, ma su Dio che si dona per sempre: per questo è una speranza che libera e permette a tanti cristiani di abbandonare tutto “per amore di Cristo” come ha fatto San Francesco e di affrontare le persecuzioni e il martirio opponendosi “allo strapotere dell’ideologia e dei suoi organi d’informazione” rendendoli così capaci di rinnovare il mondo. (8)

    Il Papa rileva che “forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra , per questo scopo, piuttosto un ostacolo”. (10)

    “L’attuale crisi della fede – prosegue – è soprattutto una crisi della speranza cristiana”. “La restaurazione del paradiso perduto, non si attende più dalla fede” ma dal progresso tecnico-scientifico, da cui – si ritiene – potrà emergere “il regno dell’uomo”.

    La speranza diventa così “fede nel progresso” fondata su due colonne: la ragione e la libertà che “sembrano garantire da sé, in virtù della loro intrinseca bontà, una nuova comunità umana perfetta”. “Il regno della ragione … è atteso come la nuova condizione dell’umanità diventata totalmente libera”. (17-18)

    “Due tappe essenziali della concretizzazione politica di questa speranza” sono state la Rivoluzione francese (19) e quella marxista. Di fronte agli sviluppi della Rivoluzione francese, “l’Europa dell’Illuminismo … ha dovuto riflettere in modo nuovo su ragione e libertà”. La rivoluzione proletaria d’altra parte ha lasciato “dietro di sé una distruzione desolante”.

    “L’errore fondamentale di Marx” è stato questo: “ha dimenticato l’uomo e ha dimenticato la sua libertà… Credeva che una volta messa a posto l’economia tutto sarebbe stato a posto. Il suo vero errore è il materialismo”. (20-21) “Diciamolo ora in modo molto semplice – scrive il Papa : l’uomo ha bisogno di Dio, altrimenti resta privo di speranza”. (23)

    “L’uomo non può mai essere redento semplicemente” da una struttura esterna. “Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre fa una promessa falsa”. Così sbagliano quanti credono che l’uomo possa essere redento mediante la scienza. “La scienza … può anche distruggere l’uomo e il mondo”. “Non è la scienza che redime l’uomo. L’uomo viene redento mediante l’amore”. Un amore incondizionato, assoluto : “La vera grande speranza dell’uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio – il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora sino alla fine”. (24-26)

    Il Papa indica quattro luoghi di apprendimento e di esercizio della speranza. Il primo è la preghiera: “Se non mi ascolta più nessuno, Dio mi ascolta ancora … se non c’è più nessuno che possa aiutarmi … Egli può aiutarmi”. Il Papa ricorda l’esperienza del cardinale vietnamita Van Thuan, per 13 anni in carcere, di cui 9 in isolamento: “in una situazione di disperazione apparentemente totale, l’ascolto di Dio, il poter parlargli, divenne per lui una crescente forza di speranza”. (32-34)

    Accanto alla preghiera c’è poi l’agire. “La speranza in senso cristiano è sempre anche speranza per gli altri. Ed è speranza attiva, nella quale lottiamo” affinché “il mondo diventi un po’ più luminoso e umano. E solo se so che “la mia vita personale e la storia nel suo insieme sono custodite nel potere indistruttibile dell’amore” io “posso sempre ancora sperare anche se … non ho più niente da sperare”. E “nonostante tutti i fallimenti” questa speranza mi dà “ancora il coraggio di operare e di proseguire”. (35)

    Anche il soffrire è un luogo di apprendimento della speranza. “Certamente bisogna fare tutto il possibile per diminuire la sofferenza”: tuttavia “non è la fuga davanti al dolore che guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa maturare, di trovare senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore”. Qui il Papa cita un altro testimone della speranza, il martire vietnamita Paolo Le-Bao-Thin, morto nel 1857. Fondamentale è poi saper soffrire con l’altro e per gli altri. “Una società che non riesce ad accettare i sofferenti …è una società crudele e disumana”. (36-39)

    Infine, altro luogo di apprendimento della speranza è il Giudizio di Dio. “La fede nel Giudizio finale è innanzitutto e soprattutto speranza”: “esiste la risurrezione della carne. Esiste una giustizia. Esiste la ‘revoca’ della sofferenza passata, la riparazione che ristabilisce il diritto”.

    Il Papa si dice “convinto che la questione della giustizia costituisce l’argomento essenziale, in ogni caso l’argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna”. E’ impossibile infatti “che l’ingiustizia della storia sia l’ultima parola”. “Dio è giustizia e crea giustizia. E’ questa la nostra consolazione e la nostra speranza. Ma nella sua giustizia è insieme anche grazia”.

    “La grazia non esclude la giustizia…I malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non siederanno indistintamente a tavola accanto alle vittime, come se nulla fosse stato”. Il Papa ribadisce la dottrina sull’esistenza del purgatorio e dell’inferno. Tuttavia se il Giudizio di Dio “fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura”. Invece è anche grazia e questo “consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di fiducia incontro al Giudice che conosciamo come nostro ‘avvocato’”. (41-47)

    Nei capitoli sul Giudizio finale Benedetto XVI inserisce una riflessione sull’ateismo del XIX e del XX secolo: si tratta di “una protesta contro le ingiustizie del mondo” – nota – che diventa “protesta contro Dio”. “Se di fronte alla sofferenza di questo mondo la protesta contro Dio è comprensibile, la pretesa che l’umanità possa e debba fare ciò che nessun Dio fa né è in grado di fare, è presuntuosa ed intrinsecamente non vera. Che da tale premessa siano conseguite le più grandi crudeltà e violazioni della giustizia non è un caso – aggiunge – ma è fondato nella falsità intrinseca di questa pretesa”. (42)

    Benedetto XVI poi ribadisce: “La nostra speranza è sempre essenzialmente anche speranza per gli altri; solo così essa è veramente speranza anche per me. Da cristiani non dovremmo mai domandarci solamente: come posso salvare me stesso? Dovremmo domandarci anche: che cosa posso fare perché altri vengano salvati …? Allora avrò fatto il massimo anche per la mia salvezza personale. (48)

    Nell’ultimo capitolo rivolge la sua preghiera a “Maria, stella della speranza”:“Madre di Dio, Madre nostra, insegnaci a credere, sperare ed amare con te. Indicaci la via verso il suo regno! Stella del mare, brilla su di noi e guidaci nel nostro cammino!” (49-50).

    Il 12 Novembre 2009 ho ricevuto un messaggino  dal Messico, dove si trova Fra Marco Fabello per il Capitolo Generale dei Fatebenefratelli: Ospitalità e Carisma sono due parole che echeggiano spesso nell’aula Capitolare qui in Messico: speriamo che vivano nella nostra vita quotidiana“. La nostra preghiera solidale può influenzare i Padri Capitolari nelle loro scelte, affinché i due termini non divengano luoghi comuni. Il motivo è spiegato nelle righe successive. A tale scopo faccia pregare la sua comunità terapeutica. Dio ascolta “il gemito dei prigionieri“.

    Salmo 101(102)

    Aspirazioni e preghiere di un esule

    orante

    Signore, ascolta la mia preghiera,

    a te giunga il mio grido.

    Non nascondermi il tuo volto;

    nel giorno della mia angoscia

    piega verso di me l’orecchio.

    Quando ti invoco: presto, rispondimi.

    Si dissolvono in fumo i miei giorni

    e come brace ardono le mie ossa.

    Il mio cuore abbattuto come erba inaridisce,

    dimentico di mangiare il mio pane.

    Per il lungo mio gemere

    aderisce la mia pelle alle mie ossa.

    Sono simile al pellicano del deserto,

    sono come un gufo tra le rovine.

    Veglio e gemo

    come uccello solitario sul tetto.

    Tutto il giorno mi insultano i miei nemici,

    furenti imprecano contro il mio nome.

     

    Di cenere mi nutro come di pane,

    alla mia bevanda mescolo il pianto,

    davanti alla tua collera e al tuo sdegno,

    perché mi sollevi e mi scagli lontano.

    I miei giorni sono come ombra che declina,

    e io come erba inaridisco.

    Ma tu, Signore, rimani in eterno,

    il tuo ricordo per ogni generazione.

    Tu sorgerai, avrai pietà di Sion,

    perché è tempo di usarle misericordia:

    l’ora è giunta.

    Poiché ai tuoi servi sono care le sue pietre

    e li muove a pietà la sua rovina.

    I popoli temeranno il nome del Signore

    e tutti i re della terra la tua gloria,

    quando il Signore avrà ricostruito Sion

    e sarà apparso in tutto il suo splendore.

    Egli si volge alla preghiera del misero

    e non disprezza la sua supplica.

    Questo si scriva per la generazione futura

    e un popolo nuovo darà lode al Signore.

    Il Signore si è affacciato dall’alto del suo santuario,

    dal cielo ha guardato la terra,

    per ascoltare il gemito del prigioniero,

    per liberare i condannati a morte;

    perché sia annunziato in Sion il nome del Signore

    e la sua lode in Gerusalemme,

    quando si aduneranno insieme i popoli

    e i regni per servire il Signore.

    Ha fiaccato per via la mia forza,

    ha abbreviato i miei giorni.

    Io dico: Mio Dio,

    non rapirmi a metà dei miei giorni;

    i tuoi anni durano per ogni generazione.

    In principio tu hai fondato la terra,

    i cieli sono opera delle tue mani.

    Essi periranno, ma tu rimani,

    tutti si logorano come veste,

    come un abito tu li muterai

    ed essi passeranno.

    Ma tu resti lo stesso

    e i tuoi anni non hanno fine.

    I figli dei tuoi servi avranno una dimora,

    resterà salda davanti a te la loro discendenza.

    Non so se i suoi ragazzi usano INTERNET. Con loro  sarebbe bello poter comunicare nella fede. Convinto come sono della SALMOTERAPIA, comincerei col suggerire loro di utilizzare senza timore le tante PREGHIEREA DI LAMENTAZIONE, Salmi che Dio ha ispirato perché osassimo lamentarci confidenzialmente con Lui, l’Abbà, il Babbo:

    http://compagniadeiglobulirossi.splinder.com/tag/06a+salmoterapia

    Angelo Nocent

     

    Raniero CantalamessaConvegno internazionale dei sacerdoti

    Malta 2004-10-20-

    “Per la pedagogia della santità –ha scritto Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte- c’è bisogno di un cristianesimo che si distingua innanzitutto nell’arte della preghiera…

    Le nostre comunità cristiane devono diventare autentiche scuole di preghiera, dove l’incontro con Cristo non si esprima soltanto in implorazione di aiuto, ma anche in rendimento di grazie, lode, adorazione, contemplazione, ascolto, ardore di affetti…

    Alla preghiera sono in particolare chiamati quei fedeli che hanno avuto il dono della vocazione ad una vita di speciale consacrazione: questa li rende, per sua natura, più disponibili all’esperienza contemplativa, ed è importante che essi la coltivino con generoso impegno…Occorre allora che l’educazione alla preghiera diventi in qualche modo un punto qualificante di ogni programmazione pastorale”[1] .

    La preghiera è il mezzo universale e indispensabile per avanzare su tutti i fronti nel cammino di santità. “Se vuoi cominciare a possedere la luce di Dio, dice la B. Angela da Foligno, prega; se sei già impegnato nella salita della perfezione e vuoi che questa luce in te aumenti, prega; se vuoi la fede, prega; se vuoi la speranza, prega; se vuoi la carità, prega; se vuoi la povertà, prega; se vuoi l’obbedienza, la castità, l’umiltà, la mansuetudine, la fortezza, prega.

    Qualunque virtù tu desideri, prega…Quanto più sei tentato, tanto più persevera nella preghiera… La preghiera infatti ti dà luce, ti libera dalle tentazioni, ti fa puro, ti unisce a Dio” [2] . Agostino dice: “Ama e fa ciò che vuoi” [3] ; con altrettanta verità possiamo dire: “Prega e fa ciò che vuoi”. Attenendomi al tema assegnatomi “Santità pneumatico-paolina del sacerdote”, in questa meditazione vorrei esporre l’insegnamento dell’Apostolo sulla preghiera, facendo, al termine, qualche applicazione più specifica alla vita del sacerdote. Noi infatti, ci ricorda lo stesso S. Agostino, “per”gli altri siamo sacerdoti e vescovi, ma “con” gli altri siamo dei cristiani [4] .

    1. Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza

    Nel capitolo ottavo della Lettera ai Romani l’Apostolo mette in luce le operazioni più importanti dello Spirito Santo nella vita del cristiano e tra esse, in primissimo piano, figura la preghiera. Lo Spirito Santo, principio di vita nuova, è anche, di conseguenza, principio di preghiera nuova. Partiamo dai due versetti più attinenti al nostro tema: Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi con gemiti inesprimibili e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio” (Rm 8, 26-27).

    San Paolo afferma che lo Spirito intercede per “con gemiti inesprimibili”. Se potessimo scoprire per che cosa e come prega lo Spirito nel cuore del credente, avremmo scoperto il segreto stesso della preghiera. Ora, a me sembra che questo sia possibile. Lo Spirito infatti che prega in noi segretamente e senza strepito di parole è lo stesso identico Spirito che ha pregato a chiare lettere nella Scrittura. Egli che ha “ispirato” le pagine della Scrittura, ha anche ispirato le preghiere che leggiamo nella Scrittura. Se è vero che lo Spirito Santo continua a parlare oggi nella Chiesa e nelle anime, dicendo, in modo sempre nuovo, le stesse cose che ha detto “per mezzo dei profeti” nelle sacre Scritture, è vero anche che egli prega oggi, nella Chiesa e nelle anime, come ha insegnato a pregare nella Scrittura.

    Lo Spirito Santo non ha due preghiere diverse. Noi dobbiamo, dunque, andare a scuola di preghiera dalla Bibbia, per imparare ad “accordarci” con lo Spirito e pregare come prega lui. Quali sono i sentimenti dell’orante biblico? Cerchiamo di scoprirlo attraverso la preghiera dei grandi amici di Dio: Abramo, Mosè, Geremia, i salmisti. La prima cosa che colpisce in questi oranti “ispirati” è la grande libertà e l’incredibile ardimento con cui dialogano con Dio. Niente di quel servilismo che gli uomini sono soliti associare alla parola “preghiera”.

    Conosciamo bene la preghiera di Abramo a favore di Sodoma e Gomorra (cf Gn 18, 22 ss). Abramo comincia dicendo: “Davvero sterminerai il giusto con l’empio?”, come per dire: non posso credere che tu vorrai fare una cosa del genere! A ogni successiva richiesta di perdono, Abramo ripete: “Vedi come ardisco parlare al mio Signore!”. La sua supplica è “ardita” e lui stesso se ne rende conto. Ma è che Abramo è l’“amico di Dio” (Is 41, 8) e tra amici si sa fin dove ci si può spingere.

    Mosè va ancora più lontano nel suo ardimento. Dopo che il popolo si è costruito il vitello d’oro, Dio dice a Mosè che è sul monte a pregare: “Scendi in fretta di qui perché il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dall’Egitto, si è traviato”. Mosè risponde dicendo: “Al contrario, essi sono il tuo popolo, la tua eredità, che tu hai fatto uscire dall’Egitto” (Dt 9, 12.29; cf Es 32, 7.11).

    La tradizione rabbinica ha colto bene il sottinteso che c’è nelle parole di Mosè: “Quando questo popolo ti è fedele, allora esso è il “tuo” popolo che “tu” hai fatto uscire dal paese d’Egitto; quando ti è infedele, allora esso diventa il “mio” popolo che “io” ho fatto uscire dall’Egitto?”. A questo punto Dio ricorre all’arma della seduzione; fa balenare davanti al suo servo l’idea che, una volta distrutto il popolo ribelle, farà di lui “una grande nazione” (Es 32, 10).

    Mosè risponde facendo ricorso a un piccolo ricatto; dice a Dio: Attento, perché, se distruggi questo popolo, si dirà in giro che l’hai fatto perché non eri in grado di introdurlo nella terra che avevi loro promesso! “E Dio abbandonò il proposito di nuocere al suo popolo” (cf Es 32, 12; Dt 9, 28). Geremia arriva alla protesta esplicita e grida a Dio: “Mi hai sedotto”, e: “Non penserò più a lui non parlerò più in suo nome!” (Ger 20, 7.9).

    Se poi guardiamo ai salmi, si direbbe che Dio non fa che mettere sulle labbra dell’uomo le parole più efficaci per lamentarsi con lui. Il Salterio è di fatto un intreccio unico tra la lode più sublime e il lamento più accorato. Dio è chiamato spesso apertamente in causa: “Dèstati, perché dormi Signore?”, “Dove sono le tue promesse di un tempo?”, “Perché te ne stai lontano e ti nascondi nel tempo della sventura?”, “Tu ci tratti come pecore da macello!”, “Non essere sordo, Signore!”, “Fino a quando starai a guardare?”.

    Come si spiega tutto questo? Dio spinge forse l’uomo all’irriverenza verso di lui, dal momento che, in ultima analisi, è lui che ispira e approva questo tipo di preghiera? La risposta è: tutto questo è possibile perché nell’uomo biblico è al sicuro il rapporto creaturale con Dio. L’orante biblico è così intimamente pervaso dal senso della maestà e santità di Dio, così totalmente sottomesso a lui, Dio è così “Dio” per lui, che, sulla base di questo dato pacifico, tutto riposa al sicuro.

    La sua preghiera preferita, nel tempo della prova, è sempre la stessa: “Tu sei giusto in tutto ciò che hai fatto, tutte le tue opere sono vere, rette le tue vie e giusti i tuoi giudizi [...] poiché noi abbiamo peccato” (Dn 3, 28 ss; cf Dt 32, 4 ss). “Tu sei giusto, Signore!”: dopo queste tre o quattro parole – dice Dio – l’uomo può dirmi ciò che vuole: io sono disarmato! La spiegazione, insomma, è nel cuore con cui questi uomini pregano.

    Nel bel mezzo delle sue preghiere tempestose, Geremia rivela il segreto che rimette tutto a posto: “Ma tu, Signore mi conosci, mi vedi; tu provi che il mio cuore è con te!” (Ger 12, 3). Anche i salmisti intercalano, ai loro lamenti, espressioni analoghe di fedeltà assoluta: “Ma la roccia del mio cuore è Dio!” (Sal 73, 26).

    La qualità della preghiera biblica emerge anche dal contrasto con quella degli ipocriti. Questi, dicono i profeti (cf. Ger 12,2; Is 29,13), hanno la bocca tutta per Dio, ma il cuore lontano da lui; i veri amici hanno, al contrario, il cuore tutto per Dio e la bocca, a tratti, contro Dio nel senso che non nascondono lo sconcerto di fronte al mistero del suo agire e, come Giobbe, si lasciano sfuggire parole di duro lamento.

    2. La preghiera di Gesù

    Ma se è importante conoscere come lo Spirito ha pregato in Abramo, in Mosè, in Geremia e nei salmi, è immensamente più importante conoscere come ha pregato in Gesù, perché è lo Spirito di Gesù che ora prega in noi con gemiti inesprimibili. In Cristo è portata alla perfezione quell’interiore adesione del cuore e di tutto l’essere a Dio che costituisce, come si è visto, il segreto biblico della preghiera.

    Il Padre lo esaudiva sempre, perché egli faceva sempre le cose che gli erano gradite (cf Gv 4, 34; 11, 42); lo esaudiva “per la sua pietà”, cioè per la sua obbedienza e filiale sottomissione (cf Eb 5,7). La parola di Dio, culminante nella vita di Gesù, ci insegna, dunque, che la cosa più importante della preghiera non è ciò che si dice, ma ciò che si è; non ciò che si ha sulle labbra, ma ciò che si ha nel cuore. Non è tanto nell’oggetto quanto nel soggetto. Anche per Agostino, il problema fondamentale non è sapere “cosa dici nella preghiera”, quid ores, ma “come sei nel pregare”, qualis ores [5] .

    La preghiera, come l’agire, “segue l’essere”. La novità recata dallo Spirito Santo, nella vita di preghiera, consiste nel fatto che egli riforma, appunto, l’“essere” dell’orante; suscita l’uomo nuovo, l’uomo amico di Dio; toglie da lui il cuore pieno di paure e interessato dello schiavo e gli da un cuore di figlio.

    Venendo in noi, lo Spirito non si limita a insegnarci come bisogna pregare, ma prega in noi, come – a proposito della legge – egli non si limita a dirci cosa dobbiamo fare, ma lo fa con noi. Lo Spirito non dà una legge di preghiera, ma una grazia di preghiera. La preghiera biblica non viene dunque a noi, primariamente, per apprendimento esteriore e analitico, cioè in quanto cerchiamo di imitare gli atteggiamenti che abbiamo riscontrati in Abramo, in Mosè, in Giobbe e nello stesso Gesù (anche se tutto ciò sarà, esso pure, necessario e richiesto in un secondo momento), ma viene a noi per infusione, come dono.

    Questa è l’incredibile “buona notizia” a proposito della preghiera cristiana! Viene a noi il principio stesso di tale preghiera nuova e tale principio consiste nel fatto che “Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!” (Gal 4, 6).

    • Questo vuol dire pregare “nello Spirito”, o “mediante lo Spirito” (cf Ef 6, 18; Gd 20).

    • Anche nella preghiera, come in tutto il resto, lo Spirito “non parla da sé”, non dice cose nuove e diverse; semplicemente, egli risuscita e attualizza, nel cuore dei credenti, la preghiera di Gesù. “Egli prenderà del mio e ve lo annunzierà”, dice Gesù del Paraclito (Gv 16, 14): prenderà la mia preghiera e la darà a voi.

    • In forza di ciò, noi possiamo esclamare con tutta verità: “Non sono più io che prego, ma Cristo prega in me!”. “Il Signore nostro Gesù Cristo, Figlio di Dio, scrive Agostino, è colui che prega per noi, che prega in noi e che è pregato da noi. Prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi come nostro Dio. Riconosciamo dunque in lui la nostra voce, e in noi la sua voce” [6] .

    • Il grido stesso Abbà! dimostra che chi prega in noi, attraverso lo Spirito, è Gesù, il Figlio unico di Dio. Per se stesso, infatti, lo Spirito Santo non potrebbe rivolgersi a Dio, chiamandolo Padre, perché egli non è “generato”, ma soltanto “procede” dal Padre. Quando ci insegna a gridare Abbà! lo Spirito Santo – diceva un autore antico – “si comporta come una madre che insegna al proprio bambino a dire “papà” e ripete tale nome con lui, finché lo porta all’abitudine di chiamare il padre anche nel sonno” [7] .

    • La madre non potrebbe rivolgersi al suo sposo chiamandolo “papà” perché è sua moglie non sua figlia; se lo fa è perché parla a nome del suo bambino e si identifica con lui.

    • Qualcuno si è chiesto come mai nel “Padre nostro” non viene nominato lo Spirito Santo; nell’antichità ci fu perfino chi cercò di colmare questa lacuna, aggiungendo in alcuni codici, dopo l’invocazione per il pane quotidiano, le parole: “lo Spirito Santo venga su di noi e ci purifichi”. Ma è più semplice pensare che lo Spirito Santo non è tra le cose chieste perché è colui che le chiede. “Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!” (Gal 4, 6). È lo Spirito Santo che intona ogni volta in noi il “Padre nostro”; senza di lui grida a vuoto “Abbà!” chiunque lo grida.

    3. Il respiro trinitario della preghiera cristiana È lo Spirito Santo che infonde, dunque, nel cuore il sentimento della figliolanza divina, che ci fa sentire (non soltanto sapere!) figli di Dio: “Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rm 8, 16). A volte questa operazione fondamentale dello Spirito si realizza nella vita di una persona in modo repentino e intenso e allora se ne può contemplare tutto lo splendore.

    L’anima è inondata di una luce nuova, nella quale Dio le si rivela, in un modo nuovo, come Padre. Si fa esperienza di cosa vuol dire veramente la paternità di Dio; il cuore si intenerisce e la persona ha la sensazione di rinascere da questa esperienza. Dentro di lei appare una grande confidenza e un senso mai provato della condiscendenza di Dio che, a tratti, si alterna con il sentimento altrettanto vivo della sua infinita grandezza, trascendenza e santità. Dio appare davvero “il mistero tremendo e affascinante” che ispira, nello stesso tempo, somma fiducia e riverente timore.

    La preghiera del cristiano si risolve tutta, in questi momenti, in “commossa gratitudine”. Quando san Paolo parla del momento in cui lo Spirito irrompe nel cuore del credente e gli fa gridare: “Abbà Padre!”, allude a questo modo di gridarlo, a questa ripercussione di tutto l’essere, nel grado più alto. Così avveniva in Gesù quando, “in un impeto di esultanza nello Spirito Santo”, esclamava : “Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra” (Lc 10, 21). Non bisogna però illudersi.

    Questo modo vivido di conoscere il Padre di solito non dura a lungo; ritorna presto il tempo in cui il credente dice “Abbà!”, senza “sentire” nulla, e continua a ripeterlo solo sulla parola di Gesù. È il momento, allora, di ricordare che quanto meno quel grido rende felice chi lo pronuncia, tanto più rende felice il Padre che lo ascolta, perché fatto di pura fede e di abbandono.

    Noi siamo, allora, come Beethoven. Divenuto sordo, egli continuava a comporre splendide sinfonie, senza poter gustare il suono di alcuna nota. Quando fu eseguita per la prima volta la sua Nona sinfonia, terminato l’inno finale alla gioia, il pubblico esplose in un uragano di applausi e qualcuno dell’orchestra dovette tirare il maestro per il lembo della giacca perché si voltasse a ringraziare. Lui non aveva gustato nulla della sua musica, ma il pubblico era in delirio.

    La sordità, anziché spegnere la sua musica, la rese più pura e così fa anche l’aridità con la nostra preghiera. E proprio in questo tempo di “assenza” di Dio e di aridità spirituale che si scopre tutta l’importanza dello Spirito Santo per la nostra vita di preghiera. Egli, da noi non visto e non sentito, riempie le nostre parole e i nostri gemiti, di desiderio di Dio, di umiltà, di amore, “e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito”. Noi non lo sappiamo, ma lui sì!

    Lo Spirito diviene, allora, la forza della nostra preghiera “debole”, la luce della nostra preghiera spenta; in una parola, l’anima della nostra preghiera. Davvero, egli “irriga ciò che è arido” (rigat quod est aridum), come diciamo nella sequenza in suo onore. Tutto questo avviene per fede. Basta che io dica o pensi: “Padre, tu mi hai donato lo Spirito di Gesù; formando, perciò, un solo Spirito con Gesù, io recito questo salmo, celebro questa santa Messa, o sto semplicemente in silenzio alla tua presenza. Voglio darti quella gloria e quella gioia che ti darebbe Gesù, se fosse lui a pregarti ancora di persona dalla terra”.

    Da tutto ciò emerge la caratteristica unica della preghiera cristiana che la distingue da ogni altra forma di preghiera. Ispirandoci a un’espressione della B. Angela da Foligno, potremmo dire che pregare significa “raccogliersi in unità e inabissare la propria anima nell’infinito che è Dio” [8] .

    Nella preghiera si attuano così i due movimenti più propri dello spirito umano che sono rientrare in se stesso e uscire da se stesso.

    Al centro di ogni essere umano c’è un punto di unità e di verità che chiamiamo cuore, coscienza, io profondo, centro della personalità o con altri nomi ancora. È più facile conoscere ed entrare in contatto con il mondo intero fuori di noi che non giungere a questo centro di noi stessi, come è più facile, per gli scienziati, inviare sonde su Marte ed esplorare gli spazi interplanetari che esplorare cosa c’è, a poche migliaia di chilometri da noi, al centro della terra, dove nessuno infatti è mai arrivato.

    La preghiera, quando è autentica, permette anche ai più semplici, di attingere questo traguardo: ci raccoglie in unità, ci mette in contatto con il nostro io più profondo. La persona non è mai se stessa come quando prega. Appena però l’essere umano si raccoglie in sé, si accorge che non basta a se stesso, sperimenta il limite e il bisogno di superarlo, di evadere verso spazi meno angusti.

    A volte prendere coscienza di quello che siamo in verità, ci può incutere perfino spavento…La preghiera è l’unica a offrire alla creatura umana la possibilità di superare il suo limite. Essa le permette di “inabissare la propria anima nell’infinito che è Dio”. La persona che ha anche un attimo solo di vera preghiera sente di poter far sue le parole di Leopardi nell’Infinito: “Il naufragar m’è dolce in questo mare”.

    In ciò si rivela la differenza della preghiera cristiana rispetto a forme di preghiera e di meditazione di altra provenienza: yoga, meditazione trascendentale, enneagramma… Queste tecniche di concentrazione possono essere di aiuto per realizzare il primo dei due movimenti della preghiera – quello verso il centro di sé -, ma sono impotenti a realizzare il secondo movimento, quello dall’io a Dio.

    Per questo contatto con un Dio personale, “totalmente Altro” dal mondo, noi cristiani crediamo che non c’è altra via che lo Spirito di colui che ha detto: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. 4. “Dammi ciò che mi comandi!” C’è in noi, a causa di tutto ciò, come una vena segreta di preghiera. Parlando di essa, il martire sant’Ignazio d’Antiochia, scriveva: “Sento in me un’acqua viva che mormora e dice: Vieni al Padre!” [9] .

    Cosa non si fa, in alcuni paesi afflitti da siccità, quando, da certi indizi, si scopre che c’è, nel terreno sottostante, una vena d’acqua: non si smette di scavare, finché quella vena non è stata raggiunta e portata alla superficie. Io stesso mi trovavo una volta in Africa, in un villaggio dove l’acqua da sempre era qualcosa di prezioso che le donne andavano a cercare lontano e portavano a casa con poveri recipienti appoggiati sulla testa. Un missionario che aveva il dono di “sentire” la presenza dell’acqua aveva detto che ci doveva essere una vena d’acqua che passava sotto il villaggio e si stava scavando un pozzo. La sera del mio arrivo si stava rimuovendo l’ultimo strato di terra, dopo di che si sarebbe visto se c’era o no acqua. C’era!

    Agli abitanti del villaggio sembrò un miracolo e fecero festa danzando tutta la notte al suono di tamburi. L’acqua scorreva sotto le loro case e non lo si sapeva! Per me era un’immagine di ciò che capita a noi a proposito della preghiera. Vi sono cristiani che si recano fino all’estremo oriente per imparare a pregare; non hanno ancora scoperto di avere in se, per il battesimo, la sorgente stessa della preghiera.

    Questa vena interiore di preghiera, costituita dalla presenza dello Spirito di Cristo in noi, non vivifica soltanto la preghiera di petizione, ma rende viva e vera ogni altra forma di preghiera: quella di lode, quella spontanea, quella liturgica. Soprattutto, direi, quella liturgica. Infatti, quando noi preghiamo spontaneamente, con parole nostre, è lo Spirito che fa sua la nostra preghiera, ma quando preghiamo con le parole della Bibbia o della liturgia, siamo noi che facciamo nostra la preghiera dello Spirito, ed è cosa più sicura.

    Anche la preghiera silenziosa di contemplazione e di adorazione trova un incalcolabile giovamento a essere fatta “nello Spirito”. Questo è ciò che Gesù chiamava “adorare il Padre in Spirito e verità” (Gv 4, 23). La capacità di pregare “nello Spirito” è la nostra grande risorsa. Molti cristiani, anche veramente impegnati, sperimentano la loro impotenza di fronte alle tentazioni e l’impossibilità di adeguarsi alle esigenze altissime della morale evangelica e concludono, talvolta, che è impossibile vivere integralmente la vita cristiana. In un certo senso, hanno ragione. È impossibile, infatti, da soli, evitare il peccato; ci occorre la grazia; ma anche la grazia – ci viene insegnato – è gratuita e non la si può meritare.

    Che fare allora: disperarsi, arrendersi? Risponde il concilio di Trento: “Dio, dandoti la grazia, ti comanda di fare ciò che puoi e di chiedere ciò che non puoi” [10] . Quando uno ha fatto tutto quanto sta in lui e non è riuscito, gli resta pur sempre una possibilità: pregare e, se ha già pregato, pregare ancora! La differenza tra l’antica e la nuova alleanza consiste proprio in questo: nella legge, Dio comanda, dicendo all’uomo: “Fa’ quello che ti comando!”; nella grazia, l’uomo domanda, dicendo a Dio: “Dammi quello che mi comandi!”.

    Una volta scoperto questo segreto, sant’Agostino, che fino allora aveva combattuto inutilmente per riuscire a essere casto, cambiò metodo e anziché lottare con il suo corpo, cominciò a lottare con Dio; disse: “O Dio, tu mi comandi di essere casto; ebbene, dammi ciò che mi comandi e poi comandami ciò che vuoi!” [11] .E ottenne la castità! 5. Il sacerdote maestro di preghiera Nella Novo millennio ineunte il papa dice che la santità è un “dono” che si traduce in “compito” [12] .

    Lo stesso si deve dire della preghiera: essa è un dono di grazia che crea però in chi lo riceve il dovere di corrispondervi, di coltivarlo. Di questo vorrei occuparmi nella seconda parte di questa meditazione: la preghiera come compito primario del sacerdote. Se le comunità cristiane devono essere ”scuole di preghiera”, i sacerdoti che le guidano devono, di conseguenza, essere “maestri di preghiera”. Non posso, a questo proposito, trattenere un lamento. Un giorno gli apostoli dissero a Gesù: “Insegnaci a pregare”.

    Oggi tanti cristiani fanno silenziosamente al sacerdote e alla Chiesa la stessa richiesta: “Insegnaci a pregare!” Purtroppo in tante parrocchie si fa di tutto; ci sono iniziative di ogni genere, per i giovani, gli anziani, gruppi per lo sport, le gite, il tempo libero…, ma niente che invogli e aiuti la gente a pregare. Spesso chi avverte questo bisogno di spiritualità è indotto a cercare al di fuori di Cristo, in forme di spiritualità esoteriche e orientaleggianti, di cui ho messo in rilievo sopra il limite intrinseco per un cristiano. “Non è forse un ‘segno dei tempi’ –prosegue il papa nella sua lettera apostolica – che si registri oggi, nel mondo, nonostante gli ampi processi di secolarizzazione, una diffusa esigenza di spiritualità, che in gran parte si esprime proprio in un rinnovato bisogno di preghiera?

    Anche le altre religioni, ormai ampiamente presenti nei Paesi di antica cristianizzazione, offrono le proprie risposte a questo bisogno, e lo fanno talvolta con modalità accattivanti. Noi che abbiamo la grazia di credere in Cristo, rivelatore del Padre e Salvatore del mondo, abbiamo il dovere di mostrare a quali profondità possa portare il rapporto con lui” [13] . Nessuno può insegnare ad altri a pregare se non è lui stesso un uomo di preghiera e qui tocchiamo il punto nevralgico. Ricordiamo ciò che dice Pietro in occasione della prima ripartizione dei ministeri fatta in seno alla comunità cristiana: “Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense…Noi ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola” (At 6, 2-4).

    Se ne deduce che il pastore può delegare ad altri tutto, o quasi tutto, nella conduzione della comunità, eccetto la preghiera. Può essere di grande sostegno a un pastore, in questo campo, avere intorno a sé quello che santa Caterina da Siena chiamava “un muro di preghiera”, formato da anime desiderose del bene della Chiesa [14] . Ne abbiamo un esempio negli Atti degli apostoli. Pietro e Giovanni sono rilasciati dal Sinedrio con l’ingiunzione di non parlare più nel nome di Cristo. Se ignorano il comando espongono tutta la comunità a rappresaglie, se obbediscono tradiscono il mandato di Cristo. Non sanno che fare.

    È la preghiera della comunità che permette di superare la grave crisi. La comunità si mette in preghiera; uno legge un salmo, un altro ha il dono di applicarlo alla situazione presente; si determina un clima di intensa fede; avviene come una replica della Pentecoste e gli apostoli, pieni di Spirito Santo, riprendono ad annunciare “con parresia” il messaggio di salvezza (cf Atti 4, 23-31).

    Noi conosciamo di solito due forme fondamentali di preghiera: la preghiera liturgica e la preghiera privata o personale. La preghiera liturgica è comunitaria, ma non spontanea, nel senso che in essa ci si deve attenere a parole e formule stabilite e uguali per tutti. La preghiera personale è spontanea, ma non comunitaria. Esiste un terzo tipo di preghiera che è spontanea e comunitaria insieme: è la preghiera di gruppo, o il gruppo di preghiera.

    I “gruppi di preghiera”, di varia ispirazione, sono un segno dei tempi da accogliere con gratitudine, pur vigilando a che operino in modo sano e in umiltà all’interno della comunità. Questo è il tipo di preghiera a cui si riferisce Paolo quando scrive ai Corinzi: “Quando vi radunate ognuno può avere un salmo, un insegnamento, una rivelazione, un discorso in lingue, il dono di interpretarle. Ma tutto si faccia per l’edificazione” (1 Cor 14,26); è quello che suppone anche il passo della Lettera agli Efesini: “Siate ricolmi dello Spirito, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo “ (Ef 5,19-20).

    6. Preghiera e azione pastorale

    Una cosa soprattutto è necessario rinnovare nella vita del sacerdote ed è il rapporto tra preghiera e azione. Si deve passare da un rapporto di giustapposizione a un rapporto di subordinazione. Giustapposizione è quando prima si prega e poi si passa all’attività pastorale; subordinazione è quando prima si prega e poi si fa quello che il Signore ha mostrato in preghiera!

    Gli apostoli e i santi non pregavano semplicemente prima di fare qualcosa; pregavamo per conoscere cosa fare!

    Per Gesú pregare e agire non erano due cose separate, o giustapposte; di notte egli pregava e poi di giorno eseguiva quello che aveva capito essere la volontà del Padre: “In quei giorni Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli” (Lc 6,12-13).

    Se crediamo veramente che Dio governa la Chiesa con il suo Spirito e risponde alle preghiere, dovremmo prendere molto sul serio la preghiera che precede un incontro pastorale, una decisione importante; non accontentarci di recitare, in tutta fretta, una Ave Maria e fare un segno di croce per poi passare all’ordine del giorno, come se questo fosse la vera cosa seria. A volte può sembrare che tutto continui come prima e che nessuna risposta sia emersa dalla preghiera, ma non è così. Pregando si è “presentata la questione a Dio” cf Es 18, 19); ci si è spogliati di ogni interesse personale e della pretesa di decidere da soli, si è dato a Dio la possibilità di intervenire, di far capire qual è la sua volontà.

    Qualunque sia la decisione che si prenderà in seguito sarà quella giusta davanti a Dio. Spesso facciamo l’esperienza che più è il tempo che dedichiamo alla preghiera su un problema, tanto meno è il tempo che occorre poi per risolverlo. Molti sacerdoti possono testimoniare che la loro vita e il loro ministero sono cambiati a partire dal momento in cui hanno preso la decisione di mettere un’ora di preghiera personale al giorno nel loro orario, recintando, come con filo spinato, questo tempo sulla loro agenda per difenderlo da tutti e da tutto.

    Un posto particolare deve occupare, nella vita del sacerdote, la preghiera di intercessione. Gesù ce ne da l’esempio con la sua “preghiera sacerdotale”. “Prego per loro, per coloro che mi hai dato. [...] Custodiscili nel tuo nome. Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. Consacrali nella verità. [...] Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me…” (cf Gv 17, 9 ss). Gesù dedica relativamente poco spazio a pregare per sé (“Padre, glorifica il figlio tuo!”) e molto di più a pregare per gli altri, cioè a intercedere. Dio è come un padre pietoso che ha il dovere di punire, ma che cerca tutte le possibili attenuanti per non doverlo fare ed è felice, in cuor suo, quando i fratelli del colpevole lo trattengono dal farlo.

    Se mancano queste braccia fraterne levate verso di lui, egli se ne lamenta nella Scrittura: “Egli ha visto che non c’era alcuno, si è meravigliato perché nessuno intercedeva” (Is 59, 16). Ezechiele ci trasmette questo lamento di Dio: “Io ho cercato fra loro un uomo che costruisse un muro e si ergesse sulla breccia di fronte a me, per difendere il paese perché io non lo devastassi, ma non l’ho trovato” (Ez 22, 30). Quando, nella preghiera, noi sacerdoti sentiamo che Dio è in lite con il popolo che ci è stato affidato, non dobbiamo schierarci con Dio, ma con il popolo! Così fece Mosè, fino a protestare di voler essere radiato lui stesso, con loro, dal libro della vita (cf Es 32, 32), e la Bibbia fa capire che questo era proprio ciò che Dio desiderava, perché egli “abbandonò il proposito di nuocere al suo popolo”.

    Quando saremo davanti al popolo, allora dovremo, con tutta la forza, difendere i diritti di Dio. Solo chi ha difeso il popolo davanti a Dio e ha portato il peso del suo peccato, ha il diritto – e avrà il coraggio –, dopo, di gridare contro di esso, in difesa di Dio. Quando, scendendo dal monte, Mosè si trovò di fronte al popolo che aveva difeso sul monte, allora si accese la sua ira: frantumò il vitello d’oro, ne disperse la polvere nell’acqua e fece trangugiare l’acqua alla gente, gridando: “Così ripaghi il Signore, o popolo stolto e insipiente?” (cf. Es 32, 19 ss.; Dt 32, 6).

    Ho ricordato alcuni “doveri” del sacerdote riguardo alla preghiera, ma non vorrei che l’idea di dovere rimanesse, al termine di questa riflessione, la nota dominante, facendoci dimenticare che essa è prima di tutto dono. Se ci sentiamo tanto al di sotto di questo modello del sacerdote “uomo di preghiera”, non dimentichiamo mai quello che ci ha assicurato S. Paolo all’inizio: “Lo Spirito Santo viene in aiuto della nostra debolezza”.

    Forti di tale parola, noi possiamo iniziare ogni mattina la nostra giornata di preghiera dicendo: “Spirito Santo vieni in aiuto della mia debolezza. Fammi pregare. Prega tu in me, con gemiti inesprimibili. Io dico Amen, sì a tutto ciò che tu chiedi per me al Padre nel nome di Gesú”.

    —————————-

    [1] Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, 32-34.

    [2] Il libro della B. Angela da Foligno, Quaracchi, Grottaferrata, 1985, p. 454 s.

    [3] S. Agostino, Commento alla prima lettera di Giovanni, 7,8 (PL 35. 2023).

    [4] S. Agostino, Sermoni, 340,1 (PL 38, 1483): “Vobis sum episcopus, vobiscum sum christianus”.

    [5] Cf. S. Agostino, Lettere, 130, 4, 9 (CSEL 44, p.50).

    [6] Agostino, Enarrationes in Psalmos 85, 1: CCL 39, p. 1176.

    [7] Diadoco di Fotica, Capitoli sulla perfezione 61 (SCh 5 bis, p. 121).

    [8] Il libro della B. Angela da Foligno, ed. Quaracchi, Grottaferrata 1985, p. 474 (“recolligere nos in Deo, scilicet totam animam in ista infinitate divina”).

    [9] S. Ignazio d’Antiochia, Ai Romani 7, 2.

    [10] Denzinger-Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum, n. 1536.

    [11] Agostino, Confessioni, X, 29.

    [12] NMI, 30. [13] NMI, 33. [14] S. Caterina da Siena, Preghiere,

    CARI GENITORI, VI SCRIVO – Carlo Maria Martini

    Martini 88055B

    CARI GENITORI, VI SCRIVO

    Avrete tempo per leggere anche questa lettera? Avrete un momento di calma per condividere qualche mia preoccupazione e considerare qualche mia proposta? Chi sa come è stata la vostra giornata? Forse dopo ore di lavoro non facile e non senza tensioni, avete affrontato il viaggio di ritorno a casa che è stato più lungo ed esasperante del solito per un ingorgo, per un ritardo, per un qualsiasi imprevisto; e per finire può essere che appena entrati in casa abbiate incrociato lo sguardo risentito della figlia adolescente per un permesso negato e l’irrequietezza del più piccolo con i suoi capricci e la scoraggiante approssimazione nel finire i compiti. E io oso ancora disturbarvi…!

    Dovete credere che mi muove a questo scritto proprio un affetto, una cura per la vostra famiglia, il desiderio di dirvi ancora una volta la mia vicinanza e la mia ammirazione per il vostro compito educativo, così affascinante e talora così logorante. Vi scrivo per condividere con voi una preoccupazione.

    Mi sembra di intravedere in molti ragazzi e giovani uno smarrimento verso il futuro, come se nessuno avesse mai detto loro che la loro vita non è un caso o un rischio, ma è una vocazione. Ecco, vorrei parlarvi della vocazione dei vostri figli e invitarvi ad aprire loro orizzonti di speranza. Infatti i vostri figli, che voi amate tanto, sono amati ancor prima, e d’amore infinito, da Dio Padre: perciò sono chiamati alla vita, alla felicità che il Signore annuncia nel suo Vangelo.

    Dunque il discorso sulla vocazione è per suggerire la strada che porta alla gioia, perché questo è il progetto di Dio su ciascuno: che sia felice. Non dovete dunque temere: il Signore chiama solo per rendere felici. Ecco perché oso disturbarvi. Mi sta a cuore la felicità vostra e dei vostri figli. E per questo mi stanno a cuore tutte le possibili scelte di vita: il matrimonio e la vita consacrata, la dedizione al ministero del prete e del diacono, l’assunzione della professione come una missione…

    Tutte possono essere un modo di vivere la vocazione cristiana se sono motivate dall’amore e non dall’egoismo, se comportano una dedizione definitiva, se il criterio e lo stile della vita quotidiana è quello del Vangelo. Vi scrivo, dunque, per dirvi con quale affetto vi sono vicino e condivido la vostra cura perché la vita dei vostri figli che tanto amate non vada perduta.

    LA FAMIGLIA E’ UNA VOCAZIONE

    La prima vocazione di cui voglio parlarvi è la vostra, quella di essere marito e moglie, papà e mamma. Perciò la mia prima parola è proprio per invitarvi a prendervi cura del vostro volervi bene come marito e moglie: tra le tante cose urgenti, tra le tante sollecitazioni che vi assediano, mi sembra che sia necessario custodire qualche tempo, difendere qualche spazio, programmare qualche momento che sia come un rito per celebrare l’amore che vi unisce.

    L’inerzia della vita con le sue frenesie e le sue noie, il logorìo della convivenza, il fatto che ciascuno sia prima o poi una delusione per l’altro quando emergono e si irrigidiscono difetti e cattiverie, tutto questo finisce per far dimenticare la benedizione del volersi bene, del vivere insieme, del mettere al mondo i figli e introdurli nella vita. L’amore che vi ha persuasi al matrimonio non si riduce all’emozione di una stagione un po’ euforica, non è solo un’attrazione che il tempo consuma. L’amore sponsale è la vostra vocazione: nel vostro volervi bene potete riconoscere la chiamata del Signore.

    Il matrimonio non è solo la decisione di un uomo e di una donna: è la grazia che attrae due persone mature, consapevoli, contente, a dare un volto definitivo alla propria libertà. Il volto di due persone che si amano rivela qualcosa del mistero di Dio. Vorrei pertanto invitarvi a custodire la bellezza del vostro amore e a perseverare nella vostra vocazione: ne deriva tutta una concezione della vita che incoraggia la fedeltà, consente di sostenere le prove, le delusioni, aiuta ad attraversare le eventuali crisi senza ritenerle irrimediabili.

    Chi vive il suo matrimonio come una vocazione professa la sua fede: non si tratta solo di rapporti umani che possono essere motivo di felicità o di tormento, si tratta di attraversare i giorni con la certezza della presenza del Signore, con l’umile pazienza di prendere ogni giorno la propria croce, con la fierezza di poter far fronte, per grazia di Dio, alle responsabilità. Non sempre gli impegni professionali, gli adempimenti di famiglia, le condizioni di salute, il contesto in cui vivete, aiutano a vedere con lucidità la bellezza e la grandezza della vostra vocazione. E’ necessario reagire all’inerzia indotta dalla vita quotidiana e volere tenacemente anche momenti di libertà, di serenità, di preghiera.

    • Vi invito pertanto a pregare insieme, già questa sera, e poi domani e poi sempre: una preghiera semplice per ringraziare il Signore, per chiedere la sua benedizione per voi, i vostri figli, i vostri amici, la vostra comunità: qualche Ave Maria per tutte quelle attese e quelle pene che forse non si riescono neppure a dire tra di voi.

    • Vi invito ad aver cura di qualche data, a distinguerla con un segno, come una visita a un santuario, una Messa anche in giorno feriale, una lettera per dire quelle parole che inceppano la voce; la data del vostro matrimonio, quella del battesimo dei vostri figli, quella di qualche lutto familiare, tanto per fare qualche esempio.

    • Vi invito a trovare il tempo per parlare tra voi con semplicità, senza trasformare ogni punto di vista in un puntiglio, ogni divergenza in un litigio: un tempo per parlare, scambiare delle idee, riconoscere gli errori e chiedervi scusa, rallegrarvi del bene compiuto, un tempo per parlare passeggiando tranquillamente la domenica pomeriggio, senza fretta.

    • E vi invito a stare per qualche tempo da soli, ciascuno per conto suo: un momento di distacco può aiutare a stare insieme meglio e più volentieri. Vi invito ad avere fiducia nell’incidenza della vostra opera educativa: troppi genitori sono scoraggiati dall’impressione di una certa impermeabilità dei loro figli, che sono capaci di pretendere molto, ma risultano refrattari a ogni interferenza nelle loro amicizie, nei loro orari, nel loro mondo. La vostra vocazione a educare è benedetta da Dio: perciò trasformate le vostre apprensioni in preghiera, meditazione, confronto pacato.

    Educare è come seminare: il frutto non è garantito e non è immediato, ma se non si semina è certo che non ci sarà raccolto. Educare è una grazia che il Signore vi fa: accoglietela con gratitudine e senso di responsabilità. Talora richiederà pazienza e amabile condiscendenza, talora fermezza e determinazione, talora, in una famiglia, càpita anche di litigare e di andare a letto senza salutarsi: ma non perdetevi d’animo, non c’è niente di irrimediabile per chi si lascia condurre dallo Spirito di Dio. E affidate spesso i vostri figli alla protezione di Maria, non tralasciate una decina del rosario per ciascuno di loro: abbiate fiducia e non perdete la stima né di voi stessi né dei vostri figli. Educare è diventare collaboratori di Dio perché ciascuno realizzi la sua vocazione.

     LA COLLABORAZIONE ALLA GIOIA DEI FIGLI

     La gioia che desiderate per voi e per i vostri figli è un misterioso dono di Dio: giunge a noi come la luce amica delle stelle, come una musica lieta, come il sorriso di un volto desiderato. La collaborazione che i genitori possono offrire alla gioia dei figli è l’educazione cristiana. L’educazione non è un meccanismo che condiziona, ma l’accompagnamento di una giovane libertà perché, se vuole, giunga al suo compimento nell’amore. Educare è dunque un servizio umile, che può conoscere il fallimento; è però anche una impresa formidabile di cui un uomo e una donna possono gioire con inesprimibile intensità.

    L’educazione cristiana è il paziente e tenace lavoro che prepara il terreno al dono della gioia di Dio. Infatti la luce delle stelle non si vede se il bagliore sfacciato delle luminarie nasconde la notte, la musica lieta non avvolge di consolazione quando il frastuono del rumore è assordante e non si ha tempo per un volto amico nella eccitazione di una folla in delirio. Per disporre alla gioia è dunque necessaria una purificazione che non va senza fatiche. Voglio alludere almeno ad alcune delle purificazioni che mi sembrano particolarmente necessarie oggi.

    La purificazione degli affetti significa introdurre alla gioia che è sconosciuta a chi immagina i rapporti tra l’uomo e la donna come una via per ridurre l’altro a strumento per la propria gratificazione e rassicurazione: allora gli affetti degenerano a passione, possessività, sensualità. Lo spirito di servizio e la disponibilità al sacrificio introducono alla gioia che si rallegra di vedere gli altri contenti, le iniziative funzionare bene, le comunità ordinate e vivaci. E’ una gioia sconosciuta a chi impigrisce nell’inconcludenza. Come mi stringe il cuore considerare lo sperpero di tempo, di risorse giovani e affascinanti, di intelligenza e denaro che vedo compiersi da parte di tante compagnie dei nostri ragazzi!

    Come è urgente reagire all’inerzia e alla malavoglia per edificare una vita lieta! La purificazione dalla paura del futuro è urgente per introdurre alla gioia della definitività. Una vita si compie quando si definisce in una dedizione: la scelta definitiva deve essere desiderata come la via della pace, come l’ingresso nell’età adulta e nelle sue responsabilità. Siano benedetti quei genitori che con la fedeltà del loro volersi bene insegnano che la definitività è una grazia e non un pericolo da temere, né una limitazione della libertà da ritardare il più possibile. Pericolosa e fonte di inquietudine è invece la precarietà, la provvisorietà, lo smarrimento che lasciano un giovane parcheggiato nella vita, incerto sulla sua identità e spaventato del suo futuro.

    EDUCARE ALL’APPARTENENZA ALLA CHIESA

    Voi genitori sentite la responsabilità di provvedere alla felicità dei vostri figli: siete disposti a concedere molto, talora anche troppo, “purché lui sia contento”. Questo diventa motivo di ansia, di sensi di colpa, di esasperazione quando non riuscite a ottenere dai figli che assumano, condividano le vostre indicazioni, quando risultano impraticabili le proposte che sembrano tanto ovvie ai preti, agli insegnanti, agli esperti che scrivono sui giornali. A me sembra che sia più saggio considerare che i genitori non sono colpevoli di tutti gli errori e l’infelicità dei figli, di tutto lo squallore di certe giovinezze sciupate nell’inconcludenza o nella trasgressione. E’ eccessivo che un papà e una mamma si sentano colpevoli di tutto: è più prudente e rasserenante condividere la responsabilità dentro una comunità.

    Quando avete portato il vostro bambino in Chiesa per chiedere il battesimo avete dichiarato la vostra fede nel Padre che sta nei cieli e la vostra decisione che il figlio crescesse nella comunità cristiana. Mi sembra che una conseguenza coerente della scelta di chiedere il battesimo per i propri figli sia un’opera educativa che si preoccupi di inserire in una comunità, di promuovere la partecipazione, di insinuare nei ragazzi e nei giovani un senso di appartenenza alla comunità cristiana in cui si educa alla fede, alla preghiera, alla domanda sul futuro.

    Una famiglia che si isola, che difende la propria tranquillità sottraendosi agli appuntamenti comunitari risulta alla fine più fragile e apre la porta a quel nomadismo dei giovani che vanno qua e là assaggiando molte esperienze, anche contraddittorie, senza nutrirsi di nessun cibo solido. Inserirsi in una comunità può richiedere qualche fatica e non risparmia qualche umiliazione: penso alle famiglie che hanno cambiato casa e si sentono perdute nei quartieri nuovi, penso a quelle che hanno sofferto qualche incomprensione, penso a quelle appassionate dell’andare altrove per vedere gente, per praticare sport, per respirare un po’ d’aria buona. Ecco: viene il tempo in cui scegliere le priorità.

    Il futuro dei vostri figli ha bisogno di scelte che dichiarino che cosa è più importante. Ritenere irrinunciabile la partecipazione alla Messa domenicale introduce a una mentalità di fede che ritiene che senza il Signore non si può fare niente di buono. Perciò la frequenza alla Messa domenicale nella vostra parrocchia, la partecipazione alle feste della comunità, l’assunzione di qualche responsabilità, la cura perché i figli frequentino l’oratorio, la catechesi, gli impegni e le iniziative dei giovani della parrocchia, sono un modo per favorire questo senso di appartenenza che dà stabilità e conduce a un progressivo farsi carico della comunità che può maturare anche in una vocazione al suo servizio.

    APPREZZAMENTO PER LA VITA DEI PRETI

    Mi càpita talora di raccogliere nei genitori una specie di paura, di apprensione al sospetto che un figlio possa orientarsi al ministero sacerdotale. Anche i genitori dei seminaristi mi fanno intuire la loro inquietudine, come se mi domandassero: “Ma che vita aspetta mio figlio, se diventa prete? Sarà felice? Sarà solo?”. Vorrei rispondere che la vita del prete, di oggi e di domani, come quella di ieri, è una vita cristiana: perciò chi vuol essere un bravo prete porterà la sua croce ogni giorno, come fate voi, in una dedizione che non sarà sempre gratificata da riconoscenza e da risultati, in un esercizio di responsabilità che incontrerà anche la critica e l’incomprensione, in un assedio di impegni e di pretese che sarà talora logorante. Tuttavia non si considera abbastanza – mi sembra – ciò che rende bella la vita di un prete, bella e lieta in un modo unico.

    • Il prete infatti vive soprattutto di relazioni: dedica il suo tempo alle persone.

    • Non si cura di cose, di carte, di soldi, se non secondariamente.

    • Passa il suo tempo a incontrare gente: i bambini e gli anziani, i giovani e gli adulti, i malati e i sani, quelli che gli vogliono bene e lo aiutano e quelli che lo criticano, lo deridono, e pretendono. E’ una esperienza umana straordinaria.

    • E incontra le persone non per trarne qualche vantaggio, ma per prendersi cura di loro, della loro vocazione alla gioia, del loro essere figli di Dio.

    • Al prete le persone spesso aprono il loro cuore per una confidenza che non ha eguali nei rapporti umani e in questa confidenza viene seminata la Parola che dice la verità, che apre alla speranza eterna, che guarisce con il perdono.

    • Il prete vive una libertà straordinaria: ha consegnato sé stesso alla Chiesa e perciò, se è coerente con la sua vocazione, non ha apprensioni per il suo futuro, non si attacca alle cose, non si assilla per arricchire.

    • Il prete celebra per sé e per la gente i misteri della salvezza: opera delle sue mani non sono prodotti precari, fortune esposte all’incerta sorte delle cose umane. Celebrando i santi misteri offre alla gente la grazia d’entrare nella vita eterna, la comunione con Gesù. Mi sembra opportuno ricordare ciò che rende grande e bella la vita del prete, perché l’enfasi sulle fatiche, la sottolineatura delle difficoltà non oscuri questa forma splendida di vita cristiana. Penso che un papà e una mamma possano comprendere, al di là dei luoghi comuni e delle reazioni emotive, quale grande grazia sia il dono del sacerdozio e possano perciò rallegrarsi se un loro figlio sente l’attrattiva per questa strada: vi assicuro che non gli mancherà la gioia, se sarà un bravo prete.

    • In ogni caso parlare male dei preti e indicarli come responsabili di tutto quanto non va nelle comunità cristiane non può certo aiutare a migliorare le cose e tanto meno incoraggiare un giovane a farsi avanti per assumere un ministero tanto necessario per la Chiesa e tanto bello per chi lo vive bene.

    LA PREGHIERA PER LE VOCAZIONI

    La bellezza cristiana della vita di un bravo prete e la grazia straordinaria che rappresenta un prete santo per una comunità, devono suggerire a tutti di pregare perché nelle nostre comunità non manchino i preti. La preghiera per le vocazioni al ministero sacerdotale deve essere condivisa da tutta la comunità. Invito anche voi a pregare in famiglia e a suggerire questa intenzione di preghiera anche ai vostri figli, in obbedienza alla parola del Signore “pregate il padrone della messe che mandi operai per la sua messe” (Luca 10,2). Come ho scritto ai preti in occasione della festa di San Carlo, questa preghiera non è una specie di delega al Signore perché faccia quello che a noi non riesce: è piuttosto un abbandonarsi intelligente e libero alla guida dello Spirito che diventa disponibilità a compiere le opere di Dio. Perciò la preghiera per le vocazioni dovrebbe essere più intensamente praticata da parte di coloro che si trovano nell’età e nelle condizioni della scelta del loro stato di vita.

    Vorrei che ogni adolescente o giovane comprendesse che la verità della preghiera per le vocazioni è raggiunta quando nel fondo risuona come la preghiera di Isaia: “Signore, se vuoi, manda me!” (cfr. Isaia 6,8). Anche oggi, come duemila anni fa, Natale arriva in un contesto di oscurità e dolore. Ma non mancano i germogli di speranza.

    L’editoriale del cardinale Martini nel nuovo numero di Popoli

    L’editoriale di dicembre di Popoli porta la firma del cardinale Carlo Maria Martini, che offre alcune riflessioni sul Natale alle porte.

    Se il racconto del Vangelo di Luca ci offre un’immagine luminosa e serena del Natale, non va dimenticata – sottolinea il cardinale – la dimensione di oscurità, di dolore e anche di disperazione in cui nasce Gesù: al termine di un viaggio faticoso, tra l’indifferenza della gente, nel freddo e nella solitudine. «Anche oggi possiamo lamentarci di vivere in un periodo particolarmente oscuro e difficile», scrive Martini ricordando la pesante crisi economica che mette in difficoltà tante famiglie, l’ingiustizia globale, la crescente intolleranza verso i poveri e gli stranieri.

    Eppure, anche oggi opera il mistero del Natale, mistero di modestia e di piccolezza. In questo contesto l’arcivescovo emerito di Milano individua alcuni segnali di speranza: il crescente interesse per la Bibbia, il desiderio di un’apertura ecumenica e interreligiosa e tante piccole iniziative di pace e riconciliazione in risposta alla violenza.

    Così Carlo Maria Martini: «“I colori di Dio” presenta molte delle religioni presenti nel mondo: dalle grandi religioni monoteiste, alle cosiddette religioni popolari e indigene. Uomini e donne di tutto il mondo testimoniano con la loro preghiera, i loro riti, la loro spiritualità, che la religiosità è un fattore intrinseco e indispensabile alla vita dell’uomo. «Scorrendo le bellissime fotografie raccolte in questo libro si ricava una impressione generale di serenità, di amicizia, di fiducia, di pace.

    I gesti religiosi che esse presentano sono visti come generatori di gioia e di equilibrio, come fonte di mutua intesa fra gli uomini e le donne di questo mondo. (…) Ritornando al contenuto, in queste fotografie, vediamo come la pace deriva direttamente da ogni vera religiosità. Le religioni possono fare molto per la pace e per questo debbono conoscersi, aiutarsi, fermentarsi a vicenda per scoprire sempre meglio il grande mistero che è nascosto

    LXVI CAPITOLO GENEALE Fatebenefratelli – Conclusioni

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    Dedichiamo questo inserto alla celebrazione del recente Capitolo Generale dell’Ordine che ha visto l’elezione a Superiore Generale di fra Donatus Forkan. Credo pertanto opportuno lasciare questo spazio ad una sintesi della Lettera di Natale che il nuovo Generale ha inviato a tutto il mondo dei Fatebenefratelli. 

    “Vi do la mia pace”(Gv 14, 27) 

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    donatus-forkan-oh-150x150Cari Confratelli, Collaboratori, malati e quanti serviamo attraverso il carisma dell’Ospitalità, amici dell’Ordine, con questo mio primo Messaggio di Natale desidero salutare tutti coloro che fanno parte della nostra Famiglia Ospedaliera, che sono a noi legati o che usufruiscono dei nostri servizi, ovunque essi siano. Il Natale è un tempo veramente speciale per noi che abbiamo il privilegio di chiamarci cristiani, in ragione del dono della fede che abbiamo ricevuto. Ci sono nel mondo tanti uomini e donne che non condividono la nostra fede, ma che riconoscono in Gesù un grande Profeta o un uomo santo, e che per questo partecipano alle celebrazioni che contraddistinguono questo importante evento del nostro anno liturgico.

     

    Diffondiamo il vero significato del Natale

     

    Stiamo vivendo in un mondo sempre più materialista che, in modi impercettibili o fin troppo evidenti, cerca di minare il vero significato del Natale attraverso i suoi tentativi di escludere Cristo da questa festa. Sappiamo che molte delle nostre solennità cristiane traggono le proprie origini da festività pagane, che la Chiesa ha incorporato, o che ha adattato alle proprie celebrazioni.

    Pertanto, per trasmettere il vero significato del Natale, dobbiamo essere cauti, attenti, sensati e creativi nel nostro modo di celebrare questo evento cristiano.

     

    La tendenza a eliminare dal Natale ogni riferimento a Cristo o a Dio, potrebbe avere gravi conseguenze per il futuro della Chiesa e per il suo messaggio, ma anche per la civiltà stessa. Oggi più di prima, noi seguaci di Gesù siamo chiamati a dare una testimonianza chiara ed inequivocabile di ciò in cui crediamo, dei valori che guidano le nostre decisioni e del modo in cui viviamo la nostra esistenza terrena.

     

    La nostra difficoltà nel comunicare il vero significato del Natale e il suo messaggio sorge dal fatto che gran parte di quanto viene detto in questo periodo dell’anno purtroppo mal si adatta ll’esperienza di molte persone povere  e sofferenti, e alla realtà del mondo di oggi. Parliamo di pace mentre imperversano guerre, violenza e terrorismo. Noi abbiamo da mangiare in abbondanza, e invece tanti nostri fratelli e sorelle continuano a patire la fame. Siamo bersagliati dalla pubblicità che ci invita al consumismo estremo, mentre tante persone non hanno

    neanche un tetto per proteggersi.

     

    Parliamo di casa e di famiglia, e invece anche attorno a noi sono tanti gli immigrati che vivono lontani dai propri familiari e che si sentono veramente soli, specialmente in questo periodo dell’anno. Molti di noi che si professano cristiani hanno delle gravi responsabilità al riguardo. Non sempre riusciamo a “praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con Dio” (Michea 6, 8).

     

    Tutti dobbiamo contribuire affinché nella nostra società regni la pace. Tutti, senza eccezione alcuna, ci dobbiamo adoperare per creare una società giusta e pacifica, dove quanti amano la pace – la stragrande maggioranza delle persone – possa vivere nella pace. Pace non significa soltanto mancanza di guerra o di violenza, ma una società o un ambiente in cui siano rispettati i diritti di ogni persona; una società in cui tutti abbiano l’opportunità di crescere e di migliorare, così da consentire a ciascuno di raggiungere il pieno potenziale come essere umano e come figlio di Dio. Inoltre, una società può dirsi pacifica quando le persone che sono le più vulnerabili, le più deboli, come i malati, gli anziani, gli immigrati o i disabili, sono difesi e protetti. Nessuno si trova in una posizione svantaggiata quando regna la pace!

     

    Il nostro modo di portare la pace

     

    Per noi che facciamo parte della Famiglia Ospedaliera, contribuire a creare una società pacifica significa praticare l’ospitalità secondo il modo che ci è stato mostrato da San Giovanni di Dio. L’ospitalità secondo lo stile di San Giovanni di Dio è l’antitesi dell’ostilità. La nostra ospitalità è la risposta, se vogliamo l’antidoto, per un mondo diviso da violenze, tensioni razziali, terrorismo, sfiducia, guerre, emarginazione per ragioni di malattia, disabilità, credo religioso, povertà o per differenze culturali. L’ospitalità praticata secondo lo stile di San Giovanni di Dio è ciò di cui ha più bisogno il nostro mondo.

     

    Un dono speciale per Gesù

     

    In questo periodo dell’anno, la natura della nostra missione esige che molti nostri Confratelli e Collaboratori lavorino durante il Natale e il Capodanno, spesso proprio la Notte Santa o a Capodanno. Vorrei rivolgermi in particolare a queste persone per ricordare i loro sacrifici, il loro attaccamento al lavoro e la generosità con la quale lo svolgono, e ringraziarle di cuore. Questo servizio è un grande atto di generosità e di altruismo da parte loro, e riceve tutto il nostro apprezzamento e la nostra ammirazione. Gesù si identifica con il bisognoso, con l’affamato e l’assetato, con il forestiero, l’ignudo, il malato e il carcerato. “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 40).

     

     “Amore di Dio e amore del prossimo si fondono insieme: nel più piccolo incontriamo Gesù stesso e in Gesù incontriamo Dio” (Benedetto XVI, Deus Caritas Est, 15). I nostri Confratelli e i nostri Collaboratori vivono questa realtà ogni giorno, ma penso che coloro che lavorano durante il periodo natalizio meritino una menzione speciale. Nella Notte Santa, si prendono cura di Gesù, nella persona dei malati, facendoGli in questo modo il miglior regalo che si possa fare.

     

    Per molti il Natale è un tempo di tristezza

     

    Per tante persone ricoverate nei nostri ospedali o centri residenziali, il Natale e il Capodanno possono costituire un momento di tristezza, perché sono lontane da casa. I Confratelli e i Collaboratori che si occupano di loro durante le festività perpetuano realmente l’operato di San Giovanni di Dio, prendendosi cura di questi malati con calore umano, comprensione e compassione. Lo stesso Giovanni di Dio, quando ritornava a casa la sera dopo aver chiesto l’elemosina in giro per la città, andava a visitare i malati del suo ospedale chiedendo se avessero bisogno di qualcosa.

     

    La porta dell’Ospitalità è sempre aperta

     

    Nella maggior parte delle nostre istituzioni, viene fornito un servizio 24 ore al giorno e per 365 giorni l’anno. Mentre altre istituzioni come banche, scuole  e persino chiese, sinagoghe e moschee, ogni giorno chiudono le porte ad una certa ora (anche in certe festività), la porta dei nostri centri, come quella della Casa di Ospitalità di San Giovanni di Dio, è sempre aperta per accogliere quanti hanno bisogno di noi. È una cosa molto bella che va salvaguardata e di cui dobbiamo andare orgogliosi. Così come il sole splende sempre sul mondo, anche l’ospitalità non smetterà mai di essere praticata dai nostri Confratelli e Collaboratori.

     

    Oltre agli ospedali in cui le persone vengono per essere curate dalla malattia che le affligge, in molti Paesi l’Ordine possiede centri, asili notturni o case di ospitalità per persone che vivono situazioni particolari e che qui trovano una casa in cui vengono accolte. Siamo aperti nei confronti di queste persone, dimostrandoci sensibili e pronti a rispondere ai loro bisogni; in questo modo

    manteniamo vivo lo spirito di San Giovanni di Dio. E’ un prezioso servizio che rendiamo all’umanità. Per noi Confratelli, in particolare, come persone consacrate nell’ospitalità, è anche un privilegio che ci dà l’opportunità di portare la “testimonianza del Dio nel quale crediamo e dal quale siamo spinti ad amare” (DCE, 31c). Nel farlo condividiamo la missione della Chiesa, che è quella di Cristo, perpetuando il suo ministero sanante per la salvezza per tutti. Mostriamo il volto di un Dio ospitale, che si privò di tutto, persino della sua essenza divina, per scendere tra noi come Gesù di Nazaret per mostrarci il suo amore infinito ed accompagnarci nel viaggio della vita, fino al ritorno alla Casa del Padre (cfr. 2 Cor 8, 9).

     

    Ci sono molti modi per praticare l’ospitalità. Per usare le parole del nostro Fondatore, “non dobbiamo cessare mai di fare il bene mentre possiamo farlo” (cfr. 1 DS, 13). Come seguaci di San Giovanni di Dio, dobbiamo ritenerci fortunati per avere così tante opportunità di fare del bene per amore del Signore.

     

    Conclusione

     

    Come i re Magi che, seguendo la stella, giunsero alla capanna dove c’era il Salvatore del mondo, la maggior parte dei membri del nuovo Governo Generale, sono arrivati a Roma. Non sono venuti su un cammello o seguendo una stella, ma per rispondere alla chiamata dei Confratelli riuniti nel Capitolo, per servire l’Ordine e la Chiesa nel ministero che è stato loro affidato come Consiglieri Generali o Segretario Generale. Hanno dovuto abbandonare molte cose per rispondere a questa chiamata, e ciò non è mai facile.

     

    Hanno lasciato il proprio Paese, la comunità e le persone con le quali hanno lavorato e costruito rapporti di amicizia e di cooperazione. Hanno lasciato anche i propri familiari, e questo non è un sacrificio solo per il Confratello ma anche per la sua famiglia.

     

    Per concludere, auguro a quanti fanno parte della Famiglia Ospedaliera di trascorrere un sereno Santo Natale. Impegniamoci a praticare l’ospitalità di San Giovanni di Dio con passione, con un inestinguibile desiderio di diffondere questo messaggio in tutto il mondo, nella ricerca di nuovi modi per esprimere l’ospitalità, per giungere alle persone malate, sole, a quanti non si sentono amati, o che sono rifiutati ed emarginati dalla società e portare loro speranza e cure, secondo quanto ci è stato insegnato da Gesù e tramandato dall’esempio di San Giovanni di Dio. Che il Nuovo Anno 2007 sia per tutti apportatore di pace, di gioia e di serenità.

     

    Vi saluto fraternamente in San Giovanni di Dio.

    Fra Donatus Forkan, O.H.

    Superiore Generale

     

    Praticate sempre l’Ospitalità

     

    Presso la Casa di Ospitalità dei Padri Salesiani in Roma alle ore 9,30 del 2 ottobre ha avuto ufficialmente inizio il LXVI Capitolo Generale dell’Ordine. Il giorno 14 ottobre, dopo il discernimento e la celebrazione di riconciliazione, fra Josè Luis Redrado, vescovo dei Fatebenefratelli, ha presieduto la Messa di invocazione allo Spirito Santo i Padri Capitolari si sono espressi col voto.

     

    È risultato così eletto Superiore Generale Fra Donatus Forkan. Nato a Kinaffe, Swinford,Irlanda, il 5 aprile 1942. Ha emesso la professione temporanea il giorno 8 settembre 1960 e quella solenne il 28 agosto 1966. Eletto 2° Consigliere Generale nel Capitolo Generale del 1994; rieletto 1° Consigliere Generale il 18 novembre del 2000 nel Capitolo Generale tenutosi a Granada, Spagna.

     

    Quali Consiglieri Generali sono stati eletti:

     

    1° Fra Rudolf Knopp, Germania, Provincia Bavarese

    2° Fra Jesús Etayo Arrondo, sac., Spagna, Provincia Aragonese

    3° Fra Vincent Kochamkunnel, India, Provincia Indiana

    4° Fra Elia Tripaldi, sac., Italia, Provincia Romana

    5° Fra Robert Chakana, Zambia, Provincia Africana N.S. Misericordia

    6° Fra Daniel Alberto Màrquez Bocanegra, Colombia, Provincia del Messico

     

    Lasciamo posto alle parole di fra Donatus, nuovo Superiore Generale, per rivivere, attraverso lo scritto che ha inviato a tutto l’Ordine, la cronaca e i sentimenti vissuti neigiorni di lavoro capitolare.

     

    INSIEME POSSIAMO FARE GRANDI COSE        

     

    Fra Donatus scrive a tutto l’Ordine: confratelli,collaboratori, volontari, benefattori e a quanti serviamo attraverso il carisma dell’Ospitalità

     

    Miei cari Confratelli e amici,

     

    anche se è passato poco tempo dalla conclusione del LXVI Capitolo Generale del nostro Ordine, che mi ha visto succedere a fra Pascual Piles come Superiore Generale, desidero rivolgervi il mio saluto e ringraziare quanti hanno inviato un messaggio di auguri, sostenendomi con le loro preghiere. Ringrazio altresì le migliaia di persone che ci sono state vicine spiritualmente, attraverso la preghiera, durante i giorni del Capitolo. Appena mi sarà possibile, cercherò di rispondere personalmente.

     

    Per ora vogliate accettare i miei più sentiti ringraziamenti. Dopo aver superato lo ‘shock’ dell’elezione a Superiore Generale, sin dai primi giorni mi sono sentito supportato dalle manifestazioni di buona volontà che ho ricevuto da tutto l’Ordine. Per parafrasare le parole di San Giovanni di Dio, “ciò che avete fatto sarà ricordato nel Libro della Vita”. Grazie.

     

    Senz’altro molti di voi vorranno sapere in che modo viene scelto un nuovo Superiore Generale. Vorrei descrivervi perciò in breve il processo che ha portato alla mia elezione, condividendo con voi diverse sensazioni ed alcuni pensieri. Come è nostra abitudine, prima dell’elezione abbiamo dedicato del tempo al discernimento, che in pratica si è realizzato attraverso la preghiera, la riflessione personale e il dialogo con gli altri Capitolari sulle qualità e i limiti dei vari Confratelli indicati come possibili candidati.

     

    Durante questo processo siamo stati guidati da suor Helena O’Donoghue, delle Suore Irlandesi della Carità. Dato che il nostro gruppo è formato da persone provenienti da tutto il mondo, ed i Capitolari avevano bisogno di un certo aiuto per comunicare il proprio pensiero, in questa tappa abbiamo formulato due voti orientativi. Nel primo è stato chiesto ai Capitolari di apporre su una scheda i nomi di due confratelli che, secondo loro, erano adatti a ricoprire la carica di Superiore Generale. Alcune ore più tardi, è stato chiesto di apporre sulla scheda un solo nominativo. Dopo aver comunicato i risultati, è stato dedicato del tempo alla preghiera, al dialogo tra Capitolari e alla riflessione.

     

    Al momento previsto, tutti i Capitolari si sono riuniti nell’aula e sono state espletate alcune formalità, secondo quanto previsto dal Rituale dell’Ordine in questi casi. Tutti i presenti, sotto il vincolo del giuramento, hanno votato per eleggere i confratelli che, secondo loro, avrebbero potuto svolgere al meglio la responsabilità di Superiore Generale e di Consiglieri Generali. È stata invocata la presenza dello Spirito Santo attraverso un canto solenne, quindi fra Pascual Piles ha rassegnato le dimissioni dall’ufficio di Superiore Generale nelle mani di fra Brian O’Donnell, ex Superiore Generale, che è stato scelto per presiedere la sessione capitolare durante la quale sarebbe stato eletto il nuovo Superiore.

     

    Fra Pascual ha accettato l’invito a rivolgere qualche parola di saluto al Capitolo, ed ha espresso il proprio apprezzamento per l’aiuto umano e le grazie ricevute durante il periodo trascorso come Superiore Generale. Ha chiesto scusa per le eventuali offese che ha potuto procurare inavvertitamente a qualcuno, e ha promesso che continuerà a fare del suo meglio per servire l’Ordine e quanti sono nel bisogno. I Capitolari hanno accolto le parole di fra Pascual con un lungo applauso.

     

    A questo punto, i Confratelli Capitolari hanno votato per eleggere il nuovo Superiore Generale. Lo spoglio dei voti è avvenuto davanti a tutti; quindi il Segretario del Capitolo ha letto il numero dei voti ricevuti da ogni candidato, con la conferma del Presidente e dei due scrutinatori. Il Presidente del Capitolo ha dichiarato eletto il candidato che ha ricevuto la maggioranza dei voti necessaria, quindi mi ha chiesto se accettavo la volontà del Capitolo. Come tutti sapete, ho risposto affermativamente. Ne è seguito l’applauso dei Capitolari, e sono stato confermato nell’ufficio dal Presidente del Capitolo, quindi mi è stato presentato il sigillo dell’Ordine. I confratelli hanno intonato un inno di ringraziamento, quindi ciascuno di loro ha scambiato con me un abbraccio fraterno, rinnovandomi la propria obbedienza e presentandomi gli auguri. Durante questo momento, i collaboratori che stavano attendendo fuori dalla Sala Capitolare sono entrati e mi hanno presentato le loro congratulazioni.

     

    Tutti mi chiedono: “Cosa hai provato?”

     

    Come ho detto rivolgendomi al Capitolo dopo la mia elezione, mi sono sentito sorpreso (e vi confesso che lo sono ancora) per la calma e la pace che ho avvertito dentro di me. Mi sentivo stanco ma tranquillo, anche se a dire il vero avevo sperato e pregato che questo compito non ricadesse sulle mie spalle. Nella vita religiosa, come ci si immagina e ci si aspetta, facciamo le cose diversamente da come vengono fatte nella società e in special modo nella vita politica. Anche se non vengono fatte delle ‘campagne politiche’, parliamo tra di noi dei punti di forza (ma anche delle debolezze) dei candidati, e in questo modo manifestiamo agli altri il nostro parere favorevole nei confronti di una persona, anche se ciò non avviene pubblicamente.

     

    Gli stessi candidati di solito rimangono in disparte, ma ovviamente vengono coinvolti in modo diretto quando si chiede loro come si sentirebbero qualora dovessero essere scelti.

     

    I Capitoli sono un periodo in cui noi religiosi veniamo messi alla prova per quanto riguarda il nostro senso di obbedienza. Obbedienza significa ascoltare ciò che Dio chiede a ciascuno di noi e quindi, in tutta umiltà e con la piena fiducia nella sua Grazia Divina (che non viene mai meno), pronunciare il nostro ‘sì’. È stato in questo modo che la Vergine Maria disse il proprio ‘sì’ all’Arcangelo Gabriele, quando le chiese di diventare la Madre di Dio. Durante il discernimento, un confratello è venuto nella mia stanza e mi ha detto: “Donatus, potresti essere tu il prossimo Superiore Generale, cosa ne pensi? Accetteresti se venissi eletto?” Io gli ho risposto: “Non penso di essere la persona giusta, ma se il Capitolo mi eleggerà, io accetterò”. Per me, non c’è più chiara espressione della volontà di Dio di un’assemblea di fratelli riuniti nel Capitolo, che chiedono ad uno di loro di fare qualcosa. Ovviamente può sembrare un compito gravoso e difficile, perché ci si sente inadatti e immeritevoli di ricoprire questo ruolo.

     

    Per qualcuno poi dire ‘sì’ ad un Capitolo Generale potrebbe significare lasciare la propria Provincia, la propria famiglia e gli amici, per andare in un Paese straniero. Talvolta in tutta coscienza un confratello sente di avere le qualità necessarie per ricoprire questo ruolo, ma non viene eletto. Indipendentemente da quale possa essere la situazione, dobbiamo accettare qualsiasi cosa il Capitolo abbia deciso per noi, perché dobbiamo essere convinti che è la volontà del Signore.

     

    Man mano che il processo avanzava e si avvicinava il momento dell’elezione, stava diventando evidente che avrei potuto essere eletto Superiore Generale. Avevo paura che, se la cosa fosse avvenuta, mi sarei potuto sentire schiacciato. Questo mio timore si basava su un certo numero di ragioni, prima fra tutte la consapevolezza che andando avanti nella vita (e come religioso ospedaliero in particolare), le cose che realmente contano diventano più chiare: l’integrità della persona, l’identificazione con Cristo, la sua esistenza terrena, la sua missione e la sua passione per le cose del Padre. Si arriva a vedere la vita e la missione attraverso gli occhi di Gesù e a vedere le persone, la natura e gli eventi come se li vedesse Lui stesso. Si scopre cosa significa essere capace di offrire aiuto a qualcuno che è alla ricerca del sacro. È scoraggiante constatare che in molti settori, e soprattutto nella vita religiosa, mancano quell’intuito e quelle conoscenze necessarie che ci si attenderebbe da un leader nella sua funzione di guida.

     

    Se tutto ciò non dovesse essere sufficiente per prendere coscienza della propria profonda inadeguatezza, il pensiero che il Superiore Generale rappresenti San Giovanni di Dio nel mondo, è già sufficiente per far sprofondare una persona nel panico. Non ci sono parole per esprimere come ci si senta ad essere il rappresentante di San Giovanni di Dio. La statura morale di quest’uomo che è stato il profeta della carità, il Buon Samaritano di Granada, fa del nostro Santo un’altissima figura davanti alla quale ci si sente piccoli come un bambino. Questi pensieri mi attraversavano la mente quando mi è stato dato un CD che riportava sulla copertina la mia fotografia e l’immagine del nostro Fondatore. A prima vista la cosa mi ha lasciato senza fiato; poi ho guardato negli occhi di Giovanni di Dio, e la calma mi ha pervaso. Ho visto il suo sguardo compassionevole, tenero e amorevole, e mi sono reso conto che non ero solo, che lui sarebbe stato accanto a me, e mi sono sentito in pace.

     

    In questi giorni ho ripensato all’insegnamento che ho ricevuto dal mio Maestro, fra Dermot Hanley, quando ero novizio. Egli diceva che il Signore concede la grazia per agire al momento del bisogno, e non prima. Dio mi ha concesso la grazia della pace di fronte a una chiamata che, per i prossimi sei anni, cambierà il modo in cui porto avanti la mia vita e il mio operato come fratello di San Giovanni di Dio.

     

    Essendo stato chiamato, certamente senza averne alcun merito, a guidare la nostra Famiglia Religiosa e Ospedaliera secondo lo spirito di San Giovanni di Dio, considero la leadership come un servizio reso agli altri e per gli altri. Un confratello che faceva parte del mio stesso gruppo linguistico, durante il Capitolo, ci ha rammentato la sacralità della persona, la sua innata dignità e il valore di ogni essere umano. È questo – ci ha detto – il punto di partenza nella pratica dell’Ospitalità. Questa convinzione ci porta a considerare la leadership come un servizio, un privilegio e un’opportunità per fare il bene. Giovanni di Dio diceva di non smettere mai di fare il bene quando possiamo farlo.

     

    Vi confesso che non mi sento solo ad affrontare il compito di animare la vita dell’Ordine, ma che lo farò assieme a voi, considerandomi ‘il primo tra uguali’. Per questo, vi invito, cari confratelli e collaboratori, e invito tutti coloro che desiderano contribuire, in un modo o nell’altro, alla realizzazione del sogno di San Giovanni di Dio, ad unirvi a me per dedicarci totalmente a questa grande missione con energia e impegno rinnovati.

     

    Le tante manifestazioni di affetto, di supporto e di incoraggiamento, oltre ovviamente alle vostre preghiere e a quelle delle nostre comunità e dei nostri centri sparsi per il mondo, a quelle dei miei familiari e amici, mi hanno dato forza durante questi giorni.

     

    Vi ringrazio tutti, e vi chiedo di continuare a darmi supporto e sostegno anche nel futuro.

     

    Omaggio a fra Pascual Piles

     

    Fra-Pascual-Piles-Superiore-generale-e-Fra-Donatus-Forkan-primo-consigliere-generaleÈ un piacere per me avere l’opportunità di esprimere qualche parola di apprezzamento per fra Pascual, sia a nome personale che, ne sono certo, da parte di tutto l’Ordine. Quanti lo hanno conosciuto di persona, certamente ogni confratello e molti nostri collaboratori, si sono sentiti a proprio agio con lui. Il sorriso di fra Pascual, il suo affetto autentico e l’interesse che ha sempre dimostrato nei confronti delle persone hanno fatto di lui un visitatore sempre accolto con calore in ogni casa, servizio e centro dell’Ordine.

     

    Negli ultimi 12 anni, fra Pascual ha avuto un modo positivo di esercitare la leadership nell’Ordine. In precedenza aveva fatto parte del Consiglio Generale per altri 6 anni. Potrei citare molti dei suoi scritti per far comprendere che tipo di persona è, ma lo conoscete già bene tutti. Per me, una parola eloquente può essere il termine “coraggio”, o meglio l’esortazione ad avere coraggio. La prima preoccupazione per fra Pascual erano le persone sofferenti. I suoi appelli, le cosiddette ‘campagne annuali’ per la realizzazione

    di nuovi servizi o per l’ampliamento di quelli già esistenti nei Paesi in via di sviluppo, danno la misura del suo impegno per alleviare la povertà e la sofferenza delle persone. In secondo luogo, fra Pascual è stato sempre pienamente consapevole delle sfide e delle difficoltà che ogni giorno confratelli e collaboratori devono affrontare per fornire un servizio di qualità alle persone bisognose.

     

    Ha sempre cercato perciò di essere una presenza incoraggiante accanto ai confratelli e ai collaboratori che continuano l’operato di San Giovanni di Dio, occupandosi delle persone in difficoltà. Fra Pascual ha sempre avuto comprensione per le persone, mostrando grande partecipazione ed empatia per loro, in special modo per quanti si trovavano in una situazione difficile.

     

    Ciò non ci deve sorprendere, perché egli vedeva la vita e le persone attraverso gli occhi di San Giovanni di Dio!  Come ho detto al termine del Capitolo Generale, il periodo in cui fra Pascual è stato il nostro Superiore Generale sarà a lungo associato a due documenti importantissimi e fondamentali che egli ha voluto dare all’Ordine: la Carta d’Identità e il Cammino di Ospitalità secondo lo stile di San Giovanni di Dio. Questi documenti costituiranno una risorsa indispensabile che continuerà a guidare l’Ordine verso il proprio rinnovamento e nella sua missione di ospitalità lungo la strada già tracciata dal nostro Fondatore, in un modo che sia coerente con la sua lunga storia e con le sue tradizioni, sempre cercando di rispondere al meglio ai bisogni dell’uomo e della donna di oggi.

     

    Nell’esercizio del suo ufficio come Superiore Generale, fra Pascual ha portato calore, compassione, tenerezza, integrità e una visione profetica. Parlando a livello personale ma anche per conto di tutto l’Ordine, desidero far giungere a fra Pascual la nostra più sincera gratitudine e le nostre preghiere. Gli auguriamo ogni bene, pace e serenità nel suo nuovo ministero presso l’Ospedale Pediatrico di Barcellona.

     

    Vorrei esprimere la riconoscenza e il ringraziamento, miei e dell’intero Ordine, per il servizio che i nostri confratelli Emerich Steigerwald, Luis M. Aldana, Pietro Cicinelli e Leopoldo Gnami hanno reso come Consiglieri Generali, e per quello di fra José L. Muñoz come Segretario Generale. Un altro nostro confratello, Fabiano Hynes, che è stato il nostro Procuratore Generale, ha fatto ritorno alla Provincia Australiana, sua Provincia d’origine, dopo oltre 50 anni di servizio alla Santa Sede presso la Farmacia Vaticana, della quale è stato il direttore per molti anni. In questo ruolo, ed anche quando è stato Superiore della Comunità della Farmacia, ha rappresentato al meglio la nostra vocazione di Fatebenefratelli, la nostra missione e il nostro carisma, nell’ambito della Chiesa. Auguriamo anche a fra Fabiano ogni bene, pace e serenità nel suo ritorno a casa dopo tanti anni, nella sua Provincia d’origine. Sono certo di esprimere l’apprezzamento e la gratitudine di tutto l’Ordine nel dire ‘Grazie’ a questi nostri confratelli che hanno prestato con devozione il proprio servizio nel periodo che hanno trascorso qui a Roma. Auguriamo loro ogni bene per il futuro.

     

    Alcuni eventi che hanno caratterizzato il Capitolo Generale

     

    Come tutti sapete, il nostro Capitolo Generale si tiene ogni sei anni, e di recente l’abbiamo celebrato in Paesi diversi. Molto di ciò che avviene nel Capitolo, relativamente al programma, ecc. è stabilito da motivi di tempo, da questioni logistiche, da ciò che avviene all’interno dell’Ordine, della Chiesa e della società in cui viviamo ed esercitiamo il nostro ministero. Anche se quest’ultimo Capitolo ha rispecchiato la realtà mondiale all’inizio del terzo millennio, ha avuto delle caratteristiche particolari. Alcuni degli elementi che si sono discostati dai precedenti Capitoli, e che secondo me sono stati un incentivo e una fonte di incoraggiamento, sono:

     

    ● Per la prima volta il Capitolo Generale è stato veramente un ‘evento internazionale’. Dico questo perché ai precedenti Capitoli i rappresentati di Africa, Asia e America Latina erano prevalentemente confratelli missionari. Questa volta, invece, abbiamo avuto un’ampia rappresentanza di questi continenti e tutti, ad eccezione di un confratello missionario, erano nati sul posto. Ciò ha costituito per il Capitolo una grande ricchezza in termini di cultura, di esperienze e di visione profetica; e in questa occasione è risultato evidente come fosse presente una prospettiva mondiale e che in quasi tutte le zone del mondo la luce dell’Ospitalità di Giovanni di Dio portasse guarigione e speranza all’umanità sofferente.

    ● Il riconoscimento per il crescente coinvolgimento dei collaboratori nella vita dell’Ordine ai più alti livelli può essere riscontrato nella loro partecipazione al Capitolo. Al Capitolo Generale del 1988 di Roma avevano partecipato soltanto otto collaboratori, così come a quello del 1994 di Bogotà; mentre nel 2000 a Granada il numero era salito a 17. Questa volta, ben 21 collaboratori, in rappresentanza delle varie Province dell’Ordine, hanno partecipato al Capitolo Generale. Purtroppo, per la Provincia del Vietnam non è stato possibile mandare un proprio collaboratore (era la prima volta infatti che la Provincia del Vietnam ha partecipato a un Capitolo. È stata comunque una grande gioia per loro vedere la partecipazione del Provinciale e di due Vocali). Lo spirito ospedaliero è stato trasmesso ai collaboratori che hanno preso parte alla missione, nella condivisione dello spirito carismatico, e non solo ai confratelli (cfr. Il Cammino di Ospitalità secondo lo stile di San Giovanni di Dio). “Riteniamo che noi Confratelli e i nostri Collaboratori siamo il ‘capitale’ più importante dell’Ordine per la realizzazione della sua missione”. (Carta d’Identità dell’Ordine, 1.1).

    La presenza dei collaboratori e il loro contributo al dibattito e allo sviluppo delle proposte, la partecipazione agli eventi che si sono tenuti all’interno e all’esterno della sala capitolare, il loro messaggio al Capitolo al termine della settimana durante la quale si è parlato della missione dell’Ordine, sono stati elementi che ci hanno arricchiti e rassicurati, oltre ad essere stati per noi fonte di ispirazione.

    ● La sezione del nostro sito web dedicata al Capitolo ha permesso a chiunque lo desiderasse di conoscere cosa stava accadendo. Ad un certo punto siamo stati informati di aver avuto qualcosa come 23.000 contatti. È stata una cosa nuova ed emozionante, perché i precedenti Capitoli erano stati una specie di conclave. Questa volta, è stato più un ‘incontro globale’ con la pubblicazione dei messaggi ricevuti e la condivisione di informazioni, accompagnate dalle fotografie che illustravano gli eventi e le cerimonie. L’attività del sito web ha conferito un’atmosfera quasi familiare a quanto stava accadendo al Capitolo.

    ● Un’altra indicazione dell’apertura e della spontaneità con la quale le persone potevano accedere agli eventi del Capitolo è stato l’arrivo a Roma (dal Benin) di fra Fiorenzo Priuli, medico chirurgo, per partecipare ad una conferenza. Fra Fiorenzo è stato invitato dal Capitolo a fare una presentazione in power point sull’attività dell’ospedale San Giovanni di Dio di Tanguiéta, in cui egli lavora. La presentazione di fra Fiorenzo è stata commovente e fonte di ispirazione per tutti noi.

    ● Un’altra interessante presentazione è stata quella del libro, fresco di stampa, sul Processo di Beatificazione di San Giovanni di Dio, scritto da fra José Luis Martínez Gil.

    ● Il pellegrinaggio al Santuario dedicato alla Madonna, Madre del Buon Consiglio, a Genazzano, vicino Roma, ha avuto per me un significato particolare. Dopo la mia elezione a Superiore Generale dell’Ordine, ho avvertito accanto a me la presenza della Beata Vergine Maria. Durante la visita alla Curia della Provincia Romana, dopo il Capitolo, ho parlato con i confratelli e le suore della comunità dell’ospedale San Pietro del fatto che potessi fare affidamento su otto Consiglieri: la Madonna del Buon Consiglio, San Giovanni di Dio e sei confratelli. Per questo motivo, sono certo che non mi mancheranno mai incoraggiamento e consigli, e che attraverso l’intercessione della nostra Madre Celeste e di San Giovanni di Dio, mi aspetto di ricevere la grazia, la forza e il discernimento per agire secondo i consigli che riceverò.

    ● Un altro evento illuminante che ha avuto luogo durante il Capitolo è stata la presentazione del libro che raccoglie gli scritti di P. Pierluigi Marchesi, dal titolo: “Umanizzazione–storia e utopia”. Una breve  presentazione in power point sulla vita di fra Pierluigi ha riportato alla mente tanti ricordi in chi ha avuto il privilegio di conoscere questo grande fratello di San Giovanni di Dio. Chiediamo a P. Marchesi di intercedere per noi e di guidarci affinché possiamo camminare e progredire sulla strada da lui tracciata, ispirati dal suo esempio e da quello del nostro Fondatore, che a sua volta è stato per P. Marchesi un modello e fonte di ispirazione.

     

    Un nuovo Consiglio Generale e un nuovo Segretario Generale

     

    Vorrei presentarvi ora il nuovo Consiglio Generale e il nuovo Segretario Generale. Anche se avrete già sentito i loro nomi, li elencherò nella posizione che assumeranno nel Consiglio. Sono: fra Rudolf Knopp (Provincia Bavarese); fra Jesús Etayo Arrondo (Provincia Aragonese); fra Vincent Kochamkunnel (Provincia Indiana); fra Elia Tripaldi (Provincia Romana); fra Robert Chakana, (Provincia Africana N.S. Misericordia); fra Daniel Alberto Marquéz Bocanegra (Provincia del Messico e America Centrale). Il Segretario Generale sarà fra José Maria Chavarri (Provincia di Castiglia), mentre il mio Assistente Personale sarà fra Gian Carlo Lapic’ (Provincia Lombardo-Veneta). Ci sono volti nuovi e volti ‘vecchi’, anche se sono principalmente facce nuove, e giovani energie che si mescolano con quelle di ‘più esperienza’! È nostra intenzione lavorare insieme, come un gruppo, e per questo facciamo affidamento sulle vostre preghiere e sulla vostra comprensione quando non risponderemo fedelmente a quanto ci siamo preposti, e che il Capitolo ha stabilito. Promettiamo però che faremo del nostro meglio. Invochiamo l’aiuto e la protezione del Signore e di Maria Madre del Buon Consiglio e l’intercessione di San Giovanni di Dio.

     

    Programmi imminenti

     

    I Consiglieri Generali ed il Segretario Generale arriveranno a Roma attorno al 20 di novembre. Ovviamente tutti (o quasi tutti) dovranno frequentare un corso di lingua italiana, che è una delle lingue ufficiali dell’Ordine, e quella più usata nella Curia Generalizia.

     

    Il Capitolo Generale ci ha affidato molto lavoro per i prossimi sei anni. Sono state approvate delle linee d’azione, secondo le quali dovremo redigere il programma del sessennio. Sarà necessario istituire diverse commissioni, per lavorare su argomenti specifici, e dovremo inoltre programmare i Capitoli Provinciali, che si terranno nel 2007, cioè fra pochi mesi. Ogni Consigliere avrà la responsabilità di un’area specifica, mentre allo stesso tempo condividerà con gli altri la responsabilità collegiale per il governo e l’animazione di tutto l’Ordine. Una volta che avremo approvato il piano del sessennio, lo pubblicheremo sul nostro sito web e lo invieremo con la posta elettronica alle Curie Provinciali, non appena le traduzioni saranno pronte.

     

    Conclusione

     

    Ammetto ancora che con molta umiltà mi sento chiamato a rappresentare il nostro amato Padre Fondatore San Giovanni di Dio nel mondo. So di non essere all’altezza di questo compito, ma allo stesso tempo sono molto fiducioso e speranzoso, perché so di poter contare sul sostegno dei confratelli, dei nostri collaboratori, dei malati e loro familiari, e degli amici dell’Ordine sparsi in tutto il mondo. Sono certo che possiamo fare la differenza in un mondo flagellato da guerre, violenza, fame, emarginazione, povertà e divisioni. Noi  possediamo l’antidoto, la risposta, che possiamo dare vivendo l’Ospitalità così come la visse San Giovanni di Dio, facendoci ospitalità per gli altri, nel modo in cui egli ci ha mostrato. Negli ultimi 40 anni l’Ordine ha dovuto affrontare sfide non indifferenti, ma il futuro ci chiamerà a cambiamenti persino più grandi, a realizzare strutture più nuove ed innovative, a sperimentare nuovi modi di esercitare il nostro ministero, e a nuovi modi di cooperazione tra Province, che oltrepassino i confini delle nazioni. Il LXVI Capitolo Generale ha posto l’accento sulla cooperazione tra Province, sui gemellaggi e altri modi per condividere risorse e conoscenze, e sull’impegno in progetti comuni, che saranno a beneficio delle persone povere. I poveri non possono aspettare, dobbiamo agire subito e non dobbiamo farci scoraggiare dalle difficoltà. Mai come adesso siamo stati chiamati ad essere coscienza critica, guida morale,presenza profetica, aperta ai nuovi bisogni, in un rinnovato spirito di integrazione con i Collaboratori (Rapporto di ricerca sullo stato della formazione nell’Ordine, capitolo terzo, n. 1, pag. 69).

     

    A nome del nuovo Governo Generale, vorrei rassicurare ancora una volta le migliaia di uomini, donne e giovani che in qualche modo sono legati ai nostri servizi, presenti in tutto il mondo, che è nostra viva intenzione impegnarci totalmente per promuovere la missione di San Giovanni di Dio ovunque l’Ordine sia presente, fornendo un servizio di qualità che sia centrato sulla persona, e svolto con professionalità in un ambiente di cura ma nel quale regnino anche la compassione e l’accoglienza, nel pieno rispetto per la dignità e per i diritti di ogni persona.

     

    Ai familiari dei nostri assistiti diciamo che vi offriamo il nostro sostegno e che ci prenderemo cura dei vostri familiari nel miglior modo possibile. Vi incoraggiamo ad andare avanti; noi siamo al vostro fianco e potete contare sul nostro aiuto spirituale, morale e professionale, in qualsiasi modo possiamo tradurlo in pratica per voi e per i vostri familiari. Il malato (o la persona bisognosa) è al centro del nostro operato, così come è il punto centrale del vostro amore e della vostra preoccupazione. Insieme cerchiamo di portare a quanti sono nella malattia conforto, speranza e la grazia sanante di Gesù Cristo.

     

    A coloro che, in un modo o nell’altro, sostengono l’operato di San Giovanni di Dio, siano essi benefattori o volontari, vorrei dire che il vostro aiuto è molto apprezzato. Il vostro supporto è inestimabile, e grazie ad esso possiamo fornire un servizio che apporti il massimo beneficio alle persone che abbiamo il privilegio di servire. Attraverso il vostro aiuto possiamo anche giungere a tante persone lontane, sofferenti o bisognose, cui prima ci era impossibile arrivare.

     

    Ai nostri collaboratori, vorrei dire che il servizio che fornite alle persone che giungono ai centri o ai servizi dell’Ordine è inestimabile. Senza di voi, noi confratelli potremmo fare molto poco. Insieme possiamo – e vogliamo – fare grandi cose per le persone che si trovano in una situazione di bisogno. Annualmente milioni di persone usufruiscono dei nostri servizi. Molto è stato fatto da quando San Giovanni di Dio, camminando per le strade di Granada, diceva a gran voce: “Chi vuole fare del bene al prossimo? Fate del bene per amore del Signore”. Sarebbe impossibile dire quanti hanno beneficiato dei nostri servizi, ma non è certo impossibile immaginare l’effetto sulla vita di una persona che è stata trattata con quel rispetto che le è dovuto come essere umano e come figlio di Dio, in un’atmosfera fatta di cure premurose, competenza professionale, tenerezza e compassione.

     

    Noi dipendiamo da voi, cari collaboratori, per continuare a portare avanti la Missione di Ospitalità.

     

    L’esperienza mi insegna che possiamo contare su di voi. Molto è stato fatto anche nel campo della formazione di confratelli e collaboratori ai valori di San Giovanni di Dio e nel campo dell’etica, filosofia e spiritualità dell’Ordine, ma dobbiamo lavorare ancora tanto in questo settore. Il nuovo Governo Generale si adopererà in questo senso con energia, così come è emerso nel Capitolo Generale, e darà il massimo supporto, incoraggiamento e guida.

     

    Vi ringrazio tutti ancora una volta. Chiediamo a Maria, Madre del Buon Consiglio, a San Giovanni di Dio e a tutti i nostri Santi e Martiri di intercedere per noi e di guidarci sempre. Vi saluto fraternamente in San Giovanni di Dio.

     

    Fra Donatus Forkan O.H. 

     

    Gli scrutatori: fra Gustavo Muchiutti e fra Adalbert Malèk

    con al centro il nuovo Superiore Generale

    Contributo al discernimento da

    parte dei collaboratori laici

     

    Su richiesta del Governo generale è stato chiesto al gruppo dei collaboratori laici invitati al Capitolo di formulare alcune indicazioni come contributo al discernimento dei Padri Capitolari nella elezione del nuovo Superiore generale e del suo Consiglio. Innanzitutto noi collaboratori vogliamo ringraziare il Padre generale e il Consiglio generale per l’opportunità che ci ha dato di partecipare a questo Capitolo. È la prima volta che un Capitolo generale ha una partecipazione così numerosa di collaboratori laici e già questo è un segno di apertura e di speranza. D’altra parte il tema del rapporto tra collaboratori e religiosi è stato forse quello più dibattuto al Capitolo. Prendiamo atto di questo irreversibile cambiamento culturale che certamente segnerà il futuro dell’Ordine. Inoltre se oggi ci troviamo qui e siamo sensibili ai problemi che stiamo affrontando lo dobbiamo a voi che siate stati a vario titolo, per noi, mediatori del carisma di San Giovanni di Dio. E anche di questo vogliamo ringraziarvi.

     

    Dopo esserci confrontati tra noi sono emerse alcune indicazioni specifiche. Al nuovo Superiore Generale e al suo Consiglio chiediamo:

     

    1) Riconoscimento del carisma.

    Chiediamo di riconoscere la partecipazione di alcuni laici al carisma di San Giovanni di Dio come già  presente e attuale. Il carisma, com’è stato detto, è dono fatto alla Chiesa dallo Spirito che “soffia dove vuole”. Pertanto vi sono già alcuni laici che partecipano di esso. Si tratta solo di darvi più piena accoglienza, attuazione e condivisione con i religiosi nei modi e nelle forme che il prossimo governo dell’Ordine riterrà opportuno, riconoscendo per alcuni di essi, in modo ufficiale, una vera e propria “vocazione all’ospitalità”.

    2) Consultazione dei laici.

    Come afferma uno dei testi più importanti della teologia del laicato successiva al Vaticano II (“La consultazione dei fedeli in materia di dottrina” del card. Newmann) consultare i laici anche in questioni dottrinali ma molto più in quelle pastorali non è un optional o una concessione ma un preciso dovere. Si tratta di riconoscersi tutti come popolo di Dio in cammino sulle vie dell’ospitalità sia pure con diversità di vocazioni e stati di vita. Già è stato fatto molto, nell’Ordine, in tal senso. Chiediamo al nuovo governo di continuare su questa strada rendendola ancora più feconda.

    3) Messaggio di fiducia.

    Al nuovo governo generale giustamente preoccupato per il futuro dell’Ordine e il calo delle vocazioni vorremmo inviare un messaggio tranquillizzante. Forse non si tratta di deficienza umana nel sapere individuare un’adeguata pastorale vocazionale ma della volontà di Dio. Proprio per questo vorremmo inviare un messaggio di fiducia: l’Ordine non si estinguerà, anche con l’attuale e futura penuria di religiosi, fino

    a quando ci saranno laici che responsabilmente parteciperanno al suo carisma, lo custodiranno e lo attueranno.

    4) Apprezzamento dei collaboratori.

    Il nuovo governo dovrà certamente testimoniare la vicinanza dell’Ordine ai malati ma anche a chi se ne prende cura con stima, apprezzamento, incontro, parole di incoraggiamento, vicinanza nei momenti difficili, ecc. I collaboratori laici potranno così vedere il volto della carità non solo nell’aiuto al bisognoso ma anche nella prossimità alle proprie esistenze trascorse per gran parte proprio nei luoghi di lavoro. Tutti, poi, collaboratori e religiosi dovremo imparare a lodare non solo a criticarci o biasimarci reciprocamente.

    5) Condivisione e integrazione.

    Chiediamo che siano definitivamente superare le logiche “proprietarie”: S. Giovanni di Dio voleva avere un ospedale “suo” non per sé ma per il malato. Occorre passare dalla logica della proprietà a quella della condivisione e compartecipazione. Tutti coloro che, a vario titolo e con vari livelli di impegno esistenziale partecipiamo al carisma di San Giovanni di Dio dobbiamo sentire il dover di far progredire la nostra opera con un senso di vera appartenenza ad essa. E’ tempo, per i laici, che siano pienamente integrati nella vita dell’Ordine sia pure con diverso grado di partecipazione e coinvolgimento.

    6) Coraggio del rischio.

    Occorre che l’Ordine sappia riconoscere e accogliere le novità, anche rischiando. Anche se l’agiografia ci tramanda solo i “successi” di S. Giovanni di Dio vi sono stati molti insuccessi nella sua vita. Fino all’ultimo quando si getta nel Genil per salvare un ragazzo che stava affogando. Anche questo un insuccesso sul piano umano: non ha salvato il ragazzo ed è morto anche lui. Ma ha rischiato senza pensarci due volte, anche a costo di sbagliare. Anche il coraggio del rischio, di aprire nuove vie, di essere creativi è dono di Dio che invochiamo da Lui sull’Ordine e sulle sue scelte, in modo particolare quelle che coinvolgeranno i collaboratori laici.

    7) Valorizzare l’umanizzazione.

    Come è stato detto occorre un particolare apprezzamento per il collaboratore che è vicino al malato più che per quello che porta soldi alla struttura e insieme a quello che è più preparato. Questo non significa  sottovalutare la competenza professionale che è il primo requisito di un’autentica umanizzazione ma valorizzare, se è il caso anche con veri e propri sistemi di valutazione, quella specificità umanizzatrice che deve essere requisito indispensabile delle nostre opere.

    8) Incontri internazionali.

    È importante istituzionalizzare momenti di incontro internazionale per i collaboratori laici, anche al di là di questi brevi scambi capitolari, durante i quali e portare avanti le problematiche dell’Ordine in una prospettiva laicale, guardando da un lato alla mondialità dell’Ordine, dall’altro alla specificità regionale delle sue Province.

    9) Opere gestite da laici.

    Come già avviene in alcune Province occorre che in tutto l’Ordine si affidi l’intera gestione di alcune opere a laici preparati e partecipi del carisma in nome e per conto dell’Ordine. Sarà una presenza moltiplicatrice delle attività apostoliche dell’Ordine e, riteniamo, a lungo andare anche una feconda risorsa vocazionale. Questa

    prospettiva non può ritenersi solo relativa al futuro dell’Ordine: in alcune parti del mondo vi è già l’urgente bisogno di realizzare tutto questo in breve tempo. Pertanto occorre da un lato una visione strategica generale, dall’altro l’attuazione in loco, per alcune realtà, fin da adesso.

    10) Scuola dell’Ospitalità.

    Proprio al fine di avere un gruppo di laici preparati e partecipi del carisma che possano, così come ha fatto finora l’Ordine, dare senso unitario alla sua molteplice diffusione nel mondo si potrebbe pensare alla costituzione di una vera e propria “Scuola dell’Ospitalità” da attuarsi a livello centrale (con successive espressioni periferiche) che costituisca la fucina dei nuovi collaboratori laici in grado di gestire le opere secondo lo spirito e nel nome di San Giovanni di Dio. Quello che noi chiediamo ai Padri Capitolari per il prossimo momento elettorale è contenuto nelle indicazioni che abbiamo esposto. Tra poco vi lasceremo alle adempienze canoniche ma prima di andarcene vogliamo dirvi che, anche in questo momento elettivo, saremo in comunione con voi, accompagnandovi con il nostro affetto e la nostra preghiera allo Spirito Santo

     

    LINEE DI AZIONE PER IL SESSENNIO 2006-2012

     

    Prima del termine dei lavori capitolari i religiosi hanno elaborato ed approvato un documento consegnato al nuovo Superiore Generale e al suo Consiglio dove sono indicate le linee guida emerse durante l’assise e che saranno motivo di elaborazione per la stesura del programma del prossimo sessennio.

     

    L’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio si propone, nel sessennio 2006-2012, i seguenti obiettivi.

     

    1 – VITA DEI RELIGIOSI

     

    A – Promozione della Pastorale vocazionale

     

    1. In ogni Provincia, soprattutto in quelle dove l’impegno risulta insufficiente, è necessario dare maggiore importanza alla promozione della pastorale vocazionale, utilizzando tutti i mezzi adeguati e affidando questo compito a persone ben preparate e motivate, si serviranno dello “Studio” riguardante la situazione della formazione nell’Ordine e applicando gli insegnamenti della pastorale vocazionale contenuti nello stesso.

    2. Istituire commissioni vocazionali a livello provinciale e regionale e designare animatori della pastorale vocazionale capaci di valutare la personalità, la maturazione psico-sessuale e l’orientamento delle persone interessate ad entrare a far parte dell’Ordine. Gli animatori della promozione vocazionale dovranno presentare la nostra vocazione come una chiamata a vivere la vita consacrata nell’Ospitalità (nel futuro).

    3. Cercare di introdursi, partendo dalla pastorale vocazionale, in gruppi più ampi di persone, di uomini interessati e attratti dall’idea di appartenere all’Ordine. Con tale fine, dovremo essere coinvolti con la pastorale giovanile e partecipare alle iniziative di formazione del personale sanitario, servizi di

    beneficenza e volontariato, anche in collaborazione con altri settori della Chiesa come i gruppi per la promozione vocazionale a livello parrocchiale e diocesano.

     

     

    B – Formazione iniziale e permanente

     

    1. Controllare gli aspetti di selezione, personalizzazione e accompagnamento nei processi formativi, per ottenere religiosi equilibrati psicoaffettivamente, integri e competenti.

    2. Formulare strategie per l’interscambio del personale formativo tra le diverse Province e creare centri di formazione interprovinciali, regionali o internazionali o incrementare quelli che già esistono.

    3. Cominciare ad apprendere una lingua in più (tra inglese, italiano e spagnolo), oltre la propria lingua madre, già nel periodo di formazione iniziale, per ampliare l’educazione e favorire le relazioni e gli incontri internazionali.

    4. Promuovere una adeguata “formazione dei formatori”, che siano ben scelti e molto impegnati ad insegnare l’ideale che si prospetta per il futuro della vita consacrata nell’Ospitalità, in un mondo multi culturale, con una mentalità di apertura e sapendo dialogare con competenza nel mondo secolare dei centri e delle attività apostoliche.

    5. Identificare dei leader laici che possano impegnarsi nell’ambito formativo.

    6. Promuovere con rigore la formazione permanente motivando e aumentando la conoscenza della sua necessità ed importanza come elemento che aiuta a mantenere la fedeltà e l’identità con l’Ordine, includendo anche corsi a livello Generale, Interprovinciale o Provinciale per la preparazione alla Professione

    Solenne, ai 5 anni dalla Professione e altri corsi che siano necessari, specialmente per i religiosi più anziani per il loro adattamento alla vita che non è più di lavoro pienamente attivo e in previsione della fine del loro impegno lavorativo.

     

    C – Vita fraterna e nuove forme comunitarie

     

    Vita fraterna

     

    1. Approfondire la vita spirituale, applicando quanto stabilito nel libro riguardo la spiritualità dell’Ordine.

    2. Vivere la consacrazione ospedaliera con integrità, responsabilità e coerenza, sentendosi tutti nello stesso modo religiosi corresponsabili nella costruzione della comunità fraterna.

    3. Accogliere, comprendere, curare e accompagnare i religiosi più anziani, prendendo nello stesso tempo in considerazione il contributo creativo dei membri più giovani, indispensabile questo per mantenere vivo e dinamico l’Ordine.

    4. Crescere nella comunione tra religiosi attraverso il dialogo, l’interscambio, e condividere la propria vita (origine e storia della propria vocazione), condividere il tempo libero vissuto in comunità (momenti ricreativi, vacanze, eccetera), condividere la fede, l’esperienza di Dio o la stessa missione ospedaliera, e molti altri momenti per far sì che sia impedito quindi l’individualismo nelle nostre comunità.

    5. Rivedere il ruolo del Superiore come animatore religioso – ospedaliero della comunità o dell’opera e fare una descrizione delle qualità essenziali che dovrebbe possedere.

    6. Che le comunità siano aperte, per condividere i diversi aspetti della loro vita con i collaboratori che lo desiderano o con i malati o coi residenti.

    7. Vegliare perché ogni religioso, qualunque sia la sua missione apostolica, abbia una referenza comunitaria e sia effettivamente vincolato ad una comunità. Questo si applica specialmente per i religiosi che hanno un accordo apostolico più specifico fuori dal centro e dalla comunità, o che vivono da soli.

     

    Nuove forme comunitarie

     

    8. Fare esperienze in comunità intercongregazionali (con religiosi di altri istituti di vita consacrata o società di vita apostolica) o ecumeniche (con membri di altre confessioni cristiane).

    9. Creare comunità temporali istituite per animare progetti specifici dentro e fuori l’Ordine, che dovranno però risolversi una volta realizzato il progetto.

     

    2 – MISSIONE DELL’ORDINE

     

    A – Gestione Carismatica

     

    1. Capire che per essere realmente “carismatica” la gestione deve avere l’evangelizzazione come suo obiettivo principale ed essere realizzata secondo i valori e lo spirito di San Giovanni di Dio, cercando un equilibrio costante nei nostri centri tra i criteri di gestione e i contenuti carismatici. 2. Mettere in moto, in maniera ricorrente, sia a livello dell’Ordine che a livello Regionale o delle Province, un ciclo di formazione con l’obiettivo che i religiosi e i loro collaboratori possano periodicamente formarsi riguardo al tema della gestione carismatica, soprattutto rivolto ai direttori e ai responsabili intermedi, perché dopo possano essere loro i trasmettitori nello sviluppo dell’attività a tutti i settori dei loro centri.

    3. Fare una riflessione a livello generale, dopo questi anni di esperienza nella gestione carismatica nell’Ordine e nelle Province, per un’applicazione reale dei criteri espressi nella Carta d’Identità dell’Ordine e siano utilizzate nelle diverse Nazioni in forma adatta e adeguata alla situazione sociale, alle leggi lavorative e organizzative locali.

    4. Implementare in ogni Provincia un piano strategico che ci aiuti a progredire, a conseguire gli obiettivo proposti dalla Carta d’Identità, con gli strumenti sui quali possiamo fare affidamento (Visite canoniche, Conferenze Provinciali, eccetera) e altri nuovi strumenti, includendo forme di ascolto, perché ci siano garantiti migliori livelli di partecipazione e di trasparenza nei centri.

    5. Il Governo Generale dell’Ordine deve studiare una Identità o “marchio” caratteristico per tutto l’Ordine di San Giovanni di Dio.

    6. Avere sempre una grande trasparenza amministrativa, che dovrà essere garantita e comprovata – se necessario – anche per revisori esterni; nei casi che questi non esistano o fosse difficile ricorrere agli stessi, il controllo della gestione dovrà essere effettuato da persone nominate dal Provinciale e dal suo Consiglio.

    7. Separare in forma netta la gestione amministrativa delle nostre opere da quelle della comunità religiosa.

    8. Se un’opera è “improduttiva”, non tanto a livello economico quanto nella relazione tra il livello economico e la effettiva gestione carismatica, è necessario prendere la decisione di chiuderla o destinarla ad altra attività, sulla base dei criteri provinciali, includendo la possibilità di stabilire una struttura canonica, come quella di una Persona Giuridica (pubblica), per evitare la chiusura del centro e permettere che continui a realizzata la missione di Ospitalità come parte del ministero evangelizzatore della Chiesa.

    9. Identificare benefattori (persone o enti) che possano aiutare a sostenere economicamente le opere  dell’Ordine, riprendendo così l’antica natura mendicante.

    10. Implementare un sistema di valutazione della qualità carismatica, omologata, che ci aiuti a misurare il carisma e i valori nella missione che si sta realizzando in ogni Centro.

     

     

    B – Opzione per i poveri, i malati e i bisognosi

     

    1. Partendo dalla nostra sensibilità, continuiamo a proporre nuove forme di Ospitalità in modo da poter dare una risposta alle necessità dei gruppi più sfavoriti del nostro circondario soprattutto quando sono  abbandonati ed oppressi.

    2. Incoraggiare, a partire dalla gestione del nostro centro, il personale ad essere sensibile e a rispondere alle necessità non soddisfatte dei poveri.

    3. Effettuare la scelta a favore dei poveri e dei malati, incrementando anche le nostre opere tradizionali e se possibile crearne di nuove in risposta a nuove necessità emergenti.

     

    C – Religiosi e collaboratori uniti nella Missione e nel Carisma

     

    1. Integrare religiosi e collaboratori a partire dai seguenti tre livelli:

    - lavoro professionale ben fatto,

    - condivisione del progetto ospedaliero,

    - condivisione della stessa fede.

    2. Costituire su iniziativa della Curia Generale la “Famiglia Ospedaliera” e/o il “Movimento di San Giovanni di Dio” a partire dalle diverse esperienze esistenti nelle Province con stile istituzionale, flessibile e aperto fino ad arrivare allo stile di San Giovanni di Dio, in modo che possa essere conosciuto e poi condiviso a livello generale.

    3. Trovare attraverso il Governo Generale i modi per offrire una maggiore comunione spirituale dell’Ordine nei confronti di alcuni collaboratori. E al tempo stesso elaborare alcuni statuti o regolamenti, oltre ad un protocollo di affiliazione, perchè quelle Province che lo desiderano o ricevono sollecitazioni da parte dei laici possano permettere loro di vivere più radicalmente la loro fede cristiana seguendo lo stile di San Giovanni di Dio.

    4. Prestare speciale attenzione ai criteri di selezione e contrattazione del personale dei centri, e delle Curie Provinciali, specialmente per quanto riguarda i dirigenti. È necessario che in questo processo partecipi o ne sia al corrente il Superiore della Comunità, il cui ruolo è importante per quanto riguarda l’accompagnamento e il seguire questi nuovi operatori, e anche per quanto riguarda la formazione permanente degli stessi. Nei centri nei quali non ci sono religiosi, il Provinciale deve fare tutto il possibile per assegnare ad un religioso il centro, in qualità di Consigliere direttivo per le questioni attinenti al carisma, la filosofia e l’etica dell’Ordine.

     

    D – Trasmissione dei valori dell’Ordine

     

    1. Creare da parte della Curia Generale una commissione per redigere le direttive e i contenuti fondamentali per la trasmissione dei valori dell’Ordine, la quale dovrà attualizzare periodicamente la sua pianificazione in base ai cambi storici e alle nuove esigenze.

    2. Trasmettere i valori non esclusivamente grazie ai religiosi, ma anche grazie ai laici coinvolti soprattutto nei centri nei quali non ci sono religiosi. Trasmettere anche i valori verso l’esterno, dando molta attenzione alle dinamiche di comunicazione, cioè mettendo in atto un autentico lavoro di marketing, capace di promuovere e trasmettere la missione, l’immagine dell’Ordine, il Carisma di San Giovanni di Dio, e lo stile di vita dei religiosi: potremmo definire ciò come: il “marchio” di San Giovanni di Dio.

    3. Pianificare la trasmissione e l’identificazione coi valori prioritari, selezionando e formando gli agenti trasmettitori, identificando i destinatari e usando gli strumenti più attuali.

    4. Tenendo conto della pluralità attuale dei nostri modelli assistenziali, favorire la formazione dei mediatori culturali e altre iniziative che siano espressione dell’Ospitalità e del rispetto nei confronti della multiculturalità.

     

    E – Pastorale della salute e sociale

     

    1. Sviluppare la pastorale della salute e sociale nei nostri centri all’interno dell’unità di pastorale locale e diocesana.

    2. Potenziare e creare, dove non esistono, gruppi di pastorale e/o di accompagnamento spirituale perché la loro azione possa integrarsi all’interno dei gruppi e dei modelli assistenziali all’interno dei centri.

    3. Diffondere il concetto di accompagnamento spirituale come un termine ampio che si riferisce alle  ecessità spirituali di tutta la persona, qualunque sia la sua scelta o posizione religiosa.

     

    F – Bioetica

     

    1. Creare in tutte le Province comitati o commissioni di bioetica, in modo che siano una richiesta che favorisca la riflessione e in modo che il dibattito etico giunga ad ogni realtà assistenziale e di ricerca.

    2. Costituire, a livello di Curia Generale, un organo di collegamento, di consultazione o un osservatorio che permetta di riassumere tutto ciò che si vive e si conosce nei comitati di etica e/o di bioetica dell’Ordine e condividere le informazioni col maggior numero di persone possibili, specialmente con coloro che non hanno a disposizione questo tipo di comitato e debbano affrontare problemi simili.

    3. Proporci che le Province e i centri che necessitano aiuto, riguardo ad argomenti di bioetica, possano usufruire dei comitati di bioetica già presenti nell’Ordine, oppure usufruiscono di altri comitati nazionali e diocesani, sempre e quando siano in linea coi valori dell’Ordine.

    4. La formazione iniziale e permanente riguardo l’etica e la bioetica deve promossa e deve essere parte essenziale del piano di formazione generale.

     

    3 – COLLABORAZIONE (NETWORKING)

     

    1. Gli ambiti principali da tenere in considerazione per ottenere una buona collaborazione sono:

    - interprovinciale, in una stessa regione;

    - interprovinciale, tra varie regioni geografiche;

    - con altre istituzioni della Chiesa;

    - con altre istituzioni, ad esempio amministrazioni pubbliche, istituzioni private con vocazione sociale (sempre che abbiano degli interessi in comune e vengano rispettati i principi fondamentali del nostro Ordine).

    2. Valutare la possibilità di essere riconosciuti e di essere presenti a livello del parlamento Europeo come ente promotore della salute e partecipare al fondo europeo economico finanziario.

    3. Mantenere e intensificare gli incontri regionali per creare a poco a poco una vera identità regionale, con l’accompagnamento di un Consigliere Generale.

    4. Costituire una “banca dati”, con informazioni che riguardi tutti i collaboratori dell’Ordine che desiderino porre la loro professionalità al servizio di opere con necessità molto specifiche.

    5. Intensificare e incoraggiare i gemellaggi tra i centri o tra le Province: gemellaggi di tipo culturale, professionale e tra centri che offrono lo stesso tipo di assistenza sanitaria, gemellaggi nel senso di aiuti umanitari tra Nord e Sud. Istituire, inoltre, una banca dati aggiornata per poter condividere a livello dell’Ordine, esperienze, ricerche, informazioni e qualsiasi argomento di interesse che possa essere un patrimonio da condividere, tenendo sempre in considerazione la legge sulla protezione dei dati personali (privacy).

    6. La riscossione di fondi per la cooperazione internazionale non deve essere centralizzata per lasciare qualche iniziativa alle Province. Ciò nonostante, ogni volta si dovrà trasmettere l’informazione alla Curia Generale, per disporre di informazioni centralizzate perché siano a conoscenza di tutto l’Ordine, riguardo al complesso di progetti che sono stati finanziati e sostenuti dalle Province, i centri e le associazioni oppure da ONG dell’Ordine.

    7. Proponiamo che il titolo possa essere “Ufficio di Missioni e Cooperazione Internazionale”.

    8. Che si rinvigoriscano, controllino e rinforzino le dinamiche delle commissioni Interprovinciali.

     

     

    4 – ASPETTI GIURIDICI

     

    1. La Curia Generale incoraggerà le Province che si formano o si riorganizzano, secondo le necessità amministrative religiose, in accordo con la nostra legislazione.

    2. Il Superiore Generale delegherà maggiori responsabilità ai Consiglieri Generali.

    3. I Provinciali parteciperanno maggiormente al Governo Generale dell’Ordine.

     

    CURIA GENERALIZIA

     

    1 Fra Pascual PILES FERRANDO, sac. Superiore Generale

    2 Fra Donatus FORKAN 1 Consigliere

    3 Fra Emerich STEIGERWALD 2 Consigliere

    4 Fra Luis María ALDANA VELÁZQUEZ, sac. 3 Consigliere

    5 Fra Pietro CICINELLI 4 Consigliere

    6 Fra Vincent KOCHAMKUNNEL 5 Consigliere

    7 Fra Léopold GNAMI 6 Consigliere

    PROVINCIA ROMANA

    8 Fra Angelico BELLINO, sac. Provinciale

    9 Fra Giuseppe MAGLIOZZI 1 Vocale

    10 Fra Elia TRIPALDI, sac. 2 Vocale

    PROVINCIA LOMBARDO-VENETA

    11 Fra Sergio SCHIAVON Provinciale

    12 Fra Marco FABELLO 1 Vocale

    13 Fra Salvino ZANON, sac. 2 Vocale

    PROVINCIA FRANCESE

    14 Fra Aloïs MICHEL Provinciale

    15 Fra Mathieu SISAHAYE 1 Vocale

    16 Fra Alain-Samuel JEANCLER 2 Vocale

    PROVINCIA AUSTRIACA

    17 Fra Paulus KOHLER Provinciale

    18 Fra Pius VOLK 1 Vocale

    19 Fra Ulrich FISCHER 2 Vocale

    PROVINCIA BAVARESE

    20 Fra Rudolf KNOPP Provinciale

    21 Fra Benedikt HAU 1 Vocale

    22 Fra Donatus WIEDENMANN 2 Vocale

    DELEGAZIONE GENERALE DI SILESIA

    23 Fra Karol SIEMBAB Delegato Generale

    PROVINCIA ANDALUSA

    24 Fra José Ramón PÉREZ ACOSTA Provinciale

    25 Fra José Luis MUÑOZ MARTÍNEZ 1 Vocale

    26 Fra Ángel LÓPEZ MARTÍN 2 Vocale

    PROVINCIA BOEMO-MORAVA

    27 Fra Adalbert MÁLEK, sac. Provinciale

    PROVINCIA POLACCA

    28 Fra Krzysztof FRONCZAK Provinciale

    29 Fra Hubert MATUSIEWICZ, sac. 1 Vocale

    30 Fra Damian WASYLEWICZ, sac. 2 Vocale

     

    I PARTECIPANTI AL LXVI CAPITOLO GENERALE

     

    PROVINCIA PORTOGHESE

    31 Fra José Paulo SIMÕES PEREIRA Provinciale

    32 Fra José NUNES DORGUETE, sac. 1 Vocale

    33 Fra Augusto VIEIRA GONÇALVES 2 Vocale

    PROVINCIA ARAGONESE

    34 Fra Joaquim ERRA i MAS Provinciale

    35 Fra Jesús ETAYO ARRONDO, sac. 1 Vocale

    36 Fra José Luis FONSECA BRAVO 2 Vocale

    37 Fra José Luis GARCÍA IMAS 3 Vocale

    PROVINCIA DI CASTIGLIA

    38 Fra José María BERMEJO DE FRUTOS, sac. Provinciale

    39 Fra Miguel Ángel VARONA ALONSO 1 Vocale

    40 Fra Víctor MARTÍN MARTÍNEZ 2 Vocale

    41 Fra José María CHÁVARRI IMAÑA 3 Vocale

    PROVINCIA IRLANDESE

    42 Fra Fintan BRENNAN-WHITMORE, sac. Provinciale

    43 Fra Laurence KEARNS 1 Vocale

    44 Fra Kilian KEANEY 2 Vocale

    DELEGAZIONE GENERALE CANADESE

    45 Fra Marcellus CORKERY Sostituisce

    il Delegato Generale

    PROVINCIA DI COLOMBIA

    46 Fra Carlos Mario RENDÓN DÍAZ Provinciale

    47 Fra Jairo Enrique URUETA BLANCO 1 Vocale

    48 Fra Raúl Armando OSÉS ORTEGA 2 Vocale

    PROVINCIA INGLESE

    49 Fra John MARTIN Provinciale

    50 Fra Robert MOORE, sac. 1 Vocale

    51 Fra Stanislaus NEILD, sac. 2 Vocale

    PROVINCIA AUSTRALIANA

    52 Fra Peter BURKE Provinciale

    53 Fra Bernard BOROMANE 1 Vocale

    54 Fra Brian O’DONNELL 2 Vocale

    PROVINCIA DEGLI STATI UNITI

    55 Fra Stephen de la ROSA Provinciale

    56 Fra Pablo LÓPEZ ESTRELLA 1 Vocale

    57 Fra Edward MCENROE 2 Vocale

    DELEGAZIONE GENERALE RENANA

    58 Fra Andreas HELLERMANN Delegato Generale

    PROVINCIA DEL VIETNAM

    59 Fra Joseph TRAN VAN THONG Provinciale

    60 Fra Mathew TRAN ÑOAN PHI 1 Vocale

    61 Fra Peter NGUYEN MONH THANG 2 Vocale

    XXXIV

    INSERTO FATEBENEFRATELLI N° 4 2006

    PROVINCIA SUDAMERICANA SETTENTRIONALE

    62 Fra Enrique MIYASHIRO MIYAGE Provinciale

    63 Fra Valentín MORENO BELLO 1 Vocale

    64 Fra Isidro VÁZQUEZ ZAMORA 2 Vocale

    PROVINCIA DEL MESSICO E AMERICA CENTRALE

    65 Fra Daniel Alberto MÁRQUEZ BOCANEGRA Provinciale

    66 Fra César SÁNCHEZ GONZÁLEZ 1 Vocale

    67 Fra José Tomás SALAS CASTILLO, sac. 2 Vocale

    PROVINCIA SUDAMERICANA MERIDIONALE

    68 Fra Hermit Igor AGUAYO GARCÉS Provinciale

    69 Fra Nivaldo HERNÁNDEZ DÍAZ, sac. 1 Vocale

    70 Fra Gustavo MUCHIUTTI PANOZZO 2 Vocale

    PROVINCIA AFRICA-MISERICORDIA

    71 Fra Patrick NSHAMDZE Provinciale

    72 Fra Robert CHAKANA 1 Vocale

    73 Fra Nicholas MUE 2 Vocale

    DELEGAZIONE GENERALE AFRICA-PAMPURI

    74 Fra Dabarou Boniface SAMBIENI Vocale

    DELEGAZIONE GENERALE AFRICA-MENNI

    75 Fra Jesús Antonio LABARTA VAL Delegato Generale

    76 Fra Emilio VAHIRE Vocale

    PROVINCIA INDIANA

    77 Fra Benedict NADAYIL Provinciale

    78 Fra Yanka SHARMA 1 Vocale

    79 Fra Pius MANITHOTTIYIL 2 Vocale

    PROVINCIA COREANA

    80 Fra Pio CHANG Provinciale

    81 Fra Thadu KANG 1 Vocale

    82 Fra Andrew KIM 2 Vocale

     

    COLLABORATORI

    1 Sig. Giovanni ROBERTI Provincia Romana

    2 Sig.ra Giuseppina ASSI Provincia Lombardo-Veneta

    3 Sig. Patrick THIRION Provincia Francese

    4 Sig. Peter KÖLTRINGER Provincia Austriaca

    5 Sig. Bernd PETER Provincia Bavarese

    6 Sig. Alfonso MORAL BERRAL Provincia Andalusa

    7 Sig. Marek KROBICKI Provincia Polacca

    8 Sig.ra Susana QUEIROGA Provincia Portoghese

    9 Sig. Francesc PÉREZ i SARRADO Provincia Aragonese

    10 Sig. Pablo CARRILLO ROBLES Provincia di Castiglia

    11 Sig.ra Deirdre REECE Provincia Irlandese

    12 Sig.ra. M. Paz AZULA GRANADA Provincia di Colombia

    13 Sig. Mike PARR Provincia Inglese

    14 Sig. Andrew MCPHEE Provincia Australiana

    15 Sig. John WILLIAMS Provincia degli Stati Uniti

    16 Sig. Rafael Gregory TOVAR QUISPE Provincia Sud. Settentrionale

    17 Sig. Juan Antonio PLASCENCIA Provincia del Messico e A.C.

    18 Sig.ra Silvia Esther SERRA Provincia Sud. Meridionale

    19 Sig. George ASAMOAH ADDO Provincia Africa-Misericordia

    20 Sig. Jacob MATHEW Provincia Indiana

    21 Sig.ra Maria LEE Provincia Coreana

     

    della COMMISSIONE PREPARATORIA

    1 Sig. Salvino LEONE

     

    MODERATORE

    1 Sig. Alvaro Díaz

     

    DISCERNIMENTO PER LE ELEZIONI

    1 Suor Helena O’Donoghue

     

    SEGRETERIA

    1 Segretario del Capitolo: Fra Giancarlo Lapic’

    2 Sig. Klaus Mutschlechner

    3 Sig.ra Silvia Farina

    4 Sig.ra Chiara Donati

    5 Sig. Pietro Cacciarelli

    6 Sig. Augusto Fabbroni

    7 Sig. Mario Ceccarini

    8 Sig. Marco Ceccarini

    9 Sig. Fabrizio Petruccioli

    10 Medico

     

    INTERPRETI

    1 Sig.ra Serenella Bronzini Italiano

    2 Sig.ra Elfie Perkhofer Italiano

    3 Sig.ra Isabel Castilla Spagnolo

    4 Sig.ra Daniela Cincotti Spagnolo

    5 Sig.ra Frédérique Fidao Inglese

    6 Sig.ra Valeria Guglielmi Inglese

    7 Sig.ra Kathleen Elslander Francese

    8 Sig.ra Silvia Mendez Francese

    9 Sig.ra Elisabeth Heinisch Tedesco

    10 Sig. André Hardt Tedesco

    11 Sig.ra Malgorzata Ekes Polacco

    12 Sig.ra Urszula Jasinska Polacco

    “FARSI” VICINO COME CURA – Mariapia Urbani

     

     

    “Farsi” vicino come cura

     

     “La porzione di umanità nella quale Dio ci invita a centrare la nostra vita, è formata da coloro che vivono in se stessi la dolorosa esperienza della malattia, della solitudine, della povertà, del disamore. Sono queste le persone che Dio ci affida.”

     

    Mariapia Urbani

     

    La sensazione più forte e più profonda quando la malattia ci prende e diventa compagna di vita è la solitudine. Nessuno sembra in grado di capirci, di sapere esattamente cosa sta avvenendo nella nostra vita e tutto si fa più complicato. 

    Quando la malattia poi, come le demenze, prendono la persona nei suoi aspetti meno evidenti perché non si tratta di un male che si può togliere o guarire con un intervento, la realtà diventa ancora più complicata. Per la persona, certo, che pian piano sente sfuggire, diventare evanescente il suo mondo di conoscenze, il nome, il viso delle persone amate, i ricordi, la propria identità e la capacità di raccontarsi, ma, anche e forse in maniera ancora più dolorosa per chi ogni giorno incontra una persona amata che non riconosce più e dalla quale non si sente riconosciuta.

     

    Esserci con i pazienti

     

    Allora anche in noi operatori di un centro diurno per ospiti affetti da demenze di vario genere, nasce la domanda su come prenderci cura, farci vicini, aiutare, sostenere queste persone e su come sostenerci e farci prossimi tra noi.

     

    “Il vero interesse non è ambiguo, esclude l’indifferenza ed è l’opposto dell’apatia. Non è inteso come spesso crediamo, semplicemente come un chinarsi di chi è forte verso chi è debole, di chi è potente verso chi è fragile, di chi ha, verso chi non ha. In realtà pensiamo questo perché è difficile entrare nella sofferenza dell’altro, e farequalcosa in merito. Eppure quando noi ci chiediamo quali sono le persone che nella nostra vita sono state più significative, spesso troviamo che sono coloro che, invece di darci suggerimenti, soluzioni o rimedi, hanno preferito partecipare alla nostra pena e toccare le nostre ferite con mano tenera e gentile.

     

    L’amico che sa stare in silenzio con noi in un momento di disperazione, nudità, confusione, che sa stare con noi in un’ora di lutto… che accetta di non sapere, di non capire, di non riuscire a curarci e guarirci, e affronta con noi la realtà della nostra impotenza: questo è uno che si prende cura di noi” (H. Nouwen). Questo è tanto più vero, come nella nostra realtà, dove la vicinanza, la prossimità è l’unica cura possibile. Ai nostri ospiti servono operatori che non li guardano dicendo: “Tranquillo, adesso ti curo io!”, ma che si mettano accanto a loro guardando la loro sofferenza senza scappare, senza cercare cambiamenti facili, miracoli, senza la presunzione di poter modificare l’altro che porta all’impazienza e alla frustrazione quando i risultati non ci sono.

     

    Dall’esperienza impariamo che chi si prende cura è presente all’altro, quando ascolta, ascolta lui, quando parla, parla a lui, quando si fa carico dell’assistenza lo fa partendo dai bisogni dell’altro e non dai suoi. La presenza di questi operatori è salutare perché accettano l’altro per come è, considerandolo nel suo momento particolare di vita, non hanno pretese di conoscere tutto ma, si aprono all’attenzione verso i bisogni evidenti e nascosti che sono della vita dell’altro.

     

    Parlando di operatori credo che tra le motivazioni che lo caratterizzano ci sono: la disponibilità verso gli altri, il desiderio di dare significato al proprio lavoro, il bisogno di svolgere un’attività che non sia puramente tecnica ma che preveda la possibilità di rapporti umani. I valori personali, il proprio modo di vivere giocano un ruolo importante nel lavoro, così come la propria immagine sociale, il bisogno di gratificazione. Dovendo vivere una dimensione empatica con il malato, senza correre il rischio

    di confondersi, l’operatore ha bisogno di capire che cosa può fare, come lo può fare e di sapere che c’è qualcuno che lo sostiene, con il quale dividere e condividere le difficoltà, la frustrazione dell’insuccesso, la stanchezza dovuta ai tempi lunghi o impossibili della guarigione…

     

    La scelta, il coinvolgimento, la partecipazione, il successo, la soddisfazione che sono i principi della riabilitazione, sono dei presupposti perché anche gli operatori possano dare il meglio di sé nell’espressione delle capacità personali e professionali di ciascuno. Le reazioni ai problemi possono essere molto diverse, a seconda della personalità di ciascuno, della storia di ogni operatore, della situazione diversa in cui si viene a trovare.

     

    Essere vicini, significa avere attenzione tra noi, perché spesso il lavoro ci richiede di intervenire a livello di assistenza con compiti gravosi e a volte sgradevoli, occorre prendere decisioni in temi brevi e in condizioni non sempre adeguate… un collega può fare molto, condivide con noi la fatica, spesso la sensazione di inutilità, la frustrazione del lavoro senza risultati, la pesantezza di una assistenza difficile. Anche gli operatori hanno bisogno di essere guardati, nutriti, curati, accompagnati… Spesso non esistono le risposte  come non esistono magiche soluzioni rispetto ai perché della malattia, della sofferenza, del dolore, della nudità e fragilità…

     

    Come siamo considerati spesso condiziona nel bene e nel male la nostra capacità di considerazione, se voglio invitare l’operatore a riconoscere l’ospite e ad onorarlo nella sua unicità, ad amarlo nella sua preziosità, ad ascoltarlo anche quando non parla o non si capisce, a fare spazio alla sua partecipazione e al suo essere al centro della nostra attenzione, anch’io devo guardare così il mio collega.

     

    Salutare calorosamente, riconoscere una fatica fatta, essere vicino a chi sta soffrendo e si sente solo, guardare negli occhi e sorridere a chi ha perso un po’ lo smalto è quello che mi è chiesto oggi, ci è chiesto se vogliamo vivere la vicinanza, soprattutto se il nostro cuore ha un sentimento “pastorale”! Da un Dio che condivide pienamente la nostra vita, traiamo forza per offrire la nostra vicinanza e il nostro cuore a chi, per motivi diversi, vive sconsolate solitudini e tragiche sofferenze. Forse per qualcuno di noi “stare lì”, significa un non fare nulla che non si capisce perché non possiamo vantare come credito del nostro impegno. Provare a farlo però ci darà sicuramente, insieme alla fatica che ci costa, la gioia di esserci e, la risposta fiduciosa e sorridente di chi scopre che c’è qualcuno su cui si può contare. Nel nostro centro anche i rapporti con i familiari sono molto importanti.

     

    Prossimità con i famigliari

     

    I famigliari e l’ambiente sociale sono una risorsa fondamentale nei progetti riabilitativi. Ai famigliari viene chiesto, per garantire una continuità tra il centro e la famiglia, di collaborare nella raccolta di informazioni utili per la valutazione del livello di partenza dell’ospite; nella pianificazione degli incontri per la  definizione, con l’ospite e con gli operatori dell’èquipe, di obiettivi personali e nell’apprendimento e utilizzo di abilità di comunicazione da utilizzare con l’ospite.

     

    Poiché gli ospiti del centro tornano a casa a fine giornata, anche i rapporti informali sono molto importanti. Cerchiamo pertanto di renderci disponibili e attenti sia alle comunicazioni quotidiane che a quelle telefoniche. Spesso il famigliare si sente spaesato di fronte alle manifestazioni comportamentali, alle difficoltà di comprensione e di relazione che questi ospiti esprimono, ai cambiamenti affettivi nei rapporti con il coniuge o con i figli e il confronto con una persona esterna alla famiglia, stempera ansie e permette confronti e collaborazione nella gestione quotidiana.

     

    Un altro momento difficile per i famigliari è quello iniziale, quando si trovano a confrontarsi con una persona che non “riconoscono” e non capiscono; accettare che questa rivoluzione degli equilibri familiari capiti proprio a loro è molto difficile. La vicinanza in questo difficile cammino di accettazione è molto importante; sapere che qualcuno ascolta le loro difficoltà, permette loro di dire quanto sono arrabbiati o tristi o impotenti, senza sentirsi giudicati è molto importante anche perché, diminuisce il senso di colpa che il familiare si porta dentro. Non sempre siamo capaci di metterci accanto ai familiari e comprenderli, di restituire dignità agli ospiti che apparentemente non ne hanno, di ri-abilitare restituendo loro attraverso la nostra dedizione, la nostra attenzione e la nostra competenza, la possibilità di rivestire un ruolo sociale importante che la società fondata sul profitto, non riesce più a riconoscere loro; ma, questo, è il nostro sforzo quotidiano.

     

    Impegnarci a considerare i nostri ospiti come persone che hanno ancora molto da offrire, voler loro bene, e il loro bene, accettarli e accoglierli per quello che sono, anche quando urlano, imprecano, sono aggressivi o non capiscono i nostri messaggi e le nostre richieste è il modo, forse l’unico che abbiamo per dichiarare loro che sono importanti, che meritano il nostro sforzo, che contano nella nostra economia fatta di valori umani e spirituali…

     

    Non siamo giunti alla mèta, ma continuiamo a camminare per conquistarla, con l’aiuto di chi ci sta accanto, gli ospiti per primi, e la forza di S. Giovanni di Dio. Questo è il messaggio che abbiamo inviato ad ogni famigliare:

     

    Farsi vicino allora è molto pastorale, anche quando non ci è possibile o permesso un intervento risolutivo: è il prendersi cura reciprocamente che cambia il nostro cuore e dà sapore alle alle cose che viviamo quotidianamente.

     

    IN FATEBENEFRATELLI GENNAIO/MARZO 2007

    HOSPITALITAS: casa circuito aperto… – A. Nocent

     

    HOSPITALITAS:

      

     

    casa circuito aperto

      

     

    liturgia dei volti 

     

     

    dialetti del cuore…

     

     Di Angelo Nocent

     

     La filosofia scopre l’hospitalitas

     I Fatebenefratelli nella Chiesa hanno l’arditissimo compito profetico che è sulle labbra di Gesù in sinagoga: 

     

    “Gli diedero il libro del profeta Isaia ed egli, aprendolo, trovò questa profezia:
    18Il Signore ha mandato
    il suo Spirito su di me.
    Egli mi ha scelto
    per portare il lieto messaggio ai poveri.
    Mi ha mandato per proclamare
    la liberazione ai prigionieri
    e il dono della vista ai ciechi,
    per liberare gli oppressi,
    19per annunziare il tempo
    nel quale il Signore sarà favorevole.

    20Quando ebbe finito di leggere, Gesù chiuse il libro, lo restituì all’inserviente e si sedette. La gente che era nella sinagoga teneva gli occhi fissi su Gesù. 21Allora egli  coDivenuto nel ‘32 cittadino francese, il retaggio
    ebraico gli ha permesso di sviluppare
    un modo nuovo di filosofare, elaborando
    differenti apporti della tradizione
    filosofica occidentale arricchiti e corretti
    criticamente. Da qui il suo intervallare di
    elementi fenomenologici ed esistenzialistici,
    impreziositi di istanze dialogiche e
    spunti biblici. Egli possiede una consapevolezza
    che lo contraddistingue: la tradizione
    del pensiero non può essere che aperta,
    sempre disponibile a nuove letture e trascrizioni,
    sempre oltre, nell’infinita complessità
    della subtilitas applicandi. Non a
    caso nell’introduzione all’edizione francese
    del suo celebre Totalità e infinito, ha
    scritto: “tutto il mio sforzo teoretico è
    consistito nel tentativo di pensare la soggettività
    ospitale”.
    Mentre riporto queste considerazioni,
    mi sovviene la fondamentale prima biografia
    di San Giovanni di Dio, scritta dal
    Castro. I santi vanno continuamente riletti,
    sempre pronti a nuove interpretazioni.
    Ma torniamo al Lévinas almeno solo
    per accennare:
    • L’Infinito-in-me di Cartesio diventa
    nella sua riflessione l’infinito Altro che è
    nel contempo sia l’altro uomo, il prossimo,
    sia il totalmente Altro, Dio.
    • L’Infinito della trascendenza può rivolgersi
    a me solo attraverso il Volto di Altri.
    • Questo Volto nella sua nudità, fin dall’inizio
    mi rivolge una parola che mi accusa,
    mi sospetta e mi turba, e insieme
    già mi interroga e mi inserisce in una relazione
    etica.
    • Io non posso nascondermi al Volto
    d’Altri, che esige aiuto e mi convoca come
    responsabile.minciò a dire: “Oggi per voi che mi ascoltate si realizza questa profezia”.
    (Lc 4, 17-20). 

    Forse i Fratelli di San Giovanni di Dio, il cantautore nelle vie di Granada di “fratello uomo” e “sorella donna”, (Fate bene a voi stessi, fratelli…), chiamati a dare continuità alla Sua azione guarendo e liberando le persone più deboli della terra, non si rendono conto a sufficienza di possedere il più grande trattato di ospitalità che mai sia stato scritto: la Bibbia. Questo tesoro immenso non è sfuggito a Emmanuel Lévinas (1905-1995), un fecondo pensatore contemporaneo, nato in Lituania da una famiglia di origine ebraica ricca di valori religiosi e culturali che lo hanno segnato.  

    levinas-emmanuel-picture-150x150Divenuto nel ‘32 cittadino francese, il retaggio ebraico gli ha permesso di sviluppare un modo nuovo di filosofare, elaborando differenti apporti della tradizione filosofica occidentale arricchiti e corretti criticamente.

     

    Da qui il suo intervallare di elementi fenomenologici ed esistenzialistici, impreziositi di istanze dialogiche e spunti biblici.

     

    Egli possiede una consapevolezza che lo contraddistingue: la tradizione del pensiero non può essere che aperta, sempre disponibile a nuove letture e trascrizioni, sempre oltre, nell’infinita complessità della subtilitas applicandi.

     

    Non a caso nell’introduzione all’edizione francese del suo celebre Totalità e infinito, ha scritto: “tutto il mio sforzo teoretico è consistito nel tentativo di pensare la soggettività  ospitale”.  

    Mentre riporto queste considerazioni, mi sovviene la fondamentale prima biografia di San Giovanni di Dio, scritta dal Castro. I santi vanno continuamente ri-letti, sempre pronti a nuove interpretazioni.  

     

     Ma torniamo al Lévinas almeno solo per accennare:  

    1. L’Infinito-in-me di Cartesio diventa nella sua riflessione l’infinito Altro che è nel contempo sia l’altro uomo, il prossimo, sia il totalmente Altro, Dio.
    2. L’Infinito della trascendenza può rivolgersi a me solo attraverso il Volto di Altri.
    3. Questo Volto nella sua nudità, fin dall’inizio mi rivolge una parola che mi accusa, mi sospetta e mi turba, e insieme già mi interroga e mi inserisce in una relazione etica.
    4. Io non posso nascondermi al Volto d’Altri, che esige aiuto e mi convoca come responsabile.
    5. Andare verso Dio non significa seguire la traccia del Volto, ma andare verso gli Altri Volti, che si iscrivono nella traccia.
    6. «Il fatto che il rapporto col divino – scriveva nel 1957 – si incroci col rapporto verso gli uomini e coincida con la giustizia sociale, ecco lo spirito totale della Bibbia giudaica. Mosé e i profeti non si danno pena dell’immortalità dell’anima, ma del povero, della vedova, dell’orfano, dello straniero. Il rapporto con l’uomo in cui si realizza il contatto col divino non è una sorta di amicizia spirituale, ma quella che si manifesta, si sperimenta e si realizza in un’economia giusta e di cui ogni uomo è pienamente responsabile… La responsabilià personale dell’uomo verso l’uomo è tale che Dio non può annullarla». 
    7. “Essere io significa non potersi sottrarre alla responsabilità. Quell’eccesso di essere, quell’esagerazione che si chiama essere io….si compie come una turgescènza nella responsabilità. La mia messa in questione ad opera dell’Altro mi rende solidale con Altri in modo incomparabile e unico. L’unicità dell’io è il fatto che nessuno può rispondere al mio posto…”.
    8. “l monoteismo è impossibile, dice Lévinas, se non si è giunti all’età del dubbio, della solitudine e della rivolta: esso rompe l’incantesimo del mondo, libera l’uomo dalla malìa del mito; l’ebraismo che l’annunzia al mondo è “una religione di adulti”. La parola divina incontra l’intelletto nell’esistenza umana, è inseparabile dall’esercizio dell’intelligenza. È gloria di Dio aver creato un essere capace di cercarlo partendo dalla separazione, partendo anche dall’ateismo”.
    9. La fede in Dio è il desiderio mai appagato di infinito. Il divino non si mostra, è silente anche davanti alla tragedia (Levinas ha vissuto l’epoca dell’olocausto), tuttavia vi è una traccia del divino nel desiderio di Dio, il desiderio dell’infinito, dell’assolutamente Altro inaccessibile all’essere individuale dell’uomo.
    10. Dunque Dio è il Desiderabile, pur non mostrandosi all’uomo Egli è l’oggetto del suo desiderio. Ma questo desiderio non si fonda su una vana volontà di desiderare, il desiderio viene suscitato dal Desiderabile, ovvero il moto dell’animo che porta l’uomo a desiderare l’infinito altro da sé è suscitato al fondo dalla presenza del divino, che è assolutamente altro rispetto all’uomo. Dio esiste, ma non si mostra, e pur non mostrandosi suscita il desiderio di Sé negli uomini (la fede). 
    11. «Quando un uomo risponde al volto altrui che lo cerca, quando risponde “Eccomi” alla richiesta dell’altro, allora in quell’istante Dio “viene” in mente, dice Lévinas. “Venire” è quello che conta, poiché è un avvenimento, una discesa. Il cammino verso Dio non prescinde mai da questa riposta all’altro». 

    Lascio agli appassionati lettori di approfondire il suo originale pensiero. Dal momento che continuiamo a parlare di hospitalitas, mi sembrava obbligatorio citarlo, giacché egli ha elaborato un linguaggio dell’accoglienza che poggia su tre pilastri fondamentali: fraternità, umanità, ospitalità. Costretto a sorvolare, mi premeva almeno insinuare il sospetto che sotto questo pensiero si celi una miniera di intuizioni tutta da esplorare. Ai discepoli di san Giovanni di Dio, religiosi e laici che hanno la grazia di vivere l’inizio del terzo millennio non è lecito tenersi a distanza dalla filosofia. 

    Estranei chiamati a a co-ospirtarsi 

    Per quanto impegnativa e non esaustiva, tale premessa era necessaria. Il Lévinas ci ha posti sulla traccia di Dio che pone sulla traccia a servizio dell’altro. La Bibbia è il grande codice che rende possibile pensare il rapporto tra gli umani al di là del classico modello della conquista e del possesso. Il Levitico sancisce e fissa, per bocca di Adonai, il Dio di Israele, un grande principio che i potenti di ogni tempo non hanno mai digerito: “la terra è Mia e voi siete residenti e ospiti presso di me” (Lv 25, 23). Se così è, in essa gli uomini possono starci solo da “stranieri e inquilini”, cioè da ospiti nel duplice senso di ospitati e ospitanti. Secondo questo modello antropologico che Israele si è dato come fondativo, l’uomo, ospitato da Dio, è chiamato a sua volta a farsi ospitante come Dio. Ne deriva che, nella sua duplice dimensione di ospitato e ospitante, l’ospite è sempre traccia o luogo del divino.

    Il congegno dell’hospitalitas rotea su questo perno: “Schiavi noi fummo di Faraone in Egitto donde ci fece uscire il Signore nostro Dio  con mano forte e con braccio disteso. Se il Santo, Benedetto Egli sia,  non avesse fatto uscire i nostri padri dall’Egitto, noi, i nostri figli e i figli dei nostri figli  saremmo ancora soggetti a Faraone in Egitto…” (Es 12,1-28). Israele straniero rappresenta la condizione umana. Prendiamo l’immagine del mendicante: in essa posso vedere la mia fotografia, la mia precarietà. Come potrei superarla? Da solo mai. Ma nell’unica prospettiva possibile: la solidarietà reciproca. Io schiavo, straniero, povero, mendicante, inquilino…I nostri schemi culturali inorridiscono.

    San Giovanni di Dio, un portoghese, quindi uno straniero, davanti alla sua fotografia, si compiace della sua debolezza. Lui, bisognoso di ospitalità, si fa casa aperta, ospitale. Con gli affetti del cuore, mette in circolazione legna, fuoco, pentole, pane, galline, coperte, tisane…Detto per inciso, è lì che nasce la prima “Compagnia delle opere”, un po’ diversa da quella attualmente in circolazione. Lui fa girare le merci, i soldi, le persone…a modo suo: debiti su debiti, per Cristo. Gambe, spalle, sporta, bastone e fuoco di carità nel cuore. Un sovvertimento delle leggi economiche di ogni tempo. 

    Ho ripescato un’intervista che Gian Luca Sacco ha fatto al teologo Carmine Di Sante, studioso del tema. La domanda: 

    1. Ma dobbiamo quindi identificare lo straniero con il mendicante?“Questo è certamente il primo significato, ma direi che nella Bibbia se ne danno almeno altri due.
    2. C’è innanzitutto quello dello straniero come alterità, metafora dell’alterità dell’altro in quanto altro. Anche mio figlio è straniero a me, anche mia moglie è straniera a me, anche il mio vicino è straniero a me. L’ alterità – di cui lo straniero è il paradigma – per la Bibbia è il tratto costitutivo dell’umano, al di là della sua desiderabilità.”
    3. “Poi c’è un aspetto più profondo: lo straniero come paradigma dell’umano ospitale. “

     Il Levitico è molto esplicito: “Quando un gher [uno straniero] dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto. Il gher dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato tra di voi. Tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati gherim nel paese d’Egitto. Io sono il Signore vostro Dio” (Lev 19,33-34). Come si può constatare, la dichiarazione finale significa che questa non è una esortazione etica ma una volontà rivelata.

    Il gher, lo straniero, è un caso concreto e molto ben definibile. Epperò il concetto va esteso. L’amore del prossimo riguarda ovviamente anche i connazionali e diventa più difficile man mano che il cerchio del prossimo si stringe intorno a me. Se il Levitico 19,18 afferma un concetto che ormai noi abbiamo acquisito e radicato nel cuore, ossia l‘ “amerai il tuo prossimo come te stesso”, il midrash (un metodo di interpretazione della Scrittura) ci fornisce un’altra lettura possibile: “amerai il tuo prossimo perché è te stesso”. A guardar bene, la parabola del Samaritano è la vicenda di due lontani che diventano vicini a tal punto che ognuno ritrova nell’altro il senso del suo esistere.

    In base a versetto del Levitico, si può dire del prossimo, e a maggior ragione dello straniero, del gher, quello che i maestri dicono di Dio. Dio è lontano e vicino. Anche il prossimo è lontano e vicino. La mia identità riposa proprio su questo rapporto del lontano col vicino. Non dimenticando che, se il prossimo è il lontano che diventa vicino, anch’ io sono un lontano che deve diventare vicino. Per dirla con il Lévinas, nella considerazione del prossimo non basta dire: “Ci sono io, e intorno a me c’è il prossimo”; io sono un IO e un TU, ma anche tu sei un TU e un IO.”  

    Israele, a differenza degl’altri popoli che tendono a rimuovere le negatività e le oppressioni subite nella storia, non solo non occulta il suo passato di straniero e di oppresso ma ne fa memoria annualmente: “schiavi noi fummo in Egitto.” Sostiene  il Di Sante che “questa memoria rappresenta nella storia umana una vera rivoluzione culturale perché con essa viene decostruita l’idea della forza o potenza come principio dell’umano, come invece emerge nei racconti fondatori della maggior parte delle altre culture umane. Qui va colta la novità assoluta di Israele: nell’aver collocato al centro del suo racconto fondativo non sé come eroe ma sé come straniero. L’eroe chi è ? Chi si afferma con un di più di forza e di potenza e così istituisce un ordine che, per definizione, è sempre l’ordine della forza e della potenza (si pensi ad esempio al racconto fondatore di Roma con Romolo e Remo)”.

    Anche questa premessa biblica, pur solo accennata, è fondamentale. Da un lato ci è stato detto da dove veniamo e dall’altro ci è stata indicata la rotta da seguire se non vogliamo smarrirci nel deserto delle contraddizioni. Ciò presuppone una rivoluzione culturale personale ed istituzionale, una metànoia che è cambiamento di mentalità. 

    Proviamo ora a calarci nella realtà di “Religiosi Fatebenefratelli e laici del terzo millennio che si sentono interpellati a condividere nella Chiesa il loro peculiare carisma”. Entrambi si vedono coinvolti in un processo di ripensamenti che li spinge a mettere a fuoco il teleobiettivo per carpire il segreto – se così si può dire – della spiritualità Juandediana o Giovandiana, ossia il Vangelo della compassione viscerale, espresso tradizionalmente col termine  hospitalitas. Il vocabolo, se non viene recepito e recuperato nei suoi originari significati biblici, rischia di essere interpretato in modo riduttivo. Infatti, chi traduce a orecchio il vocabolo latino è portato ad abbinarlo al concetto di ospedale ed al parente stretto che è la sanitas. Dove “salute”, a sua volta, non andrebbe  intesa come il semplice contrario di malattia ma un ben-essere che abbraccia tutto l’uomo, nelle sue componenti inscindibili, fisica, psichica, spirituale  e nel complessivo arco temporale..

    Dunque, ciò che il termine sottintende è complesso e senza l’aiuto dello Spirito, finisce per diventare  minestra riscaldata, sistematicamente propinata ai commensali i quali, a lungo andare, già con l’ olfatto percepiscono subito se mancano i profumi genuini dell’orto fresco di giornata. Invocarlo è doveroso, crederci è determinante. Diversamente, non è possibile penetrare, in qualche modo, nel cuore del Padre, nel cuore di Dio che il Maestro ci rivela.  

     Gesù, il dimorante nella Trinità, ci apre la sua abitazione, c’invita, ci ospita, ci mette a nostro agio: “Fai come se fossi a casa tua. Ciò che è Mio è tu”. Il Suo modo di presentarsi è genuino:“Venite e vedrete”. Tutti noi siamo vittime di un pregiudizio che affonda le sue radici nel marcionismo, l’eresia del secondo secolo dopo Cristo e che consiste nell’aver pensato e tramandato fino ai nostri giorni che il Dio ebraico è il dio cattivo, della legge e della severità. Invece no, il Dio di Israele è il Dio che asciuga le lacrime (cfr Esodo 2 e 3) e ascolta il gemito del suo popolo. Ciò è così vero che il Dio degli ebrei, benevolente e accogliente, si è “visibilizzato” definitivamente, ossia “si è incarnato”, come diciamo noi cristiani, nell’ebreo Gesù di Nazareth, attraverso il suo “sì “ al Padre e all’uomo sulla croce. Questa è la specificità del cristianesimo. Ma il Dio di Gesù è il Dio dell’esodo, sia chiaro! Basti pensare al salmo 56, dove si dice che Dio raccoglie nel suo otre tutte le lacrime e poi temendo che se ne dimentichi le iscrive tutte nel suo libro! E’ quanto poi è venuto a fare Gesù con le sue opere taumaturgiche, guarendo malati, ciechi e storpi, e con la sua morte in croce, amore estremo donato a chi lo uccideva! 

    Se ospitalità e umanizzazione sono i temi a lungo dibattuti in questi anni, mai i problemi connessi hanno trovato soddisfacente soluzione, giacché le difficoltà non sono organizzative ma culturali. Con un occhio fisso sulle radici e l’altro sulla contemporaneità, anche per ricollegarmi alle riflessioni precedenti, riprendo l’intervista che Luigi Dall’Aglio qualche tempo fa ha posto all’accademico tedesco Dietrich von Engelhardt: 

    …Lei si propone di “umanizzare” la medicina. Ma è possibile oggi attuare quel modello ideale di medico? 

    “A Lubecca si tiene un corso teorico di medical umanities e poi un corso pratico, durante il quale i giovani medici stabiliscono un rapporto psicologico con i pazienti degli ospedali. Oggi il malato cerca nel medico anche un consigliere, un amico, una guida, una persona di cui fidarsi. Bisogna ridare centralità al rapporto medico-paziente. Nel Medioevo questo rapporto era più ricco che mai: dietro ogni dottore c’era la figura del Christus Medicus e dietro ogni malato c’era la Passione di Cristo. Ora questo rapporto deve recuperare i suoi significati antropologici e metafisici”. I chirurghi dicono: stamane ho operato due ulcere. Non dicono: stamane ho operato due malati di ulcera. 

    Il tecnicismo può portare alla sistematica indifferenza? 

    “La storia della medicina ci insegna molte cose. Il medico ideale ha doveri, diritti e virtù. Da Ippocrate a Victor von Weizsacker, il dottore è un uomo che soccorre un altro uomo in una situazione di emergenza. Aristotele contrappone al “medico degli schiavi”, che tratta male il paziente, il “medico degli uomini liberi” che col paziente dialoga, gli spiega la terapia e lo coinvolge. Il teologo e filosofo Origene un medico che “soffre con chi soffre, piange con chi piange”, insomma condivide la stessa condizione del malato. Paracelso sostiene che il medico deve amare il paziente più di se stesso e sacrificarsi per lui. E’ il “medico-agnello” che Paracelso distingue dal “medico-lupo” e dal “medico delle erbacce”, la cui scienza è solo libresca”. 

    Ma basta inserire le “medical umanities” nelle facoltà universitarie per rendere più umana la medicina? 

     Certamente no. Questo è solo il primo passo. Per ridare alla medicina quella dimensione più ampia che ha perduto nel tempo, bisogna cambiare una mentalità. Cominciando da alcuni concetti generali. Che cos’è la malattia? E che cos’è la salute? Per l’Organizzazione mondiale della sanità, salute è “lo stato di completo benessere, fisico, psichico e sociale, e non soltanto la mancanza di malattia”. Eppure anche questa definizione è inadeguata. In realtà, la salute è molto di più: è anche capacità di sopportare le ferite della vita, le malattie, l’handicap, l’avvicinarsi della morte. In ultima analisi, salute è saper fare fronte alla morte”.  

    Circuito aperto 

    Dopo le considerazioni suggerite dai Libri dell’Esodo e del Levitico e dagli interrogativi che pone l’accademico tedesco e dalle sue conclusioni, deduco che l’hospitalitas non può avere il significato di ruolo umanizzante, demandato agli operatori sanitari, ma di porta comunicante con lo Spiritum hospitalitatis. Dunque: circuito aperto, casa, liturgia di volti, dialetti del cuore, attenzione, coinvolgimento, Chiesa,  preparativi  alle Nozze… 

    Parole vuote, astratte? No, non c’è motivo di demoralizzarsi. Mi sovvengono le parole della tenerezza che Isaia mette in bocca a Dio quando parla di noi come persona, sposa: “Mia cercata, mia desiderata, mio tesoro, mio orgoglio”. I votati all’ospitalità, con o senza voti, sono inviati a sussurrare a coloro che sono nella sofferenza parole di consolazione che andrebbero conosciute a memoria: 

    1Per amore tuo, Gerusalemme, non tacerò finché non sarai liberata
    e non risplenderai come luce.
    Per amore tuo, Sion, non mi darò pace finché non sarai salvata
    e non brillerai come una fiaccola accesa.

    2 Allora le nazioni vedranno  che il Signore ti ha liberata,
    tutti i re ammireranno la tua gloria.
    Avrai un nome nuovo che il Signore stesso ti darà.

    3Nelle mani del Signore diventerai una corona splendida,
    un diadema regale.

    4Il tuo nome non sarà più “Città abbandonata”,
    il tuo paese non si chiamerà più “Terra  desolata”.

    Invece il tuo nome sarà “Gioia del Signore”
    e la tua terra si chiamerà “Sposa felice”.
    Infatti sarai veramente la delizia del Signore,
    e la tua terra avrà in lui uno sposo.

    5Come un giovane sposa una ragazza, così il tuo creatore sposerà te.
    Come l’uomo gioisce per la sua sposa, così il tuo Dio esulterà per te. (Is 62, 1-5) 
     

    Lasciatemelo dire: non vi sembra di avvertire in queste parole le palpitazioni del Crocifisso-Risorto? Non avvertite profumo di pane caldo che esce dal forno? Che cosa deduco? Due immagini suggestive:  che lo Spiritum hospitalitatis si propone di “divinizzare” l’uomo: formare con la “sposa felice” una sola Carne.  Ma ne parleremo un’altra volta;e che lo Spiritum hospitalitatis  intende “metter sù casa”, celebrare nozze, legami…E ne parleremo la prossima volta.

     

    ( 2 parte )

    Laici o religiosi, coloro che pensano di progettarsi il futuro in solitudine, si troveranno soli anche a realizzarlo. Coloro che condividono il progetto di Dio, avranno sempre alle loro spalle il Sostenitore. Laico o religioso, colui che non fa l’esperienza di essere accolto, ospitato nelle mani di un Padre, trascinerà dietro di sé questa segreta nostalgia di un padre che non c’è perché rifiutato, respinto. Quando non desidero il Padre, allora cerco, voglio, pretendo, strappo l’eredità, pretendo la mia parte….

    Cominciamo subito col dire che non c’è ospitalità senza una tenda, un luogo, un tetto, una casa, un ospedale, una Chiesa, un cuore…. 

    In principio è la Trinità. Gesù è l’inviato per introdurci nella Casa del Padre: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo.” (Gv 10,9)

    Abramo. E’ il primo credente nel Dio unico. Non c’è lo spazio per approfondire e mi limito al fatto. Mentre soggiorna con la sua tenda di nomade presso le Querce di Mamre,succede che “Il Signore, JHWH, apparve ad Abramo” (cfr. Gen 18,1). Ciò che è strano è che Abramo in realtà incontra tre uomini stranieri che lui guarda con occhi ignari e sorpresi. Si fa incontro a loro per fermarli al passaggio e mostra una pressante deferenza perché accettino di essere ospitati e ristorati (cnf. Gen.18,1ss). 

    Sconvolgente: egli crede di accoglie i tre stranieri e si ritrova visitato da Dio (il Volto nei Volti). Così scopre le Sue intenzioni che sono tutte rivolte a operare la salvezza dell’umanità (Is 53) e si ritrova padre di una moltitudine di credenti, più numerosa dell’arena del mare. 

    Maria. Per capirla bisogna prendere in mano il testo evangelico (Lc 1,26-38)  e sottolineare verbi e aggettivi. Fraternità, di una Compagnia. Guai a perdere di vista il “sogno” di Maria che è il sogno di Dio. Esso va ricordato tre volte al giorno con la preghiera dell’”Angelus”. A quell’ Evento che determina, incide, conta davvero sulla mia esistenza, devo ostinatamente riferirmi.    

    Dunque, in principio è la casa:

    • Dio ha una casa
    • Dio è la Casa
    • Abramo ha una tenda  
    • Abramo è una tenda (Gen 18, 1ss)
    • Maria ha una casa
    • Maria è una casa
    • Io ho una casa
    • Io sono una casa

    Tutti modi per evidenziare il dare e l’avere dell’ admirabile commercium. Ma ecco i paradossi:

    • Gesù  non ha dove posare il capo: “Le volpi hanno una tana e gli uccelli hanno un nido, ma il Figlio dell’uomo non ha un posto dove poter riposare.” (Mt 8,20)
    • E’ venuto ma…” È venuto nel mondo che è suo ma i suoi non l’hanno accolto.
    • Alcuni però hanno creduto in lui. A questi Dio ha fatto il dono di diventare figli di Dio.  Non sono diventati figli di Dio per nascita naturale, per volontà di un uomo: è Dio che ha dato loro la nuova vita.” (Gv 1, 11-13)

    E sua Madre, mentre era in casa, una casa “aperta” all’invisibile, ha aperto al Misericordioso che chiedeva ospitalità nel suo utero. “Vergine madre, figlia del tuo Figlio…”(Dante), “Et Verbum caro factum est”. 

    Ha ragione il servita Ermes Ronchi quando dice che noi tutti viviamo di ospitalità. Nel pane che spezziamo e che ci nutre c’è la storia di infinite mani… Un tessuto di debiti è la nostra vita. Esistere non è un diritto, prima ancora è un debito. Siamo in debito verso Dio, verso la storia e il lavoro di tanti, e dal momento che iniziamo ad esistere, esistiamo in alleanza. Viviamo dentro l’avere e il dare di eterne alleanze, di eterne comunioni. Da altri a noi, da noi ad altri: tutto è circuito aperto. Il debito di esistere si paga solo restituendo alleanza.

    Allora, se in principio vi era una casa, se ci vuole una casa per l’alleanza, religiosi e laici non possono optare che per un condiviso ideale di costituire una casa comune, la Fraternità. 

    Quale Fraternità? 

    • La Fraternità (composta da religiosi e laici collaboratori del Vangelo) sarà edificata e vissuta come polifonia dell’esistenza, degli affetti, degl’interessi, nella misura in cui si fonda sul modello e si muove sulle orme di Maria.
    • La Fraternità (un sogno, per il momento, ma non utopia) avrà consistenza nella misura in cui si rivelerà un crescendo nella polifonia delle relazioni e degli affetti.
    • La Fraternità aperta, nella misura in cui avrà capacità di accogliere, si dilaterà fino agli estremi confini della terra, per via della promessa:

     ”1Dopo questi fatti il Signore parlò in visione ad Abramo: – Non temere, – gli disse, – io ti proteggo come uno scudo. La tua ricompensa sarà grandissima.
    2Ma Abram rispose: – Signore, mio Dio, cosa mai potrai darmi, dal momento che non ho figli? Ormai sto per andarmene e l’erede in casa mia sarà Eliezer di Damasco. 3Ecco, tu non mi hai dato nemmeno un figlio, – continuò a dire Abram, – e così un servo della mia famiglia sarà mio erede! 4Il Signore rispose: – No! Non il tuo servo, ma uno che nascerà da te sarà il tuo erede. 5Poi lo condusse all’aperto e gli disse: “Contempla il cielo e conta le stelle, se le puoi contare!”. E aggiunse: “I tuoi discendenti saranno altrettanto numerosi”. 6Abram ebbe fiducia nel Signore e per questo il Signore lo considerò giusto.” (Gen 15, 1-6)

    La crisi di vocazioni affligge un po’ tutti. Ma le parole sono consolanti: “No! Non il tuo servo, ma uno che nascerà da te sarà il tuo erede”. Mi vengono in mente i “laici collaboratori”. Saranno eredi nella misura in cui ri-nasceranno. Non ci sono fughe in avanti per nessuno. Dunque:

    La Fraternità, come eredi di Abramo, secondo le promesse del Misericordioso: “27Con il battesimo infatti siete stati uniti a Cristo, e siete stati rivestiti di lui come di un abito nuovo. 28Non ha più alcuna importanza l’essere Ebreo o pagano, schiavo o libero, uomo o donna, perché uniti a Gesù Cristo tutti voi siete diventati una cosa sola. 29E se appartenete a Cristo, siete discendenti di Abramo: ricevete l’eredità che Dio ha promesso.” (Gal 3,29)

    Fraternità di donne e uomini per essere, come il suo capostipite, costruttori di futuro: “nascerà…avrai…sarà…farò…”.

    Quella di Maria è un’esistenza fatta di quotidiano. I suoi gesti, le sue parole, i suoi sentimenti, sono quelli ordinari  di ogni famiglia: convive con il mistero di un discorso di salvezza che sente fare in Sinagoga, si misura con le situazioni di ogni giorno, dilata le relazioni, ama un uomo di nome Giuseppe, lo sposa, vive di stupore… 

    Nulla di straordinario mai, tutto si appoggia sul feriale e sul carnale:  

    • attingere acqua,lavare, pulire, accendere il fuoco, cucinare, rammendare…
    • un figlio da crescere e che uscirà di casa sui trent’anni,
    • accudire un marito artigiano che pialla, prega, pensa…,che accetta di essere “solo” per Dio. 

    Papa Ratzingher è venuto a dirci che “in quella casa e in quell’ atmosfera sono le radici nascoste della Chiesa”. 

    • Allora la casa come luogo primario della vita. Se non ho casa, sono uno “sbandato”.
    • Anche la Chiesa è casa. Ora e per sempre, casa del Misericordioso per gli uomini.
    • La mia casa, la tua casa, la Chiesa, la Fraternità…Che, se ogni realtà conosce i giorni della festa, fa l’esperienza anche delle lacrime e delle notti insonni: ha figli prodighi che sbattono la porta, conosce le trepidazioni dell’attesa di chi tarda a tornare, supplica il Misericordioso per quelli che non hanno nessuna intenzione di rincasare, conosce il patire di separazioni, la perdita di salute e di senno di qualche componente…
    • Ma, se la casa è costruita sulla roccia della PAROLA DI DIO, regge agli scossoni, resiste ai terremoti. 

    Maria riceve nel salotto di casa  

    L’abbiamo detto altre volte: l’hospitalitas è termine astratto: se non è casa, non è nulla.

    La Fraternità è chiamata a un progetto edilizio: dare casa a chi non ha casa, costruire case accoglienti dove si può fare l’esperienza dello Spiritum Hospitalitatis, di Colui che introduce nella Trinità. Perché è lo Spirito che trasforma un’abitazione, una stanza, un luogo, una dimora, un ospedale, una Chiesa… in momento di condivisione e sala di rianimazione, facendo respirare il Signore della vita.

    Perché non ha senso una casa in astratto se non nei libri di architettura. E le case “sfitte”, sono strutture inanimate, natura morta.

    La casa edificata sul modello di Nazareth deve avere l’inquilino: uno che apre le finestre, arieggia, guarda fuori, accende il fuoco, mette sù la pentola, prepara la tavola, avvia la lavatrice… Il suo orecchio è sempre attento al campanello, al telefono…e, se bussano, apre, non riceve fuori dall’uscio, sul pianerottolo, ma fa accomodare, offre un bicchiere, ascolta, invita a condividere il “boccone”, si fa in quattro per esaudire un favore, una richiesta,  ha un letto per l’ospite… 

    La Fraternità  inizia così: da un progetto edilizio  di ri-strutturazione. Il Battista direbbe: di ri-conversione. Lascio alla fantasia di ognuno le applicazioni e le implicazioni.  

    E’ un punto di vista. Ma, proprio perché discutibile, non andrebbe scartato a priori. A chi trova pretesti “spirituali” per non sporcarsi le mani, il mistico solitario dell’Hoggar dichiara: “C’è un caso in cui bisogna resistere al male con la forza… è quando si tratta non più di difendere se stessi ma di proteggere gli altri… Occorre forza per difendere i deboli, gli innocenti oppressi contro i loro oppressori… Lo spirito di pace non è uno spirito di debolezza ma uno spirito di forza”.  

    Di quale forza sta parlando fratel Carlo di Gesù? Della violenza militare? Della guerra giusta? No, parla di quella descritta da Geremia:” Ed ecco io oggi faccio di te come una fortezza, come un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i sacerdoti e i possidenti: ti combatteranno ma non prevarranno” (Ger 1,18-19). 

    La vista dei nostri limiti, l’indifferenza generale in cui viviamo, spaventano. Ma non bisogna temere: possediamo l’arma vincente che è lo Spirito Santo, la potenza che viene dall’Alto. Guai a fidarci di un dio prodotto della nostra fantasia. Non si può vivere a lungo di maschere e di idoli. Fatebenefratelli vuol dire “misurarsi con l’Oltre, su quel Mistero assoluto che intimorisce ed attrae, di cui dolore e morte sono come sentinelle” (Carlo Maria Martini). Hospitalitas: fraternizzare per trasfigurare. Cosa? La medicina, la sofferenza. Le cose penultime e quotidiane con lo sguardo sull’ultimo orizzonte e sull’ultima Patria ci permettono di realizzare la promessa. “ In verità vi dico: anche chi crede in me , compirà le opere (tà érga) che io compio e ne farà di più grandi (meízona), poiché io vado al Padre” Gv 14, 12). 

    Annota Enrico Ghezzi che “Gesù non è per i discepoli soltanto un modello delle opere da lui compiute e che anche loro faranno: “ma egli stesso sarà l’autore delle opere che essi compiranno” (Leon Dufour). Se infatti si legge con attenzione il testo ci si accorge che il credente farà non le opere che ha fatto Gesù, ma quelle che Gesù sta per fare (tà érga egð poið, al presente) e che farà (poiēsei, al futuro): il Glorificato continua ad agire presso il Padre (cfr.v.12 d) a favore del mondo; la missione di Gesù, nel tempo e nello spazio, continuerà attraverso i credenti. Esiste una sinergia: come l’agire del Padre passava in quella di Gesù, così l’agire del Figlio passa nel “fare” dei discepoli” (in “Come abbiamo ascoltato Giovanni”, pag. 904).  

    Aggiungo io: religiosi e laici, “collaboratori della Vertità”  

    Mentre sto per inoltrare l’elaborato alla Redazione, ho appena terminato di leggere con appassionato interesse l’ultima fatica di Don Luigi Verzé, il fondatore del S. Raffele, Ospedale di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico e dell’Università Vita-Salute. “Io e Cristo”, Ed. Bompiani è il libro che mancava per cogliere le motivazioni fondazionali dell’Opera Monte Taborm, sfatare l’idea abusata del prete-manager, sostituita da una più forte: “Qui sta il fondamento che mi fa dire e sentire socio di Gesù Cristo. Io socio di minoranza perché sono rerale e vivo il Lui come Lui in me”. Una voce profetica destinata a risvegliare religiosi e laici, credenti e non, per ritrovare il senso di un cammino indicato da Gesù, sperimentato nella Chiesa Apostolica, ripetutamente attualizzato dai Santi della Carità, tutte donne e uomini innamorati di Cristo che si sono fidati della menzionata promessa. La tesi di fondo del Verzé, da mezzo secolo sulla breccia, è che l’amore fa miracoli. Sentitelo: “Fatevi conquistare da Dio e sarete perennemente creativi, come Lui”. “Guarite i malati” e “Se avete fede, spostate le montagne”. (cfv Mt 21,21) “Noi siamo Gesù il Cristo di questo millennio: questa è la vocazione alla santità, questa è la impostazione, o tesi, che nasce dall’ andate, insegnate e guarite (cnf.Mt 10, 5-8), e prima ancora dall’evento dell’Incarnazione” (p.628). 

    Come non essere d’accordo con questa voce profetica? La sua è una provocazione culturale destinata ad oltrepassare i confini del mondo sanitario. “Andate, insegnate e guarite” (cfr. Mt 10, 5-8) è il mandato per la Chiesa intera: “Voi siete il sale della terra…Voi siete la luce del mondo” (Mt 5, 13-14). I Fatebenefratelli, religiosi e laici, hanno una sola risposta condivisa: eccoci! 

    Da “FATEBENEFRATELLI”  Ago/Sett n.  3- Ott/dic – 4 –  anno 2007

    VOCI LAICHE ALLA RIBALTA (1) – A. Nocent

      

     

    VOCI LAICHE  ALLA RIBALTA  

    Con  i FATEBENEFRATELLI

    in sanità

    cercatori d’infinito

    costruttori di storia

     

     

    Di Angelo Nocent 

      

    A CHE PUNTO SIAMO? 

     

     A forza di temporeggiare, si corre un rischio: di far pervenire la risposta,  quando nel frattempo     è cambiata la domanda.

      “Signore,

    • concedimi la serenità
    • di accettare le cose che non posso cambiare,
    • il coraggio di cambiare quelle che posso,
    • e la saggezza necessaria per capire la differenza” (R.Niebuhr)

      

    PREMESSA 

    La riflessione sul processo di collaborazione e di integrazione istituzionale fra laici e Ordini o Congregazioni religiose operanti in sanità, negli ultimi anni di fine millennio è andata accentuandosi.

    Ciò è accaduto soprattutto grazie al contributo sul laicato proveniente dal Sinodo dei Vescovi, all’ Esortazione Apostolica Christifideles laici di Giovanni Paolo II, nonché alle Linee di Pastorale Sanitaria erogate dalla Consulta Nazionale della CEI, che hanno stimolato nuovi interrogativi e fermenti su entrambi i fronti.

     

    Non mancano coloro che hanno già saputo trarre conclusioni operative, messe in cantiere per la sperimentazione. Ma esistono anche quelli che, fiutando la complessità del problema, hanno ritenuto prudente starsene in disparte ad osservare, in attesa che maturi l’uva del vicino.  Una simile calcolata prudenza può ingenerare solo pie illusioni proprio perché ogni Istituto non solo è parte in causa, ma ha una sua storia, una  fisionomia specifica con le quali deve fare i conti. Temporeggiare non conviene a nessuno. Anzi, più il tempo passa, peggio sarà per gli eredi di tale immobilismo. E’ sempre vero l’antico adagio:  “non progredi, regredi”.

     

    La mia ricerca è approdata casualmente a questi lidi solo perché stavo tentando una rilettura della spiritualità di San Riccardo Pampuri che, nelle biografie moltiplicatesi per la sua canonizzazione, trovo insoddisfacente e riduttiva. Mentre andavo osservando la sua vita di cristiano nella comunità ecclesiale del suo tempo, ricostruivo i suoi rapporti con l’Azione Cattolica, il Terz’ordine di S. Francesco, il Circolo Universitario “Severino Boezio” che indubbiamente hanno lasciato tracce indelebili nella sua anima, mi son trovato a dover fare i conti con la Christifideles laici di Giovanni Paolo II. Cosi l’indagine su Riccardo, pur a buon punto, si è temporaneamente arenata, anche per la difficoltà di accesso agli archivi storici. In compenso ha preso corpo questa riflessione di urgente attualità, modesto ma sincero contributo al dibattito in corso.

     

    Per quanto umile, l’apporto che vorrei dare è motivato da un timore che mi auguro infondato ma che avverto con un sesto senso e che, forse,  non andrebbe sottovalutato: il rischio che i Fatebenefratelli di alcune Provincie imbocchino lentamente, senza accorgersene, il tunnel dell’estinzione.

     

    E’ lo Spirito chechiede questo sacrificio? Fiat! A condizione che non si tratti di miopia. In tal caso, sarebbe meglio un intervento correttivo. E’ sotto gl’occhi di tutti: il treno della storia marcia a velocità sostenuta e non fa sconti ai ritardatari che non rispettano gli orari per difetto di antenne. I cinque secoli di storia che i Fatebenefratelli hanno sulle spalle non li esonera dai rischi né li esenta dal tributo che sono chiamati a corrispondere oggi.

     

    Al momento, “VOCI LAICHE ALLA RIBALTA“ si presenta come un sondaggio d’opinioni, una raccolta di spunti e riflessioni, d’ intuizioni e proposte. Tutto è da soppesare, discernere, mettere a severo confronto, ponderare,  per non correre il rischio di giungere a precipitose conclusioni,  più emotive che argomentate.

     

    In un primo momento il testo doveva ridursi a poche pagine. In seguito, è prevalsa l’esigenza di documentare il più possibile per avvalorare, accreditare ogni ipotesi, ed il discorso è stato allargato anche alle esperienze altrui.

     

    Sia per mancanza di tempo, sia per il dubbio costante  che una simile fatica possa davvero interessare a qualcuno, il materiale raccolto fin’ora non è ancora stato riordinato sistematicamente ma può benissimo essere utilizzato anche come si presenta. Infatti, una volta centrato il primo obiettivo che sarebbe quello di stimolare la curiosità di coloro che ne sono interessati, di provocare un’acuta riflessione, di promuovere un sereno e vivace dibattito, il successivo dovrebbe tradursi in una realistica sintesi operativa. Un nuovo testo, quindi, tutto da perfezionare.

     

    Dall’inizio, la preoccupazione costante è stata quella di non rimettere in circolazione minestra riscaldata. Perciò ho provato a spingermi oltre il già detto nella letteratura prodotta all’interno dell’Ordine Ospedaliero negli ultimi anni. Non sono del tutto sicuro di esservi riuscito.

     

    Solo recentemente ho avuto in mano il Documento del XVII Capitolo Generale -  Roma 1994 – delle Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù, fondate da San Benedetto Menni, titolato “LAICI OSPEDALIERI”. E’ indubbiamente una lodevole fatica, scritta a più mani,  che si presenta ricca di spunti  e che non andrebbe letta tutta d’un fiato per non perdere di vista i suoi capisaldi. Le conclusioni cui sono giunte le Sorelle possono essere più o meno condivise. Ma, vista la consanguineità dei due rami religiosi, le proposte meritano degna attenzione.

     

    Della preziosa speculazione delle Sorelle che ho disseminato qua e là, mi sono maggiormente interessate le conclusioni cui era arrivato il Capitolo. Ho tralasciato di riportare i fondamenti teologici che sottendono il loro documento in quanto erano già presenti anche nel mio lavoro. Inoltre, i passi citati, a differenza del testo originale, talvolta sono stati volutamente schematizzati, allo scopo di favorire una maggior concentrazione del lettore su ogni concetto. Quando poi è stato possibie, ogni proposizione risulta anche numerata per facilitare i riferimenti in fase di dibattito.

     

    La speranza è una sola: che, fuori da ogni integralismo religioso e assolutizzazione dei valori, nel rispetto delle reciproche autonomie, in mezzo ai rumori e ai fumi, ai pro e ai contro, si riesca a recepire ciò che lo Spirito dice alle Chiese.

     

    Indicazioni propositive non mancano  ma non andrebbero poste subito all’ordine del giorno. Bisognerebbe guardarsi dall’abboccare alle prime suggestioni. Varrebbe  invece la pena di sottoporre a macerazione il proprio spirito nei fondamenti  teologici che sono di rilevante spessore. Bisogna che da entrambe le sponde si senta il bisogno di passare attraverso il travaglio mentale del mettersi in discussione. A tutti è richiesta la fatica di ascoltare, verificare, studiare, approfondire. Non si possono recepire richiami essenziali, promuovere scelte conclusive che non siano motivati, sostenuti da un’intelaiatura di fede teologica, perché fragilità e inconsistenza non tarderebbero a manifestarsi.

     

    “VOCI LAICHE ALLA RIBALTA” non dev’essere inteso come un risultato conclusivo preconfezionato.  Va preso invece per quello che è: un sussidio, uno strumento di lavoro da utilizzare come guida al dibattito. D’altra parte, senza avere a disposizione una traccia, una bozza, uno schema, risulterebbe difficile avviare un confronto che dovrà essere il più possibile aperto, coinvolgente, franco e leale.

     

    Quelli della mia età ed oltre, appartengono al cosiddetto “secolo breve”, caratterizzato dalla rapidità e radicalità dei mutamenti intervenuti tra la prima guerra mondiale (1914) ed il crollo del muro di Berlino (1989).  Essi non possono non ricordare un piccolo gesto significativo di Papa Giovanni, rivelatore del suo pontificato: egli ha stabilito che nel “Dio sia benedetto!”, recitato dalla Chiesa universale, venisse inserita l’invocazione “Benedetto lo Spirito Santo Paraclito”. Il frutto di tale intuizione di fede s’è visto in breve tempo.

     

    I ragionamenti umani, per quanto di buon senso, sono sempre sabbia sulla quale è pericoloso edificare. Per evitare che la nuova costruzione cui si dovrà porre mano venga scoperchiata dalle prime raffiche di vento, è consigliabile affidarsi allo Spirito Santo e credere che Egli si farà profezia, cammin facendo.

    Penso che a tale proposito ormai tutti noi abbiamo maturato la stessa convinzione efficacemente espressa dal Card. Carlo Maria Martini nella sua Lettera Pastorale 1997-1998:

    • “Che lo SPIRITO c’è, anche oggi, come al tempo di Gesù e degli Apostoli, 
    • C’è e sta operando,
    • Arriva prima di noi,
    • Lavora più di noi e meglio di noi,
    • A noi non tocca né seminarlo né svegliarlo,

     

    Ma anzitutto

     

    • Riconoscerlo
    • Accoglierlo
    • Assecondarlo
    • Fargli strada
    • Andargli dietro
    • C’è e non si è mai perso d’animo rispetto al nostro tempo;
    •  

     Al contrario,

     

    • Sorride
    • Danza
    • Penetra
    • Investe
    • Avvolge
    • Arriva anche là dove mai avremmo immaginato.

     

    Lo Spirito sta giocando la sua partita vittoriosa nell’invisibile e nella piccolezza “.

     

    Anche in questa fase di ricerca conviene muoversi, laici e consacrati, con una certezza: Lui “che è il Signore e dà la vita, può suscitare il nuovo di Dio anche nel cuore o nell’ambiente più chiuso, appesantito, o sclerotizzato”.

     

    Milano, 1 Maggio 2004 – Memoria di San Riccardo Pampuri

    Angelo Nocent 

     bibbia-foto-libro-studio

     

    IO HO DATO LORO LA TUA PAROLA”

     

    Il brano del Vangelo di Giovanni, che non viene mai letto nella liturgia per via della sua lunghezza, merita la massima attenzione, perché è solo da qui che tutto prende senso o si snatura,  guarisce l’Istituzione  o degenera  e si dissolve.

     

    La preghiera di Gesù   

     

    Giovanni – Capitolo 16,32 -17,26

     

    “Viene il momento, anzi è già venuto, che sarete dispersi, ciascuno per conto suo, e mi lascerete solo. Ma io non sono solo, perché il Padre è con me.

    33 Vi ho detto tutto questo perché troviate in me la pace. Nel mondo avrete dolori; coraggio, però! Io ho vinto il mondo.

     

    Gesù e il Padre

     

    1 Dopo aver detto queste parole Gesù guardò in alto verso il cielo e disse: «Padre, l’ora è venuta. Manifesta la gloria del Figlio, perché il Figlio manifesti la tua gloria.

    2 Tu gli hai dato potere sopra tutti gli uomini, perché tutti quelli che gli hai affidato        ricevano vita eterna.

    3 La vita eterna è questo: conoscere te, l’unico vero Dio, e conoscere colui che tu hai mandato, Gesù Cristo.

    4 «Io ho manifestato la tua gloria sulla terra, portando a termine l’opera che mi avevi affidato.

    5 «Innalzami, ora, accanto a te, dammi la gloria che avevo accanto a te, prima che il mondo esistesse.

     

    Gesù e i discepoli

     

    6 «Tu mi hai affidato alcuni uomini scelti da questo mondo: erano tuoi, e tu li hai affidati a me. Io ho rivelato chi sei, ed essi hanno messo in pratica la tua parola.

    7 Ora sanno che tutto ciò che mi hai dato viene da te.

    8 Anche le parole che tu mi hai dato, io le ho date a loro. Essi le hanno accolte e hanno riconosciuto, senza esitare, che io provengo da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato.

    9 «Io prego per loro. Non prego per il mondo, ma per quelli che mi hai affidato, perché ti appartengono.

    10 Tutto ciò che è mio appartiene a te, e ciò che è tuo appartiene a me, e la mia gloria si manifesta in loro.

    11 Io non sono più nel mondo, loro invece sì. Io ritorno a te. Padre santo, conserva uniti a te quelli che mi hai affidati, perché siano una cosa sola come noi.

    12 «Quando ero con loro, io li proteggevo. Per questo tu me li hai dati. Io li ho protetti, e nessuno di loro si è perduto, tranne quello che doveva perdersi, realizzando ciò che la Bibbia aveva predetto.

    13 Ma ora io ritorno verso di te, e dico queste cose mentre sono ancora sulla terra, perché essi abbiano tutta la mia gioia.

    14 «Io ho dato loro la tua parola. Perciò essi non appartengono più al mondo, come io non appartengo al mondo. E il mondo li odia.

    15 Io non ti prego di toglierli dal mondo, ma di proteggerli dal Maligno.

    16 Essi non appartengono al mondo, come io non appartengo al mondo.

    17 Fa’ che appartengano a te mediante la verità: la tua parola è verità.

    18 Tu mi hai mandato nel mondo: così anch’io li ho mandati nel mondo.

    19 E io offro me stesso in sacrificio per loro, perché anch’essi siano veramente consacrati a te.

    Gesù e i futuri credenti

    20 «Io non prego soltanto per questi miei discepoli, ma prego anche per altri, per quelli che crederanno in me dopo aver ascoltato la loro parola.

    21 Fa’ che siano tutti una cosa sola: come tu, Padre, sei in me e io sono in te, anch’essi siano in noi. Così il mondo crederà che tu mi hai mandato.

    22 «Io ho dato ad essi la stessa gloria che tu avevi dato a me, perché anch’essi siano una cosa sola come noi:

    23 io unito a loro e tu unito a me. Così potranno essere perfetti nell’unità, e il mondo potrà capire che tu mi hai mandato, e che li hai amati come hai amato me.

    24 Padre, voglio che dove sono io siano anche quelli che tu mi hai dato, perché vedano la gloria che tu mi hai dato: infatti tu mi hai amato ancora prima della creazione del mondo.

    25 «Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto ed essi sanno che tu mi hai mandato.

    26 Io ti ho fatto conoscere a loro e ti farò conoscere ancora; così l’amore che hai per me sarà in loro, e anch’io sarò in loro».

    Vorrei sottolineare che la preoccupazione di  Gesù  è per coloro che ha custodito, ma che da ora in poi non potrà più proteggere e che il mondo perseguiterà, perché non gli appartengono più: “Quando ero con loro, io li proteggevo. Per questo tu me li hai dati. Io li ho protetti, e nessuno di loro si è perduto…”.

    Gesù pensa a tutti, di tutti si preoccupa, persino di quelli che non sono ancora nati. Nel filmato che passa nella sua mente ci siamo anche noi: «Io non prego soltanto per questi miei discepoli, ma prego anche per altri, per quelli che crederanno in me dopo aver ascoltato la loro parola.

    21 Fa’ che siano tutti una cosa sola: come tu, Padre, sei in me e io sono in te, anch’essi siano in noi. Così il mondo crederà che tu mi hai mandato”.

     Qui è anticipato quello che sarà il destino dei Figli di Dio: una sola cosa nel Padre e nel Figlio. Per condividere la Divinità del Padre Creatore e del Figlio Redentore, ci viene chiesto di passare attraverso i tortuosi sentieri di un’umanità sofferente. Ed è proprio del “come condividere” che  siamo qui a parlare.

     

    Abbiamo lo Spirito Santo per guida.  Ma ci è stata designata a farci da Madre anche la nostra sorella Maria, sensibilissimo cuore di donna aperto alle confidenze, suggeritrice dei percorsi che conducono a quel Giorno Beato. E’ per questo che, solo al muovere i primi passi,  la nostra voce si fa già invocazione. 

     

    CONTRO OGNI EQUIVOCO

     

    Dalle origini i Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio sono “Chiesa sanante”, compagna di sofferenti e sventurati di ogni latitudine. Nell’ora del risveglio ecclesiale,  l’invito a porre l’attenzione ai dolori e alle sofferenze del pianeta, è rivolto a tutti i cristiani, senza distinzioni e classificazioni gerarchiche, semplicemente perché lo esige il Vangelo.

     

    La Conferenza Episcopale Italiana in “COMUNICARE IL VANGELO IN UN MONDO CHE CAMBIA”, Orientamenti pastorali per il primo decennio 2000, 29 giugno 2001, al n.45, cosi si rivolge all’intera Chiesa Italiana:

     

    “Negli ultimi decenni e anche recentemente non sono mancati , nella vita della Chiesa, cristiani – vorremmo di “profeti” – dallo sguardo penetrante, i quali hanno intuito e intravisto la necessità di esperienze di vita, personali e comunitarie, fortemente ancorate al vangelo per dare un avvenire alla trasmissione della fede in un mondo in forte cambiamento. Abbiamo bisogno di

     

    • cristiani con una fede adulta,
    • costantemente impegnati nella conversione,
    • infiammati dalla chiamata alla santità,
    • capaci di testimoniare con assoluta dedizione,
    • con piena adesione,
    • con grande umiltà e mitezza
    • il VANGELO “.

     

    Ma ciò è possibile soltanto se nella Chiesa rimarrà assolutamente centrale la docile accoglienza dello Spirito, da cui deriva la forza capace di plasmare i cuori e di far sì che le comunità divengano segni eloquenti a motivo della loro vita “diversa”. Ciò non significa credersi migliori, né comporta l’esigenza di separarsi dagli altri uomini, ma vuol dire prendere sul serio il Vangelo, lasciando che sia esso a portarci dove forse non sapremmo neppure immaginare e a costituirci testimoni.”

     

    Da questo “affresco” è immediata la percezione che si è convocati per un viaggio verso le terre sconosciute del nuovo millennio, in situazioni nuove, con mezzi e strumenti inediti, ma con la bussola di sempre: “Duc in altum” (Lc 5,4).

     

    Solo che oggi il campo della missione si è così dilatato che include perfino le terre da cui una volta i missionari partivano. Ed è principalmente di queste zone che qui ci si vuol occupare, giacché, la fede ha cessato di avvolgere la vita “dalla culla alla tomba” anche nelle nostre contrade.

     

    Nell’evoluto  mondo “post-cristiano” che  sociologi e filosofi chiamano”post-moderno”, termine che, di per sé, dice solo che qualcosa è finito, tutti ci troviamo a navigare “a vista”. E’ successo che, dopo circa quattro secoli di alterne vicende tra “Fides et Ratio”, l’orizzonte spirituale dell’uomo occidentale è entrato in una nuova stagione, quella del “pensiero debole”, “intendendo con esso una conoscenza che non pretende  più di risalire al fondamento ultimo delle cose, né di stabilire la verità assoluta, ma che si limita alla ricognizione del mondo dei fenomeni, accettandone la verosimiglianza come l’orizzonte più adeguato alle effettive possibilità conoscitive degli uomini”. (G. Savagnone).

     

     A chi è stato dato di vivere questa fine, è chiesto anche di profetizzare, nello Spirito, la nascita del “nuovo” che urge e dovrà emergere da quelle rovine.

     

    Sembra che i nemici da temere siano principalmente due o tre:

     

    • l’abitudine e la noia che ottundono le menti e chiudono i cuori;
    • la presunzione di conoscere già ciò che si vuole comunicare,
    • l’illusione che si possa vivere di rendita solo perché in passato sono state scritte pagine gloriose sulla carità e sull’ospitalità

     

    Essere “cercatori d’infinito” e “costruttori di storia” significa “fare cultura”. In “Evangelizzazione e ateismo” del 10. Ott.1980 il Papa dice: “…rendere di nuovo cultura la fede nei diversi spazi culturali del nostro tempo”.

     

    Ciò vuol dire che “la grazia non sostituisce la cultura, ma la purifica dalle scorie che le impediscono di rispecchiare adeguatamente l’identità dell’uomo, ne libera le più profonde risorse, valorizzando e potenziando tutto ciò che di vero, di bello e di bene essa contiene, la apre a prospettive illuminate, che non solo  non ne mortificano lo slancio, ma lo esaltano e lo intensificano” (G.Savagnone”)

     

    Giovanni Paolo II, timoniere della nave, e l’episcopato italiano con lui, dicono che

     

    • Occorre “prendere il largo”, verso il mare aperto della missione della Chiesa,
    • in termini religiosi e insieme culturali,
    • sempre di schietta umanità,
    • dentro le nostre comunità e paesi
    • e di fronte alle grandi questioni che interpellano la coscienza delle persone e travagliano le sorti dei popoli .

     

    Occorre “andare in profondità”, per un lavoro che scavi dentro e plasmi personalità cristiane

     

    • autentiche,
    • con una fede adulta,
    • con una fede “pensata“,
    • con una fede capace di tenere insieme i vari aspetti della vita facendo unità di tutto in Cristo” (CEI, ivi, n.5°)

     

    Da tali premesse, qui solo accennate e presupposte,  si arriva  alla

     

    SINTESI:

     

    “Siate soprattutto uomini.

     Fino in fondo.

     Anzi, fino in cima.

     Perché essere uomini fino in cima

     Significa essere santi.”

                                                   + Don Tonino, Vescovo

     

    Progetto Sentinelle del Mattino

     

     

     

    Progetto sentinelle

     

    pulsante-ledarancioIl nuovo progetto Sentinelle è frutto di 10 anni di sperimentazioni di evangelizzazione dei giovani. Non è un movimento. Non è una nuova comunità religiosa, ma un progetto per il primo annuncio ai giovani fatto dai giovani stessi.

     

    pulsante-ledarancioIl progetto mira a formare i giovani di una diocesi perché siano loro i primi evangelizzatori dei loro coetanei. Per questo, il progetto non assume alcun stile particolare (carismatico o altro), ma viene vissuto direttamente dai giovani che in una diocesi appartengono già a diverse realtà ecclesiali.

     

    pulsante-ledarancioIl progetto ha come scopo quello di risvegliare il Battesimo, come unica spiritualità che tutti accomuna. I giovani, rimanendo nelle rispettive appartenenze ecclesiali, sono invitati ad evangelizzare, formando nella diocesi due fronti: quello dell’OUT (evangelizzazione) e quello dell’IN (accoglienza di chi viene evangelizzato).

     

    pulsante-ledarancioÈ la diocesi che ha il compito di prendersi cura e di accogliere chi è nuovo alla fede. I neo-convertiti non sono invitati ad entrare in una comunità particolare, ma possono finalmente compiere un cammino che li inserisca pienamente nella famiglia ecclesiale, la diocesi.

     

    clicca >>>>>> Scarica qui le schede di tutto il progetto

     

    pulsante-ledarancioUna nuova visione di evangelizzazione di strada, per una Chiesa che vive simultaneamente l’OUT&IN.

     

    LA MISSIONE IN OGNI LUOGO

     

    Pastorale d’ambiente
    Le Sentinelle del mattino organizzano missioni di evangelizzazione in ogni ambiente informale. Il Vangelo è per tutti e non esistono ambienti impermeabili all’amore di Dio.

    Evangelizzare ovunque
    Dal 1998 le Sentinelle sono scese in strada, nei bar, davanti ai cinema, nelle carceri, sulle piazze, nelle scuole.

    Con il mandato della Chiesa

    Invitate dai Vescovi o dai parroci, vengono a formare innanzitutto i giovani del luogo: attraverso il Corso Base di evangelizzazione e le altre proposte del “Progetto Sentinelle”, la comunità cristiana ripensa alla propria pastorale e s’interroga su come far arrivare a tutti la proposta del Vangelo.

     

    “Una luce nella notte” nelle città

     

     

    I COLLABORATORI DI S. GIOVANNI DI DIO – Donatus Forkan o.h.

      

      

      

    I COLLABORATORI

     

    DI SAN GIOVANNI DI DIO

     

     

    Donatus Forkan

    Priore Generale o.h.

     donatus-forkan-oh-244x300

    Relazione presentata da fra Donatus Forkan al Capitolo Generale, quando era il Consigliere incaricato dei laici.

     

    Il titolo sottolinea il fatto che tutti noi, confratelli e collaboratori insieme, siamo dei collaboratori privilegiati di San Giovanni di Dio, e che cooperiamo reciprocamente tra di noi. In seguito esamineremo il modo in cui è andato sviluppandosi nel tempo il coinvolgimento dei collaboratori laici nella missione dell’Ordine per diventare ciò che è attualmente, oltre ad analizzare alcuni fattori che hanno portato a questa situazione, e i risultati positivi di questa evoluzione degli eventi per quanto riguarda la missione dell’Ordine.

     

    Le persone erano attratte da Juan Ciudad

     

    La gente di Granada era affascinata da quest’uomo, Juan Ciudad, che aveva conosciuto prima nella veste di libraio, poi nelle sue manifestazioni di pazzia, ma che in seguito avevano identificato con la figura del Buon Samaritano. La forza della personalità di Giovanni, più di quanto egli dicesse o facesse, toccava le persone nel profondo e le spronava non soltanto ad osservare, ma ad ascoltare quanto egli diceva e riflettendo su ciò che faceva, ponendosi questa domanda: chi è quest’uomo?

     

    Nella ricerca della risposta, scoprirono un uomo che aveva raggiunto la libertà interiore; un uomo in pace

    con se stesso e con Dio; un uomo che aveva capito quale fosse la propria missione nella vita. Non lo vedevano più come il libraio, il portoghese, il ‘pazzo’, ma come il ‘nuovo Giovanni’ che si prendeva cura dei poveri, dei malati, dei moribondi e degli emarginati di Granada, come mai nessuno aveva fatto prima. Pur desiderando prendere parte a ciò che egli stava facendo, all’inizio i cittadini di Granada erano confusi e turbati. Man mano che il tempo passava, però, si sentivano fortemente chiamati in causa da Giovanni; qualcuno forse era arrivato perfino a desiderare che questa ‘pazzia’ finisse e che le cose tornassero com’erano prima. Poco a poco, la ‘testimonianza silenziosa’ di Giovanni conquistò la loro fiducia, ed

    alcuni decisero di impegnarsi attivamente ed aiutarlo in questo lavoro. A seconda delle loro possibilità, scelsero di aiutarlo da un punto di vista economico e materiale, di lavorare con lui ricevendo in cambio un salario, o di condividere la sua stessa vita ad un livello spirituale più profondo, come fratelli. Nessuno però rimase indifferente di fronte alla straordinaria influenza che egli stava esercitando sulla loro vita e su quella della loro città. In seguito i Granadini vollero ‘canonizzare’ Giovanni conferendogli l’appellativo di ‘Giovanni di Dio’.

     

    Giovanni di Dio e Angulo.

     

    Il Concilio Vaticano II ci ricorda che i mezzi per rinnovare la vita religiosa sono il ritorno alle Sacre Scritture e all’ispirazione originale del Fondatore. È interessante notare che quando il nostro Ordine ha iniziato a riflettere su Giovanni di Dio, la sua vita, la sua missione e la sua spiritualità, ci è diventata familiare un’altra figura: quella di Giovanni d’Avila [non il santo ndr], che Giovanni di Dio chiamava Angulo, una persona che vediamo spesso al fianco del Santo. Sembrerebbe che Giovanni di Dio sentisse il bisogno di avere qualcuno “relativamente libero dalla routine quotidiana dell’ospedale da poterlo accompagnare quando si recava fuori città e fuori dai confini della regione, ed altre volte farne le veci quando rimaneva solo in ospedale, quasi una sorta di maggiordomo; per questo Giovanni di Dio volle un uomo che conosceva per la sua predisposizione pratica e per la santa vita che conduceva” (cfr. fra Brian O’Donnell, John of God Father of the Poor). Il suo

    primo biografo, Francisco de Castro, ci parla di Angulo definendolo “uomo prudente e di buona vita”  Castro, cap. XIII), un uomo che accompagnava Giovanni di Dio in tutti i suoi viaggi, e che era molto

    simile a lui nello spirito. Se dev’essere difficile vivere con un santo, lo è ancora di più lavorare per un santo, specialmente quando si cerca di gestire quanto si ha a disposizione! (ciò potrebbe suonare familiare a coloro che lavorano in campo amministrativo).

     

    Da un punto di vista umano, anche tra grandi amici possono esserci diversità di opinioni, e vediamo che la

    stessa cosa accadde a Giovanni e ad Angulo per la strada che li conduceva a Toledo, mentre cercavano di far cambiare vita a quattro prostitute. La stessa cosa accade ancora oggi: i confratelli e i collaboratori lavorano insieme, cercando di rispondere ai bisogni di tante persone sofferenti o emarginate, e talvolta con mezzi

    piuttosto limitati. Le differenze si superano attraverso il dialogo aperto e sincero con un ‘cuore che ascolta’, e ciò può portare a una maggiore comprensione e può unire ancora di più le persone, così come era accaduto a Giovanni e Angulo.

     

    Quella che ad Angulo sembrava una ‘follia’, per Giovanni era una missione di misericordia, motivata solo dal fatto che queste donne (le prostitute) potessero avere una possibilità nella vita. Giovanni era fermamente convinto che chiunque avesse la possibilità di cambiare la propria vita grazie al potere di Dio che abita in

    ogni persona: nessuno è così legato al male da non poter cambiare. La missione di Giovanni nella vita, così come la intendeva lui, era quella di liberare e sciogliere le persone dai legami della povertà, della malattia, dell’emarginazione, ma anche dalla bramosia di benessere e di potere, per fare in modo che queste stesse

    persone potessero diventare ciò cui erano destinate veramente: sentirsi figli di Dio per poter vivere secondo questa nobile vocazione. Essere amico di un uomo come Giovanni di Dio era di certo un rapporto molto speciale. Angulo apprezzava questa amicizia perché amava e rispettava Giovanni. Un’indicazione di quanto i due fossero amici ci viene dal fatto che Angulo si era sposato, con un permesso speciale del Vicario  dell’Arcidiocesi, nella cappella dell’ospedale di Giovanni di Dio, con Beatriz de Ayvar. Poco tempo

    dopo la morte di Giovanni di Dio, Angulo e Beatriz ebbero un figlio, cui ovviamente diedero il nome di Giovanni.

     

    In che modo l’Ordine e la sua missione si sono evoluti

     

    Se prendiamo in esame le più importanti ragioni storiche, per vedere in che modo l’Ordine e la sua missione sono andati evolvendo lungo i secoli, dopo la morte di Giovanni di Dio avvenuta l’8 marzo del 1550, vediamo che la prima è stata la costituzione delle opere allora presenti in Spagna in istituto religioso (Bolla di San Pio V del 1572). Ciò ha avuto un forte impatto sulla missione, in quanto la struttura canonica ha determinato il modo in cui i confratelli dovevano vivere e dove operare. In questo tipo di vita ‘monastico’,

    ogni laico che veniva a lavorare ‘per’ i confratelli era considerato parte del ‘personale’. Gli veniva assegnato un lavoro specifico e ci aspettava che facesse del suo meglio, ovviamente secondo le proprie possibilità. Il personale doveva aiutare i confratelli a portare avanti la missione, in alcune strutture, dove di solito l’ambiente era di tipo istituzionale.

     

    C’erano molti confratelli e pochi collaboratori laici, e i rapporti tra di loro riflettevano questa situazione. Anche se venivano trattati con grande rispetto e il loro contributo era apprezzato, i lavoratori laici non venivano considerati sotto la veste di collaboratori, o addirittura di seguaci di San Giovanni di Dio allo stesso modo dei confratelli. La nuova visione iniziò a venir fuori con il processo di rinnovamento iniziato

    dal Concilio Vaticano II. Per alcuni potrebbero essere soltanto parole, ma termini come ‘collaborazione’, ‘lavoro in équipe’, ‘famiglia ospedaliera’, ‘missione condivisa’, ‘condivisione del futuro della missione’ o ‘spiritualità condivisa’, sono importantissimi per considerare il rapporto tra confratelli e collaboratori come

    un unico insieme, quello dei collaboratori di Giovanni di Dio, ciascuno con le proprie responsabilità, con la propria vocazione nella vita, eccetera, ma tutti uniti nella stessa missione, che è poi quella di Giovanni di Dio. “confratelli e collaboratori insieme per promuovere e servire la missione”: questa affermazione può

    avere un senso se tutti ci dedichiamo con impegno a portare avanti l’operato di Giovanni di Dio.

     

    La creatività dell’Ospitalità

     

    Un’altra intuizione che abbiamo avuto è che noi confratelli, e il nostro Ordine, non abbiamo l’esclusività, il possesso o il controllo su Giovanni di Dio. Egli appartiene alla società e alla chiesa (cfr. fra Pascual Piles, Lasciatevi guidare dallo Spirito,24 ottobre 1996). La notevole creatività e la ‘ricchezza del carisma  dell’Ospitalità’ (cfr. Carta d’Identità dell’Ordine 3.2.3), hanno spinto tante persone ad unirsi a Giovanni

    di Dio nel suo operato, e lungo i secoli i suoi seguaci hanno portato avanti la sua missione in vari modi, ispirati dal suo esempio, in diversi istituti religiosi, associazioni laicali, ecc., per il bene di tanti malati, bisognosi ed emarginati. Nell’ambito dell’Ordine, inoltre, tanti operatori professionali hanno lavorato per molti anni a fianco dei confratelli nei nostri ospedali e centri, mentre tante altre persone hanno offerto il proprio contributo in termini di lavoro volontario o di sostegno finanziario. Tutto ciò dimostra che

    né Giovanni, né l’ospitalità da lui vissuta appartengono in modo esclusivo ai confratelli.

     

    Entrambi (Giovanni e la sua ospitalità) vanno oltre il possesso o la responsabilità dei confratelli, mentre rivolgono a questi ultimi la sfida di abbracciare il mondo della sofferenza e di lavorare insieme a coloro che si impegnano per eliminare le cause che portano a questa sofferenza: povertà, condizioni di vita disumane,

    sottosviluppo, eccetera.

     

    La storia ci mostra come, oltre ai ‘Fratelli d’abito’, ci fossero molte altre persone che “si univano a Giovanni nel servizio, benefattori anonimi e personaggi appartenenti alla nobiltà che lo sostenevano con i loro beni, presbiteri che collaboravano con lui nell’assistenza spirituale di coloro che vivevano nell’ospedale e molti

    altri: volontari, medici e gente di servizio che assieme a lui e ai confratelli si occupavano dei malati” (Il cammino di ospitalità secondo lo stile di San Giovanni di Dio, 32).

     

    Angulo, modello di collaboratore

     

    Il numero dei confratelli attualmente è di poco superiore alle 1300 unità, mentre ci sono circa 45.000 collaboratori (tra impiegati e volontari che lavorano in 300 servizi) ed oltre 350.000 benefattori-sostenitori.

    Dal Vaticano II, il ruolo dei collaboratori è andato acquisendo sempre maggiore enfasi, ed è stato  riconosciuto il loro insostituibile contributo alla missione dai Capitoli Generali dell’Ordine, attraverso

    le lettere circolari dei Priori Generali, e con altri documenti emessi dalla Curia Generalizia (cfr. Il cammino di ospitalità secondo lo stile di San Giovanni di Dio, 5, nota n. 4). La partecipazione alla missione, l’assunzione di responsabilità in vari aspetti della missione dell’Ordine da parte dei collaboratori, in campo amministrativo, dirigenziale, della programmazione, della ricerca, eccetera sono aumentate drasticamente da quando è iniziato, oltre 40 anni fa, il processo di rinnovamento post-Vaticano II.

     

    Per quanto riguarda i rapporti tra confratello e collaboratore, Angulo è diventato il modello del  collaboratore laico. Lo spirito ospedaliero è stato affidato ai collaboratori che hanno preso parte alla missione condividendone lo spirito carismatico, e non soltanto ai confratelli (cfr. Il cammino di ospitalità secondo lo stile di San Giovanni di Dio). L’Ordine ritiene che i confratelli e i collaboratori costituiscano

    il ‘capitale’ più importante per la realizzazione della missione (Carta d’Identità dell’Ordine, 1.1).

     

    Confratelli e collaboratori uniti nella missione

     

    Questo nuovo modo in intendere il ruolo insostituibile dei collaboratori laici nella realizzazione della missione ha portato all’elaborazione di nuove strutture, politiche e procedure, ad affrontare il futuro in modo nuovo, con la condivisione della missione tra confratelli e collaboratori. Questo movimento ha portato nuove

    energie all’ospitalità di Giovanni di Dio. Il grande protagonista di questo nuovo modo di vedere le cose è stato il compianto fra Pierluigi Marchesi che ha ispirato, guidato e dato grande slancio al processo di rinnovamento che è stato avviato nell’Ordine. Il documento storico di P. Marchesi, Umanizzazione, costituisce un’autentica svolta rispetto al passato.

     

    Non possiamo tralasciare altri fattori che hanno fatto la loro comparsa nell’Ordine, riflettendo ciò che stava accadendo nella Chiesa: la diminuzione radicale delle vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa e l’aumento dell’età media dei religiosi; tutto ciò richiedeva un cambiamento. Il numero dei confratelli  disponibili per il servizio attivo ha obbligato i responsabili dell’Ordine a pensare a nuovi modi per portare avanti la missione, o a ritirarsi da centri e servizi. Grazie al processo di rinnovamento, i confratelli hanno scoperto di possedere un tesoro nascosto: i collaboratori. Questa scoperta ha portato a un nuovo modo di vedere e apprezzare il contributo dei collaboratori alla missione, e pertanto invece di ritirarsi e limitarsi

    a fare ciò che potevano contando soltanto sulle proprie forze, i confratelli si sono rivolti ai collaboratori che erano pronti e desiderosi di lavorare con loro per portare avanti la missione di Giovanni di Dio.

     

    L’attrattiva che Giovanni di Dio esercita ancora oggi

     

    Nel mondo moderno i giovani, in particolare, sono costantemente influenzati e ‘bombardati’ dagli imperativi imposti dal consumismo, dal materialismo, dal raggiungimento immediato della soddisfazione e del piacere personali, attraverso droga, sesso, ecc., il che ha come risultato uno stile di vita molto egoista e chiuso

    al mondo esterno, come se la vita terrena fosse l’unica e definitiva esistenza. Il messaggio che viene rivolto costantemente ai giovani è: “divertiti fintanto che puoi”. Ovviamente non tutti i giovani si lasciano sedurre da questi condizionamenti ideologici, anche se la pressione esercitata su di loro è enorme, e lancia delle sfide non soltanto a loro stessi ma anche ai loro genitori e al mondo degli adulti che li circonda, come ad esempio gli insegnanti, i sacerdoti, eccetera. La Chiesa, persino in alcuni paesi ‘tradizionalmente cattolici’, sta assumendo un ruolo sempre più emarginato, e in molti altri si trova addirittura in una posizione di minoranza.

     

    In questo ‘clima’ non ci si aspetterebbe che un uomo vissuto 500 anni fa eserciti ancora un’attrattiva sulle persone, ma quando esse conoscono Giovanni di Dio, la sua vita e la sua missione, rimangono affascinate, impressionate e incoraggiate dal suo esempio, così come era accaduto alla popolazione di Granada. Lavorando con i collaboratori, si scopre il magnetismo che Giovanni di Dio esercita sulle persone, e la bontà innata di ogni essere umano che esige rispetto, fiducia e spirito di apertura. Ciò ha spinto diverse Province a investire molte energie e risorse materiali per la formazione dei collaboratori e dei confratelli, organizzando

    seminari e corsi di formazione permanente.

     

    L’Ordine ha realizzato un autentico ‘salto di qualità’, motivato dal desiderio di perpetuare la missione di San Giovanni di Dio, ed essendosi convinto, attraverso un esame dei segni dei tempi, che è proprio ciò che Dio si aspetta da noi in questo momento. In un’epoca in cui numerosi istituti religiosi si ritirano dall’apostolato o dai loro servizi, la strada intrapresa dal nostro Ordine ci ha permesso di fornire una grande varietà di servizi, e di prenderci cura di un numero notevole di persone che si trovano nel bisogno, come non era mai successo prima. I servizi che vengono prestati dal nostro Ordine in tutto il mondo hanno acquisito uno standard di eccellenza che è riconosciuto a livello generale, da parte della Chiesa e dei governi locali. In alcuni paesi il ‘marchio di Giovanni di Dio’ è sinonimo di qualità, il che significa che in tanti luoghi ‘Giovanni di Dio fa le cose per bene’. Ciò non può che renderci orgogliosi, ma la cosa più importante è riconoscere che questa situazione positiva è il frutto del lavoro congiunto di confratelli e collaboratori per portare avanti

    la stessa missione.

     

    L’influenza e l’impatto sulla società in cui l’Ordine realizza la sua missione di ospitalità, il modo in cui gestisce le proprie strutture, sempre focalizzato al raggiungimento della missione, è riconosciuto dallo

    Stato, dagli enti privati, dalle autorità della Chiesa, molti dei quali vogliono lavorare con noi. Questo tipo di rete operativa e di cooperazione negli ultimi anni è andato espandendosi, in quanto noi confratelli abbiamo acquisito maggiore fiducia, coscienti del potenziale di bontà che esiste nel mondo quando si esercita l’Ospitalità secondo lo stile di San Giovanni di Dio.

     

    Papa Paolo VI diceva: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni” (Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, n. 41). Dobbiamo renderci conto che, per evangelizzare dobbiamo essere dei testimoni, e che per essere al passo coi tempi ed efficienti, in

    un mondo in continuo cambiamento e che è sempre più globalizzato, dobbiamo cooperare, non soltanto a livello interno (cioè confratelli e collaboratori insieme), ma anche esternamente, con altre organizzazioni che operano nel settore del volontariato e in quello pubblico, in modo particolare nei settori in cui sono carenti,

    fermo restando il fatto che devono rispettare i nostri principi (cfr. Il cammino di ospitalità secondo lo stile di San Giovanni di Dio).

     

    L’esperienza degli ultimi sei anni

     

    Durante lo scorso sessennio i membri del Governo Generale, durante le loro visite alle Province dell’Ordine per partecipare a vari eventi di tipo religioso, sociale o istituzionale, hanno osservato come il rapporto

    tra confratelli e collaboratori fosse in continua crescita. Molti confratelli ora vedono i collaboratori come compagni del ‘viaggio ospedaliero’ che affrontano insieme ogni giorno, come veri amici, ciascuno con la propria vocazione e il proprio stile di vita, ma uniti nel continuare la missione di Giovanni di Dio.

     

    Dall’altra parte, molti nostri collaboratori sono sempre più interessati alla vita dell’Ordine, alla sua missione, al suo futuro, facendo proprie le preoccupazioni dei confratelli, così come è stato affermato durante il Capitolo Generale del 1994 nel messaggio dei collaboratori al Capitolo: “molti dei problemi dei confratelli sono anche i nostri problemi… il vostro desiderio per il futuro della missione dell’Ordine è anche il nostro… ribadiamo la nostra disponibilità per trovare insieme delle soluzioni, nella convinzione che San

    Giovanni di Dio continua a vivere nel tempo” (cfr. Dichiarazioni dei collaboratori al Capitolo Generale del 1994). Molti nostri collaboratori sono strettamente identificati con ‘l’anima dell’Ordine’, e vogliono conoscere in modo più profondo perché l’Ordine esiste, la sua storia, la sua missione di ospitalità, Giovanni di Dio e la sua spiritualità, e l’impatto che l’Ordine continua ad avere nella società. Essi vogliono sentirsi parte di questa grande ‘Famiglia Ospedaliera’ e dare il proprio contributo affinché sia riconosciuta ed apprezzata da tutti.

     

    Come ho già detto, bisogna comprendere che diverse categorie di persone, tutte chiamate collaboratori, lavorano nell’Ordine (cfr. Fatebenefratelli e collaboratori insieme per servire e promuovere la vita, n. 6).

    Sebbene tutti siano invitati a condividere con i confratelli dei rapporti più profondi, non tutti desiderano né devono farlo per poter lavorare nell’ambito del nostro Ordine o in partnership con noi. Ciò che ci unisce è la missione, la figura del nostro fondatore e l’esempio che egli ci ha lasciato. Giovanni di Dio ha mostrato a

    chiunque voglia perpetuare il suo sogno, indipendentemente dalla propria storia personale, professione, religione o dal ruolo che ricopre nell’Ordine, come deve comportarsi, entrando in relazione con gli altri e servendoli con sollecitudine, soprattutto quando sono più vulnerabili a causa della malattia, della povertà o dell’emarginazione.

     

    L’integrazione totale dei collaboratori nella missione dell’Ordine sembra costituire una delle sfide più grandi che l’Ordine deve affrontare al giorno d’oggi. Non possiamo dimenticare che esistono anche delle ‘sacche di resistenza’ tra i nostri confratelli così come tra i collaboratori, che non vogliono cambiare i vecchi modi di agire

     

    Conclusione

     

    Come afferma la Carta d’Identità dell’Ordine, al punto 8.1, “oggi, noi confratelli e collaboratori abbiamo il compito di essere profeti di speranza, di dignità del sofferente, di amore che viene spento dalla tecnica e dalle leggi del mercato che hanno penetrato il mondo della sanità e dell’assistenza”.

    L’esperienza degli ultimi tempi ci ha mostrato che sono stati fatti dei grandi passi avanti nella ‘integrazione’ di confratelli e collaboratori nella missione. Ovviamente ciò non accade dappertutto in ugual misura, ma questa disparità è giustificata da molte ragioni; possiamo dire però che in tutti i nostri centri ci si sta adoperando in tal senso.

     

    In generale, i confratelli stanno acquisendo sempre maggiore consapevolezza, ed è proprio a livello dei confratelli che il cambiamento e il rinnovamento devono avere luogo. Se vogliamo che l’Ordine continui ad esercitare un forte impatto sulla società, dobbiamo aprirci al mondo e vederlo per ciò che è realmente. Inoltre, affinché la nostra missione sia un’autentica missione della Chiesa, fedele all’ispirazione e all’esempio del suo fondatore, San Giovanni di Dio, dobbiamo continuare a sviluppare uno spirito di collaborazione, di fiducia reciproca, il rispetto e l’amicizia tra confratelli e collaboratori.

     

    Se comprenderemo appieno il vero significato dell’Ospitalità per il nostro fondatore, riusciremo a far sì che il nostro operato si tramuti in “Passione per l’ospitalità di San Giovanni di Dio oggi nel mondo”, e la vivremo con l’entusiasmo e l’impegno che ne derivano.

    RELIGIOSI E LAICI VERSO IL CAPITOLO PROVINCIALE – A. Nocent

       

    Fatebenefratelli – Consiglio Generale allargato alla partecipazione dei Laici

     

    RELIGIOSI E LAICI

    VERSO IL CAPITOLO PROVINCIALE

    nella gioia della fede e nella prospettiva della missione

    HOSPITALITAS: UN PERCORSO PER DIRE L’ UOMO.

                 

    1. Collaborazione o corresponsabilità?
    2. Collaboratori della verità 
    3. “Laici collaboratori”: un malinteso che perdura
    4. 4. I Laici al 66° Capitolo Generale
    5. 5. Prima del carisma viene il Fattoù
    6. 6. Predicare e curare

     

    Capitolo Prorovincia Lombardo-Veneta – Gruppo partecipanti

    Collaborazione o corresponsabilità?

    Il 20 Gennaio 2007, ricorrenza della “conversione di san Giovanni di Dio”, incontro all’Università Cattolica di Milano il Direttore di questa rivista. E’ così buono che mi rinnova la collaborazione e mi  propone di orientare la riflessione sul carisma dell’ hospitalitas in direzione del binomio “Religiosi/Laici collaboratori”. E’ un tema emblematico perché, dopo gli approcci tentati in questi ultimi anni, sembra esservi in atto un timido fidanzamento che, tuttavia,  stenta ad approdare alle nozze. Spero che mai e poi mai assuma il significato di un matrimonio “riparatore”, dovuto alla carenza di vocazioni. Oggi si tratta di passare dagli “ammiccamenti” ad un rapporto non tanto di collaborazione quanto di “corresponsabilità”  che è poi la lezione che ci viene dalla Chiesa italiana convocata a Verona proprio in concomitanza del LXVI Capitolo Generale.  

    Nel confermare gli altri nella fede, testimoniando le ragioni “della speranza che è in me” (cfr. 1Pt 3,15), più che di essere arguto e brillante scrittore, qui mi viene primariamente chiesto di essere “credente”. Ciò che ha animato l’apostolo Paolo nella lettera ai Galati, deve ispirare ogni cresimato che si metta al servizio della Parola: “Dinanzi ai vostri occhi non ho presentato se non Cristo e Cristo crocifisso” (1Cor 2, 2).  Cosa mi giustifica d’essere qui a mostrare Cristo con la penna?  L’aver fatto l’esperienza di Gesù, l’averne avvertito esattamente il Suo sguardo personale d’amore, così ospitale, accogliente, nonostante le mie debolezze e ingratitudini. 

    Scrivere di hospitalitas non è facile. Lo faccio nella convinzione condivisa dai Fatebenefratelli, che anche questo è  un servizio che rientra nel carisma del Fondatore. Egli infatti che fu pure venditore di libri, dapprima ambulante e poi stabile in Granada fino alla conversione, ha questuato, organizzato, assistito, curato…e perfino scritto e dettato lettere. Le poche rimaste, non solo ne rivelano il temperamento e la statura ma evidenziano il variegato carisma: anche “la carità della verità” rientra nel  suo piano di attenzione all’uomo, nell’ottica delle opere di misericordia spirituali. Egli, apertosi totalmente all’azione dei Sette Santi Doni, reso partecipe della fantasia di Dio, si colloca tra i più benemeriti “collaboratori della verità ” (3 Gv, 8) del suo tempo. Ed è su questo tema che vorrei soffermarmi. 

    Collaboratori della verità   

    I laici che si mettessero in mente di camminare sulle orme di San Giovanni di Dio, prima o poi saranno colti di sorpresa dalla stessa domanda  che un giorno  si sentirono rivolgere due fratelli, Andrea e Simone:  

    “Gesù si voltò e vide che lo seguivano. Allora disse:- Che cosa volete? Essi gli dissero:- Dove abiti, rabbì? (rabbì vuol dire: maestro). Gesù rispose:- Venite e vedrete. Quei due andarono, videro dove Gesù abitava e rimasero con lui il resto della giornata. Erano circa le quattro del pomeriggio” (Gv 1, 38-39) 

    Con l’invito a rileggere il testo evangelico parola per parola, perché fondamentale per chi intende mettersi in viaggio, mi auguro che la reazione personale sia identica. Ma vorrei portare velocemente ad un’ulteriore fondamentale considerazione che raccolgo da un carissimo amico, parroco di san Vigilio all’EUR,  che ha appena pubblicato sul tema un poderoso volume di mille pagine sul vangelo di Giovanni di cui è innamorato:  “L’altra grande immagine della Chiesa in Giovanni – che assomiglia molto a quella di Paolo – è al Cap. XV, quello della vite e dei tralci: “Chi è in me porta molto frutto, altrimenti viene tagliato e viene gettato via”. Paolo dirà che il l cuore della Chiesa è Cristo, che è il capo, mentre noi siamo le membra, e tutti facciamo un corpo solo. Giovanni riporta questa poderosa immagine della vite e Gesù che dice: “Chi è in me porta frutto”. Noi possiamo veramente vivere la nostra fede, la speranza e la carità nella Chiesa nella misura in cui siamo in Cristo. E guardate che tutte le grandi crisi che la Chiesa vive nei secoli, è perché forse viene meno qualche volta questa centralità di Cristo: magari un papa può pensare di essere lui il grande, ma è Gesù il Pastore e questo guardate dà una grande libertà, nella misura in cui noi siamo comunità in Cristo e da lui abbiamo l’acqua della vita eterna” (d. Enrico Ghezzi).  

    Le applicazioni nel nostro campo più ristretto sono identiche: tutto funziona “nella misura in cui siamo in Cristo”. Diversamente la “baracca” crolla addosso.  Nella foga del dibattito di questi anni, forse è sfuggito un particolare che, se recepito, potrebbe ribaltare il rapporto non ancora ben definito religiosi/laici. L’apostolo Giovanni in una sua lettera parla dei discepoli come di “collaboratori della verità” (3 Gv, 8). E ne spiega le ragioni. E’ importante osservare che questa formula esprime la partecipazione di tutti i credenti all’opera di evangelizzazione e, insieme la dimensione “cattolica” della fede. Lui, che si definisce l’anziano, esorta all’ospitalità verso chi annuncia la fede. A tal proposito ho trovato sapienti e preziose considerazioni dell’ allora Card.  Ratzingher nella prefazione di un suo libro. Esse ci permettono di estendere gli orizzonti del nostro intendere l’ hospitalitas, quasi sempre esclusivamente legata al malato.

    ” Egli [l'Apostolo] mette così in guardia dal ripiegamento in sé e dall’isolamento di quelle comunità che si concepiscono come ambiti chiusi.    Negare ospitalità a  coloro che recano la buona novella del Vangelo è per lui espressione di un rinnegamento dell’autenticità cattolica e in questo modo è’ anche un atto di chiusura nei confronti della verità. 

    All’opposto, l’amore, la premura con cui i credenti offrono cibo e ricovero agli apostoli e missionari, nelle loro peregrinazioni, è già di per sé servizio alla verità.

    Mediante la carità, essi rendono possibile la predicazione e in questo modo divengono a pieno titolo collaboratori del Vangelo.

    Dunque, in questa breve formula ["collaboratori della verità "] già traluce l’intimo legame tra verità e amore, tra fede personale e cattolicità che e’ tipico della Chiesa, ma anche la correlazione vicendevole tra chi esercita un ministero e i semplici fedeli: essi, pur nella diversità del loro servizio all’unità, raggiungono insieme l’onere e la grazia della proclamazione del Vangelo”.

    Queste indicazioni magisteriali cadono a proposito: esse illuminano quella difficoltà che si fa ormai sempre più evidente: sincronizzare il rapporto tra religiosi e laici collaboratori. Se il concetto venisse recepito, l’orizzonte si amplificherebbe fino a coinvolgere non solo gli  ospedali ma anche le Chiese locali. Se in esse  palpita il cuore della collettività intera, si vivono le gioie e i problemi, si celebra la vita e si ritrova la speranza di fronte alla morte, si fa festa per una nuova famiglia, si condivide la responsabilità e la preoccupazione del giovane che diventa adulto, si vive la pietà popolare che ha plasmato generazioni intere, che ha dato risposta alle domande più profonde e speranza di fronte alle difficoltà, sarà mai possibile estraniarle dal ministero sanante dell’ hospitalitas, percorso obbligato ”per dire l’uomo” nella veste di nuovi Samaritani?  

    Dove ognuno si trova collocato nelle 24 ore della sua giornata, lì è presente un “collaboratore della verità”, lì salta fuori il profeta-servo di Dio inviato a portare la buona notizia ai poveri, a predicare l’anno della misericordia, a sanare ogni infermità. Volendo stilare un elenco, si rischierebbe di tralasciare qualche umile figura che ne farebbe parte a pieno titolo. Ma si può benissimo schematizzare:  il vescovo, i presbiteri e i diaconi, i religiosi, i laici nella molteplice espressione dei movimenti…Ed in posizione privilegiata: i sofferenti. Tutti nella Chiesa di Dio ed in modo davvero personale, siamo dei cooperatori.   

      

    Più che una curiosa divagazione, ritengo che quella della cooperazione sia una premessa necessaria e fondante l’ hospitalitas. Ciò  significa che nella fortezza apparentemente inespugnabile della sanità,  bisogna starci con le mani sul malato, gl’occhi sulla Parola e questa consapevolezza:

    • nessun cristiano parla e agisce a titolo proprio, bensì nell’ “appartenenza” e nella “comunione” con un Altro da sé.  Io faccio quello che devo fare, solo quando opero “con” Cristo e “con” l’intera tradizione vivente della Chiesa di ogni tempo e di ogni luogo.
    • Il mio compito non e’ di costruire un ambiente che fa per me, ma di edificare a Cristo la sua Chiesa.
    • Il votato all’ospitalità e’ paragonabile a una guida di montagna che aiuta nella scalata a raggiungere la vetta. Ma Cristo è la via perché è la verità (Gv 13,34).
    • La profondità dell’annuncio recato dai “collaboratori della verità ” sta proprio nell’intima correlazione tra verità e amore.
    • Il “Comandamento nuovo” (Gv 13,34) lasciatoci dal Maestro richiede accoglienza ed ospitalità vicendevoli, riflessione e fede, apertura e sguardo fisso e penetrante sulla verità del Vangelo.
    • Epperò, “… la verità della vita cristiana è come la manna nel deserto: non la si può mettere da parte e conservare; oggi è fresca, domani è marcia. Una verità che continui solo ad essere trasmessa, senza essere ripensata a fondo, ha perso la sua forza vitale. Il vaso che la contiene – per esempio la lingua, il mondo delle immagini e dei concetti – s’ impolvera, si arrugginisce, si sbriciola. Ciò che è vecchio resta giovane solo se, con il più giovanile vigore, viene riferito a ciò che è ancora più antico, e sempre attuale, la Rivelazione di Dio”. (Hans Urs von Balthasar, Abbattere i bastioni, 1962)

    Poiché ad essere cristiani s’impara giorno dopo giorno, – così Giovanni di Dio, così Riccardo Pampuri e tutti gl’altri -, religiosi o laici, non resta che rimboccare le maniche e procedere con l’ardore del santo Papa Giovanni Paolo II: “E’ l’ora della fantasia della carità “  (Novo millennio ineunte). Senza dimenticare però che “se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme” (1 Cor 12,26).

     

    Consiglio Generale allargato… 

     

    “Laici collaboratori”: un malinteso che perdura 

    Devo confessare che l’idea dei cosiddetti collaboratori laici, almeno quella emersa nel dibattito di questi anni, non mi ha mai convinto più’ di tanto, Men che meno, dopo aver letto la petizione che la rappresentanza internazionale ha espresso al 66° Capitolo Generale. Ho appena finito di sfogliare il Documento Finale elaborato dalla Provincia Lombardo Veneta nel 1994 per il Sinodo dei Vescovi ed il Capitolo. Trovo che gli Autori (Quattrocchi, Faustini o.h., Merlo, Inzoli, Pulici, Ferrara, Santini o.h., Fiume, Bresciani, Giuliani) abbiano avuto valide intuizioni ed elaborato utili proposte. Un solo torto: l’eccessiva dose di ottimismo. Infatti, l’ “Allenaza” stipulata allora con i Collaboratori, ha subìto negl’anni successivi forti sbalzi di tensione, forse legata all’instabilità dell’animazione locale. Ma non solo. Segno evidente, dunque, che le buone intenzioni non bastano.

    Il termine “collaboratori” è’ stato frettolosamente coniato dagli Istituti Religiosi per definire i laici presenti nelle rispettive attività ospedaliere, scolastiche, assistenziali, ecc. Sarebbe stato necessario guardare più scrupolosamente alle origini semantiche del termine perchè il rischio di moltiplicare la confusione, secondo me esiste, eccome!  Ciò emerge proprio quando si va a rileggere la “Christifideles laici” che parla appunto di laici discepoli di Cristo. Laico è un termine funzionale; teologicamente non significa nulla. E’ come il generico impiegato o il generico esaurimento nervoso: se non si precisa, si specifica, si qualifica, se ne sa quanto prima. E il Papa non ha lasciato nell’incertezza: laici discepoli di Cristo.

    La questione dei collaboratori andrebbe presa da lontano. Quando si parla dei laici che partecipano al carisma dei Fondatori – nel nostro caso di hospitalitas e di san Giovanni di Dio – coloro che intendono aderirvi (e l’adesione non deve essere estorta o scontata), hanno tutto il diritto di sapere il più concretamente possibile di cosa si tratta. Comincerei col dire che per i col-laboratori dev’essere l’inizio di una scoperta che porta la firma di San Giovanni di Dio: la letizia e la libertà dell’incontro con Cristo, per seguirlo, senza stanchezze sproporzionate e faticosi programmi culturali, nel Suo cammino in mezzo agli uomini. In altre parole, io accetto di collocarmi  come servitore della verità sull’uomo. 

     Ciò significa che io aderisco, vengo a far parte di un movimento. Ma devo sapere che l’innesto nel movimento dell’hospitalitas può attecchire e posso partecipare al carisma nella misura in cui anch’io mi pongo in movimento, ossia mi apro allo Spirito. E’ lodevole  aspirare ai carismi ma è solo Lui che può donarli. Inoltre il movimento ha per definizione una sua originalità di cui devo rendermi consapevole scoprendone le ragioni della speranza che racchiude in sè.(1 Pt 3,15) Allora va benissimo che si usi la terminologia di “collaboratori laici”,  a patto che si viva coscientemente lo stato di un’appartenenza stabile: entro a far parte di un movimento carismatico che traduce nel linguaggio  ecclesiale e sociale del nostro tempo l’aforisma latino “Ubi caritas et amor, Desu ibi est”. Che è poi l’equivalente Juandediano: “Dio sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesu’ “. E proprio perché questo Dio, questa voce fuori campo che mi chiama e sollecita ad uscire dall’isolamento non é un Solitario ma la Trinità nell’Unità, trovo la mia identità nella misura in cui anch’io scopro ad attendermi una Fraternità nell’unità con la Trinità. Diversamente, sono un disorientato. 

    La tentazione dell’utopia è sempre in agguato: vi si cade quando, magari involontariamente, si riduce Gesù Cristo a puro pretesto. Come dice il termine stesso,  che significa non-luogo, cedere alla tentazione dell’utopia significa non partire dalla realtà ma imporre alla realtà una teoria fabbricata a tavolino e costringerla nella gabbia della nostra limitata misura. La gabbia è l’imprigionarsi dentro l’utopia che basti lanciare ai laici che lavorano nei Centri FBF, un messaggio che li classifica d’ufficio “collaboratori”, ossia partecipi del carisma di San Giovanni di Dio. Nessuna disposizione legislativa, per quanto animata da buone intenzioni, può dichiarare sano di mente uno che non lo è. Nella storia recente della psichiatria abbiamo assistito anche a questa forzatura e subìto poi le conseguenze.

    Bisognerà  evitare di scivolare in due fuorvianti semplificazioni:

    • quella di non passare  dal cuore di ogni uomo e donna che lavorano nei Centri FBF;
    • quella di ignorare totalmente la grande massa  dei laici Christifideles che operano nelle Istituzioni Pubbliche e nel sociale, quasi fossero “altro da noi”, cosa che non ci riguarda, frangia del Popolo di Dio assegnato alla Pastorale Sanitaria dei cappellani ospedalieri.

    La paura porta a sacrificare il grande obiettivo di estendere e dilatare al massimo il grande carisma Giovandiano, giustificato da una considerazione ritenuta più realistica: meglio cominciare a guardare in casa propria prima di pensare alle espansioni.  

    Le conclusioni degli scettici sono penalizzanti; l’avvilimento li porta ad esclamazioni  note: ” sono cambiati i tempi…non c’è via d’uscita…chi vivrà, vedrà…”  E’ un’ insinuazione diabolica e bisogna reagire investendo: in preghiera, adorazione, riflessione, ricerca, mobilitazione, formazione permanente… Il percorso esiste. Solo che è arduo perché passa per la via del cuore e non dell’ideologia né dell’utopia, che immaginano ciò che non è. 

    L’hospitalitas passa attraverso l’educazione alla fede, lavoro personale e di gruppo. L’hospitalitas non è carisma condivisibile se non attraverso un cammino ed un’esperienza di forte appartenenza alla “fraternita’” del Centro FBF, vitale, concretamente incontrabile. Le Fraternità o sono luogo di educazione permanente alla carità, al giudizio sulla realtà (cultura), a vivere le dimensioni del mondo (missione) o non sono. 

    Forte delle indicazioni suggerite dalla CEI, una proposta pratica che mi sentirei di suggerire è questa: fare del castello di Monguzzo un C.O.V.O. ossia un Centro Orientamento Pastorale Ospitalità, aperto agli operatori sanitari di ogni estrazione, agli addetti alla pastorale dei malati, dei carcerati, degli stranieri, alle Caritas…, coinvolgendo Diocesi e Chiese locali. I docenti  dovrebbero essere sacerdoti, religiosi e laici esperti nelle diverse discipline. In questo orientamento vocazionale all’hospitalitas potrebbero nascere anche chiamate sacerdotali e religiose. La parola d’ordine del momento è: investire!

     

    Gli eletti al Consiglio Generale dell’Ordine per il 2006-2012

     

    I Laici al 66° Capitolo Generale

     

    Presente per la prima volta una rappresentanza così numerosa di collaboratori laici, dagli stessi è stato interpretato come un segno di apertura e di speranza e sembra che il tema del rapporto tra collaboratori e religiosi sia stato forse quello più dibattuto al Capitolo. Invito a cogliere subito la sfumatura che considero preoccupante: “Su richiesta del Governo generale è stato chiesto al gruppo dei collaboratori laici invitati al Capitolo di formulare alcune indicazioni come contributo al discernimento dei Padri Capitolari nella elezione del nuovo Superiore generale e del suo Consiglio”.

    Leggendo e rileggendo  il documento elaborato dagli stessi, nasce un fondato  sospetto che già ci si stia muovendo, più o meno consapevolmente, nell’ottica del “potere”.  Essi vogliono contare. Perfino “in materia di dottrina”. E lo chiedono formalmente nelle seguenti dieci formulazioni che mi limito a citare per titoli. Per quanto legittime, sono rivelatrici di una sintomatica povertà propositiva che non andrebbe sottovalutata.

    ” Al nuovo Superiore Generale e al suo Consiglio chiediamo:

    1) Riconoscimento del carisma.
    2) Consultazione dei laici.
    3) Messaggio di fiducia.
    4) Apprezzamento dei collaboratori.
    5) Condivisione e integrazione.
    6) Coraggio del rischio.
    7) Valorizzare l’umanizzazione.
    8) Incontri internazionali.
    9) Opere gestite da laici.
    10) Scuola dell’Ospitalità.

     

    Per il testo integrale dove i titoli vengono sviluppati,  invito a prendere in mano l’inserto contenuto nell’ultimo numero. Forte del punto 6, “Il rischio del coraggio”, mi permetterò alcune pungenti salutari provocazioni del tipo ago-puntura:

    • Il documento precisa: “Richiesti di formulare…” Vuol dire che la ventina di rappresentanti dei 43 mila operatori laici che operano nelle strutture dell’Ordine, si sono presentati al Capitolo a mani vuote. Ciò è molto grave.
    • Le spiegazioni fornite non sono convincenti sia per ragioni di forma che di sostanza. Come si fa a collocare la “Scuola di Ospitalità” al decimo posto e poi mettere al primo “Il riconoscimento del carisma”  che si dà per posseduto ? 
    •  Non si parla di conversione né di “disposizione a testimoniare con la fede e col sangue che c’è un Cielo”, come direbbe Teresa di Gesù Bambino;
    • Non emerge un carisma sapienziale come il “gusto di Dio”, l’ardore per il suo Regno, la Parola, la Chiesa…
    • Non emerge la profezia: un amore che discende verso la miseria, la povertà umana, compresa quella dei “poveri ricchi”;
    • Non emerge il cuore di donne e uomini, normalmente coniugati, che sono anche genitori, educatori…
    • Non emerge l’affidamento alla Provvidenza ma alle capacità manageriali.
    • Al punto 3 si equivoca: il laicato sembra inteso, in ultima istanza, come un superamento della vita religiosa, salvandone il carisma: ”l’Ordine non si estinguerà, anche con l’attuale futura penuria dei religiosi, fino a quando ci saranno laici che responsabilmente parteciperanno al suo carisma, lo custodiranno e lo attueranno”.

    Prendo la palla al balzo. Io non ho dubbi: l’Ordine non si estinguerà, a prescindere dalle buone intenzioni di salvataggio dei laici. Poi ci sono alcuni punti non facili da digerire senza bicarbonato, perché intaccano la sostanza:

    •  p. 5) CONDIVISIONE E INTEGRAZIONE: “Chiediamo che siano definitivamente  superate le logiche proprietarie”. La motivazione non è certamente francescana. Qui affiora il vero problema: la borsa, i soldi. Domanda:i laici vogliono diventare comproprietari, soci in affari? E cosa portano, solo il capitale lavoro? Coniugati o meno, a nessuno viene in mente di allegare una “cambiale di matrimonio” con “Madonna Povertà”, di farsi una sola carne con Lei nel senso autentico ed originale che sarebbe rivoluzionario anche per il nostro tempo: mi voto alla libertà? Va detto per inciso che questa aspirazione moderna Francesco la chiamava povertà. Che non aveva il concetto capitalista, pauperista, economico che abbiamo noi della povertà. Per noi il povero è colui che non possiede, perché il nostro riferimento è l’avere. Il ricco, invece, possiede molto. Per il Santo universale, povertà è la capacità di dare, dare e dare ancora una volta, dare e darsi. Quanto più ti dai, tanto più libero ti rendi e tanto più possiedi.  Nella logica dell’essere, quanto più dai e ti dai, tanto più sei e ricevi, in umanità e cordialità.L’Hospitalitas è una scelta, un voto, un impegno…di povertà, ossia di libertà. Vale per laici e consacrati.
    • p. 8) INCONTRI INTERNAZIONALI:“Istituzionalizzare momenti di incontro internazionale per collaboratori laici… anche al di là di questi brevi scambi capitolari, durante i quali confrontarsi e portare avanti le problematiche dell’Ordine in una prospettiva laicale, guardando da un lato alla mondialità dell’Ordine, dall’altro alla specificità regionale delle sue Province”. Si badi: non in prospettiva evangelica.
    • 9) OPERE GESTITE DAI  LAICI: mentre s’invoca una formazione adeguata – non si comprende perché solo di alcuni – subito si chiede “che in tutto l’Ordine si affidi l’intera gestione di alcune opere a laici  preparati e partecipi del carisma in nome e per conto dell’Ordine”. Non solo si chiede ma si sollecita “fin da adesso”.

    Me lo si permetta: questa è  farneticazione pura! Sono proposte all’insegna dell’improvvisazione, non della sofferta meditazione. La piena realizzazione umana ha un nome evangelico: santità. Che non si trova nella linea del fare ma dell’essere, quell’essere che si rivela, ovviamente, nel fare. Sembra che nessuno abbia mai letto due documenti importanti: la lettera dell’uscente Generale, Fra Pasqual Piles, “Lasciatevi guidare dallo Spirito” ed il recente volume voluto dallo stesso, “Spiritualità dell’Ordine”.

    Possono sembrare parole esagerate le mie e me ne scuso perché sono certo che i redattori della petizione sono meno maliziosi di me ed hanno operato in buona fede. Ma per chi legge, le parole talvolta possono tradire le intenzioni. Il guazzabuglio di idee confuse che sono emerse potrebbero essere il risultato anche di una malintesa interpretazione dell’ “umanizzazione”  che ha il suo eroico paladino nell’ uomo psichico, il cosiddetto ‘ “animalis homo”, secondo la traduzione latina della Vulgata, che ognuno si porta dentro. Lo spazio tiranno non permette di aprire subito un capitolo chiarificatore sull’argomento, appena riproposto anche in un convegno alla Cattolica. Ciò che era chiaro nella mente propositiva del Padre Marchesi, non è detto che lo sia altrettanto in quella dei suoi nuovi  lettori e discepoli. Se personalmente m’infiammo è perché in  un momento di transizione così delicato, non è permesso partire con il piede sbagliato: una solenne  cantonata iniziale equivarrebbe a infilare il primo bottone nell’asola sbagliata: i successivi farebbero la stessa fine. Mi sovviene la figura di Francesco inginocchiato davanti a Papa Innocenzo III° a chiedere l’approvazione della regola. Si noti: “Regola dei Frati Minori che è questa: osservare il Santo Vangelo di Nostro Signore Gesù Cristo”. Capite cosa Francesco va a chiedere a Roma?  Come si  avverte che le richieste dei nostri amici non sono prima state sottoposte, in ginocchio, allo Spirito Santo!

    Perché non appaia che si tratti di mie idee cervellotiche, invito a riflettere sul cap. X del Vangelo di Giovanni. Se c’e’ un testo dove appare la Chiesa è proprio quello del Buon Pastore: “Io sono il buon pastore, questo è il mio gregge”. Secondo il mio amico parroco, le cose stanno così: 

    • c’è il gregge di cui Gesù è il pastore e, attenti bene,
    • di questo gregge che è la Chiesa, è Gesù il buon pastore, non altri,
    • noi siamo tutti al servizio di questo buon pastore che è  Gesù,
    • nessuno di noi – né il papa, né i vescovi, né i sacerdoti, nessuno nella Chiesa – deve avere il potere , se non l’autorità  nella carità e il servizio che provengono dal seguire Gesù e fare la Sua volontà.“ (d. Enrico Ghezzi in “Come abbiamo ascoltato Giovanni”, Studio esegetico-pastorale sul quarto Vangelo, edizioni Digigraf, 2006, pp. 1343.)

    Sembrano parole di scoraggiamento le mie? Vorrei sperare di no. Bramerei che fossero recepite nel segno dello stupore dei primi cinque seguaci di Giovanni di Dio, Anton Martin, Pedro Velasco, Simon de Avila, Domenico Piola e Juan Garcìa e della loro prima Impresa Missionaria; che stimolassero a quella comunione, di collegialità e di Spirito Santo che è stato possibile vivere durante il Concilio Vaticano II e che ormai non è più memoria viva se non per pochi testimoni.

     

     Perciò:

    • Se non prendo come archetipo centrale la santa umanità di Gesù,
    •  se non voglio imitare il Maestro in tutta la sua grandezza, se non passo attraverso la “stigmatizzazione” delle mani e del costato che equivale al dono del carisma dell’hospitalitas, ossia l’accettazione del dare la vita, di metterla a disposizione di Dio, identificandomi con Cristo e Cristo crocifisso, il Vivente nei crocifissi della terra…
    •  se non nascono gruppi al maschile e al femminile di “folli” ossia di pazzi che sognano la regola del Vangelo prima degli Statuti giuridici e canonici, lievito e fermento sul posto di lavoro, cellule che si moltiplicano, “ponti” tra ospedale e Chiesa locale, con una travolgente forza interire che viene dalla dimensione contemplativa della vita, alla Scuola della Parola…
    •  se non possiedo la libertà del mio fratello Gesù, se non abbandono i miei feticci per  mettermi a Sua completa disposizione, senza interessi, senza niente che si interponga tra me e gl’altri,
    •  sarebbe meglio lasciar perdere! Perché si va incontro ad un fallimento annunciato. E, dall’esperienza negativa, una sfiducia contagiosa nel “Cristifidelis laicus”, il laico discepolo di Cristo che invece è un segno dei tempi.

     

    Ma come far emergere un’intesa realistica e compatibile?  Ribaltando il problema: più che formulare ai laici la richiesta di offrirsi come collaboratori dei religiosi, ogni progetto dovrebbe mobilitare entrambe le parti su un terreno di parità accettato e condiviso: “collaboratori della verità” (3Gv 8). Questo concetto supera di gran lunga il concetto ristretto e asfittico di “collaboratori alle dipendenze”  ed apre spazi di cooperazione, che potrebbe essere anche statutaria, ai laici non solo dei Centri FBF ma della Chiesa locale, della Salute Pubblica, dell’Università, della Politica, della Sofferenza…Tale proposta ha un pregio: quello di essere parola di Dio. Il proponente e Lui. A chiederlo sono proprio i Vescovi: le Istituzioni devono superare l’isolamento, rendendosi sempre più visibili nelle comunità ecclesiali (n.22)

     

    Vogliamo esempi di concretezza? Porto un’esperienza che vivo. Tre volte la settimana  la Comunità di Sant’Egidio che è in Milano, quella che conosco io, convoca i suoi membri, donne e  uomini di ogni estrazione di età e culturale, nella restaurata ma non riscaldata chiesa di San Bernardino alle Monache, in via Lanzone, a due passi dall’Ospedale San Giuseppe dei Fatebenefratelli. Si ritrovano ogni martedì, mercoledì e sabato alle ore  20,30. Abitando io nel cremasco, quando posso, vi partecipo per ossigenarmi. L’Eucaristia non viene conservata perché, normalmente il tempio è chiuso al pubblico. Non presenzia né un presbitero né un diacono. Cantano i salmi accompagnati da un’organista, leggono la Parola di Dio, una donna preparata la commenta, si prega per la Chiesa e si chiude in bellezza. Poi si passa allo scambio dei saluti e si fa ritorno a casa. Alcuni prendono  le borse depositate all’ingresso, piene di viveri, bevande, indumenti  e vanno a distribuire in tre punti diversi della Milano-notte. Più che per offrire ristoro, ben gradito, l’occasione è per “parlare” con coloro che vivono emarginati e attendono questo momento unico. Un signore sulla cinquantina mi ha detto che lo fa da tre anni.  Verso mezzanotte rincasa, fa la doccia e si prepara la cena.

     

    Cosa mi preme sottolineare? Che i carismi non cadono dagl’alberi come le foglie né possono essere assegnati d’ufficio con un attestato o una benemerenza. Necessita un processo di ri-conversione individuale maturato nel contesto di una Fraternità, una compagnia… Se non sono inserito in una comunità, sono destinato a perdermi, sopraffatto dagli impegni e dalla noia. Chi vuol appartenere alla “Chiesa sanante”, partecipare all’Hospitalitas, deve lasciarsi coinvolgere in un cammino impegnativo, più che pensare subito ai convegni internazionali o ad amministrare le Istituzioni religiose. Senza basi solide , prima o poi la casa crolla.  Bando alle illusioni! Se ai discepoli di Gesù tre anni di scuola ad alta specializzazione tenuta dal Maestro stesso non sono bastati a farli restare sul campo al momento della prova e sono tutti fuggiti, perché il miracolo dovrebbe compiersi ora, sulla base di così fragili premesse?

     

    La richiesta dei Laici Collaboratori termina con un proposito: “Saremo in comunione con voi, accompagnandovi con il nostro affetto e la nostra preghiera allo Spirito Santo”. Si riferivano all’elezione canonica del Priore Generale. Nulla di più lodevole. Mi si dice che Fra Donatus Forkan  sia uomo di grande spiritualità. Ha posto nello stemma generalizio  i tre amori: la croce, al centro, il melograno dell’Hospitalitas, l’icona dell’ in-yang, simbolo della Corea dove è vissuto a lungo, ossia la missionarietà. E c’è anche un motto: “Hospitality always”. Ci uniamo in quel “sempre”, da vivi e da morti. E gli auguriamo di far attraversare  alla grande comitiva che lo segue, il Mar Rosso della sofferenza umana, additandoci il nome della terra promessa che é la “divinizzazione” dell’uomo. Non in contrapposizione all’ ”umanizzazione” che ha pieno diritto di cittadinanza, ma come traguardo di una via già indicata dai Padri della Chiesa delle origini.

     

    Senza offesa per nessuno, in questo preciso momento, l’ottimismo sui laici e dei laici sa più di scaramantico che di fondato, di malcelata paura, di auspicio più che evento di spessore, utopistico dunque, nella misura in cui, mancando di “profezia”, resterà inchiodato nell’immobilismo degli slogan e delle frasi ad effetto. Auspico un “foglio” di collegamento, snello, quindicinale o mensile, un blog… per comunicare nella fede e per la circolazione delle idee. L’alternativa al movimento è la staticità di cui nessuno avverte il bisogno.

     

    Prima del carisma viene il Fatto

     
    Non s’è mai chiesto nessuno come abbia fatto Don Giussani ad aggregare migliaia di giovani e non in tutto il mondo?

    La Chiesa riafferma con forza che i laici non sono cristiani di “serie B”, ma discepoli del Signore chiamati a testimoniare la fede nella realtà di tutti gli uomini e di tutti i giorni: famiglia, società, scuola, lavoro, economia, politica, sanità…) “Essere laici è’ dunque una chiamata, una vocazione, un dono che viene da Dio e che invia a un compito alto e difficile: incarnare la fede e darle forma nelle realtà quotidiane”.

    Senza la preoccupazione formativa e di un suo cammino permanente, metodico, integrato e completo, coloro che si ripropongono di testimoniare la loro fede nel sociale, e che desiderano educare altri a questo fondamentale compito, rischiano di cadere in un pragmatismo di cui oggi soffre la nostra società . Il Papa della Centesimus annus è molto esplicito: “51. Tutta l’attività umana ha luogo all’interno di una cultura e interagisce con essa. Per un’adeguata formazione di tale cultura si richiede il coinvolgimento di tutto l’uomo, il quale vi esplica la sua creatività, la sua intelligenza, la sua conoscenza del mondo e degli uomini. Egli, inoltre, vi investe la sua capacità di autoominio, di sacrificio personale, di solidarietà e di disponibilità per promuovere il bene comune. Per questo, il primo e più importante lavoro si compie nel cuore dell’uomo, ed il modo in cui questi si impegna a costruire il proprio futuro dipende dalla concezione che ha di se stesso e del suo destino”. 

      

     

     

    Vorrei citare La Pira, Lazzati, laici che hanno insegnato a volare alto. Ma veniamo a noi. L’ospitalitas prima di essere un carisma è un Fatto, un Avvenimento, un’ Esperienza, una Persona: l’incontro con Gesù di Nazareth, il Figlio del Dio vivente, la folgorazione del Suo sguardo, il “vieni e seguimi”, il “ti farò pescatore di uomini”, il “se vuoi…”

       

     

    Sarebbe fuorviante pensare che sono parole rivolte solo ai chiamati al sacerdozio o alla vita consacrata…Si tratta delle scelte battesimali di coloro che divengono adulti in Cristo e, dopo aver chiesto responsabilmente alla Chiesa la fede, ricevono con la sacra unzione crismale,  il mandato di andare oltre i confini della terra, di prendere il largo. Lui, l’Ospitante, farà di me una persona capace di ospitare, accogliere;  una casa, una porta aperta, una dimora… Se manca questa premessa, possiamo fare tutti i convegni del mondo, partecipare a tutte le Assise Capitolari: tempo perso. Non lo dico per scoraggiare ma come stimolo per non illudersi  e illudere. Quella che si vede nascere è una pianta selvatica che non potrà fruttificare se non innestata nell’albero buono. Già Paolo VI nella Octogesima adveniens esprimeva la sua preoccupazione: ” Ciascuno esamini se stesso per vedere quello che finora ha fatto e quello che deve fare. Non basta ricordare i principi, affermare le intenzioni, sottolineare le stridenti ingiustizie e proferire denunce profetiche: queste parole non avranno peso reale se non sono accompagnate in ciascuno da una presa di coscienza più viva della propria responsabilità e da un’azione effettiva. È troppo facile scaricare sugli altri la responsabilità delle ingiustizie, se non si è convinti allo stesso tempo che ciascuno vi partecipa e che è necessaria innanzi tutto la conversione personale”.

      

     

     

     

    Predicare e curare

     

    Sopra ho accennato alla CEI. Per il momento non si può che procedere schematicamente.

    Cosa chiedono i Vescovi col documento “Predicate il Vangelo e curate i malati” ? Una svolta storica fatta di gesti concreti, di segni credibili:

    • essere tralci di un’unica Vite per promuovere la salute (coinvolgimento di tutte le componenti del popolo di Dio nella pastorale della salute) n. 4
    • per dare voce alle chiese locali (sostenere l’integrazione della pastorale sanitaria nella pastorale d-insieme delle comunità cristiane) n. 4
    • per educare alla “speranza che non delude” (progettualità…itinerari formativi) n.4

    Si tratta di mettere in evidenza le coordinate:

    • La grande tradizione, nata nella Chiesa “quale espressione del suo amore per l’uomo” (40).
    • La Chiesa “profezia della speranza”…(21).
    • Una comunità ospitale “che si prende cura”…(22)  affinché la presenza delle istituzioni sanitarie cattoliche possa esercitare un influsso positivo sulla comunità ecclesiale e sulla società, occorre che vengano compiuti alcuni passi. Il primo porta le istituzioni a superare l’isolamento, rendendole sempre più visibili nella comunità ecclesiale.

    La popolazione del territorio deve poter riconoscere in esse un punto di riferimento, uno strumento di sensibilizzazione ai problemi della salute, della morte, della vecchiaia e della disabilità.

    Ciò costituisce il compito carismatico dei religiosi che le gestiscono: la missione loro affidata di servire i malati e di promuovere la salute appartiene a tutta la Chiesa.

    A loro incombe il dovere di aiutare la comunità ecclesiale a diventarne maggiormente consapevole” (42)

    Da dove cominciare?

    Il primo segnale di un cambiamento di rotta potrebbe essere la creazione di “gemellaggi”. I primi saranno timidi, poi si faranno più arditi. Se ogni ospedale o struttura sanante confessionale adottasse un ospedale, una struttura pubblica, nascerebbe una proficua sinergia d’intenti e di carismi che finiranno per stimolare e coinvolgere anche la comunità ecclesiale. Solo così sarà in grado di maturare nel suo seno la consapevolezza e l’importanza di ospitare i collaboratoti del vangelo che “predicano e curano”. 

    INSIEME PER SERVIRE

    “collaboratori della verità” (3Gv 8).  

    CHIESA DEL FUTURO con i Fatebenefratelli

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    CON

     

    IL CARDINALE

     

    MARTINI

     

    SOGNANDO LA CHIESA

    DEL FUTURO  

    DA LAICI CON I

    FATEBENEFRATELLI 

      

     

    2008 – IL SINODO DEI VESCOVI SULLA PAROLA  

     “…se, come e quando i nostri sogni possono diventare realtà””Ho ascoltato con vivo interesse tutti gli interventi fatti fin qui, cercando di capire in che modo rispondessero alla domanda: come Gesù Cristo vivente nella Chiesa è oggi sorgente di speranza per l’Europa?

    Ma prima di esprimere qualche mio parere, vorrei fare memoria di una persona che parecchi di noi ricordano presente in quest’aula e che il Signore ha chiamato a sé il 17 giugno scorso: è il cardinale Basil Hume, arcivescovo di Westminster. Più di un intervento fatto da lui in Sinodo cominciò con le parole: “I had a dream”, “Ho fatto un sogno”.  

    Anch’io in questi giorni, ascoltando gli interventi, ho avuto un sogno, anzi parecchi sogni. Ne richiamo tre.

    1. 1. Anzitutto il sogno che, attraverso una familiarità sempre più grande degli uomini e delle donne europee con la Sacra Scrittura, letta e pregata da soli, nei gruppi e nelle comunità, si riviva quella esperienza del fuoco nel cuore che fecero i due discepoli sulla strada di Emmaus (Instrumentum Laboris 27). Rimando per questo a quanto già detto da mons. Egger, vescovo di Bolzano-Bressanone. Anche per la mia esperienza, la Bibbia letta e pregata, in particolare dai giovani, è il libro del futuro del continente europeo

    2. 2. In secondo luogo, il sogno che la parrocchia continui ad attualizzare, col suo servizio profetico, sacerdotale e diaconale, quella presenza del Risorto nei nostri territori che i discepoli di Emmaus poterono sperimentare nella frazione del pane (IL 34,47). In questo Sinodo sono già state spese parecchie parole per evidenziare il ruolo dei movimenti ecclesiali in ordine alla vivificazione spirituale dell’Europa. Ma è necessario che i membri dei movimenti e delle nuove comunità si inseriscano vitalmente nella comunione della pastorale parrocchiale e diocesana, per mettere a disposizione di tutti i doni particolari ricevuti dal Signore e per sottoporli al vaglio dell’intero popolo di Dio (IL 47). Dove questo non avviene, ne soffre la vita intera della Chiesa, tanto quella delle comunità parrocchiali quanto quella degli stessi movimenti. Dove invece si realizza una efficace esperienza di comunione e di corresponsabilità la Chiesa si offre più facilmente come segno di speranza e proposta credibile alternativa alla disgregazione sociale ed etica da tanti qui lamentata.

    3. 3. Un terzo sogno è che il ritorno festoso dei discepoli di Emmaus a Gerusalemme per incontrare gli apostoli divenga stimolo per ripetere ogni tanto, nel corso del secolo che si apre, una esperienza di confronto universale tra i Vescovi che valga a sciogliere qualcuno di quei nodi disciplinari e dottrinali che forse sono stati evocati poco in questi giorni, ma che riappaiono periodicamente come punti caldi sul cammino delle Chiese europee e non solo europee. Penso in generale agli approfondimenti e agli sviluppi dell’ecclesiologia di comunione del Vaticano II. Penso alla carenza in qualche luogo già drammatica di ministri ordinati e alla crescente difficoltà per un vescovo di provvedere alla cura d’anime nel suo territorio con sufficiente numero di ministri del vangelo e dell’eucarestia (IL 14). Penso ad alcuni temi riguardanti la posizione della donna nella società e nella Chiesa (IL 48 ), la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali (IL 49), la sessualità, la disciplina del matrimonio, la prassi penitenziale, i rapporti con le Chiese sorelle dell’Ortodossia e più in generale il bisogno di ravvivare la speranza ecumenica (IL 60-61), penso al rapporto tra democrazia e valori e tra leggi civili e legge morale. 

    Non pochi di questi temi sono già emersi in Sinodi precedenti, sia generali che speciali, ed è importante trovare luoghi e strumenti adatti per un loro attento esame. Non sono certamente strumenti validi per questo né le indagini sociologiche né le raccolte di firme. Né i gruppi di pressione. Ma forse neppure un Sinodo potrebbe essere sufficiente. Alcuni di questi nodi necessitano probabilmente di uno strumento collegiale più universale e autorevole, dove essi possano essere affrontati con libertà, nel pieno esercizio della collegialità episcopale, in ascolto dello Spirito e guardando al bene comune della Chiesa e dell’umanità intera.
    Siamo cioè indotti ad interrogarci se, quaranta anni dopo l’indizione del Vaticano II, non stia a poco a poco maturando, per il prossimo decennio, la coscienza dell’utilità e quasi della necessità di un confronto collegiale e autorevole tra tutti i vescovi su alcuni dei temi nodali emersi in questo quarantennio. V’è in più la sensazione di quanto sarebbe bello e utile per i Vescovi di oggi e di domani, in una Chiesa ormai sempre più diversificata nei suoi linguaggi, ripetere quella esperienza di comunione, di collegialità e di Spirito Santo che i loro predecessori hanno compiuto nel Vaticano II e che ormai non è più memoria viva se non per pochi testimoni. Preghiamo il Signore, per intercessione di Maria che era con gli apostoli nel Cenacolo, perché ci illumini per discernere se, come e quando i nostri sogni possono diventare realtà.”

    (Intervento del cardinale Carlo Maria Martini del 7 ottobre 1999 al Sinodo per l’Europa.)    

    2008  

    Le conclusioni del Sinodo  

    dei Vescovi sulla Parola di Dio

     

     

    Image

    Sofferenza – Giovanni Lonardi

      

     

    LA SOFFERENZA

    COME SACRIFICIO CULTUALE

     

    Di Giovanni Lonardi

     

     Premessa

     

     In una visione olistica del mondo tutte le cose sono colte nel loro insieme, tra loro interagenti e strettamente concatenate le une alle altre. Tutte sono simbolo e metafora delle altre, tutte si richiamano tra loro e nel loro insieme si trova il loro significato e il senso del loro esserci. Ognuna si riflette nel tutto e il tutto si rivela in ognuna. Vi è dunque una forte e solida compenetrazione degli esseri, quali riflesso, espressione e testimonianza dell’Unico Essere che rende Uno tutte le cose. L’avere una visione parcellizzata, frammentata della realtà non solo non ci aiuta a comprenderne il significato più vero e profondo, coglibile soltanto se collocato nel Tutto, ma ci spinge verso una visione schizofrenica della stessa con gravi conseguenze nel rapportarsi alla realtà stessa.

     

    Nella stessa prospettiva va colta la sofferenza, che si esprime in una creazione che soffre per la sua caducità, subita contro la sua volontà (Rm 8,20). Ed anche l’uomo, per un principio di solidarietà che lo lega inscindibilmente con la creazione stessa[1], soffre per la fragilità del suo essere. L’uomo e ancor prima l’intero cosmo non sono stati creati difettosi da parte di Dio e caduchi per loro natura, ma essi rilucevano dello stesso splendore divino (Sal 8,5-7). Il primo atto creativo di Dio, infatti, è la luce[2] (Gen 1,3), emanazione della sua stessa vita divina, al cui interno Egli colloca le sue creature, che assimila a sé; per questo “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31), proprio perché nelle sue creature vede riflesso se stesso. La creazione dunque era incandescente di Dio, specchio della sua onnipotenza e della sua bontà[3].

     

    Anche l’uomo, per decreto divino fu creato ad immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26-27), beneficiando in tal modo della perfezione della vita divina. Dio infatti soffiò[4] sull’uomo che divenne essere vivente (Gen 2,7), cioè lo ricoprì e lo permeò del suo Spirito divino, rendendolo partecipe della sua stessa vita, divenendo collaboratore di Dio (Gen 2,15). L’uomo, dunque, apparteneva alla stessa dimensione di Dio[5]. E Dio creando l’uomo creò, sia pur a livello creaturale, un altro se stesso, capace di volontà e autonomia proprie, capace anche di opporglisi. E l’uomo mangiò dell’albero (Gen 3,6), cioè aggredì il potere di Dio, lo volle scalzare, gli si oppose (Gen 3,5); ed ecco che all’improvviso gli si aprirono gli occhi e si accorse di essere nudo (Gen 3,7): gli apparve tutta la fragilità del suo essere creature e si ritrovò “nudo”, cioè spoglio e privo dello Spirito divino che lo aveva assimilato alla vita stessa di Dio, così che, persa la sua configurazione divina, venne rivestito da Dio stesso non più di Spirito Santo, ma di pelli di animali (Gen 3,21) per indicare il suo nuovo stato e la sua nuova condizione esistenziali. Dolore, sofferenza, tribolazioni, difficoltà avrebbero scandito il suo penoso vivere “finché tornerai alla terra, perchè da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!” (Gen 3,19b). Egli pertanto fu cacciato dall’Eden, dalla dimensione divina a cui apparteneva ed ebbe inizio per lui la sua triste disavventura fatta di dolore e di morte[6] (Gen 3,16-19), che si propagherà sempre più fino a travolgere la creazione stessa: “Dio guardò la terra ed ecco essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra. Allora Dio disse a Noè: <<è venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco, io li distruggerò insieme con la terra.” (Gen 6,12-13).

     

    Ma proprio là dove la fine di ogni speranza sembrava definitivamente sancita, ecco che Dio non abbandona l’uomo al suo triste destino, ma ne tenta il recupero alla sua primitiva condizione di vita. Ha inizio in tal modo la storia della salvezza, cioè il tentativo di Dio di recuperare l’uomo alla vita divina stessa in cui era stato collocato fin dal suo inizio (Gen 2,8). Ecco, dunque, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosé, il popolo, i Profeti … fino a Gesù, che con la sua nascita rinunciò a tutte le sue prerogative divine e assunse su di sè la carne decaduta del vecchio Adamo, la visse fino in fondo, condividendo solidalmente la triste storia di sofferenza e di morte dell’uomo decaduto (Fil 2,6-8), la portò sulla croce e con la sua morte pose fine alla vecchia creazione adamitica (Rm 6,6), mentre con la sua risurrezione dette inizio ad una nuova creazione, vaticinata da Isaia (Is 65,17; 66,22) e contemplata da Giovanni nell’Apocalisse (Ap 21,1). Nella passione-morte-risurrezione di Gesù la passione e morte dell’uomo hanno perso il loro senso di condanna e di disperazione divenendo invece promessa di riscatto e di risurrezione; promessa e premessa di vita nuova in Cristo e per Cristo in Dio (1Pt 1,3). Nella risurrezione di Gesù, infatti, il Padre con la potenza del suo Spirito rigenerò quella vecchia umanità adamitica, di cui si rivestì il proprio Figlio distruggendola sulla croce e ricollocandola nuovamente nella vita stessa di Dio, così come lo fu nei primordi della prima creazione.

     

    Se da un lato, dunque, la sofferenza e la morte dell’uomo dicono tutta la sua drammatica caducità, conseguente alla sua colpa primordiale, dall’altro, in Cristo esse cambiano completamente di significato e di orientamento, diventando non più espressione di condanna, ma passaggio necessario verso la nuova vita, motivo quindi di riscatto e di redenzione, poiché “se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Grazie a Cristo morto-risorto nella sofferenza e nella morte dell’uomo è stato seminato un germe di vita eterna, aprendo l’uomo ad una nuova prospettiva di speranza. Paolo infatti ricorda che “Se siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione.” (Rm 6,5).

     

    Collocate in questo ampio quadro storico-salvifico, di cui fanno parte integrante, la sofferenza e la morte dell’uomo divengono redentive poiché il credente viene associato al Cristo sofferente, il cui sangue è posto a redenzione dell’intera umanità (Ef 1,7). Non è dunque più lui che vive, ma Cristo stesso vive in lui (Gal 2,20a), lo vive nella sua passione e morte, completando in tal modo nella carne del suo discepolo ciò che manca alla sua passione e morte (Col 1,24), cioè l’assimilazione e la compartecipazione di ogni singolo uomo alla sua passione (Gv 12,32). In tal modo la sofferenza e la morte del credente non sono più espressione di condanna, ma manifestazione e testimonianza di quelle di Cristo.

     

    Inquadrate in questo contesto cristologico la sofferenza e la morte dell’uomo e ancor più quella del credente acquisiscono una profonda valenza sacrale, divenendo una sorta di celebrazione cultuale che si radica in Cristo stesso e da lui trae il suo significato più vero e profondo; egli è il nuovo tempio di Dio (Gv 2,20-21) e nel contempo vittima sacrificale (1Gv 2,2; 4,10) e sacerdote offerente di se stesso (Ef 5,2; Eb 10,12) posto sull’altare della croce. In tal modo la sofferenza e la morte non sono più un qualche cosa di strettamente personale che si consuma nell’intimità o nell’abbandono e nell’oblio del sofferente, ma proprio per la loro sacralità e il loro radicarsi in Cristo, hanno i loro simboli e i loro luoghi in cui si celebrano cultualmente: il Tempio, l’Altare, la Materia del Sacrificio, l’Annuncio, la Diaconia, il Sacerdote celebrante attorno ai quali si raccoglie la Comunità credente e concelebrante. Questi sono i luoghi e i segni del compiersi del sacrificio. Ma per una visione olistica della realtà, questi luoghi e questi segni sacri della Tradizione, nei quali si celebra e si consuma il sacrificio di Cristo, ne richiamano altri a cui si associano e si agganciano in modo simbolico e metaforico, ma per questo non meno reale, altri luoghi e altri segni entro i quali Cristo continua a vivere e a celebrare il proprio sacrificio nel silenzioso dolore del proprio discepolo.

    Ecco, dunque, che il Tempio si fa Casa e Ospedale; il letto intriso di dolore e di sudore diventa l’Altare su cui è posto l’Ammalato, Vittima sacrificale, unita al suo Cristo, e si fa Annuncio delle sofferenze del suo Signore, che vive e vivono in lui; mentre le cure profuse dai parenti e dagli infermieri e medici diventano un’inconsapevole diaconia liturgica posta a servizio del Sofferente, Sacerdote offerente di se stesso. Questi apparati di sacralità sono posti in mezzo alla comunità umana e a quella credente, spesso distratte e insensibili al sacrificio cultuale e alla liturgia della sofferenza che si sta celebrando in mezzo ad esse.

     

    Per comprendere la realtà profonda di questo simbolismo e di queste metafore che legano intimamente tra loro tutte queste realtà in un Tutto Unico, ci soffermeremo su alcuni aspetti fondamentali di questa celebrazione liturgica: il Tempio, l’Altare, la Vittima, la Diaconia, il Sacerdozio, la Comunità credente, che trovano la sua eco nel soffrire quotidiano.

     

    Il Tempio

     

    Da sempre il culto delle varie divinità, a cui gli uomini sono abituati a rivolgersi con le loro liturgie, si svolgono in luoghi appositi a questo riservati e per questo sono considerati luoghi sacri: i templi. Ma per Israele, a cui la fede cristiana è strettamente e intimamente legata e profondamente debitrice, il Tempio non è semplicemente un luogo di culto, ma assume in sè significati e valenze via via sempre nuovi, più profondi e complementari tra loro. Un tempio attorno al quale cresce e si sviluppa nel tempo una specifica teologia, che dice le sempre nuove comprensioni che gli israeliti hanno avuto di esso fino a farne una metafora, un simbolo preannunciante in se stesso realtà nuove ed escatologiche, verso le quali il pio israelita è esistenzialmente rivolto. Il Tempio dunque non è soltanto un luogo fisico, topograficamente collocato e riservato al culto, ma è un’immagine delle realtà future, che accompagnano e stimolano ogni credente nel suo cammino quotidiano verso l’Eternità e che ad esso si lega in virtù della sua configurazione spirituale e ontologica.

     

    Il Tempio ebraico non nasce dal nulla, ma si radica in una elezione, che andrà nel tempo sempre più definendosi.

     

    Già ad Abramo Dio aveva promesso una discendenza numerosa con la quale Egli avrebbe stabilito un’alleanza (Gen 17,4-7). Questa promessa trova la sua prima attuazione proprio in terra d’Egitto, la terra dell’oppressione e della schiavitù (Es 1,8-16). E sarà proprio il sangue dell’agnello asperso sugli stipiti delle porte che individuerà il vero Israele (Es 12,22-23), che Dio condurrà ai piedi del Sinai dove darà una nuova identità a colui che era il non popolo: “<< … Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti>>” (Es 19,4-6). Israele diviene “proprietà di Dio”, gli appartiene in modo esclusivo e i destini del popolo sono uniti con quelli di Dio. Israele quindi diviene popolo consacrato, cioè riservato al Signore, per questo il popolo è “nazione santa”, partecipe in un certo qual modo della vita di Dio. Questa profonda unione comunionale tra Dio e il suo popolo fa sì che Israele diventi il sacramento vivente di Dio in mezzo agli altri popoli, attraverso il quale Dio testimonia la sua presenza in mezzo agli uomini e grazie ad Israele Egli si comunica ad essi (Ez 20,41; 39,7). Israele diventa pertanto un “popolo di sacerdoti”, cioè un popolo capace di “sacrum donare”, di trasmettere e di testimoniare quella Santità di Dio (Sal 95,3) a cui egli è legato per vocazione ed elezione, che viene sancita attraverso un’Alleanza (Es 20-24). Israele infatti sarà tutto questo soltanto “se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza”.

     

    Ed è proprio in questo contesto di elezione ed Alleanza che Dio dà le sue disposizioni circa la sua “Dimora” in mezzo al popolo: “Il Signore disse a Mosè: <<Ordina agli Israeliti che raccolgano per me un’offerta. La raccoglierete da chiunque sia generoso di cuore[7]. Ed ecco che cosa raccoglierete da loro come contributo: oro, argento e rame, tessuti di porpora viola e rossa, di scarlatto, di bisso e di pelo di capra, pelle di montone tinta di rosso, pelle di tasso e legno di acacia, olio per il candelabro, balsami per unguenti e per l’incenso aromatico, pietre di onice e pietre da incastonare nell’efod e nel pettorale. Essi mi faranno un santuario e io abiterò in mezzo a loro.” (Es 25,1-8). Innanzitutto i materiali per la costruzione della Dimora non devono essere comperati, ma dati in offerta e devono radicarsi in un cuore generoso. Non si tratta dunque di dare un qualcosa, ma di compiere in questo dono un vero e proprio sacrificio cultuale in cui l’israelita è coinvolto non soltanto per i beni materiali di cui si priva per offrirli al Signore, ma viene anche coinvolto esistenzialmente (”… da chiunque sia di cuore generoso”). La Dimora divina pertanto nasce da un atto cultuale che si fa liturgia esistenziale. La condizione dunque perché Dio abiti in mezzo agli uomini è che questi si rendano esistenzialmente disponibili ad accoglierlo in mezzo a loro e in loro. Dimora divina e uomo colto nel suo esistere quotidiano pertanto sono strettamente connessi.

     

    Il progetto di questa Dimora non nasce tuttavia da calcoli ingegnosi dell’uomo, ma è dettato direttamente da Dio (Es 25,9; 26,30). Tale Dimora pertanto diventa simbolo e metafora di realtà celesti e future che si stanno lentamente incarnando nel tempo in mezzo agli uomini[8]. E al compiersi di tale opera Dio ne prende possesso (Es 40,33b-34) e si fa pellegrino in mezzo al suo popolo e con il suo popolo (2Sam 7,6-7a). Questa Dimora, infatti, non è un tempio stabile, ma una tenda divina che si colloca in mezzo al popolo (Lv 15,31; 26,11; Ez 37,27) in cammino verso la Terra Promessa, verso il realizzarsi delle Promesse. Da questo momento la Dimora scandirà i tempi del cammino e il popolo incomincerà a muoversi secondo i ritmi dettati dal Dio in mezzo a loro e con loro (Es 40,36; Nm 1,51; 9,18-20.22). In tal modo il popolo imparava a muoversi e a camminare secondo i ritmi di Dio e a comprendere il cammino del suo volere.

     

    E giunti nella Terra Promessa il popolo vi si stabilì definitivamente. E quando Davide[9] volle costruire una casa per il Signore (2Sam 7,2), Dio gli si oppose e gli dirà che sarà proprio Lui, Jhwh, ha costruire invece una dimora stabile a Davide e alla sua discendenza e sarà proprio questa discendenza che costruirà il tempio che Dio si attende: “<< … Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu giacerai con i tuoi padri, io assicurerò dopo di te la discendenza uscita dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile per sempre il trono del suo regno. Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio. Se farà il male, lo castigherò con verga d’uomo e con i colpi che danno i figli d’uomo, ma non ritirerò da lui il mio favore, come l’ho ritirato da Saul, che ho rimosso dal trono dinanzi a te. La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a me e il tuo trono sarà reso stabile per sempre>>” (2Sam 7,12-16). C’è quindi qui una svolta radicale nella storia del Tempio: nel momento in cui l’uomo sembra prendere in mano le proprie sorti e stabilire lui i tempi e i luoghi di Dio, Jhwh gli fa capire che è Lui che conduce la storia e che stabilisce la discendenza che gli dovrà costruire il Tempio dove abiterà il suo nome[10] e la sua gloria. Si pone dunque un vincolo stretto tra “Discendenza” e “Tempio”. La costruzione del Tempio è affidata alla “Discendenza”. Sarà infatti Salomone a costruire il Tempio, “discendenza uscita dalle viscere di Davide”. La profezia di Natan (2Sam 7,8-17) tuttavia non si esaurisce in Salomone, ma viene rilanciata in una continua attesa del Messia davidico, che doveva rendere stabile il regno di Israele e rinnovare il culto a Jhwh, dando in tal modo un nuovo significato e un nuovo senso al Tempio. Ancora una volta le figure della storia (Discendenza-Tempio) assumono significati simbolici e metaforici, che rilanciano di continuo i credenti verso un futuro di pieno e definitivo compimento delle promesse. È un cammino inarrestabile che troverà la sua meta nell’Eternità. Dio dunque, con continui rilanci, sta conducendo lentamente l’umanità verso di Sè, passando dalla storia alla Metastoria, dove ogni promessa troverà il suo pieno e definitivo appagamento e avrà la sua caparra nel Risorto.

     

    Anche il Tempio di Salomone e lo splendore della sua gloria non erano le realtà definitive pensate e volute da Dio, ma solo un passaggio intermedio verso altre realtà contenute implicitamente nelle precedenti … e così in un continuo cammino di rilancio verso il loro compimento definitivo. Il tempio e la gloria di Salomone, infatti, trovarono la loro fine nella distruzione del Regno di Giuda ad opera di Tiglat Pialzar III e di Salmanassar II (597-582 a.C.) e il conseguente esilio babilonese di Israele (597-538 a.C.). Tutto sembrava perduto e ogni promessa di Jhwh caduta nel nulla. Ma la storia della Salvezza, che è il cammino del compiersi della Promessa, riprende nella grandiosa visione che Ezechiele ha circa il Nuovo Tempio, la cui descrizione occuperà ben nove capitoli del suo Libro (Ez 40-48): “Al principio dell’anno venticinquesimo della nostra deportazione, il dieci del mese, quattordici anni da quando era stata presa la città, in quel medesimo giorno, la mano del Signore fu sopra di me ed egli mi condusse là. In visione divina mi condusse nella terra d’Israele e mi pose sopra un monte altissimo sul quale sembrava costruita una città, dal lato di mezzogiorno. Quell’uomo mi disse: “Figlio dell’uomo: osserva e ascolta attentamente e fa attenzione a quanto io sto per mostrarti, perché tu sei stato condotto qui perché io te lo mostri e tu manifesti alla casa d’Israele quello che avrai visto”. Ed ecco il tempio … ” (Ez 40, 1-5a). è una visione dal forte sapore escatologico in cui vengono rianimate e proiettate in avanti le attese e le speranze di un popolo in esilio. È la visione di una città nuova dove viene collocato un Tempio nuovo in cui Dio farà abitare nuovamente la sua Gloria (Ez 43, 4-5). In esso viene posto un altare per il quale vengono dettate delle nuove regole per i sacrifici (Ez 43, 18-27) e nuove disposizioni per accostarsi ed entrare nel Tempio (Ez 44, 6-31), riempito della Gloria di Dio (Ez 44,4). A questa visione del Nuovo Tempio viene associata un’altra grandiosa visione dai forti toni escatologici: quella delle ossa aride, metafora di un popolo distrutto dal peccato, ma rigenerato dalla Parola potente di Jhwh[11] (Ez 37,1-14).

    Questa grandiosa visione di Ezechiele non trovò pieno riscontro storico, ma avrà il suo compimento nei nuovi eventi che si produrranno con la venuta di Cristo, venuto non per abolire la Legge e i Profeti, ma per darne compimento (Mt 5,17). Tutta la storia parla per simboli e metafore e ogni realtà ne richiama altre ancora e così di seguito fino al loro pieno svelarsi e al loro pieno compiersi di tempo in tempo fino alla pienezza dei tempi, quando la storia confluirà nell’oceano dell’Eternità. Questo modo di procedere delle cose e la loro parziale e imperfetta comprensione nel loro quotidiano accadere vengono ricordati anche da Paolo nella sua prima lettera ai Corinti: “Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto” (1Cor 13,12). Soltanto lo srotolarsi della storia e il suo lento compiersi rivela il vero senso delle cose e ci chiede una nuova e una continua rinnovata capacità di lettura delle stesse. La questione si impose alle prime comunità credenti, le quali in una ricerca attenta rivisitarono le Scritture alla luce del Cristo risorto[12] e la storia di Israele e le sue vicende acquistarono pienezza di significato e di senso.

     

    In questa prospettiva si colloca anche la rilettura del significato teologico del tempio e vedremo come la sua storia fu di fatto un annuncio di un altro Tempio, di un altro sacrificio, di un’altra vittima, di un altro sacerdozio, di un diverso culto, che trova il suo svelamento e il suo compimento in Cristo.

     

    Riepilogando quanto fin qui detto, abbiamo visto come il primo tempio fu una realtà strettamente legata ad una elezione e ad un’alleanza; il progetto di questo tempio fu pensato da Dio e affidato per la sua realizzazione agli uomini, instaurando in tal modo una fattiva collaborazione divino-umana nel compiersi della storia della salvezza; fu il luogo in cui dimorava la gloria di Dio, la gloria della sua presenza, la Shekinah; fu dapprima una tenda posta in mezzo al popolo e si muoveva con lui, scandendone i ritmi e i tempi del suo peregrinare verso la terra promessa; esso fu legato ad una “discendenza” e con Ezechiele divenne il segno primario di un radicale rinnovamento dell’uomo e del culto a Dio.

    Questi tratti essenziali trovano il loro compimento nella persona stessa di Cristo così che il Tempio ebraico divenne figura e preannuncio di un altro Tempio[13], nel quale trova il suo senso e il suo significato compiuti. Ma anche il Tempio-Cristo si dilata e si estende nella comunità e in ogni singolo credente, così che la comunità credente e ogni suo singolo componente, ognuno a modo proprio, sono tempio di Dio. La storia della salvezza infatti si muove attraverso un processo evolutivo e selettivo[14] che va dal meno verso il più, dal singolo verso il collettivo e dal collettivo all’universale fino ad un suo compiersi pieno e definitivo[15]. Soltanto allora il progetto pensato dal Padre e attuato nel Figlio per mezzo della potenza dello Spirito si svelerà pienamente e definitivamente in tutta la sua compiutezza.

     

    Ed ecco che l’autore della Lettera agli Ebrei vede nel Cristo risorto non solo il vero ministro di un unico e nuovo culto irrepetibile[16], ma anche la vera tenda, più grande e più perfetta, costruita dal Signore e non per mezzo di un uomo (Eb 8,2; 9,11), di cui figura fu la prima tenda mosaica (Eb 8,5). Gesù stesso interpreterà il suo corpo come il vero tempio: “Rispose loro Gesù: <<Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere>>. Gli dissero allora i Giudei: “Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?”. Ma egli parlava del tempio del suo corpo.” (Gv 2,19-21).

    In questo nuovo Tempio, concepito per opera dello Spirito Santo (Mt 1,18.20; Lc 1,35), dimora la Shekinah, la gloria stessa di Dio che Giovanni contempla nel suo vangelo: “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio … E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità.” (Gv 1,1-2.14).

     

    Ma se Cristo è il nuovo Tempio del Padre, dove abita la sua presenza gloriosa, anche il credente, in quanto tale, per stessa definizione di Gesù, diventa Tempio di Dio e sua dimora in mezzo agli uomini: “Gli rispose Gesù: <<Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. …>> (Gv 14,23). Non si tratta tuttavia di una semplice abitazione, ma di una vera e propria sacramentalizzazione del credente, assimilato a Cristo-Tempio: “Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.” (Mt 25,40.45). Gesù non dice “è come se l’aveste fatta a me”, ma “l’avete fatta a me”, stabilendo in tal modo un profondo legame diretto tra il credente e se stesso, così che il credente e con lui ogni uomo diventano sacramenti viventi di Cristo. Paolo ricorderà questa dimora-identità tra credente e Cristo: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me …” (Gal 2,20a), una identità che lo lega intimamente e profondamente al mistero della sua morte e risurrezione e ne fa una nuova creatura (Rm 6, 3-6; 2Cor 5,17) e un sol corpo con lui e in lui (Rm 12,5; 1Cor 12,27).

     

    Il credente pertanto, intimamente e profondamente unito a Cristo-Tempio e dimora vivente della gloria di Dio, è egli stesso con il suo corpo Tempio e luogo della dimora gloriosa di Dio: “O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!” (1Cor 6,19-20). Il corpo pertanto non è più nostro, ma appartiene al Signore e a lui è consacrato nel battesimo, così Paolo può dire che “il corpo poi non è per l’impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo.” (1Cor 6,13b). Per questo Paolo esorta la comunità di Roma affinché “Non regni più dunque il peccato nel vostro corpo mortale, sì da sottomettervi ai suoi desideri; non offrite le vostre membra come strumenti di ingiustizia al peccato, ma offrite voi stessi a Dio come vivi, tornati dai morti e le vostre membra come strumenti di giustizia per Dio.” (Rm 6,12-13).

    Vi è dunque una profonda e intima compenetrazione tra Cristo e il credente, così che i due sono una cosa sola e si appartengono vicendevolmente.

     

    Questa corporeità che lega il credente a Cristo è la stessa corporeità che lega tutti i credenti tra di loro così da formare una sola cosa in Cristo: “Non c’è più Giudeo né Greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.” (Gal 3,28). Una unità profonda e comunionale che ha la sua origine nella stessa comunione che ogni credente ha con il corpo e il sangue di Cristo: “Parlo come a persone intelligenti; giudicate voi stessi quello che dico: il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane.” (1Cor 10,15-17), così che Paolo non esita a concludere: “Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte.” (1Cor 12,27). E questo nuovo corpo, che è la comunità credente stessa radicata in Cristo, qualificata dall’unico pane, dall’unica Parola e dall’unica fede nell’unico Cristo, è il nuovo tempio in cui Dio abita in mezzo agli uomini e cammina in mezzo ad essi: “Noi siamo infatti il tempio del Dio vivente, come Dio stesso ha detto: Abiterò in mezzo a loro e con loro camminerò e sarò il loro Dio, ed essi saranno il mio popolo” (2Cor 6,16b) e ogni membro è pietra viva chiamato ad edificare questo Tempio vivente, che è Cristo stesso, nel quale ogni credente esercita un sacerdozio santo, partecipe di quello unico di Cristo: ” … anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo” (1Pt 2,5), un edificio spirituale, una dimora per Dio, un tempio che cresce ben ordinato in Cristo e che ha come pietra angolare Cristo stesso: ” … edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito” (Ef 2,20-22).

     

    I credenti, pertanto, sono costituiti in Cristo pietre viventi, il cui compito è edificare e far crescere in Cristo quell’edificio spirituale che è la Chiesa, in conformità al compito che la vita ha loro assegnato; ma nel contempo essi si qualificano come membra viventi di Cristo e in lui e con lui formano un solo corpo: “Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri” (Rm 12,4-5). Ma non tutte le membra sono uguali, vi sono anche quelle che abbisognano di una maggiore attenzione, così che Dio “ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui.” (1Cor 12,24b-26).

     

    Questa profonda unità comunionale che ci lega tutti nell’unico Cristo, facendoci uno in lui (Gal 3,28), ci spinge dunque ad aver cura gli uni degli altri soprattutto di quelle membra che soffrono e che sono chiamate a vivere e a completare in se stesse la passione di Cristo sofferente: “Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa.” (Col 1,24). Una sofferenza pertanto che non è vana o punitiva, ma vissuta in Cristo diventa fonte di redenzione e salvezza per l’intera Chiesa e occasione di umile e servizievole condivisione per le altre membra: “Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi.” (Rm 12,15-16).

     

    Ed è proprio in questo nuovo Tempio spirituale, che è lo stesso corpo di Cristo, di cui noi siamo membra viventi e a nostra volta tempio e dimora di Dio, che si celebra sull’altare della vita il sacrificio santo e gradito a Dio del nostro vivere, gioire e soffrire quotidiani, trasformando in tal modo la nostra vita in un atto di culto e in una perenne liturgia di lode e di ringraziamento.

     

    L’Altare

     

    Se il tempio è il luogo in cui Dio colloca la sua presenza in mezzo agli uomini, cammina con loro verso il compimento delle sue Promesse, che trovano il loro punto culminante, ma non definitivo, nell’incarnazione, passione, morte e risurrezione del Figlio; se il tempio è il luogo d’incontro tra Dio e gli uomini e figura di un altro tempio più perfetto (Eb 9,11), il Cristo, spazio d’incontro e di riconciliazione definitiva tra il Padre e i suoi figli (Ef 1,4-5), l’altare è il cuore stesso del tempio.

     

    Benché l’altare sia strettamente connesso al tempio, diventandone il punto focale verso cui tutto converge, tuttavia esso nell’A.T. ha avuto un’origine completamente indipendente. La prima volta che il termine appare è in Gen. 8,20 allorché “Noè edificò un altare al Signore; prese ogni sorta di animali mondi e di uccelli mondi e offrì olocausti sull’altare”. Ma altrove nell’A.T. vediamo come l’altare è soltanto una sorta di piccolo monumento costruito con terra o con roccia grezza non lavorata, un grosso sasso o più semplicemente una sorta di stele la cui funzione era prevalentemente commemorativa dell’incontro tra Dio e Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè[17]. L’altare e il luogo in cui veniva eretto portavano il nome che qualificava l’incontro tra il Patriarca e Jhwh (Gen 33,20; 35,7; Es 17,15). Gli altari in epoca patriarcale dunque erano la testimonianza di relazioni privilegiate che Dio teneva con i suoi eletti, attraverso i quali stavano compiendosi le Promesse. Proprio lì Dio si è rivelato e si è fatto conoscere. Questi luoghi divennero successivamente luoghi di culto e vi si costruirono dei santuari. Anzi l’altare in sé, in epoca patriarcale, era sufficiente per stabilire la fondazione di un santuario[18]. L’altare pertanto è un elemento fondativo del tempio che ne giustifica l’esistenza. Il tempio c’è perché c’è l’altare che attesta l’incontro di Dio con l’uomo.

     

    Già da questi brevi accenni si può intuire come l’altare non fosse una semplice costruzione di arredo del tempio o un mero luogo dove compiere dei sacrifici e quindi strumentale e funzionale ad essi, anche se ciò non deve essere escluso, ma esso in sé e per sé è giustificativo della costruzione di un tempio e ne è il punto fondamentale. L’altare inoltre è il segno dell’incontro dell’uomo con il mondo del divino, è una sorta di punto di contatto tra cielo e terra, in cui cielo e terra convergono e si ritrovano. L’altare pertanto assume anche una valenza cosmica[19] e crea attorno a sé un’alea di sacralità e di santificazione che attrae l’uomo nella dimensione divina: “Per sette giorni farai il sacrificio espiatorio per l’altare e lo consacrerai. Diverrà allora una cosa santissima e quanto toccherà l’altare sarà santo” (Es 29,37). Proprio questo particolare aspetto consacratorio dell’altare sarà ricordato anche da Gesù nella sua dura requisitoria contro gli Scribi e i Farisei: “E dite ancora: Se si giura per l’altare non vale, ma se si giura per l’offerta che vi sta sopra, si resta obbligati. Ciechi! Che cosa è più grande, l’offerta o l’altare che rende sacra l’offerta?” (Mt 23,18-19).

     

    L’altare in Israele era caratterizzato da quattro corni posti ai quattro angoli dello stesso, la cui origine era fatta risalire a Jhwh stesso, che ne dettò le regole e le misure (Es 27,1-8). Presso i popoli antichi il corno era simbolo di potenza ed esprimeva talvolta il terrore che circondava il mondo soprannaturale. Esso veniva spesso legato alla divinità ed era espressione della sua onnipotenza. Parimenti anche nell’A.T. il corno era simbolo della potenza, della forza e del potere[20]. L’altare così avvolto da quattro corni posti alle quattro estremità indicavano come questo altare fosse un luogo privilegiato dove dimora la pienezza[21] della potenza divina. Da essi infatti, spalmati di sangue della vittima, promanava il perdono dei peccati (Es 30,10; Lv 16,18). A chi inoltre, perseguitato, afferrava uno dei quattro corni dell’altare veniva garantito il diritto d’asilo poiché egli si poneva sotto la diretta tutela di Dio, escluso il caso di omicidio volontario,[22]. Contro i misfatti d’Israele Dio spezzerà i corni dell’altare di Betel (Am 3,14) per indicare come non ci sia più perdono e salvezza per il popolo, in quanto Jhwh toglierà la sua presenza in mezzo ad esso.

    L’altare pertanto, rivestito dei quattro corni, era la porta per poter raggiungere Dio e attraverso il quale promanava un flusso salvifico che investiva l’uomo e lo avvolgeva della sacralità stessa di Dio. L’altare pertanto potremmo definirlo come la porta di entrata del cielo che Dio ha aperto all’uomo, perché proprio attraverso di essa egli potesse accedere alla stessa dimensione divina. Di conseguenza esso diventa il luogo della mediazione tra Dio e gli uomini, il luogo del passaggio, della comunicazione e ancor più della comunione con il divino. Infatti chi mangia dell’altare entra in comunione con questo e con quanto esso rappresenta: “… il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane. Guardate

     Israele secondo la carne: quelli che mangiano le vittime sacrificali non sono forse in comunione con l’altare?” (1Cor 10,16-18). In tal modo l’altare diventa elemento di unificazione comunionale, che già nell’antichità fu prefigurato in qualche modo: “Elia disse a tutto il popolo: “Avvicinatevi!”. Tutti si avvicinarono. Si sistemò di nuovo l’altare del Signore che era stato demolito. Elia prese dodici pietre, secondo il numero delle tribù dei discendenti di Giacobbe, al quale il Signore aveva detto: “Israele sarà il tuo nome”. Con le pietre eresse un altare al Signore; …” (1Re 18,30-32a).

    Su questo spazio sacro, su questo punto di contatto tra cielo e terra, l’uomo ha imparato a deporre le primizie del suo lavoro, che consumate dal fuoco venivano sottratte al suo potere e in tal modo donate a Dio, che risponde con le sue benedizioni e il suo perdono (Es 20,24).

     

    In una comprensione più ampia e più vicina al nostro quotidiano vivere e soffrire viene spontanea la domanda su quanti altari è posta la nostra vita sui quali essa è chiamata a spendersi quale sacrificio di soave odore a Dio. Certo il duro impegno della famiglia e del lavoro, che spesso si fa sofferenza e dolore, gioia e speranza; ma tra tutti un posto privilegiato va riservato al letto della sofferenza sul quale l’ammalato viene consumato, quale olocausto, dalla malattia che non gli lascia speranza o che lo accompagna per lunghi tratti della sua vita, associandolo in tal modo alle sofferenze di Cristo, completando con le proprie quello che manca al suo patire redentivo (Col 1,24). Ecco che allora la malattia diventa motivo di comunione con Dio per mezzo del suo Cristo, mentre il letto della sofferenza diventa, come l’altare, il luogo della privilegiata presenza di Dio in mezzo ai suoi, nuovo punto di contatto e di mediazione tra il cielo e la terra. In questa prospettiva il letto del dolore, così come la croce lo fu per Cristo, diventa il luogo sacro in cui si compie il sacrificio del proprio vivere sofferente ma redentivo, il luogo in cui si celebra l’olocausto della propria malattia, così che l’ammalato diviene vittima e sacerdote offerente di se stesso a Dio.

     

    Il Sacrificio e la Vittima

     

    Il termine altare in ebraico è reso con l’espressione mizbeah che corrisponde al luogo dove viene uccisa la vittima sacrificale (zabah = uccidere a scopo sacrificale)[23] e trova il suo corrispondente nella traduzione greca dei LXX in qusiast»rion (tzisiatérion) strettamente legato al verbo corrispondente qusiazw (tzisiazo) che significa “offrire in sacrificio”. L’altare pertanto è posto in una stretta correlazione con l’azione del sacrificare; quindi “vi è un rapporto necessario fra il sacrificio e l’altare, il quale è segno o ricordo di una presenza di Dio e strumento di mediazione tra Dio e l’uomo”, come afferma il De Vaux[24]. Non si può dunque parlare di altare eludendo la vittima che su di esso si pone e il sacrificio che vi si compie.

    Vediamo pertanto da vicino la dinamica intrinseca del sacrificio, al cui base ci si stanno due elementi fondamentali: a) il riconoscimento da parte dell’uomo del proprio limite e, come contropartita, b) il riconoscimento dell’onnipotenza e della trascendenza di un Essere che si sente superiore a se stessi e verso il quale ci si rivolge attraverso il rituale del sacrificio stesso.

     

    Tale riconoscimento per mezzo dell’azione sacrificale si esprimeva ponendo sull’altare le primizie dei frutti della terra e del proprio lavoro[25] e quelle della vita, sia i primogeniti maschi degli animali che degli uomini, che poi venivano riscattati, poiché ogni primizia appartiene al Signore[26].

    La finalità primaria del sacrificio era quella di ingraziarsi in qualche modo la divinità sottomettendosi ad essa, compensando in tal modo le proprie fragilità e invocando la sua benedizione, che si esprimeva nella fecondità del lavoro e della vita. C’è dunque in ogni sacrificio una sorta di “do ut des”, una sorta di scambio di doni. Il sacrificio pertanto diviene l’espressione di un riconoscimento che ogni bene proviene da Dio e a Lui va restituito attraverso il sacrificio. La distruzione della vittima non è mai fine a se stessa, ma garantisce la totale consacrazione dell’oggetto o animale sacrificato a Dio, sottraendolo in tal modo alla disponibilità e all’uso profano che l’uomo può farne. In tal modo l’uomo riconosce che tutto appartiene a Dio, la terra e tutto ciò che essa produce, e a Lui si riconosce appartenente, sua proprietà[27]. Il sacrificio pertanto è anche una sorta di atto consacratorio. In esso pertanto l’uomo perde qualcosa di sé, ma guadagna molto di più in benevolenza divina, che è salvifica. Ogni sacrificio quindi riveste il carattere di dono ed è nel contempo un atto di consacrazione sia della terra che dell’uomo. Il termine sacrificio (sacrum facere) infatti esprime in se stesso il compiersi di un’azione sacra e consacratoria, poiché essa ha attinenza con il mondo divino. Non a caso la consacrazione di un oggetto o di una persona a Dio è considerata come una forma di sacrificio sublimato, poiché essi vengono in qualche modo sottratti alla disponibilità umana e con ciò stesso entrano a far parte dell’alea divina e sono resi santi[28].

     

    Il sacrificio contiene in se stesso anche una valenza espiatoria sostitutiva dell’uomo (Lv 4,1-35). La vittima destinata al sacrificio veniva caricata del peccato attraverso l’imposizione delle mani (Lv 4,4.15.24.29); in tal modo il peccato veniva distrutto e la redenzione del peccatore avveniva attraverso l’aspersione del sangue[29] “Poiché la vita della carne è nel sangue. Perciò vi ho concesso di porlo sull’altare in espiazione per le vostre vite; perché il sangue espia, in quanto è la vita.” (Lv 17,11). Ed è proprio attraverso questo sangue-vita offerto al Signore che l’uomo ritornava ad essere proprietà del suo Dio, a Lui consacrato e riservato, e la vita divina tornava a fluire in lui. Vi era nel sangue una sorta di rigenerazione dell’uomo peccatore. In tal modo l’uomo peccatore-redento rientrava in comunione con Jhwh. La religione infatti non è un vago sentimento, ma coinvolge l’uomo nel profondo della sua vita, ad ogni livello del suo vivere. Tale comunione con il mondo divino viene sancita in Israele attraverso l’Alleanza (Es 19,5-6) che lo compenetra in ogni sua espressione esistenziale, mentre ritualmente essa si esprime attraverso il sacrificio di comunione. Esso si compiva con il sacrificare un animale di cui una parte veniva offerta a Jhwh, una parte era riservata al sacerdote e una terza parte era consumata dall’offerente con la sua famiglia o amici. Questa condivisione tra Jhwh, il sacerdote e l’offerente dell’unica vittima esprimeva la comunione sacra con Dio. Paolo nella sua prima lettera ai Corinti ricorderà proprio questo particolare: ” … il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane. Guardate Israele secondo la carne: quelli che mangiano le vittime sacrificali non sono forse in comunione con l’altare?” (1Cor 10,16-18). In tal modo questo sacro pasto comune rafforzava la comunione non solo all’interno dei membri della comunità dell’Alleanza, ma anche tra questi e Jhwh.

     

    Ma già nell’A.T. vediamo come si faccia strada un nuovo concetto di sacrificio che supera gli stretti e comodi spazi della vittima animale sacrificata sull’altare. Certo l’animale sacrificato a Jhwh e la sua funzione vicaria rimangono centrali in tutto l’A.T. , ma sono insufficienti per riscattare l’uomo che in tale sacrificio deve essere coinvolto esistenzialmente. Contro il sacrificio facile che proviene da una vita vissuta in dissonanza dalla Torah intervengono duramente i profeti: “Udite la parola del Signore, voi capi di Sòdoma; ascoltate la dottrina del nostro Dio, popolo di Gomorra! <<Che m’importa dei vostri sacrifici senza numero?>> dice il Signore. <<Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di giovenchi; il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. Quando venite a presentarvi a me, chi richiede da voi che veniate a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso; sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue” (Is 1,10-15). In tal modo ogni oblazione e ogni sacrificio diventa insufficiente per riscattare l’iniquità dell’uomo: “Per questo io giuro contro la casa di Eli: non sarà mai espiata l’iniquità della casa di Eli né con i sacrifici né con le offerte!” (1Sam 3,14). Il primo atto di culto e di redenzione parte e si compie nel cuore stesso dell’uomo, da qui nasce il vero sacrificio di perdono e di redenzione, soltanto allora anche il sacrificio comandato dalla Torah acquista il suo più vero significato: “Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode; poiché non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi. Nel tuo amore fa grazia a Sion, rialza le mura di Gerusalemme. Allora gradirai i sacrifici prescritti, l’olocausto e l’intera oblazione, allora immoleranno vittime sopra il tuo altare.” (Sal 50, 17-21). Anche la preghiera diventa allora una nuova forma di sacrificio a Dio: “Come incenso salga a te la mia preghiera, le mie mani alzate come sacrificio della sera” (Sal 140,2)

     

    Ma sarà soltanto nel N.T. che il concetto di sacrificio subirà una svolta radicale e acquisirà il suo significato più vero. Esso cambia di prospettiva e si spiritualizza coinvolgendo direttamente il vivere dell’uomo. Benché ancora ai tempi di Gesù si compissero i sacrifici come nell’A.T. e nel rispetto delle regole della Torah[30], tuttavia già si faceva strada una diversa concezione del sacrificio aprendo nuove prospettive al culto divino. Sarà proprio l’avvento del cristianesimo e la distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. e definitivamente nel 135 d.C. che orienteranno sia i giudeo-cristiani che gli stessi giudei verso un concetto nuovo di sacrificio. Per i rabbini di Jamnia[31] con la perdita del Tempio lo studio della Torah diventerà il vero e unico sacrificio gradito a Dio, mentre il cristianesimo cambierà radicalmente il modo di intendere il sacrificio: l’unica vera vittima sacrificata in modo cruento, da cui è sgorgato il perdono dei peccati e la purificazione redentiva dell’uomo riconciliato nuovamente e definitivamente con Dio, è Cristo, nel quale non vi è più nessuna condanna per il credente (Rm 8,1). Cristo pertanto diventa l’unica vera vittima che sostituisce tutti sacrifici del passato (Eb 9,11-14), che altro non erano che una figura della nuova realtà e del nuovo culto (Col 2,16-17; Eb 8,4-5; 10,1) che nella morte di Gesù è stato inaugurato e si è costituito. Da questo momento ogni credente per mezzo della fede e del battesimo diventa partecipe della morte di Gesù in cui è racchiusa la promessa di risurrezione (Rm 6,3-6). Paolo nella sua Lettera ai Galati sintetizza la centralità del sacrificio donativo di Cristo che si compie nella sua vita e a cui egli è stato associato per mezzo della fede in lui: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20), così che anche la sua vita diventa un atto di culto in cui si celebra l’immolazione di se stesso per il Vangelo: “E anche se il mio sangue deve essere versato in libagione sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, sono contento, e ne godo con tutti voi.” (Fil 2,17)[32]. Non solo, ma anche gli stessi doni offerti a Paolo, prigioniero probabilmente ad Efeso, dai Filippesi diventano un atto cultuale dal soave odore e un sacrificio gradito a Dio: “Adesso ho il necessario e anche il superfluo; sono ricolmo dei vostri doni ricevuti da Epafrodìto, che sono un profumo di soave odore, un sacrificio accetto e gradito a Dio” (Fil 4,18). Tutta la vita del credente pertanto nel suo poliedrico esprimersi quotidiano è atto di culto, azione sacrificale, celebrazione liturgica in Cristo, per Cristo e con Cristo, da cui sgorga la lode perenne a Dio che è Padre di tutti.

     

    Tutto ciò è reso possibile perché una è la vittima e unico è il sacrificio compiuto una volta per tutte[33] a cui tutti i credenti attingono e al quale sono assimilati e conformati in virtù della loro fede e del loro battesimo, così che il loro stesso vivere diventa un celebrare tale sacrificio con azione sacerdotale: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1). Ogni credente quindi consociato e compartecipe di Cristo-vittima-sacrificale, che si è offerto al Padre in sacrificio di soave odore (Ef 5,2), diviene per la sua stessa natura di credente in Cristo anch’egli vittima offerta al Padre in un sacrificio di lode e di ringraziamento, trasformando il suo vivere quotidiano in un vero e proprio atto di culto a Dio.

     

    Ma se è vero che ogni credente per sua natura è associato e assimilato al Cristo morto-risorto[34] ed è chiamato a vivere nella propria vita, con fedeltà alla Parola, la passione e morte del suo Signore, a maggior ragione il sofferente, il quale è visibilmente chiamato a vivere in modo tangibile nella propria carne il sacrificio redentivo di Gesù. Egli sull’altare del proprio letto con-vive lo stesso sacrificio del suo Maestro sull’altare della croce e completa nella sua carne i patimenti redentivi di Cristo (Col 1,24). Posto in questa prospettiva il sofferente non è più lui che vive, ma Cristo vive in lui la sua passione e morte, lo vive nella sua passione e nella sua morte. In tal modo l’ammalato non è più soltanto vittima di un destino crudele e di una sorte ingiusta che gli si accanisce contro, ma diventa con-vittima assieme a Cristo, collaborando con lui alla redenzione dell’umanità e del creato perpetuando nella sua carne e nel tempo gli effetti rigenerativi della passione e morte di Cristo. In questa prospettiva la vittima-sofferente non è più espressione di un inutile patire e morire, ma diventa promessa di riscatto e preludio di rigenerazione a nuova vita, che proprio attraverso di lui si sta concretamente compiendo: “Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” (Rm 8,22-23). La sofferenza quindi diventa una sorta di passaggio obbligato verso la nuova creazione: “Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,26) di conseguenza Paolo ricorda che “se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria” (Rm 8,17b). La sofferenza pertanto se da un lato esprime tutta la caducità di una natura sconfitta dal peccato, dall’altro essa è il preludio di una nuova vita, così che Paolo ritiene “che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8,17a).

    La sofferenza pertanto caratterizza la vittima come momento di passaggio verso la nuova creazione ed è proprio con il consumarsi della vittima attraverso la sofferenza che viene generata una nuova dimensione dove avrà stabile dimora l’uomo redento nel Cristo morto-risorto. La vittima pertanto diviene un punto di congiunzione tra la terra e il cielo e si configura come una forte spinta evolutiva verso quei cieli nuovi e terra nuova contemplati da Giovanni nell’Apocalisse (21,1). In tal modo la vittima consumata sull’altare del suo letto attraverso il fuoco della sofferenza diventa preparatoria e annunciatrice di una nuova realtà dove Dio “tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate>>. E Colui che sedeva sul trono disse: <<Ecco, io faccio nuove tutte le cose>>; e soggiunse: <<Scrivi, perché queste parole sono certe e veraci” (Ap 21,4-5).

     

    Il Sacerdozio

     

    Strettamente uniti al concetto di Tempio, Altare e Vittima sono quelli di Sacerdozio e Diaconia. Due aspetti delle realtà spirituali questi ultimi che sono inscindibilmente legati tra loro. Non si può concepire un sacerdozio che non si fa diaconia, ne una diaconia che non si esprima nel sacerdozio. Entrambi appartengono alla medesima realtà divina del sacrificio. Lo stesso Gesù giovanneo nella lavanda dei piedi (Gv 13,4-16), che si pone a poche ore dalla sua passione e morte, fornisce in questa la chiave di lettura e il significato più vero e profondo del suo sacrificio: esso si pone in mezzo agli uomini non soltanto come la divina azione purificatrice del peccato (Gv 1,29), ma anche come un servizio di redenzione e di riscatto che il Padre offre all’uomo per mezzo di suo Figlio. Ed è proprio in quell’umile azione del lavare i piedi che Gesù mostra tutta l’immagine dell’amore del Padre, di quel Dio che si china e si inginocchia davanti alla sua creatura per purificarla dalla colpa e attrarla definitivamente nella sua dimensione. Gesù stesso in proposito ricorderà il senso della sua missione: “Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mt 20,28; Mc 10,45), mentre Paolo in Fil 2,6-8 delinea lo svuotamento[35] della gloria di Dio nel Figlio fino a toccare gli estremi più bassi dell’esistenza umana, assumendo la condizione di servo. Al di sotto dell’intera azione redentrice di Gesù ci sta dunque un atteggiamento di servizio speso a favore dell’uomo e sotteso da un comportamento totalmente donativo che ha fatto della vita di Gesù una pro-esistenza. Su questi fondamenti la Lettera agli Ebrei elaborerà il Sacerdozio di Cristo, punto culminante e definitivo di un cammino che prende le sue origini da lontano.

     

    Il sacerdozio[36] in epoca patriarcale non era ancora conosciuto. Gli atti di culto erano compiuti dal capofamiglia e quando la Genesi parla di sacerdoti, questi si riferiscono a quelli egiziani o a Melchisedek, re di Salem[37]. Il sacerdozio compare soltanto in uno stadio più avanzato dell’organizzazione della società, quando le comunità destinano alcuni loro membri alla custodia dei santuari e alla celebrazione dei riti.

     

    Il termine con cui in Israele vengono definiti i sacerdoti è quello di kohen, espressione generica con cui si indicavano anche i sacerdoti di altre religioni. L’etimologia del termine è sconosciuta; alcuni la fanno derivare dal verbo accadico kànu, che significa inchinarsi o rendere omaggio; altri lo ritengono derivante dall’ebraico kùn , stare dritto in piedi, per cui il sacerdote è colui che sta diritto davanti a Dio. Nella LXX il termine kohen è stato tradotto con hiereùs, espressione questa che ha la sua radice in hieròs, che significa sacro, per cui il sacerdote è colui che è addetto al sacro e che entra in contatto e in comunione con la sacralità del mondo divino. Da qui il nostro termine italiano di sacerdote, da sacrum donare, per cui il sacerdote è colui che dona il sacro.

    Gia da questa breve carrellata di termini si rileva come fin dall’antichità il sacerdote, per sua stessa natura, è colui che ha una stretta attinenza con il mondo divino e a questo egli è dedicato e riservato.

     

    Il sacerdozio in Israele non ha un’origine vocazionale, come poteva essere quella del re o del profeta, ma di semplice appartenenza tribale. Il sacerdozio infatti nei suoi inizi è una funzione prevalentemente di servizio, una sorta di incarico che Jhwh aveva riservato alla tribù di Levi (Dt 10,8-9; 21,5). Ciò tuttavia non comporta alcun carisma o consacrazione e tanto meno comportava una sorta di ordinazione particolare, ma era sufficiente appartenere alla stirpe sacerdotale. La nomina del sacerdote avveniva attraverso il rito del millu’im o rito del riempimento delle mani, così definito perché al prescelto venivano poste nelle mani le materie proprie dell’offerta e del sacrificio[38]. I sacerdoti quindi esercitavano senza che venisse loro conferito un potere speciale o una qualche grazia particolare; tuttavia il sacerdote, proprio in virtù del suo incarico, che lo poneva in diretto contatto con il mondo divino, era considerato santificato. Significativo in tal senso era quanto il sommo sacerdote portava sul suo turbante: una lamina d’oro con inciso sopra l’espressione “Consacrato del Signore” (Es 28,36), che qualificava il sacerdote come colui che è stato “messo a parte” all’interno della comunità per essere riservato esclusivamente a Jhwh. In tal modo il sacerdote può muoversi liberamente all’interno del mondo del divino senza incorrere in castighi od essere punito con la morte. Proprio per questo egli è stato separato dal resto del popolo e dal mondo per evitare ogni contaminazione e potersi così accostare a Dio; ma doveva per questo osservare tutta una particolare ritualità di purificazione ed era soggetto a determinate limitazioni e a certe regole di purità (Lv 21,1-24).

     

    Il sacerdote è scelto per il servizio al Santuario, per cui vi è un forte legame tra Sacerdozio e Tempio. Nella peregrinazione nel deserto i sacerdoti erano addetti al trasporto delle cose sacre e della Tenda e giunti nella Terra Promessa il loro territorio si estendeva tutto intorno al Tempio (Ez 45,3-5). Il sacerdozio in Israele era pertanto in funzione del Tempio e del culto che in esso vi si compiva, per questo dopo la sua distruzione nel 70 d.C. il sacerdozio decadrà definitivamente.

     

    I compiti del sacerdozio israelitico sono designati sinteticamente nel Libro del Deuteronomio, là dove prima di morire Mosè benedice il popolo (Dt 33,1): “Per Levi disse: <<Dá a Levi i tuoi Tummim e i tuoi Urim all’uomo a te fedele, che hai messo alla prova a Massa, per cui hai litigato presso le acque di Mèriba; a lui che dice del padre e della madre: Io non li ho visti; che non riconosce i suoi fratelli e ignora i suoi figli. Essi osservarono la tua parola e custodiscono la tua alleanza; insegnano i tuoi decreti a Giacobbe e la tua legge a Israele; pongono l’incenso sotto le tue narici e un sacrificio sul tuo altare.” (Dt 33,8-10). Tre dunque erano nell’antico sacerdozio i compiti: la divinazione attraverso i Tummim e gli Urim[39], oggetti che venivano consegnati al sacerdote al momento della sua investitura. Con questi il sacerdote tirava la sorte su una questione o su di una domanda poste dal fedele, il risultato costituiva la risposta divina al problema[40]. Questa funzione divinatoria tuttavia non era esclusiva del sacerdozio israelitico, ma era diffusa nell’antichità.

    Il secondo compito menzionato è l’insegnamento. Il compito dei sacerdoti era quello di insegnare i precetti del Signore, inizialmente in modo occasionale[41], poi si dedicarono alla trasmissione degli insegnamenti divini e ne furono i depositari (Dt 31,9). Significativo in tal senso è quanto afferma Malachia: “Infatti le labbra del sacerdote devono custodire la scienza e dalla sua bocca si ricerca l’istruzione, perché egli è messaggero del Signore degli Eserciti.” (Ml 2,7). Proprio per la loro conoscenza della legge, i sacerdoti svolgevano anche una sorta di funzione giudiziaria o forse è meglio definirla sentenziaria (Dt 21,5). Ma la funzione dell’insegnamento sacerdotale cadde ben presto in disuso e i sacerdoti furono sostituiti dagli scribi o dottori della legge.

    Il terzo elemento riguarda il culto sacrificale. Il Libro del Levitico nei capp. 1-7 fornisce istruzioni particolari circa i sacrifici che vedono sempre il sacerdote in primo piano, quale attore principale del culto.

    Delle tre funzioni assegnate da Mosè alla tribù di Levi ben presto non rimase che quella riguardante il culto; questa divenne la funzione sacra per eccellenza che contraddistingueva e caratterizzava il sacerdote. Accanto a queste funzioni ne venivano riconosciute altre ancora come quella della purità rituale e del saper discernere tra il puro e l’impuro. La partecipazione al culto richiedeva la purità rituale prevista dalla legge (Lv 11-16) e tutta una serie di regole definiva il percorso per evitare la contaminazione e se questa accadeva vi erano le norme per la purificazione. Il sacerdote aveva la responsabilità del corretto svolgimento del culto e pertanto a lui era demandato il controllo della purità rituale dei partecipanti, per garantire il buon esito del culto stesso. Tra tutte le impurità la più terribile e temibile era la lebbra, che decretava di fatto e di diritto la morte civile e religiosa dell’appestato. Era pertanto compito del sacerdozio decretare, in base a precise norme di legge (Lv 13-14) chi era o non era colpito dal male e chi ne fosse guarito e tutte le modalità di purificazione e di riammissione nella comunità.

    Altro compito proprio del sacerdote era la benedizione che egli era chiamato ad imporre sulle persone e sul popolo nel nome di Jhwh. Tuttavia va detto che la benedizione non era un’esclusiva del sacerdote, ma altre persone potevano imporre le mani benedicenti come il capofamiglia e il re sul popolo[42]. Il Libro dei Numeri prevedeva una formula di benedizione: “Il Signore aggiunse a Mosè: “Parla ad Aronne e ai suoi figli e riferisci loro: Voi benedirete così gli Israeliti; direte loro: Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace. Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò” (Nm 6, 22-27). Imporre il nome sul popolo significava costituire una sorta di relazione viva con Jhwh. Il nome infatti nell’antichità esprimeva l’essenza stessa della persona creando tra il popolo e Jhwh un flusso benefico di fecondità[43].

    Un ulteriore compito affidato ai sacerdoti era la custodia del santuario. Il sacerdote infatti era l’uomo del santuario; in esso vi poteva entrare e frequentare anche i luoghi più sacri senza incorrere in condanne. Ogni santuario aveva il suo sacerdote, che veniva incaricato appositamente per accudire a quel santuario e officiarne il culto[44]. Il sacerdote era quindi l’uomo del culto, affiliato in modo talmente stretto al Tempio, che alla sua caduta (70 d.C.) l’intera classe sacerdotale decadde totalmente.

     

    La figura del sacerdozio che la Tradizione ci ha passato è legata prevalentemente all’altare e al sacrificio (Lv 21,6). Tuttavia nell’A.T. la figura del sacerdote non fu mai legata all’atto del sacrificare la vittima, anche se egli se ne poteva far carico. A ciò era preposto l’offerente stesso o nel caso di sua impurità rituale egli era sostituito dal clero inferiore, fatto salvo per gli uccelli che dovevano essere sacrificati direttamente sull’altare[45]. Compito del sacerdote era quello di porre l’animale sacrificato sull’altare e offrirlo direttamente al Signore (Lv 1,7.15). La funzione propria del sacerdote incominciava con la manipolazione del sangue, la parte più sacra della vittima (Lv 17,11.14) e con il deporre la stessa sull’altare. In tal senso il sacerdote diviene il ministro privilegiato dell’altare, espressione questa che troverà i suoi aspetti più elevati nel cristianesimo. Questo ruolo sacerdotale si andò via via sempre più affermando nel tempo nella misura in cui venivano dismesse le sue funzioni divinatorie e di predicazione.

     

    Dalla sintetica analisi delle varie e diverse funzioni sacerdotali risalta in particolare il ruolo di mediazione del sacerdote, che si interponeva tra Dio e il popolo, ruolo che già in qualche modo era stato prefigurato in Mosè ai piedi del Sinai: “Mosè disse al Signore: <<Il popolo non può salire al monte Sinai, perché tu stesso ci hai avvertiti dicendo: Fissa un limite verso il monte e dichiaralo sacro>>. Il Signore gli disse: <<Và, scendi, poi salirai tu e Aronne con te. Ma i sacerdoti e il popolo non si precipitino per salire verso il Signore, altrimenti egli si avventerà contro di loro!>>. Mosè scese verso il popolo e parlò” (Es 19,23-25). Il sacerdote, per la sacralità della sua funzione, per la santità della sua figura e in quanto riservato esclusivamente a Dio (Es 28,36; 39,30), era colui che elevava a Dio le preghiere e le offerte del popolo e ritornava da Dio portando le benedizioni e le volontà divine al popolo e se ne faceva interprete. Egli pertanto si costituiva come il trait-d’union tra Jhwh e il suo popolo, una sorte di ponte sacro che collegava Dio all’umanità, che in lui trovavano il loro punto d’incontro. Significativo in tal senso è il passo della Lettera agli Ebrei che si riferisce proprio a questo ruolo di mediazione del sacerdozio antico: “Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. In tal modo egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anch’egli rivestito di debolezza; proprio a causa di questa anche per se stesso deve offrire sacrifici per i peccati, come lo fa per il popolo. Nessuno può attribuire a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne” (Eb 5,1-4)[46], ruolo di mediazione che poi l’autore della Lettera riferirà Cristo stesso[47].

     

    Nel corso della storia il sacerdozio si qualificò in mezzo al popolo per tre aspetti: a) il senso della sua santità per la quale furono decisivi i profeti e la riforma di Giosia; da questi uscì una nuova organizzazione del culto che metteva in rilievo la centralità di Jhwh[48]; b) l’accentramento del potere nei sacerdoti, che forti del loro ruolo esclusivo di mediazione con il mondo divino acquisirono posizioni sociali preminenti in particolar modo dopo l’esilio babilonese. Il sommo sacerdote divenne un’autorità non soltanto religiosa, ma anche politica e di guida del popolo. Sarà infatti proprio la famiglia sacerdotale degli Asmonei che guiderà la lotta contro il seleucida Antioco IV Epifane (167-164 a.C.). Gli Asmonei dopo la vittoria conservarono il potere sul popolo e il sommo sacerdozio divenne una carica politicamente appetibile e fonte di rivalità e di lotte intestine; c) l’inquinamento della sacralità del sacerdozio portò la parte più religiosa del popolo ad una sua disaffezione e ad orientarsi verso l’avvento di un nuovo sacerdozio rinnovatore. Sarà proprio questo il periodo del distacco degli esseni dal Tempio e la fondazione di una nuova comunità messianica, che alimentava le speranze nella venuta di un nuovo messia Re e Sacerdote che avrebbe ricostituito lo splendore del Regno di Israele tra i popoli e rinnovato il culto a Dio. Si apre l’era delle attese escatologiche verso la venuta di una nuova realtà in cui Dio avrebbe affermato per mezzo del suo Messia il suo Regno[49].

     

    Ci si affaccia in tal modo alle soglie del N.T. carichi di attese e di speranze[50]. La venuta di Gesù non cambierà nulla del rito antico durante la sua missione terrena e neppure immediatamente dopo la sua dipartita (At 2,42; 3,1). Egli non si dichiarò mai sacerdote, né compì atti che in qualche modo vi si potesse riferire, anzi fu proprio la classe dei sacerdoti e degli anziani a rendergli la vita difficile ed essi furono i principali fautori della sua morte[51]. La missione di Gesù fu prevalentemente profetica e come tale venne recepito dalla gente[52]. Sarà soltanto la successiva riflessione cristiana che incomincerà leggere la persona di Gesù dapprima come il messia che doveva venire[53], poi come il Signore[54]. Il tema inoltre della distruzione e della ricostruzione del Tempio e la sua identificazione con il corpo stesso di Gesù[55] occuperà una particolare attenzione, legando strettamente Gesù al Tempio, dove egli fin da subito viene offerto a Dio (Lc 2,22-24) e dove egli ritornerà ancora giovinetto tra i maestri d’Israele per ammaestrare (Lc 2,46-47). I racconti dell’ultima cena[56] sono inquadrati nell’ambito della pasqua ebraica in cui il capofamiglia celebrava la liberazione di Israele attraverso tutto un rituale particolare, che trovava il suo vertice nel sacrificio dell’agnello privo di difetti e nella sua totale consumazione (Es 12,1-6). Giovanni sensibile a questo aspetto sacrificale porrà la morte di Gesù il giorno della Parasceve, nell’ora in cui si soleva sacrificare gli agnelli pasquali (Gv 19,30-31). Lo stesso linguaggio dei vangeli, che parlano di immolare la pasqua, porta a comprendere la festività come un atto sacrificale (Mc 14,12; Lc 22,7). Va ricordato, infine, come la stessa pasqua ebraica trae le sue origini da antichi riti apotropaici legati alla vita dei nomadi, che nel momento della transumanza, tra marzo e aprile, sacrificavano gli agnelli primi nati e con il sangue dipingevano gli stipiti delle tende per ottenere protezione, fecondità e prosperità. Un rito che poi fu legato all’epopea della liberazione di Israele dalla schiavitù dell’Egitto (Es 12,1-14).

    L’ultima cena dunque si pone in una cornice squisitamente sacrificale e le stesse parole e gli stessi gesti di Gesù vanno compresi e letti entro tale cornice. Essa si pone a poche ore dalla passione e morte di Gesù, mentre Gesù prende il pane e lo spezza e versa il vino nel calice e distribuisce a tutti. Questo spezzare il pane e versare il vino richiamano da vicino il sacrificio del suo corpo spezzato e del suo sangue versato per tutti. In quest’ultima cena Gesù in qualche modo misterioso, ma reale anticipa quel sacrificio che da lì a poche ore si compirà in modo concretamente visibile a tutti. L’associazione del suo sangue all’alleanza[57] richiama Es 24,6-8: “Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: <<Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo!>>. Allora Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: <<Ecco il sangue dell’alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!>>”. Viene ripreso dunque nell’ultima cena il rito antico dell’Alleanza tra Jhwh e il suo popolo che qui trova la sua eterna e definitiva definizione, così che ” … Gesù è diventato garante di un’alleanza migliore” (Eb 7,22).

     

    Ma tutto questo non è ancora sufficiente per stabilire il sacerdozio di Gesù. Sarà soltanto l’autore della Lettera agli Ebrei che riuscirà a stabilire uno stretto nesso tra Cristo e il sacerdozio.

     

    L’autore parte considerando che Gesù appartiene alla tribù di Giuda per la quale non fu riconosciuto nessun sacerdozio, attribuito invece a quella di Levi (Eb 7,14). Gesù pertanto non fu mai sacerdote secondo il culto antico, tuttavia egli lo fu per la sua funzione di mediazione tra Dio e gli uomini. L’autore infatti afferma che “Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati” (Eb 5,1). Con tale passaggio viene messo in rilievo la funzione mediatrice del sacerdozio, qui colto nel suo duplice aspetto fondamentale: a) il sacerdote è un chiamato; b) a svolgere una funzione di mediazione, la quale si esprime attraverso un’offerta di doni e di sacrifici. In tal modo l’autore supera i ristretti vincoli tribali ed ereditari del sacerdozio ebraico per accedere invece alla sua pura funzione primaria. Partendo da queste due semplici considerazioni (chiamata e mediazione) l’autore passa ad applicare, con prova scritturistica, tale funzione a Cristo stesso: “Nessuno può attribuire a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non si attribuì la gloria di sommo sacerdote, ma gliela conferì colui che gli disse: Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato. Come in un altro passo dice: Tu sei sacerdote per sempre, alla maniera di Melchìsedek. Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek” (Eb 5,4-10). Il sacerdozio di Cristo è qui assimilato a quello di Melchisedek che viene presentato come rivestito di un sacerdozio eterno, proprio perché “Egli (Melchisedek) è senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio, rimane sacerdote in eterno” (Eb 7,3).

    L’azione mediatrice del Cristo nasce proprio dal suo farsi del tutto simile agli uomini (Eb 2,16-17), rimanendo nel contempo Figlio di Dio (Eb 1,1-3). è proprio per questa sua duplice natura umano-divina che Dio e l’uomo si incontrano in lui. In tal modo Cristo diventa il luogo di mediazione privilegiato. E proprio perché rivestito di un sacerdozio eterno alla maniera di Melchisedek, il sacerdozio di Cristo è anch’esso eterno (Eb 7,15-17.23-24).

     

    Ma il sacerdozio di Cristo consoce anche una fase discendente che investe ogni credente rendendolo capace di presentarsi a Dio entrando nel santuario del cielo per offrire sacrifici di lode a Dio graditi, attraverso una nuova via aperta dal sangue di Cristo: “Avendo dunque, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne; avendo noi un sacerdote grande sopra la casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura.” (Eb 10,19-22); in tal la modo noi “Per mezzo di lui dunque offriamo continuamente un sacrificio di lode a Dio, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome.” (Eb 13,15).

     

    Essendo stati pertanto associati a Cristo sacerdote siamo stati resi anche noi partecipi del suo sacerdozio santo e resi capaci di compiere un sacrificio a Dio gradito. Paolo ricorderà questo aspetto sacerdotale che investe ogni credente e che fa della sua vita un atto di culto che si celebra nella liturgia esistenziale della quotidianità: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale.” (Rm 12,1).

     

    Tale sacerdozio comune a tutti i credenti trova la sua origine già in Es 19,5-6 dove Dio, ai piedi del Sinai e in virtù dell’Alleanza, fornisce al suo popolo una nuova identità e lo investe di una nuova missione in mezzo alle genti.: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti>>”.

    Pietro, memore di ciò, riprenderà proprio questo concetto che applicherà alla comunità dei credenti: ” …voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce” (1Pt 2,9) così che “anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo” (1Pt 2,5).

     

    Posto in questa prospettiva ogni credente, assimilato a Cristo, vittima[58] e sacerdote offerente di stesso[59] sull’altare della propria vita e della croce, in virtù del proprio battesimo, diviene capace di compiere sacrifici di soave odore a Dio graditi[60] per mezzo di Cristo stesso. La sua vita, in qualsiasi condizione essa venga vissuta, diviene un atto di culto e una celebrazione liturgica, che possiede in se stessa un dinamismo di consacrazione delle realtà che il credente nel suo esistere quotidiano è chiamato a vivere (Rm 12,1). A maggior ragione la sofferenza, che associa e assimila in particolar modo, quasi tangibile, l’ammalato alla passione di Cristo, diviene espressione della passione e morte di Gesù, diviene di fatto una sua sacramentalizzazione salvifica e redentiva, che definisce il sofferente stesso quale vittima e sacerdote di se stesso, che nella malattia accettata, seppur doverosamente combattuta, offre se stesso al Padre per Cristo con Cristo e in Cristo, compiendo in ciò un servizio di redenzione per se stesso e per l’umanità intera. La sua malattia, infatti, associando l’ammalato a Cristo, dà un tono di universalità al suo soffrire e alla sua offerta al Padre (1Cor 12,26).

     

     

    La Comunità credente e la Diaconia

     

     

    Nella sua metafora del corpo e delle membra Paolo pone un principio di solidarietà, che sta alla base dell’intera comunità credente e che di molti fa un corpo solo in Cristo: “Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. [...] Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte.” (1Cor 12,12.27). Proprio per questa profonda solidarietà che lega tutti in Cristo, ogni membro diviene compartecipe delle gioie e delle sofferenze dell’altro, ognuno è posto quale responsabile del proprio fratello, soprattutto di quelli che maggiormente versano nelle difficoltà, così che “quelle membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie; e quelle parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggior rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggior decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui.” (1Cor 12,22-26).

    Questo principio di corresponsabilità degli uni verso gli altri viene sottolineato da Gesù stesso nella stupenda parabola lucana del buon samaritano (Lc 10,29-37), in cui si racconta in modo metaforico l’azione salvifica e redentiva di Gesù. Il buon samaritano, dopo aver soccorso quell’uomo disgraziato incappato nei briganti, lo affida alle cure dell’albergatore: “Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno” (Lc 10,35b). In tal modo Gesù lascia intendere che ogni uomo redento è affidato alle cure del proprio fratello e che di ciò gli sarà chiesto conto, così come fu chiesto conto a Caino della sorte di suo fratello (Gen 4,9a). E questa corresponsabilità, fondata sulla solidarietà, trova la sua giustificazione nella natura stessa del credente: “Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,26-28).

     

    All’interno della comunità poi vi sono vari e diversi carismi e ministeri, tutti doni provenienti dall’unico Spirito e tutti finalizzati a costruire nell’amore l’intera comunità, collocandola fin d’ora nella dimensione divina verso cui è in cammino: “Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune …” (1Cor 12,4-7). Paolo parla di carismi, ministeri e operazioni e pone molto abilmente all’origine di ognuno di questi una fonte diversa che ne qualifica la natura stessa: all’origine dei carismi, doni di grazia, vi è l’azione dello Spirito, la cui funzione primaria è quella di vivificare e arricchire spiritualmente la comunità credente; fonte dei ministeri, cioè dei servizi da rendere alla comunità, è Cristo che, mosso dallo Spirito, è per sua natura azione e sacramentalizzazione del Padre. Ogni ministero infatti nasce da un carisma e presuppone quale suo fondamento un carisma che si fa servizio concreto a favore della comunità, così che il ministero lo potremmo definire come il carisma in atto o come sacramentalizzazione stessa del carisma; da ultimo, Paolo considera il dinamismo che muove l’intera comunità e la fa vivere rendendola operosa per Dio; tale dinamismo viene definito con l’espressione greca energhemàta, cioè azioni, attività. Qui il nome Dio va inteso come Padre, che si pone come l’azione prima da cui tutto il resto prende vita e movimento.

    L’agire e il vivere della comunità cristiana viene posta in tal modo sotto l’azione diretta del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo così che la comunità stessa diviene espressione e riflesso, una sorta di sacramento vivente della vita trinitaria stessa, in cui nessuno prevale sull’altro, ma tutti si muovono ordinatamente l’uno in funzione dell’altro in una sorta di dinamismo diaconale. Il denominatore comune che congloba tutto il multiforme agire della comunità e dei suoi singoli membri, qualificandolo, è la carità. È molto significativo infatti come Paolo dopo il lungo discorso sui carismi e ministeri, che occupa l’intero cap. 12, lo concluda indicando la via maestra al servizio: “Aspirate ai carismi più grandi! E io vi mostrerò una via migliore di tutte” (1Cor 12,31); un versetto questo di transizione, che conclude il cap. 12 e introduce il 13, l’inno alla carità, creando un legame inscindibile tra i due, quasi a dire che sono si importanti sia carismi che ministeri, ma essi devono radicarsi profondamente e muoversi nell’ambito della carità, senza la quale essi non valgono nulla, poiché il tutto diverrebbe un semplice agire umano che si pone fuori dalla dimensione divina, che per sua natura è Amore: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova” (1Cor 13,1-3).

    La diaconia, cioè il servizio compiuto nell’amore di Dio e speso a favore dei fratelli, trova la sua radice più profonda e più vera nello stesso dinamismo che ha mosso tutta la vita di Gesù e ha animato la sua missione: ” … ma Gesù, chiamatili a sé, disse: “I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mt 20,25-28), una diaconia quella di Gesù che ha qualificato la sua vita come una pro-esistenza, cioè una vita spesa interamente a favore degli uomini, e si è posta come parametro di confronto del servire cristiano. La diaconia nelle chiesa primitiva era oggetto di particolari attenzioni da parte degli autori cristiani del primo secolo[61] e considerata un carisma fondamentale all’interno della comunità credente, in cui ognuno doveva farsi servo degli altri, al punto tale che essa diventerà un vero e proprio ministero istituzionalizzato all’interno della Chiesa primitiva (At 6,1-7; ). La stessa suocera di Pietro, guarita da una febbre maligna, alzatasi si pone a servizio del gruppo dei discepoli e di Gesù[62]. Il racconto possiede in sé una forte carica simbolica e metaforica; si tratta infatti della narrazione di una conversione (guarigione) che comporta la sequela di Gesù e che si esprime proprio nel servire. Il cristiano, in quanto seguace di Cristo e a lui assimilato, è chiamato ad esprimere la propria fede nel servizio agli altri nella carità (Gal 5,13b).

    Il tema del servizio, praticato all’interno delle comunità credenti diventa non solo espressione concreta della nuova fede vissuta nell’amore vicendevole, che qualifica e caratterizza la nuova vita abbracciata dal credente (Gv 13,35; 1Cor 16,14; ), ma anche il parametro su cui egli sarà misurato. Proprio in tal senso Matteo presenta nel suo cap. 25 le linee di fondo su cui si muove il vivere cristiano, colto nel suo impegno relazionale, che vede il nuovo credente esistenzialmente in cammino verso i più deboli e i più bisognosi, portatore di un messaggio di speranza e di un concreto sollievo. Non si tratta di un amore eroico, fatto di grandi ed estreme gesta, ma quello silenzioso e concreto della quotidianità e che ha come denominatore comune proprio l’attenzione all’altro che si fa servizio (Gal 5,13b): “Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.” (Mt 25,34-40). Ma ecco la novità aggiunta da Matteo: l’altro, meta del nostro servizio di amore, non è un volto anonimo ed estraneo, ma assume le fattezze morali e spirituali di Cristo stesso: “l’avete fatto a me”. Si noti come il Gesù matteano non dice “è come se l’aveste fatto a me”, ma “l’avete fatto a me” stabilendo in tal modo un rapporto diretto tra lui e il credente. A tal punto appare evidente come questo amore, che si spende nel servizio per l’altro, diventa in realtà un dono, un’offerta di se stessi al Padre per mezzo di Cristo, mentre la nostra vita acquisisce i tratti propri di una pro-esistenza come quella vissuta da Gesù in offerta di se stesso al Padre, una vita spesa in favore dell’altro. Un tratto fondamentale questo proprio della diaconia che ha trovato in Cristo la sua espressione più elevata e che l’autore della lettera agli Efesini ricorda: ” … e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore.” (Ef 5,2). Amore che si fa servizio, servizio che si fa dono di se stessi all’altro, in cui è sacramentato Cristo, dono che diventa sacrificio di soave odore al Padre evidenziano la natura propria della diaconia, che è strettamente connaturata con l’eucaristia: “prendete e mangiate, questo è il mio corpo; bevete, questo è il mio sangue”. Espressione e vertice sublime della diaconia: Cristo, pane che si spezza per tutti; sangue versato per tutti e a cui tutti noi intimamente partecipiamo: “il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1Cor 10,16-17). Proprio per questa intima e profonda partecipazione al mistero diaconale e sacrificale di Cristo anche le nostre vite e la vita dell’intera comunità credente vengono assimilate al servizio di amore sacrificale di Cristo stesso e trasformate in pane che si spezza per gli altri, quale sacrificio di soave odore a Dio, così che il credente e comunità si trasformano a loro volta in un uomini-eucaristia e in comunità eucaristica e il loro vivere in un vivere eucaristico, dono di amore al Padre che passa attraverso il servizio dei fratelli (1Gv 4,20).

     

    Conclusione

     

    Tempio, altare, sacrificio, sacerdozio, diaconia, comunità credente sono i luoghi propri di una nuova comunità messianica collocata in mezzo agli uomini dalla morte e risurrezione di Cristo; segni distintivi di una nuova dimensione che si sta installando in seno all’umanità e che se da un lato trovano delle espressioni storiche concrete sotto forma di architettura e organizzazione sacre, dall’altra questi segni si espandono nella sacralità del vivere concreto della quotidianità di ogni credente e annunciano l’avvento di cieli nuovi e terra nuova dove Dio avrà stabile dimora in mezzo agli uomini (2Pt 3,13; Ap 21,1-3). Ogni credente e ogni comunità credente possiedono in se stessi la capacità di trasformare i luoghi del loro vivere quotidiano in tempio e altare, nei quali e sul quale essi, sacerdoti e vittime nel contempo, celebrano e continuano a celebrare il sacrificio di Cristo a cui sono associati per loro natura, in quanto battezzati nello Spirito. Ma questa nuova incarnazione del mistero di Cristo nelle vite proprie dei credenti e della loro comunità, diventa anche annuncio di speranza all’intera umanità, che viene proclamato dall’ambone della propria vita. In tal modo il credente e la nuova comunità messianica diventano Parola di Dio, che proclama le meraviglie di Dio poiché non sono più loro che vivono, ma Cristo morto-risorto vive in loro. A Lui la lode, la benedizione, l’onore e la gloria nei secoli eterni, Amen. 

     

    Verona, 1 maggio 2007                              

                  Giovanni Lonardi

    VERONA: il convegno dimenticato

    UNA CHIESA

    IN CAMMINO

     

    (12 settembre 2006)
    Programma

    4° Convegno Ecclesiale Nazionale Verona, 16 – 20 ottobre 2006 TESTIMONI DI GESÙ RISORTO, SPERANZA DEL MONDO 16 ottobre, lunedì pomeriggio (in Arena) CERIMONIA DI APERTURA INGRESSO …

     

    Dionigi Card. Tettamanzi (12 settembre 2006)
    Presentazione

    PRESENTAZIONE DELLA TRACCIA DI RIFLESSIONE Sono lieto di presentare la traccia di riflessione destinata ad accompagnare il cammino delle Chiese in Italia nella preparazione al 4° Convegno Ecclesiale nazionale, …

     

    (14 ottobre 2006)
    I NUMERI

    2700i delegati presenti al quarto Convegno ecclesiale nazionale 450i volontari Cei mobilitati per tutto il Convegno che diventeranno 1200 nel giorno di accoglienza al Papa 15000i fedeli che saranno …

     

    Raffaella Iafrate (21 ottobre 2006)
    «Mostriamo il bene dell’affettività»

    Essere testimoni di speranza nella vita affettiva e familiare significa “sforzarsi di rigenerare le nostre relazioni familiari nella loro più autentica e profonda valenza relazionale e simbolica”, …

     

    Adriano Fabris (21 ottobre 2006)
    «La festa illumini il lavoro»

    Il mondo del lavoro è in radicale trasformazione. E con esso cambia anche il modo di vivere la festa. Per capire come queste realtà mutano, e per capire lo spazio che può avere la testimonianza cristiana …

     

    Luca Diotallevi (21 ottobre 2006)
    «Cittadinanza con occhi nuovi»

    In un’epoca che ha visto la fine di tante ideologie e prassi, “non è presunzione affermare che i cattolici hanno a disposizione una quantità non trascurabile di un tipo di risorse  sempre più scarso, …

     

    le sintesi (21 ottobre 2006)
    Cinque ambiti: questi i frutti

    Il momento della verità è l’esposizione delle sintesi dei lavori nei cinque diversi ambiti, 30 gruppi in tutto, quando la temperatura dell’applauso sottolinea i passaggi più apprezzati dalla platea di …

    di Paolo Lambruschi

    Costantino Esposito (21 ottobre 2006)
    «Tradizione, la verità dentro la vita»

    “Come può un uomo del nostro tempo, più di Duemila anni dopo la venuta di Gesù Cristo nella carne, raggiungere una certezza ragionevole su questo avvenimento? E com’è possibile verificare con  ragioni …

     

    Augusto Sabatini (21 ottobre 2006)
    «Tra le fragilità gettando le reti»

    “Fragile, maneggiare con amore”. Questa ipotetica scritta, che evoca quella riprodotta su oggetti che rischiano di rompersi, sarebbe secondo Augusto Sabatini, giudice presso il tribunale dei minori …

     

    Orizzonte teologico-pastorale (19 ottobre 2006)
    Il potere trasformante della speranza viva

    «Io spero in te per noi»… In te – per noi: qual è il legame vivente fra questo tu e questo noi che solo il pensiero più insistente riesce a svelare nell’atto della speranza? Non occorre forse rispondere …

    di don Giulio Brambilla

    Introduzione all’ambito: vita affettiva (19 ottobre 2006)
    «Sforziamoci di generare speranza»

    1. Essere testimoni di speranza in ambito affettivo Nelle riflessioni preparatorie e nei primi interventi di questo Convegno, abbiamo più volte ricordato che il testimone è colui che vive come …

    di Raffaella Iafrate

    Prospettiva spirituale (18 ottobre 2006)
    L’amore genera la speranza

    Introduzione Ci sono molti modi di parlare di spiritualità. Vorrei evitare quello che tende allo spiritualismo, quasi rifugio in un mondo dello spirito in cui tutto risulta perfetto …

    di Paola Bignardi

    Introduzione nell’ambito: cittadinanza (18 ottobre 2006)
    La questione della cittadinanza e la speranza cristiana oggi

    Un’introduzione al discernimento Là fa abitare gli affamati, ed essi innalzano una città abitabile. Sal 107, 36Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura.Ebr 13, 14aFunzione e limiti …

    di Luca Diotallevi

    Prospettiva culturale (18 ottobre 2006)
    L’obbligo della testimonianza culturale

    1. La cultura come esercizio storico Per il credente, dare dimostrazione della speranza di cui egli è liberamente e responsabilmente testimone «non è solo un atto dell’intelligenza, ma è un esercizio …

    di Lorenzo Ornaghi

    Prospettiva sociale (18 ottobre 2006)
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    Premessa Il mio intervento cerca di interpretare la situazione sociale attraverso il filtro dell’esperienza e delle conoscenze maturate nel corso di un impegno sociale quarantennale. …

    di Savino Pezzotta

    La riflessione (18 ottobre 2006)
    Attuare la speranza con uno stile di vita santo

    Fratelli, tenendovi pronti nello spirito e restando sobri, ponete tutta la vo-stra speranza in quella grazia che vi sarà data quando Gesù Cristo si manifeste-rà. Come figli obbedienti, non conformatevi …

    di dom Franco Mosconi*

    Prolusione del card. Dionigi Tettamanzi (16 ottobre 2006)
    Il Signore doni alla Chiesa italiana umili e coraggiosi testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo

    «Cristo è Risorto. Questa è la fede della Chiesa. Questa è la speranza che illumina e sostiene la vita e la testimonianza dei cristiani» (Traccia…, n.1). Carissimi, con questa professione di fede e di …

     

    La giornata (16 ottobre 2006)
    Il programma di lunedì 16 ottobre

    9.00-14.00: Accoglienza e registrazione dei convegnisti presso la segreteria – Fiera di Verona 16.00-17.50: …

     

    Il messaggio della presidenza Cei (08 ottobre 2006)
    «A Convegno per l’Italia di tutti»

    Pubblichiamo il messaggio che la presidenza della Cei ha inviato alla Chiesa italiana alla vigilia del Convegno ecclesiale nazionale, che si terrà a Verona dal 16 al 20 ottobre. È ormai prossima …

     

    L’intervento del card. Tettamanzi (20 settembre 2006)
    «Al Convegno con i frutti di un cammino»

    Un bilancio del cammino «corale e motivato» svolto in tutte le diocesi verso l’evento centrale del decennio per la Chiesa italiana. Ma anche gli ultimi dettagli su quanto concretamente succederà tra un …

    di Giorgio Bernardelli

    La prolusione (18 settembre 2006)
    Verona 2006, l’Italia guarda al futuro

    Il testo integrale della prolusione pronunciata lunedì 18 settembre dal presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Camillo Ruini, in apertura ai lavori del Consiglio permanente. …

    cardinale Camillo Ruini

     

    A VENT’ANNI DAL CONVEGNO “Religiosi e Laici insieme per servire” del 1988 – A. Nocent

      

    L’orologio di Piazza della Loggia a Brescia 

      

    A CHE E ORA PASSA

    LO SPIRITO SANTO ?

      

    DOV’E’ FINITO IL CORAGGIO  

    DI AVERE CORAGGIO ? 

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    Carissima Rina Monteverdi, 

     

    oggi, 28 Novembre 2008, si fa memoria della Traslazione delle Reliquie di San Giovanni di Dio nell’attuale Bailica di Granada. Ma per la Famiglia Ospedaliera c’è un ulteriore motivo di giubilo: domani 29 Novembre, dalla Chiesa che è in Cuba,  Fra Olallo Valdes dei Fatebenefratelli, verrà proclamato  ”Beato” ed assurgerà all’onore degli altari.

    Dunque, festa in Cielo e anche in Terra per queso nuovo gioiello di famiglia che va ad aggiungersi alla collezione di santi e martiri dell’Ordine, come ennesima PRO-VOCAZIONE per una nuova CON-VOCAZIONE. 

    Mi rivolgo a lei da questo sito, quale Segretaria del Convegno “RELIGIOSI E LAICI INSIEME PER SERVIRE” che si è svolto a Brescia nell’ormai lontano 1988, perché testimone laica e memoria storica di un avvenimento importate ma, forse, oggi sottovalutato, se non dimenticato e rimosso. 

    L’artistico ed antico orologio di Piazza della Loggia ha inesorabilmente continuato a scandire le ore. Ma è mia impressione che il tempo si sia fermato. Non certo per via dell’orologio della torre che funziona benissimo, ma per l’immobilismo umano capace di emozioni momentanee, di ardui propositi, di grandi entusiasmi temporanei, per tornare poi progressivamente alla quiete. Come potrebbe essere che a farla da padrona è la paura dell’ignoto e si vive con la sofferenza nel cuore per la difficoltà di passare dalle parole ai fatti, dai progetti all’azione. E poi c’è l’incomunicabilità pluridirezionale che fa vivere di riseve mentali: lo penso ma non lo dico. 

    Le attenuanti ci sono: mente e cuore sono instabili, vacillanti, variabili, inconcludenti… Facilmente diventiamo disattenti, distratti, trascurati, quando non anche egoisti, opportunisti, indifferenti… 

    Insomma: ognuno di noi è capace di grandi fuochi di paglia che poi s’impegna premurosamente a spegnere. E, se non lo facciamo noi,  non mancano mai i pompieri di turno, sempre vigili e pronti a buttar acqua sul fuoco: “ma vaaa…son tutte chiacchiere…!”.

     

    Se sono qui a ribadirle quanto le ho gia scritto qualche giorno fa, quando le chiedevo di inviarmi una parte degli Atti da mettere sul web, è perché ci credo. Credo che è una richezza che non deve andare dispersa. Alcuni protagonisti di allora come i Padri Marchesi ,  Onorio Tosini o  Raimondo Fabello, ormai ci seguono dal Cielo. Mi domando: che non siano proprio loro, alla scadenza del ventesimo anniversario di quelle “giornate di Brescia“  cariche di patos e di attese, a sollecitare il recupero dei valori emersi allora ed in larga parte ancora utili e preziosi?

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    SCRIPTA MANENT

    Che  non sia il caso di riprendere in mano quelle riflesioni? I venuti dopo, scoprirebbero l’impegno assunto dai predecesori e quelli di allora, con rinnovato entusiasmo, potrebbero riprendere a sognare con i più giovani “visionari” di oggi, per rifarci alla profezia di Ezechiele, ripresa in Atti degli Apostoli, 2,17: Avverrà negli ultimi giorni”, dice il Signore, “che io spanderò il mio Spirito sopra ogni persona; i vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno, i vostri giovani avranno delle visioni, e i vostri vecchi sogneranno dei sogni

    Sono parole confortanti, che ogni tanto vanno recuperate. Se c’è tra le Chiese Cristiane, una generale presa di coscienza che stiamo vivendo e siamo entrati nel periodo di storia predetto dalle Scritture, possiamo starcene illusoriamente fuori? Quando si rileggono alcuni passi di quel momento riflessivo, l’incoraggiamento dei vescovi locali, lo stimolo del Priore Generale, la determinazione del Priore Provinciale ed anche di alcuni Laici, nonostante difficoltà e resistenze, come è dato di capire, bisogna ammettere che la profezia era in atto. Da una lettura complessiva si avverte che allora tutto faceva presagire di essere ad una svolta storica, direi epocale. S’erano scorti alcuni segni dei tempi e si tentava di non far passare invano un tempo di grazia. Ciò che le scrivevo qualche giorno fa è proprio per via di questa impressione che ormai sembra essersi affievolita, diradata. E quando un terreno, anche ricco di umus, va incontro alla siccità, la germinazione ne risente, i nuovi virgulti dissecano, l’orto impoverisce e la delusione ha il sopravvento.  

      

    Se mi permetto di riprenderle, è per ravvivare la speranza, risvegliare la nostalgia di lavorare per l’edificazione del Regno. A nessuno è chiesto di fare miracoli ma di operare con le sue povere mani. E in queste parole che le ho spedito,  c’è l’eco delle confidenze dell’amico Fra Raimondo:

     “Carissima Rina Monteverdi, Dio ricompensi il tempo che mi ha dedicato.  Grazie anche alla sua collaborazione, spero di riuscire a rimettere in circolazione quella passione che vent’anni fa c’era ma che mi sembra si sia affievolita. E non è bene. Perché non progredire, vuol dire regredire, scivolare lentamente sempre più nell’indifferenza.  Rileggendo quegl’ Atti, mi rendo conto che lo Spirito è passato, ha parlato, ha mandato a dire cose importanti. Non è Lui che si è dimenticato dei FBF. E’ il sordomutismo che si è impossessato della situazione. Qui ci vogliono solo le miracolose parole del Maestro: “Effatà -Apriti!”. Vangelo di Marco (Mc 7, 31-37). E noi abbiamo il compito di riproporle, nella convinzione che sono ancora sostanzialmente efficaci”.

    A prescindere dalle mie considerazioni, l’importanza di quel documento e del convegno stesso, sono stati sottolineati proprio dal Vicario Provinciale di allora, Fra Sergio Schiavon, nella Prefazione agli Atti che venivano dati alle stampe:

    ______________________________________________________ 

    Il Convegno di Maggi/Giugno 1988 “Insieme per servire” ha rappresentato certamente un momento importante di incontro e di sintesi per le realtà operanti nella nostra Provincia. 

    La riflessione sul tema dell’Ospitalità, punto di riferimento costante e fondamentale per tutti i partecipanti, ha favorito l’individuazione di come si è ospitali nelle varie Case. 

    La raccolta dei contributi del Convegno vuole avere il significato di proseguire nella riflessione sui contenuti dell’Ospitalità, Carisma che San Giovanni di Dio ha trasmesso al suo Ordine. Attraverso i Religiosi Fatebenefratelli si intende riproporli ai collaboratori laici affinché nei nostri centri assistenziali l’Ospitalità divenga il comune stile operativo. 

    Auguro che la ricchezza di questi lavori divenga patrimonio di tutti così che i nostri malati possano accorgersi di essere realmente i destinatari della nostra premura, della nostra attenzione, della nostra Ospitalità.    Fra Sergio Schiavon  Vicario Provinciale

    Dalla Curia Provinciale 8 marzo 1989 Festa di San Giovanni di Dio

    ______________________________________________________  

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    Nel 1988 si celebra anche il LXII Capitolo Generale. Priore Generale viene eletto Fra Brian O,Donnell, cui toccherà di celebrare il terzo centenario della canonizzazione di San Giovanni di Dio che presenterà il Fondatore come “Servo e Profeta”. Così si legge in “LA NUOVA EVANGELIZZAZIONE E L’OSPITALITA’ ALLE SOGLIE DEL TERZO MILLENNIO”(1993):egli ”vede il futuro della nostra vita nella dimensione della testimonianza profetica, dimensione che incarneremo scegliendo un approccio contmplativo alla vita, in particolare alla sofferenza e al dolore, mettendo i poveri e gli emarginati al centro del nostro servizio, facendo nostra una spiritualità tesa all’integrazione e all’interconnessione, vivendo uno stile di vita sempre più semplice ed aprendoci in tutto questo ad altri religiosi e laici…La nostra vita ha subito profonde trasformazioni, ma dobbiamo vivere nella convinzione che siamo tornati nelle mani del vasaio”.

    Sono parole forti, un invito ad un impegno morale non indifferente, quasi da capogiro. Alla fine del 1992 egli si porrà un interrogativo: “Come vanno le cose?” Il documento di risposta è di un realismo spietato. Misto al tono profetico con il quale diagnostica i mali, chiamandoli con il loro nome, fa anche un semplicissimo calcolo delle probabilità che ognuno è in grado di ripetere e prevede quegli anni difficili che sono inesorabilmente arrivati e che dureranno a lungo.

    Non per citarmi ma per dire quanto sia utile  il comunicare nella fede, ad un amico, Fra Luigi, uno dei tanti un po’ delusi ma non rassegnati, ricordando le parole di Gesù: “andate…guarite (prendete a cuore)…annunciate…”  che è il “mandatum novum” del Signore alla sua Chiesa, (Mt…) racchiuso in quei tre verbi di moto e non di stagnazione,  così recentemente scrivevo:  

    “… ogni tanto faccio ritorno alla tua “lettera aperta”.  Io a Milano, tu a Gorizia…, siamo come un pulviscolo, un puntino nero che occupa anche meno di due metri di circonferenza. Ma nulla c’impedisce di essere cittadini del pianeta, di avere come patria il mondo. Anche se la dimensione che occupiamo è inevitabilmente ristretta e il nostro ambito professionale non ci permette di esprimerci più di tanto, io, tu, noi…abbiamo voce che può andare lontano, raggiungere l’umanità, i confini della terra, perché è  promessa del Signore che sarà con noi sino alla fine dei tempi. E siamo membra vive, vasi intercomunicanti. 

    Ricordo lucidamente la squallida aula del seminario di Brescia, durante l’ora di filosofia. Banchi di Carlo uno, sui quali erano passate generazioni di seminaristi, pareti grigiastre. Ma l’atmosfera, straordinaria. Studiavamo Bergson. E il professore, quando parlava, suscitava proprio ciò che il pensatore  sostiene: che quando parla un uomo di profonda spiritualità, tutt’attorno qualcosa si mette a vibrare, si forma in chi ascolta un impercettibile eco. 

    Sui vent’anni ho avuto modo di appassionarmi sia di Don Primo Mazzolari che del gesuita  Teilhard du Chardin. Del primo Aldo Pedrone ha scritto: “Un fuoco di ceppo antico, accanto al quale ci si ritempra e ci si riconosce”; Teilhard invece così lui stesso si definisce: “Un umile risuonatore riflettente una certa vibrazione, una certa nota umana e religiosa che è ovunque nell’aria attualmente e nella quale le genti si sono riconosciute e ritrovate” . E un’altra volta scriverà: “La mia natura ha più del trapano che fora, che dell’olio che facilita la corsa del progresso”.

    Alle volte sembra di essere chiamati a compiti ingrati. Non è tanto il precorrere i tempi che fa soffrire,[supposto che accada] giacché bisogna mettere nel conto che comporta sempre qualche disagio d’incomprensione. La gratifica è data dalla pace interiore che ne deriva se il suscitatore è lo Spirito. Noi, di questi tempi, sembra di dover rincorrere l’autobus, appena passato, per veder di raggiungerlo alla successiva fermata. E ti viene il fiatone.

    Quarant’anni fa si doveva aprire il cammino a colpi d’ascia, come attraversando una boscaglia rimasta inesplorata. S’è provato a combattere, strappare, tagliare…con un certo furore giovanile.

    Sto rileggendo gli Atti, pubblicati esattamente vent’anni fa, Provinciale Fra Raimondo, che è stato anche l’animatore del Convegno Bresciano “RELIGIOSI E LAICI insieme per servire”. C’è anche un bell’intervento di Fra Pierluigi, Generale. Come si avverte che di lì è passato lo Spirito Santo! Io allora non c’ero ed ora mi ritrovo a soffiare sulle brace rimaste ancora accese sotto le ceneri, di un tempo caratterizzato da lenta, progressiva sfiduciata malinconia. 

    Caro amico, se abbiamo l’interno vivo, impetuoso, trascinante, benché fragili e limitati, siamo capaci di profezia. Perché la Parola di Dio che ci alimenta  e ci forgia l’anima, è impossibile contenerla a lungo. Dal cuore alle labbra il passo è breve. E se io, tu, noi…tacessimo griderebbero le pietre che calpestiamo camminando. 

    Fai tuoi questi sentimenti e trasmettili ai tuoi confratelli ed amici. L’unione fa la forza. Forse, sulle prime, potrebbero prenderti per esaltato, ma poi, finiranno per capire ed allearsi. 

    Scrive Don Mazzolari in una prefazione: “Il sacerdote è un innamorato, e gli innamorati non scrivono se prima non sono schiaffeggiati da una delusione che ben conosco e che è tutt’altra cosa che un raccorciamento del cuore”.  

     

    Non so quanto coraggio abbiano potuto infondergli quelle considerazioni che andavo facendo ad alta voce, più a me stesso che a lui. Credo abbiano giovato reciprocamente. L’essere spintonati a fare cose grandiose e poi non trovare nemmeno il modo per comunicare nella fede, scambiarci le esperienze è avvilente per tutti e produce quella rassegnata sensazione d’impotenza. Non lo crede anche lei, carissima Rina? Quante volte ci troviamo a parlare inutilmente da soli! 

    Anche se la conosco soltanto di nome, attraverso la Rivista FBF, mi permetta d’incoraggiarla a trasmetta anche ai suoi colleghi laici dei Centri che ha più facilmente modo di raggiungere, un poco di questa passione che non deve spegnersi.

    Da laica, provi a smuovere le ceneri sedimentate e riprenda a soffiare perché il fuoco, che non è spento, si riattivi. ”Gli anni passano, i bimbi crescono, le mamme imbiancano…”, diceva una vecchia canzone che forse lei non ricorda. Ma il cuore non invecchia. Anzi !  E se ci sono dei ”sempre giovani”, questi sono proprio i santi, a cominciare dall’ultimo, fresco di nomina: Fra Olallo Valdès.

    Che non ci siano laici che intendano parlarsi di cose che vanno al di là del contratto di lavoro? E se sì, perché non fraternizzare in un modo, non necessariamente di stampo monastico? ll mondo è piccolo. Io parlo gratis  con mio figlio in Giappone, a tutte le ore del giorno e della notte e per la durata che voglio.  Attiviamo gli strumenti della comunicazione: con SKYPE è possibile chiamare gli utenti Skype in tutto il mondo gratis:http://www.skype.com/intl/it/welcomeback/ . I convegni oggi si possono fare da seduti senza prendere l’aereo. Possibile che la soluzione migliore sia sempre la più costosa e perciò impraticabile?

    Facciamo maturare e circolare le idee se non vogliamo seppellirci con le nostre mani.

    Dominante nel Convegno di Brescia è stata la figura dell’amico compianto, Fra Raimondo Fabello, allora Priore Provinciale. E’ un’eredità che non può e non deve andare dispersa. Lui ha parlato poco e scritto ancor meno; ma se andiamo in profondità e badiamo all’essenza, ha intuìto giusto e realizzato solo in parte quel progetto ideale lasciato in eredità e rileggibile negli Atti del Convegno. 

    L’IRCSS di Brescia è lì a testimoniare: oggi senza una rivoluzione culturale non si può stare sulla piazza perché i posti vengono occupati da chi ha le carte maggiormente in regola. Come si può dedurre dalla filosofia che sottende il Centro di Ricerca di Brescia, a Firma del Presidente di allora Fra Raimondo e del  Direttore Scientifico Paolo Maria Rossini, linea che non è mutata e che riproduco a parte (> ReL – UN MODELLO DI COLLABORAZIONE: IRCSS Centro S.Giovanni di Dio – Brescia), lo sforzo di realizzazione non è stato indifferente. Ma non basta. Bisogna proseguire in quell’ottica: RELIGIOSI E LAICI INSIEME PER SERVIRE.  

    Forse oggi a quell’ “insieme “bisognerebbe aggiungere un tassello in più: COSTRUTTORI DI FRATERNITA’, APRENDO ALLE FORZE RELIGIOSE E LAICHE ESTERNE, come indica il 66° Capitolo Generale dell’Ordine, rifacendosi all’art. 46 delle Costituzioni: “Consapevoli dei nostri limiti, ricerchiamo e accettiamo la collaborazione di altre persone, professionisti o no, volontari o collaboratori, ai quali ci sforziamo di partecipare il nostro spirito nella realizzazione della nostra missione”.  

     

    LAICI

    Il tema dei Laici è fra le priorità che il Governo Generale dell’Ordine si è dato per il sessennio 2006-2012 (Vedi programma). Avendo personalemente preso posizione sulla Rivista FBF circa la Dichiarazione dei Laici rappresentanti al 66° Capitolo Generale, per la prima volta in numero di donne e uomini assai rilevante, finirei di essere in palese contraddizione se mi fermassi alla critica.  Mi è parso perciò doveroso passare alla “pars construens” con una serie di proposte che gli interessati potranno analizzare e valutare.

    Non so quanto i buoni propositi espressi dai Laici presenti all’assise internazionale trovino riscontro nel quotidiano dei Centri d’Italia. Proprio a tale scopo mira la prima proposta : partire da un’indagine conoscitiva. Se non si radiografa la situazione, non si può giunge alla diagnosi e tanto meno alla terapia. Per ottenere questo obiettivo ho già elaborato un sistema di consultazione WEB che potrà raggiungere chiunque disponga di una mail. La possibilità di rispondere tranquillamente anche dal proprio domicilio velocizza le risposte e snellisce le procedure.

    Ma prima di dare vita a quasta iniziativa, è indispensabile che sia preceduta da un’altra che avrà il compito di verificarla nei dettagli e di suggerire eventuali modifiche. Si tratterebbe di creare una Segreteria permanente  LAICI-RELIGIOSI FBF, che, a mio avviso, dovrebbe essere composta da due religiosi (di cui uno sacerdote) e sei laici, maggiormente impegnati in qualche settore apostolico di diversa area geografica della Provincia. Sarebbe un vero peccato non coinvolgere anche la Provincia Romana, affine per tematiche e problematiche comuni. Facendo convergere le sempre risicate risorse umane, invece della frammentazione, potrebbe emerga un unico e compatto indirizzo laicale italiano.   

    La invito, pertanto, a farsi portavoce di questa fondamentale e prioritaria iniziatva, caldeggiata dal Priore Generale, nel caso già non esistesse. Di questo nuovo organismo sarebbe utile facessero parte non solo i Laici dipendenti ma anche Laici simpatizzanti esterni, come già prevedono le Costituzioni dell’Ordine all’art.46. 

      

    “IPS”: una Segreteria permanente

    RELIGIOSI-LAICI FBF di lingua italiana.  

    Tanto per essere concreti e laici propositivi… 

     I compiti da affidare a questa Segreteria che chiamerei “ IPS ” (i-pi-esse da Insieme Per Servire) si possono così schematicamente riassumere:

    •  acquisire competenza e conoscenza sulle tematiche relative alla collaborazione  apostolica e sulle riflessioni in atto nella Chiesa e nell’Ordine dei Fatebenefratelli, seguendo il costante evolversi di questo dibattito. 
    • acquisire conoscenza delle esperienze di collaborazione in atto nelle proprie zone e settori apostolici, siano esse efficienti o problematiche, col il compito di individuarne i punti di forza e di debolezza; 
    • acquisire conoscenze su quanto sta avvenendo all’estero in questo ambito e favorire relazioni di scambio e approfondimento di esperienze; 
    • essere punto di riferimento per gli Organi di Governo della Provincia Lombardo-Veneta (e Provincia Romana), nel caso in cui abbiano bisogno di consulenza e confronto su problemi e temi inerenti la collaborazione; 
    • promuovere la collaborazione e la formazione alla collaborazione, in generale e in particolare nei diversi settori apostolici, attraverso tutte le occasioni e gli strumenti che si riterranno più opportuni (articoli, pubblicazioni, web, incontri, seminari, ecc). 

    La Segreteria dovrebbe avere la durata di tre anni, al termine dei quali dovrebbe avvenire la verifica del funzionamento, la rispondenza agli obiettivi e le disponibilità personali, per operare gli aggiustamenti necessari e confermare o meno ruolo e funzioni.  

    Se l’impresa riuscisse, sarebbe il maggior tributo che Religiosi e Laici  FBF possano offrire in questo momento alla Chiesa che ha beatificato Fra Olallo Valdès, e all’Ordine che ha perorato la causa. Per i Fatebenefratelli si tratta di un altro gioiello di famiglia che va ad arricchire il patrimonio di Santi e Martiri, nuova PRO-VOCAZIONE di Dio per una nuova CON-VOCAZIONE.

     

    BOZZA PER UNA CONSULTAZIONE ELETTRONICA

    INDAGINE SULLA COOPERAZIONE TRA FATEBENEFRATELLI E LAICI IN ITALIA NEL 2008

      Sulle forme e modi in cui si realizza la collaborzione  

    Agli amici e collaboratori dei Fatebenefratelli (nei Centri e non) va detto che è ormai parte integrante del nostro agire di religiosi, in opere proprie o non ed alle quali abbiamo dato vita insieme, la corresponsabilità e la cooperazione apostolica che è il vero motivo di esistere.

    Una condivisa analisi dei problemi, il progettare insieme, il mettere in campo le nostre diverse e complementari vocazioni e sensibilità, sono il modo migliore per affrontare le difficoltà e le fatiche di un simile percorso che richiede conoscenza reciproca, pazienza, disponibilità al cambiamento, capacità di porsi in un’otiìtica differente dal passato, attraverso una vera e propria rivoluzione culturale per i religiosi e per i laici.

    Le esperienze già in atto nell’Ordine, ci confortano e ci indicano che questa è una strada possibile e frittuosa ma che richiede anche premesse di fondo fondamentali, come la condivisione di una vita di fede, di una adeguata preparazione e di una prassi di riflessione comune.

    Di tutto questo si è provato a parlare insieme in un Convegno di vent’anni fa, dal tema: “RELIGIOSI E LAICI INSIEME PER SERVIRE – BRESCIA 1988”.

    Da allora sono successe tante cose ed ora i tempi ci impongono di non tergiversare ma di affrontare realisticamente il momento storico in cui viviamo, in considerazione sia delle sollecitazioni che vengono dal Governo Generale dell’Ordine che dal Convegno Ecclesiale di Verona. 

    PRESENTAZIONE DELLE INIZATIVE ESISTENTI 

    SEZIONE ANAGRAFICA 

    Inizio modulo

    Fine modulo

    Le domande a griglia aperta sono concepite per favorre una maggiore libertà di espressione. E’ prevedibile che si otterrà una base di risultati molto ampia, distribuita su varie tipologie di risposta. Se non si otterrano picchi analitici significativi, si ricaveranno, tuttavia, orientamenti indicativi. Che è proprio quanto interessa in questa fase. 

      ECC. … 

     

    LAICI COLLABORATORI

     

    Da appunti che sto elaborando, ricavo le seguenti considerazioni:

    Il termine “collaboratori” figura nelle Costituzioni dell’Ordine, anno1984, assieme ad altre figure di persone comprese nell’art.46 che ha per titolo: “Stile e forme di apostolato”.

      

    Al punto “b” si dice espressamente:

      

    “consapevoli dei nostri limiti,ricerchiamo ed accettiamo la collaborazione di altre persone, professionisti o no, volontari o collaboratori, ai quali ci sforziamo di partecipare il nostro spirito nella realizzazione della nostra missione”.

      

    Al par. 23. a riguardante “Lo stile dell’ospitalità secondo il nostro Fondatore”, viene fatta la seguente constatazione: “viviamo così compenetrati con la nostra missione che i nostri collaboratori si sentono spinti ad agire nello stesso modo”.

      

    Al par. 51.4 che tratta della “Pastorale Ospedaliera” si legge: “sensibilizziamo i nostri collaboratori affinché, esercitando le loro capacità umane e professionali, agiscano sempre con il massimo rispetto per i diritti dei malati; invitiamo a partecipare direttamente alla pastorale coloro che si sentono motivati dalla fede.”

     

    A tale data, ossia circa trent’anni dopo il Concilo Vaticano II, pur con un rapporto plurisecolare di cooperazione con i laici, presenti dalla prima nella comunità ospedaliera di San Giovanni di Dio, non vengono ancora recepite le nuove acquisizioni dottrinali dei Padri concilari e del Magistero.

     

    La spinta maggiore sul compito insostituibile dei laici nella Chiesa e nel mondo, mortificato dopo ilConcilio di Trento per tante ragioni storiche, è venuta dall’accento che la nuova dottrina del Magistero pone su tre punti:

    • la ecclesiologia di comunione,
    • la dimensione storica della salvezza,
    • l’autonomia dell’ordine temporale. 

    Senza la necessaria premessa chiarificatrice che deve essere espressa esplicitamente ed acquisita come patrimonio culturale sia dai religiosi che dai laici,  si continuerà a parlare di collaborazione in termini equivoci e inadeguati, destinati a creare problemi, suscitare interrogativi e a deludere entrambe le componenti. Se i Laici sono la ”testata d’angolo” sulla quale costruire la nuova rete di rapporti professionali ed apostolici, allora bisogna dirlo forte e promuovere la loro preparazione culturale. Non c’è bisogno di cominciare da zero perché già esistono strutture preposte e persone preparate per farlo. Si tratta solo di programmare una progressione di recupero dei ritardi.  Il calcolo delle probabilità su come sataranno le cose fra quindic’anni lo ha già fatto l’ex Priore Generale Brian O,Donnell, basta andar a rileggere. 

    Sulla base di quanto già recepito dalle Costituzioni, se è facoltà degli STATUTI GENERALI emanare direttive organizzative sulla vita religiosa e la gestione dei centri di assistenza, le norme sulla cooperazione devono essere teologicamente fondate se si vuole che il rapporto sia autentico ed efficace e la linea di azione sia chiara e incisiva.

    Non va dimenticato che il LXVI Capitolo Generale dell’Ordine, prendendo atto della presenza massiccia di laici delegati, provenienti dai cinque continenti, nei documeti conclusivi ha palesemente espresso e sancito che la presenza dei laici, ai fini della missione, è necessaria ed insostituibile. 

    Con un po’ più di lungimiranza e determinazione, i Padri Capitolari avrebbero dovuto sancire quanto già dieci anni fa i Gesuiti hanno espresso nel decreto 13 della Congregazione Generale 34°. L’affermazione perentoria dei figli di Sant’Ignazio è questa: “Una lettura dei segni dei tempi dopo il Vticano II indica in maniera inequivocabile che la Chiesa del terzo millennio sarà la “Chiesa del laicato”.

    Ma la parte ancor più carica di conseguenze, è al n.1: “La Compagnia di Gesù riconosce come una grazia per i nostri giorni e come una speranza per il futuro che i laici “prendano parte viva, responsabile e consapevole alla missione della Chiesa in quest’ora magnifica e drammatica della storia”. Noi cerchiamo di rispondere a questa grazia ponendoci al servizio della piena realizzazione della missione del laicato, e ci impegnamo a questo scopo cooperando con i laici alla missione”. 

    Come si vede, qui il concetto è capovolto: sono i religiosi, con i loro carismi, a farsi collaboratori dei laici, chiamati sulla scena da PROTAGONISTI. Responsabilmente, operazioni del genere non si portano a termine in ventiquattro ore ma con un lento e paziente cammino di  RI-CONVERSIONE che non umilia i religiosi ma li esalta e li considera guide spirituali che hanno tanto da “SVELARE” ai laici, abbandonati per secoli al loro destino di emarginati per mille motivi storici. 

    Sulla cooperazione professionale non c’è molto da dire, giacché al di là di tutto, essa è sancita dai contratti di lavoro che vincolano entrambe le parti contraenti ed è tutelata dalle norme  Diritto.  

    Altra cosa è la cooperazione apostolica tra Fatebenefratelli e fedeli laici. Se essa non viene considerata una mossa strategica suggerita dal bisogno di far fronte alla diminuzione delle vocazioni, ma una scelta profetica richiesta dallo Spirito Santo a tutta la Chiesa e fondata sulla nuova dottrina del Magistero, bisogna che lo si dica a chiarissime lettere, accettandone poi le conseguenze logiche. E va promossa con ogni mezzo, definendo ruoli e funzioni. Fare discorsi generici è come promuovere il cambiamento con lo stampo gattopardiano: cambiare tutto, affinché resti tutto come prima. 

    INSIEME PER SERVIRE – Mons. Silvio Perini

    San Giovanni di Dio trasporta sulle spalle un malato  

    CONVEGNO – Messa in onore di San Giovanni di Dio

      

    OMELIA D MONS. SILVIO PERINI

      

      

    All’inizio di questo vostro Convegno che, visto dall’esterno, sembra proprio ben preparato, i sussidi molto ben curati, tutta quella serie di cartelloni che sono nell’atrio di questa casa, la cura con cui è stata preparata la celebrazione di questa liturgia, all’inizio di questo Convegno è doveroso chiamare in causa S. Giovanni di Dio. La Messa che stiamo celebrando è in suo onore. E attorno alla figura di questo ‘padre dei poveri” cerche remo di far ruotare il pensiero di riflessione e di meditazione.

    Le letture bibliche e le pagine della Sacra Scrittura scelte per questa Messa ci danno già una chiave per riuscire a penetrare il segreto della vita di questo grande Santo, S. Giovanni di Dio. Ci danno la cifra per comprendere come mai da un uomo semplice, dalla vita avventurosa, ad un certo momento sia sbocciato, sia fiorito un Santo di tale forza. Cos’è che spiega questa santità. Che cos’è, ad esempio, che spiega la sua con versione, se non repentina, senz’altro radicale? Forse la famosa predica del maestro d’Avila, che dal 1970 possiamo chiamare Santo: infatti è stato canonizzato dal Papa Paolo VI . Certo, anche quella predica ha contato molto nella conversione di Giovanni di Dio, ma non penso che basti una predica per convertirsi. Altrimenti dovreste uscire tutti santi da questa chiesa questa mattina. Certo qualche cosa di più, qualche cosa d’altro ha provocato questa radicale conversione di  S. Giovanni.

    E ancora, cos’è che mi spiega la scelta preferenziale fatta da Giovanni di Dio per i poveri, per gli ammalati in specie? Forse la sua drammatica esperienza negli ospedali della prima metà del ‘500? Anche quella. Giovanni di Dio fu pienamente sconvolto da quella esperienza. Ma non credo che basti quella per spie gare il perché di una scelta preferenziale per i poveri, gli ammalati.

    E ancora, questo forse è l’aspetto più problematico: come spiegare il perseverare di S.Giovanni di Dio sulla linea che si era aperto? Perché di propositi ciascuno di noi ne ha fatti un sacco, di buoni propositi è pieno il mondo. Ed anche noi attraversiamo momenti di fervore, di un fervore particolarmente intenso. Ma sono un po’ come i primi innamoramenti: ti innamori e dopo due giorni è già passato. Una cottarella ed è già passato. Quella di Giovanni di Dio non è stata una cottarella. Pensate a questo uomo che, tutte le sere, conoscete la sua biografia! dopo aver assistito i suoi poveri ed ammalati raccolti qua e là, girava con due pentole legate ai polsi, con una sporta, con una sacca, un cesto sulle spalle, gridando ‘Fate bene fratelli per amor di Dio, fate bene fratelli per amore di Dio”.

    Una volta o due si, si può avere il coraggio di farlo, ma perseverare sino alla fine cosi, in semplicità, in umiltà, in povertà.  Ecco cos’è che spiega tutto questo. Non soltanto le circostanze storiche, che hanno pure il loro peso e concorrono magari a costruire la struttura di un uomo, e concorrono, nel caso specifico nostro, a tratteggiare la drammatica avventura spirituale di Giovanni di Dio. Ma non è soltanto questo. C’è una forza diversa: senz’altro è quella stessa forza che ha folgorato  Paolo sulla via di Damasco, “Saulo per ché mi perseguiti ?” C’è una identificazione di Gesù con i cristiani perseguitati. E quella stessa forza, quella che ha fatto diventare santo  S. Giovanni di Dio, che aveva favorito quella splendida fioritura di Santi dell’epoca di S. Giovanni di Dio. Sia la Spagna che la Francia han no definito il secolo XVI il secolo d’oro, lo credo che sia il secolo d’oro non soltanto per il rifiorire delle arti, detl’architettura, della cultura in genere, ma it secolo per il fiorire dei grandi santi. Pensate che, contemporanei a S. Giovanni di Dio, sono Ignazio di Loyola, Camillo de Lellis, Vincenzo de’ Paoli, Filippo Neri, per fa re il nome soltanto dì qualcuno. E possiamo ben dire che quello é il secolo d’oro anche della santità.

    E allora quel è la forza che ha fatto di Giovanni di Dio un Santo di uno spessore cosi rimarchevole? Non occorre arrampicarsi sui vetri per scoprire quale è questa forza, però io ho cercato di definirla con molta semplicità, semplicità quasi catechistica dicendo che que sta forza è la Fede, che definiamo subito Fede evangelica.

    Vedete, la Fede evangelica ha alcune caratteristi che.

    La prima caratteristica è questa, che è impastata di fiducia.  Non ho trovato termine più bello per dire che la fede non può esigere di spiegare tutto, di definire tutto, di veder chiaro tutto. Noi siamo tutti un po’ razionalisti, cioè ci fidiamo tanto della nostra ragione e non siamo molto disposti ad accettare ciò che non capiamo. D’altronde se apriamo la pagina sacra, se leggiamo la Scrittura, troviamo, per esempio, in Giovanni, nella sua prima lettera che sta scritto: “Dio nessuno l’ha mai visto”. Però, dopo, portiamoci all’Antico Testamento, al Vecchio Testamento. Vi troviamo Mosè un giorno sul monte in contemplazione di Dio. E Mosè che prega accoratamente il Signore (sembra la preghiera che tante volte esce dal nostro cuore): “O Signore mostrami il tuo volto”. E la risposta di Dio è: “Nessuno può vedere Dio e continuare a vivere”. Colui che vede Dio muore. “Però — dice Dio — voglio esaudire almeno in parte la tua richiesta. Ti collocherò dentro un incavo della roccia, ti nasconderò dentro la roccia. Ed io passerò, terrò la mia mano sul tuo volto e mi potrai vedere soltanto quando sarò passato”. E cosi avviene. Mosè é come un capo, quasi la roccia si ritrae come se fosse spugna e Mosè si nasconde in questo nido della roccia. Dio gli mette la mano sul volto, passa oltre e Mosè rìesce a vedere di spalle Dio. Probabilmente questa è una parabola di cui la Bibbia si serve per dire che nessuno deve avere la pretesa di scrutare il volto di Dio.

    Ieri abbiamo celebrato la festa della Santissima Trinità: come si fa a comprendere questo mistero profondissimo di Dio?

    Ci sono qui alcuni vostri confratelli che ieri sera erano presenti al Centro Paolo VI, quando ho amministrato le Cresime ai Cresimandi adulti ed ho parlato della Trinità tentando di spiegarla con un sorriso. Questo perché dobbiamo usare tuffi i mezzi per cercare di penetrare il mistero di Dio. Ma Dio rimane sempre qualche cosa che è al di sopra. Non per nulla teologi, filosofi parlano della trascendenza di Dio. La Fede evangelica è tana di fiducia e ci invita ad abbandonarci a questo Dio che; pur non potendo essere contemplato faccia a faccia, lo contempleremo, a Lui piacendo, in paradiso. (Almeno io desidero andare in Paradiso e penso che anche voialtri desideriate raggiungere la beatitudine e contemplare il volto di Dio, il volto beatificato). Abbandonarci a Lui con estrema fiducia, anche se non riusciamo ad interpretare la profondità dei suoi di segni e dei suoi progetti sulla nostra esistenza.

    La fede evangelica, oltre ad essere piena di fiducia, è una tede coinvolgente. Quando noi parliamo di Dio non enunciamo delle formule matematiche o dei teoremi di geometria. Se io dico che 3 x 3 fa 9, rimango quello di prima. Ma se io dico che Dio è Padre, o cambio atteggiamento o sono un buffone come gli altri. Ecco in che senso la Fede deve coinvolgerci radicalmente e cambiare la nostra vita.

    Credo che, in fondo, a Giovanni di Dio sia capitato questo: quando ha ascoltato quella predica che gli storici dicono abbia segnato l’inizio un po’ della sua radicale conversione anche se era un uomo già aperto ed estremamente generoso. Capì che non poteva continuare a tentare di conciliare nella sua vita i fervori per il Signore e la mediocrità del vivere quotidiano. Se Dio è veramente Padre, noi siamo veramente fratelli. Dice l’Abbé Pierre (l’ho visto scritto una volta su un poster), ‘quando preghi e dici: Padre nostro, cerca di sentire subito l’eco della voce di Dio che ti dice, che ti chiede ‘E i tuoi fratelli?”. Perché se veramente tu o Dio ci sei Padre, noi siamo fratelli. In questo senso dico che la Fede deve essere coinvolgente. Quando uno sbatte la propria faccia contro questo Dio, deve cambiare.

    Terzo elemento di questa Fede evangelica è che deve essere matura. Cosa intendo dire parlando di Fede matura? Per me la Fede, e credo che possiamo essere tranquillamente d’accordo, raggiunge la sua maturità quando si sposa con la carità. In fondo è già quello che ci diceva il profeta lsaia nella prima lettura. Ma nel Vangelo, nel Nuovo Testamento troviamo tanti altri passi che ci dicono questo. Per esempio, Giacomo nella sua lettera ci dice che “Se uno crede di avere la Fede ma non compie delle opere conseguenti a questa fede è come uno che si specchia: per un momento vede il suo volto, ma quando distoglie lo sguardo non ricorda più come è fallo. Gesù nel famoso capito lo 25° di Matteo, il Giudizio Universale lo imposta tutto sul nostro atteggiamento verso i fratelli e i fratelli più poveri.

    Addirittura, sapete che c’è una frase che sconvolge in fondo anche gli esegeti ed i teologi, coloro che meditano su questa pagina: “Ma quando Signore noi ti abbiamo visto ammalato, assetato, affamato, ignudo” e la risposta: “Ogni volta che avete fallo queste cose ai più piccoli dei miei fratelli, l’avete fatte a me”. Per cui qui Gesù sostiene che davvero quando io assumo gli atteggiamenti di carità, di solidarietà, di servizio nei confronti dei miei fratelli, quasi mettendo tra parentesi che lo faccio per il Signore, non mi ricordo nemmeno, ma soltanto per quel legame di umanità e fraternità, Gesù lo accoglie, lo ritiene fallo a se stesso e questo è molto consolante.

    Ecco quindi come deve essere la nostra Fede. Una fede falla di fiducia, di abbandono nelle mani del Signore, anche se non riusciamo a leggere fino in fon do il suo mistero, una Fede coinvolgente, che coinvolge la nostra vita, una fede matura sposata alla carità, sposata anche alle opere. Qui mi permetterei di insistere perché è facile che diciamo “Ah, ma io credo nel Signore”. Va bene, credi nel Signore, ma qual è il tuo stile, qual è il modo con cui ti comporti, ti rapporti, ti stabilisci con i tuoi fratelli? C’è S. Tommaso d’Acquino che dice: “Imperfectae cognoscimus et diligimus Dominum”, “noi il Signore lo conosciamo e lo amiamo in modo imperfetto”.

    E dobbiamo batterci il petto e dire davvero quanto poco conosciamo il Signore e quanto poco lo amiamo. E magari far trasformare, cambiare, far diventare una preghiera: “Signore ti amiamo cosi poco, ti cono sciamo cos male, fa che noi abbiamo a conoscerti, e soprattutto amarti con generosità. Amare il Signore, attraverso i fratelli. Ancora S. Giovanni dice: “Se qualcuno crede di amare Dio e poi non cura i fratelli, inganna se stesso” (1 Gv, 4, 20), è un bugiardo chi inganna se stesso. Chiediamo perciò al Signore, durante la celebrazione di questa Eucarestia, la grazia di conoscerlo meglio e di amarlo.

    1988 INSIEME PER SERVIRE:CONCLUSIONI DEL PRIORE PROVINCIALE Fra Raimondo Fabello o.h.

     

    Cemmo, arte rupestre. Località del convegno

     

    CONCLUSIONI  DEL PRIORE PROVINCIALE

    Fra Raimondo Fabello o.h.

    fra-raimondo-fabello-lamico-in-cielo-150x150Credo di non dover aggiungere molto a tutto quello che è stato detto e tutto quello che abbiamo imparato con l’aiuto di Dio. Alcune cose che volevo dire alla fine, sono già state delle dai relativi capigruppo, quindi è inutile starle a ripetere. 

    lo vorrei dire soltanto che mi pare, anche da quanto è stato detto, che lo scopo del corso ha risposto alle aspettative, si potrebbe dire anche discretamente.

    Abbiamo avuto due insufficienze, non so se per ché è stato sbagliato nel questionario. Sul contenuto del corso ci sono state due insufficienze soltanto.

    Un altro discorso che era uscito un po’ come contestazione era quella degli infermieri professionali che non hanno avuto la relazione magistrale. In effetti può essere una carenza, però io mi chiedo che allora tutti gli altri gruppi dovevano fare la loro relazione magi strale allo stesso livello. Credo che alla fine del corso questo sia altrettanto chiaro, non si parlava di infermieri si parlava di operatori, quindi se il sottoscritto, la dottoressa Inzoli o il dottor Pulici avessero avuto un alternarsi in questo momento era proprio il caso di metterla, perché non parlavano come medici ma in riferimento ad un tema specifico che era affidato a delle persone. Credo che alla fine di tutto,  forse questo discorso  può perdere un po’ del suo peso.

    Fra Raimondo Fabello incontra Giovanni Paolo IIDevo confermare la carenza dei nostri Priori prima di tutto e anche degli altri responsabili all’interno della casa. Ci sono difficoltà dappertutto, ci sono anche per i belli.

    Per quanto riguarda i Priori, il 18giugno saranno tutti informati, e sentiranno la lamentela che è nata dal Convegno.

    E già stato accennato al valore fondamentale che ha avuto il lavoro di gruppo in questo Convegno, lo recupero soltanto per dire che, forse anche all’interno delle casa dove tornerete, ci sarà probabilmente la necessità di sostenere questo gruppo. Nella domanda di valutazione, mi pare quella relativa ai singoli gruppi delle case, c’era la domanda se vi sentivate di partecipare in futuro in alcune cose o comunque impegnarvi come gruppo.

    Se non erro, mi pare che le risposte siano tutte risultate positive. Questo è un fatto importante proprio di mettersi nel gruppo a discutere come avete fatto qui, senza pretendere di arrivare chissà dove prima di non essere chiaro il discorso all’interno del gruppo. Il detto gruppo, possibilmente allargato. Come qua ci saranno dei problemi, bisognerà cercare di risolverli.

    Credo che, non so se posso dirlo perché i Priori magari qui presenti mi sconfesseranno, oggi io ho l’impressione netta, e l’ho detto molte volte anche ai Priori, che i Priori hanno un po’ paura della forza di chi hanno davanti, cioè hanno paura dei, chiamiamoli, dipendenti in questo momento, hanno paura di tutti  quei problemi che spesso vengono portati avanti e qualche volta non se la sentono di mettersi in contatto.  Credo che questi gruppi, come sono nati oggi, hanno la possibilità di recuperare anche questa integrazione all’interno della comunità. I  Priori, non tutti. Quindi io credo che il discorso del gruppo è importante posto anche all’interno delle Comunità dove tornerete.

    Dicevo prima, ma è già stato fatto, bisogna che ringraziamo il Padre Eterno anche perché mi ha fatto notare che noi spesso figuriamo più come datori di lavoro, che non come religiosi. Se questa è l’immagine forse è un’immagine sbagliata anche se purtroppo o per fortuna, siamo sia datori di lavoro che religiosi.

    Fra Raimondo Fabello al microfonoIo ritengo che quando la Santa Madre Chiesa ha approvato l’Ordine Religioso, lo dicevo già all’inizio, ci ha chiamato «Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio». Ci sono anche degli esempi storici che ci hanno ftatto notare spessissimo come quando non abbiamo operato in Ospedali nostri spesso queste esperienze sono fallite. Ancora ai giorni nostri questo non vuol dire che io sia per l’ospedale a tutti i costi, però ci so no delle esperienze storiche anche attuali che fuori dall’ospedale, non dico fuori perché vengono fatte fuori dall’ospedale, ma che non hanno comunque riferimento con l’ospedale, non danno l’impressione di tenere, quindi io credo che come siamo stati approvati come Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, lo dicevo anche nella relazione finale, probabilmente ancora oggi il nostro centro dev’essere l’ospedale; dal quale può uscire, possono muoversi anche altri tipi di attività, ma probabilmente il riferimento finale e concreto dev’essere l’ospedale. La scelta di San Giovanni di Dio è stata molto chiara, «Voglio l’ospedale come lo voglio io». Noi forse non riusciamo a farlo funzionare come vogliamo noi, inteso nel senso buono, cioè nel senso dell’ospitalità, e speriamo di farlo funzionare sempre meglio con l’aiuto che anche da queste cose possono venir fuori. D’altra parte mi è parso di vedere che tutti i gruppi ritengono come loro funzioni anche questo tipo di impegno.

    Fra Raimondo Fabello- il pubblico del convegnoDevo anch’io ringraziare, se no faccio brutta figura perché l’hanno fatto tutti, tutti i partecipanti al Convegno. Bisogna forse ringraziare anche quelli che sono rimasti a casa, come qualcuno ha fatto, dobbiamo ringraziare i nostri malati e forse più di’tutti loro, per ché tutti ci siamo mossi non tanto per andare a vede re se possiamo imbrogliarci a vicenda, se possiamo aiutarci a vicenda per interessi nostri personali, ma alla fine di tutto è proprio questo rimorso che ci spinge, che ci viene dal malato che non vediamo qualche volta curato in tutte le sue necessità che gli competono.

    Sentivo prima, sempre per restare in quell’argo mento, le canzoni e quelle parole del «treno dei desideri che  all’incontrario va» proprio perché non c’è lo sciopero; io credo che qualche volta anche all’interno delle case ci sarà bisogno di questo treno dei desideri che vada pure all’incontrano; c’è un’altra delle canzoni che diceva “nemmeno un prete per chiacchierar»;  io spero, che dopo questo Convegno qualche prete e qualche frate in più potrete cercare e cercatelo se avete bisogno di chiacchierare, perché magari anche il prete e il frate hanno bisogno di chiacchierare.  Buon ritorno alle case, auguri. Auguri nel senso di preghiera, come si faceva notare l’altro ieri, preghiera e allo stesso tempo desiderio. Io parlo a titolo proprio personale,  - qualche volta negli atti concreti un po’ meno – però , dentro di me ho sempre avuto una grossa stima dei miei collaboratori e quando dico queste cose le dico con la stessa stima  che ho sia con quelli che lavorano bene, sia con quelli che delle volte non lavorano bene perché hanno anche loro i loro problemi. Quindi vediamo se c’è qualcosa da una parte o dall’altra per trovare un’accordo. Dicevo  auguri perché e poi quello che viene dello sui tre quattro fogli, buon viaggio e buona ospitalità. Tra i ringraziamenti, credo che vada detta una cosa, dato che qualcuno oltre i disagi propri personali ha anche i disagi legati alla propria famiglia.Quindi, quando arriva te a casa, ringraziate anche le famiglie per le difficoltà che hanno dovuto sopportare.