RELIGIOSI E LAICI A CONVEGNO – INSIEME PER SERVIRE 1588 – 1988

RELIGIOSI E LAICI A CONVEGNO

INSIEME PER SERVIRE

1588 – 1988

QUATTRO SECOLI DEI FATEBENEFRATELLI A MILANO

Da Cemmo in quei giorni è passato lo Spirito Santo: “convenire è proprio il senso della Chiesa, tanto più quando è per studiare i modi di applicare la carità”, ha detto il vescovo Bruno Foresti. Se è vero che “Tanto si ha lo Spirito quanto si ama la Chiesa” (S.Agostino), è impensabile che una Chiesa orante ed in ascolto, non abbia percepito i Suoi suggerimenti.

 

Vent’anni dopo, alcuni dei protagonisti di allora sono già in Cielo come intercessori. Si può vivere come se non li avessimo mai incontrati?  Il Signore che ce li ha donati non lo ha fatto perché scriviamo belle pagine su di loro ma perché la loro testimonianza sia custodita dalla coscienza dell’Ordine, e diventi sorgente permanente di riflessione e di impegno.

 

Da allora tante cose sono cambiate.

 

A quanto pare, passati gli entusiasmi di quel momento storico, non il solo, dopo aver assistito ad una fioritura di santi e di martiri Fatebenefratelli, assisi alla gloria degli altari – avvenimento senza precedenti - la stanchezza e una depressione di massa sembra spopolare sia tra i religiosi che tra i laici.

 

E’ il caso di rifarsi alla saggezza dei padri:

  • ora fugit ne tardes:
    Il tempo fugge, non indugiare.
  • Hora horis cedit, pereunt sic tempora nobis: ut tibi finalis sit bona. vive bene:
    Le ore si susseguono veloci e così passano i nostri giorni: vivi con accortezza perchè l’ultimo ti sia favorevole.
  • Horae volant:
    Il tempo vola.

Meglio ancora alla Parola di Dio.

L’apostolo Paolo, il maratoneta del Vangelo, nel bimillenario commemorativo:

Voi sapete bene che viviamo in un momento particolare. È tempo di svegliarsi, perché la nostra salvezza è ora più vicina di quando abbiamo cominciato a credere. La notte è avanzata, il giorno è vicino! Buttiamo via le opere delle tenebre e prendiamo le armi della luce.  Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: senza orge e ubriachezze, senza immoralità e vizi, senza litigi e invidie. Non vogliate soddisfare i cattivi desideri del vostro egoismo, ma piuttosto vivete uniti a Gesù Cristo, nostro Signore” (Rom 13. 11-14)

L’Apocalisse:

1 “Per la chiesa che è nella città di Sardi, scrivi questo: Così dice il Signore, che tiene in mano i sette spiriti di Dio e le sette stelle: Io vi conosco bene. Tutti vi credono una chiesa vivente, ma in realtà siete morti. 2 Svegliatevi! Rafforzate la fede dei pochi che sono ancora viventi, prima che muoiano del tutto! Di quello che fate, non ho trovato nulla che il mio Dio possa considerare ben fatto. 3 Ricordate come avete ricevuto la parola e siete diventati credenti: ebbene, mettetela in pratica; cambiate vita! Se continuate a dormire, verrò come un ladro, all’improvviso, e piomberò su di voi senza che sappiate quando”. 4 “Tuttavia ci sono alcuni di voi, a Sardi, che non si sono macchiati di infedeltà. Essi vivranno con me, vestiti di tuniche bianche, perché ne sono degni. 5 “I vincitori saranno vestiti così, con bianche tuniche: io non cancellerò i loro nomi dal libro della vita. Anzi, li riconoscerò come miei seguaci davanti a Dio, mio Padre, e davanti ai suoi angeli. 6 “Chi è in grado di udire ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese.

Fra Sergio Schiavon o-h-L’allora Vicario Provinciale Fra Sergio Schiavon, per la ricorrenza di San Giovanni di Dio – 8 Marzo 1989 – presentava gli Atti del Convegno tenutosi l’anno prima, gg. 29/05-03/06 1988 presso il Centro di Spiritualità “MATER DIVINAE GRATIE” di via S.Emiliano, 30 in Brescia. Egli così scriveva:

” Il Convegno di Maggio/Giugno 1988 “INSIEME PER SERVIRE” ha rappresentato certamente un momento importante di incontro e di sintesi per le realtà operanti nella nostra Provincia. La riflessione sul tema dell’Ospitalità, punto di riferimento costante e fndamentale per tutti i partecipanti, ha favorito l’individuazione di come si è ospitali nelle varie Case.

 La raccolta dei contributi del Convegno vuole avere il significato di proseguire nella riflessione sui contenuti dell’Ospitalità, Carisma che San Giovanni di Dio ha trasmesso al suo Ordine. Attraverso i Religiosi Fatebenefratelli si intende riproporli ai collaboratori laici affinché nei nostri centri assistenziali l’Ospitalità divenga il comune stile operativo.

Auguro che la ricchezza di questi lavori divenga patrimonio di tutti, così che i nostri malati possano accorgersi di esserew i destinatari della nostrav premura, della nostra aattenzione, della nostra Ospitalità. Fra Sergio Schiavon o.h.  Vicario Provinciale “ 

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SPIRITO E DINAMICA

  

PER UN NUOVO SERVIRE

  

Fra Pierluigi Marchesi o.h.L’INTERVENTO DI FRA PIERLUIGI MARCHESI Priore Generale

 

 

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  • Al M.R. P. Raimondo Fabello Provinciale dalla Provincia Lombardo-Veneta

  • Ai Reverendi Confratelli partecipanti al Convegno 

1. A voi tutti, fratelli in Gesù, che vivete questo storico momento, con animo trepidante, gioioso e teso verso l’evoluzione che il mondo dell’OSPITALITA’ sta vi vendo, coinvolgendo anche il nostro Ordine e i suoi collaboratori, a voi tutti invio il mio fraterno saluto.

2. Un saluto ricco di speranze e di timori; un saluto che si trasforma soprattutto in un augurio che a Bre scia sappiate “INSIEME” trovare spirito e dinamica per un NUOVO SERVIRE, un augurio che a Brescia nasca veramente un giorno nuovo, una storia nuova.

3. Sono certo che le celebrazioni in ricordo della nostra secolare presenza in Lombardia non sono considerate come una semplice commemorazione, ma pensate e vissute con il gusto della rifondazione, nel comune rispetto della nostra memoria storica e dei valori dell’Ospitalità.

4. Abbiamo più volte dichiarato con convinzione, che oggi la nostra testimonianza nel mondo sanitario de ve orientarsi alla formazione di uomini capaci di assicurare efficienza gestionale, efficacia terapeutica e umanizzazione.

5. Questo messaggio è stato ripreso e, a volte con debole eco, a volte come bandiera entusiasta, è stato riportato nei nostri Centri e proclamato in maniera meno equivocabile al II Congresso Internazionale dei Collaboratori Laici recentemente celebrato a Roma.

6. Una nuova alleanza tra laici e religiosi si delinea e, in certi luoghi, si attua già con impegno, umiltà e creatività.

7. Sono convinto che questa ‘NUOVA ALLEANZA” non si improvvisa, ma va preparata con discernimento, con piani normativi, con capacità progettuale e con l’umiltà di chi sa sbagliare e nello stesso tempo verificare e correggere.

8. Tuttavia, malgrado i nostri proclami, che risalgono ormai al lontano 1980 dobbiamo ancora una volta rammaricarci per le incertezze, le titubanze, le paure che ci impediscono di percorrere nuove strade con i Laici nel mondo della sanità. Temiamo ancora di perdere, in favore di altre membra del Corpo di Cristo, quell’identità o quell’immagine che ci siamo costruita a nostra misura e che ci impedisce di vedere oltre i nostri limiti personali e istituzionali e ci chiude alla collaborazione autentica mentre la storia e l’evoluzione del nostro mondo sanitario-assistenzale non si arre sta più e forse non ci aspetta più.

9. Consentitemi di incoraggiarvi nel continuare a riflettere sulla vostra vocazione come fratelli” dediti al la lode di Dio nel servizio agli ammalati.

10. La nostra missione fondata sull’esecuzione dei con sigli evangelici, è orientata all’ospitalità. Questa, come carisma, è per tutti coloro che lo ricevono, un dono di Dio.

11. Laici e religiosi, siamo tutti “corresponsabili” di questo dono.

12. Corresponsabili saremo se, da religiosi, riusciremo a comprendere i laici con i loro doni e instaureremo rapporti creativi per la costruzione di progetti chiari e flessibili.

13. Da molte parti viene richiesto di definire meglio la nostra filosofia, quella che ispira la nostra specifica politica del Vangelo di misericordia.

14. In questo lavoro di definizione, apriamo le nostre menti ad una comprensione diversa del nostro passato orientato ad un avvenire sempre più problematico. Le forme di assistenza per il futuro, più che di strutture, avranno bisogno di persone disposte a condividere l’utopia che sta alle origini della nostra vocazione di cristiani — religiosi e laici — il servizio nell’amore.

15.      Tuffo intorno a noi muta e, per gestire questo mutamento, dobbiamo far ricorso alle nostre risorse più profonde: la solidarietà tra uomini, la comunione fra cristiani, il servizio verso tutti i bisognosi.

16. Pensare l’ospedale dell’avvenire può costituire una fuga piacevole dall’incerto presente. Vorrei dirvi, con tutta la forza della mia anima, che il nostro sguardo può puntare al futuro solo se comprendiamo il presente vissuto.

17. Per tracciare nuovi scenari nel mondo della sanità, dobbiamo sapere da dove veniamo; non per prepararci dei “ritorni” comodi, ma per disegnare percorsi sensati, fattibili e credibili nel rispetto della nostra sto ria.

18. Dalla cultura della separatezza dobbiamo passare alle culture della solidarietà e della comunione, in umiltà, ridiventando tuffi discepoli alla scuola di Cristo, uomo nuovo.

19. La nostra fede ci sostenga, non come piedistallo per le nostre elevazioni, egoistiche, ma come anima interiore per il discernimento e le scelte del nostro camminare verso il futuro.

20. Ritorniamo alle sorgenti della sacra scrittura, al gusto della preghiera e della vita liturgica, celebrata in comune; alla condivisione nella vita e nelle professioni.

21. Senza coraggio non si fa il futuro, specie di una istituzione.

22. Senza coraggio di progetti e di cultura nuova, non si vive la storia di oggi.

23. Senza coraggio non si fa l’Ospitalità nuova e si corre il grave rischio di fare delle istituzioni ospedaliere, non centri di Vita, ma luoghi sofisticati di nuovo e tormentato dolore per l’uomo che passa attraverso la malattia e attraverso la sofferenza.

24. Non abbiate dunque paura di essere coraggiosi! Trovate il coraggio di essere testimoni, il coraggio di essere animatori, il coraggio di essere profeti, il coraggio di essere precursori, ricercatori, per servire meglio. per servire insieme.

25. Il mondo ci chiama ad annunziare, ancora oggi, il Vangelo ai poveri, perché gioiscano; ai malati, per ché guariscano; ai più piccoli, perché vivano: accettare questa sfida è l’inizio del nostro progetto per il futuro !

26. Ascoltando queste mie parole, qualcuno potrebbe commentare che il Generale è lontano dalla realtà, è un utopista.

27. Vorrei poter pagare personalmente con la mia carne e la mia anima per il trionfo di questa meravigliosa utopia e, a questo proposito mi sia concesso riportare quanto ebbi a dire a conclusione del Convegno dei Collaboratori Laici del mese di marzo scorso: “…l’utopista non è né un visionario senza i piedi ben piantati in terra, né un nostalgico dell’impossibile, che si consola (o cerca alibi) guardando inerte al passato. L’utopista è colui che si dispone oltre il presente e oltre l’esistente: e, ditemi voi, che altro è un cristiano se non colui che ha in sé la speranza di una realtà che trascende il presente?

28. E, come si può essere veri operatori della carità e della sanità, se non si ha il respiro dell’utopia?

29.      L’utopia è più che mai necessaria oggi, in un mo mento storico come il nostro, che vede soprattutto i giovani (e qui ce ne sono tanti, ma non fanno parte della massima anonima) appiattirsi, adagiarsi materialisticamente sul ‘quotidiano’, sul presente singolo, perché privi di memoria storica e di progettualità individuale e comunitaria.

30. L’utopia è necessaria, infine, perché per noi il 2000 è quasi presente: e per ospitare degnamente dobbiamo dare ai nostri progetti la forza interiore dell’utopia”.

31. Carissimi fratelli, a tutti un ringraziamento per il nostro lavoro e per il vostro impegno.

32. L’Ordine dei Fatebenefratelli, i suoi malati, il Gverno Centrale dell’Ordine, vi ringraziano e vi incoraggiano.

33. Grazie per essere stati protagonisti di questo Convegno, nella speranza che siate co-protagonisti del nostro comune destino e co-protagonisti dalla storia del quinto secolo della diletta Provincia Lombardo Veneta nel nostro Ordine.

34. Che Dio perdoni i nostri peccati di omissione verso l’unione di laici e religiosi e mandi nei nostri cuori lo Spirito consolatore che ci dia coraggio nella solitudine e forza di testimoniare insieme il suo amore in un nuovo modo di servire l‘uomo nel dolore.

35. Che Dio benedica i religiosi della Provincia Lombardo Veneta, benedica voi tutti, collaboratori laici e le vostre famiglie; benedica i nostri ammalati nell’auspicio che da questo Convegno giunga a tutti loro un soffio di speranza e la gioia di un sorriso nuovo.

36. Fraternamente nel Gesù dell’ospitalità.

Dalla Cura Generalizia , il 20 maggio 1988 Fra Pierluigi Marchesi 

 brescia-cattedrale-e-duomo-vecchio-02-204x300

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bruno-foresti-vescovo-di-brescia-01-233x300-150x150MONS. BRUNO FORESTI Vescovo di Brescia 

 

Bisogna rivedere un po’ le cose, proiettarsi nel futuro con spirito nuovo, adatto ai tempi.

Voglio compiacermi perché questa ricorrenza è stata celebrata proprio in questo modo: vi sento insieme, religiosi e laici, a convegno (convenire è proprio il senso della Chiesa) tanto più quando è per studiare i modi di applicare la carità.

Ma vi sento già Chiesa proprio perché siete insieme, religiosi e laici, e vivete qui in reciproca carità! in funzione di un servizio sempre migliore, ma già realizzando all’interno vostro questo servizio di reciproca carità; perché credo che ciascuno darà il suo contributo e questo è per esprimere la carità.

Una pluralità di voci, di presenze e poi, come vi dicevo, per lo stile propriamente in cui voi vivete.

Ora il mio augurio è proprio questo: che il vostro “stare insieme”, nella carità, nella ricerca del bene, in vista del servizio ai fratelli si prolunghi sempre in un tutto armonioso e più cristiano stare insieme proprio in vista al servizio dei fratelli. Ed in tal senso ci sovviene l’esempio di Maria Santissima, colei che va a visi tare Elisabetta, la parente, sulla montagna.

La Madonna si è della serva del Signore, in servi zio, per il servizio, Lei, la serva del Signore.

Non è solo per il fatto che si è posta in servizio, ma perché si è sentita serva, è questa la cosa importantissima. Un conto è esercitare un servizio, un conto è sentirsi servi.

E tutta la dimensione della persona che è orientata in vista di quell’azione, non è l’aspetto esteriore ma quello interiore, profondo, psicologico, spirituale a costituire la Madonna serva: la fede senza le opere è vuota, non c’è uno spirito di carità e di servizio senza le opere, però, beninteso, il cuore è più grande della ma no dell’uomo.

 Vi ho dello che la Madonna si dice la serva del Signore, non perché farà qualche cosa o perché si metterà nelle opere, ma perché la stessa si sente proprio di essere dipendente del Signore e di voler essere scelta, anche in un senso di grandezza e di fierezza, dal Signore per il suo piano eccezionale; però con l’umiltà di chi dice “Ecco sono solo nelle Sue mani, e sono nelle Sue mani perché Lui è grande e misericordioso, ha fallo grandi cose Lui che è potente e Santo è il Suo Nome”, ed io sono nelle Sue mani affinché la Sua Misericordia trionfi.

Ecco, questo spirito di sentirsi proprio al servizio della misericordia di Dio è ciò che d rende umili, per chéla Misericordia è grande e noi siamo piccoli.

E anche quella che ci dà fierezza e gioia, perché noi siamo stati scelti dal Signore per essere le Sue mani, i Suoi occhi, in qualche modo il Suo sorriso ed in altro modo il Suo cuore, il cuore di Cristo che ci rende ancora più cristiani, “cor Christi cor Mariae”, ma anche quello che è il cuore di Cristo, il Figlio naturale di Maria, diventa anche il cuore del Figlio adottivo.

E allora mi pare che davvero in questa festa della Visitazione di Maria Vergine a Elisabetta, noi dobbia mo proprio pregarLa perché ci dia il cuore di servi. Questo atteggiamento spirituale di servi, questo desiderio di rendersi utili ed insieme l’umiltà, il desiderio e la fierezza addirittura di essere stati scelti dal Signore, per questo che è orazione, è chiamata, è dono, però è anche umiltà.

Che cosa posso fare se non sono inserito nel pia no di Dio, se Dio non rende potente il mio sorriso, se non rende potente la mia mano, se non rende potente il mio futuro? Umiltà dunque, però anche gioia, fierezza e generosità.

Ecco la Madonna davvero diventa come il modello del servire insieme; siete Chiesa, siamo Chiesa per servire. La Chiesa è serva, è, insieme, servizio e mo dello della Chiesa, e il tipo di Chiesa è Maria, Come si serve? Ecco le qualità cui accennavo: questa gioia, questa fierezza, generosità e, d’altra parte però l’umiltà, il non credere, perché ci rendiamo utili ai fratelli, di essere tanto bravi, tanto santi.

E poi l’attenzione che Maria ha avuto verso la cugina Elisabetta: le ha portato aiuto ma ha portato pure benedizione, santificazione.

Casi come il cristiano che si pone al servizio del malato, deve aver presente la globalità della persona: ha un corpo, ha un’anima e, nel contesto e nella concezione biblico-ebraica, uno spirito, Il corpo relaziona bile con i suoi dinamismi, l’anima che è il principio vi tale ed anche psicologico e, chiamiamolo così, di sensibilità e lo spirito, l’uomo in quanto orientato verso l’alto.

Questa è la tripartizione secondo il concetto ebraico di uomo: l’uomo è tutto corpo, è tutto anima, è tutto spirito, però, evidentemente, visto in aspetti distinti e con esigenze distinte.

Ebbene, ecco, Maria certamente ha avuto una sensibilità estrema, ha espresso la sua gioia nel suo Magnificat; un corpo giovane che si è mosso in servizio, ma anche, orientando verso il cielo Elisabetta, provocando in lei il dono dello Spirito, il dono della profezia e, soprattutto, questo sussulto di gioia del bimbo nel suo grembo che alcuni Padri hanno interpretato come presantificazione.

lo credo che questo debba essere sempre, tenuto tanto presente da voi, l’educazione al servizio, come educazione, dicevo, per sentirsi servi nella luce di Ma ria! anche a svolgere il servizio con queste intenzioni di Maria tenendo presente la globalità della persona! il corpo e, perciò,.}a professionalità. Non si può servi re un ammalato, (sono stato in ospedale anch’io qual che giorno), senza avere quell’attenzione, conoscen za e professionalità, è molto importante, Attenzione dunque a quest’aspetto del servizio e poi anche all’a nima, alla sensibilità, alla psicologia.

Allora ecco l’attenzione di un tocco di mano, l’attenzione dello sguardo, il sorriso. L’uomo ha bisogno di questo. Bisogna aggiornare il cuore, perché una ma no che tocca un’altra mano se parte da un cuore che ama, che è sensibile, è diverso da un altro, tocca in modo diverso, si può dire che c’è una trasmissione di qualche cosa che c’è dentro: non voglio parlare di pranoterapia perché siamo ad altri livelli, però è qualcosa che tocca perché c’è il cuore diverso, l’occhio è di verso.

 Quando gli innamorati si guardano, gli occhi brillano in modo diverso, quando un medico, quando un assistente guarda il malato in un certo modo…

E poi lo spirito. L’uomo, nella visione cristiana, è trascendente, va in alto, guarda in alto, confida in un destino che è quello ed allora non si può trascurare anche se non si fa, evidentemente, dello spiritualismo a buon mercato, non si può trascurare questo aspetto.

L’uomo visto nella sua globalità e, da parte nostra, se siamo cristiani, orientati verso la globalità: la salute fisica, la psicologia serena ma anche l’orientamento verso Dio. Soprattutto quando questo Dio si fa vicino, maggiormente quando ti vuole chiamare, allora vuole professionalità, vuole l’atto e lo spirito apostolico, non ché cuore largo e spirito apostolico.  

lo desidero ora augurarvi ed esortarvi insieme: l’augurio è già preghiera, se non è come tanti auguri che si fanno cosi di consuetudine, ma se è un augurio ve ro è preghiera per un cristiano.  

“Ti auguro che davvero questo avvenga in te, e l’amore è preghiera”, visto nella visione cristiana è preghiera.

E allora io voglio augurarvi, ed è già preghiera, però sussidio questo augurio con la Messa di stamattina, con la preghiera vera, con la preghiera che accompagna i vostri lavori, che davvero voi siate insieme qui a cercare il modo con cui servire meglio i fratelli: per servi non solo meglio da un punto di vista tecnico, ma per servire bene il fratello dando a questo senso il significato che dava 5. Giovanni di Dio quando diceva “Fate bene fratelli”. Certo, S.Giovanni di Dio non pensava alla professionalità solamente, ma a qualco sa di più grande che comprende anche quella ma non si limita a quella.

Fate bene fratelli !

 

 SUOR MICHELA CASSI

Vice Superiora delle Suore Darotee da Cemmo

 

 Innanzitutto il benvenuto al Convegno da parte della Comunità. E desiderio di ciascuna di noi che ognuno si trovi in questi giorni il più possibile a suo agio, un po’ possibilmente in famiglia, e per questo veramente chiediamo che ciò di cui hanno bisogno, con molta libertà lo possono chiedere.

Abbiamo visto la grande premura con cui hanno preparato il Convegno qui nella nostra casa e cerchiamo, per quanto ci è possibile, di favorire questo loro impegno.

Presento ora brevemente la nostra Congregazione.

Cemmo è un piccolissimo paese della Valcamonica. E piccolissimo adesso come lo era 140 anni fa quando è nata la Congregazione. Essa é sorta come scuola, quindi per l’educazione e la formazione, ma con l’attenzione a far si che chi veniva formato ed educato nei piccoli paesi della valle diventasse a sua vol ta capace di educare e formare.

Il nostro carisma specifico è animare e formare i laici, animare perché la vita cresca e sia sempre più forte. Ecco, penso che se ci unisce un dono è un po’ questo: la passione per la vita, perché la vita sia sempre migliore nei fratelli.

Lo facciamo, ripeto, attraverso opere formative ed educative nelle quali si inserisce anche questa struttura che prepara, organizza, offre esperienze di preghiera, corsi di spiritualità di vario tipo aperti indistintamente a diverse categorie.

Penso di aver dello a sufficienza per quanto ci riguarda e da parte di tulle noi della Comunità, nuova mente buon lavoro. 

 

Convegnisti - Fra Raimondo è il sesto da sinistra

 

LO STILE, LE CARATTERISTICHE E LE PARTICOLARITA’ DELLA NOSTRA OSPITALITA’

  

RELATORE:   FRA RAIMONDO  FABELLO  Priore Provinciale

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  “Curare significa usufruire anche delle tecnologie per aiutare il malato a capire il significato dell’esperienza che sta vivendo” NON AVERE PAURA DI AVERE CORAGGIO”.

 

Fra Raimondo Fabello al microfonoMi è stato affidato l’in­carico di tratteggiare le caratteristiche e lo svilup­po della Ospitalità, il Cari­sma specifico di noi Fate­benefratelli, attraverso i secoli a partire da Giovan­ni di Dio fino ai giorni no­stri. Non tratterò l’aspettoteologico della Ospitalità dei Fatebenefratelli e neppure quello del voto di religione che emettiamo all’atto del­la professione religiosa, ma cercherò di evidenziare quelle caratteristiche, quelle particolarità che possono rappresentare vorrei quasi dire lo “stile” della nostra Ospitalità..

Ho detto che l’Ospitalità rappresenta il nostro cari­sma specifico; penso sia utile definire cosa intendia­mo per carisma e lo faccio con le parole delle nostre attuali Costituzioni: “Il nostro carisma nella Chiesa è un dono dello Spirito, che porta a configurarci con il Cri­sto compassionevole e misericordioso del Vangelo, il quale passò per questo mondo facendo il bene a tutti e curando ogni sorta di malattia e infermità. In virtù di questo dono siamo consacrati dall’azione dello Spiri­to Santo, che ci rende partecipi in modo singolare, del­l’amore misericordioso del Padre. Questa esperienza ci comunica atteggiamenti di benevolenza e donazio­ne. ci rende capaci di compiere la missione di annun­ciare e di realizzare il Regno tra i poveri e gli ammala­ti; essa trasforma la nostra esistenza e fa sì che attra­verso la nostra vita si renda manifesto l’amore specia­le del Padre verso i più deboli, che noi cerchiamo di salvare secondo lo stile di Gesù. Mediante questo ca­risma manteniamo viva nel tempo la presenza miseri­cordiosa di Gesù di Nazareth: Egli, accettando la vo­lontà del Padre, con l’incarnazione si fà simile agli uo­mini suoi fratelli; assume la condizione di servo; si iden­tifica con i poveri, gli ammalati e i bisognosi, si dedica al 10[0 servizio e dona la sua vita in riscatto per tutti”.

E’ in virtù di questo dono e cercando di realizzare questi atteggiamenti su Il’ esempio di Cristo che si è svi­luppata nei secoli la nostra Ospitalità, all’inizio in mo­do sublime in Giovanni di Dio, e poi anche nei suoi figli, mediante opere concrete, iniziando dal primo ospedale fondato dallo stesso Giovanni di Dio in Gra­nada nel 1539

S. Giovanni di Dio (1495-1550)

 

Giovanni Ciudad (poi  chiamato di Dio) nasce in Por­togallo, a Montemor-o-Novo nel 1495; a nove anni in modo misterioso lascia la casa paterna e lo ritroviamo in Spagna e dopo una vita avventurosa. ma anche an­siosa di capire cosa Dio vuole da lui, dopo una parti­colare illuminazione della grazia, riesce a fondare il suo primo ospedale.

E dotato sicuramente di doni di natura sui quali si sovrappongono i doni della grazia, mediante i quali di­venterà il grande riformatore dell’ospedale e dell’assi­stenza sanitaria e il grande Santo della Carità.

Gli aspetti caratteristici (preludio e inizio dell’Ospi­talità di cui stiamo trattando) che determinano e accom­pagnano la dedizione, il servizio, le attenzioni, l’amo­re di Giovanni di Dio verso i poveri e i malati si posso­no così delineare:

  • Egli operava per amore di Dio e per la sua gloria. Il Castro, il biografo più autorevole, scrive: “In tutte le opere che faceva si prefiggeva come scopo principa­le che ne risultasse gloria e onore a nostro Signore, sì che la cura del corpo fosse mezzo per la salvezza dell’anima” (Cap. XIX).
  • Egli viveva l’esperienza di essere stato per primo amato da Dio. Il Castro conferma: “Aveva l’ansia dei santi, di dare cioè se stesso in mille modi per amore di Colui che era stato tanto munifico con lui” (Cap. XIV). – Egli si immedesimava nei poveri, nei bisognosi. La sua vera e profonda umiltà lo poneva tra gli ultimi. “Tut­to il tempo che servì nostro Signore lo passò nell’an­nientare e disprezzare se stesso e mettersi al posto più basso e umile in ogni forma e maniera che gli fosse possibile” (Castro, Cap. XXI).
  • La carità di Giovanni di Dio non aveva limiti. “Il suo cuore non sopportava di vedere il povero patire ne­cessità, senza apportarvi rimedio” (Castro, Cap. XVI).- Giovanni di Dio confidava totalmente nella provvi­denza ma si adoperava in tutto quello che poteva fa­re. Ai suoi poveri diceva “Confidate nel Signore poi­ché Egli provvederà a tutto, come suoi fare con colo­ro che da parte loro fan quello che possono”.
  • Giovanni di Dio è un uomo anche molto pratico e concreto: al giovane Luigi Battista che voleva entrare a far parte dei suoi aiutanti, scrive: “Se venite qui do­vrete obbedire molto e lavorare molto di più di quanto abbiate lavorato e tutto nelle cose di Dio, e consumar­vi nell’attendere ai poveri”.
  • Giovanni di Dio è un grande organizzatore, come vedremo in seguito.

Con questo spirito e con queste doti, Giovanni di Dio costruisce il suo modello di assistenza e per pri­ma cosa vuole un ospedale in cui poter ricevere e cu­rare i poveri e i pellegrini “a modo suo”, secondo le proprie intuizioni e i propri metodi fondati sull’amore, nonostante a Granada esistessero già almeno altri cin­que ospedali tra cui l’ospedale reale ove egli stesso era stato ricoverato e trattato come pazzo e dove ave­va iniziato a curare con amore quelli che erano con lui ricoverati.   

Giovanni di Dio va alla ricerca dei bisognosi e tutti quelli che trova, poveri, storpi, paralitici, pazzi, li porta nel suo ospedale: per primo nella storia da a ciascu­no il suo letto (nei primi tempi una semplice stuoia), li divide a seconda delle patologie, e per sesso. Ac­canto all’ospedale crea una grande stanza dove pos­sono essere accolti i pellegrini (che in quel tempo nu­merosi si recavano ai grandi santuari) e per tutti pro­cura il cibo necessario, mèdiante la questua e gli aiuti che gli provenivano dai benefattori.

Giovanni curava i suoi malati ma mirava alla loro salvezza spirituale e pertanto li faceva pregare, li esor­tava alla confessione e voleva che fossero riconoscenti verso i loro benefattori, pregando per loro.

Nel suo primo ospedale faceva tutto da solo an­che perché nessuno osava avvicinarlo a motivo della sua recente presunta pazzia; ma dopo breve tempo trovò alcuni aiutanti che lo coadiuvassero: di essi cer­tamente doveva molto fidarsi e sicuramente doveva averi i ben preparati se per molte ore del giorno affida­va loro l’ospedale mentre egli si prodigava per mille altre necessità oltre alla questua quotidiana che egli faceva rivolgendosi alla gente di Granada con le pa­role “Fate bene fratelli, a voi stessi per amore di Dio”.

Di una volta almeno si racconta che Giovanni di Dio rimase assente sette mesi dall’ospedale per recarsi a cercare aiuti fino a Valladolid, alla corte del Re. In que­sta occasione, tra l’altro, continuava a fare del bene a chiunque trovava nel bisogno anche se era andato a cercare aiuti per il suo ospedale, e a chi se ne la­mentava rispondeva “Darlo qui o darlo a Granada è sempre far del bene per amore di Dio, il quale sta in ogni luogo” (Castro, Cap. XVI).

Sempre oltre all’ospedale, tutti quelli che si rivol­gevano a lui “vedove e orfani onorati in segreto, per­sone coinvolte in liti giudiziarie, soldati sbandati, po­veri contadini, che… egli soccorreva secondo le loro necessità e non mandava via nessuno sconsolato”, “cominciò anche a prendersi la cura di cercare i po­veri vergognosi, ragazze ritirate, religiose e monache povere e donne sposate che pativano necessità in oc­culto”; provvedeva loro del necessario, chiedendo ele­mosina per esse e perché non stessero in ozio trova­va per esse qualche lavoro da farsi in casa e poi “si sedeva un po’ e le animava al lavoro e teneva loro un breve discorso spirituale, esortandole ad amare la vir­tù e aborrire il vizio” (Castro, Cap. XIII).

E ogni venerdì, “giorno in cui si commemora la no­stra redenzione”, Giovanni di Dio si dedicava alla re­denzione delle prostitute e per tutte quelle che riusci­va a convertire trovava i pezzi per una vita onorata, compresa la dote per quelle che volevano espiare en­trando in qualche convento sia per quelle che erano portate al matrimonio.

 Si potrebbero dire molte altre cose, credo tuttavia di aver già fatto comprendere quale erano le caratte­ristiche dell’ospitalità di Giovanni di Dio. 

Affidando i suoi duecento malati ad Anton Martin e una copia del quaderno dei debiti all’arcivescovo, Giovanni di Dio morì in Granada l’a marzo 1550 dieci anni soltanto dall’inizio della sua opera ed i funerali fu­rono un autentico trionfo.  

L’Ospitalità, dopo Giovanni di Dio

Giovanni di Dio mai pensò di fondare un Ordine religioso ma solo che ai suoi po­chi discepoli (non più di una decina) nominando suo successore Anton Martin. Egli faceva ogni cosa come l’aveva imparata dal maestro e dopo tre anni soltanto passò il testamento come l’aveva avuto da Giovanni di Dio al suo succes­sore. Nel frattempo tuttavia aveva trasferito “ospeda­levenissero assistiti i suoi poveri e i suoi malati e questo lasciò in testamento  in un ambiente più ampio e fondato un nuovo ospe­dale a Madrid. Iniziava la diffusione; il piccolo seme in breve tempo diventerà un albero rigoglioso.

Questi ospedali e quelli che vennero più tardi pro­vengono direttamente dallo spirito e dalla organizza­zione del fondatore e, nei primi secoli furono copia fe­dele di quello di Granada. Era una organizzazione completa e capi Ilare, con personale religioso e laico numeroso e ispirata a tale larghezza di vedute che po­trebbe far onore anche ai nostri attuali ospedali.

Ciò ha facilitato la diffusione stessa dell’Ordine, ar­gomento che oggi non possiamo trattare, ma rappre­senta anche quello stile di ospitalità che ha caratteriz­zato l’Ordine nei primi secoli, praticamente fino alla sua soppressione iniziata a partire dagli anni 1730 e fino alla fine del1aOO. Quando S. Pio V approvò l’Istituto, nel 1572, si dice abbia esclamato “Questo è il fiore che mancava nel giardino della Chiesa di Dio!”.

Vale la pena di riportare alcuni aspetti di quella or­ganizzazione, come li troviamo nelle prime Regole e Costituzioni, stese per l’ospedale di Granada. Queste note sono anche una dimostrazione delle capacità or­ganizzative di Giovanni di Dio.

Leggiamo: “Essendo questo un ospedale realmen­te generale, dove concorrono tanti poveri infermi sia uomini che donne quasi tutti mantenuti con le elemo­sine date dai fedeli, conviene che vi siano molti mini­stri, sia fratelli per raccogliere dette elemosine, che al­tri officiali necessari per il governo della casa, per l’am­ministrazione dell’azienda, per la cura e il sollievo dei poveri” .

E ancora, dopo aver detto che l’ospedale deve avere un sacerdote per la cura delle anime, si dice “Si avrà un fratello maggiore (superiore) e 23 fratelli pro­fessi e dell’abito, una donna che sia madre e prefetta delle sale delle donne inferme, un infermiere maggio­re e altri minori in ciascuna sala, un refettoriere, un can­tiniere, un dispensiere, un guardarobiere, un cuoco, un sacrestano, un medico, un chirurgo, un barbiere, tre portieri, un maggiordomo (economo, amministra­tore).

E ancora, l’ospedale doveva avere una speziera che forniva medicinali e droghe ai ricoverati e vende­va anche agli esterni.

Lo spirito che doveva sempre animare i fratelli lo possiamo dedurre da quanto viene prescritto per il Fra­tello maggiore:

“Poiché lo scopo principale dell’ospe­dale è la cura e il conforto dei poveri di Gesù Cristo, ordiniamo al fratello maggiore di essere mite, pio, ca­ritatevole con i poveri; di compenetrarsi molto delle loro infermità, di non impazientirsi e di non riguardare co­me un peso la loro importunità, ma piuttosto li conforti e consoli con parole amorevoli e con opere caritate­voli e procuri che si dia loro il necessario sostentamento di giorno e di notte, secondo la qualità delle malattie, come pure la biancheria dei letti, che dev4essere lim­pida, in modo che, mediante il conforto ad essi arre­cato, possano recuperare la salute più facilmente. E perché ciò possa conseguirsi meglio avrà premura di recarsi ogni giorno in tutte e singole le corsie dei ma­lati, uomini e donne, chiedendo a ciascuno di essi se ha bisogno di qualche cosa, …se gli infermieri lo tratti­no male o non gli diano il necessario, onde possa ri­mediare a tutto con discrezione e prudenza in modo che le necessità siano sollevate e le colpe punite, …co­me pure deve recarsi abitualmente nei vari uffici… per vedere e rendersi conto se vi sia la pulizia necessaria e la regolarità e diligenza degli officiali in detti uffici”.

Per quanto riguarda i fratelli infermieri viene stabi­lito “che gli infermieri siano fratelli dell’abito e non aven­done a sufficienza, il Fratello maggiore procurerà di trovare uomini di buona vita e buon esempio e carita­tevoli che disimpegnino l’ufficio con amore e carità”.

Per la cura dei malati viene prescritto: “Quando si riceve il malato povero, prima di metterlo a letto, se possibile, gli si lavino il viso e le mani, gli si taglino i capelli e le unghie e se non si pregiudica la salute gli lavino i piedi in modo che stia con molta limpidezza; dopo di che lo mettano a letto assestato bene, con len­zuoli e biancheria limpida, cuscini, berrettino e cami­cia dell’ospedale, se l’infermo non la portasse; tutto ciò si dovrà cambiare ogni otto giorni”.

“Gli infermieri dormiranno nelle corsie dei malati per accorrere subito alle loro necessità e a tal fine veglie­ranno nei rispettivi turni e nelle ore della notte, affin­ché per loro disattenzione o negligenza nessuno muoia senza qualcuno vicino, o si scopra, o caschi dal letto o faccia qualche altra cosa non decente, che possa essere evitata con l’aiuto e l’assistenza di detti infer­mieri”, i quali devono “trovarsi presenti alla visita del medico, perché ssano poi eseguire meglio quanto sarà prescritto”.

E ancora, l’infermiere maggiore che nelle corsie ha ogni autorità “su tutti gli infermieri, anche se siano pro­fessi, e ministri e officiali” e che deve far loro compie­re quanto è prescritto “comandandoli e aiutandoli”, “se necessario accompagnerà il medico nella visita e farà eseguire con diligenza tutto quello che prescriverà; do­vrà essere presente alla distribuzione del vitto e darà disposizione sul modo di ammanirlo bene e limpida­mente”.

Non meno chiare sono le disposizioni per i medici. “Il medico verrà molto presto al mattino, e il chirurgo dopo sorto il sole, perché possano isitare in tempo i malati e si possa in tempo provvedere il necessario sia per quello che riguarda il vitto come per quello che riguarda i medicinali, e cosi anche ritorneranno la se­ra, quando fosse necessario, e di questo noi faccia­mo un obbligo di coscienza”, e viene aggiunto “Fac­ciamo obbligo ai etti medico e chirurgo di avere pa­zienza nel curare gli infermi, visitandoli con calma, se­renità e tempo, informandosi delle loro malattie con af­fabilità e carità, per applicare meglio il rimedio e la me­dicina che conviene, ponendosi dinanzi agli occhi della mente il pensiero che è Gesù Cristo, loro Redentore, colui che cura l’infermo e, così facendo, Egli li illumi­nerà perché quelle e altre cure riescano bene e pa­gherà loro il cento per uno come ha promesso”.

Vì sono ancora molte altre raccomandazioni e pre­scrizioni, ma credo che quelle menzionate siano già molto chiarificatrici e non credo abbiano bisogno di particolari commenti.

Siamo nell’anno 1585. Questo stile, questo spirito di progresso, tipici dell’Ospitalità di Granada vengo­no riportati sebbene in termini diversi in tutte le Costi­tuzioni dell’Ordine fino ai giorni nostri.

L’Ospitalità e la diffusione dell’Ordine

 La diffusione dell’Istituto fu rapida e estesa se si pensa che nel 1685 contava già 224 opere nei cinque continenti.Questo sviluppo è stato possibile anche per il lar­go spazio libero che i Fatebenefratelli hanno trovato. In effetti le Religiose fino alla metà del secolo XVII si dedicavano raramente ai malati e l’assistenza laica de­gli infermieri era assai deficitaria. Inoltre il loro servizio nell’armata spagnola e poi in quella portoghese li ha portati in ogni parte del mondo e spesso, ove giunge­vano, viste le necessità delle popolazioni incontrate, si operavano per farsi affidare ospedali già esistenti o per erigere un loro ospedale. I mezzi venivano offerti spesso dagli stessi governi.

I religiosi che invece ritor­navano dalle campagne militari rientravano con la mas­sima semplicità alle primitive occupazioni. In questo modo l’Ordine iniziò anche la sua presenza in Italia. Infatti, anche se non tutte le notizie storiche sono state verificate completamente, i Padri Soriano e Arias, che erano imbarcati con le truppe spagnole per la Batta­glia di Lepanto (1571) contro i Turchi, passando per Napoli, decisero di fondarvi il primo ospedale.

Nello scorrere dei tempi, l’assistenza ospedaliera si qualificava sempre più e iniziavano a delinearsi le specializzazioni. Anche in questi momenti l’Ordine fu spesso anticipatore. Soltanto a titolo di esempio. ricor­do che già nelle Costituzioni del 1587 venivano previsti i convalescenziari per il consolidamento della salu­te, il recupero delle forze per un buon ritorno al lavoro. Leggiamo infatti: “Nessun infermo sarà dimesso fi­no a quando non abbia passato alcuni giorni di con­valescenza e quando negli ospedali dei nostri fratelli non si avesse la comodità di fare la convalescenza l’in­fermo venga trasferito in altri ospedali in cui si possa fare”.

I primi ospedali italiani sono sorti quasi tutti per as­sistere i convalescenti. Fin dal 1600, soprattutto in   Francia, si sviluppò una specializzazione psichiatrica. Il Ce­lebre Pinel, nel suo “Traité de la manie”, fa un elogio dell’ospedale di Charenton, ospedale psichiatrico e maison de force (manicomio criminale). In questo ospe­dale sarà più tardi rinchiuso il tristemente famoso De Sade. E anche dopo la restaurazione dell’Ordine in Francia, la legge sugli alienati del 30 giugno 1838 ha raccolto numerosi suggerimenti e consigli del P. Gio­vanni di Dio de Magallon.

Per l’Italia è interessante rileggere un passo del Re­golamento dell’ospedale di Ancona (1840) in cui eb­be rinomanza il P. Vernò. Vi si legge: “I pazzi entrati in convalescenza saranno tolti dalla divisione in cui han­no dimorato nel tempo della malattia e verranno collo­cati nelle stanze del convalescenziario dove resteran­no per tre mesi divisi interamente da tutti gli alienati”. “Nessuno dovrà essere ozioso, ma la loro occupazio­ne deve essere scelta secondo le disposizioni naturali degli individui, secondo la loro professione e la spe­cie di alienazione che soffersero”. “Nel corso della con­valescenza saranno gli uomini qualche volta chiamati a pranzo dal rev.do Priore dell’ospedale e le donne dal medico direttore. L’ospedale presterà i mezzi per questi convitti di prova”.

Altre opere si specializzarono per le forme derma­tologiche e soprattutto celtiche, altre per l’assistenza ai bambini rachitici e scrofolosi, altre per la cura e la rieducazione di handicappati fisici e psichici.

L’Ospitalità e la formazione professionale

 

Un ulteriore aspetto che ha caratterizzato l’ospita­lità dei Fatebenefratelli durante i secoli è certamente quello della formazione professionale. Per il suo fine specifico di assistere gli infermi, l’Or­dine ha coltivato con impegno, secondo il livello del progresso culturale e tecnico dei tempi, gli studi me­dici, chirurgici, farmaceutici e infermieristici per la for­mazione dei suoi religiosi e non loro soltanto.

All’inizio la formazione avveniva con “esercizio pra­tico e con le lezioni al letto del malato, impartite man mano che ne capitava l’occasione, dal medico, dal Fra­tello maggiore e dai fratelli più anziani e più esperti.

I Novizi stessi dovevano essere istruiti dal Maestro nonsolo per quanto riguardava la vita ascetica e religiosa ma anche sull’assistenza ai malati, “servendo nelle sale degli infermi e nei vari uffici e altri ministeri della ca­sa”. Alcuni Padri Generali ordinano di far scuola di filosofia ai novizi e ai Neoprofessi per avviare  poi alcu­ni allo studio della medicina e di istruirli in modo che “imparino a cavar sangue, di chirurgia e di spezieria”.

Tutto ciò è stato certamente facilitato fin dall’inizio dalla presenza e dall’attività di alcuni valorosi medici, chirurghi, speziali (farmacisti) che entrarono nell’ordi­ne e per la collaborazione di laici preparati. La prima scuola di chirurgia risale al 1553 presso l’ospedale di Anton Martin di Madrid. In essa si istruivano i religiosi che poi ottenevano “la convalidazione dinanzi al tribu­nale del protomedico”. Alla scuola partecipavano an­che religiosi di altri Ordini e, giovani che avevano ini­ziato il tirocinio pratico presso qualche medico. Era de­stinata alla preparazione di chirurghi minori (non sa­pevano il latino), barbieri, flebotomi e infermieri e in se­guito (dopo il 1556) anche allo studio delle malattie del­la pelle (soprattutto celtiche), odontoiatria, ORL e uro­logia. Chi voleva diventare chirurgo maggiore o me­dico, dopo un corso preparatorio di latino, grammati­ca e matematica. si iscriveva alla università.

Per modestia religiosa i fratelli addottorati erano esentati dalla cerimonia di investitura.

Anche in Italia questo aspetto fu molto curato, non sto ad elencare le scuole qui sviluppatesi. Certamen­te il livello professionale dei religiosi ed il numero dei laureati doveva essere alto se (ancora oggi sembra esagerato) il Capitolo provinciale del 1785 prescrive­va che “Non si dovessero accettare all’abito se non persone dotate di speciale vocazione al nostro Istitu­to, e atti agli studi allo stesso propri tanto di medicina, chirurgia e farmacia quanto di conteggio per le cose amministrative”.

Questi religiosi inoltre dovevano essere molto sti­mati e richiesti se la Santa Sede è intervenuta per vie­tare la loro opera fuori dagli Ospedali. Nel Capitolo ge­nerale del 1738, per cercare di superare questo divie­to, viene fatta notare l’impossibilità di adeguarvisi “per­ché ne segue disaffezione da parte di coloro che so­no devoti ai nostri conventi, sospensione di elemosi­ne e grande mancanza da parte dell’Ordine verso per­sone di ogni classe, che sollecitano il conforto di es­sere curate nei loro mali da un religioso chirurgo, ri­ponendo in questa loro buona opinione il consegui­mento della guarigione. Per tale motivo non si può ne­gare a essi ciò che specificamente appartiene alla no­stra professione e al nostro Istituto”.

Molti fratelli, oltre che per l’amoroso servizio pre­stato ai più poveri, furono in effetti insignì per aver cu­rato principi, re e Papi e per vari contributi dati alla scienza alcuni figurano negli annuali; uno, il Beato Ric­cardo Pampuri è anche annoverato tra i Santi.

L’Ospitalità nelle Missioni dell’Ordine

 

Giovanni di Dio ebbe un animo altamente missio­nario, anche secondo la terminologia moderna, non prefiggendosi altro fine che la gloria di Dio e la salvez­za delle anime.

Lo stesso spirito missionario passò ai suoi primi di­scepoli e si diffuse rapidamente, sempre inquadrato nell’ambito del suo fine specifico, cioè all’assistenza degli infermi soprattutto negli ospedali. Tra i missiona­ri troviamo parecchi martiri. Oggi l’ordine annovera ol­tre 20 opere missionarie ove i religiosi manifestano e dimostrano con fatti concreti quanto altri missionari in­segnano con la predicazione e la catechesi.

L’Ospitalità nelle guerre, nelle epidemie e altre necessità.

L‘Ospedale per i Fatebenefratelli è sempre stato il punto di riferimento privilegiato, tuttavia essi hanno realizzato l’Ospitalità anche in molte altre occasioni in cui la loro opera è stata ritenuta necessaria o utile. Durante le guerre, come abbiamo visto anche all’inizio della diffusione dell’Ordine, i religiosi hanno par­tecipato come medici e infermieri al seguito degli eser­citi, talora come responsabili della organizzazione sa­nitaria militare; altre volte hanno trasformato i loro ospe­dali in ospedali militari, altre ancora sono stati chiama­ti a organizzare e dirigere ospedali militari. Sono nu­merose le attestazioni di benemerenza ricevute sia per l’organizzazione che hanno saputo realizzare sia so­prattutto per la loro dedizione e i loro servizi a favore dei feriti dell’uno e dell’altro fronte.

Durante le epidemie (P. Gabriele Russotto nella sua opera “S. Giovanni di Dio e il suo Ordine Ospedalie­ro” ne elenca 75 in cui sono intervenuti i Fatebenefra­telli) sono parecchi i religiosi che hanno lasciato la vita per assistere i malati. Tra questi lo stesso Anton Mar­tin, tre anni dopo la morte del Fondatore come abbia­mo già visto e il Beato Giovanni Grande (1600). Per restare a noi, nella peste di Milano del 1630, siamo certi della morte di almeno 14 religiosi.

Nella calamità naturali e in caso di disastri ugual­mente l’Ospitalità ha spinto i religiosi a intervenire con la loro dedizione. Accenno soltanto a titolo di esem­pio agli ultimi in ordine di tempo: lo scontro ferroviario di Benevento nel 1953, il terremoto di Agadir (Maroc­co) del marzo 1960, i terremoti del Friuli e dell’lrpinia.

L’Ospitalità  oggi.

 

Le leggi repressive che erano quasi riuscite a sop­primere l’Ordine Ospedaliero, ovviamente non pote­vano sopprimere “Ospitalità, carisma, dono dello Spi­rito alla sua Chiesa, e, verso la fine del secolo scorso, l’Ordine ospedaliero inizia in modo molto intenso la sua restaurazione per opera di santi e coraggiosi religiosi, tra i quali spicca la figura del Beato Benedetto Menni. Peggiorano soltanto la loro situazione le opere oltre la cosiddetta “cortina di ferro”. Intensa si manifesta l’o­pera dei Fatebenefratelli durante le due guerre mon­diali. In Italia si caratterizzano con le loro case di cura aperte a tutti, tra le poche convenzionate con tutti gli Enti assistenziali, e i loro istituti psichiatrici.

Con una scelta coraggiosa entrano nel servizio sanitario nazionale mediante la lassificazione delle loro Case di cura e in occasione della attuazione della leg­ge 180 del 1978, si rifiutano di abbandonare al loro destino i malati psichiatrici che erano affidati alle loro cure, nonostante disagi economici notevoli e contesta­zioni varie.

Il Concilio Vaticano Il richiama tutti gli Istituti religiosi a rinnovarsi e a riformulare le proprie Costituzioni.

Anche la società civile, e con essa il mondo sani­tario, vivono una profonda trasformazione.

In questo contesto, per quanto riguarda il mondo sanitario, si possono sottolineare alcuni aspetti positi­vi, quali: una profonda evoluzione delle strutture sani­tarie e ospedaliere, una più adeguata preparazione professionale degli operatori sanitari, una maggior par­tecipazione nella gestione della salute e del v%nta­riato, e altri negativi, quali: una tecnologia esagerata e disumanizzante, una burocratizzazione e una politi­cizzazione eccessiva del mondo sanitario, l’emargina­zione di alcune categorie di pazienti (malati cronici, an­ziani, tossicodipendenti, ecc.) e la progressiva assimi­lazione di una cultura di morte rappresentata dall’a­borto e dalla eutanasia.

Per quanto riguarda l’Ordine Ospedali ora si riscon­trano alcuni elementi preoccupanti, tra i quali:

  • il calo nelle vocazioni e l’età media dei religiosi,
  • la preparazione culturale e professionale non più ade­guata ai tempi,
  •  la scarsa incisività apostolica all’inter­no delle proprie Opere,
  • la difficoltà a gestire strutture divenute complesse,
  • la difficoltà a realizzare rapporti cordiali di collaborazione e di fiducia con i collabora­tori laici,
  • una certa incapacità a influire sulla umanizzazione delle strutture ed a stimolare i nostri collabo­ratori.

In questi contesti sono state riformulate le nostre  Costituzioni e Statuti Generali in cui vengono ripresi ritrascritti in termini conciliari gli aspetti legati al Carisma dell’Ordine, si rinnovano i criteri per la formazio­ne dei religiosi, si riformulano i criteri di amministrazione e governo delle Comunità e delle Opere assistenziali e si identificano i criteri che danno lo stile della nostra Ospitalità. Per questo nostro convegno ritengo utile soffermarmi su questa parte, elencandone qualche  aspetto.

  • Nella realizzazione della nostra missione occorre collaborare con altri organismi della Chiesa e dello Stato (C45).
  • Occorre ricercare e accettare la collaborazione di altre persone, professionisti e no, volontari e collaboratori, ai quali ci sforzeremo di partecipare il nostro spirito nella realizzazione della nostra missione (C.46).
  • Occorre inserirsi individualmente e come comuni­tà, nei centri e negli organismi dello Stato per svolge­re una missione di evangelizzazione e di servizio nel mondo della salute (C.47). 
  •  Nella pastorale ospedaliera dobbiamo sensibilizza­re i nostri collaboratori affinché esercitando le loro ca­pacità umane e professionali, agiscano sempre con il massimo rispetto per i diritti dei malati, inoltre dobbiamo invitare a partecipare direttamente alla pastorale coloro che si sentono motivati dalla fede (C.51).   
  •  Gli statuti  Generali, inoltre, dichiarano i nostri centri assistenziali come confessionali e cattolici (S.53), e definiscono i principi fondamentali che orientano e ca­ratterizzano l’assistenza nelle nostre opere, nel modo seguente (S. 54):   

  • Avere come centro di interesse di quanti viviamo e lavoriamo nell’ospedale o in qualsiasi altra  opera as­sistenziale il malato.
  • Promuovere e difendere i diritti del malato, dell’an­ziano e dell’invalido, tenendo conto della loro dignità personale.
  • Riconoscere il diritto della persona assistita a es­sere informata del suo stato di salute.
  • Osservare le esigenze del segreto professionale… – Difendere il diritto a morire con dignità…
  • Rispettare la libertà di coscienza delle persone che assistiamo e dei collaboratori, fermi nell’esigere che si rispetti l’identità dei nostri centri ospedalieri. – Rifiutare la ricerca di lucro osservando e esigendo che non si ledano le norme economiche giuste.

E poiché questi principi devono essere accettati e rispettati da tutte le persone che collaborano con noi, “si ponga la massima attenzione nella scelta del per­sonale tecnico, amministrativo e ausiliario…, tenendo presente non solo la loro preparazione e la loro com­petenza professionale, ma anche la loro sensibilità di fronte ai valori umani e ai diritti dei malati, conforme agli orientamenti della Chiesa e degli organismi che proteggono i diritti dei malati” (S. 55).

L’Ordine Ospedaliero intero è impegnato ad assi­milare e vivere gli impegni derivanti dalle nuove Co­stituzioni e Statuti Generali. Alcuni religiosi sono diso­rientati e talvolta restii al cambiamento. Per recare mag­gior impulso e più energia a tutto ciò e per cercare di superare le resistenze, il Superiore Generale ha offer­to a tutti tre grandi riflessioni, che ci stanno ancora im­pegnando:

  • Il Rinnovamento (1978), mediante il quale abbia­mo cercato di riscoprire le radici della vocazione ospe­daliera per viverla e testimoniarla secondo le esigen­ze dei tempi.
  • L’Umanizzazione (1981), mediante la quale e uma­nizzando noi stessi e le nostre strutture, cerchiamo ri­pristinare “la nostra alleanza con l’uomo che soffre” e di infondere un impulso più stimolante alla nostra co­munità e ai nostri collaboratori per una assistenza che si centra sull’uomo e che lo serve con dignità e effi­cienza.
  • L’Ospitalità verso il 2000 (1986), che facendoci toc­care con mano l’attualità e l’urgenza del nostro Carisma, ci sospinge, in questo mondo che si  trasforma tanto velocemente, a una continua verifica e adatta­mento dei nostri atteggiamenti, e alla ricerca di even­tuali nuovi ruoli apostolici che meglio realizzano la no­stra Ospitalità.

In questa prospettiva, per taluni aspetti carica di ansietà e per altri capace di entusiasmi, cerchiamo di vivere oggi la nostra Ospitalità, orientata verso il mil­lennio. Ci accompagna uno slogan: “Non avere pau­ra di avere coraggio” e un programma forse ancora non ben delineato per essere sempre più autentica­mente “testimoni”, “guide morali”, “coscienza critica”, “anticipatori” e “ricercatori” anche ai nostri giorni co­me lo fu all’inizio S. Giovanni di Dio.

L’Ospitalità insieme con i Fatebenefratelli

  

Un ampio movimento si è sviluppato all’interno di tutto l’Ordine per realizzare quella che è stata definita “la nuova alleanza con i laici”, dopo che cause più di­verse hanno portato ad una condizione di disagio che fanno soffrire tutti, religiosi e laici, cappellani e suore, e che soprattutto si ripercuotono negativamente nella qualità del servizio che assieme dobbiamo dare al ma­lato. Anche semplicemente come cristiani credo che dobbiamo reciprocamente chiederci perdono e assie­me chiedere perdono ai nostri malati e a Dio per la poca carità qualche volta esercitata.

Abbiamo visto precedentemente come le Costitu­zioni impegnano i religiosi a trasmettere le caratteristi­che del carisma del!’ ospitalità ai nostri collaboratori e ad invitarli a partecipare alle attività pastorali. Nelle nostre opere ci sono laici cristiani impegna­ti e non. Per i primi vale il comandamento di amare Dio e amare il prossimo, allo stesso modo di come è richiesto per i religiosi; per essi operare in una struttu­ra religiosa e nello stile della ospitalità di Giovanni di Dio rappresenta inoltre una nuova o maggiore oppor­tunità per esercitare il suo apostolato specifico, “par­tecipazione alla stessa missione salvifica della Chiesa” (LG .33) tra i malati che assiste e tra i colleghi con i quali opera.

Se necessario, anche per effetto della collabora­zione che i religiosi affidano, i laici cristiani impegnati, ma non solo loro, saranno in grado, e talora anche mo­ralmente impegnati, di dare consigli ai religiosi e di esercitare verso di essi la correzione fraterna.

All’interno dell’Ordine si ipotizza anche la possibi­lità di istituzionalizzare sotto la bandiera dell’ospitalità qualche movimento laicale.

Altri coinvolgimenti sono già stati iniziati, quali ad esempio “La fondazione internazionale Fatebenefra­telli” costituita per la formazione medica, infermieristi­ca e tecnica e per la ricerca in campo sanitario, “as­sociazioni di volontariato ospedaliero”, l’associazione “Con i fatebenefratelli per i malati lontani”, costituita per promuovere l’assistenza sanitaria nei paesi in via di sviluppo.

Nei secoli scorsi, a partire dal primo ospedale di Granada sono sorte anche associazioni religiose e veri istituti religiosi che si sono ispirati alla Ospitalità dei Fatebenefratelli; ne cito due tuttora esistenti: le “Piccole suore dei poveri” che professano gli stessi nostri quat­tro voti, e le “Suore ospedaliere del S. Cuore di Ge­sù”, fondate dal nostro Beato Benedetto Menni e che possono essere considerate il ramo femminile dell’Or­dine Ospedaliero.

Conclusione

 

Non so se sono riuscito a esprimere chiaramente l’essenza, la grandezza e nello stesso tempo l’impe­gno della nostra Ospitalità. Mi auguro che questo convegno ci aiuti a parteci­parne lo spirito, ci renda capaci di assimilarlo ancora di più e a trovare nuove soluzioni o proposte perché lo possiamo diffondere a tutti i collaboratori e testimo­niarlo, assieme, ciascuno secondo il proprio stato, a gloria di Dio e a beneficio dei nostri malati e dei nostri poveri.

PIANETA DONNA: L’ORA DEL RISCATTO – Angelo Nocent

LE SORELLE DI SAN GIOVANNI DI DIO

 

Lunedi notte (13 Ottobre 2008) mi sveglio di scatto. Convinto di essere in ritardo per il lavoro, cerco l’orologio: sono appena le quatro del mattino. Mi alzo perché non riesco più a riaddormentarmi, mi faccio il caffè e comincio a sfogliare un vecchio libro del Padre Gabriele Russotto: “L’ORDINE OSPEDALIERO DI S. GIOVANNI DI DIO” – Anno 1950.

Guardo le foto delle distruzioni belliche che hanno colpito anche diversi ospedali dei Fatebenefratelli d’Italia, Austria, Germania, Francia…Mi soffermo più a lungo sull’Ospedale San Giuseppe di Milano: la documentazione del bombardamento aereo della notte 15-16 Agosto 1943 è desolante. A pagina 151 mi soffermo, tra l’ncredulo e lo stupito, su questo titolo: “COSTRUZIONI DELLA CARITA’ “.

Leggo: “Malgrado i danni e le distruzioni subìte e le gravi difficoltà nelle quali l’Ordine si trovò durante la tremenda parentesi bellica, tuttavia il suo cammino, guidato dalla mente illuminata e dal cuore grande del Generale P. Efrem Blandeau, non si arrestò. Durante il periodo della guerra furono fondate complessivamente altre 22 Case, come segue: 2 in Italia; 2 in Irlanda; 5 nella Spagna; 2 nel Portogallo; 2 in Africa; 2 in Argentina; 2 nel Cuba; 1 nel Perù; 3 negli Stati Uniti; 1 nel Venezuela. In qualcuna di queste  Nazioni l’Ordine è entro per la prima volta”.

Cosa pensare? “La c’è la Provvidenza!”, il Manzoni fa dire a Renzo. E i frati non hanno mai dubitato. Ma, se allora, perché non ora?

Proseguo la mia consultazione e finisco a pagina 179. Ciò che segue – escluso il titolo che è mia deduzione –  è fedelmente riportato.

LE  SORELLE di san Giovanni di Dio nella PAGINA DIMENTICATA DAI FRATELLI

“Le Costituzioni dell’Ordine, anno 1585 per “L’OSPEDALE DI GIOVANNI DI DIO” in Granada, prescritte da Mons. Giovanni Mendez Salvatierra, Arcivescovo di Granata, furono la base delle prime Costituzioni dell’Ordine e delle altre edizioni successive. Se ne conserva copia stampata – mancante però di più pagine – nell’Archivio Generale dei Fatebenefratelli in Roma. Il titolo intero è: Regla y Costituciones, para el Hospital de Juan de Dios desta ciudad de Granada, Por el Illustrissimo Reverendissimo Senor don Joan Mendez de Salvatierra, Arcobispo della…, del consejo de su Majestad, etc. (Granada , 1 gennaio 1585, pp. 17-18)

TITOLO XV delle COSTITUZIONI 1585

DEL MEDICO, DEL CHIRURGO E DEL BARBIERE

Prima Costituzione, che tratta delle ore in cui debbono trovarsi nel detto Ospedale, a chi spetta la loro nomina e da chi debbono dipendere dentro l’Ospedale.

  1. Il medico e d il chirurgo…

  2. Come debbono essere multati…

  3. Dell’ordine, che devono osservare nella visita ai malati…

  4. Quando il medico deve ispezionare la farmacia…

  5. Della carità e diligenza, con cui debbono visitare i detti infermi…

  6. Dell’ora, in cui il barbiere deve essere presente alla visita insieme col medico…  “

IN COSTRUZIONE (Appena possibile, verrà riportato integralmente il testo di ogni paragrafo)

(1587)

Queste Costituzioni – delle quali è giunto fino a noi solo il Capitolo XV – furono approvate dal primo Capitolo Generale, celebrato in Roma nei giorni 20-29 giugno 1587, e sono la documentazione scritta del metodo assistenziale introdotto nel 1537 da san Giovanni di Dio nel suo Ospedale in Granada e poi continuato fedelmente dai suoi Figli nella Spagna e nelle altre nazioni.

Il Capitolo XV è riportato nella prima biografia del Santo – più volte citata – del P. Francesco de Castro: Vita et opere sante di Giovanni di Dio…, tradotta dallo spagnolo dal P. Francesco Bordini (Firenze, 1589) p. 196.

  • Dell’ordine che tengono li Fratelli di Giovanni di Dio  in governare li poveri infermi nelli loro spedali, estratto brevemente, et sommariamente dal Capitolo XV delle loro Costitutioni.  Conviene  grandemente…

  • Dell’ordine che si tiene nel ponere li poveri infermi nel letto. S’ha da procurare…

  • Del modo che si tiene nel visitare gli poveri infermi con il medico, et chirurgico.  Nelle due visite…

  • Ordine che si tiene nel dar da mangiare a’ poveri infermi. Venuta l’hora…

  • Della guardia che s’ha da tenere, così nel giorno, come nella notte dell’infermeria; et la maniera che s’ha da tenere in licentiare i poveri, di poi che sono risanati.  Et acciò…

  • Della gran cura che s’ha da tenere degll’infermi, che stanno nell’agonia della morte.  Et perché importa…

  • Come si sepeliranno l’infermi, che sono morti nel nostro spedale, e delle messe de’ defunti ogni lunedì. Quando per voluntà di…

  • Degli esercitij spirituali, che si fanno nelle i infermarie. Nelle infermarie si dirà Messa ogni mattina,…

Delle sorelle del nostro habito, che hanno da medicare le povere inferme.

“In alcuni delli nostri spedali si ha usato, et usa ricevere  donne inferme, et medicarle in luogo distinto, et separato, et lontano dalle infermarie degli huomini, servendo le sorelle del nostro habito con la carità possibile, et questo perché le donne siano rimediate come gli huomini: ha parso al capitolo che si faccia il medesimo da qui innanzi ne’ luoghi commodi, et ritirati dove si possa fare, procurando sempre di andare  innanzi di perfettione, et s’intenda che non ha da essere con ogni picciola commodità; ma dove possino stare molto appartate, et raccolte, et che non possa entrare in esse niuna sotre d’huomini; eccetto che i medici, et che siano in istanze molto commode, e per questo effetto si terrà particolar cura in questo esercitio”.

 

Della infermiera maggiore, facendosi spedale di donne.

“Sarà una infermiera maggiore d’età di anni 40 poco più, o meno, la quale sarà religiosa del nostro habito, diligente et sufficiente per questo ministerio, dove sarà obedita da tutte le altre sorelle, et farà l’infermiera maggiore, che nel spedale delle donne si osserva quell’ordine, che s’è detto nello spedale degli huomini, nella visita de’ medici, et in tutti gli altri esercitii, così spirituali, come corporali, et così anco  tenirà particolar cura nello spedale si viva con ogni modestia, et non lasci uscire niuna fuora se non sarà sana, er licentiata dal medico, et farà che tutte le cose le siano provedute, et convenienti atte: di maniera che non si manchi niente di quello che dal medico fu ordinato, et per quest’effetto sarà una ruota per dove le si diano tutte le cose necessarie, et per la porta non entrerà se non l’inferme, et li medici quando anderanno a visitare, et il fratello maggiore si troverà sempre presente alla visita, et se sarà bisogno il barbiero, et lo spetiale, et l’infermiera maggiore farà che si faccia la visita con ogni modestia et honestà, et che alle inferme non le manchi cosa niuna, come sìè detto nella infermità degli uomini, et nella porta della infermeria delle donne saranno due chiavi differenti una dall’altra, et una la tenirà il fratello maggiore, et l’altra la sorella infermiera maggiore; di maniera che non possa aaprire l’uno senza l’altra”.

DA: “L’ORDINE OSPEDALIERO DI S. GIOVANNI DI DIO” – ROMA – ISOLA TIBERINA . Anno Giubilare 1950 – P. GABRIELE RUSSOTTO O.H.

Fina dalle origini è evidente che vi è già una fondazione religiosa al femminile, analoga a quella dei frati, sorretta dalle medesime norme:

“In alcuni delli nostri spedali si ha usato, et usa ricevere  donne inferme, et medicarle in luogo distinto, et separato, et lontano dalle infermarie degli huomini, servendo le sorelle del nostro habito con la carità possibile, et questo perché le donne siano rimediate come gli huomini:..”

  • “Sarà una infermiera maggiore d’età di anni 40 poco più, o meno, la quale sarà religiosa del nostro habito, diligente et sufficiente per questo ministerio, dove sarà obedita da tutte le altre sorelle, et farà l’infermiera maggiore, che nel spedale delle donne si osserva quell’ordine, che s’è detto nello spedale degli huomini…”

 

L’argomento meriterebbe di essere approfondito. E, se vi sono dei ritardi storici, andrebbero recuperati.

Sono tentato di credere che certe crisi celino l’accorato desiderio di Dio: far emergere e riconoscere nel nostro tempo quella diaconia delle donne che da sempre esse hanno esercitato, nella riservatezza tipica di Maria.

Nulla di nuovo sotto il sole.

Mi domando: e se un giorno fossero le donne a prendere in mano la situazione di alcune postazioni dell’Ordine? Fino a prova contraria, Fatebenefratelli vuol dire anche Fatebenesorelle. O no ?

La carità di Giovanni di Dio è stata sostenuta sia dalla ricchezza delle nobildonne che dagli spiccioli e dalla scontata fatica delle donne del popolo. E tra esse, alcune di quelle sottratte dal Santo alla schiavitù della prostituzione. Tutto fa pensare che San Giovanni di Dio, sul ruolo della donna, pur nei condizionamenti legati alla mentalità del tempo, abbia visto più lontano di noi che ci consideriamo emancipati.

 Dal libro del Profeta Gioele

Cap 3  -  Il Signore manderà il suo spirito

 1“Dopo questo,
io manderò il mio spirito
su tutti gli uomini:
i vostri figli e le vostre figlie
saranno profeti,
gli anziani avranno sogni
e i giovani avranno visioni.

2In quei giorni manderò il mio spirito
anche sugli schiavi e sulle schiave.
3Farò cose straordinarie
in cielo e sulla terra:
ci saranno sangue, fuoco
e nuvole di fumo.

4 Il sole si oscurerà
e la luna diventerà rossa come il sangue,
prima che venga il giorno del Signore,
giorno grande e terribile.

5Ma chi invocherà il mio nome sarà salvo.
Sul monte Sion e in Gerusalemme
sopravvivranno quelli che io ho scelto”.

vienispiritosanto

Come sembrano in atto le profezie!

Ai tempi del profeta Gioele, Maria di Nazareth non era ancora nata. Ma nella mente di  Dio era presente dall’eternità. Le profezie del Magnificat di Maria, i sogni di Giuseppe ci appartengono: siamo chiamati a realizzarli.

Una ragazza che cerca Dio, mi ha spedito una mail proprio oggi, 21 maggio 2007, per farmi partecipe di una scoperta che ha fatto leggendo una biografia di Don Gnocchi. 

La riccetta che metto in circolazione è ottima e cercherò di utilizzarla per primo: 

“Volete diventare santi?  Ecco il sistema: prima di ogni vostra azione  chiedetevi sempre che cosa farebbe la Madonna al vostro posto e comportatevi come lei”.(Don Carlo Gnocchi)

BUONA NOTIZIA DELLA GUARIGIONE DI DIO PER L’UOMO DI OGGI

 

BUONA NOTIZIA

DELLA GUARIGIONE DI DIO

PER L’UOMO DI OGGI

DOCUMENTO DEL XIX CAPITOLO GENERALE

Roma, Maggio 2006

 

 PESENTAZIONE

In attesa della celebrazione del 125° Anniversario di Fondazione della Congregazione, si conclude a Roma il XIX Capitolo generale. Il Documento Finale che da esso deriva, e che oggi presento alla Congregazione, è una lettura della realtà congregazionale dal punto di vista della Missione così ome si evince dal titolo stesso: «Missione Ospedaliera: Buona notizia della guarigione di Dio per l’uomo di oggi».

Il documento, nato dalla riflessione delle comunità e di alcuni gruppi di collaboratori, torna alla comunità ospedaliera affinché ciascuno dei suoi membri, sia individualmente che riuniti in un corpo solo, lo accolga come una guida che indichi i percorsi e tracci nuove mete per un servizio ospedaliero che risponda efficacemente alle necessità del mondo della sofferenza, verso il quale siamo chiamate.

Il testo biblico degli Atti 10,34-48, che narra il discorso di Pietro a casa di Cornelio ed il Battesimo dei pagani, è il fulcro di tutto il Documento. La sua struttura ed il suo contenuto permettono di evidenziare le dimensioni teologiche, ecclesiali, carismatiche ed esistenziali del nostro Carisma e dello stile Ospedaliero, oltre ad evidenziare gli obiettivi e le strategie che animeranno l’Azione Ospedaliera durante il prossimo sessennio.

Nella narrazione esperenziale che il Documento propone, scopriamo l’impegno della Comunità Ospedaliera con la Storia come luogo di Salvezza. Così come Pietro riconosce che: «Questi hanno ricevuto lo Spirito Santo come noi», allo stesso modo noi crediamo che il dono carismatico, accolto dai Fondatori per il bene dei malati psichiatrici, possa essere condiviso da suore e collaboratori, promuovendo nuove azioni apostoliche «nella grande opera di costruzione del Regno di Dio» ( BENEDETTO XVI, Omelia della Messa dell’inizio ufficiale del suo Pontificato, 24 aprile 2005.)

Il Documento Capitolare è composto da quattro parti tra loro collegate, che nell’insieme caratterizzano la Missione come un modo di annunciare e realizzare l’azione di salvezza e guarigione di Gesù a favore degli emarginati e degli infermi, secondo la tradizione centenaria della Congregazione. Ciascuna delle parti ci conduce dalla narrazione teologico-spirituale-carismatica all’impegno con la realtà, espresso sotto forma di obiettivi e strategie che danno corpo alla riflessione.

1. Ospitalità, un carisma da testimoniare

La prima parte del Documento sottolinea, in particolar modo, la dimensione teologico-spirituale della Missione come espressione dell’irruzione del Regno di Dio tra i poveri e gli infermi. Così, come Gesù fu unto Messia e Profeta, Colui che annuncia e realizza il progetto di Salvezza del Padre, allo stesso modo tutte noi, membri della Comunità Ospedaliera siamo inviate a dare continuità alla Sua azione, guarendo e liberando le persone più deboli della terra.

Attraverso il nostro lavoro quotidiano, fatto di gesti e parole, rendiamo possibile l’arrivo improvviso e dilagante del potere di Dio che trasforma la sofferenza e la tristezza in gioia, speranza e salute integrale. È questa la nostra identità Carismatica; è questa la sfida dello Spirito per il nostro tempo.

2. Ospialità: una Missione da condividere 

La seconda parte sottolinea la dimensione comunitaria della Missione condivisa da tutta la Comunità Ospedaliera che, nella misura in cui nasce da comunità radicate nella Parola di Dio e alimentate dall’Eucaristia, darà frutti di vita nuova per le persone sommerse dal dolore.

Noi, suore e collaboratori, siamo invitati a lasciarci evangelizzare per essere noi stessi evangelizzatori attraverso la nostra azione. Le diversità di cultura, ideologia, filosofia, credenze, che si vivono all’interno della Comunità Ospedaliera apporteranno alla Congregazione la ricchezza della comunione che permette di lavorare insieme alla costruzione di un mondo più giusto, più solidale e sempre più umano.

3. Ospitalità: una chiamata a costruire il Regno

La terza parte del Documento emerge con vigore dal racconto bibblico che illumina tutto il testo. Pietro si rende conto che Dio non fa distinzione di persone, ma al contrario a coloro che Egli ama dà liberamente il Suo Spirito, chiamando tutti ad essere strumento attivo per la costruzione del Suo Regno di Giustizia e Fraternità. La sfida immediata che si coglie da questo racconto è quella della Spiritualità della Collaborazione. Tutti noi, suore e collaboratori, siamo chiamati alla stessa ed unica Missione, ossia quella di Evangelizzare guarendo.

La Congregazione, attraverso il Documento Capitolare, propone a tutti coloro che lavorano alle sue Opere di collaborare attivamente e creativamente al servizio ospedaliero, con libertà interiore e in rispetto della propria fede, con la coscienza che «insieme saremo buona notizia che Dio continua a proporre la Sua Salvezza all’uomo contemporaneo».

4. Missione condivisa: Obiettivi strategici 2006-2012

Oltre agli obiettivi ed opzioni con cui termina ciascuna delle parti del documento, la quarta ed ultima parte, che deriva dalla narrazione precedente, presenta un carattere maggiormente programmatico, traducendo in obiettivi strategici le sfide che la missione ospedaliera ci presenta oggi.

Il progetto della Missione Condivisa è stato studiato e formulato da diversi collaboratori, revisionato e assunto, come linea-guida per la missione ospedaliera, dal Capitolo che ora lo dona a tutta la Comunità Ospedaliera affinché si impegni nella sua realizzazione. In questo modo potremo interpretare con armonia, bellezza ed efficacia lo «Spartito Ospedaliero» in ciascun paese del mondo dove è presente la Congregazione.

La partecipazione di un gruppo di collaboratori, in questa fase del Capitolo generale, non solo ha arricchito la riflessione, ma ha rappresentato anche un segnale di ampliamento dell’ambito di pertinenza, rafforzando la corresponsabilità nella Missione Carismatica della Congregazione.

La coincidenza della pubblicazione di questo Documento con la celebrazione del 125° Anniversario della Fondazione della Congregazione non è casuale. Il sogno, che San Benedetto  Menni, María Josefa Recio, María Angustias Giménez e la comunità ospedaliera originaria ebbero di creare un Istituto che «fondato su solide e ferme fondamenta fosse la meraviglia dell’universo », (RMA 56), si vede oggi accolto da tutti coloro che sono coinvolti, in un modo o nell’altro, nella realizzazione della missione ospedaliera. Il traguardo dei 125 anni deve essere un punto di riferimento obbligato per dare impulso ad un rinnovamento che offra, ai destinatari dell’Ospitalità e alla società in generale, una testimonianza di speranza in quel futuro che vogliamo costruire insieme.

María Camino Agós – Superiora Generale

 Suore ospedaliere Menni

MISSIONE OSPEDALIERA :

Buona notizia della guarigione di Dio per l’uomo di oggi

 

Seguire Gesù che:«passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo….» (Atti 10,38)  

DIO NON FA PREFERENZE DI PERSONE

Il testo degli Atti 10,34-48 è il filo conduttore del Documento Capitolare, è il faro che lo illumina.

Discorso di Pietro presso Cornelio.  

Suore ospedaliere Menni 02Pietro prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a Lui accetto. Questa è la parola che Egli ha inviato ai figli d’Israele, recando la Buona Novella della pace, per mezzo di Gesù Cristo che è il Signore di tutti. Voi conoscete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, incominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con Lui. E noi siamo testimoni di tutte le cose da Lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo ad una croce, ma Dio lo ha resuscitato al terzo giorno e volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con Lui dopo la sua resurrezione dai morti. E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che Egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio. Tutti i profeti gli rendono questa testimonianza: chiunque crede in lui ottiene la remissione dei peccati per mezzo del suo nome». 

Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo scese sopra tutti coloro che ascoltavano il discorso. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si meravigliavano che

anche sopra i pagani si effondesse il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare lingue e glorificare Dio. Allora Pietro disse: «Forse che si può impedire che siano battezzati con l’acqua questi che hanno ricevuto lo Spirito Santo al pari di noi?» E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Dopo tutto questo lo pregano di fermarsi alcuni giorni.

 

OBIETTIVO GENERALE

 

Gli obiettivi e le opzioni proposte dal XIX Capitolo generale si deducono dalla sua narrazione tematica. Dal dialogo tra la Parola di Dio, la parola dei Fondatori e la vita delle comunità ospedaliere, scaturiscono le proposte del Progetto Capitolare.

 

Gli obiettivi settoriali e le opzioni con i quali termina ciascuna delle prime tre parti, e gli obiettivi strategici 2006-2012, che costituiscono la quarta parte del Documento Capitolare,

cercano di rispondere, in maniera programmatica, a quello che lo Spirito ci chiede, in questo momento della nostra storia congregazionale, al fine di essere «Buona Notizia della guarigione di Dio per l’uomo di oggi».

 

Come risposta al tema del XIX Capitolo generale, formuliamo un Obiettivo Generale, una meta verso la quale ci impegniamo, come comunità ospedaliera, a camminare nel corso del

prossimo sessennio:

 

«Vivere,

come Comunità Ospedaliera,

la Missione Guaritrice di Gesù

con dinamismo creativo,

per collaborare alla costruzione del Regno di Dio».

.

PRIMA PARTE

 

OSPITALITÀ: UN CARISMA DA TESTIMONIARE

 

«Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret» (v. 38)

 

Il Nucleo della prima evangelizzazione

 

1. La prima cosa che Pietro racconta a Cornelio, un adepto del giudaismo, quando lo incontra, è quanto è «accaduto in tutta la Giudea» (v. 37). Secondo quanto si dice nell’Antico Testamento, narrare le vicende vissute dal popolo o da una o più persone permette di intravedere in esse l’intervento di Dio Salvatore di Israele. La narrazione dei prodigi di Jahvè nasce dalla contemplazione attonita della sua azione salvifica e si trasforma in annuncio evangelizzatore attraverso il racconto.

 

Pietro è testimone dell’intervento di Javhè su Gesù. Il nucleo della prima evangelizzazione è la narrazione di quello che accadde a Gesù e con Gesù, dalla quale deriva la riflessione su Egli e su Dio.

 

Gesù: consacrato del Signore e Profeta del Regno.

 

2. «Dopo il battesimo, predicato da Giovanni» (v. 37), ciò che spinge Gesù ad agire e a predicare è il dono dello Spirito Santo. (Il terzo evangelista interpreta il Battesimo di Gesù come il momento della sua consacrazione profetica, (Lc 3,21-22). L’unzione dello Spirito configura Gesù come Profeta sorto per Volontà di Jahvè: «Lo Spirito del Signore è sopra di me. Per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare (…) un lieto messaggio». La citazione di Isaia 61,1-2, in Luca 4,18-19 ci mostra come le prime comunità cristiane videro nella persona di Gesù il profeta Messianico definitivo, inviato agli ultimi di Israele, ossia «ai poveri, ai cuori spezzati, agli schiavi, ai ciechi e agli oppressi».

 

Lo Spirito elegge Gesù come Profeta e Messia, che compie la sua missione annunciando al popolo che alla fine giungerà la sua Salvezza: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi, che annuncia la pace, messaggero di bene che annunzia

la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio» (Is 52,7). La consacrazione attraverso lo Spirito determina l’identità di Gesù, che si manifesta nell’annuncio del «Vangelo della pace3»

(Atti 10,36).

 

La missione messianica di Gesù è una missione di salvezza

 

 

3. Nella tradizione dell’Antico Testamento, i Profeti sono presentati come persone che sostengono il loro messaggio attraverso segni molto evidenti ed eloquenti. Anche l’attività pubblica di Gesù, Profeta e Messia del Regno, si manifesta attraverso parole e gesti. Le prime, evidenziano le ragioni del suo agire, mentre i secondi danno concretezza al suo predicare: l’annuncio dell’irruzione del Regno di Dio comunica una buona notizia e allo stesso tempo produce un’azione salvifica.

 

I discepoli che si recavano a Emmaus, definiscono Gesù come «(…) profeta potente in opere e in parole davanti a Dio e a tutto il popolo» (Lc 24,19). Allo stesso modo, il primo evangelista

descrive la sua attività come segue: «Gesù andava attorno per tutta la Galilea insegnando nelle loro Sinagoghe e predicando la 20 Missione ospedaliera: Buona notizia Prima Parte. Ospitalità: un Carisma da testimoniare buona novella del Regno e curando ogni sorta di malattie e infermità nel popolo» (Mt 4,23).

 

La consacrazione dello Spirito gli conferisce il potere di vita che dà vita. Gesù, vero benefattore dell’umanità, vive la sua missione messianica come missione di salvezza, agendo come medico e amico degli infermi. La sua azione apre nuovi orizzonti per l’umanità, permettendo a ciascun individuo di svilupparsi completamente.

Ospitalità: evangelizzazione nella guarigione

 

4. Nella tradizione spirituale ospedaliera troviamo il nucleo della vera Spiritualità del Regno in Gesù: l’evangelizzazione nella guarigione. San Benedetto Menni considerava assai importante

la presenza dell’ordine ospedaliero che secondo il Papa Pio V: «era un fiore indispensabile nel giardino della Chiesa», e affermava: «come il Divino Salvatore comandò ai suoi discepoli

di andare ad annunciare il Santo Vangelo cominciando a curare i malati, così il Santo Padre Pio X vuole che la pratica della Santa Ospitalità sia un argomento irresistibile a favore della religione che ispira lo spirito di carità e abnegazione, con cui si possono vincere anche le maggiori preoccupazioni ad essa contrarie, preparando in tal modo l’animo affinché sia capace di accogliere i beni della vita spirituale incomparabilmente più grandi rispetto alla stessa vita

religiosa»4. Allo stesso modo, il nostro Fondatore considera molto importante la presenza della nostra Congregazione, ricordando nel Prologo alle prime Costituzioni che la religione: «è sempre stata la prima a dare conforto e ad asciugare le lacrime dell’umanità sofferente, ovunque le abbia incontrate».

 

L’Ospitalità, vista da Benedetto Menni, si adopera per portare la guarigione a tutte le persone e si identifica nel servizio integrale agli infermi: «non si limita solamente a curare i corpi dei malati, ma si dedica alla cura dell’uomo nella sua totalità di corpo e anima, con i suoi bisogni e le sue malattie fisiche e spirituali, adoperandosi per servirli cristianamente, ossia come un esercizio di carità cristiana […] mira alla guarigione delle anime senza trascurare la salute fisica» ( B. MENNI, Circolare n. 42, 8 marzo 1911, in Perfil, p. 143.)

5.

 

Consacrazione ospedaliera: memoria viva di Gesú

 

5. Il carisma e la missione continuano nel tempo grazie alla chiamata costante di Dio a seguirlo. «Egli ci consacra con un nuovo titolo attraverso il quale noi ci consegniamo a Lui e vivendo in comunità seguiamo Cristo, vergine, povero e obbediente, che passò per la terra […] facendo del bene a tutti e guarendo i malati » (Cost. 4). La vita consacrata ospedaliera è la memoria vivente della vita e dell’azione di Gesù Messia e Profeta del Regno, dinanzi al padre e ai fratelli. La consacrazione religiosa testimonia il primato di Dio nella vita ed esige un’obbedienza fedele al suo progetto di salvezza.

 

L’ «offerta totale di sé delle persone consacrate a Dio e ai fratelli si traduce in segno eloquente della Presenza del Regno di Dio per l’uomo di oggi» (BENEDETTO XVI, Omelia della Giornata mondiale della vita Consacrata, 2 febbraio 2006.)

 

«Lo sguardo fisso sul volto del Signore non attenua nell’apostolo l’impegno per l’uomo; al contrario lo potenzia, dotandolo di una nuova capacità di incidere sulla storia per liberarla da quanto la deturpa» (VC 75). Dalla contemplazione della bellezza divina di Gesù, ha origine la chiamata ad impegnarsi nel ripristino della Sua immagine sui volti delle sue creature.

 

Carisma-missione: espressione della stessa identità

 

6. Nel corso della nostra storia, possiamo dimostrare che il Carisma e la Missione sono il carattere specifico dell’identità ospedaliera. La Missione apostolica della Congregazione realizza

la missione di Gesù attraverso i gesti concreti di ospitalità e servizio rivolti al malato, che per noi rappresenta «il tempio in cui Dio dimora»7. Siamo convinte che non può esserci contraddizione tra quanto annunciamo e il modo con cui lo esprimiamo e lo viviamo. Siamo «comunità in missione, con una grande responsabilità: evangelizzare attraverso la testimonianza, essere riferimento carismatico, salvaguardare la fedeltà creativa del carisma». Vogliamo procedere in piena coerenza tra il dire, il fare e l’essere.

 

A partire dal XVIII Capitolo generale: obiettivi…

 

7. Possiamo constatare che dall’innovativa focalizzazione, posta al Carisma fondazionale nel corso del XVIII Capitolo generale, sono emerse forze nuove: desideriamo approfondire la nostra identità a partire da una spiritualità incentrata sulla persona del malato mentale; scopriremo che da questa immagine di Dio avremo aperto nuove prospettive di comunione. «L’immagine di un Dio limitato ci ha permesso di vivere meglio la nostra vita, accettando i nostri propri limiti e quelli dei malati.

 

Ci ha consentito inoltre, di confrontarci con la nostra condizione di donne che hanno bisogno di guarigione». «La storia del malato e della sua malattia ci rende più umane e pazienti; attraverso i malati sperimentiamo di nuovo il mistero pasquale».

 

Abbiamo una maggiore consapevolezza della «profondità e della ricchezza della nostra spiritualità, che ci chiede di essere tradotta in azione nella vita quotidiana. Ha risvegliato in noi energie latenti, mobilitandoci a livello personale e di comunità». Infine, «la consapevolezza che il nostro carisma è radicato così profondamente e che il suo centro è costituito dai più limitati, da coloro che non contano, tra i quali troviamo Gesù il nostro Salvatore, ci ha portato a fare una scelta preferenziale in loro favore».

 

… Orizzonti che si ampliano

 

8. Non solo siamo cresciute nell’identità ospedaliera, riconfermando la nostra preferenza per le persone malate di mente, noi suore e collaboratori, abbiamo anche fatto passi avanti verso l’integrazione e la partecipazione al carisma ospedaliero attraverso il pluralismo delle vocazioni ed una «maggiore valorizzazione dell’universalità», sia che si tratti di cultura, ideologia o credo. «Dio ha fatto del carisma una luce per illuminare il mondo e annunciare la buona novella dell’ospitalità sino ai confini della terra» attraverso modi nuovi di servizio, così da avviarci verso una mentalità più accogliente e più ospedaliera, visto che il Carisma permette diverse forme di incontri e di realizzazione.

 

Siamo chiamate a vivere nella pluralità, le cui conseguenze esistenziali influiscono sulla vita di tutte noi, secondo la propria vocazione e sensibilità personale. Oggi, alcuni collaboratori affermano che «il Valore del Carisma si scopre attraverso l’incontro, vissuto alla massima profondità, con un’altra persona; nell’accoglienza incondizionata; nell’accettazione dell’alterità e nell’accoglienza come testimonianza della misericordia di Dio»; «la nostra realtà assistenziale

è uno spartito che può essere perfettamente interpretato in chiave evangelica».

 

Centralità del malato dal punto di vista del Regno

 

9. Il XVIII Capitolo generale invitava suore e collaboratori ad approfondire la propria identità alla luce di una spiritualità scaturita direttamente dal malato mentale . Ha cercato di rispondere al nostro desiderio di trasformare in spiritualità un aspetto già sviluppato a livello apostolico: la centralità del malato.

 

Il sessennio vissuto in questa prospettiva, ci ha fatto scoprire che questa centralità proviene dal fatto che lo stesso Regno di Dio pone al centro il malato, come destinatario principale della buona novella della guarigione di Dio attraverso Gesù. Inoltre, è proprio il malato mentale a convocarci 9 Ibid., pp. 37-38), perché è prendendoci cura di lui che ci incamminiamo verso il centro del Regno, dove possiamo incontrare Gesù, Colui che ci ha aperto la strada identificando Se stesso con gli ultimi. Lo sapeva bene il nostro Fondatore che in una sua lettera afferma: «il nostro prossimo per quanto infelice, povero o reietto, rappresenta la viva immagine di Gesù, che è voluto diventare come l’ultimo degli uomini » (B. MENNI, Circolare n. 9, 26 maggio 1888, in Perfil, p. 42; riporta in modo significativo la citazione di Isaia 53,3: «Disprezzato e reietto dagli uomini,

uomo dei dolori che ben conosce il patire»).

 

10. La centralità del malato mentale nella Missione ospedaliera corrisponde alla stessa centralità che tutte le persone sofferenti hanno ricoperto nell’ambito della missione profetica e messianica di Gesù.

Come comunità ospedaliera, nel corso del prossimo sessennio, siamo chiamate a seminare e a far germogliare una spiritualità che nasca dall’irruzione del Regno e dia impulso alla nostra missione come autentica manifestazione storica della missione guaritrice di Gesù.

a) Il Regno è di Dio – In molte parabole di Gesù, in cui viene narrata la realtà del Regno, il protagonista viene presentato come una figura dotata di un potere straordinario rispetto agli altri personaggi: un re (Mt 18,23), un signore (Lc 12,36), il padrone di casa (Lc 13,25). La narrazione lascia intendere che l’irruzione di questa nuova realtà di salvezza non appartiene agli uomini e non dipende dalla loro volontà: il Regno è di Dio, è un suo dono ed esige un atteggiamento di accoglienza incondizionata, gratitudine ed impegno. Non si può prevedere se germoglierà, nè come sarà il suo sviluppo; non vi si possono porre limiti o confini. La sua realtà avvolge gli uomini e supera le loro possibilità, è rivolta a loro senza lasciarsi pienamente conoscere. Da qui sgorga la confessione del Dio Santo, forte ed immortale. Da qui nasce il ringraziamento al Padre, «(…) Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli », (Mt 11,25-26).

Le nostre prime sorelle giunsero alla consapevolezza che «Dio nella realizzazione dei suoi progetti non ha bisogno di mezzi umani, né di intelligenze sublimi o saggi intelletti. La Sua eccelsa sapienza si compiace nello scegliere i più umili e disprezzabili per dimostrare che l’opera è tutta Sua» (cf. RMA, p. 53).

 

La nostra sfida è quella di vivere la missione con lo stesso atteggiamento di Maria di Nazaret, che si è impegnata a servire in povertà e gratuitamente il Regno, contemplando l’azione salvifica di Dio«Onnipotente» (Lc 1,49) senza attribuirsene le conquiste e i successi.

 

b) Il Regno fermenta la storia – Nelle sue parabole spesso Gesù paragona l’instaurazione del Regno con quei processi naturali, impercettibili e fragili, ma allo stesso tempo incontenibili come: il seme (Mc 4,26-27), il lievito (Lc 13,21). Il Regno promana da ciò che è più umile nella vicenda umana: le cucine, gli orti, le vigne, le reti dei pescatori, gli aratri dei campagnoli. Non desidera stravolgere la storia, né vuole determinarla ma fermentarla ed ispirarla.

 

La nostra Missione ci colloca in quelli che in genere vengono considerati i margini della società, tanto che ci abituiamo ad apprezzare i progressi più che i risultati, il percorso più che la meta, la navigazione più che l’approdo. Viviamo tra la promessa e il suo compimento, tra il «già fatto» e il «non ancora». Questo spazio intermedio richiede uno sguardo mistico che nell’oscurità della notte si orienti verso la storia «senza altra luce né

guida se non quella che arde nel cuore»11.

 

c) Il Regno è annunciato agli emarginati – L’ideale di un re biblico è che ciascun suddito del suo regno assapori la bellezza di una vita piena e gioiosa. Egli dà ascolto alle richieste dei più deboli: «il Signore rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati, libera i prigionieri, (…) protegge lo straniero, sostiene l’orfano e la vedova, il Signore regna per sempre, il tuo Dio, o Sion, per ogni generazione» (Sl 146,7.9a.10)12. Il primo annunzio che riguarda l’irruzione del Regno, Gesù lo rivolge ai poveri: «Beati voi poveri, perché vostro è il Regno di Dio» (Lc 6,20). Gesù preferisce rivolgere il suo messaggio ai malati, ai peccatori, agli esattori delle imposte, alle donne, ai bambini, in quanto tutti loro condividono la medesima condizione di emarginazione sociale, economica e religiosa che gli impedisce di accogliere ed interpretare la propria esistenza con gioia e soddisfazione.

 

Nell’emarginazione il dolore diviene straziante e la debolezza opprimente.

Laddove si manifesta l’impotenza dinnanzi al dolore, è presente Dio, perché Dio è amore.

La nostra missione ospedaliera continua a presentare, alla Chiesa ed al mondo, il desiderio di Dio di avvicinarsi a quanti sono sommersi dalle tenebre del dolore e paralizzati dall’ emarginazione causata dagli altri uomini. Ci impegniamo a continuare ad offrire, attraverso la nostra vita e le nostre Opere, la proposta salvifica del Regno, come proposta di integrazione a

quanti si considerano emarginati.

 

d) Il Regno come incontro di gioia – Una delle immagini più utilizzate da Gesù per illustrare la natura del Regno è quella del banchetto (Lc 14,16), durante il quale la famiglia, il gruppo di amici, la comunità dei credenti, condividono con gioia i frutti della terra e del loro lavoro. A tutti è dato in egual misura da un Dio incredibilmente generoso e amorevole. Il banchetto permette di superare le situazioni di indigenza, di armonizzare le diversità, facilita l’apertura tra le persone. Per questa ragione, Gesù non ha lesinato mai la Sua presenza ai convivi, nemmeno in quelli di persone di dubbia reputazione (Lc 5,29) o di farisei (Lc 7,36).

 

Ogni giorno incontriamo persone affamate di amicizia e assetate di affetto che ci arricchiscono con la loro umanità. La missione ospedaliera testimonia che nell’incontro si attua quell’esperienza guaritrice e liberatoria che anticipa il banchetto finale di tutti gli uomini con Dio.

 

e) Il Regno è motivo di rifuto – L’ immagine del banchetto esprime il carattere accogliente del Regno al cui invito si può rispondere con un rifiuto, (Mt 22,3-5).

A questa conclusione giunge Luca [Lc 13,25-29]: non è sufficiente mangiare e bere con «il padrone di casa» , perché la sentenza verrà inevitabilmente emessa: «Non so di dove siete» (v. 27). Per di più, coloro che credono di avere il diritto di entrare in casa rimarranno fuori, mentre altri «verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno, e siederanno a mensa nel Regno di Dio» (v. 29).

 

Non si appartiene automaticamente al Regno solo perché si appartiene ad una nazione, ad un popolo o ad una chiesa: il Regno spetta a coloro che accettano il Dio di Gesù, «amico di pubblicani e peccatori» (Lc 7,34), e che rispondono al suo invito gratuito.

L’irruzione del Regno suscita la reazione delle forze del Male: le guarigioni e gli esorcismi di Gesù indicano che ha avuto ormai inizio la lotta definitiva tra Dio e il Male che deturpa l’umanità: «Se io invece scaccio i dèmoni con il dito di Dio è dunque giunto a voi il Regno di Dio», (Lc 11,20).

A questa lotta partecipiamo anche noi che abbiamo scelto per i membri prediletti della famiglia del Re, riconoscendo come nostra storia istituzionale ciò che ha scritto il nostro padre Fondatore: «Ho dovuto sostenere grandi lotte, ed il Signore per provare la nostra fede ha permesso che le cose arrivassero al punto tale da sembrare una situazione umanamente senza rimedio per i poveri infermi che sarebbero stati cacciati dalla Casa del Signore, e il peggio era che tale decisione veniva sostenuta al fine di un maggior bene, come un provvedimento sensato; come se fosse volontà di Dio, e dunque più prudente per noi, non preoccuparcene tanto, non imporci tanti sacrifici, né esporci a passare guai, per difendere e proteggere l’infelice nella Casa di Dio» (L 706).

 

f) Il Regno ci chiede di dare la vita – Il carattere profetico dell’essenza e dell’azione di Gesù si riscontra nella sua disponibilità a dedicare tutta la sua vita alla missione che il Padre gli affida.

Il Regno, come mezzo di salvezza e guarigione di Dio per tutti gli uomini, si trasforma nella Sua unica ragione di vita. Egli non esita ad offrire tutto Se stesso, sino alla croce, donando la Sua vita per il Regno affinché il seme del Regno si impianti nel terreno dell’umanità ed ogni essere umano possa riceverne la vita. Gesù traccia il percorso che i Suoi seguaci dovranno seguire: «Chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la Sua vita a causa mia e del Vangelo la salverà » (Mc 8,35); «In verità vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia o a causa del Vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna» (Mc 10,29-30).

 

La stessa disponibilità si riscontra nella storia delle nostre origini: «È ben vero che questi signori del Comune non mantengono la loro parola, però il nostro Benedettissimo e Adorato Gesù no, non mancherà alla sua parola; perciò pur se dovremo sopportare qualche fatica, Egli ci risolverà tutto. Ditemi figlie mie, se non dovessimo sopportare qualche disagio per fare il bene, che merito avremmo? Sia, dunque, figlie mie, la vostra sete, il vostro desiderio, la vostra aspirazione, imitare il Glorioso Padre e Patriarca San Giovanni di Dio, il quale non mirava ad altro se non a cercare in che modo sacrificarsi per dare sollievo ai poveri per amore di Gesù Cristo. Figlie mie, quale grande gloria avremo in Cielo per ogni povero che avremo accolto, lavato e curato, anche se poi dovessero riprenderselo!» (L 346).

 

Oggi la guarigione di ogni persona che aiutiamo a sperimentare la vicinanza e la tenerezza di Dio, è il nostro modo di dare la vita per il Regno.

 

 

OSPITALITÀ: UN CARISMA DA TESTIMONIARE

OBIETTIVO SETTORIALE 1

 

Dare impulso all’identità Carismatica a partire dalla missione salvifica di Gesù che condividiamo e annunciamo.

 

OPZIONI

 

1 Approfondire ed incarnare la nostra identità nell’ottica

della Spiritualità del Regno.

2 Rafforzare la comunione e la collaborazione a livello

intercomunitario, interprovinciale e congregazionale.

3 Rafforzare la dimensione carismatica ed evangelizzatrice

della comunità religiosa.

4 Partecipare attivamente ai diversi settori ecclesiali

attraverso l’esperienza dell’ospitalità.

5 Diffondere il carisma nelle diverse realtà valorizzandone

la storia e rispettando gli elementi essenziali

che lo definiscono.

 

SECONDA PARTE

 

OSPITALITÀ: UNA MISSIONE DA CONDIVIDERE

 

«Abbiamo mangiato e bevuto con Lui

dopo la Sua risurrezione dai morti» (v. 41)

 

Eletti dalla comunione con il Risorto

 

11. L’azione salvifica e guaritrice di Gesù verso i popoli della Galilea e della Giudea ha dei testimoni, scelti13 direttamente da Dio per raccontare ciò che accadde: «nella regione dei giudei e a Gerusalemme» (v. 39). La loro scelta fu fatta in «precedenza» (v. 41), ossia «prima della creazione del mondo» (Ef 1,4) ma fu rivelata attraverso un’ esperienza di vita storica: la condivisione della mensa con il Risorto. La comunione dei discepoli con Gesù, prima e dopo la Sua Resurrezione, accredita la loro testimonianza come degna di fede. Una persona, e non un’idea, ha segnato le loro vite: Gesù, colui che ha sperimentato la sventura causata da un’ingiusta accusa ed ha patito una morte ignominiosa.

 

Il Dio Onnipotente però, ha restituito al Suo Profeta e Messia, quella vita che Egli così generosamente aveva donato per il Regno di Dio. Per questo ora, il Risorto, può apparire ai suoi discepoli e tornare a gioire per la divisione del pane e la condivisione del vino.

Tutto ciò li converte in convinti e convincenti araldi della Buona Novella del Regno in Gesù crocefisso e risorto.

La comunità, luogo per l’elezione missionaria…

 

12. La comunità cristiana è quella che custodisce gelosamente e appassionatamente la memoria della mensa condivisa con il Risorto. Fin dalle origini il condividere la mensa è stato il segno che dava fondamento e motivazione alle comunità dei seguaci di Gesù. Come Dio scelse i primi testimoni tra coloro che avevano mangiato e bevuto con il Risorto, comandandogli di andare a predicare14, allo stesso modo è nell’assemblea della comunità cristiana riunita per commemorare il suo Signore morto e risorto, che si manifesta l’elezione missionaria.

 

Di ciò abbiamo una chiara testimonianza negli Atti degli Apostoli 13,1-4: «Nella chiesa fondata ad Antiochia c’erano profeti e dottori: Barnaba, Simeone, detto Níger, Lucio di Cirene, Manahén, compagno di infanzia del tetrarca Erode, e Saulo. Mentre stavano celebrando il culto del Signore e digiunavano, lo Spirito Santo disse: «Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera a cui io li ho chiamati». Dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li inviarono. Essi, inviati dallo Spirito Santo, discesero a Seleucia

e da lì salparono verso Cipro».

 

… e della comprensione delle Sacre Scritture

 

13. La testimonianza di quanti hanno condiviso la tavola con il Risorto (v. 42) non si basa soltanto su un’esperienza personale, ma anche su quella che i profeti hanno tramandato su Gesù (v. 43). I profeti hanno preannunciato che sarebbe giunto il Messia, che avrebbe dovuto soffrire e morire, proclamando l’avvento definitivo della salvezza di Dio. Per questo motivo, nel terzo Vangelo Gesù dà inizio alla sua Missione spiegando che il Profeta Isaia parlava di Lui e che, dunque, la sua profezia si era compiuta (Lc 4,17-21). Luca al termine del suo Vangelo narra le due apparizioni del Risorto ai discepoli (24,13-35 e 24,36-49), nelle quali vengono proposte le due modalità attraverso le quali si giunge ad una profonda ed autentica esperienza di Gesù

glorificato: condividere la mensa (vv. 30-31 e 41-43) e capire le Scritture (vv. 25-27.32 e 44-47).

 

Le due modalità sono legate indissolubilmente l’una all’altra: bisogna mangiare per riuscire a comprendere (i discepoli in cammino verso Emmaus) e saper comprendere per mangiare (gli Undici e quelli che stavano con loro). È la Parola che offre alla comunità le motivazioni dell’essere e dell’agire di Gesù, spingendola ad agire come Lui, testimoniando la nuova realtà del Regno attraverso il sacrificio della propria vita per l’umanità (martirio).

 

Comunità radicate nella Parola

 

14. La Parola di Dio è il faro che illumina la nostra vita personale e comunitaria, un riferimento obbligato per il discernimento delle scelte apostoliche. Le nostre prime sorelle hanno sperimentato che la Parola ascoltata, pregata e contemplata è il fondamento e la forza da cui scaturisce la missione guaritrice a favore degli infermi. María Angustias ne dà testimonianza riflettendo sul brano evangelico di Luca [Lc 10,38-42], in cui si

narra delle due sorelle di Betania, Marta e Maria, e del loro modo di vivere l’ospitalità, (RMA, p. 109).

 

Angustias lodava Maria per il suo concentrarsi sull’essenziale, Gesù e la sua Parola; e Marta per la sua sollecitudine e servizio attivo. Maria «rapita dall’estasi ai piedi del suo Maestro si lasciava trasportare in cielo», mentre Marta «si affannava nel servirlo». Gesù dice alle due sorelle che «una sola è la cosa di cui c’è bisogno» (Lc 10,42): vivere e agire con lo sguardo fisso su di Lui, ascoltando la Sua Parola.

 

Oggi possiamo affermare che la Parola del Signore «ci aiuta a vedere gli eventi della nostra vita e di quella altrui come un tempo di Dio». La Parola «racconta storie di vita, alimenta la speranza, purifica il nostro sguardo nei confronti del mondo» e «ci dona la luce per discernere i sentieri di Dio e seguire Gesù Cristo». La Parola «è fonte di rinnovamento della comunità nella misura in cui ce ne impossessiamo; essa ci aiuta, ci guida, ci insegna, ci ammonisce, consiglia, ci da energia, speranza, forza e ci trasforma». Siamo convinte che sia necessario continuare a creare spazi di condivisione di fede sulla Parola. Riteniamo necessario anche impartire una formazione biblica per approfondire la lettura della Parola di Dio e comprendere la teologia del

carisma e la spiritualità ospedaliera.

 

Eucaristia cultuale ed Eucaristia della carità

 

15. La prima comunità di suore si è formata mangiando e bevendo con il Signore nel suo mistero pasquale. Ha mangiato e bevuto con Cristo crocefisso nelle sue vive immagini, vivo e presente nell’Eucaristia: « ne deduco, perciò, che il segno che deve distinguere colei che milita sotto la bandiera del nostro padre è quello dell’unione quotidiana con il nostro amabile Gesù Sacramentato » (RMA, p. 165). Sia il mistero del culto che quello umano si manifestano nel Signore della vita. Il primo gruppo di ospedaliere ha avuto conferma del proprio carisma, della propria vocazione e missione nel momento in cui ha incontrato il volto della prima malata, Antonia Romira de la Cruz, nella quale si manifestava «Gesù rivestito degli abiti di un folle per amore delle sue creature» (RMA, p. 158).

 

L’esercizio dell’ospitalità prolunga l’eucaristia nella vita quotidiana. Intorno al malato si costruisce la liturgia della carità, secondo l’esempio di P. Menni: «ci precedeva all’ora dei pasti […] andando a ricercare la malata più difficile e inginocchiato le dava da mangiare. Con quale venerazione, con quale spirito di fede e con quanto ardore compiva la sua opera misericordiosa!»15

 

Le suore fecero loro quella liturgia sacra: «veneravano le malate come oggetti sacri e, non so se esagero a dire che, le veneravano in ginocchio come Dio, come faceva il maestro [P. Menni] che ci aveva insegnato che quel che si fa loro per amore di Gesù è come fatto a Gesù stesso. Aggiungo senza timore e senza dubbi, che in ognuna di esse vedevamo la croce della sofferenza sulla quale stavano inchiodate come vittime, rappresentando la commovente scena del Calvario. Ogni malata era per noi una vittima sacra»16

 

La guarigione è un segno pasquale

 

16. La dedizione «goccia a goccia»17 nella vita quotidiana, la ricchezza delle relazioni, la carità ed il servizio di qualità che guarisce e reintegra il malato, rendono manifesto il Dio della vita.

 

È questo il senso dei progressi terapeutici: «offrire la migliore assistenza alle malate mentali e ottenere tutto ciò che è possibile ottenere[…] la cura di molte di loro, il sollievo o quanto meno la consolazione per le altre18».

 

In un altro scritto, Benedetto Menni afferma: «vorrei che ci fossero molte dimissioni dall’istituto, ma tutte dovute alla guarigione»19. Sebbene nel XIX secolo fosse maggiormente seguita la teologia della Croce rispetto a quella della Risurrezione, e la guarigione fosse molto più difficile da raggiungere, rispetto ad oggi, si cercava di raggiungere questo obiettivo con tutti i mezzi e modi disponibili.

 

Donare la propria vita significa per noi rispondere alle emergenze sociali: «spero (…) che il risultato di questa esplorazione sia di poter aprire qualche manicomio, visto che in tutta la nazione(…) non ce n’è uno accettabile; e i poveri dementi sono molto male assistiti; nonostante che io ritorni in Spagna,

lascio qui, a Dio piacendo, chi andrà preparando le cose» (L 444).

 

Incarnare l’energia del mistero pasquale nella realtà, significa essere portatori, sino ai limiti dell’ esistenza umana e dei confini terreni, della vita di Dio che resuscita e libera. «Benedetto sia il Signore che si degna di farci partecipi del suo prezioso calice di amarezza e che ce lo addolcisce con la grande speranza […] e farà si che tutto questo sia a Sua maggior gloria, a nostro bene, a bene del prossimo, e che da queste fatiche verranno frutti di benedizione della Divina Misericordia che ci sta provvidenzialmente assistendo» (L 508).

Comunità eucaristiche

 

17. La celebrazione eucaristica occupa un posto centrale nella nostra vita. Per mezzo di essa ci sentiamo convocate nel nome del Signore, nutrite e rafforzate nella nostra fede, impegnate a vivere la carità verso una «grande unione di cuori» e ad «accogliere nel cuore il Divino Ospite» (RMA, p. 42).

Celebriamo l’Eucaristia in chiave ospedaliera, «comunicare infatti allo stesso

pane significa condividere la stessa missione guaritrice di Gesù ». Ci sentiamo «chiamate ad essere memoria e presenza di cristo misericordioso come donne pasquali, gioiose e forti nell’annunzio del Risorto». Come il Signore «si manifesta nei sacramenti cultuali e in quelli storici rappresentati dai malati»20, cerchiamo l’unione tra ciò che celebriamo e ciò che viviamo, «scopriamo cioè Colui che celebriamo attraverso colui che serviamo: il malato». In questo modo, rafforziamo la nostra configurazione ai sentimenti del cuore di Gesù, che ci convoca per essere testimoni della Bontà del Dio pieno d’amore verso i più deboli del suo popolo.

 

L’ incontro con il Signore alimenta la fecondità carismatica della nostra vita e della nostra missione: «l’Eucaristia vissuta come comune-unione racchiude in sè la forza trasformatrice manifestandosi nella comunione e nella missione con attitudine al perdono, comprensione e amore fraterno per i fratelli e i collaboratori, dedizione generosa, vicinanza, ascolto e trattamento

disinteressato verso i pazienti».

 

Il martirio della carità

 

18. Una partecipazione autentica all’ Eucaristia comporta l’dentificazione con Gesù, nella sua attitudine al servizio e al sacrificio.

Il nostro padre fondatore, che associava il culto dell’eucaristia all’impegno più intenso della carità, afferma: « felici saremo se potessimo esalare l’ultimo respiro con l’ esercizio di questa divina e nascosta carità!». Felice «colui che sigilla ogni momento della sua carriera professionale con nuovi e sempre più eroici gesti di carità, senza ricevere alcun compenso in questa vita ma guardando solo a Gesù»21.

 

Siamo chiamate a vivere questa carità contribuendo al riconoscimento

della «dignità ad una moltitudine di persone lacerate e spezzate dall’incomprensione, dalla sofferenza, e dalla solitudine» nel lavoro quotidiano. Ci sono altri contesti in cui si vivono «scontri razziali e religiosi», «il laicismo e l’agnosticismo delle società sviluppate, dove si mette in discussione il valore della vita e quello della persona», e che ci richiedono oggi una presenza profetica a rischio della propria vita, come scrisse San Benedetto Menni: «Beato colui che martire della carità ha la fortuna di vedere accorciata la vita a conseguenza di un suo eroico sacrificio»22, come ci ha dimostrato la nostra fondatrice che ha sacrificato la sua vita come il chicco di grano che cade in terra e muore.

 

L’espansione della Congregazione e la pluralità delle situazioni ci rendono più consapevoli delle esigenze del nostro carisma che richiede la disponibilità ad offrire la nostra vita anche a rischio di perderla. E vivendo ciò «serenamente e con speranza, come un vantaggio e non come una perdita, assumendo ciò che è piccolo e semplice come seme del Regno». «Frumento di Cristo noi siamo/ cresciuto nel sole di Dio, nell’acqua del fonte impastati, segnati dal crisma divino».23.

 

Comunità, luogo di annuncio e testimonianza

 

19. Il dono della vocazione e del carisma è un dono di Dio che bisogna chiedere, accogliere, curare e far crescere. Oggi, «molti giovani non hanno accesso ad una proposta vocazionale e non arrivano perciò mai ad interrogarsi sulla propria vocazione». Ciò nonostante essi manifestano una sincera ricerca di senso, sebbene confusa e dolorosa, una gran sete di trascendenza, un desiderio di incontrare una sorgente d’ acqua viva, e per questo chiedono aiuto. Per noi questo rappresenta una sfida che ci sprona ad annunciare esplicitamente Gesù ai giovani, fornendo loro un percorso formativo nella fede fino alla scelta di Gesù e proponendo loro diversi modi di vivere il nostro carisma all’interno della Chiesa.

 

A quei giovani che si sentono chiamati alla vita ospedaliera, dobbiamo offrire un orientamento al discernimento vocazionale. Non dobbiamo dimenticare che «il modo più autentico per assecondare l’ azione dello Spirito sarà quello di investire generosamente le migliori energie nell’attività vocazionale, specialmente con una adeguata dedizione alla pastorale giovanile» (VC 64).

 

Consapevoli che la comunità rappresenta il luogo privilegiano per l’annuncio e la testimonianza24, la nostra vita deve essere un modello: «trattare con i giovani e presentare loro la vita ospedaliera ci spingono a vivere nel modo più genuino e autentico la sequela di Cristo» ed a testimoniare «l’allegria, la profondità dell’esperienza di Dio e la totale dedizione a servizio dei fratelli ammalati».

 

Non dobbiamo temere di «aprire con semplicità ai giovani le nostre comunità» e «adeguare le sue regole affinché vi possano trovare una famiglia dove sperimentare la fraternità, una mensa dove condividere gli ideali, una missione dove discernere la propria vocazione. La carità ospedaliera «è una scuola di vita che educa i giovani alla solidarietà e alla disponibilità a donare non qualcosa ma se stessi»25.

 

Sfide della formazione

 

20. Oggi assistiamo ad uno spostamento geografico delle vocazioni, all’interno della Congregazione, provenienti dal sud e dall’est. La diversità culturale che ne consegue è una grande ricchezza che dimostra il dinamismo e il vigore del carisma che non possiamo controllare o reprimere. Questo è segno di speranza e allo stesso tempo una sfida per le «diverse manifestazioni culturali, linguistiche, di costumi e di riti», che esige un serio processo di discernimento vocazionale e di inculturazione sui valori ospedalieri nei diversi contesti. Il nostro fondatore ha dato un grande impulso alla formazione a tutti i livelli: «a questo fine ci si dovrebbe auspicare che in tutte le province […] essa venga promossa […] tenendo conto delle possibilità e dei mezzi a disposizione, promuovendo lo studio e la divulgazione delle questioni relative alla formazione religiosa ed ospedaliera»26.

 

Padre Menni sapeva bene che la formazione deve essere orientata alla missione e che lo studio è per il servizio: «spero di proseguire quanto sarà necessario per essere utile alle anime; e se con questo lavoro riuscirò un giorno a fare un poco di bene, anche se ad un’anima sola, quanto bene impiegato sarà qualunque lavoro!» (L 445).

 

È necessario insistere sul processo formativo, specialmente nelle prime fasi, con una solida formazione umana, spirituale e carismatica, che ci aiuti a vivere il nostro essere donne e a consolidare la nostra scelta per Cristo. La formazione deve essere realizzata in quei luoghi che garantiscono la migliore qualità, l’esperienza dell’universalità del carisma ed il servizio apostolico al malato. Viene valutata positivamente la creazione di strutture formative a livello interprovinciale per acquisire gruppi di formazione di qualità e per formare i giovani all’internazionalità della Congregazione.

 

Evangelizzare a partire dalla comunità ospedaliera…

 

21. La Congregazione, condividendo il dono del carisma nella chiesa, collabora alla sua missione evangelizzatrice: ciò «costituisce in pratica la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda» (EN 14). Lo Spirito Santo, come ha ispirato il carisma, dà anche impulso all’evangelizzazione. L’espansione della Congregazione soprattutto verso l’Africa e paesi asiatici quali il Vietnam, India e Cina, genera nuove sfide per

la nostra azione evangelizzatrice.

 

La comunità ospedaliera, formata al pluralismo, diventa un vero fattore di evangelizzazione esercitando il ministero della guarigione, nello svolgimento dei diversi compiti, dando impulso ai vari livelli, con qualità, profetismo e creatività. Ci sono persone in grado di evangelizzare grazie alle «loro capacità di comprensione e accettazione, alla loro comunione di vita e destino con gli altri, alla loro solidarietà nell’impegno di ciò che è nobile e buono» (EN 21), altri «accolgono con sincerità la Buona Novella, [e] mediante l’accoglienza e la partecipazione nella fede» (EN 13) cercano la costruzione solidale del Regno; altre mettono in pratica tutte le opportunità umane, cristiane, e carismatiche presenti nel contatto con il malato e nel progetto ospedaliero.

 

Le sorelle recano testimonianza dell’ «assoluto di Dio» (EN 69) nell’impegno con il malato. Allo stesso tempo, la comunità ospedaliera evangelizza se stessa attraverso la qualità umana delle relazioni, la stima reciproca, il rispetto per i diversi compiti e funzioni, lo spirito partecipativo e positivo, il rispetto dei diritti individuali e la condivisione dei valori e della cultura ospedaliera. Siamo tutti partecipi dell’impegno evangelizzatore, mediante la testimonianza.

 

La dimensione trascendentale della persona e l’identità cristiana della congregazione richiedono «un annuncio chiaro ed inequivocabile del Signore Gesù» (EN 22), offerto a coloro che lo desiderano, rispettando sempre il loro credo.

 

Bisogna continuare a sviluppare la pastorale della salute per offrire proposte adeguate di evangelizzazione in grado di favorire l’esperienza liberatrice nell’incontro con Gesù.

 

… e dall’opera ospedaliera

 

22. Nelle opere ospedaliere si incarna la missione guaritrice di Gesù. Attualmente, la Congregazione esprime la sua missione attraverso una vasta gamma di strutture sanitarie e sociali, nelle quali si evidenzia una crescita graduale sotto l’ aspetto umano e profetico. L’Istituzione ha sviluppato la sua abilità e specializzazione soprattutto nel mondo della sofferenza psichica, a riprova del dinamismo creativo del carisma.

 

Come Istituzione nella Chiesa, lavoriamo affinché la persona malata ed emarginata si possa sentire membro prediletto. Collaboriamo al suo arricchimento morale facendo in modo che la missione guaritrice di Gesù venga accolta come Buona Novella nella «civiltà umana universale»27. Realizziamo questa esemplarità evangelizzatrice se mettiamo in pratica i criteri di orientamento della nostra missione, (Direttorio, 62.2) se ci impegnamo a portarli avanti e se continueremo ad orientarci verso i più bisognosi nel carisma. Offriamo la nostra testimonianza come espressione di verità, la giustizia come segno di fraternità sia all’interno che all’esterno dell’Istituzione.

 

La nostra gestione economica è volta al maggior bene del malato, il nostro impegno ad approfondire i principi dell’etica cristiana applicati a situazioni spesso lontane dall’ autocoscienza, autonomia e libertà umana. Le nostre opere sono una presenza in rete dello stesso carisma ma poste in realtà diverse, che richiedono traduzioni interculturali concrete. Ciò significa agire con unità e centralità nelle cose essenziali, ma con grande autonomia nello sviluppo di ciascun contesto ed opera.

 

Promuovere una comunità ospedaliera che sia luogo di incontro e di

discernimento per la missione

 

OPZIONI

6 Approfondire la dimensione eucaristica del servizio ospedaliero.

7 Potenziare le comunità radicate nella Parola di Dio.

8 Promuovere, nella formazione iniziale, il nostro modello formativo che formi e fortifichi la persona e la sua identità vocazionale e carismatica.

9 Offrire ai giovani l’annuncio esplicito di Gesù Cristo e la proposta a seguirlo arricchita dal servizio ai malati.

10 Rivedere le strutture di governo e comunitarie.

 

Sotto il dominio dello Spirito

 

23. La serena scena di Pietro che annuncia la Buona Novella del regno, compiutasi in Gesù di Nazaret, è improvvisamente interrotta dall’irruzione dello Spirito Santo. Pietro non ha ancora terminato il discorso quando lo Spirito avvolge «tutti coloro che ascoltavano la Parola» (v. 44). È un’ azione impetuosa che non si può arrestare, come un boato fragoroso («scese»: v. 44); è una manifestazione «inconsueta», nel senso che non aspetta il suo tempo: lo Spirito si «diffonde sopra i pagani» (v. 45) senza essere stato invocato e senza che questi abbiano espresso la loro conversione. Lo Spirito è un «dono» autentico» (v. 45) e allo stesso tempo il vero regista della scena: a Gesù ha concesso il potere di sconfiggere e assoggettare il demonio, liberando coloro che ne sono schiavi (v. 38); ai pagani permette di abbattere il muro che li separava dai giudei e li integra nella nuova comunità del Risorto vincendo i dubbi di Pietro. Ad egli non resta altro che obbedire (v. 47): lo Spirito dirige ogni cosa, tutto si svolge sotto il suo dominio.

 

Il convertitore convertito

 

24. Nel vedere che il dono dello Spirito Santo era stato diffuso sui pagani, «i fedeli circoncisi che erano venuti con Pietro si meravigliarono» (v. 45). Non si aspettavano una pentecoste per i pagani identica a quella che avevano vissuto a Gerusalemme: «Questi hanno ricevuto lo Spirito Santo come noi»: (v. 47). L’irruzione dello Spirito ammutolisce Pietro e scioglie la lingua ai pagani che iniziano a «glorificare Dio» (v. 46). Il racconto termina con la conversione dei pagani e con il cambiamento di mentalità di Pietro e dei suoi compagni che ancora non credevano che chi non appartiene al popolo eletto possa partecipare pienamente alla salvezza, e al dono dello Spirito Santo.

 

Solo ora Pietro comprende pienamente ciò che stava vivendo mediante le visioni e gli incontri: «(..) Dio mi ha mostrato che non si deve dire profano o immondo nessun uomo» (Atti 10,28).

La volontà redentrice di Dio ridisegna i criteri di appartenenza al suo popolo. Pietro riconosce di non poter frapporre ostacoli a Dio perché Egli «non fa distinzione di persone, ma chi lo teme e pratica la giustiza, a qualunque popolo appartenga, è a Lui accetto» (v. 34). Di conseguenza accetta di essere parte di una nuova comunità e si ferma alcuni giorni (v. 48) nella casa di coloro che precedentemente considerava impuri.

 

Un carisma da condividere

 

25. Anche a noi, oggi, capita di vivere qualcosa di simile. Lungo il cammino che stiamo percorrendo insieme, noi suore e collaboratori, scopriamo che il carisma dell’ospitalità è un dono dello Spirito la cui finalità universale è il bene dell’umanità: «è incoraggiante sapere che la ricchezza dell’universalità della famiglia ospedaliera continua a crescere. Al suo interno vi è una grande pluralità la cui causa comune è il malato; è lui che ci unisce.

 

I collaboratori scoprono il dono del carisma quando affermano: «abbiamo ricevuto un grande dono attraverso la contemplazione del malato come destinatario diretto del nostro servizio. Grazie a lui i nostri compiti quotidiani acquistano una dimensione trascendentale». La missione ospedaliera si trasforma gradualmente in un’esperienza carismatica. Oggi, per «missione condivisa intendiamo non soltanto la proposta di uno spazio di lavoro concreto, ma soprattutto uno spazio di comunione, dove ci si può sentire parte di uno stesso carisma». Ognuno di noi, suora o collaboratore, interpreta lo spartito del carisma con un suo personale strumento, cercando di riprodurre una crescente armonia con una sola finalità: eseguire la migliore melodia «Buona Novella di Dio» per l’uomo che soffre.

 

Suore e collaboratori: i punti di un cammino secolare

 

26. Nel Capitolo generale, in cui abbiamo deciso di affrontare il tema della missione ospedaliera come Buona Notizia della guarigione di Dio per l’uomo di oggi, è necessario approfondire un aspetto che fin dal 1980 è diventato sempre più importante: la presenza di persone che lavorano nell’opera ospedaliera e che non appartengono alla comunità religiosa.

 

La collaborazione dei laici è stata una costante nella storia della nostra Congregazione. Padre Menni ne fu il promotore, cercando medici competenti che contribuissero al processo terapeutico con la loro competenza tecnica e scientifica28 e quanti, attraverso la loro professione, potessero collaborare al progetto ospedaliero29.

 

 

Terza parte.

 

Ospitalità: una chiamata a costruire il Regno

 

28 L’affanno di assicurare un’assistenza qualificata ci spiega la sua apertura

verso il personale medico: «quando mori il dottor Rodrigo, direttore del Sanatorio

di Ciempozuelos, P. Menni volle a tutti i costi cedere la direzione al miglior

psichiatra di Spagna. Fece una serie di consultazioni giungendo alla conclusione che il miglior psichiatra era il dottor Luís Simarro docente di Psicologia Sperimentale presso l’università di Madrid. Ma gli dissero che questo signore, essendo un grande medico nella sua specializzazione, era ateo e apparteneva alla Massoneria spagnola del Grande Oriente. Padre Menni rispose che prima di tutto veniva l’amore per i malati e che non aveva bisogno di catechisti perché già disponeva di religiosi» (SACRA CONGREGATIO PRO CAUSIS SANCTORUM, Beatificationis et canonizationis servi Dei Benedicti Menni, Positio Super Virtutibus, vol. II, Roma 1981, p. 894: Testimonianza del Dr. José Álvarez Sierra).

 

29 Cfr. Lettera 591, alla Superiora generale, 24 novembre 1904; VICENTE

CARCEL, Storia della Congregazione, Città del Vaticano 1988, p. 55.

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Questa partecipazione si è sviluppata gradualmente e costantemente nel corso della nostra storia, imprimendo un valore crescente alla complementarietà tra l’azione religiosa e quella laica allo scopo di offrire un’assistenza integrale e di qualità in accordo con la cultura ospedaliera e in linea con i progressi scientifici.

 

Questa integrazione ha subito un maggiore impulso non solo a causa della diminuzione del numero delle suore, ma anche per l’esigenza profetica del carisma e per la consapevolezza di una maggiore partecipazione e responsabilità dei laici nella comunione e nella missione della Chiesa.

Al fine di promuovere una maggiore sensibilità, nel 1987 fu proclamato l’anno dei collaboratori30. Il XVI Capitolo generale (1988) segnò un passo avanti, esortandoci affinché: «Religiosi, collaboratori e volontari dobbiamo integrarci nella missione di servizio al malato, centro della nostra azione, divenendo segno di comunione »31.

 

Per proseguire lungo questo cammino di corresponsabilità ed integrazione, nella realizzazione della missione, fu decisivo il XVII Capitolo generale, che rafforzò l’importanza del crescere nell’identificazione con la cultura e i valori ospitalieri come vengono definiti nel Progetto Ospedaliero Integrale32. Si rafforzò la convinzione che i collaboratori «sono chiamati a essere i continuatori non solo delle attività ma anche dello spirito e del carisma dei nostri Fondatori»33, rispondendo, mediante la loro partecipazione attiva nella Chiesa, alle esigenze della loro propria vocazione.

 

In questo senso, si assunse l’impegno di condividere l’identità carismatica con alcune persone capaci di costituire un’associazione ispirata e animata dallo spirito della Congregazione come laici integrati nella Chiesa.34. Nel 1988 si pubblicò il documento Laici Ospedalieri per dare slancio a questo cammino e aiutare quei laici che desiderassero vivere «condividendo il dono dello spirito in piena responsabilità»35.

 

Il XVIII Capitolo generale (2000) promosse il processo della Missione Condivisa partendo da un maggiore coinvolgimento dei collaboratori nel carisma, nella missione e nella spiritualità, proponendo l’immagine evangelica della vite e dei suoi diversi rami a fondamento di questa partecipazione36.

 

Spiritualità della collaborazione nell’ottica dell’irruzione del Regno

 

27. La crescente laicizzazione della società e l’universalità della Congregazione ci stimolano a collaborare non solo con i cattolici ma anche con persone appartenenti ad altre religioni, persone di buona volontà anche se prive di una visione di fede37.

 

Il processo di discernimento capitolare si sviluppa lasciandosi guidare dalla narrazione della missione guaritrice di Gesù quale espressione dell’irruzione salvifica del Regno di Dio. Il racconto biblico dell’incontro tra Pietro e Cornelio ci mostra la natura accogliente di questo Regno, di cui solo Dio può determinarne i confini o scegliere i sudditi.

 

Noi crediamo che ogni genere di collaborazione alla guarigione, per amore della persona sofferente, offerta mediante le nostre strutture, sia una manifestazione esplicita o implicita della misteriosa presenza del Regno. È quanto sta scritto nella nostra tradizione spirituale: chi desidera «avere in eredità la vita eterna» (Lc 10,25) deve assumere l’atteggiamento del Samaritano (un mezzo pagano), ovvero l’attitudine alla misericordia compassionevole verso tutte le persone dimenticate ai margini della strada. Ne sono testimoni i laici che hanno partecipato al discernimento capitolare: «in questo processo trasversale di comprensione del volto umano come vera manifestazione di Dio sia da parte dei laici che dei religiosi, si radica l’autentica presenza rivoluzionaria della Buona Novella».

 

Consideriamo collaboratori38 le persone che, lavorando nelle nostre opere, collaborano alla costruzione del Regno sebbene non siano pienamente consapevoli e che così facendo contribuiscono alla realizzazione storica della missione salvifica di Gesù. Ponendosi inoltre al servizio dei poveri e dei malati riceveranno, al termine del tempo «l’eredità del Regno» preparato per loro «fin dalla creazione del mondo» (Mt 25,31-46). La nostra missione e la loro collaborazione troveranno la piena verità solo nella rivelazione escatologica39.

 

Utilizziamo il termine di «laici ospedalieri» per «coloro che credendo assumono la loro vocazione di laici nella Chiesa e nel mondo, e che non solo vogliono vivere il carisma, la spiritualità e la missione ospedaliera, ma desiderano anche giungere a instaurare un rapporto istituzionalizzato di vincolo con la Congregazione»40, sebbene non lavorino nelle sue opere.

 

È importante quindi che la comunità religiosa sia disposta a spogliarsi della pretesa di essere l’unica mediazione storica capace di rendere presente la missione salvifica di Gesù. Guidati dallo Spirito, accettiamo di accogliere e riconoscere con gioia e libertà interiore tutti coloro che, anche senza saperlo, appartengono a quella nuova realtà di Dio che noi chiamiamo Regno, alla cui costruzione essi contribuiscono. Insieme saremo «buona novella» che Dio continua a proporre la sua salvezza all’uomo di oggi.

 

Nel XIX Capitolo generale inizia una nuova tappa del nostro cammino ospedaliero, nel quale vogliamo dare impulso alle seguenti azioni dinamiche: rafforzare l’identità, la qualità integrale, le nuove necessità, le collaborazioni in rete e la comunicazione.

 

I Fratelli Karamazov, definisce l’inferno come «il tormento di non avere assolutamente niente e nessuno da amare».

40 Laici Ospedalieri, p. 44. con molta chiarezza nella parte precedente lo

stesso documento afferma: «La collaborazione è con tutti. Però nel parlare di

laici in senso stretto non ci riferiamo a tutti i collaboratori. Laico è per definizione una figura ed un termine teologico ed ecclesiale. Non parliamo di

semplici professionisti ma di laici membri del Popolo di Dio, ai quali, attraverso la fede comune e la comune appartenenza alla Chiesa, noi offriamo una partecipazione speciale al nostro carisma e alla missione ospedaliera». MISION HOSPITALARIA italiano 8/9/98 19:36 Página 57

 

Rafforzare l’identità istituzionale

 

28. Le nostre opere, mediazione storica per realizzare la missione evangelizzatrice verso la cura e l’assistenza integrale al malato, secondo lo spirito dei nostri fondatori, hanno una propria identità e cultura che si esprimono con i valori e lo stile che ci caratterizzano. Il numero crescente di collaboratori che partecipano alla nostra azione apostolica ci porta ad approfondire e condividere la cultura «della nostra Congregazione al fine di offrire un servizio ospedaliero migliore» (Cost. 67), garantendo la sua specifica identità.

 

Condividere la stessa missione ci richiede di: sviluppare spazi di formazione e riflessione che favoriscano l’identificazione di tutti coloro che collaborano con la cultura e la nostra missione; assicurare un processo adeguato di integrazione e orientamento dei collaboratori nelle funzioni di responsabilità, attraverso una chiara definizione del loro profilo, conciliando competenza professionale ed identificazione con la cultura ospedaliera.

 

Si avverte inoltre, la necessità di definire gli «indicatori che ci permettano di valutare l’autenticità ospedaliera dei nostri progetti».

 

Promuovere un progetto ospedaliero di qualità

 

29. La qualità è un obiettivo istituzionale ma anche una necessità, data la natura evangelizzatrice della nostra azione apostolica. L’annuncio della Buona Novella dell’ospitalità è più credibile se è in grado di offrire un’assistenza integrale capace di coniugare scienza ed umanizzazione (Directorio, 62.2). Fin dalle origini, il nostro servizio ospedaliero è stato orientato in questa prospettiva, cercando di applicare i mezzi tecnici, terapeutici e umani che ci permettano di assicurare la migliore assistenza al malato.

 

Negli ultimi anni, abbiamo migliorato l’assistenza e la qualità di vita del malato, adattando le nostre strutture, diversificando e specializzando i servizi, insistendo sulla riabilitazione e reintegrazione dei malati, sempre secondo il nostro principio di centralità del malato.

 

La crescita della qualità integrale comporta, da parte nostra, una maggiore specializzazione a favore dei destinatari. A partire dal riconoscimento della dignità del malato, il nostro impegno è quello di stabilire un equilibrio stabile tra gli obiettivi e i mezzi a nostra disposizione, portando avanti la ristrutturazione e la riorganizzazione delle Opere, potenziando la qualità e l’innovazione.

 

Tutto ciò ci stimola a ricercare un sempre maggiore inserimento a livello sociale, che ci consenta di avvicinarci maggiormente alle situazioni di disagio ed emarginazione, anche attraverso strutture più comunitarie. Per poter offrire il meglio al malato, è necessario «l’equilibrio tra l’eccelenza nella gestione, il servizio di qualità, la funzionalità e l’autofinanziamento delle Opere».

 

La sfida più grande che ci attende è quella di unificare i criteri organizzativi, amministrativi e di gestione, ottimizzando le risorse finanziarie, strutturali e umane. La responsabilità di garantire l’identità ed il futuro delle nostre Opere, ogni giorno sempre più complesse ed impegnative, ci spinge ad individuare

norme idonee a stabilire nuove modalità di gestione, partecipazione

e delega.

 

Avvicinarsi alle nuove situazioni di sofferenza, emarginazione e povertà

 

30. Il nostro Carisma ci chiede di essere presenza profetica attraverso il servizio e la dedizione verso chi si trova in condizioni di emarginazione e povertà. Il Regno, alla cui costruzione collaboriamo con la nostra missione, diffonde il suo messaggio di libertà e la sua forza liberatrice, proprio nei luoghi dove la vita umana è maggiormente minacciata. Oggi, le nuove povertà mettono alla prova la nostra capacità creativa: «è tempo per una nuova ‘idea della carità’, che sia promotrice non solo di aiuti materiali, ma soprattutto di vicinanza e solidarietà a coloro che soffrono, affinché il gesto di aiutare non sia sentito come un «umiliante elemosina» ma, al contrario sia un gesto di condivisione fraterna»41. I malati ci aiutano a scoprire i nuovi orizzonti della nostra missione e ci sfidano a individuare quelle risposte che diano un segnale della presenza del Regno, assumendo «atteggiamenti profetici in campo sanitario e sociale» (Direttorio, 62.2).

 

Rispondere alle «nuove forme di emarginazione esige, da parte nostra, anche la volontà di collaborare con altre istituzioni per affrontare i problemi con un’ottica multidisciplinare». È necessario consolidare la cooperazione con i paesi in via di sviluppo, dotati di minori risorse, nei quali la nostra Congregazione è presente, aprendo sempre di più i nostri progetti alla partecipazione solidale dei collaboratori.

 

Organizzare sistemi per la collaborazione in rete…

 

31. La chiamata a costruire il Regno, a partire dalla nostra identità e missione, ci sprona verso una globalizzazione dell’ospitalità. La profonda comunione nel carisma ci spinge a ricercare un metodo di funzionamento più coordinato, ed esige un’organizzazione in rete che coinvolga tutti i livelli, in modo che le strategie di intervento adottate confluiscano in una complementarietà di risorse ed in un’azione concordata a livello istituzionale.

 

Oggi, questa dimensione è divenuta imprescindibile per lo sviluppo presente e la vitalità futura delle nostre opere. Si rende necessario avviare e consolidare sistemi di collaborazione e scambio tra i centri, le province e la Congregazione. Condividere le conoscenze, l’esperienze ed i progetti può rivelarsi un mezzo di arricchimento della missione, di rafforzamento dell’identità e di ottimizzazione delle risorse esistenti. Riconosciamo come fondamentale il potenziamento di una connessione più attiva con le strutture ecclesiali, sociali e accademiche.

 

Attivare la comunicazione globale

 

32. In un mondo in cui la comunicazione e l’informazione divengono sempre più indispensabili, diventa necessario formulare un progetto di ospitalità con coordinate più universali, utilizzando nuove forme di evangelizzazione. Come Cristo «che andava per città e paesi annunziando la Buona Novella del Regno di Dio» (Lc 8,1), anche noi dobbiamo annunciare la Buona Novella mediante una presenza congregazionale che utilizzi mezzi di informazione e comunicazione qualificati. «Se vogliamo continuare ad essere presenti in una società come la nostra, complessa, mediatica e digitale, con i suoi portali internet, dobbiamo essere anche corporativamente presenti nei mezzi di comunicazione per poter diffondere di più e meglio la nostra missione e il nostro carisma».

 

Le nuove tecnologie ci permettono di diffondere la nostra azione apostolica a livello congregazionale, ecclesiale e sociale. Abbiamo bisogno di sviluppare percorsi più agili che ci permettano di capitalizzare e condividere l’esperienza pluriennale in materia di ospitalità, assumendo, a livello ecclesiale, la nostra

presenza in ambito sanitario, rivelando il volto di Dio che guarisce e libera le persone.

 

A livello sociale, non solo è fondamentale potenziare l’informazione istituzionale ma è anche necessario promuovere la salute, favorendo la cultura della vita e risvegliando la coscienza sociale nei confronti della malattia psichica. Attraverso questi mezzi, possiamo aiutare i malati e le loro famiglie affinché trovino le risorse più adeguate alle loro esigenze.

 

Potenziare il processo di integrazione istituzionale e scoprire nuove prospettive per la realizzazione della missione

 

OPZIONI

 

11 Studiare e creare nuove modalità di gestione, organizzazione e governo delle Opere Ospedaliere.

12 Strutturare, a livello generale, il processo di cooperazione nei progetti di solidarietà della Congregazione.

13 Promuovere la dimensione evangelizzatrice delle istituzioni ospedaliere.

 

 

1. Formulare il tratto distintivo dell’identità dell’Istituzione

 

È necessario esplicitare l’identità del progetto ospedaliero nella realtà dell’Opera Ospedaliera, delineandone i tratti specifici da cui deve emergere chiaramente «chi siamo, cosa facciamo, perché lo facciamo e come lo facciamo».

Questa procedura di aggiornamento e concretizzazione del codice identificativo e dei suoi principi, deve essere punto di riferimento comune per le politiche di direzione, organizzazione e gestione in tutti i luoghi dove la Congregazione è presente.

2. Promuovere la cultura ed i valori dell’istituzione nella vita quotidiana dei centri

Proseguendo lungo la linea tracciata nel sessennio precedente, in relazione all’identificazione, formulazione e diffusione dei valori ospedalieri (Missione condivisa, XVIII Capitolo generale), si intende, ora, proporne la realizzazione pratica potenziando lo sviluppo dell’Ospitalità e dei suoi valori in tutta la comunità ospedaliera.

3. Promuovere il senso di appartenenza alla comunità ospedaliera

È necessario che tutti gli appartenenti alla comunità ospedaliera si sentano parte dello stesso progetto. La realizzazione di incontri, la formazione comune e l’informazione a tutti i livelli, locali, provinciali, generali, rafforzano l’identificazione e l’ unità.

 

4. Aggiornare e sviluppare il modello organizzativo e gestionale

L’evoluzione dell’istituzione e il suo adeguamento alle esigenze odierne, richiede di aggiornare la definizione dei principi organizzativi, le responsabilità, la presa di decisioni ed il profilo dirigenziale. Sarà quindi indispensabile formulare un modello coerente con l’identità ospedaliera, il rispetto della legalità e dell’etica, l’equilibrio crea eccellenza ed equità, autonomia e coordinamento delle istanze organizzative e la cooperazione della comunità ospedaliera.

5. Promuovere una gestione efficiente attraverso strumenti e metodi di pianificazione

Questo obiettivo richiede lo sviluppo e l’adozione di sistemi informativi (non solo informatici), adatti alla gestione delle diverse aree: assistenza, risorse umane, economica-finanziaria, ecc. Tutto ciò può essere realizzato attraverso l’uso di una metodologia moderna di pianificazione e controllo, e con la definizione di indicatori adeguati alla valutazione.

6. Potenziare le sinergie tra le province e i centri

La comunicazione e il lavoro di squadra mettono a frutto gli sforzi, potenziando i legami ed aumentando le probabilità di successo. A partire quindi, dalle iniziative portate avanti nel sessennio precedente, si propone di promuovere le sinergie (comprese quelle economiche) mediante la collaborazione provinciale ed interprovinciale.

7. Dare alla qualità una focalizzazione trasversale che coinvolga le politiche e i sistemi gestionali

Lo sviluppo della componente ospedaliera della qualità, richiede una prospettiva propria, integrale e differenziata (valori e cultura ospedaliera), che implichi una focalizzazione trasversale e che estenda i suoi principi all’elaborazione ed attuazione delle politiche relative (assistenziale, risorse umane, organizzazione, sistemi, infrastrutture, etc.).

 

B) ASSISTENZA OSPEDALIERA

 

8. Consolidare il modello assistenziale ospedaliero

L’assistenza integrale della persona si caratterizza per il suo essere accogliente, rispettosa, personalizzata, interdisciplinare e di qualità, sostenuta dai progressi scientifici e tecnici, e per la particolare attenzione all’etica (sia sotto l’aspetto clinico che organizzativo). Essa promuove il lavoro di gruppo, il reinserimento sociale e la continuità delle cure.

 

9. Sviluppare la pastorale integrata nell’attività assistenziale

La prospettiva ospedaliera dell’assistenza comporta la graduale integrazione dell’azione pastorale nel servizio agli ammalati. Pertanto, è necessario continuare ad accentuarne il suo carattere evangelizzatore e la sua dimensione umanizzante, aprendosi alle diverse situazioni personali dei pazienti e dei loro costumi, a seconda del paese, cultura e credo a cui appartengono.

Data la complessità del lavoro da svolgere, è necessario ampliare la formazione delle persone responsabili.

 

10. Rispondere in modo integrale e reale alle emergenze e alle necessità locali

Oltre allo sviluppo dell’assistenza e delle terapie, l’ospitalità, sin dalle sue origini, si è distinta per la sua capacità di individuare le nuove necessità e dare loro una risposta, grazie anche al suo carattere promotore, innovatore e creativo. Data la sua presenza attiva nella società moderna, il modello ospedaliero deve confrontarsi anche con altre realtà simili, come le amministrazioni pubbliche, al fine di coniugare risposte congiunte ed integrate alle esigenze ed emergenze assistenziali del luogo.

 

11. Promuovere ed integrare l’insegnamento e la ricerca quale parte del modello assistenziale

 

Nel modello assistenziale, l’insegnamento e la ricerca occupano un posto di rilievo, sebbene la loro realizzazione in pratica si attui seguendo diversi livelli di sviluppo. La promozione istituzionale di entrambi i settori, esige un maggiore coinvolgimento nella partecipazione ai progetti, l’assegnazione di risorse e la creazione di strutture proprie in grado di assicurare un adeguato

progresso dei professionisti e dell’Istituzione stessa.

 

C) RISORSE UMANE

 

12. Sviluppare politiche e progetti relativi alle Risorse Umane

 

Le politiche relative alle risorse umane devono configurarsi come uno strumento strategico basilare per il progresso dell’opera ospedaliera. Bisogna promuovere attivamente l’identificazione con l’Istituzione e l’impegno reciproco.

13. Sviluppare la comunicazione interna e gli ambiti di corresponsabilità

 

I processi attivi di cambiamento e trasformazione dell’Istituzione richiedono la creazione di nuovi canali di comunicazione e una redistribuzione dei compiti e delle responsabilità interne, tali da consentire una maggiore partecipazione dei collaboratori nel progetto istituzionale.

 

L’opera ospedaliera, ogni giorno più complessa, esige un rafforzamento della sua struttura direttiva attraverso l’istituzione di quadri intermedi impegnati nella missione ospedaliera, in grado di gestire, giorno per giorno, le risorse umane e promuovere uno stile di direzione in grado di motivare i collaboratori.

 

14. Istituire un sistema di inserimento, motivazione e valutazione

 

È importante disporre di una politica che garantisca l’inserimento e l’integrazione di persone qualificate, attraverso piani di accoglienza, orientamento e valutazione delle prestazioni. È importante, allo stesso tempo, applicare sistemi di motivazioni che servano da stimolo ed infondano fiducia ai membri della comunità ospedaliera.

 

15. Realizzare la formazione continua a tutti i livelli dell’Istituzione

 

È fondamentale promuovere la gestione della conoscenza attraverso programmi di formazione continua, favorendo lo scambio, la crescita professionale e il senso di appartenenza dei collaboratori all’Istituzione.

 

D) GESTIONE ECONOMICO-FINANZIARIA

 

16. Promuovere una politica economico-finanziaria e patrimoniale che garantisca la continuità e lo sviluppo dell’opera ospedaliera.

 

Tenuto conto della complessità degli scenari economici, si rende necessario elaborare alcuni criteri «di base» adattabili alle diverse realtà provinciali, protocollare le politiche, i beni e i criteri comuni che le sostengono.

 

È opportuno chiarire gli obiettivi, il grado di esigibilità e i principi delle politiche gestionali patrimoniali, soprattutto per quanto riguarda le risorse umane e gli investimenti.

 

17. Promuovere la professionalizzazione nell’ambito della gestione di Risorse Umane Conviene continuare ad investire nella professionalizzazione della gestione economico-finanziaria, promuovendo una gestione condivisa delle risorse sia a livello provinciale che interprovinciale, individuando i servizi che possono essere gestiti congiuntamente.

 

E) COMUNICAZIONE ESTERNA

 

18. Inserire la comunicazione quale elemento chiave della cultura ospedaliera

 

È opportuno promuovere, articolare e consolidare iniziative in favore della comunicazione esterna, quale componente fondamentale della cultura ospedaliera.

Pertanto, si ritiene fondamentale una visione integrale della comunicazione, (soprattutto in relazione ai collaboratori, ad altri enti di nostro interesse, alla società, ecc), quale strumento al servizio dell’Opera, a partire dai principi che integrano il Progetto Ospedaliero.

 

19. Progettare e realizzare programmi corporativi di comunicazione

 

È necessario elaborare in modo strategico il messaggio pubblico dell’opera ospedaliera, con i suoi obiettivi di congregazione e le caratteristiche carismatiche specifiche da diffondere a livello locale. È opportuno analizzare l’immagine che vogliamo comunicare e quella che invece viene effettivamente percepita.

Il progetto di comunicazione esterna deve ispirare ed integrare gli ambiti Generali, Provinciali e Locali.

VALUTAZIONE

Tutta l’attività deve essere valutata. L’esame periodico del grado di sviluppo degli obiettivi, permette di prendere delle decisioni correttive e di rivedere i progressi compiuti, al fine di ridefinire le opzioni per il futuro. Per facilitare il raggiungimento di questi «obiettivi strategici» stabiliti per il prossimo sessennio 2006-2012, è necessario:

 

  1. Realizzare una valutazione iniziale in ogni centro ed in

ogni provincia

  1. Individuare degli indicatori che consentano una valutazione

efficace.

 

Il Governo generale elabora gli indicatori corrispondenti. In ogni Provincia, una commissione o gruppo di lavoro creato appositamente, stabilisce il modo e la metodologia di valutazione da applicare nei propri centri e in tutta la provincia.

 

È molto importante conoscere il punto di partenza, in relazione a ciascun obiettivo da raggiungere, al fine di programmare azioni adeguate che ne facilitino il raggiungimento.

 

Al termine del sessennio, una valutazione più esauriente potrà fornire un resoconto del cammino percorso e rilanciare la programmazione della «Missione Condivisa» verso una nuova meta.

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CONCLUSIONE

Dio disse: «Sia la luce», e la luce fu.

Dio vide che la luce era cosa buona.

Dio disse: «Ci siano luci nel firmamento

per illuminare la terra» E così avvenne.

Dio fece le due luci grandi e le stelle;

e Dio le pose nel firmamento del cielo per

illuminare la terra.

(Cfr. Gn 1,3-4.15-17)

Le stelle, che godevano di luce propria, si riunirono a migliaia,

formando la Via Lattea, che attraversa il firmamento in

una ricerca infinita della sua origine e del suo destino. Per volere

del Creatore, le stelle si convertirono in centro intorno al

quale gravitano altre creature che da esse ricevono luce, calore

e guida:

Dio vide che era cosa buona! (Gn 1,18)

Anche nel cielo dell’ospitalità brillano le stelle: i malati e tutti i destinatari della nostra missione. Essi sono il centro che unifica e riunisce la comunità Ospedaliera. Dio misericordioso e guaritore li ha segnati con i raggi del suo volto – «di poco inferiore ad un dio lo fece» – dotandoli di particolare luce, «incoronandoli di gloria e splendore» (Sal 8,6).

 

La comunità ospedaliera ha ricevuto la missione di riaccendere le stelle, mediante un’ azione riabilitatrice che illumina anche noi, ci arricchisce ed evangelizza. La sua lucentezza originale si plasma sui nostri volti e sulle nostre vite. «Da dove abbiamo meritato la grazia con la quale il Signore si degna di impiegarci al suo servizio e a sollievo delle sue vive immagini?» (L

406).

 

Ogni volta che assistiamo un malato rendiamo testimonianza, alla Chiesa e alla società, che Dio è vivo e attivo tra i figli più deboli e bisognosi del suo popolo. Attraverso la nostra missione ospedaliera siamo Buona Novella della guarigione di Dio per l’uomo di oggi in qualunque luogo della terra.

Allora Dio nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, (Gn 2,2-3).

 

Nel vedere la sua opera compiuta, Dio si rallegrò e si riposò perché l’ affidava in buone mani. A te, a me, a tutta la comunità ospedaliera, appartiene il lavoro del settimo giorno della nostra storia congregazionale. «Coraggio figlie mie, coraggio, il Cielo è nostro: combattete con coraggio sino alla fine» (L 447).

 

 

 

 

ABBREVIAZIONI

  • L Lettere di P. Benedetto Menni alle Suore Ospedaliere

del Sacro Cuore di Gesù da lui fondate (1883-1913),Viterbo 1993.

  • Cost. Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù, Costituzioni,

Roma 2000.

  • EN Paolo VI, Esortazine Apostolica, Evangelii Nuntiandi,

8 dicembre 1975.

  • Perfil Lizaso Berruete F. O. H. (coord.), Perfil juandediano

del Beato Benito Menni (463 cartas), Granada 1985.

  • RMA Giménez Vera M. Angustias, Relazione sulle origini

della Congregazione delle Suore Ospedaliere del Sacro

Cuore di Gesù, Viterbo 1977.

  • VC Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica post-sinodale,

Vita Consecrata, 25 marzo 1996.

 

INDICE

Presentazione ……………………………………………………………. 5

PRIMA PARTE

OSPITALITÀ: UN CARISMA DA TESTIMONIARE

1. Il nucleo della prima evangelizzazione ………………… 19

2. Gesù unto di Dio e profeta del Regno …………………. 19

3. La missione messianica di Gesù è una missione

guaritrice ……………………………………………………………. 20

4. Ospitalità: evangelizzazione nella guarigione ………. 21

5. Consacrazione ospedaliera: memoria viva di Gesù . 22

6. Carisma e Missione: espressione della stessa

identità ……………………………………………………………….. 23

7. A partire dal XVIII Capitolo generale:

obiettivi… …………………………………………………………… 23

8. … e orizzonti che si ampliano ……………………………… 24

9. Centralità del malato nella prospettiva del Regno .. 25

10. Verso una spiritualità ospedaliera a partire

dall’irruzione del Regno ……………………………………… 26

a) Il Regno è di Dio …………………………………………….. 26

b) Il Regno fermenta la storia ……………………………….. 27

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c) Il Regno si annuncia agli emarginati …………………. 27

d) Il Regno come incontro di gioia ……………………….. 28

e) Il Regno è motivo di rifiuto ………………………………. 29

f) Il Regno esige di donare la vita …………………………. 30

SECONDA PARTE

OSPITALITÀ: UNA MISSIONE DA CONDIVIDERE

11. Eletti dalla comunione con il Risorto ………………….. 35

12. La comunità luogo di elezione missionaria… ………. 35

13. … e di comprensione delle Scritture ……………………. 36

14. Comunità radicate nella Parola …………………………… 37

15. Eucaristia cultuale ed Eucaristia della carità ……….. 38

16. La guarigione è un segno pasquale ……………………… 39

17. Comunità eucaristiche ………………………………………… 40

18. Il Martirio della carità ………………………………………… 41

19. Comunità, luogo di annuncio e testimonianza ……… 42

20. Sfide della formazione ………………………………………… 44

21. Evangelizzare a partire dalla comunità

ospedaliera… ……………………………………………………… 45

22. … e dalle opere Ospedaliere ……………………………….. 46

TERZA PARTE

OSPITALITÀ: UNA CHIAMATA

PER COSTRUIRE IL REGNO

23. Sotto il dominio dello Spirito ………………………………. 51

24. Il convertitore convertito …………………………………….. 51

25. Un carisma da condividere ………………………………….. 52

26. Suore e collaboratori: punti di un cammino

centenario …………………………………………………………… 53

82 Missione ospedaliera: Buona notizia

Indice

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27. Spiritualità della collaborazione nell’ottica

dell’ irruzione del Regno …………………………………….. 55

28. Rafforzare l’identità istituzionale ………………………… 58

29. Promuovere un progetto ospedaliero di qualità …… 59

30. Avvicinarsi alle nuove situazioni di sofferenza,

emarginazione e povertà ……………………………………… 59

31. Organizzare sistemi di collaborazione in rete ………. 60

32. Attivare la comunicazione globale ………………………. 61

QUARTA PARTE

MISSIONE CONDIVISA:

OBIETTIVI STRATEGICI 2006-2012

II. Identità e cultura ospedaliera ……………………………… 67

II. Opera ospedaliera ………………………………………………. 68

a) Organizzazione e gestione ……………………………… 68

b) Assistenza ospedaliera …………………………………… 69

c) Risorse umane ……………………………………………….. 71

d) Gestione economico-finanziaria …………………….. 72

e) Comunicazione esterna ………………………………….. 73

Valutazione ……………………………………………………………….. 75

Conclusione ………………………………………………………………. 77

Abbreviazioni ……………………………………………………………. 79

Missione ospedaliera: Buona notizia 83

Indice

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[i] 2 Il terzo evangelista interpreta il Battesimo di Gesù come il momento

della sua consacrazione profetica, (Lc 3,21-22).

3 Secondo il dizionario biblico, per «pace» si intende una condizione di

benessere integrale.

4 B. MENNI, Circolare n. 39, 31 ottobre 1909, in Perfil, p. 117.

5 B. MENNI, Circolare n. 42, 8 marzo 1911, in Perfil, p. 143.

6 BENEDETTO XVI, Omelia della Giornata mondiale della vita Consacrata,

2 febbraio 2006.

7 Tutte le frasi riportate tra parentesi che non rimandano ad un riferimento,

appartengono alle sintesi elaborate dalle Province.

8 CONGREGAZIONE DELLE SUORE OSPEDALIERE DEL SACRO CUORE DI GESÙ,

Documento del XVIII Capitolo generale, Roma 2000, p. 12.

9 Ibid., pp. 37-38.

10 B. MENNI, Circolare n. 9, 26 maggio 1888, in Perfil, p. 42; riporta in modo

significativo la citazione di Isaia 53,3: «Disprezzato e reietto dagli uomini,

uomo dei dolori che ben conosce il patire».

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11 Giovanni della Croce, La notte oscura, 14-15.

 

12 Si veda il Salmo 72 e, più vicino all’epoca di Gesù, Siracide 35,14-20.

13 Nel testo originale spagnolo, «scegliere» significa letteralmentre «imporre

le mani» su qualcuno per conferirgli un incarico o un ufficio. Qui il soggetto

è Dio, ma può essere la comunità (2 Cor 8,19) o i missionari (Atti 14,23).

14 In greco è lo stesso verbo che si ritrova in Is 61,1 e Lc 4,18-19.

15 M. MARTÍN HERNÁNDEZ, San Benito Menni. Biografía Documentada,

edición 2005, cap. XXVIII, pp. 413-414.

16 Ibid., p. 414.

17 Questa è un’espressione ricorrente nelle lettere di P. Menni, con la

quale egli ci invita, ad offrire quotidianamente ed in modo permanente la

propria vita per gli altri (L 71, 331, 669).

18 B. MENNI, Costituzioni 1882, 36.

19 B. MENNI, Lettera a Sr. D. Juan Heredia, n. 335, 9 Agosto 1897, in Perfil,

p. 453.

20 D. BARROSO ALVES-M. C. OCHOTORENA, Carisma e spiritualità, Roma

1994, p. 116.

21 Circolare n. 26, 25 dicembre 1898, in Perfil, pp. 85-86.

 

22 Circolare n. 9, 26 maggio 1888, in Perfil, p. 42.

23 Liturgia delle Ore. Solennità del SS. Corpo e Sangue di Cristo. Inno dei

secondi Vespri.

24 Si avverte «la necessità delle comunità accoglienti e capaci di condividere

il loro ideale di vita con i giovani, lasciandosi interpellare dalle loro esigenze

di autenticità, disposte a camminare accanto a loro» (CONGREGAZIONE

PER GLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E DELLE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA,

Ripartire da Cristo: Un rinnovato impegno della vita consacrata nel terzo millennio,

19 maggio 2002, p.17).

25 BENEDETTO XVI, Enciclica, Deus caritas est, 25 dicembre 2005, 30b.

26 Circolare n. 42,10 dell’ 8 Marzo 1911, in Perfil, p. 129.

27 Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera apostolica, Salvifici Doloris, 11 febbraio

1984, 29.

28 L’affanno di assicurare un’assistenza qualificata ci spiega la sua apertura

verso il personale medico: «quando mori il dottor Rodrigo, direttore del Sanatorio

di Ciempozuelos, P. Menni volle a tutti i costi cedere la direzione al miglior

psichiatra di Spagna. Fece una serie di consultazioni giungendo alla conclusione

che il miglior psichiatra era il dottor Luís Simarro docente di Psicologia Sperimentale

presso l’università di Madrid. Ma gli dissero che questo signore, essendo

un grande medico nella sua specializzazione, era ateo e apparteneva alla

Massoneria spagnola del Grande Oriente. Padre Menni rispose che prima di

tutto veniva l’amore per i malati e che non aveva bisogno di catechisti perchè già

disponeva di religiosi» (SACRA CONGREGATIO PRO CAUSIS SANCTORUM, Beatificationis

et canonizationis servi Dei Benedicti Menni, Positio Super Virtutibus, vol.

II, Roma 1981, p. 894: Testimonianza del Dr. José Álvarez Sierra).

29 Cfr. Lettera 591, alla Superiora generale, 24 novembre 1904; VICENTE

CARCEL, Storia della Congregazione, Città del Vaticano 1988, p. 55.

30 MA. DOLORES ALDABA, Circolare 56/87, a tutte le suore della Congregazione.

Si veda anche Laici ospedalieri, p. 23.

31 SUORE OSPEDALIERE DEL SACRO CUORE DI GESÙ, Documento XVI Capitolo

generale, Roma 1988, p. 36.

32 SUORE OSPEDALIERE DEL SACRO CUORE DI GESÙ, Progetto ospedaliero integrale,

Roma 1994, pp. 46-47.

33 SUORE OSPEDALIERE DEL SACRO CUORE DI GESÙ, Documento del XVII

34 Laici ospedalieri, pp. 43-44.

35 Ibid., p. 77.

36 Documento del XVIII Capitolo generale, 28, p. 53.

37 Cfr. Laici ospedalieri, p. 78.

38 È lo stesso termine utilizzato da Paolo per indicare coloro che condividono

la sua stessa missione (Rm 16,3.9.21; 1Cor 3,9; 16,16; 2Cor 1,24; 6,1;

8,23; Fl 2,25; 4,3; Col 4,11; 1Ts 3,2, Fm 1,1.24).

39 È la teologia che soggiace ai versi di questo inno: «a forza di amore

umano /brucio di amore divino. / La santità è un cammino / che va da me verso

mio fratello […] ho dato tutto di me in salute e dolore/ a tutti, e per questo

/ la morte mi ha trovato / senza nient’altro che l’amore» (Liturgia delle ore,

Comune di uomini santi, Lodi, Inno II). Lapidario è lo Starc Zosima che ne

I Fratelli Karamazov, definisce l’inferno come «il tormento di non avere assolutamente

niente e nessuno da amare».

40 Laici Ospedalieri, p. 44. con molta chiarezza nella parte precedente lo

stesso documento afferma: «La collaborazione è con tutti. Però nel parlare di

laici in senso stretto non ci riferiamo a tutti i collaboratori. Laico è per definizione

una figura ed un termine teologico ed ecclesiale. Non parliamo di

semplici professionisti ma di laici membri del Popolo di Dio, ai quali, attraverso

la fede comune e la comune appartenenza alla Chiesa, noi offriamo

una partecipazione speciale al nostro carisma e alla missione ospedaliera».

41 GIOVANNI PAOLO II, Lettera Apostolica Novo Millennio Ineunte, 6 gennaio

2001, 50.

DA IMPIEGATO DI BANCA A… – San Benedetto Menni o.h. – Anuel Iglesias, s. j.

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 BENEDETTO MENNI

 

L’uomo e il santo

 

Anuel Iglesias, s. j.

Chi è Benedetto Menni?

Nella cittadina di Ciempozuelos, distante trentadue km da Madrid, riposano i resti mortali di un italiano, deceduto nel 1914 nel nord della Francia. Chi era? Un avventuriero in giro per l’Europa? Un esiliato politico? Un commerciante? Una spia internazionale? No, anche se le qualità che aveva e le circostanze in cui visse gli avrebbero consentito di essere tutto questo ed altro ancora!

Lui stesso si definì in questi termini alla fine della sua vita: “Sono un miserabile, degno soltanto di disprezzo; meriterei che mi buttassero nel mondezzaio!” Ma anche i santi sbagliano! Il sepolcro di questo uomo “degno di disprezzo” riceve oggi grande venerazione, avendolo il Papa Giovanni Paolo II dapprima dichiarato beato nel 1985 e poi nel 1999 deciso di proclamarlo santo durante un’apposita cerimonia nella Basilica Vaticana in occasione della festa di Cristo Re.

Nonostante egli si ritenesse un “grande peccatore, uno straccione di Cristo”, ora dunque la Chiesa ci invita ufficialmente ad invocarlo come San Benedetto Menni.

Più in alto non si può salire. Ma, come iniziò tutto ciò?

I primi passi

Seguire i suoi azzardati percorsi lungo i quattro punti cardinali della Spagna non è difficile; anzi è appassionante come un romanzo. Seguire invece le orme del suo itinerario interiore, del suo cammino verso la santità, è molto più impegnativo. Diremmo, quindi, qualcosa, molto brevemente, giusto per ricordare una verità fondamentale che a noi toglie ogni scusa per non diventare santi: i santi non scendono dal cielo come un meteorite; e meno ancora, sono fatti così fin dall’inizio. Per loro non è stato facile. In qualsiasi bivio avrebbero potuto intraprendere altre strade, diverse da quella di seguire Cristo. Ad esempio, nel nostro caso…

Forse non riusciamo ad immaginare la febbre politica della penisola italiana nella seconda metà del secolo scorso, segnata dall’astio contro Papa e clero e scossa da nord a sud dal fervore nazionalista e dalla ribellione. Un giovane come Benedetto, fine, intelligente, milanese intraprendente, aveva tutte le porte aperte per far carriera; forse ora sarebbe stato considerato un eroe del Risorgimento; ai giardinetti i nostalgici garibaldini ne avrebbero contemplato la statua, in groppa ad un impetuoso cavallo e indicando alle truppe, spada in mano, il passo della vittoria.

Quel giovanotto milanese però, impiegato in una Banca senza aver nemmeno finito gli studi superiori, ebbe il coraggio di perdere il posto di lavoro (aveva 16 anni, e cominciava a vivere!) piuttosto che essere coinvolto in faccende poco pulite o nelle quali i conti non tornavano con la sua coscienza. Ed ebbe il coraggio di rifiutare la proposta di iscriversi alla Massoneria, dove avrebbe sviluppato a fin di male le sue qualità di leader. E in quanto alla guerra, bisogna dire che la vide, ma soltanto dal versante della carità: ha 18 anni quando apprende le prime e immediate conseguenze dello scontro con l’Austria: dozzine di corpi straziati di combattenti che arrivano dal fronte di Magenta a Milano in treni speciali. Benedetto diventa barelliere anonimo per trasportare i feriti dalla stazione ferroviaria all’ospedale dei Fatebenefratelli.

Va precisato che gesti come questi non si improvvisano. L’abbiamo chiamato “Benedetto”, il suo nome di “santo”; il suo vero nome però fu Angelo Ercole, e le sue radici affondano nella famiglia dove nacque l’11 marzo 1841. Una famiglia che, grazie alle entrate di un modesto negozio gestito dal padre, aveva il necessario per sfuggire alla miseria pur senza scialare; una famiglia di quindici figli (Angelo Ercole era il quinto); famiglia di cristiani all’antica, nella quale si recitava il Rosario ogni sera, si vibrava per qualsiasi evento religioso, si aiutava i poveri e si frequentava i sacramenti.

Accanto all’humus familiare, che segna la vita di qualsiasi uomo, l’evento personale della vocazione, della quale conosciamo appena questi tre fatti: gli esercizi spirituali a 17 anni, poco dopo aver lasciato la Banca dove lavorava; i consigli di un eremita di Milano, e la sua preghiera quotidiana davanti ad un quadro della Vergine.

La conclusione: la decisione di donare la sua vita a Dio nell’esercizio della carità.

L’aver conosciuto i Fatebenefratelli durante il servizio volontario di barelliere fu determinante per chiedere l’ingresso nel Noviziato annesso al loro ospedale milanese di Santa Maria d’Araceli. Vi entrò il 1° maggio 1860; il 13 maggio ricevette l’abito ed il nome da frate di: Benedetto, Fra Benedetto Menni, un “uomo nuovo” che oggi la Chiesa glorifica. Dopo un anno di noviziato fece i voti semplici, e tre anni più tardi, la professione solenne.

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Abbiamo già il santo?

No. Questo giovane frate ospedaliero può ancora diventare di tutto, compreso un “buon religioso”, ma non santo. Un santo non si improvvisa.

Tre anni di studio e di pratica infermieristica a Lodi. Fu lì che iniziò anche la sua preparazione all’ordinazione sacerdotale, che ricevette poi a Roma, nell’autunno del 1866, quando si annusava già l’esplosione finale della guerra dello Stato italiano contro il Papa per togliergli Roma.

Dopo cinque anni, il novizio è già diventato sacerdote. Una formazione professionale di certo affrettata se si tratta di formare un luminare della ricerca teologica o della investigazione filosofica, ma non nel caso di un uomo di azione, come era Fra Benedetto, fatto per medicare ferite concrete di corpi e di anime ugualmente concrete. Dove?

Il Generale dei Fatebenefratelli, P. Giovanni Maria Alfieri, che trattenne accanto a sé il P. Benedetto durante un anno, si rese subito conto che aveva a portata di mano la persona che gli occorreva per un’impresa quanto mai impegnativa: restaurare in Spagna l’Ordine dei Fatebenefratelli.

Il giovane frate si spaventa: ha soltanto 26 anni, è troppo integro e retto per un compito che richiederebbe una grande esperienza diplomatica; è coraggioso, ma non temerario. Il Papa Pio IX lo riceve in udienza:

- “Va in Spagna, figlio mio, e restaura l’Ordine nella sua stessa culla”. Era il 14 gennaio 1867.

Due giorni dopo, parte per una avventura, umanamente parlando, assurda, sostenuto dall’obbedienza, dalla benedizione del Vicario di Cristo e dalla preghiera alla Vergine.

In Spagna l’aria che si respirava era totalmente contraria. Da quando era finita la guerra di Indipendenza mai più era tornata la tranquillità nel paese. L’anticlericalismo e il liberalismo di importazione stavano inaridendo la Vita Religiosa. Il governo di Mendizábal, con i due tremendi Regi Decreti del 1835 e 1836, riuscì dapprima a limitare le attività degli Istituti Religiosi, e poi a sopprimerli. Il ramo spagnolo dei Fatebenefratelli, che contava allora tre provincie nella Spagna, una in Portogallo, tre nell’America Latina e una viceprovincia nelle Filippine, oltre ad alcuni ospedali nell’Africa e nell’India, finì per estinguersi.

Occorreva ripartire da capo, non solo in un clima di aperta ostilità verso tutto ciò che sapeva di religioso, ma per di più in mezzo a guerre e rivoluzioni.

Dopo una breve sosta in Francia a Lione e Marsiglia, il P. Menni si lanciò alla conquista della penisola iberica come un don Chisciotte in versione divina, “un divino imprudente”. Mentre il paese rabbrividiva per le scosse politico-sociali che avrebbero portato alla caduta della Monarchia nel 1873, il P. Menni, forte solo della benedizione del Papa, entrava in aprile a Barcellona e si presentava al Vescovo diocesano che, evidentemente, lo considerò un ingenuo, se non addirittura una persona pericolosa, e non gli diede credito.

Tutte le cose hanno un inizio

Quel divino imprudente però impugnò l’argomento delle “opere”. Elemosinando di porta in porta, ottenne quanto fu indispensabile per iniziare un piccolo ospedale per bambini handicappati e scrofolosi. Quell’ospedale, che aveva soltanto una dozzina di letti, fu, niente meno, il primo ospedale pediatrico della Spagna, e fu benedetto personalmente dal Vescovo che lo aveva respinto qualche mese prima, credendolo un sognatore. Siamo nel dicembre del 1867.

E visto che i bambini sono sempre all’avanguardia nel Regno di Dio, il piccolo ospedale di Barcellona fu il trampolino di lancio per la conquista ospedaliera nella penisola. Figurava come “centro assistenziale civile di carattere filantropico” e, senza dubbio, comportò per il P. Menni difficoltà indicibili; tuttavia, il 31 maggio 1868, il Generale dell’Ordine approvò la fondazione come la prima cellula dell’Ordine restaurato in Spagna.

Nel 1872 il P. Menni è nominato Commissario Generale dell’Ordine per la Spagna. Quattro mesi più tardi, l’avvento della Repubblica ravviva il fuoco rivoluzionario. Travestito da contadino catalano e accompagnato dal confratello spagnolo Fra Girolamo Tataret, un giorno il P. Benedetto alla guida di una vecchio carretto squinternato, si dirigeva verso la periferia di Barcellona per fuggire dalla cerchia irresistibile delle milizie; il carro però si ribaltò in una curva, vicino a un posto di blocco, e i due “contadini” vennero arrestati. Espulso dalla Spagna il 1° aprile 1873, già all’inizio di giugno vi tornò in visita clandestina, portando con sé le elemosine raccolte in Francia per sussidiare l’ospedaletto di Barcellona.

Altre due volte fece quel medesimo viaggio, e la seconda, quasi in modo rocambolesco, entrò da Gibilterra, dopo uno scalo in Africa: da Marsiglia s’era infatti dapprima diretto in Marocco con l’intenzione di fondare un ospedale a Tangeri, dove arrivò realmente, ma a nuoto, gettato dalla nave in mare da un estremista spagnolo. E da Gibilterra al cuore della guerra civile spagnola, in qualità di volontario della Croce Rossa. Il Re Don Carlos l’accettò come infermiere, assieme ad altri cinque confratelli dell’Ordine. Fino alla cessazione delle ostilità (il 6 aprile 1876) il P. Benedetto curò corpi e anime dei due opposti schieramenti, sfidando il fuoco incrociato sui fronti di Portugalete, Abárzuza, Lácar, Lumbier e Pamplona, o nella pace sofferta degli ospedali di guerra organizzati a Santurce, Irache, Comillas, Gomilar, Ochandiano e Santa Agueda.

Le litografie del tempo, ingenue nel loro drammatismo, non mettono in evidenza quel buon samaritano all’azione in mezzo al fumo delle scariche, tra i berretti rossi dei carlisti o i chepì dei liberali, in mezzo alla sanguinosa lotta corpo a corpo con le baionette lunghe come spade, tra i campi punteggiati di cadaveri umani e di cavalli sventrati. E tuttavia era lì, come infermiere e come sacerdote. E quel battesimo di carità, in sintonia con la più genuina tradizione dei Fatebenefratelli, fu provvidenziale perché il gruppetto di seguaci del P. Menni, giunto poi a Madrid al termine delle ostilità, ottenesse il riconoscimento legale come “Associazione Infermieristica dei Fratelli della Carità”, e il permesso di fondare in seguito ricoveri e ospedali.

 

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La centrale della carità

Ciempozuelos fu il vero focolare della restaurazione dell’Ordine in Spagna. Lì si trasferirono i novizi di Barcellona; e lì, tra il susseguirsi di nuovi padiglioni, sorse un manicomio per uomini, che andò affermandosi come una struttura psichiatrica di avanguardia.

Nel giro di poco tempo, così come a volte la primavera esplode all’improvviso e tutto fiorisce da un giorno all’altro, si moltiplicarono le domande e le possibilità di fondare in tantissime parti. E alcune di queste possibilità diventarono anche realtà. In seguito al moltiplicarsi delle fondazioni, il P. Menni fu nominato Provinciale della nuova Provincia della Spagna (1884), con affidati a lui 70 religiosi professi e 25 novizi; tutto ciò significava che, oltre ai problemi amministrativi, si aggiungevano ora l’impegno per la formazione umana e spirituale dei suoi confratelli, l’animazione del fervore religioso, e il tenere vive e unite le diverse comunità. E anche se si manifestò qualche dissenso, poiché sempre qualcuno la pensa differentemente, nel complesso il suo servizio come Provinciale fu giudicato positivamente, considerando che venne riconfermato per ben 6 volte durante diversi Capitoli, restando in carica per 19 anni consecutivi. Nel 1903, quando cessò il suo incarico da Provinciale, l’Ordine contava in Spagna, Portogallo e Messico complessivamente quindici case fondate da lui, con la seguente tipologia: quattro ospedali ortopedici per bambini rachitici e scrofolosi; sei ospedali psichiatrici per uomini; una colonia agricola per l’ergoterapia dei malati mentali dell’ospedale di Ciempozuelos; un ospedale per epilettici; un gerontocomio; una residenza funzionante come casa di riposo per sacerdoti e come scuola per bambini poveri; e un collegio per orfani poveri.

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I santi fanno pazzie

Tutto questo era ancora poco. Visto che Dio ama “complicare” la vita ” dei suoi amici, gli addossò un nuovo lavoro, di certo non contemplato minimamente quando a 19 anni aveva bussato alle porte del Noviziato per donare la sua vita a servizio degli infermi: fondare una congregazione religiosa femminile.

Qualche anno dopo, lui stesso qualificò quel gesto come “pazza decisione”. Ma ora che a distanza di oltre un secolo quella pianticella si è trasformata in albero frondoso, una cosa appare certa: la “pazzia” di quella sua fondazione ci appare della stessa stoffa della divina pazzia di cui ci parla tanto “saggiamente” San Paolo nell’Epistola ai Corinti.

Ma facciamo qualche passo indietro nel tempo.

Fin dall’inizio della sua missione di restauratore, il P. Menni si rese conto che il Signore, che l’aveva chiamato a prendersi cura degli emarginati fisici e psichici della Spagna, aveva bisogno di mani femminili e di cuori di madri per attendere le malate mentali e le bambine handicappate che la normativa dell’epoca non consentiva fossero accolte negli ospedali dei Fatebenefratelli. Considerando che la prospettiva di fondare lui stesso una specie di Ramo femminile del proprio Ordine cui affidare tali malate fosse una “pazza decisione”, cercò di temporeggiare; chiedendo ispirazione alla Madonna e nel frattempo, come gli consigliava il suo Superiore Generale, provando a rivolgersi agli Istituti femminili già esistenti, ma dovette constatare che non se ne trovavano di disposti a risolvergli il problema.

Nel frattempo, al sud, proprio nella città di Granada dove San Giovanni di Dio aveva fondato l’Ordine dei Fatebenefratelli, due donne, Maria Giuseppina Recio e Maria Angustia Gimenez, sentirono la chiamata della grazia a donare la loro vita per un “progetto” ancora non ben definito. Si affidarono ad un direttore spirituale, ma quando questi s’ammalò, la Provvidenza guidò sui loro passi come loro nuovo direttore spirituale proprio P. Menni, che però inizialmente provò riluttanza ad assecondare la loro aspirazione e ad avvalersene per dare infine vita ad un nuovo Istituto Religioso femminile specializzato nell’assistenza psichiatrica.

Alla fine, durante l’estate del 1880, da Ciempozuelos arrivò a Granada l’invito del Padre: “Se volete, potete venire…” Le due donne decisero di lasciare la città alla chetichella e, dopo una sorta di fuga notturna da Granada, giunsero a Ciempozuelos, stabilendosi in una casa poverissima e inospitale, tenuta per di più da una proprietaria intrattabile, e sul momento occupando le giornate giusto a lavar montoni di biancheria dell’ospedale, tra i pettegolezzi della gente sull’onore del P. Menni. Come inizio, niente male! e rischiò di essere anche la fine! Comunque fu un buon inizio, segnato dalla croce e in una povertà da Betlemme. In una circolare a tutto l’Istituto, il 22 giugno 1903, il P. Menni spiegava il segreto dell’esito: quella “pazza decisione” fu alla fine indovinata perché “scaturiva dal Cuore di Gesù, in virtù del suo divino Spirito”.

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Presto la nascente Congregazione cominciò a ricevere vocazioni: tre, quattro, sette, dieci… Presto poterono sistemarsi in un altra casetta del paese. Presto le giovani ebbero come libro di riferimento il crocifisso e come Superiora la Madonna (“Questa è la vostra Superiora – disse loro il Padre – sotto la sua protezione pongo tutte le mie figlie”), invocata come “Nostra Signora del Sacro Cuore”, titolo mariano col quale cominciarono a chiamarsi, e che diede più tardi luogo all’attuale denominazione di “Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù”. Presto ebbero i loro primi “fioretti”, come quella indimenticabile scena dell’accoglienza della prima malata: le si fecero attorno con grande affetto e, una dietro l’altra, si avvicinarono a lei per baciarle i piedi, così come avrebbero fatto con il Signore, al quale avevano consacrato la loro vita. Presto ebbero un motto che sintetizzava in sei verbi all’infinito altrettante esigenze ascetiche: “pregare, lavorare, patire, soffrire, amare Dio e tacere”. E presto ebbero la loro prima martire della carità: una delle due coraggiose pioniere venute da Granada, Maria Giuseppina Recio, messa alla guida dell‘Istituto appena nato, moriva il 30 ottobre 1883 dopo essere stata calpestata e malmenata da una demente; oggi la sua salma e quella della Confondatrice Maria Angustia Gimenez riposano in una cappella laterale della medesima Chiesa di Ciempozuelos nella quale le Suore custodiscono sotto l’altare centrale il venerato corpo di San Benedetto Menni.

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La nuova Congregazione, avendo ottenuto l’approvazione diocesana, ebbe il suo inizio canonico con l’ammissione in noviziato delle prime suore il 31 maggio 1881. L’anno seguente (1882) il P. Menni scriveva le prime Costituzioni; nel cui prologo precisava che l’incipiente istituzione mirava all’assistenza caritativa delle malattie mentali; o, come spiegava poco dopo, “all’esercizio costante della virtù della carità cristiana attraverso il soccorso, la cura e l’assistenza continua delle donne alienate, accettando questo sacrificio come necessità particolare che esiste oggi nell’umanità sofferente”. A distanza di più di un secolo, quell’oggi è valido ancora!

 

Undici anni dopo era già una Congregazione di Diritto Pontificio. Quando il P. Menni cessò di essere Provinciale dell’Ordine (1903), le Suore avevano nove case: sei per malate mentali e tre per bambine rachitiche e scrofolose povere, aperte rispettivamente a Ciempozuelos, Málaga, Madrid, Las Corts, Palencia, Parigi, Idanha, (Portogallo), San Baudilio di Llobregat, Santa Agueda; e nuove case sorsero negli anni seguenti: Pamplona (1909), Roma (1905), Viterbo (1909), Nettuno (1910), ecc. fino alle oltre cento case sparse in 24 nazioni nelle quali attualmente lavora “questa famiglia religiosa, nata dal divin Cuore”, secondo la testuale affermazione del loro Fondatore.

I santi non vanno in pensione

Riprendiamo il filo della biografia nella data chiave del 1903. Il P. Benedetto Menni finisce il suo lungo servizio come Provinciale. Ha 62 anni. Ha avviato un’opera molto estesa, e ormai potrebbe anche pensare al meritato e sereno riposo, dedicando maggiore attenzione alla sua Congregazione delle Suore Ospedaliere, ma come “uomo” ancora è in grado di lavorare; e come “santo” la Chiesa ha bisogno di lui quale strumento di rinnovamento in quegli anni tormentati.

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Nel 1905 lo incontriamo a Roma, in un Capitolo Generale dell’Ordine. Ritornato in Spagna, la Santa Sede lo richiama a Roma per nominarlo Visitatore Apostolico dei Fatebenefratelli (1909): viaggi, lettere e visite personali alle diverse Province, nella delicata missione di ravvivare lo spirito e l’osservanza religiosa. Finito questo compito, il Papa San Pio X lo nomina Generale dell’Ordine (1911).

In questa mobilità e attività snervante, che caratterizzano la sua vita, dove finisce “l’uomo” e dove comincia il “santo”? Organizzare, viaggiare, cercare prestiti, dirigere costruzioni, amministrare… lo può fare qualsiasi impresario, e poteva averlo fatto quel giovane milanese, tipicamente intraprendente, chiamato Angelo Ercole Menni, se avesse deciso di lanciarsi sulla strada della rivoluzione o della politica.

Ma l’uomo di Dio, il “santo”, viveva tutte queste attività con novità interiore, faceva tutto con un cuore diverso, un cuore ogni giorno più immedesimato con i sentimenti di Cristo Gesù, che finivano col trasparire nel suo comportamento, nel quale possiamo schematicamente evidenziare cinque attitudini fondamentali:

  • Fiducia totale e profonda nel Cuore di Gesù “colmo di misericordia e di amore”, un tema, questo, che lo emozionava quando ne parlava. Acceso di devozione al Sacro Cuore, dispose che tutti i primi Venerdì si celebrasse una Messa cantata e si esponesse il Santissimo. Difficilmente egli avrebbe potuto divenire “un altro Cristo” se non avesse bevuto alla fonte di quel Cuore redentore, perennemente misericordioso con gli infermi e le folle abbandonate.

  • Ricorso quasi istintivo alla Vergine Maria; egli, dai tempi del Rosario recitato da ragazzo in famiglia e fino all’ora della sua morte, trovò sempre in Maria la strada per andare a Gesù. Ed identico cammino suggeriva alle sue figlie. “La Vergine – scriveva loro – porta tra le braccia Gesù che ci lascia vedere il suo divino cuore e con le sue braccia aperte ci invita ad andare verso di Lui”. Ed aggiungeva loro: “Lei ci consentirà d’entrare e rimanere nel Cuore di Gesù”.

  • Pietà semplice, immediata, per nulla cerebrale. Sempre in movimento per impegni o viaggi, egli immancabilmente all’uscire o rientrare si soffermava in cappella, convinto che la cosa migliore era porre ogni assunto nelle mani di Dio. La sua giaculatoria più ricorrente era: “Gesù mio, di me diffido, al Cuore tuo m’affido e mi ci rifugio”. Il nome di Gesù era costante sulle sue labbra. Questa pietà lo portava a compiere ogni cosa pensando a Lui: “L’unico cammino da seguire – usava ripetere – è fare la volontà di Dio”. E questo uniformarsi al volere divino non si stancava di raccomandarlo nelle sue lettere: “Chiediamo a Gesù che ci infiammi del suo amore. Chiediamo alla Regina di questo amore, la Vergine Immacolata, che accenda in noi questo fuoco divino… Oh Gesù, non intendiamo offrirti resistenza”.

  • Carità senza limiti e molto concreta, seguendo il consiglio stesso di Gesù: “Se io ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri”. Carità che gli faceva vedere negli infermi l’immagine di Cristo, e che spiega perché qualche volta lo videro imboccarli in ginocchio. Carità che lo faceva intenerire alla vista di un mendicante; carità che lo portò una volta a consegnare ad un uomo che gli raccontava le sue miserie le uniche cinque pesetas che aveva per affrontare un debito di cinquecento, ed a giustificarsene dicendo “questa moneta per noi è niente, ma a lui lo toglierà da grandi difficoltà”; carità che mise a grande rischio la sua vita nel 1885 quando volle recarsi ad assistere i contagiati dal colera. Una carità, sorgente di così alta libertà interiore nel cercare il bene dei malati, che una volta giunse ad offrire la direzione sanitaria dell’ospedale di Ciempozuelos ad un celebre psichiatra, il Dott. Simarro, nonostante fosse ateo e membro della Massoneria spagnola (“non ho bisogno di catechisti, diceva, ho già i religiosi; necessito piuttosto di un grande medico”); il Dott. Simarro, commosso da quel gesto, raccomandò, al suo posto, un suo discepolo ed eccellente cattolico, il Dott. Michele Gayarre.

  • Umiltà eroica. Ciò che meno ci interessano sono gli aneddoti, come quella sua reazione davanti alle Suore di una comunità che, per festeggiare il suo arrivo, avevano eretto un baldacchino con il suo ritratto: “O togliete quella roba lì, o non entro”. O quell’altra volta che raccontò alle Suore, pieno di gioia:”Passando dalla Piazza della Rocca alcuni cocchieri mi hanno deriso e mi hanno persino insultato. Mi sta bene e me ne rallegro, ne merito ancora di più!”

La cosa più difficile però, quella che gli consentì nel suo cammino verso la santità di bruciare le tappe, fu il fatto che, a partire dalla volta che finì arrestato a Barcellona, fu costretto a presentarsi davanti a tutti i tribunali della terra, come ebbe a dire alcuni anni prima di morire. Due casi soprattutto:

Il famoso “caso Semillan”, davanti al Tribunale Penale di Madrid. Si prolungò per sette anni (1895-1902) con morbosità scandalosa, fomentata dai giornali anticlericali, nel quale si accusava il P. Menni di ripugnanti violenze verso una povera demente. Furono sette anni durante i quali quel “prete abominevole”, presentato grossolanamente dai giornali, non volle mai un avvocato difensore (l’accettò soltanto su richiesta del Vescovo di Madrid, che ritenne che quella interminabile campagna scandalistica avesse come bersaglio la Chiesa e volle fosse presentata querela, risultandone nel gennaio 1902 la piena condanna dei calunniatori da parte del Tribunale di Madrid) né volle ricorrere alla stampa per replicare ai suoi avversari, né mai giunse a biasimarli; al contrario, arrivò a gesti estremi, come quello di baciare i giornali che lo diffamavano (“questo mi fa bene, diceva, è oro puro per me”), o a gongolare di gioia nel ricevere un giorno una lettera ingiuriosa, dicendo: “questo non accade tutti i giorni”… e immediatamente si mise a cantare, facendo il gesto di suonare il violino…

Più amara ancora fu la campagna di calunnie, da lui stesso definite innumerevoli, davanti al tribunale vaticano del Sant’Uffizio. Questa fu per lui la sofferenza più penosa, trascinatasi per circa tre anni, fin quando nell’aprile 1896 venne comunicata ufficialmente la sentenza che non si doveva tenere “conto alcuno” delle accuse.

Fu pure vittima di altre accuse davanti alla Congregazione dei Vescovi e Regolari, davanti al suo Superiore Generale. Fu ogni volta riconosciuto innocente, ma neppure i santi sono d’acciaio e intimamente ne soffrì, specie perché le accuse vennero mosse da alcuni suoi confratelli e, in qualche occasione, dalle sue stesse figlie. Cosa era successo?

Soltanto questo: che la carità del P. Menni non era debolezza e tanto meno condiscendenza bonacciona con il male. Durante i suoi lunghi anni di governo come Provinciale, Visitatore e Generale, in circostanze delicate per la Chiesa d’Europa, represse con serena fermezza alcuni abusi; nel manicomio di San Baudilio di Llobregat espulse alcuni medici in seguito ad alcuni casi seri di immoralità; e tagliò corto con alcune deviazioni nella disciplina religiosa di alcune comunità. Tutto ciò gli procurò, all’interno dell’Ordine, un piccolo gruppo di avversari, influenti ed intriganti, che usarono contro di lui tutti i mezzi possibili, compresa la calunnia. Accusato e accerchiato, ancora una volta non volle difendersi, ma preferì presentare le dimissioni da Superiore Generale, dopo esserlo stato per poco più di un anno: era il 20 giugno 1912.

 

Il cammino Regale della Santa Croce

Gli rimanevano ancora due anni di vita. Cosa avrebbe fatto nel frattempo? Si sarebbe detto di lui, come si dice di alcuni personaggi biblici: “riposò nella sua buona vecchiaia”? Poteva ritirarsi a riposare in qualcuna delle tante case da lui fondate, lasciarsi curare dalle Suore con affetto filiale, forse scrivere le sue memorie, come fanno i grandi personaggi della storia. Ma lui, il “grande” uomo Benedetto Menni, era già più piccolo che il grande “santo”, scolpito dalla grazia.

E tuttavia il “santo” non era ancora compiuto del tutto. A Dio restavano ancora due anni per completare in quell’anziano l’immagine del figlio suo Gesù, che morì rifiutato, abbandonato e perdonando.

In effetti, furono presi contro di lui alcuni provvedimenti che oggi ci sembrano spietati. All’inizio gli consentirono di visitare le case delle Suore, pur con qualche limitazione. Nell’agosto 1912 lo obbligarono ad eleggere dimora stabile in una casa dell’Ordine, che non fosse né a Roma né in Spagna. Lasciò dunque l’alloggio nell’ospedale che le sue Suore avevano a Viterbo e si trasferì in settembre nella Comunità dei suoi Confratelli a Parigi. Nel novembre 1912 gli fu proibito qualsiasi tipo di intervento, diretto o indiretto, nelle questioni della Congregazione delle Suore Ospedaliere; gli fu tolto il fedele aiutante e segretario, Fra Alfonso Galtés; gli fu vietato di vivere nelle città dove le Ospedaliere avevano case: e siccome a Parigi l’avevano, dovette allontanarsi da Parigi!

L’umiliazione crebbe ancora di più quando dal Vaticano la Congregazione dei Religiosi ordinò una visita di verifica alle diverse comunità della Suore Ospedaliere, che pur concludendosi onorevolmente, si protrasse fino a due mesi prima della morte del Fondatore.

Vale la pena contemplare il suo volto in una fotografia del tempo. E’ e non è lo stesso di qualche anno prima: ha ancora lo stesso viso squadrato da milanese spiccio e intraprendente; ma al tempo stesso si è invecchiato e sono apparse le rughe, le sue fattezze però hanno acquisito una particolare nobiltà; i suoi occhi scrutatori, ben lontani dall’apparire melanconicamente rassegnati o addirittura scoraggiati, sembrano invece quelli di un vecchio marinaio che scruta il porto tra la nebbia all’orizzonte. E’ un anziano. Mentre “l’uomo esteriore” si va disfacendo, il santo, “l’uomo interiore”, si rinnova ogni giorno” (2 Cor 4,16); la dimora terrena di questo indomito costruttore di case per gli altri, è prossima a disfarsi, ma per lui è già pronta una casa solida, non costruita da mani umane, ma eterna, nei Cieli (2 Cor 5,1). Spogliato di tutto, aspettava serenamente, senza condannare nessuno, di approdare nella Patria celeste, a godervi il Signore.

Era ancora a Parigi quando soffrì un attacco di paresi; non ricuperato perfettamente, il 19 aprile 1913 si traferì a Dinan, una casa dell’Ordine nel nord della Francia dove le Suore non avevano Comunità. Due di loro, capitate a chiedere elemosina nella zona, chiesero di vederlo: il Padre seppe dir loro, con lacrime agli occhi, soltanto questo:

- Siete ancora vive, figlie mie?

La sua salute andava peggiorando vistosamente, nonostante le affettuose premure dei Confratelli. Un secondo attacco di paresi lo ridusse alla immobilità quasi assoluta. Fu allora che quel grande imprenditore, amministratore, organizzatore, costruttore, fondatore, governante, compì l’opera maggiormente meritevole della sua vita: la sua propria morte, “volontariamente accettata” – come Cristo fece con la sua – per la redenzione di tutti gli uomini. La mattina del 24 aprile 1914, preparato per il grande viaggio con i sacramenti della Chiesa e una benedizione speciale del Papa Pio X, morì “l’uomo” Benedetto Menni per iniziare una vita che non ha fine.

Cristo glorioso, che soffre in tanti esseri umani ammalati e deformi, accolse il suo piccolo buon samaritano, Fra Benedetto, con le beatifiche parole: “Quello che hai fatto ai più piccoli dei miei fratelli, l’hai fatto a me. Entra nel gaudio del tuo Signore”.

Due anni prima, quando aveva rinunciato al suo compito di Generale, nell’udienza di commiato dal Papa Pio X, gli aveva detto:

“Santità, sono stato convocato da tutti i tribunali della terra. Mi auguro che, così come sono uscito felicemente da tutti i tribunali di quaggiù, possa ugualmente essere assolto un giorno dal tribunale di Dio e trovi la sua misericordia”.

Il Papa gli aveva replicato con amabilità:

- La troverà, la troverà

Sì; adesso sappiamo dalla Chiesa che l’ha trovata, e nel grado più alto. Impegnando la sua infallibilità, la Chiesa ci assicura che “l’uomo” Benedetto Menni ha raggiunto la vetta della carità perfetta: è “santo”. E’ un giudizio formulato da quel tribunale di Dio sulla terra che è la Chiesa gerarchica.

Il Cielo ha una porta, e questa porta ha delle chiavi che Cristo affidò a Pietro e ai suoi successori: loro conoscono i criteri per poter emettere questo giudizio. Avviato il processo di beatificazione nel 1964, dichiarata l’eroicità delle sue virtù l’11 maggio 1982, riconosciuta come miracolosa, per intercessione del P. Menni, la guarigione della signora Assunta Cacho, il Papa Giovanni Paolo II lo dichiarò beato nel 1985. Un nuovo miracolo, la guarigione immediata e durevole, non attribuibile a farmaci né ad altre cure, di una religiosa Ospedaliera (Suor Maria Nicoletta Vélaz) affetta da un cancro invasivo della vescica, chiude il cammino che la Chiesa ha percorso per dichiarare la santità di questo eroico discepolo di San Giovanni di Dio, anche lui incompreso e combattuto durante la sua vita: Benedetto Menni è santo.

Se nelle ultime lettere indirizzate alle sue religiose, nelle quali si firmava come “povero di Gesù”, egli si confessava depresso e molto bisognoso di preghiere (“perché non mi schernisca il demonio della tristezza, anzi affinché il Signore, per intercessione della Vergine Immacolata, mi dia una santa gioia e fiducia in Gesù, Giuseppe e Maria”), ora invece siamo noi che invochiamo i suoi favori per “strappare” al Cuore di Gesù e alla Vergine Immacolata la grazia di vivere con coerenza, giorno dopo giorno, la nostra consacrazione battesimale e religiosa.

La canonizzazione di P. Benedetto Menni sanziona non solamente la sua santità, ma anche l’attualità del messaggio proposto e vissuto da colui che fu il Restauratore dell’Ordine dei Fatebenefratelli nella penisola iberica e nell’America Latina, nonché il Fondatore delle Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù. Messaggio mirabilmente sintetizzato nella preghiera liturgica figurante nel proprio della Messa di San Benedetto Menni: essere araldi del Vangelo della Misericordia mediante il servizio ai fratelli infermi e bisognosi.

LASCIATEVI GUIDARE DALLO SPIRITO – Fra Pasqual Piles o.h.

 

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FRA PASQUAL PILES FERRANDO o.h.  

Priore Generale Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio  

Lettera Circolare ai Confratelli dell’Ordine 

Roma, 24 ottobre 1996

 

LASCIATEVI 

GUIDARE  

DALLO SPIRITO ( GAL. 5, 16 )

 

1. INTRODUZIONE

 

1.1 MOTIVAZIONI

 

 

Miei Carissimi Fratelli:

 

Sono ormai trascorsi due anni dalla celebrazione del nostro ultimo Capitolo Generale. Parecchie volte ho indirizzato all’Ordine, da allora, dei messaggi. L’ho fatto con la parola e con gli scritti. L’ho fatto con l’intento di rendermi presente in molte delle vostre realtà. Ho visitato 34 paesi. Sono stato, in modo più o meno incisivo e questo dipendeva dalle possibilità che avevo, in circa 148 Centri. Vi sono stato da solo o accompagnato da qualche Consigliere Generale.

 

Considerandomi uno strumento del Signore ho cercato, con il mio passaggio, di rendere visibile San Giovanni di Dio. Ho avuto tante opportunità per questo: Capitoli Provinciali, Visite Canoniche, momenti di riflessione, ricorrenze dei Centri o avvenimenti personali di qualche Confratello.

 

La celebrazione del V Centenario della nascita di San Giovanni di Dio poi, mi ha dato modo di partecipare a molte manifestazioni, sia alle tre organizzate a livello di Ordine che a quelle promosse dalle varie Province o dai vari Centri. Esse sono state per tutti motivo di grande arricchimento. Volevamo che questa celebrazione fosse per noi come un Anno Giubilare, un anno di crescita nella spiritualità sia per i Confratelli che per i Collaboratori. Dire che sia stato così è affermare qualcosa di troppo, ho potuto però constatare, attraverso esperienze che mi sono state comunicate da Confratelli, collaboratori ed ammalati che in molti casi vi è stata veramente questa crescita spirituale.

 

Inoltre, come conclusione, prima di iniziare l’estate, abbiamo avuto la gioia della canonizzazione del nostro Beato Giovanni Grande, la quale ci ha aiutato a conoscerlo maggiormente e a valutare l’attualità della sua testimonianza in una società che necessita, ogni volta di più, della solidarietà nei confronti dei bisogni degli altri.

 

1.2 PER I MIEI CONFRATELLI

 

Desidero con questa lettera dirigermi a voi Confratelli. Voglio farvi un’esortazione sull’ideale di vita che siamo chiamati a conseguire. Infatti siamo stati convocati da diverse parti del mondo per vivere insieme la vocazione dei Fratelli di San Giovanni di Dio.

 

Vorrei anche trattenermi con voi su molte delle questioni da me prese in considerazione durante questi due anni e che considero ottima cosa il comparteciparle perché ci aiutino a vivere la nostra vita religiosa. Non dimentico gli ammalati, i bisognosi e nemmeno i Collaboratori e amici dell’Ordine. Infatti, a loro farò allusione in parecchi punti di questa lettera. Perciò, voglio ora rivolgermi a voi cari Confratelli, pensare con voi e condividere con voi la gioia della nostra vocazione.

 

1.3 IL TONO CON IL QUALE VI SCRIVO

 

Vi scrivo in modo positivo. Sapendo che la nostra realtà è limitata e che tale limitazione appare tante volte anche nei nostri comportamenti, vi presento il buono e il bello dell’ideale che siamo chiamati a vivere.

 

Mi ispiro, nell’assumere questo tono, alla stessa Esortazione Apostolica post-sinodale che ci ha indirizzato il Santo Padre “Vita Consacrata”, valutandone i problemi, ma in senso positivo e pieno di speranza.

 

In alcuni punti parla della bellezza della vita religiosa. Sappiamo che, da parte nostra, dobbiamo metterci tutto l’impegno, ma che il vero protagonista della storia della salvezza e, pertanto, della storia della ospitalità, è Dio. Nei miei incontri con voi ho constatato delle difficoltà, ma ho incontrato anche molta vitalità.

 

Giovanni Paolo II ha presentato la vita religiosa come la forma di vita che assunsero Gesù e la Vergine Maria sulla terra. Desidero offrirvi una considerazione sulla nostra vita religiosa, la quale serva come lettura e meditazione, e che ci aiuti a riflettere sul nostro modo di essere religiosi e a confrontarlo con le direttive del Magistero alle quali, in molti punti, farò riferimento.

 

Abbiamo scelto di assumere la forma di vita di Giovanni di Dio così come ci è stata trasmessa da tanti nostri Confratelli: i primi compagni, Pedro Soriano, Giovanni Grande, Gabriele Ferrara, Francesco Camacho, Paolo De Magallon, Benedetto Menni, Riccardo Pampuri, Eustachio Kugler, ecc. Siamo chiamati a fare lo stesso. Essi hanno potuto essere fedeli, essere santi, non vedo perché non possiamo esserlo anche noi.

 

1.4 INVITO A RENDERE IL NOSTRO IDEALE UNA REALTA’

 

Da ciò il forte richiamo, che ho indirizzato a me e a voi, alla chiusura del V Centenario della nascita del nostro Fondatore: “Signore, come hai ispirato Giovanni di Dio, ispira anche noi, trasformaci, affinché possiamo essere oggi degli altri Giovanni di Dio, i quali vivano in contatto continuo con Te e sappiano darsi agli altri”.

 

Signore, fa che crediamo nella grandezza della nostra vita, che godiamo della grandezza della nostra vita. Non abbiamo bisogno che altri lo dicano e che ci esortino a questo. Ne siamo consapevoli. Ciò di cui abbiamo bisogno è di vivere, di sperimentare questa grandezza. Ispiraci, affinché tutto ciò che facciamo sia motivato dal sentimento, dalla speranza e dal desiderio di costruire un mondo migliore. Fa che non rimaniamo intrappolati e ingannati dalla realtà concreta di ogni giorno, quella che ci condiziona e ci impedisce di vivere. Fa che siamo coscienti di essere stati trasfigurati con Te e che, attualmente, siamo nel mondo tue icone, icone di Giovanni di Dio.

 

2. LA NOSTRA IDENTITA’

 

 

Probabilmente mai come oggi l’uomo si è interrogato tanto sulla sua identità. Chi siamo, chi sono io, come sono chiamato a vivere.

 

La vita religiosa ha avuto un forte periodo di rinnovamento, desiderato e richiesto dalla Chiesa tramite il Decreto del Concilio Vaticano II, intitolato “Perfectae Caritatis“, per un adeguato rinnovamento della vita religiosa. Abbiamo interrogato noi stessi sul come stiamo vivendo e sul come, invece, dovremmo vivere.

 

Tre furono le coordinate che ci siamo dati e con le quali proseguire nella nostra identità: il Vangelo; le origini o fonti della Istituzione, il Fondatore, la Tradizione; e l’adattamento ai nostri tempi. Abbiamo cercato di seguire queste piste. Non per tutto siamo riusciti a trovare la strada giusta, ma sono convinto che in nessuno vi sia stata, in ciò, della cattiva volontà. Desidero pertanto, partendo da queste tre coordinate, fare una riflessione su alcuni aspetti della nostra identità.

 

2.1 TESTIMONIANZA DI VITA

 

I Vangeli sono le narrazioni del testimone per eccellenza: Gesù di Nazareth. Ed anche dei suoi seguaci. La Chiesa ha avuto molti testimoni. Giovanni di Dio è, prima di tutto, un vero testimone di vita. Lo è anche la vita dei suoi primi compagni e lo è anche la tradizione dell’Ordine, la quale cessa di essere vera tradizione nella misura che non è più testimonianza di vita. “Il nostro mondo ha bisogno di testimoni più che di maestri e se si accettano i maestri è perché sono dei testimoni” (Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, 41 ).

 

E’ evidente che, sia il progetto di Gesù di Nazareth, sia la figura di Giovanni di Dio e le esigenze di questo mondo ci lanciano un richiamo ad essere dei testimoni. Testimoni di vita: evangelica, juandediana, attuale.

 

Data la nostra limitatezza è facile la incoerenza: pretendere delle cose che non sappiamo raggiungere. Giustificarne molte altre le quali, alla fine, sappiamo che sono ingiustificabili, ma dalle quali ci costa staccarci.

 

La nostra testimonianza di vita evangelica esige radicalità. Gesù chiama alla sua sequela con forza, con radicalità, essendo però comprensivo con la nostra natura. Lo fu con le debolezze dei suoi discepoli, con la loro vulnerabilità sebbene lo possiamo definire come l’invulnerabile. Infatti Gesù afferma che il suo giogo è soave e che il suo peso è leggero (cfr. Mt 11,28-30), perché la sua radicalità è aperta alla misericordia e alla riconciliazione.

 

Conosce la nostra natura e non vuole che siamo ciò che non possiamo essere. Ci chiede però che siamo sue icone, che ci trasfiguriamo e che lo manifestiamo con la nostra vita che deve essere eminentemente juandediana (cfr. Cost. 2c; 3a).

 

Ho ricordato alcuni Confratelli nostri i quali, assieme a Giovanni di Dio, sono stati dei trasmettitori del carisma lungo la storia. Sono quasi 32 anni che appartengo all’Ordine e sempre ho vissuto con gioia lo sforzo fatto dal medesimo per scoprire questo nostro passato, vivente sia nei nostri Confratelli che ci hanno preceduto, sia nella Tradizione che in Giovanni di Dio.

 

Ho vissuto tutto ciò, con maggiore consapevolezza, in questi ultimi due anni. Apprezzo tutti gli sforzi che si realizzano per centrare la figura di Giovanni di Dio. Egli si presenta a noi realmente come una figura armonica: Giovanni di Dio e degli uomini. Dovremmo sentirci esaltati della sua personalità.

 

Inoltre sono stimolato dalla testimonianza di tanti Confratelli che incontro durante il mio passaggio nelle comunità ed è davanti a loro che io mi sento piccolo. Nel mio apprezzamento personale valuto quella che è stata la loro vita e non posso fare a meno di dire che fu eminentemente juandediana.

 

Giovanni di Dio, come testimonianza, è per noi un richiamo ad essere dei testimoni di una vita che, come ben sappiamo, vale la pena di essere vissuta.

 

Dobbiamo essere dei testimoni: nel nostro mondo, il quale necessita di testimoni; nella Chiesa la quale ha bisogno di testimoni. Viviamo in società molto diverse, più o meno sviluppate. In tutte però arriva il consumismo, il materialismo, l’edonismo con le loro proposte che ci lusingano. Noi però, tutte queste società, desideriamo arricchirle con la luce del nostro carisma.

 

Siamo chiamati ad essere ospitalità, incarnazione della nuova ospitalità. Cambiando modi e forme nell’attuarla. Di questo però non tutti siamo convinti e ciò ci fa soffrire non poco. La nostra risposta, oggi, alle esigenze di essere dei testimoni, porta con sé anche il saper discernere lo stile per meglio servire la nostra società come lo fece Giovanni di Dio nel suo tempo: “Gesù Cristo mi conceda il tempo e mi dia la grazia di avere io un ospedale, dove possa raccogliere i poveri abbandonati e privi della ragione, e servirli come desidero io” [1].

 

2.2 LA DIMENSIONE PROFETICA DELLA NOSTRA VITA

 

Tutta la vita religiosa viene definita come profetica. Assume le caratteristiche della natura stessa del vero Profeta della Sacra Scrittura.

 

La forza della profezia si basa sulla veridicità di ciò che il profeta dice. Presenta l’oracolo del Signore il contenuto del quale viene manifestato dalle sue parole. Il profeta è una figura di vita autentica, è figura che irradia trascendenza, è figura che agisce come istanza etica, è figura che tiene contatti vitali con le necessità umane, è figura che vive la solidarietà con gli altri con semplicità, con gioia, con speranza.

 

Una delle riflessioni di Fra Brian O’Donnell ci presentò Giovanni di Dio come servo e profeta[2], due realtà queste che si completano e che portano con sé anche la dimensione dell’annichilirsi -Kenosis- e quella del servizio -Diakonia-[3].

 

Pertanto, dalla esigenza profetica della vita religiosa e dall’essere profetico di Giovanni di Dio, la nostra vita è chiamata ad essere profetica.

 

Giovanni di Dio, come profeta, ci ha presentato con la sua vita la Parola di Dio riguardo alla Ospitalità, il nostro modo di essere Ospitalità. Lo ha fatto in un modo autentico e coerente. E’ stato un’immagine che irradiava trascendenza e per questo lo hanno “battezzato” come il “Giovanni di Dio”. Ha avuto un contatto vero e pieno con le necessità umane, solidale sempre con esse, vivendo con semplicità, con gioia, con speranza, spogliandosi di se stesso per dare spazio, in se stesso, agli altri, per servire gli altri, per promuovere la vita degli altri.

 

Come lui, anche noi siamo chiamati ad essere profeti. In un mondo difficile, che però è il nostro mondo, noi dobbiamo essere Parola di Dio, coerenti nel nostro modo di vivere, testimoni dei valori spirituali, di semplicità di vita, di gioia, di speranza.

 

E’ possibile questo oggi? Dalle esperienze fatte e dalla conoscenza che ho delle diverse realtà dell’Ordine io non posso altro che dire sì. Siamo profeti e siamo chiamati ad accrescere il profetismo della nostra vita. Non so se in questo sono un po’ troppo ottimista. Può darsi che vi sia qualcuno il quale ritenga che, così come siamo attualmente, questo nostro profetismo divenga sempre meno evidente.

 

Ho fiducia però nell’azione di Dio, confido nella presenza dello Spirito il quale ci guiderà nelle risposte che, come Istituzione, stiamo dando e siamo chiamati a dare, anche se queste risposte non vanno nella direzione auspicata da alcuni ed anche se, in alcune occasioni, noi possiamo sbagliare.

 

2.3 CON UNA PROPRIA SPIRITUALITA’

 

Giovanni di Dio ci ha lasciato un testamento spirituale: la sua vita fu eminentemente carismatica. Colpì ed attirò tante persone motivandole a collaborare con lui. Alcune vollero vivere come lui, da questi il gruppo dei primi compagni. Giovanni di Dio fu per loro l’icona di Cristo. La sua rettitudine e la sua probità furono ciò che li convinse.

 

I primi dati scritti che raccontano ciò che avvenne in quei momenti, sono del decennio posteriore 1570-1580. Giovanni di Dio, morendo, lasciò una comunità carismatica, con una vita propria la quale venne, man mano, irradiandosi. Diverse persone si aggregarono al gruppo iniziale. Alcune delle quali già stavano svolgendo un servizio di ospitalità e, come Fratelli del benedetto Giovanni di Dio, continuarono nel loro progetto di servizio all’umanità sofferente ed emarginata.

 

Le biografie di San Giovanni di Dio e le diverse Costituzioni dell’Ordine sono state l’espressione della spiritualità del Fondatore e dell’arricchimento che ebbe, lungo la storia, questa nostra spiritualità. Non possiamo dire che siano stati dei trattati specifici. Non erano scritte per quello scopo. E nemmeno possiamo affermare che esse sono state sempre un apporto alla vera esperienza spirituale. In esse però vi è plasmata gran parte della nostra peculiare spiritualità. La verità è che, senza spiritualità, la nostra vita cesserebbe di essere vita.

 

Questo nostro mondo di contrasti, pur vivendo fortemente il fenomeno della secolarizzazione, ha anche un grande desiderio di spiritualità. Questo lo abbiamo affermato anche nel Cap. IV del documento dell’ultimo Capitolo Generale “Nuova Evangelizzazione e Ospitalità alle soglie del terzo millennio”. E questo può essere constatato anche da noi.

 

Da molti anni si parla, soprattutto da parte dei formatori, di poter mettere per iscritto la nostra spiritualità. Abbiamo un testo di Padre Gabriele Russotto del 1958. Attualmente, l’itinerario presentato nella tesi dottorale di Padre José Sanchez, ha arricchito le nostre nozioni fondamentali della spiritualità e ha centrato la figura di Giovanni di Dio.

 

Seguendo il desiderio del LXIII Capitolo Generale si sta lavorando attualmente per giungere a compilare un libro sulla nostra spiritualità. Cioè bisogna redigere un testo che ne sia l’espressione e del quale noi abbiamo constatato la necessità, dato che questa spiritualità già esiste incarnata in noi ed è quella di essere fedeli a Giovanni di Dio.

 

Mio desiderio è che in ognuno di voi continui ad esserci la consapevolezza della necessità di essere uomini spirituali, di esserlo allo stile di San Giovanni di Dio e di fare ogni sforzo per approfondire tutti i presupposti dai quali egli iniziò. Le sue Lettere sono piene di espressioni che scaturiscono dal suo cuore e che sono affermazioni di una sua peculiare spiritualità.

 

Vi è il timore però che centriamo tutto in troppe cose del passato, allontanandoci così dalla nostra realtà attuale. Non dovremmo però correre questo pericolo.

 

Vi esorto a vivere la nostra peculiare spiritualità nel mondo del quale formiamo parte, amato da Dio, creato da Lui: Spiritualità per le nostre strutture sanitarie e sociali, per il mondo della malattia e della emarginazione; spiritualità per condividere la missione con i Collaboratori; spiritualità per l’umanizzazione e l’evangelizzazione; spiritualità che illumini i problemi etici; spiritualità che è continuità dell’essere di Giovanni di Dio oggi; spiritualità per una nuova Ospitalità.

 

2.4 OPZIONE PREFERENZIALE PER L’UOMO CHE SOFFRE

 

Nella nostra Chiesa e nella vita religiosa, attualmente, si parla molto della opzione preferenziale per i poveri. Aderisco pienamente a questo orientamento, anche se sappiamo che il concetto di povertà è relativo e che non sempre la nostra vita è testimonianza di povertà.

 

Giovanni di Dio è sempre stato a fianco del povero, sempre con il povero. Desidero che in ciò m’intendiate bene. Giovanni di Dio ha operato questa opzione integrando, nel concetto di povero, il malato, considerando la malattia una manifestazione della povertà dell’uomo. Anche oggi parliamo di chi soffre come di un povero. Così lo esprime anche l’Esortazione Apostolica “Vita Consacrata” (VC 82). E’ vero che, tra gli infermi, ve ne sono di quelli che dispongono di mezzi per poter curare le loro malattie, tutto questo però, anche con i soldi, non sempre essi lo conseguono. Senza voler eliminare la radicalità della opzione preferenziale per il povero ritengo che anche noi, come San Giovanni di Dio, dobbiamo integrare in questa opzione tutte le persone che soffrono.

 

Valgono perciò le conclusioni dei nostri ultimi Capitoli, sia Generali che Provinciali, nelle quali abbiamo optato per aprirci, tra tutti coloro che soffrono, a quelli che maggiormente hanno bisogno. Vivendo così, tutto questo, nella universalità che ha caratterizzato Giovanni di Dio e che lo ha spinto a fare sempre il bene, davanti a qualsiasi necessità, con grande apertura, con capacità di tenere relazioni con chiunque e partendo sempre dalla opzione per colui “che soffre” , il quale è veramente un povero.

 

 


[1] CASTRO, Francesco, Storia della Vita e della Sante Opere di Giovanni di Dio, e della istituzione dell’Ordine e principio del suo ospedale, Granada 1685, Cap. IX.

 

[2] O’DONNELL, Brian, Servo e Profeta, Granada 1989.

 

[3] SANCHEZ, José, Kenosis e Diakonia, nell’itinerario spirituale di San Giovanni di Dio, Madrid, 1995.

MALATTIA E GUARIGIONE – Indicazioni Sacra Congregazione circa il pregare…

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 IL CARISMA DI GUARIGIONE

  

CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE

ISTRUZIONE CIRCA LE PREGHIERE PER OTTENERE DA DIO LA GUARIGIONE

INTRODUZIONE

L’anelito di felicità, profondamente radicato nel cuore umano, è da sempre accompagnato dal desiderio di ottenere la liberazione dalla malattia e di capirne il senso quando se ne fa l’esperienza. Si tratta di un fenomeno umano, che interessando in un modo o nell’altro ogni persona, trova nella Chiesa una particolare risonanza. Infatti la malattia viene da essa compresa come mezzo di unione con Cristo e di purificazione spirituale e, da parte di coloro che si trovano di fronte alla persona malata, come occasione di esercizio della carità. Ma non soltanto questo, perché la malattia, come altre sofferenze umane, costituisce un momento privilegiato di preghiera: sia di richiesta di grazia, per accoglierla con senso di fede e di accettazione della volontà divina, sia pure di supplica per ottenere la guarigione.

La preghiera che implora il riacquisto della salute è pertanto una esperienza presente in ogni epoca della Chiesa, e naturalmente nel momento attuale. Ciò che però costituisce un fenomeno per certi versi nuovo è il moltiplicarsi di riunioni di preghiera, alle volte congiunte a celebrazioni liturgiche, con lo scopo di ottenere da Dio la guarigione. In diversi casi, non del tutto sporadici, vi si proclama l’esistenza di avvenute guarigioni, destando in questo modo delle attese dello stesso fenomeno in altre simili riunioni. In questo contesto si fa appello, alle volte, a un preteso carisma di guarigione.

Siffatte riunioni di preghiera per ottenere delle guarigioni pongono inoltre la questione del loro giusto discernimento sotto il profilo liturgico, in particolare da parte dell’autorità ecclesiastica, a cui spetta vigilare e dare le opportune norme per il retto svolgimento delle celebrazioni liturgiche.

E’ sembrato pertanto opportuno pubblicare una Istruzione, a norma del can. 34 del Codice di Diritto Canonico, che serva soprattutto di aiuto agli Ordinari del luogo affinché meglio possano guidare i fedeli in questa materia, favorendo ciò che vi sia di buono e correggendo ciò che sia da evitare. Occorreva però che le determinazioni disciplinari trovassero come riferimento una fondata cornice dottrinale che ne garantisse il giusto indirizzo e ne chiarisse la ragione normativa. A questo fine è stata premessa alla parte disciplinare una parte dottrinale sulle grazie di guarigione e le preghiere per ottenerle.

 

I. ASPETTI DOTTRINALI

1. Malattia e guarigione: il loro senso e valore nell’economia della salvezza

«L’uomo è chiamato alla gioia ma fa quotidiana esperienza di tantissime forme di sofferenza e di dolore».(1) Perciò il Signore nelle sue promesse di redenzione annuncia la gioia del cuore legata alla liberazione dalle sofferenze (cfr. Is 30,29; 35,10; Bar 4,29). Infatti Egli è «colui che libera da ogni male» (Sap 16,8). Tra le sofferenze, quelle che accompagnano la malattia sono una realtà continuamente presente nella storia umana e sono anche oggetto del profondo desiderio dell’uomo di liberazione da ogni male.

Nell’Antico Testamento, «Israele sperimenta che la malattia è legata, in un modo misterioso, al peccato e al male».(2) Tra le punizioni minacciate da Dio all’infedeltà del popolo, le malattie trovano un ampio spazio (cfr. Dt 28,21-22.27-29.35). Il malato che implora da Dio la guarigione, confessa di essere giustamente punito per i suoi peccati (cfr. Sal 37; 40; 106,17-21).

La malattia però colpisce anche i giusti e l’uomo se ne domanda il perché. Nel libro di Giobbe questo interrogativo percorre molte delle sue pagine. «Se è vero che la sofferenza ha un senso come punizione, quando è legata alla colpa, non è vero, invece, che ogni sofferenza sia conseguenza della colpa e abbia carattere di punizione. La figura del giusto Giobbe ne è una prova speciale nell’Antico Testamento. (…) E se il Signore acconsente a provare Giobbe con la sofferenza, lo fa per dimostrarne la giustizia. La sofferenza ha carattere di prova».(3)

La malattia, pur potendo avere un risvolto positivo quale dimostrazione della fedeltà del giusto e mezzo di ripagare la giustizia violata dal peccato e anche di far ravvedere il peccatore perché percorra la via della conversione, rimane tuttavia un male. Perciò il profeta annunzia i tempi futuri in cui non ci saranno più malanni e invalidità e il decorso della vita non sarà più troncato dal morbo mortale (cfr. Is 35,5-6; 65,19-20).

Tuttavia è nel Nuovo Testamento che l’interrogativo sul perché la malattia colpisce anche i giusti trova piena risposta. Nell’attività pubblica di Gesù, i suoi rapporti coi malati non sono sporadici, bensì continui. Egli ne guarisce molti in modo mirabile, sicché le guarigioni miracolose caratterizzano la sua attività: «Gesù andava attorno per tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il vangelo del regno e curando ogni malattia e infermità» (Mt 9,35; cfr. 4,23). Le guarigioni sono segni della sua missione messianica (cfr. Lc 7,20-23). Esse manifestano la vittoria del regno di Dio su ogni sorta di male e diventano simbolo del risanamento dell’uomo tutto intero, corpo e anima. Infatti servono a dimostrare che Gesù ha il potere di rimettere i peccati (cfr. Mc 2,1-12), sono segni dei beni salvifici, come la guarigione del paralitico di Betzata (cfr. Gv 5,2-9.19-21) e del cieco nato (cfr. Gv 9).

Anche la prima evangelizzazione, secondo le indicazioni del Nuovo Testamento, era accompagnata da numerose guarigioni prodigiose che corroboravano la potenza dell’annuncio evangelico. Questa era stata la promessa di Gesù risorto e le prime comunità cristiane ne vedevano l’avverarsi in mezzo a loro: «E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: (…) imporranno le mani ai malati e questi guariranno» (Mc 16,17-18). La predicazione di Filippo a Samaria fu accompagnata da guarigioni miracolose: «Filippo, sceso in una città della Samaria, cominciò a predicare loro il Cristo. E le folle prestavano ascolto unanimi alle parole di Filippo sentendolo parlare e vedendo i miracoli che egli compiva. Da molti indemoniati uscivano spiriti immondi, emettendo alte grida e molti paralitici e storpi furono risanati» (At 8,5-7). San Paolo presenta il suo annuncio del vangelo come caratterizzato da segni e prodigi realizzati con la potenza dello Spirito: «non oserei infatti parlare di ciò che Cristo non avesse operato per mezzo mio per condurre i pagani all’obbedienza, con parole e opere, con la potenza di segni e di prodigi, con la potenza dello Spirito» (Rm 15,18-19; cfr. 1Ts 1,5; 1Cor 2,4-5). Non è per nulla arbitrario supporre che tali segni e prodigi, manifestativi della potenza divina che assisteva la predicazione, erano costituiti in gran parte da guarigioni portentose. Erano prodigi non legati esclusivamente alla persona dell’Apostolo, ma che si manifestavano anche attraverso i fedeli: «Colui che dunque vi concede lo Spirito e opera portenti in mezzo a voi, lo fa grazie alle opere della legge o perché avete creduto alla predicazione?» (Gal 3,5).

La vittoria messianica sulla malattia, come su altre sofferenze umane, non soltanto avviene attraverso la sua eliminazione con guarigioni portentose, ma anche attraverso la sofferenza volontaria e innocente di Cristo nella sua passione e dando ad ogni uomo la possibilità di associarsi ad essa. Infatti «Cristo stesso, che pure è senza peccato, soffrì nella sua passione pene e tormenti di ogni genere, e fece suoi i dolori di tutti gli uomini: portava così a compimento quanto aveva scritto di lui il profeta Isaia (cfr. Is 53,4-5)».(4) Ma c’è di più: «Nella croce di Cristo non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta. (…) Operando la redenzione mediante la sofferenza, Cristo ha elevato insieme la sofferenza umana a livello di redenzione. Quindi anche ogni uomo, nella sua sofferenza, può diventare partecipe della sofferenza redentiva di Cristo».(5)

La Chiesa accoglie i malati non soltanto come oggetto della sua amorevole sollecitudine, ma anche riconoscendo loro la chiamata «a vivere la loro vocazione umana e cristiana ed a partecipare alla crescita del Regno di Dio in modalità nuove, anche più preziose. Le parole dell’apostolo Paolo devono divenire il loro programma e, prima ancora, sono luce che fa splendere ai loro occhi il significato di grazia della loro stessa situazione: “Completo quello che manca ai patimenti di Cristo nella mia carne, in favore del suo corpo, che è la Chiesa” (Col 1,24). Proprio facendo questa scoperta, l’apostolo è approdato alla gioia: “Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi” (Col 1,24)».(6) Si tratta della gioia pasquale, frutto dello Spirito Santo. E come san Paolo, anche «molti malati possono diventare portatori della “gioia dello Spirito Santo in molte tribolazioni” (1Ts 1,6) ed essere testimoni della risurrezione di Gesù».(7)

2. Il desiderio di guarigione e la preghiera per ottenerla

Premessa l’accettazione della volontà di Dio, il desiderio del malato di ottenere la guarigione è buono e profondamente umano, specie quando si traduce in preghiera fiduciosa rivolta a Dio. Ad essa esorta il Siracide: «Figlio, non avvilirti nella malattia, ma prega il Signore ed egli ti guarirà» (Sir 38,9). Diversi salmi costituiscono una supplica di guarigione (cfr. Sal 6; 37; 40; 87).

Durante l’attività pubblica di Gesù, molti malati si rivolgono a lui, sia direttamente sia tramite i loro amici o congiunti, implorando la restituzione della sanità. Il Signore accoglie queste suppliche e i Vangeli non contengono neppure un accenno di biasimo di tali preghiere. L’unico lamento del Signore riguarda l’eventuale mancanza di fede: «Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede» (Mc 9,23; cfr. Mc 6,5-6; Gv 4,48).

Non soltanto è lodevole la preghiera dei singoli fedeli che chiedono la guarigione propria o altrui, ma la Chiesa nella liturgia chiede al Signore la salute degli infermi. Innanzi tutto ha un sacramento «destinato in modo speciale a confortare coloro che sono provati dalla malattia: l’Unzione degli infermi».(8) «In esso, per mezzo di una unzione, accompagnata dalla preghiera dei sacerdoti, la Chiesa raccomanda i malati al Signore sofferente e glorificato, perché dia loro sollievo e salvezza».(9) Immediatamente prima, nella Benedizione dell’olio, la Chiesa prega: «effondi la tua santa benedizione, perché quanti riceveranno l’unzione di quest’olio ottengano conforto, nel corpo, nell’anima e nello spirito, e siano liberi da ogni dolore, da ogni debolezza, da ogni sofferenza(10); e poi, nei due primi formulari di preghiera dopo l’unzione, si chiede pure la guarigione dell’infermo.(11) Questa, poiché il sacramento è pegno e promessa del regno futuro, è anche annuncio della risurrezione, quando «non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,4). Inoltre il Missale Romanum contiene una Messa pro infirmis e in essa, oltre a grazie spirituali, si chiede la salute dei malati.(12)

Nel De benedictionibus del Rituale Romanum, esiste un Ordo benedictionis infirmorum, nel quale ci sono diversi testi eucologici che implorano la guarigione: nel secondo formulario delle Preces(13), nelle quattro Orationes benedictionis pro adultis(14), nelle due Orationes benedictionis pro pueris(15), nella preghiera del Ritus brevior.(16)

Ovviamente il ricorso alla preghiera non esclude, anzi incoraggia a fare uso dei mezzi naturali utili a conservare e a ricuperare la salute, come pure incita i figli della Chiesa a prendersi cura dei malati e a recare loro sollievo nel corpo e nello spirito, cercando di vincere la malattia. Infatti «rientra nel piano stesso di Dio e della sua provvidenza che l’uomo lotti con tutte le sue forze contro la malattia in tutte le sue forme, e si adoperi in ogni modo per conservarsi in salute».(17)

3. Il carisma di guarigione nel Nuovo Testamento

Non soltanto le guarigioni prodigiose confermavano la potenza dell’annuncio evangelico nei tempi apostolici, ma lo stesso Nuovo Testamento riferisce circa una vera e propria concessione da parte di Gesù agli Apostoli e ad altri primi evangelizzatori di un potere di guarire dalle infermità. Così nella chiamata dei Dodici alla prima loro missione, secondo i racconti di Matteo e di Luca, il Signore concede loro «il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d’infermità» (Mt 10,1; cfr. Lc 9,1), e dà loro l’ordine: «Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni» (Mt 10,8). Anche nella missione dei settantadue discepoli, l’ordine del Signore è: «curate i malati che vi si trovano» (Lc 10,9). Il potere, pertanto, viene donato all’interno di un contesto missionario, non per esaltare le loro persone, ma per confermarne la missione.

Gli Atti degli Apostoli riferiscono in generale dei prodigi realizzati da loro: «prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli» (At 2,43; cfr. 5,12). Erano prodigi e segni, quindi opere portentose che manifestavano la verità e forza della loro missione. Ma, a parte queste brevi indicazioni generiche, gli Atti riferiscono soprattutto delle guarigioni miracolose compiute per opera di singoli evangelizzatori: Stefano (cfr. At 6,8), Filippo (cfr. At 8,6- 7), e soprattutto Pietro (cfr. At 3,1-10; 5,15; 9,33-34.40-41) e Paolo (cfr. At 14,3.8-10; 15,12; 19,11-12; 20,9-10; 28,8-9).

Sia la finale del Vangelo di Marco sia la Lettera ai Galati, come si è visto sopra, ampliano la prospettiva e non limitano le guarigioni prodigiose all’attività degli Apostoli e di alcuni evangelizzatori aventi un ruolo di spicco nella prima missione. Sotto questo profilo acquistano uno speciale rilievo i riferimenti ai «carismi di guarigioni» (cfr. 1 Cor 12,9.28.30). Il significato di carisma, di per sé assai ampio, è quello di «dono generoso»; e in questo caso si tratta di «doni di guarigioni ottenute». Queste grazie, al plurale, sono attribuite a un singolo (cfr. 1 Cor 12,9), pertanto non vanno intese in senso distributivo, come guarigioni che ognuno dei guariti ottiene per se stesso, bensì come dono concesso a una persona di ottenere grazie di guarigioni per altri. Esso è dato in un solo Spirito, ma non si specifica nulla sul come quella persona ottiene le guarigioni. Non è arbitrario sottintendere che ciò avvenga per mezzo della preghiera, forse accompagnata da qualche gesto simbolico.

Nella Lettera di san Giacomo si fa riferimento a un intervento della Chiesa attraverso i presbiteri a favore della salvezza, anche in senso fisico, dei malati. Ma non si fa intendere che si tratti di guarigioni prodigiose: siamo in un ambito diverso da quello dei «carismi di guarigioni» di 1Cor 12,9. «Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati» (Gc 5,14-15). Si tratta di un’azione sacramentale: unzione del malato con olio e preghiera su di lui, non semplicemente «per lui», quasi non fosse altro che una preghiera di intercessione o di domanda; si tratta piuttosto di un’azione efficace sull’infermo.(18) I verbi «salverà» e «rialzerà» non suggeriscono un’azione mirante esclusivamente, o soprattutto, alla guarigione fisica, ma in un certo modo la includono. Il primo verbo, benché le altre volte che compare nella Lettera si riferisca alla salvezza spirituale (cfr. 1,21; 2,14; 4,12; 5,20), è anche usato nel Nuovo Testamento nel senso di «guarire» (cfr. Mt 9,21; Mc 5,28.34; 6,56; 10,52; Lc 8,48); il secondo verbo, pur assumendo alle volte il senso di «risorgere» (cfr. Mt 10,8; 11,5; 14,2), viene anche usato per indicare il gesto di «sollevare» la persona distesa a causa di una malattia guarendola prodigiosamente (cfr. Mt 9,5; Mc 1,31; 9,27; At 3,7).

4. Le preghiere per ottenere da Dio la guarigione nella Tradizione

I Padri della Chiesa consideravano normale che il credente chiedesse a Dio non soltanto la salute dell’anima, ma anche quella del corpo. A proposito dei beni della vita, della salute e dell’integrità fisica, S. Agostino scriveva: «Bisogna pregare che ci siano conservati, quando si hanno, e che ci siano elargiti, quando non si hanno».(19) Lo stesso Padre della Chiesa ci ha lasciato la testimonianza di una guarigione di un amico ottenuta con le preghiere di un Vescovo, di un sacerdote e di alcuni diaconi nella sua casa.(20)

Uguale orientamento si osserva nei riti liturgici sia Occidentali che Orientali. In una preghiera dopo la Comunione si chiede che «la potenza di questo sacramento… ci pervada corpo e anima».(21) Nella solenne liturgia del Venerdì Santo viene rivolto l’invito a pregare Dio Padre onnipotente affinché «allontani le malattie… conceda la salute agli ammalati».(22) Tra i testi più significativi si segnala quello della benedizione dell’olio degli infermi. Qui si chiede a Dio di effondere la sua santa benedizione «perché quanti riceveranno l’unzione di quest’olio ottengano conforto nel corpo, nell’anima e nello spirito, e siano liberi da ogni dolore, da ogni debolezza, da ogni sofferenza».(23)

Non diverse sono le espressioni che si leggono nei riti Orientali dell’unzione degli infermi. Ricordiamo solo alcune tra le più significative. Nel rito bizantino durante l’unzione dell’infermo si prega: «Padre santo, medico delle anime e dei corpi, che hai mandato il tuo Figlio unigenito Gesù Cristo a curare ogni malattia e a liberarci dalla morte, guarisci anche questo tuo servo dall’infermità del corpo e dello spirito, che lo affligge, per la grazia del tuo Cristo».(24) Nel rito copto si invoca il Signore di benedire l’olio affinché tutti coloro che ne verranno unti possano ottenere la salute dello spirito e del corpo. Poi, durante l’unzione dell’infermo, i sacerdoti, fatta menzione di Gesù Cristo mandato nel mondo «a sanare tutte le infermità e a liberare dalla morte», chiedono a Dio «di guarire l’infermo dalle infermità del corpo e a dargli la via retta».(25)

5. Il «carisma di guarigione» nel contesto attuale

Lungo i secoli della storia della Chiesa non sono mancati santi taumaturghi che hanno operato guarigioni miracolose. Il fenomeno, pertanto, non era limitato al tempo apostolico; tuttavia, il cosiddetto «carisma di guarigione» sul quale è opportuno attualmente fornire alcuni chiarimenti dottrinali non rientra fra quei fenomeni taumaturgici. La questione si pone piuttosto in riferimento ad apposite riunioni di preghiera organizzate al fine di ottenere guarigioni prodigiose tra i malati partecipanti, oppure preghiere di guarigione al termine della comunione eucaristica con il medesimo scopo.

Quanto alle guarigioni legate ai luoghi di preghiera (santuari, presso le reliquie di martiri o di altri santi, ecc.) anch’esse sono abbondantemente testimoniate lungo la storia della Chiesa. Esse contribuirono a popolarizzare, nell’antichità e nel medioevo, i pellegrinaggi ad alcuni santuari che divennero famosi anche per questa ragione, come quelli di san Martino di Tours, o la cattedrale di san Giacomo a Compostela, e tanti altri. Anche attualmente accade lo stesso, come, ad esempio da più di un secolo, a Lourdes. Tali guarigioni non implicano però un «carisma di guarigione», perché non riguardano un eventuale soggetto di tale carisma, ma occorre tenerne conto nel momento di valutare dottrinalmente le suddette riunioni di preghiera.

Per quanto riguarda le riunioni di preghiera con lo scopo di ottenere guarigioni, scopo, se non prevalente, almeno certamente influente nella loro programmazione, è opportuno distinguere tra quelle che possono far pensare a un «carisma di guarigione», vero o apparente che sia, e le altre senza connessione con tale carisma. Perché possano riguardare un eventuale carisma occorre che vi emerga come determinante per l’efficacia della preghiera l’intervento di una o di alcune persone singole o di una categoria qualificata, ad esempio, i dirigenti del gruppo che promuove la riunione. Se non c’è connessione col «carisma di guarigione», ovviamente le celebrazioni previste nei libri liturgici, se si realizzano nel rispetto delle norme liturgiche, sono lecite, e spesso opportune, come è il caso della Messa pro infirmis. Se non rispettano la normativa liturgica, la legittimità viene a mancare.

Nei santuari sono anche frequenti altre celebrazioni che di per sé non mirano specificamente ad impetrare da Dio grazie di guarigioni, ma che nelle intenzioni degli organizzatori e dei partecipanti hanno come parte importante della loro finalità l’ottenimento di guarigioni; si fanno per questa ragione celebrazioni liturgiche (ad esempio, l’esposizione del Santissimo Sacramento con la benedizione) o non liturgiche, ma di pietà popolare incoraggiata dalla Chiesa, come la recita solenne del Rosario. Anche queste celebrazioni sono legittime, purché non se ne sovverta l’autentico senso. Ad esempio, non si potrebbe mettere in primo piano il desiderio di ottenere la guarigione dei malati, facendo perdere all’esposizione della Santissima Eucaristia la sua propria finalità; essa infatti «porta i fedeli a riconoscere in essa la mirabile presenza di Cristo e li invita all’unione di spirito con lui, unione che trova il suo culmine nella Comunione sacramentale».(26)

Il «carisma di guarigione» non è attribuibile a una determinata classe di fedeli. Infatti è ben chiaro che san Paolo, allorché si riferisce ai diversi carismi in 1 Cor 12, non attribuisce il dono dei «carismi di guarigione» a un particolare gruppo, sia quello degli apostoli, o dei profeti, o dei maestri, o di coloro che governano, o qualunque altro; anzi è un’altra la logica che ne guida la distribuzione: «tutte queste cose è l’unico e il medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole» (1Cor 12, 11). Di conseguenza, nelle riunioni di preghiera organizzate con lo scopo di impetrare delle guarigioni, sarebbe del tutto arbitrario attribuire un «carisma di guarigione» ad una categoria di partecipanti, per esempio, ai dirigenti del gruppo; non resta che affidarsi alla liberissima volontà dello Spirito Santo, il quale dona ad alcuni un carisma speciale di guarigione per manifestare la forza della grazia del Risorto. D’altra parte, neppure le preghiere più intense ottengono la guarigione di tutte le malattie. Così san Paolo deve imparare dal Signore che «ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9), e che le sofferenze da sopportare possono avere come senso quello per cui «io completo nella mia carne ciò che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24).

 

II. DISPOSIZIONI DISCIPLINARI

Art. 1 – Ad ogni fedele è lecito elevare a Dio preghiere per ottenere la guarigione. Quando tuttavia queste si svolgono in chiesa o in altro luogo sacro, è conveniente che esse siano guidate da un ministro ordinato.

Art. 2 – Le preghiere di guarigione si qualificano come liturgiche, se sono inserite nei libri liturgici approvati dalla competente autorità della Chiesa; altrimenti sono non liturgiche.

Art. 3 – § 1. Le preghiere di guarigione liturgiche si celebrano secondo il rito prescritto e con le vesti sacre indicate nell’Ordo benedictionis infirmorum del Rituale Romanum.(27)

§ 2. Le Conferenze Episcopali, in conformità a quanto stabilito nei Praenotanda, V., De aptationibus quae Conferentiae Episcoporum competunt,(28) del medesimo Rituale Romanum, possono compiere gli adattamenti al rito delle benedizioni degli infermi, ritenuti pastoralmente opportuni o eventualmente necessari, previa revisione della Sede Apostolica.

Art. 4 – § 1. Il Vescovo diocesano(29) ha il diritto di emanare norme per la propria Chiesa particolare sulle celebrazioni liturgiche di guarigione, a norma del can. 838 § 4.

§ 2. Coloro che curano la preparazione di siffatte celebrazioni liturgiche, devono attenersi nella loro realizzazione a tali norme.

§ 3. Il permesso per tenere tali celebrazioni deve essere esplicito, anche se le organizzano o vi partecipano Vescovi o Cardinali. Stante una giusta e proporzionata causa, il Vescovo diocesano ha il diritto di porre il divieto ad un altro Vescovo.

Art. 5 – § 1. Le preghiere di guarigione non liturgiche si realizzano con modalità distinte dalle celebrazioni liturgiche, come incontri di preghiera o lettura della Parola di Dio, ferma restando la vigilanza dell’Ordinario del luogo a norma del can. 839 § 2.

§ 2. Si eviti accuratamente di confondere queste libere preghiere non liturgiche con le celebrazioni liturgiche propriamente dette.

§ 3. E’ necessario inoltre che nel loro svolgimento non si pervenga, soprattutto da parte di coloro che le guidano, a forme simili all’isterismo, all’artificiosità, alla teatralità o al sensazionalismo.

Art. 6 – L’uso degli strumenti di comunicazione sociale, in particolare della televisione, mentre si svolgono le preghiere di guarigione, liturgiche e non liturgiche, è sottoposto alla vigilanza del Vescovo diocesano in conformità al disposto del can. 823, e delle norme stabilite dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nell’Istruzione del 30 marzo 1992.(30)

Art. 7 – § 1. Fermo restando quanto sopra disposto nell’art. 3 e fatte salve le funzioni per gli infermi previste nei libri liturgici, nella celebrazione della Santissima Eucaristia, dei Sacramenti e della Liturgia delle Ore non si devono introdurre preghiere di guarigione, liturgiche e non liturgiche.

§ 2. Durante le celebrazioni, di cui nel § 1, è data la possibilità di inserire speciali intenzioni di preghiera per la guarigione degli infermi nella preghiera universale o “dei fedeli”, quando questa è in esse prevista.

Art. 8 – § 1. Il ministero dell’esorcismo deve essere esercitato in stretta dipendenza con il Vescovo diocesano, a norma del can. 1172, della Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede del 29 settembre 1985(31) e del Rituale Romanum.(32)

§ 2. Le preghiere di esorcismo, contenute nel Rituale Romanum, devono restare distinte dalle celebrazioni di guarigione, liturgiche e non liturgiche.

§ 3. E’ assolutamente vietato inserire tali preghiere di esorcismo nella celebrazione della Santa Messa, dei Sacramenti e della Liturgia delle Ore.

Art. 9 – Coloro che guidano le celebrazioni di guarigione, liturgiche e non liturgiche, si sforzino di mantenere un clima di serena devozione nell’assemblea e usino la necessaria prudenza se avvengono guarigioni tra gli astanti; terminata la celebrazione, potranno raccogliere con semplicità e accuratezza eventuali testimonianze e sottoporre il fatto alla competente autorità ecclesiastica.

Art. 10 – L’intervento d’autorità del Vescovo diocesano si rende doveroso e necessario quando si verifichino abusi nelle celebrazioni di guarigione, liturgiche e non liturgiche, nel caso di evidente scandalo per la comunità dei fedeli, oppure quando vi siano gravi inosservanze delle norme liturgiche e disciplinari.

 

Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, nel corso dell’Udienza accordata al sottoscritto Prefetto, ha approvato la presente Istruzione, decisa nella riunione ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.

Roma, dalla sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, 14 settembre 2000, festa dell’Esaltazione della Santa Croce.

+ Joseph Card. RATZINGER, 
Prefetto

+ Tarcisio BERTONE, S.D.B., 
Arciv. emerito di Vercelli, 
Segretario

 

 


(1) GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica Christifideles laici, n. 53, AAS 81(1989), p. 498.

(2) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1502.

(3) GIOVANNI PAOLO II, Lettera Apostolica Salvifici doloris, n. 11, AAS 76(1984), p. 212.

(4) Rituale Romanum, Ex Decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum, Auctoritate Pauli PP. VI promulgatum, Ordo Unctionis Infirmorum eorumque Pastoralis Curae, Editio typica, Typis Polyglottis Vaticanis, MCMLXXII, n. 2.

(5) GIOVANNI PAOLO II, Lettera Apostolica Salvifici doloris, n. 19, AAS 76(1984), p. 225.

(6) GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica Christifideles laici, n. 53, AAS 81(1989), p. 499.

(7) Ibid., n. 53.

(8) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1511.

(9) Cfr. Rituale Romanum, Ordo Unctionis Infirmorum eorumque Pastoralis Curae, n. 5.

(10) Ibid., n. 75.

(11) Cfr. Ibid., n. 77.

(12) Missale Romanum, Ex Decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum, Auctoritate Pauli PP. VI promulgatum, Editio typica altera, Typis Polyglottis Vaticanis, MCMLXXV, pp. 838-839.

(13) Cfr. Rituale Romanum, Ex Decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum, Auctoritate Ioannis Paulii II promulgatum, De Benedictionibus, Editio typica, Typis Polyglottis Vaticanis, MCMLXXXIV, n. 305.

(14) Cfr. Ibid., nn. 306-309.

(15) Cfr. Ibid., nn. 315-316.

(16) Cfr. Ibid., n. 319.

(17) Rituale Romanum, Ordo Unctionis Infirmorum eorumque Pastoralis Curae, n. 3.

(18) Cfr. CONCILIO DI TRENTO, sess. XIV, Doctrina de sacramento extremae unctionis, cap. 2: DS, 1696.

(19) AUGUSTINUS IPPONIENSIS, Epistulae 130, VI,13 (= PL, 33,499).

(20) Cfr. AUGUSTINUS IPPONIENSIS, De Civitate Dei 22, 8,3 (= PL 41,762-763).

(21) Cfr. Missale Romanum, p. 563.

(22) Ibid., Oratio universalis, n. X (Pro tribulatis), p. 256.

(23) Rituale Romanum, Ordo Unctionis Infirmorum eorumque Pastoralis Curae, n. 75.

(24) GOAR J., Euchologion sive Rituale Graecorum, Venetiis 1730 (Graz 1960), n. 338.

(25) DENZINGER H., Ritus Orientalium in administrandis Sacramentis, vv. I- II, Würzburg 1863 (Graz 1961), v. II, pp. 497-498.

(26) Rituale Romanum, Ex Decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum, Auctoritate Pauli PP. VI promulgatum, De Sacra Communione et de Cultu Mysterii Eucharistici Extra Missam, Editio typica, Typis Polyglottis Vaticanis, MCMLXXIII, n. 82.

(27) Cfr. Rituale Romanum, De Benedictionibus, nn. 290-320.

(28) Ibid., n. 39.

(29) E i suoi equiparati, in forza del can. 381, § 2.

(30) Cfr. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione circa alcuni aspetti dell’uso degli strumenti di comunicazione sociale nella promozione della dottrina della fede, 30 marzo 1992, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992.

(31) Cfr. CONGREGATIO PRO DOCTRINA FIDEI, Epistula Inde ab aliquot annis, Ordinariis locorum missa: in mentem normae vigentes de exorcismis revocantur, 29 septembris 1985, AAS 77(1985), pp. 1169-1170.

(32) Cfr. Rituale Romanum, Ex Decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum, Auctoritate Ioannis Pauli II promulgatum, De Exorcismis et Supplicationibus quibusdam, Editio typica, Typis Vaticanis MIM, Praenotanda, nn. 13- 19.

BENEDETTO XVI pastore del gregge

 

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 URBI ET ORBI

 

Il PAPA alla Città e al Mondo

Noi GLOBULI ROSSI nell’omelia della celebrazione eucaristica e insediamento sulla cathedra romana del Vescovo di Roma Benedetto XVI, tenuta nella basilica di San Giovanni in Laterano sabato, 7 maggio 2005, ritroviamo il senso anche della nostra vocazione:

Questo giorno, nel quale posso per la prima volta insediarmi sulla Cattedra del Vescovo di Roma quale successore di Pietro, è il giorno in cui in Italia la Chiesa celebra la Festa dell’Ascensione del Signore. 

  • Al centro di questo giorno, troviamo Cristo.
  • E solo grazie a Lui, grazie al mistero del suo ascendere, riusciamo a comprendere il significato della Cattedra, che è a sua volta il simbolo della potestà e della responsabilità del Vescovo.

Cosa ci vuol dire allora la Festa dell’Ascensione del Signore?

  1. Non vuol dirci che il Signore se ne è andato in qualche luogo lontano dagli uomini e dal mondo.
  2. L’Ascensione di Cristo non è un viaggio nello spazio verso gli astri più remoti; perché, in fondo, anche gli astri sono fatti di elementi fisici come la terra.
  3. L’Ascensione di Cristo significa che Egli non appartiene più al mondo della corruzione e della morte che condiziona la nostra vita.
  4. Significa che Egli appartiene completamente a Dio.
  5. Egli – il Figlio Eterno – ha condotto il nostro essere umano al cospetto di Dio, ha portato con sé la carne e il sangue in una forma trasfigurata.
  6. L’uomo trova spazio in Dio; attraverso Cristo, l’essere umano è stato portato fin dentro la vita stessa di Dio.
  7. E poiché Dio abbraccia e sostiene l’intero cosmo, l’Ascensione del Signore significa che Cristo non si è allontanato da noi, ma che adesso, grazie al Suo essere con il Padre, è vicino ad ognuno di noi, per sempre.
  8. Ognuno di noi può darGli del tu; ognuno può chiamarLo. Il Signore si trova sempre a portata di voce. Possiamo allontanarci da Lui interiormente. Possiamo vivere voltandoGli le spalle. Ma Egli ci aspetta sempre, ed è sempre vicino a noi.
  9. Dalle letture della liturgia odierna impariamo anche qualcosa in più sulla concretezza con cui il Signore realizza questo Suo essere vicino a noi.
  10. Il Signore promette ai discepoli il Suo Spirito Santo.
  11. La prima lettura ci dice che lo Spirito Santo sarà “forza” per i discepoli;
  12. il Vangelo aggiunge che sarà guida alla Verità tutt’intera.
  13. Gesù ha detto tutto ai Suoi discepoli, essendo Egli stesso la Parola vivente di Dio, e Dio non può dare più di sé stesso.
  14. In Gesù, Dio ci ha donato tutto sé stesso – cioè – ci ha donato tutto.
  15. Oltre a questo, o accanto a questo, non può esserci nessun’altra rivelazione in grado di comunicare maggiormente o di completare, in qualche modo, la Rivelazione di Cristo.
  16. In Lui, nel Figlio, ci è stato detto tutto, ci è stato donato tutto.
  17. Ma la nostra capacità di comprendere è limitata; perciò la missione dello Spirito è di introdurre la Chiesa in modo sempre nuovo, di generazione in generazione, nella grandezza del mistero di Cristo.
  18. Lo Spirito non pone nulla di diverso e di nuovo accanto a Cristo; non c’è nessuna rivelazione pneumatica accanto a quella di Cristo – come alcuni credono – nessun secondo livello di Rivelazione. No: “Prenderà del mio”, dice Cristo nel Vangelo (Gv 16, 14).
  19. E come Cristo dice soltanto ciò che sente e riceve dal Padre, così lo Spirito Santo è interprete di Cristo. “Prenderà del mio”.
  20. Non ci conduce in altri luoghi, lontani da Cristo, ma ci conduce sempre più dentro la luce di Cristo.
  21. Per questo, la Rivelazione cristiana è, allo stesso tempo, sempre antica e sempre nuova.
  22. Per questo, tutto ci è sempre e già donato.
  23. Allo stesso tempo, ogni generazione, nell’inesauribile incontro col Signore – incontro mediato dallo Spirito Santo – impara sempre qualcosa di nuovo.
  24. Così, lo Spirito Santo è la forza attraverso la quale Cristo ci fa sperimentare la sua vicinanza.
  25. Ma la prima lettura dice anche una seconda parola: mi sarete testimoni.
  26. Il Cristo risorto ha bisogno di testimoni che Lo hanno incontrato, di uomini che Lo hanno conosciuto intimamente attraverso la forza dello Spirito Santo. Uomini che avendo, per così dire, toccato con mano, possono testimoniarLo.
  27. È così che la Chiesa, la famiglia di Cristo, è cresciuta da “Gerusalemme… fino agli estremi confini della terra”, come dice la lettura. Attraverso i testimoni è stata costruita la Chiesa – a cominciare da Pietro e da Paolo, e dai Dodici, fino a tutti gli uomini e le donne che, ricolmi di Cristo, nel corso dei secoli hanno riacceso e riaccenderanno in modo sempre nuovo la fiamma della fede.
  28. Ogni cristiano, a suo modo, può e deve essere testimone del Signore risorto. Quando leggiamo i nomi dei santi possiamo vedere quante volte siano stati – e continuino ad essere – anzitutto degli uomini semplici, uomini da cui emanava – ed emana – una luce splendente capace di condurre a Cristo.
  29. Ma questa sinfonia di testimonianze è dotata anche di una struttura ben definita: ai successori degli Apostoli, e cioè ai Vescovi, spetta la pubblica responsabilità di far sì che la rete di queste testimonianze permanga nel tempo. Nel sacramento dell’ordinazione episcopale vengono loro conferite la potestà e la grazia necessarie per questo servizio.
  30. In questa rete di testimoni, al Successore di Pietro compete uno speciale compito. Fu Pietro che espresse per primo, a nome degli apostoli, la professione di fede: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16). Questo è il compito di tutti i Successori di Pietro: essere la guida nella professione di fede in Cristo, il Figlio del Dio vivente.
  31. La Cattedra di Roma è anzitutto Cattedra di questo credo. Dall’alto di questa Cattedra il Vescovo di Roma è tenuto costantemente a ripetere: Dominus Iesus – “Gesù è il Signore“, come Paolo scrisse nelle sue lettere ai Romani (10, 9) e ai Corinzi (1 Cor 12, 3). Ai Corinzi, con particolare enfasi, disse: “Anche se vi sono cosiddetti dèi sia nel cielo sia sulla terra… per noi c’è un solo Dio, il Padre…; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui” (1 Cor 8, 5).
  32. La Cattedra di Pietro obbliga coloro che ne sono i titolari a dire – come già fece Pietro in un momento di crisi dei discepoli – quando tanti volevano andarsene: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6, 68ss).
  33. Colui che siede sulla Cattedra di Pietro deve ricordare le parole che il Signore disse a Simon Pietro nell’ora dell’Ultima Cena: “….e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli….” (Lc 22, 32). Colui che è il titolare del ministero petrino deve avere la consapevolezza di essere un uomo fragile e debole – come sono fragili e deboli le sue proprie forze – costantemente bisognoso di purificazione e di conversione.
  34. Ma egli può anche avere la consapevolezza che dal Signore gli viene la forza per confermare i suoi fratelli nella fede e tenerli uniti nella confessione del Cristo crocifisso e risorto.
  35. Nella prima lettera di san Paolo ai Corinzi, troviamo il più antico racconto della risurrezione che abbiamo. Paolo lo ha fedelmente ripreso dai testimoni. Tale racconto dapprima parla della morte del Signore per i nostri peccati, della sua sepoltura, della sua risurrezione, avvenuta il terzo giorno, e poi dice: “Cristo apparve a Cefa e quindi ai Dodici…” (1 Cor 15, 4), Così, ancora una volta, viene riassunto il significato del mandato conferito a Pietro fino alla fine dei tempi: essere testimone del Cristo risorto.
  36. Il Vescovo di Roma siede sulla sua Cattedra per dare testimonianza di Cristo. Così la Cattedra è il simbolo della potestas docendi, quella potestà di insegnamento che è parte essenziale del mandato di legare e di sciogliere conferito dal Signore a Pietro e, dopo di lui, ai Dodici.
  37. Nella Chiesa, la Sacra Scrittura, la cui comprensione cresce sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, e il ministero dell’interpretazione autentica, conferito agli apostoli, appartengono l’una all’altro in modo indissolubile.
  38. Dove la Sacra Scrittura viene staccata dalla voce vivente della Chiesa, cade in preda alle dispute degli esperti. Certamente, tutto ciò che essi hanno da dirci è importante e prezioso; il lavoro dei sapienti ci è di notevole aiuto per poter comprendere quel processo vivente con cui è cresciuta la Scrittura e capire così la sua ricchezza storica. Ma la scienza da sola non può fornirci una interpretazione definitiva e vincolante; non è in grado di darci, nell’interpretazione, quella certezza con cui possiamo vivere e per cui possiamo anche morire.
  39. Per questo occorre un mandato più grande, che non può scaturire dalle sole capacità umane. Per questo occorre la voce della Chiesa viva, di quella Chiesa affidata a Pietro e al collegio degli apostoli fino alla fine dei tempi.
  40. Questa potestà di insegnamento spaventa tanti uomini dentro e fuori della Chiesa. Si chiedono se essa non minacci la libertà di coscienza, se non sia una presunzione contrapposta alla libertà di pensiero. Non è così. Il potere conferito da Cristo a Pietro e ai suoi successori è, in senso assoluto, un mandato per servire.
  41. La potestà di insegnare, nella Chiesa, comporta un impegno a servizio dell’obbedienza alla fede.
  42. Il Papa non è un sovrano assoluto, il cui pensare e volere sono legge. Al contrario: il ministero del Papa è garanzia dell’obbedienza verso Cristo e verso la Sua Parola. Egli non deve proclamare le proprie idee, bensì vincolare costantemente se stesso e la Chiesa all’obbedienza verso la Parola di Dio, di fronte a tutti i tentativi di adattamento e di annacquamento, come di fronte ad ogni opportunismo.
  43. Lo fece Papa Giovanni Paolo II, quando, davanti a tutti i tentativi, apparentemente benevoli verso l’uomo, di fronte alle errate interpretazioni della libertà, sottolineò in modo inequivocabile l’inviolabilità dell’essere umano, l’inviolabilità della vita umana dal concepimento fino alla morte naturale. La libertà di uccidere non è una vera libertà, ma è una tirannia che riduce l’essere umano in schiavitù.
  44. Il Papa è consapevole di essere, nelle sue grandi decisioni, legato alla grande comunità della fede di tutti i tempi, alle interpretazioni vincolanti cresciute lungo il cammino pellegrinante della Chiesa. Così, il suo potere non sta al di sopra, ma è al servizio della Parola di Dio, e su di lui incombe la responsabilità di far sì che questa Parola continui a rimanere presente nella sua grandezza e a risuonare nella sua purezza, così che non venga fatta a pezzi dai continui cambiamenti delle mode.
  45. La Cattedra è – diciamolo ancora una volta – simbolo della potestà di insegnamento, che è una potestà di obbedienza e di servizio, affinché la Parola di Dio – la sua verità! – possa risplendere tra di noi, indicandoci la strada.Ma, parlando della Cattedra del Vescovo di Roma, come non ricordare le parole che Sant’Ignazio d’Antiochia scrisse ai Romani? Pietro, provenendo da Antiochia, sua prima sede, si diresse a Roma, sua sede definitiva. Una sede resa definitiva attraverso il martirio con cui legò per sempre la sua successione a Roma. Ignazio, da parte sua, restando Vescovo di Antiochia, era diretto verso il martirio che avrebbe dovuto subire in Roma. Nella sua lettera ai Romani si riferisce alla Chiesa di Roma come a “Colei che presiede nell’amore“, espressione assai significativa. Non sappiamo con certezza che cosa Ignazio avesse davvero in mente usando queste parole. Ma per l’antica Chiesa, la parola amore, agape, accennava al mistero dell’Eucaristia.
  46. In questo Mistero l’amore di Cristo si fa sempre tangibile in mezzo a noi. Qui, Egli si dona sempre di nuovo. Qui, Egli si fa trafiggere il cuore sempre di nuovo; qui, Egli mantiene la Sua promessa, la promessa che, dalla Croce, avrebbe attirato tutto a sé. Nell’Eucaristia, noi stessi impariamo l’amore di Cristo.
  47. E’ stato grazie a questo centro e cuore, grazie all’Eucaristia, che i santi hanno vissuto, portando l’amore di Dio nel mondo in modi e in forme sempre nuove. Grazie all’Eucaristia la Chiesa rinasce sempre di nuovo! La Chiesa non è altro che quella rete – la comunità eucaristica! – in cui tutti noi, ricevendo il medesimo Signore, diventiamo un solo corpo e abbracciamo tutto il mondo.
  48. Presiedere nella dottrina e presiedere nell’amore, alla fine, devono essere una cosa sola: tutta la dottrina della Chiesa, alla fine, conduce all’amore. E l’Eucaristia, quale amore presente di Gesù Cristo, è il criterio di ogni dottrina. Dall’amore dipendono tutta la Legge e i Profeti, dice il Signore (Mt 22, 40). L’amore è il compimento della legge, scriveva San Paolo ai Romani (13, 10).
  49. Cari Romani, adesso sono il vostro Vescovo. Grazie per la vostra generosità, grazie per la vostra simpatia, grazie per la vostra pazienza! In quanto cattolici, in qualche modo, tutti siamo anche romani. Con le parole del salmo 87, un inno di lode a Sion, madre di tutti i popoli, cantava Israele e canta la Chiesa: “Si dirà di Sion: L’uno e l’altro è nato in essa…” (v. 5). Ugualmente, anche noi potremmo dire: in quanto cattolici, in qualche modo, siamo tutti nati a Roma. Così voglio cercare, con tutto il cuore, di essere il vostro Vescovo, il Vescovo di Roma. E tutti noi vogliamo cercare di essere sempre più cattolici – sempre più fratelli e sorelle nella grande famiglia di Dio, quella famiglia in cui non esistono stranieri.
  50. Infine, vorrei ringraziare di cuore il Vicario per la Diocesi di Roma, il Cardinale Camillo Ruini, e anche i Vescovi ausiliari e tutti i suoi collaboratori. Ringrazio di cuore i parroci, il clero di Roma e tutti coloro che, come fedeli, offrono il loro contributo per costruire qui la casa vivente. “IMPOSIZIONE DEL PALIO  

     

     

     

 

 

 Durante la santa messa per l’imposizione del pallio e consegna dell’anello del pescatore per l’inizio del ministero petrino del Vescovo di Roma, l’omelia di Benedetto XVI pronunciata in piazza San Pietro domenica, 24 aprile 2005, come GLOBULI ROSSI, ci riguarda in prima persona perché anche noi viviamo l’esperienza della nuova chiamata alla missione.

COSI’ IL PAPA:

…Proprio nei tristi giorni della malattia e della morte del Papa questo si è manifestato in modo meraviglioso ai nostri occhi:

  •  che la Chiesa è viva.
  • E la Chiesa è giovane.
  • Essa porta in sé il futuro del mondo e perciò mostra anche a ciascuno di noi la via verso il futuro.
  • La Chiesa è viva e noi lo vediamo: noi sperimentiamo la gioia che il Risorto ha promesso ai suoi.
  • La Chiesa è viva – essa è viva, perché Cristo è vivo,
  • perché egli è veramente risorto.

Nel dolore, presente sul volto del Santo Padre nei giorni di Pasqua, abbiamo contemplato il mistero della passione di Cristo ed insieme toccato le sue ferite. Ma in tutti questi giorni abbiamo anche potuto, in un senso profondo, toccare il Risorto. Ci è stato dato di sperimentare la gioia che egli ha promesso, dopo un breve tempo di oscurità, come frutto della sua resurrezione.

La Chiesa è viva – così saluto con grande gioia e gratitudine voi tutti, che siete qui radunati, venerati Confratelli Cardinali e Vescovi, carissimi sacerdoti, diaconi, operatori pastorali, catechisti. Saluto voi, religiosi e religiose, testimoni della trasfigurante presenza di Dio. Saluto voi, fedeli laici, immersi nel grande spazio della costruzione del Regno di Dio che si espande nel mondo, in ogni espressione della vita. Il discorso si fa pieno di affetto anche nel saluto che rivolgo a tutti coloro che, rinati nel sacramento del Battesimo, non sono ancora in piena comunione con noi; ed a voi fratelli del popolo ebraico, cui siamo legati da un grande patrimonio spirituale comune, che affonda le sue radici nelle irrevocabili promesse di Dio. Il mio pensiero, infine – quasi come un’onda che si espande – va a tutti gli uomini del nostro tempo, credenti e non credenti.

Cari amici! In questo momento non ho bisogno di presentare un programma di governo. Qualche tratto di ciò che io considero mio compito, ho già potuto esporlo nel mio messaggio di mercoledì 20 aprile; non mancheranno altre occasioni per farlo.

  • · Il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà,
  • · di non perseguire mie idee,
  • · ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui,
  • · cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia. Invece di esporre un programma io vorrei semplicemente cercare di commentare i due segni con cui viene rappresentata liturgicamente l’assunzione del Ministero Petrino; entrambi questi segni, del resto, rispecchiano anche esattamente ciò che viene proclamato nelle letture di oggi.

1. Il primo segno è il Pallio, tessuto in pura lana, che mi viene posto sulle spalle. Questo antichissimo segno, che i Vescovi di Roma portano fin dal IV secolo,

2. può essere considerato come un’immagine del giogo di Cristo, che il Vescovo di questa città, il Servo dei Servi di Dio, prende sulle sue spalle

3. Il giogo di Dio è la volontà di Dio, che noi accogliamo.

4. 4E questa volontà non è per noi un peso esteriore, che ci opprime e ci toglie la libertà.

5. Conoscere ciò che Dio vuole, conoscere qual è la via della vita – questa era la gioia di Israele, era il suo grande privilegio.

6. Questa è anche la nostra gioia: la volontà di Dio non ci aliena, ci purifica – magari in modo anche doloroso – e così ci conduce a noi stessi.

7. In tal modo, non serviamo soltanto Lui ma la salvezza di tutto il mondo, di tutta la storia

8. In realtà il simbolismo del Pallio è ancora più concreto: la lana d’agnello intende rappresentare la pecorella perduta o anche quella malata e quella debole, che il pastore mette sulle sue spalle e conduce alle acque della vita.

9. La parabola della pecorella smarrita, che il pastore cerca nel deserto, era per i Padri della Chiesa un’immagine del mistero di Cristo e della Chiesa. L’umanità – noi tutti – è la pecora smarrita che, nel deserto, non trova più la strada.

10. Il Figlio di Dio non tollera questo; Egli non può abbandonare l’umanità in una simile miserevole condizione. Balza in piedi, abbandona la gloria del cielo, per ritrovare la pecorella e inseguirla, fin sulla croce. La carica sulle sue spalle, porta la nostra umanità, porta noi stessi. Egli è il buon pastore, che offre la sua vita per le pecore.

11. Il Pallio dice innanzitutto che tutti noi siamo portati da Cristo. Ma allo stesso tempo ci invita a portarci l’un l’altro. Così il Pallio diventa il simbolo della missione del pastore, di cui parlano la seconda lettura ed il Vangelo.

12. La santa inquietudine di Cristo deve animare il pastore: per lui non è indifferente che tante persone vivano nel deserto. E vi sono tante forme di deserto. Vi è il deserto della povertà, il deserto della fame e della sete, vi è il deserto dell’abbandono, della solitudine, dell’amore distrutto. Vi è il deserto dell’oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell’uomo.

13. I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi. Perciò i tesori della terra non sono più al servizio dell’edificazione del giardino di Dio, nel quale tutti possano vivere, ma sono asserviti alle potenze dello sfruttamento e della distruzione.

14. La Chiesa nel suo insieme, ed i Pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza.

15. Il simbolo dell’agnello ha ancora un altro aspetto. Nell’Antico Oriente era usanza che i re designassero se stessi come pastori del loro popolo. Questa era un’immagine del loro potere, un’immagine cinica: i popoli erano per loro come pecore, delle quali il pastore poteva disporre a suo piacimento.

16. Mentre il pastore di tutti gli uomini, il Dio vivente, è divenuto lui stesso agnello, si è messo dalla parte degli agnelli, di coloro che sono calpestati e uccisi. Proprio così Egli si rivela come il vero pastore: “Io sono il buon pastore… Io offro la mia vita per le pecore”, dice Gesù di se stesso (Gv 10, 14s).

17. Non è il potere che redime, ma l’amore! Questo è il segno di Dio: Egli stesso è amore.

18. Quante volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse più forte. Che Egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore. Tutte le ideologie del potere si giustificano così, giustificano la distruzione di ciò che si opporrebbe al progresso e alla liberazione dell’umanità.

19. Noi soffriamo per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo tutti bisogno della sua pazienza. Il Dio, che è divenuto agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall’impazienza degli uomini.

20. Una delle caratteristiche fondamentali del pastore deve essere quella di amare gli uomini che gli sono stati affidati, così come ama Cristo, al cui servizio si trova. “Pasci le mie pecore”, dice Cristo a Pietro, ed a me, in questo momento. Pascere vuol dire amare, e amare vuol dire anche essere pronti a soffrire.

21. Amare significa: dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio, della parola di Dio, il nutrimento della sua presenza, che egli ci dona nel Santissimo Sacramento.

22. Cari amici – in questo momento io posso dire soltanto: pregate per me, perché io impari sempre più ad amare il Signore. Pregate per me, perché io impari ad amare sempre più il suo gregge – voi, la Santa Chiesa, ciascuno di voi singolarmente e voi tutti insieme. Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi. Preghiamo gli uni per gli altri, perché il Signore ci porti e noi impariamo a portarci gli uni gli altri.

23. Il secondo segno, con cui viene rappresentato nella liturgia odierna l’insediamento nel Ministero Petrino, è la consegna dell’anello del pescatore. La chiamata di Pietro ad essere pastore, che abbiamo udito nel Vangelo, fa seguito alla narrazione di una pesca abbondante: dopo una notte, nella quale avevano gettato le reti senza successo, i discepoli vedono sulla riva il Signore Risorto. Egli comanda loro di tornare a pescare ancora una volta ed ecco che la rete diviene così piena che essi non riescono a tirarla su; 153 grossi pesci: “E sebbene fossero così tanti, la rete non si strappò” (Gv 21, 11). Questo racconto, al termine del cammino terreno di Gesù con i suoi discepoli, corrisponde ad un racconto dell’inizio: anche allora i discepoli non avevano pescato nulla durante tutta la notte; anche allora Gesù aveva invitato Simone ad andare al largo ancora una volta. E Simone, che ancora non era chiamato Pietro, diede la mirabile risposta: Maestro, sulla tua parola getterò le reti! Ed ecco il conferimento della missione: “Non temere! D’ora in poi sarai pescatore di uomini” (Lc 5, 1–11).

24. Anche oggi viene detto alla Chiesa e ai successori degli apostoli di prendere il largo nel mare della storia e di gettare le reti, per conquistare gli uomini al Vangelo – a Dio, a Cristo, alla vera vita.

25. I Padri hanno dedicato un commento molto particolare anche a questo singolare compito. Essi dicono così: per il pesce, creato per l’acqua, è mortale essere tirato fuori dal mare. Esso viene sottratto al suo elemento vitale per servire di nutrimento all’uomo. Ma nella missione del pescatore di uomini avviene il contrario.

26. Noi uomini viviamo alienati, nelle acque salate della sofferenza e della morte; in un mare di oscurità senza luce. La rete del Vangelo ci tira fuori dalle acque della morte e ci porta nello splendore della luce di Dio, nella vera vita. E’ proprio così – nella missione di pescatore di uomini, al seguito di Cristo, occorre portare gli uomini fuori dal mare salato di tutte le alienazioni verso la terra della vita, verso la luce di Dio. E’ proprio così: noi esistiamo per mostrare Dio agli uomini. E solo laddove si vede Dio, comincia veramente la vita.

27. Solo quando incontriamo in Cristo il Dio vivente, noi conosciamo che cosa è la vita. Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell’evoluzione. Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è necessario. Non vi è niente di più bello che essere raggiunti, sorpresi dal Vangelo, da Cristo. Non vi è niente di più bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l’amicizia con lui. Il compito del pastore, del pescatore di uomini può spesso apparire faticoso. Ma è bello e grande, perché in definitiva è un servizio alla gioia, alla gioia di Dio che vuol fare il suo ingresso nel mondo.

28. Vorrei qui rilevare ancora una cosa: sia nell’immagine del pastore che in quella del pescatore emerge in modo molto esplicito la chiamata all’unità. “Ho ancora altre pecore, che non sono di questo ovile; anch’esse io devo condurre ed ascolteranno la mia voce e diverranno un solo gregge e un solo pastore” (Gv 10, 16), dice Gesù al termine del discorso del buon pastore. E il racconto dei 153 grossi pesci termina con la gioiosa constatazione: “sebbene fossero così tanti, la rete non si strappò” (Gv 21, 11).

29. Ahimè, amato Signore, essa ora si è strappata! vorremmo dire addolorati. Ma no – non dobbiamo essere tristi! Rallegriamoci per la tua promessa, che non delude, e facciamo tutto il possibile per percorrere la via verso l’unità, che tu hai promesso. Facciamo memoria di essa nella preghiera al Signore, come mendicanti: sì, Signore, ricordati di quanto hai promesso. Fa’ che siamo un solo pastore ed un solo gregge! Non permettere che la tua rete si strappi ed aiutaci ad essere servitori dell’unità!

30. In questo momento il mio ricordo ritorna al 22 ottobre 1978, quando Papa Giovanni Paolo II iniziò il suo ministero qui sulla Piazza di San Pietro. Ancora, e continuamente, mi risuonano nelle orecchie le sue parole di allora: “Non abbiate paura, aprite anzi spalancate le porte a Cristo!” Il Papa parlava ai forti, ai potenti del mondo, i quali avevano paura che Cristo potesse portar via qualcosa del loro potere, se lo avessero lasciato entrare e concesso la libertà alla fede. Sì, egli avrebbe certamente portato via loro qualcosa: il dominio della corruzione, dello stravolgimento del diritto, dell’arbitrio. Ma non avrebbe portato via nulla di ciò che appartiene alla libertà dell’uomo, alla sua dignità, all’edificazione di una società giusta. Il Papa parlava inoltre a tutti gli uomini, soprattutto ai giovani. Non abbiamo forse tutti in qualche modo paura – se lasciamo entrare Cristo totalmente dentro di noi, se ci apriamo totalmente a lui – paura che Egli possa portar via qualcosa della nostra vita? Non abbiamo forse paura di rinunciare a qualcosa di grande, di unico, che rende la vita così bella? Non rischiamo di trovarci poi nell’angustia e privati della libertà? Ed ancora una volta il Papa voleva dire: no! chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla – assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande. No!

31. Solo in quest’amicizia si spalancano le porte della vita.

32. Solo in quest’amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana.

33. Solo in quest’amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera. Così, oggi, io vorrei, con grande forza e grande convinzione, a partire dall’esperienza di una lunga vita personale, dire a voi, cari giovani: non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo – e troverete la vera vita. Amen.

 

GIOVANI DI DIO SERVO E PROFETA – Fra Brian O’Donnell o.h.

 Lunedì, 08 ottobre 2007 

 

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SERVO E PROFETA 

Come per San Giovanni di Dio il futuro per noi non è nè una promessa nè un avvenire dall’esito scontato, ma una sfida.

 

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TERZO CENTENARIO

DELLA CANONIZZAZIONE
DI SAN GIOVANNI DI DIO
 
 
 
Discorso del Priore Generale Fra Brian O’Donnell o.h.
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L’uomo a cui Fra Raimondo Fabello ha dato il massimo della collaborazione in veste di Consigliere Generale
 
 
SERVO E PROFETA
  
  
Introduzione
 
 
Ci siamo riuniti oggi qui a Granada per commemorare un evento ecclesiale con cui molto tempo addietro si è inteso riconoscere la santità eroica e l’esemplarità universale di un uomo che ha vissuto gli ultimi dieci anni della sua vita relativamente breve in questa città.
 
Siamo qui per gioire, perché a Roma trecento anni fa la Chiesa ha dichiarato santo un uomo che già ai suoi tempi era noto ai suoi concittadini con il nome di Giovanni di Dio, un uomo che dal suo primo biografo Francesco de Castro venne definito il “dispensiere dei poveri” di Granada (1).
 
Più che un momento di gioia
 
Questo anniversario non deve essere soltanto un’occasio­ne per gioire e ringraziare il Signore per i numerosi doni e le molte grazie che l’Ordine ha ricevuto da quando quell’uomo che noi “riteniamo giustamente come nostro Fondatore” è stato canonizzato (Cost. 1b).
 
Perché questo anniversario ci offre anche un’opportunità unica per riflettere sulla figura del Santo e sul significato della sua canonizzazione
 
Ispiratore di un istituto religioso
 
Avendo ispirato il Santo la fondazione di un istituto della vita religiosa, questa ricorrenza contiene un impor­tante messaggio per i membri di tale istituto, ossia i Fra­telli di San Giovanni di Dio.
 
Proposto al popolo di Dio
 
Essendo stato poi San Giovanni di Dio proposto alla Chiesa universale quale modello ed esempio di carità, l’anniversario contiene un messaggio non meno importante per i laici, i quali “si trovano in prima linea nella vita della Chiesa” (2).
 
Servo e profeta
 
Come Gesù il nostro Santo ha riunito nella sua persona due espressioni fondamentali: quella del servo e quella del profeta. Come Gesù il nostro Santo poteva dire di se che non era venuto “per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti’ (Mt 20, 28).
 
Il servo serve, il profeta annuncia il Regno e dà la sua vita. Così è stato per Gesù e ugualmente per San Giovanni di Dio.
 
Il messaggio del Santo e della sua canonizzazione
 
Il Governo Generale dell’Ordine ha ritenuto opportuno presentare in occasione di questa ricorrenza un’analisi approfondita sulla situazione dell’Ordine, sulle sfide attuali che è chiamato ad affrontare e sulle prospettive future che gli si aprono davanti. Il Definitorio Generale sta attualmente lavorando collegialmente all’elaborazione di questa analisi che sarà pubblicata più tardi nel corso dell’anno celebrativo.
 
Pertanto le parole che mi accingo a pronunciare non vogliono dare un quadro definitivo sulle questioni che stanno sul tappeto.
 
Esse riflettono semplicemente. i miei pensieri, con i quali intendo contribuire al processo di consultazione e di definizione, nel quale sono attualmente impegnati tutti i membri del Definitorio Generale.
 
Sono molto grato per poter esporre oggi a Voi la mia lettura del messaggio di San Giovanni di Dio e del significato della sua canonizzazione.
 
Questo anniversario mi ha indotto a riflettere su:
 
* il carisma dell’ospitalità;
 
* cosa intendo io, quando parliamo dell’Ordine oggi;
 
* lo stato fisico dell’Ordine, così come si presenta oggi;
 
* due importanti aspetti della spiritualità di San Giovanni di Dio, ossia  servizio e profezia;
 
* la vita religiosa;
 
* il futuro dell’Ordine.
 
  
L’ORDINE OGGI
 
L’uomo e il Santo a cui oggi, trecento anni dopo la sua canonizzazione, rendiamo omaggio, è tuttora presente nel mondo tramite le persone e le opere di coloro che condividono la stessa visione, gli stessi traguardi e gli stessi valori che sono stati alla base della sua vita.
 
San Giovanni di Dio e il suo spirito particolare continuano a manifestarsi in maniera tangibile in quella cosa che noi chiamiamo ‘l’Ordine’.
 
 
RISCOPRIRE IL CARISMA
 
Nel corso della sua lunga storia il nostro Ordine è passato e ripassato attraverso i vari cicli che caratterizzano la vita di un Ordine e che stando ad uno studio del gesuita francese Raymond Hostie possono assumere di volta in volta l’aspetto di fondazione, espansione e declino.
 
Questi cicli ricorrenti possono spingere un istituto religioso, anche più di una volta, verso un punto in cui deve decidere con la massima consapevolezza tra le tre seguenti alternative:
 
a) estinguersi
b) sopravvivere alla soglia della mera sopravvivenza
c) trasformarsi.
 
Un fatto che ha aiutato l’Ordine in tempi recenti ad optare coscientemente per la trasformazione è stata l’atten­zione che nel corso del Capitolo Generale Straordinario si è voluto dare al nostro carisma specifico (3).
 
 
Il carisma di San Giovanni di Dio – l’ospitalità
 
Noi diciamo che San Giovanni di Dio ha ricevuto da Dio il dono straordinario di aprirsi nella sua vita completamente agli altri e ai loro bisogni e di rispondere a questi bisogni a qualunque costo.
 
Il termine cristiano con cui si designa solitamente questo dono specifico dello Spirito Santo è ‘carisma’. Noi abbiamo voluto definire l’apertura del nostro Santo verso gli altri e il suo sacrificarsi per loro come ospitalità. Pertanto noi affermiamo che San Giovanni di Dio ha ricevuto il carisma dell’ospitalità. 
 
Lo stesso carisma di San Giovanni di Dio
 
Ogni Fratello di San Giovanni di Dio viene confermato dalla Chiesa nella sua convinzione di aver ricevuto lo stesso carisma di San Giovanni di Dio, quando la Chiesa accoglie pubblicamente la sua professione dei voti religiosi e di quello speciale dell’ospitalità.
 
Il pensiero dominante a livello dell’Ordine, fino a poco tempo fa, è stato sempre quello che questo carisma apparte­nesse esclusivamente a noi e che non lo condividessimo con nessuno, anche se abbiamo sempre accettato l’aiuto di altri nell’esercizio del nostro carisma.
 
 
Distribuendoli a ciascuno come vuole
 
Negli ultimi tempi la teologia emergente, in materia di carisma, ci ha invece fatto prendere consapevolezza del fatto che lo Spirito Santo quale donatore di tutti i carismi “li opera, distribuendoli a ciascuno come vuole” (1 Cor 12, 11).
 
Pertanto noi oggi riconosciamo che il carisma dell’ospi­talità viene donato anche ad altri e scopriamo la sua presenza in molte delle persone con cui veniamo a contatto.
 
Noi religiosi ospedalieri non continuiamo più a considerare il nostro carisma gelosamente come un nostro monopolio.
 
Siamo felici di aver ricevuto questo carisma particolare.
 
Siamo felici, quando vediamo che anche altri lo hanno ricevuto.
 
Siamo felici, quando ci scopriamo strumenti nelle mani dello Spirito Santo per la trasmissione di questo carisma ad altri, siamo felici, quando riusciamo a incoraggiare altri ad esercitarlo.
 
 
Visione, traguardi e valori
 
Nel carisma dell’ospitalità si sono conservati e sviluppati ulteriormente la visione, i traguardi e i valori propri di San Giovanni di Dio.
 
Questa visione, questi traguardi e questi valori hanno oggi la stessa validità che avevano ai tempi di San Giovanni di Dio e della sua canonizzazione. 
 
  
IL CONCETTO DI ORDINE
 
La visione, i traguardi e i valori di San Giovanni di Dio, essendo un dono dello Spirito, non possono essere motivo di separazione, ma debbono essere motivo di comunione.
 
“Unità nell’ospitalità”
 
“Unità nell’ospitalità” – all’insegna di questo motto si è svolta l’ultima grande assemblea dell’Ordine, ossia il 62° Capitolo Generale, nel 1988.
 
Questo Capitolo Generale è stato particolarmente significativo, perché “per la prima volta nella storia dell’Ordine hanno partecipato ad esso otto collaboratori laici delle varie aree linguistiche” (4).
 
Come è stato sottolineato dagli stessi Capitolari nelle dichiarazioni elaborate alla conclusione del Capitolo, “questo è stato il modo chiaro per manifestare la considera­zione dell’Ordine per i numerosi uomini e donne che, insieme ai Confratelli, si impegnano ad alleviare e a porre rimedio alle sofferenze e alle necessità dei destinatari della nostra missione. Questo avvenimento conferisce alle presenti dichiarazioni una dimensione più universale” (5).
 
 
Una dimensione più universale
 
Il Capitolo Generale ha riconosciuto che l’Ordine oggi, volendo agire come San Giovanni di Dio avrebbe voluto vedere agire un Ordine nel suo nome, deve assumere una dimensione più universale di quella di un gruppo esclusivamente composto da uomini che hanno emesso la professione dei voti religiosi a norma delle Costituzioni dell’Ordine. Giovanni di Dio stesso era un modello in materia di collaborazione, tanto che invitava tutti, dal giovane Juan Bautista alla Duchessa di Sessa e le sue dame, ad aiutarlo nella sua opera.
 
Il servizio alla salute
 
Quando oggi nella prassi comune usiamo il termine ‘Ordine’, intendiamo tutte le persone che in qualche modo contribuiscono a portare avanti l’opera di San Giovanni di Dio nel mondo della salute.
 
Ovviamente c’è da considerare che il termine ‘Ordine’ ha un senso più strettamente giuridico e canonico. Ma una comprensione dell’Ordine che è limitata a considerazioni giuridiche e canoniche mal si addice alla realtà in cui viviamo e non riflette fedelmente la sua storia,
 
L’Ordine non è un corpo che deve la sua vita a teorie espresse in regolamenti e leggi applicate a particolari situazioni. Si tratta piuttosto di un movimento che trae le sue radici dall’esperienza vissuta da San Giovanni di Dio e dai suoi primi compagni che erano uomini e donne laici.
 
 
LO STATO FISICO DELL’ORDINE
 
Questa “unità nell’ospitalità” che ha portato alla nascita dell’Ordine e che costituisce oggi di nuovo un tratto distintivo della sua vita, risulta oggi essere presente ed attiva in 47 paesi di tutto il mondo.
 
            Delle 35.000 persone che fra religiosi, dipendenti, volontari e benefattori rappresentano oggi l’opera dell’Ordine su scala mondiale, 1.503 sono Fratelli di San Giovanni di Dio (1474 religiosi professi e 29 oblati).
 
I nostri confratelli, collaboratori, volontari e benefattori operano in complessivamente 226 centri e servizi assistenziali.
 
Tali centri e servizi sono composti da 43 ospedali generali, 41 ospedali psichiatrici e relativi servizi, 14 case di cura, 26 centri per anziani, 6 ospedali per lungodegenti, 32 centri e relativi servizi per handicappati mentali, 16 centri di riabilitazione per handicappati fisici e persone con disturbi sociali e 9 dispensari e consultori.
 
A questi si aggiungono 17 altri centri che offrono una variegata gamma di servizi e tra cui figurano 2 centri idroterapici, -3 centri per bambini con disturbi emotivi e 8 asili notturni.
 
Da alcuni anni l’Ordine promuove poi l’avvio e la realizzazione di “nuove forme dell’ospitalità”. In questo ambito sono state costituite sin ora 22 comunità che fuori della rete ufficiale dei servizi istituzionali si sono inserite in ambienti difficili, dove praticano uno stile di vita e operano in maniera tale che si può parlare giustamente di una presenza religiosa significativa e di un aiuto prezioso alla popolazione del luogo. In quattro casi un confratello vive da solo per portare avanti questa presenza e questo aiuto nel nome dell’Ordine.
 
Quotidianamente circa 40.000 persone ricevono assistenza nelle diverse strutture assistenziali e sociali dell’Ordine.
 
Credo che si può affermare tranquillamente che l’attività caritativa dell’Ordine non è mai stata così intensa come oggi.
 
 
SERVO E PROFETA
 
Come ho già accennato nell’introduzione, San Giovanni di Dio ha saputo plasmare e modellare, sotto la spinta della figura e degli insegnamenti di Gesù, la sua carità in una duplice direzione, vale a dire come servo e come profeta.
 
A seconda dei tempi è emerso di volta in volta con maggiore incisività o l’uno o l’altro di questi due aspetti della figura e dello spirito di San Giovanni di Dio.
 
San Giovanni di Dio non era soltanto l’umile e fedele servo dei poveri e degli ammalati. L’uomo povero di Granada sapeva anche mostrarsi quale profeta impavido della carità nella città e nel paese che aveva adottato come suo.
 
La sua vita rispecchiava tutti i tratti distintivi del profeta.
  
I tratti distintivi del profeta
 
Era posseduto e guidato dallo Spirito, “desiderando la salvezza di tutti come la sua stessa” (1GL, 12).
 
Era messaggero della Parola, portandola persino alle prostitute di Granada e predicando “più con opere vive che a parole” (Castro cap. XIX).
 
Era critico di fronte alle realtà umane trascurate e trovandosi egli stesso immerso in una di queste drammatiche realtà decise di aprire “un ospedale, dove raccogliere i poveri abbandonati e privi della ragione” (Castro cap. IX).
 
Annunciava ai poveri la loro dignità dando una casa a loro; nello stesso tempo aiutava altri a trovare lavoro e per altri ancora provvedeva a tutto il necessario mantenendo sempre la massima riservatezza (castro cap. XII).
 
Denunciava lo stato d’abbandono in cui versavano i poveri e gli ammalati e quando uno di questi moriva, non temette di ricordare ai ricchi i loro obblighi di carità in virtù del loro comune essere cristiani (O’Grady) (6).
 
Esortava sulle strade di Granada i cittadini della città a “fare del bene a loro stessi facendo del bene agli altri per amore di Dio” (Castro cap. XII).
 
Si dedicava con passione all’assistenza dei poveri. “Li cercava di notte, buttati giù per quei portici, intirizziti e nudi, piagati ed infermi.” E ancora: ‘Vedendone la moltitudine, mosso da grande compassione decise di procurar loro con maggiore impegno il rimedio” (Castro cap. XI).
 
Metteva di fronte i potenti, i ricchi e i nobili ai disagi e ai bisogni patiti dai poveri (Castro).
 
Difendeva i deboli. Agli infermieri dell’ospedale reale disse infatti: “Perché trattate così male e con tanta crudeltà questi poveri infelici e fratelli miei… Non sarebbe meglio che aveste compassione di essi e delle loro sofferenze, e li puliste e deste loro di mangiare con più carità ed amore…” (Castro cap. VIII).
 
Patì molti disagi per la fame, il freddo e la nudità… e doveva mendicare per mangiare e andava scalzo” (Castro cap.X).
 
Venne perseguitato, allorché percorreva le strade di Granada, da “ragazzi e una numerosa plebaglia, che gridando e schiamazzando e tirandogli sassi e fango ed altre molte immondizie cominciarono a seguirlo” (Castro cap. VIII).
 
Anche altri lo perseguivano e “lo motteggiavano o mormoravano di lui, dicendo che tutto era un ramo di pazzia, che gli era rimasto.., e che presto sarebbe crollato, perché non aveva fondamento. E oltre a ciò, gli tenevano gli occhi addosso, osservando le case nelle quali entrava ed informandosi di quanto ivi diceva e faceva, ed anche appostandosi in luoghi occulti” (Castro cap. XII).
 
Era il più disonorato tra i suoi, perlomeno secondo il suo giudizio, e quando alcuni si lamentarono per il tipo di gente che accoglieva e assisteva nella sua casa, rispose: “Io solo sono il cattivo, l’incorreggibile ed inutile, che merito di essere scacciato dalla casa di Dio” (Castro cap. XX).
 
Ancor’una volta intervenne a difesa dei più deboli dicendo: “I poveri che stanno nell’ospedale sono buoni, e di nessuno di essi io conosco alcun vizio”.
 
Sacrificava la sua vita, allorché, già molto malato e provato da terribili sofferenze, si gettò nel fiume Genil per salvare la vita ad un povero ragazzo che vi era caduto dentro e trascinato via dalla corrente. Questo tentativo di salvataggio gli sarebbe costato più tardi la vita (Castro cap. XX).
 
Così come in determinati periodi ci dobbiamo far guidare da San Giovanni di Dio nel servizio umile all’umanità sofferente, dobbiamo farci dimostrare da lui in altri periodi come essere profeti impavidi e attuali della carità.
 
A questo proposito mi posso soltanto associare a quanto detto da T.F.O’Meara: “Dobbiamo riscoprire il passato cercando di captare i suoi molti significati, affinché, partendo dal passato, possiamo attingere la forza per affrontare con coraggio il presente e proiettarci con slancio nel futuro. Qui sta la differenza tra la speranza cristiana intesa come dinamismo e la religiosità statica.”
 
Questo è stato anche il messaggio di un grande profeta del Vecchio Testamento, il quale ebbe a dire: “Fermatevi ai bivi e guardate, informatevi circa i sentieri del passato, dove sta la strada buona e prendetela, così troverete pace per le anime vostre” (“Ger 6, 16).
 
Quale migliore profeta ci può aiutare a scrutare i sentieri del passato e a individuare la strada buona verso il futuro, se non Giovanni di Dio?
 
 
LA VITA RELIGIOSA
 
In questo momento storico noi Fatebenefratelli, rivolgendo lo sguardo indietro ai sentieri che abbiamo percorso e alle opere che abbiamo compiuto e stiamo continuando a compiere per il Signore come servi e profeti, avremmo forse voluto sentire le seguenti parole indirizzate dal padrone al suo servo: “Bene, servo buono e fedele… prendi parte alla gioia del tuo padrone” (Mt 25, 21).
 
Ma il terzo centenario della canonizzazione del nostro santo Fondatore vede molti confratelli e molti dei nostri amici laici assaliti da un grande senso di confusione riguardo la vita religiosa, dato che la situazione in cui si trova, e il suo futuro non sembrano indurre all’entusiasmo.
 
Parte dell’edificio della Chiesa
 
Come fenomeno umano che fa parte dell’esperienza cristiana, non credo che vi possano essere dei dubbi sul fatto che la vita religiosa continuerà anche in futuro ad essere parte integrante dell’edificio della Chiesa. Se come guida ci affidiamo al passato, appare certo che ci saranno sempre degli uomini e delle donne il cui rapporto personale con Dio si può esprimere in maniera adeguata soltanto attraverso la vita consacrata vissuta in comunione con altri e posta al servizio del Regno,
 
Assodato ciò rimane ovviamente un ampio margine per discutere le forme, gli stili e le espressioni che la vita religiosa potrà o dovrà assumere. La vita religiosa nella Chiesa si è trovata sempre in un costante processo di evoluzione con i suoi alti e bassi.
 
Dopo il Secondo Concilio Vaticano
 
Coloro fra noi che hanno potuto sperimentare la vita nella Chiesa prima del Secondo Concilio Vaticano, sanno che la Chiesa e con essa la vita religiosa sono cambiate in una maniera che nessuno osava immaginare.
 
Accettazione, coinvolgimento e solidarietà
 
La Chiesa oggi non si considera più come qualcosa che sta sulla difensiva o addirittura in opposizione al mondo. Il suo atteggiamento si è andato sempre più improntando all’accettazione, al coinvolgimento e alla solidarietà. Pertanto non considera più il mondo come proprio nemico, ma come “la materia grezza del Regno di Dio” (S.M. Schneiders).
 
Questo sviluppo ha avuto ripercussioni drammatiche e di vasta portata per la vita religiosa. Esso ha provocato lo sgretolamento delle strutture istituzionali che spesso hanno permesso alla vita religiosa di funzionare come ‘un sistema chiuso’, come qualcosa di separato e non intaccato dalla società in cui era inserita.
 
Fino a poco tempo fa “i religiosi, nelle loro istituzioni e comunità, erano in grado di definire la realtà secondo i propri desideri e tali definizioni non venivano messe in questione. Così i religiosi potevano per esempio affermare che la povertà significava innanzitutto la dipendenza dai relativi permessi e che era perfettamente compatibile con la – ricchezza corporativa e le comodità personali. I religiosi potevano decidere liberamente, quale opera apostolica intraprendere, e nessuno esaminava le loro priorità” (7),
 
La sottocultura della vita religiosa intesa come sistema chiuso’ va rapidamente disintegrandosi. Oggi le parole e le azioni dei religiosi sono sottoposte costantemente all’esame e alla critica della società.
 
Le circostanze cambiate, così come le ho appena descritte, dimostrano chiaramente che:
 
1.    noi religiosi dobbiamo imparare a distinguere le strutture e le tradizioni, che conservano e trasmet­tono dei valori, da quelle che sono mere reminiscenze del vecchio sistema chiuso
 
2.    noi religiosi dobbiamo comunicare al mondo che la nostra vita ha un preciso significato e valore attuale che va oltre il mantenimento dello “status quo” o il rimpianto del passato;
 
3.    noi religiosi dobbiamo instaurare un nuovo rapporto con il mondo che non deve portare nè all’assimilazio­ne nè alla prosecuzione del nostro vecchio atteggia­mento di opposizione e di distacco.
 
La vita religiosa, di nuovo nelle mani del vasaio
 
In un’era come la nostra in cui il mondo intero è investito da trasformazioni sempre più rapide in campo sociale, demografico ed ecologico, tutto sembra indicare che la vita religiosa, così com’è stata vissuta dalla cristianità, debba tornare di nuovo nelle mani del vasaio, affinché egli rifaccia con essa un altro vaso, come ai suoi occhi pare giusto (Ger. 18, 4).
 
Alcuni aspetti salienti della vita religiosa oggi (8)
 
I fattori predominanti che caratterizzano oggi la vita religiosa e che sono comuni alla maggior parte degli istituti della vita consacrata, tra cui appunto anche al nostro Ordine, debbono essere letti come segni del tempo. Essi sono:
 
  1. 1)   un calo numerico significativo dei religiosi; 
  2. 2)   riduzione delle attività e espansione stagnante; 
  3. 3)   la nascita di nuovi gruppi ecclesiali; 
  4. 4)  sfiducia verso la vita religiosa da parte degli stessi religiosi.
 
Calo numerico
 
Negli ultimi venticinque anni, tra decessi, abbandoni e una perseveranza diminuita delle nuove vocazioni, i ranghi dei religiosi sono andati via via sfoltendosi. Nello stesso tempo i religiosi e le religiose che sono rimasti nei ranghi sono invecchiati.
 
Nel 1965 l’Ordine contava ancora 2.176 membri professi. Nell’arco di venticinque anni questo numero è sceso a 1.474. Ciò equivale a un calo di circa un terzo.
 
Riduzione delle attività e dell’espansione
 
E’ vero che la crescita e la diffusione dei servizi sanitari a livello generale e l’avvento di un rapporto di collaborazione più stretto tra religiosi e laici permettono oggi all’Ordine di aiutare tante persone come non era successo mai prima nella storia. Tale attività è rimasta tuttavia circoscritta alle nostre istituzioni esistenti.
 
Le strutture presenti dell’Ordine che dipendono in larga misura dalla presenza e dall’influenza dei confratelli rendono difficile l’avvio di nuove iniziative. -
 
Difatti se una tale iniziativa richiede la presenza di un numero, seppure minimo, di confratelli, siamo costretti o a declinare gli inviti che ci vengono rivolti ad espandere la nostra opera o a chiudere e/o a affidare alcuni dei nostri centri assistenziali ad altre organizzazioni.
 
La nascita di nuovi gruppi ecclesiali
 
Oggi molte persone, invece di indirizzarsi verso la vita religiosa, si sentono attratte da nuovi gruppi ecclesiali che come gli istituti religiosi offrono loro un determinato programma di preghiera e di servizio nonché i mezzi necessari per la propria crescita sul piano spirituale.
 
Queste persone hanno evidentemente la sensazione che all’interno di questi gruppi possano trovare più facilmente, che nelle comunità religiose, i due elementi essenziali dell’ideale comunitario che cercano, e cioè:
  • il senso del proprio valore
  • e il senso di essere parte integrante del gruppo (9).
 
Sfiducia nella vita religiosa dei religiosi stessi
 
Oggi fra i religiosi si nota un diffuso senso di scoraggiamento. Molti di loro si chiedono, perché la forma di vita che essi amano e hanno scelto esercita un’attrazione così debole sugli uomini e sulle donne di questo tempo.
 
Alcuni credono addirittura che per l’antichità delle nostre istituzioni e per la perdita del nostro entusiasmo carismatico iniziale non siamo più in grado di mettere a disposizione dei nostri membri mezzi adeguati per la loro santificazione, credono che siamo mal equipaggiati per affrontare le nuove sfide apostoliche e che le nostre strutture non facilitano un impegno radicale evangelico in povertà e in fedeltà ai segni del tempo” (José Cristo Rey Garcia Paredes).
 
Nei convegni in cui ci si interroga sulla situazione attuale della vita religiosa, si sente spesso dire che è più facile fondare un nuovo istituto religioso, che rinnovare uno vecchio. Le cause dell’attuale crisi vengono attribuite in generale al fatto che i sentieri di una volta non sono più percorribili, mentre quelli nuovi non sono ancora sufficien­temente chiari.
 
Segni di estinzione o segni del tempo?
 
Alcuni tendono a interpretare i fatti che ho appena delineato come segni inequivocabili che la vita religiosa va estinguendosi e che altri gruppi prenderanno il suo posto all’interno della Chiesa e nel servizio al popolo di Dio.
 
Quello che sta succedendo, in realtà è che noi religiosi siamo chiamati a ricollocarci all’interno di una Chiesa che guarda sempre di più all’esterno (José Cristo Rey Garcia Paredes).
 
E in questo contesto siamo soprattutto chiamati a entrare in un nuovo rapporto con gli altri membri della Chiesa, in particolar modo con i laici.
 
Vedendo cessare noi religiosi il nostro ruolo di figure di comando nella missione della Chiesa, abbiamo preso coscienza come il Signore della messe, in una maniera che noi non ci saremmo mai immaginato, abbia già risposto tutto questo tempo alla nostra preghiera “perché mandi operai per la sua messe” (Lc. 10, 2).
 
Il calo numerico dei religiosi e la riduzione delle nostre attività insieme alla nascita di altri gruppi ecclesiali e la necessità che i religiosi riacquistino la fiducia nella vita religiosa ci mettono di fronte ad una realtà che ci aiuta a riconoscere una verità che altrimenti forse non saremmo riusciti a riconoscere. Questa verità è:
 
Il carisma della vita religiosa non è determinato nè dal numero dei religiosi, nè dal prestigio e dall’efficienza delle sue istituzioni e dei suoi servizi e nè dalle alte cariche che i suoi membri raggiungono nella società o nella Chiesa.
 
Ma se la vita religiosa non è più determinata dai criteri, ai quali ci siamo abituati, da che cosa sarà determinata in futuro?
 
 
IL FUTURO
 
Mentre nessuno può rivendicare la facoltà di prevedere il futuro della vita religiosa, in tutto il mondo i religiosi stanno identificando alcuni movimenti che sembrano di grande importanza per ciò che concerne lo sviluppo futuro della vita religiosa.
 
1.     Testimonianza profetica
 
Una cosa che sembra abbastanza chiara è che i religiosi in futuro saranno chiamati sempre di più a giocare un ruolo profetico nella Chiesa e nella società.
 
Questo è anche il motivo per cui, all’inizio di questo discorso, ho dedicato tanto spazio alla dimensione profetica della vita e dell’opera di San Giovanni di Dio,
 
Mediante il suo essere profeta chiamò sia la Chiesa che la società, che ambedue si perdono volentieri nei propri piani, ad attendere prima di tutto al disegno di Dio.
 
Animati dallo stesso spirito noi Fatebenefratelli non permetteremo mai che il nostro servizio ai poveri e agli ammalati diventi un tranquillante per la società, ma faremo di tutto, affinché il nostro servire, in qualunque forma esso venga attuato, serva “per la loro promozione, impegnandoci evangelicamente contro ogni forma di ingiustizia e manipolazione umana e collaborando al dovere di risvegliare le coscienze di fronte al dramma della miseria” (Cost. l2c).
 
2.     Atteggiamento contemplativo verso la vita
 
La dimensione contemplativa assumerà una valenza sempre più importante nella vita religiosa.
 
Il modo in cui San Giovanni di Dio ha contemplato il mondo lo ha portato a vederlo sempre di più come lo vede Dio e a comprendere sempre più in profondità il significato della sofferenza e del dolore. 
 
Noi saremo portati a vedere le nostre comunità sempre di più come centri di spiritualità, come luoghi in cui si speri­menta Dio e in cui anche i laici potranno pregare e interrogarsi sul significato della loro vita.
 
3.     I poveri e gli emarginati al centro del nostro servizio
 
I religiosi concentreranno le loro risorse spirituali, materiali e umane sul servizio ai poveri.
 
Il nostro orientamento di fondo è già quello di rispondere ai bisogni dei poveri, qualunque essi siano. La risposta a questi bisogni potrà anche portare a cambiamenti nelle strutture a favore dei poveri, degli ammalati e degli emarginati.
 
Facendo così ci faremo carico delle implicazioni che derivano dalla nostra chiamata di “essere voce di coloro che non hanno voce” e di fungere come loro interpreti nella società.
 
Scopriremo sempre di più la libertà derivante dai nostri voti di poter servire là dove altri non vogliono o non possono andare.
 
4.     Spiritualità dell’intregalità e dell’interconnessione globale
 
La contemplazione farà crescere nei religiosi la convinzione come la creazione formi un tutt’uno indivisibile.
 
Non ci batteremo soltanto per promuovere l’armonia tra i popoli, ma ci batteremo anche per promuoverla all’interno della creazione stessa. Dimostreremo più sensibilità per la questione ecologica e più responsabilità nell’uso delle risorse della terra.
 
Nel nostro campo specifico, vale a dire della salute, ci sforzeremo sempre di più a integrare all’insegna del Vangelo spiritualità e tecnologia.
 
5.     Vivere con poco
 
I religiosi continueranno a indirizzarsi verso uno stile di vita sempre più semplice rinunciando a tutte le cose non essenziali e accontentandosi del necessario.
 
Saremo sempre più coscienti che non siamo “padroni dei (nostri) beni temporali, ma solo rappresentanti e amministratori” (Cost. l00c).
 
Come religiosi il nostro ruolo nella missione della Chiesa sarà condizionato in maniera crescente dal fatto che potremo contare su sempre meno risorse materiali. Lo stile di vita e la configurazione delle comunità saranno determinati dalle esigenze della missione e non viceversa.
 
6.     Collaborazione con altri religiosi e i laici
 
I religiosi non vedono più l’antica dicotomia tra l’essere religioso e l’essere laico.
 
Il nostro Ordine ha già riconosciuto che le “numerose migliaia di uomini e donne che, come sacerdoti, religiosi o religiose, collaboratori laici, volontari e benefattori, partecipano con i confratelli nell’assistenza ai malati e ai bisognosi… manifestano l’amore di Dio per i deboli” (Capitolo Generale 1988).
 
Il Secondo Convegno Internazionale dei Collaboratori Laici dell’Ordine svoltosi nel 1988 ha permesso all’Ordine di raggiungere una nuova e più profonda dimensione nel rapporto tra laici e confratelli.
 
 
CONCLUSIONE
 
All’inizio del mio discorso ho detto che avrei tentato di mettere in risalto il messaggio che a mio avviso San Giovanni di Dio e la sua canonizzazione possono e vogliono trasmetterci oggi.
 
Per fare ciò ho parlato:
 
  • * del carisma dell’ospitalità;
  • * del nuovo concetto di Ordine;
  • * della situazione dell’Ordine;
  • * di San Giovanni di Dio come servo e profeta;
  • * della vita religiosa e
  • * del futuro.
  
IL CARISMA DELL’OSPITALITA’
 
Avrete notato che ho parlato del carisma dell’ospitalità come di una cosa che ci unisce come confratelli, e come cristiani collegando le nostre vite attraverso una visione comune, traguardi comuni e valori comuni.
 
La nostra visione è quella di un mondo trasformato dal “Cristo compassionevole e misericordioso del Vangelo” (Cost. 2a) la cui “presenza manteniamo viva nel tempo” (Cost. 2c).
 
Il nostro traguardo è di entrare nelle vite dei poveri, degli ammalati e degli emarginati, affinché “la nostra vita (diventi per loro) segno e annuncio della venuta del regno di Dio” (Cost. 3b).
 
I nostri valori comuni sono numerosi, ma questo non è certo il momento più adatto per dilungarsi su di essi. E’ sufficiente dire che i più importanti di essi sono:
 
FEDE centrata sull’amore e sulla misericordia di Dio;
 
OSPITALITA’ manifestata attraverso un profondo affetto e una dedizione senza risparmio all’intera famiglia umana,
 
SENZA DISCRIMINAZIONE ALCUNA e con
 
RISPETTO PER I DIRITTI UMANI e la
 
DIGNITA’ E IL VALORE DELLA VITA.
 
ATTENZIONE VERSO I POVERI e i loro bisogni, attenzione che non mira soltanto ad alleviare la sofferenza, ma anche e soprattutto a promuovere
 
LO SVILUPPO E LA CRESCITA PERSONALE di tutti.
 
COLLABORAZIONE che si esprime
 
NELL’APERTURA VERSO I LAICI e nel
 
DESIDERIO DI COLTIVARE IL DIALOGO E LA COMPRENSIONE MUTUA.
 
GIUSTIZIA che si manifesta attraverso
 
L’ALTRUISMO e
 
IL SERVIZIO EFFICIENTE che a sua volta promuove
 
L’INIZIATIVA E LA CREATIVITA’.
 
SPIRITUALITA’ che implica il
 
RISPETTO PER LE CONVINZIONI ALTRUI.
 
 
Tutti questi valori possono essere riassunti
nel valore-chiave che noi abbiamo chiamato
 

UMANIZZAZIONE.

 
Valori ‘come stelle’
 
Questi sono, a mio modo di vedere, alcuni dei valori più significativi dell’Ordine. Essi costituiscono i principi e gli ideali che contrassegnano il nostro cammino. Naturalmente non pretendo che l’Ordine onori questi valori o dia loro il peso che meritano in ogni circostanza e in ogni luogo.
 
A questo proposito mi sembra opportuno più che mai ricordare il famoso detto di Montaigne: “Gli ideali sono come le stelle. Non li raggiungiamo mai. Ma come i marinai in alto mare tracciamo la nostra rotta con il loro aiuto.”
 
All’inizio del mio discorso ho detto che desideravo illustrare il messaggio che la figura di San Giovanni di Dio e la sua canonizzazione contengono per me.
 
Secondo me questo messaggio può essere letto in diverse direzioni:
 
CARISMA
 
Il carisma dell’ospitalità è un dono che lo Spirito Santo distribuisce generosamente tra il popolo di Dio per il suo bene.
 
San Giovanni di Dio ha ricevuto questo dono. Collabo­rando pienamente con esso la sua vita è stata trasformata da esso facendolo diventare guaritore e evangelizzatore di coloro che avevano più bisogno dell’amore misericordioso di Dio.
 
Noi abbiamo ricevuto lo stesso dono e siamo chiamati a lasciarci trasformare da esso.
 
Il carisma è un dono che unisce coloro che lo ricevono.
 
L’effetto unificante del carisma dell’ospitalità è uno dei mezzi che Dio ci ha voluto offrire per affrontare il futuro.
 
L’ORDINE
 
L’Ordine è un corpo all’interno della Chiesa che incarna la visione, i traguardi e i valori di San Giovanni di Dio.
 
Come tale l’ordine si sta avvicinando ad una visione di se stesso che non è più ristretta al nucleo dei suoi membri professi, ma assume sempre di più una dimensione universale.
 
Secondo questa visione l’Ordine è presente e, attivo nelle persone e nelle azioni di tutti coloro che contribui­scono a portare avanti l’opera di San Giovanni di Dio nell’assistenza e nella cura dei poveri, degli ammalati e degli emarginati.

 

 
LA SITUAZIONE ATTUALE DELL’ORDINE
 
Oggi l’Ordine attraverso 35.000 tra religiosi e laici sta assistendo e aiutando quotidianamente migliaia di persone, probabilmente tante persone come mai prima nella sua storia.
 
E’ in atto un movimento chiaramente tangibile che mira ad aggiornare le nostre modalità tradizionali di realizzare l’ospitalità e l’Ordine si sta impegnando attivamente in nuove forme dell’ospitalità.
 
L’esercizio dell’ospitalità ovviamente non può essere ristretto al numero dei religiosi che hanno seguito una precisa vocazione a questo titolo.
  
SERVO E PROFETA
 
Come Gesù San Giovanni di Dio ha agito sia come servo sia come profeta e anche noi siamo chiamati ad operare in questa duplice direzione.
 
Il nostro tempo sembra chiamarci con particolare insistenza a farci profeti della carità.
 
Come profeti della carità abbiamo il compito di ricordare, attraverso l’azione e la parola, alle strutture della Chiesa e del mondo che i poveri, i deboli e gli emarginati hanno indelebili diritti umani che derivano dalla loro umanità e che non possono essere cancellati adducendo come pretesto la loro “improduttività”.
 
Dovendo l’Ordine come la Chiesa essere costantemente in atteggiamento di rinnovamento e di conversione, deve ascolta­re e seguire le voci profetiche che si levano dalle proprie file, anche se tali voci ci dicono delle cose sul nostro modo di vivere e di agire che noi preferiremmo non sentire.
  
LA VITA RELIGIOSA
 
Le profonde trasformazioni che stanno sconvolgendo numerosi aspetti della vita religiosa non debbono essere interpretate come un disastro inspiegabile.
 
Se consideriamo i fatti con gli occhi della fede, ci rendiamo conto che la vita religiosa è di nuovo tornata nelle mani del vasaio, affinché egli la rimodelli, come pare giusto a lui.
 
Il carisma della vita religiosa non è determinato dal numero dei religiosi, dal prestigio che godono o dall’efficienza delle loro istituzioni e dei loro servizi.
 
E’ determinato invece dal valore della testimonianza evangelica che i religiosi offrono al mondo e in particolare ai poveri, agli ammalati e agli emarginati di questo mondo.
 
 
IL FUTURO
 
La visione, i traguardi e i valori di San Giovanni di Dio e del suo Ordine non hanno perso nulla della loro validità e freschezza. Essi trovano espressione nel carisma dell’ospitalità, un dono di cui Dio non vorrà        mai privare il suo popolo.
 
Formando questo dono parte intima del patrimonio del popolo di Dio, esso continuerà ad essere esercitato. Nel futuro dell’ospitalità ci sarà anche spazio per noi. Ma non è uno spazio assicurato.
 
Si tratta piuttosto di uno spazio che vuole essere conquistato mediante una cooperazione instancabile con il dono dell’ospitalità e il suo donatore, una cooperazione che è stata vissuta e realizzata in maniera esemplare da San Giovanni di Dio.
 
Egli è stato fatto santo, perché ha saputo attingere a piene mani a questo dono trasmettendo la sua forza a tutti coloro che ne avevano bisogno e ai quali era destinato.
 
Questo anniversario ci ricorda e i costi e le glorie che comporta l’accettazione e la trasmissione di questo dono.
 
Come per San Giovanni di Dio il futuro per noi non è nè una promessa nè un avvenire dall’esito scontato, ma una sfida.
 

 

 
  
RIFERIMENTI
 
 
1.     Castro, Francesco, cap. 7.
 
2.     Pio XII, Discorso ai nuovi Cardinali, 20 febbraio 1946.
 
3.     Vedi le Dichiarazioni del Capitolo Generale Straordinario,
       1979.
 
4. Dichiarazioni del 62° Capitolo Generale, 1988, Introduzione.
 
5.    Ibid.                
 
6.     O’Grady, Benedict, “Sulle tracce di San Giovanni di Dio”, Roma, 1988.
 
7.     S.M. Schneiders 11114, “New Wineskins”, 1986, Paulist Press, New York.
 
8.         Questa sezione si basa in larga misura su un discorso tenuto da Padre José Cristo Rey Garcia Paredes dinanzi all’unione dei Superiori Generali sul tema “Laici e Religiosi nella Chiesa” il 23 maggio 1990.
 
9.    Cfr. Clark, David, “The Liberation of the Church”, 1984, Birmingham, NACCAN.   

IPS – GIOVANI – Insieme Per Servire

FATEBENEFRTELLI

 

- i giorni - le opere

  

 

” Maestro, dove abiti?”  

“Venite e vedete”  

 

Santo PadreTu es Petrus

 « Il giorno seguente, Giovanni era nuovamente là con due dei suoi discepoli. Fissato lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio».

E i due discepoli, avendolo sentito parlare, seguirono Gesù.

Ma Gesù voltatosi e vedendo che lo seguivano, disse loro: «Che cercate?».

Essi gli dissero: “Rabbi (che, tradotto, vuol dire maestro), dove abiti?”.

Gli disse loro: “VENITE E VEDETE“.

Essi dunque andarono e videro dove egli abitava, e stettero con lui quel giorno. Era circa l’ora decima » (Giovanni 1, 35-39)

E’ successo alle ore 4 di un pomeriggio. L’incontro è stato così determinante che l’Evangelista  Giovanni ha voluto sottolineare anche l’ora.

“Si non lavero tibi pedes, non habebis partem mecum”

La voce

di Papa

Benedetto XVI

Piazza San Pietro – Mercoledì, 22 marzo 2006

 Gli Apostoli, testimoni e inviati di Cristo

Cari fratelli e sorelle,

                                                                                    la Lettera agli Efesini ci presenta la Chiesa come una costruzione edificata “sul fondamento degli apostoli e dei profeti, avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù” (2, 29). Nell’Apocalisse il ruolo degli Apostoli, e più specificamente dei Dodici, è chiarito nella prospettiva escatologica della Gerusalemme celeste, presentata come una città le cui mura “poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello” (21, 14). I Vangeli concordano nel riferire che la chiamata degli Apostoli segnò i primi passi del ministero di Gesù, dopo il battesimo ricevuto dal Battista nelle acque del Giordano. Stando al racconto di Marco (1, 16-20) e di Matteo (4, 18-22), lo scenario della chiamata dei primi Apostoli è il lago di Galilea.

Gesù ha da poco cominciato la predicazione del Regno di Dio, quando il suo sguardo si posa su due coppie di fratelli: Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni. Sono pescatori, impegnati nel loro lavoro quotidiano. Gettano le reti, le riassettano. Ma un’altra pesca li attende. Gesù li chiama con decisione ed essi con prontezza lo seguono: ormai saranno “pescatori di uomini” (cfr Mc 1, 17; Mt 4, 19). Luca, pur seguendo la medesima tradizione, ha un racconto più elaborato (5, 1-11).

Esso mostra il cammino di fede dei primi discepoli, precisando che l’invito alla sequela giunge loro dopo aver ascoltato la prima predicazione di Gesù e sperimentato i primi segni prodigiosi da lui compiuti. In particolare, la pesca miracolosa costituisce il contesto immediato e offre il simbolo della missione di pescatori di uomini, ad essi affidata. Il destino di questi “chiamati”, d’ora in poi, sarà intimamente legato a quello di Gesù. L’apostolo è un inviato, ma, prima ancora, un “esperto” di Gesù. Proprio questo aspetto è messo in evidenza dall’evangelista Giovanni fin dal primo incontro di Gesù con i futuri Apostoli. Qui lo scenario è diverso. L’incontro si svolge sulle rive del Giordano. La presenza dei futuri discepoli, venuti anch’essi, come Gesù, dalla Galilea per vivere l’esperienza del battesimo amministrato da Giovanni, fa luce sul loro mondo spirituale.

Erano uomini in attesa del Regno di Dio, desiderosi di conoscere il Messia, la cui venuta era annunciata come imminente. Basta ad essi l’indicazione di Giovanni Battista che addita in Gesù l’Agnello di Dio (cfr Gv 1, 36), perché sorga in loro il desiderio di un incontro personale con il Maestro. Le battute del dialogo di Gesù con i primi due futuri Apostoli sono molto espressive. Alla domanda: “Che cercate?”, essi rispondono con un’altra domanda: “Rabbì (che significa Maestro), dove abiti?”.

La risposta di Gesù è un invito: “Venite e vedrete” (cfr Gv 1, 38-39). Venite per poter vedere. L’avventura degli Apostoli comincia così, come un incontro di persone che si aprono reciprocamente. Comincia per i discepoli una conoscenza diretta del Maestro. Vedono dove abita e cominciano a conoscerlo. Essi infatti non dovranno essere annun-ciatori di un’idea, ma testimoni di una persona. Prima di essere mandati ad evangelizzare, dovranno “stare” con Gesù (cfr Mc 3, 14), stabilendo con lui un rapporto personale. Su questa base, l’evangelizzazione altro non sarà che un annuncio di ciò che si è sperimentato e un invito ad entrare nel mistero della comunione con Cristo (cfr 1 Gv 1,3). A chi saranno inviati gli Apostoli?

Nel Vangelo Gesù sembra restringere al solo Israele la sua missione: “Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa d’Israele” (Mt 15, 24). In maniera analoga egli sembra circoscrivere la missione affidata ai Dodici: “Questi Dodici Gesù li inviò dopo averli così istruiti: “Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele”” (Mt 10, 5s.). Una certa critica moderna di ispirazione razionalistica aveva visto in queste espressioni la mancanza di una coscienza universalistica del Nazareno.

In realtà, esse vanno comprese alla luce del suo rapporto speciale con Israele, comunità dell’alleanza, nella continuità della storia della salvezza. Secondo l’attesa messianica le promesse divine, immediatamente indirizzate ad Israele, sarebbero giunte a compimento quando Dio stesso, attraverso il suo Eletto, avrebbe raccolto il suo popolo come fa un pastore con il gregge: “Io salverò le mie pecore e non saranno più oggetto di preda… Susciterò per loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo.

Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore; io, il Signore, sarò il loro Dio e Davide mio servo sarà principe in mezzo a loro” (Ez 34, 22-24). Gesù è il pastore escatologico, che raduna le pecore perdute della casa d’Israele e va in cerca di esse, perché le conosce e le ama (cfr Lc 15, 4-7 e Mt 18, 12-14; cfr anche la figura del buon pastore in Gv 10, 11ss.). Attraverso questa “raccolta” il Regno di Dio si annuncia a tutte le genti: “Fra le genti manifesterò la mia gloria e tutte le genti vedranno la giustizia che avrò fatta e la mano che avrò posta su di voi” (Ez 39, 21).

 

E Gesù segue proprio questo filo profetico. Il primo passo è la “raccolta” del popolo di Israele, perché così tutte le genti chiamate a radunarsi nella comunione col Signore, possano vedere e credere. Così, i Dodici, assunti a partecipare alla stessa missione di Gesù, cooperano col Pastore degli ultimi tempi, andando anzitutto anche loro dalle pecore perdute della casa d’Israele, rivolgendosi cioè al popolo della promessa, il cui raduno è il segno di salvezza per tutti i popoli, l’inizio dell’universalizzazione dell’Alleanza.

Lungi dal contraddire l’apertura universalistica dell’azione messianica del Nazareno, l’iniziale restringimento ad Israele della missione sua e dei Dodici ne diventa così il segno profetico più efficace. Dopo la passione e la risurrezione di Cristo tale segno sarà chiarito: il carattere universale della missione degli Apostoli diventerà esplicito. Cristo invierà gli Apostoli “in tutto il mondo” (Mc 16, 15), a “tutte le nazioni” (Mt 28, 19; Lc 24, 47, “fino agli estremi confini della terra” (At 1, 8). E questa missione continua. Continua sempre il mandato del Signore di riunire i popoli nell’unità del suo amore.

Questa è la nostra speranza e questo è anche il nostro mandato: contribuire a questa universalità, a questa vera unità nella ricchezza delle culture, in comunione con il nostro vero Signore Gesù Cristo.

Dedicato a chi è in ricerca di che cosa fare della propria vita

 Hokusai

 

Una storia d’amore cominciata così

Quando mi è stato chiesto di scrivere una testimonianza sul mio cammino vocazionale ho subito pensato alla difficoltà dell’impresa: la difficoltà di esprimere a parole non solo ciò che ho vissuto, ma anche e soprattutto quello che sento nel cuore.

La mia avventura è iniziata più o meno un anno fa. Ero uscita dall’estate moralmente a pezzi: avevo impegnato tutte le mie energie nello studio degli ultimi esami, sacrificando anche i giorni di vacanza, e mi ero ritrovata a chiedermi tanti perché. Perché mi sentivo così impaurita e disorientata, ora che stavo finendo gli esami e mi avviavo alla tesi? Perché mi sembrava di non capire più il senso dei miei studi? Perché mi sentivo fuori posto e infelice? Mi sembrava davvero di avere un po’ smarrito il senso della mia vita, la sentivo vuota e non mi sentivo importante per nessuno.

Il fatto è che, in quel periodo, non parlavo con nessuno di questo disagio: avevo trascorso tutta la mia vita in oratorio, eppure a 24 anni non sapevo neanche cosa fosse una guida spirituale! Mi richiudevo così su me stessa e combattevo da sola con i miei dubbi e il mio senso di inferiorità; non mi sentivo amata da nessuno, almeno non con quell’amore vero che ogni ragazza sogna per la sua vita.
Poi un giorno il Signore mi aprì un piccolo varco: mi diede l’opportunità di andare ad Assisi a fine agosto, per accompagnare i ragazzi di terza media per la professione di fede. Io non lo sapevo ancora, ma quello sarebbe stato il viaggio che avrebbe cambiato la mia vita. Entrai nell’atmosfera di Assisi con un cuore pesante e ne uscii con una speranza forte, e tutto questo grazie ad un giovane come me.

 
Avevamo infatti organizzato un incontro con un giovane frate francescano. Mentre parlava la mia mente ed il mio cuore cominciarono ad agitarsi e cominciai a provare “invidia”: come faceva ad essere così gioioso? Cosa aveva trovato di così importante? Come aveva fatto ad essere felice? E così gli feci una semplice domanda: “Come si fa a capire cosa fare della propria vita?”. Lui mi rispose che aveva iniziato la sua ricerca grazie ad un corso vocazionale, un corso di discernimento in cui ti insegnano ad interpretare i segnali che il Signore manda nella tua vita per farti capire la sua volontà su di te. Beh, almeno ora sapevo da dove dovevo iniziare! Tornata a casa chiesi al mio parroco di indicarmi qualcuno di questi corsi e lui mi consigliò di iscrivermi al Gruppo Samuele.

A dire la verità, ci misi un po’ prima di decidermi: “corso vocazionale” mi sembrava una cosa un po’ grande, voleva dire meditazioni, guida spirituale, letture spirituali…tutte cose che non avevo mai fatto e che mi facevano un po’ paura…accidenti, mica mi volevo far suora!

ro Signore Gesù Cristo.

Poi, parlando con altre ragazze che già l’avevano frequentato, mi tranquillizzai un po’; mi dissero che era un corso bellissimo, che apriva la strada a tutte le vocazioni: al matrimonio, alla consacrazione, all’impegno laico nel sociale o nella politica. Insomma, alla fine il Signore, attraverso queste persone, mi convinse ad iscrivermi.

Cominciai il corso a novembre e subito mi sembrò molto bello: il predicatore era davvero bravo e, quando lo sentivo parlare, sembrava parlasse proprio a me! Scoprii molti altri ragazzi che, come me, erano in ricerca di un senso della vita e di quella felicità che può dare solo la realizzazione della propria vocazione…il problema era capirla, questa vocazione!

Il corso continuò, con un incontro al mese. Passai in mezzo a giorni pieni di voglia di pregare e in giorni in cui ne avrei proprio fatto a meno, ma non volevo mollare, volevo andare fino in fondo, ne avevo bisogno. Gli incontri mi aprirono la mente, piano piano diventavo più “esperta” nelle meditazioni e negli incontri con la guida spirituale e cominciavo a fare chiarezza e un po’ di ordine nella mia testolina sempre in movimento.
 
 

E poi cominciai ad abbandonarmi al Signore: non tentavo più di aggrapparmi alla immagine di vita che mi ero fatta io, ma a poco a poco mi misi ad aspettare che Lui mi dicesse cosa aveva in mente per me. Il dubbio di essere sulla strada della consacrazione più che su quella del matrimonio cresceva sempre di più. Sentivo di non desiderare di donare il mio amore, la mia vita ad una singola persona, ma di essere fatta dal Signore per amare tutti.
Quando mi resi conto di questo cominciai davvero ad agitarmi: non è facile accettare un pensiero come questo, soprattutto mentre si sta finendo l’università e già ci si immaginava tutta un’altra strada!

Andai a parlare con il sacerdote che seguiva il Gruppo Samuele, che mi aiutò nel discernimento e mi disse di intensificare sempre di più la preghiera per chiedere a Gesù, se voleva, di innamorarsi pure di me. E così feci, giorno dopo giorno, fino ad un ritiro per il Triduo Pasquale in cui mi sorpresi ad amare Gesù! Ma non un amore amichevole, un vero e proprio innamoramento in piena regola! Lo so che forse non è proprio l’espressione più adatta ed è difficile da spiegare. Io sentivo di amare quest’uomo eccezionale proprio come una qualsiasi ragazza ama il suo ragazzo, con l’unica differenza che io non lo potevo né toccare né vedere, eppure sapevo che c’era!

Ora, dopo tutte queste emozioni, immaginate in che condizioni ero: avevo dentro un misto di gioia, di confusione, di paura a mille! La mia guida spirituale mi stette vicino e mi aiutò, passo per passo, ad affrontare questa nuova condizione, aiutandomi a verificare di continuo, nella preghiera, la volontà del Signore.
E alla fine mi ritrovai con la consapevolezza che ormai ero davvero destinata al Signore: mi abbandonai al suo volere, al suo abbraccio e mi sentii davvero tanta felicità dentro. Finalmente sapevo cosa dovevo fare! Sapevo dove sarei stata felice: in una vita spesa per il Signore.

 Volevo essere uno strumento nelle mani di Gesù per poter portare tra la gente un po’ del suo immenso amore per noi; volevo far capire ai poveri, ai giovani e a tutti coloro che si erano persi che c’è speranza perché Dio ama ognuno di loro come suoi figli!


A questo punto mi rimaneva la scelta del luogo dove realizzare la mia vocazione. Con una laurea imminente non era facile decidere di lasciare tutto e ripartire da zero. Avrei dovuto rinunciare al lavoro, ma possibile che Dio, dopo anni di fatiche e di studio, mi chiedesse proprio questo? Allora cominciai a considerare la possibilità che la mia strada potesse essere indirizzata in una Comunità giovane, che avevo conosciuto da poco: le Sorelle del Signore.

 


Da settembre ad oggi ne ho passate di tutti i colori, però Gesù mi ha dato la forza di affrontare le difficoltà. Dopo la mia decisione mi ha sostenuto passo dopo passo nei momenti dolorosi degli addii ai genitori, alla sorella, alla famiglia, alla casa, agli amici, al paese, alla vita che è stata mia per 25 anni e che ora sarà del Signore.
Ed ora posso dire, ad una settimana dal mio ingresso in Comunità, di sentirmi davvero felice! È vero, sono solo all’inizio e dovrò ancora crescere e ripartire tutte le volte che il Signore me lo chiederà, perché non mi appartengo più, e questo dà una grande libertà!

Io non sono una grande esperta spirituale, né sono capace di dare grandi consigli, solo voglio dire a tutti i giovani come me di sperare nel Signore, perché ne vale la pena!

 


Quello che mi sento di dire è di pregare: a volte sembra che sia tempo perso, eppure, se si vuole trovare Dio e se stessi, la strada passa da lì, da quel silenzio, interiore ed esteriore, che tanto manca nella nostra vita senza pause. Se sentite di dover fare qualcosa per la vostra vita, se sentite il desiderio di fare un salto, un passo in più, chiedete al Signore nella preghiera di accompagnarvi e buttatevi! Non ci perdete davvero niente, perché se cadete Dio vi rialza sempre, e se invece trovate lo scalino giusto avete fatto un passo in più verso la felicità!
Certo, ci vuole coraggio, bisogna fidarsi di Gesù, che è l’unica persona che non abbandona mai! Noi siamo quei giovani in cui il Signore crede: Lui ha preparato per ognuno di noi una vita diversa e bellissima, non lasciamoci sfuggire l’occasione! Possiamo davvero cambiare il mondo, se lo vogliamo, ognuno secondo le sue capacità, mettendo a disposizione dei fratelli quello che ha, anche nelle cose più piccole.


Beh, se siete arrivati fino qui a leggere complimenti! Lo so che sono stata un po’ lunga, ma vi assicuro che riassumere un anno così intenso non è facile. Spero solo di aver dato una testimonianza delle cose belle che il Signore può fare e di aver magari dato un piccolo aiuto a chi ne sentiva il bisogno.
Spero di poter ancora partecipare, almeno in parte, agli incontri del gruppo di volontariato. Comunque prometto che seguirò tutte le iniziative, e se non ci sarò con il corpo ci sarò sicuramente con il cuore!

Perciò, se si vuole vivere davvero, credo che ognuno di noi debba prendere la propria vita, rimboccarsi le maniche e seguire il proprio cuore, perché se si perde il momento giusto si rischia davvero di trovarsi, dopo anni, ancora insoddisfatti ed irrealizzati, solo perché non si è avuto il coraggio di fare un passo in più, di dire un sì o un no al momento giusto.“Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò.” (Mt 11, 28)…ce lo dice Gesù e vi assicuro che è vero, anche se a volte, in mezzo alla desolazione ed al vuoto di senso, è davvero difficile crederlo.Questa Comunità è nata solo sette anni fa ed è composta da giovani ragazze consacrate che vivono in piccole comunità da quattro o cinque. Ognuna mantiene il suo lavoro, vivendo nelle città, tra la gente comune, portando quel Gesù che hanno nel cuore sul posto di lavoro o di studio, in mezzo ai giovani, in mezzo ai poveri.
Ho iniziato quindi un cammino con la madre della Comunità e sono partita ad agosto per il Kenya con un pensiero nel cuore: quello di decidere, stando a stretto contatto con i poveri, se dovevo dire il mio sì al Signore in modo definitivo, se quello che Lui desiderava per me era una vita spesa per Lui e per il prossimo… E sono tornata dall’Africa con un sì nel cuore convinto e gioioso!

CIAO !!!!!!!!!  Valeria

 

UN AVVENTURIERO

 

ILLMINATO

Questa è la storia per immagini di un avventuriero illuminato che avrebbe avuto bisogno di incontrare un San Giovanni di Dio e lo trovò in se stesso…

San Giovanni

Chi è l’uomo ?

ECCE HOMO !

Da questa domanda che interpella tutti,  alla tutela del debole e dell’indifeso, embrione compreso.

Riflessione del Card. Ratzinger al Movimento per la Vita italiano, raccolto in “L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture” (Edizioni Cantagalli, Siena 2005), pubblicato su Avvenire del 21-6-2005.

Nella sua prefazione al noto libro del biologo francese Jacques Testart, L’œuf transparent, il filosofo Michel Serres (apparentemente un non credente), affrontando la questione del rispetto dovuto all’embrione umano, si pone la domanda: “Chi è l’uomo?”. Egli rileva che non vi sono risposte univoche e veramente soddisfacenti nella filosofia e nella cultura. Tuttavia egli nota che noi, pur non avendo una definizione teorica precisa dell’uomo, comunque nell’esperienza della vita concreta chi sia l’uomo lo sappiamo bene.

Lo sappiamo soprattutto quando ci troviamo di fronte a chi soffre, a chi è vittima del potere, a chi è indifeso e condannato a morte: “Ecce homo!”. Sì, questo non credente riporta proprio la frase di Pilato, che aveva tutto il potere davanti a Gesù, spogliato flagellato coronato di spine e ormai condannato alla croce: Chi è l’uomo? È proprio il più debole e indifeso, colui che non ha né potere né voce per difendersi, colui al quale possiamo passare accanto nella vita facendo finta di non vederlo. Colui, al quale possiamo chiudere il nostro cuore e dire che non è mai esistito.

E così, spontaneamente, ritorna alla memoria un’altra pagina evangelica, che voleva rispondere a una simile richiesta di definizione: “Chi è il mio prossimo?”. Sappiamo che per riconoscere chi è il nostro prossimo occorre accettare di farsi prossimo, cioè fermarsi, scendere da cavallo, avvicinarsi a colui che ha bisogno, prendersi cura di lui. “Ciò che avrete fatto al più piccolo di questi miei fratelli lo avrete fatto a me” (Mt 25, 40).

Vorrei leggervi un brano di un grande pensatore italo-tedesco, Romano Guardini:

  • È così anche chiaro che lo sguardo che liberamente accetto di volgere all’altro decide della mia stessa dignità. Così come posso accettare di ridurre l’altro a cosa, da usare e distruggere, allo stesso modo devo accettare le conseguenze di questo mio modo di guardare, conseguenze che si ripercuotono su di me. “Con la misura con cui misurate, sarete misurati”.

  • Lo sguardo che porto sull’altro decide della mia umanità. Posso trattarlo semplicemente come cosa nella dimenticanza della sua e della mia dignità, del suo e mio essere immagine e somiglianza di Dio. L’altro è custode della mia dignità. Ecco perché la morale, che inizia da questo sguardo sull’altro, custodisce la verità e la dignità dell’uomo: l’uomo ne ha bisogno per essere se stesso e non smarrire la sua identità nel mondo delle cose.

  • Vi è un ultimo, decisivo passo da compiere nella nostra riflessione, un passo che ci riconduce al brano della Gene si da cui siamo partiti. Come è possibile all’uomo questo sguardo capace nello stesso tempo di cogliere e rispettare la dignità dell’altra persona e di garantirgli la propria? Il dramma del nostro tempo consiste proprio nell’incapacità di guardarci così, per cui lo sguardo dell’altro diventa una minaccia da cui difenderci.

  • In realtà la morale vive sempre inscritta in un più ampio orizzonte religioso, che ne costituisce il respiro e l’àmbito vitale. Fuori di questo àmbito essa diventa asfittica e formale, si indebolisce e poi muore. Il riconoscimento etico della sacralità della vita e l’impegno per il suo rispetto hanno bisogno della fede nella creazione come loro orizzonte: così come un bambino può aprirsi con fiducia all’amore se si sa amato e può svilupparsi e crescere se si sa seguito dallo sguardo di amore dei suoi genitori, allo stesso modo anche noi riusciamo a guardare gli altri nel rispetto della loro dignità di persone se facciamo esperienza dello sguardo di amore di Dio su di noi, che ci rivela quanto è preziosa la nostra persona. “E Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza [...]. E Dio vide quanto aveva fatto: ed ecco, era cosa molto buona” (Gn 1, 26. 31).

Il cristianesimo è quella memoria dello sguardo di amore del Signore sull’uomo, nel quale sono custoditi la sua piena verità e la garanzia ultima della sua dignità.

  • Il mistero del Natale ci ricorda che nel Cristo che nasce ogni vita umana, fin dal suo primo inizio, è definitivamente benedetta e accolta dallo sguardo della misericordia di Dio.

  • I cristiani sanno questo e stanno con la propria vita sotto questo sguardo di amore;

  • ricevono con ciò stesso un messaggio che è essenziale per la vita e il futuro dell’uomo.

  • Allora essi possono assumere oggi con umiltà e fierezza il lieto annunzio della fede, senza del quale l’esistenza umana non sussiste a lungo. In questo compito di annuncio della dignità dell’uomo e dei doveri di rispetto della vita che ne conseguono, essi saranno probabilmente derisi e odiati, ma il mondo non potrebbe vivere senza di loro.

VITE E TRALCI

TRALCI

DI UN’UNICA VITE

  • PER PROMUOVERE LA SALUTE (coinvolgimento di tutte le componenti del popolo di Dio nella pastorale della salute) n.4

  • PER DARE VOCE ALLE CHIESE LOCALI (sostenere l’integrazione della pastorale sanitaria nella pastorale d’insieme delle comunità cristiane) n.4

  • PER EDUCARE ALLA “SPERANZA CHE NON DELUDE (progettualità…itinerari formativi) n.4

  • E’ l’ora di una nuova “fantasia della carità”… (Giovanni Paolo II in Novo millennio ineunte) “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme” (1 Cor 12,26)


  • “La compagnia autentica è quella che nasce quando uno incontra un altro che ha visto qualche cosa di giusto, di bello e di vero, e glielo dice, e siccome anche lui desidera il giusto, il bello e il vero, si mette insieme.” (Don Giussani)

  • Nella foto: Claudia Koll

NOI SIAMO CHIESA

  • Tanto si ha lo Spirito Santo,

  • quanto si ama la Chiesa.

  • “Se vedi la carità,

  • vedi la Trinità.” (S.Agostino)

“…Il primo frutto della approfondita coscienza della Chiesa su se stessa è la rinnovata scoperta del suo vitale rapporto con Cristo. Notissima cosa, ma fondamentale, ma indispensabile, ma non mai abbastanza conosciuta, meditata, celebrata. Che cosa non si dovrebbe dire su questo capitolo centrale di tutto il nostro patrimonio religioso?

  • …Non ci ha detto Gesù stesso ch’ Egli è la vite e noi siamo i tralci?
  • Non abbiamo noi davanti alla mente tutta la ricchissima dottrina di San Paolo, il quale non cessa dal ricordarci: “Voi siete una cosa sola in Cristo”?
  • e dal raccomandarci: “…che cresciamo sotto ogni aspetto verso di Lui, che è il capo, Cristo;
  • dal quale tutto il corpo…”?
  • e dall’ammonirci: “tutto e in tutti è Cristo”?

Ci basti, per tutti, ricordare fra i maestri S. Agostino:

  • “…Rallegriamoci e rendiamo grazie, non solo per essere divenuti cristiani, ma Cristo.

  • Vi rendete conto, o fratelli, capite voi il dono di Dio a nostro riguardo?

  • Siate pieni di ammirazione, godete: noi siamo divenuti Cristo. Poiché se Egli è il capo, noi siamo le membra: l’uomo totale, Lui e noi… La pienezza dunque di Cristo: il capo e le membra.

  • Cosa sono il capo e le membra? Cristo e la Chiesa”. (Paolo VI)

Dio della luce, nella notte abbiamo accolto il tuo invito, ed eccoci alla tua presenza:

  • manda il tuo Spirito santo su di noi, perché

  • attraverso l’ascolto delle Scritture riceviamo la tua Parola,

  • attraverso la meditazione accresciamo la conoscenza di Te,

  • e attraverso la preghiera contempliamo il volto amato di tuo figlio Gesù Cristo, nostro unico Signore.

  • Con Maria, rendici protagonisti del Magnificat sulla scena di questo mondo. Amen.

 

“CHE COSA CERCATE?”

“VENITE E VEDRETE…”(Gv 1, 35-39) Al pozzo di Samaria, la donna andava a prendere solo dell’acqua e invece ha incontrato Gesu’. Non si aspettava certo d’incontrarlo, ma l’ha incontrato!

”Siate  meglio  che potete,  fratelli”

“Fate bene quello che sapete fare”

“Non si è cristiani perché soltanto i cristiani giungono a salvarsi, ma si è cristiani perché la diakonia cristiana è significativa e necessaria nei confronti della storia” (Joseph Ratzingher in Introduzione al cristianesimo).

NON ABBIATE PAURA !

Aprite, anzi  spalancate le porte a Cristo! Al suo potere salvifico.

Aprite le frontiere, i sistemi economici e politici,

i vasti campi della cultura, della civilta’ e dello sviluppo!

Guarite i malati che trovate, e dite loro :«Il regno di Dio ora è vicino a voi».(Lc 10,9)

Karol Wojtyla

La nostra è una società spesso ripiegata su se stessa e chiusa dentro gli orizzonti immediati di un “tempo presente” da consumarsi, mentre bisognerebbe gardare oltre, oltre il “tempo presente”, verso nuovi approdi, verso nuove sfide, come ci ha educati Giovanni Paolo II.

Noi, COMPAGNIA DEI GLOBULI ROSSI,  non vogliamo rinunciare a investire sul nostro futuro ma tendere verso nuovi traguardi, puntare su alcuni grandi obiettivi per l’umanità.

Ci sta principalmente a cuore la sofferenza del mondo in tutte le sue espressioni.

CRESIMATI

Rallegriamoci e rendiamo grazie, non solo per essere divenuti cristiani, ma Cristo!

SIGNORE, è capace di andare oltre il “tempo presente” solo chi è capace di sognare, di sperare, di soffrire per un futuro migliore. Perciò, Signore,

  • donaci occhi e cuore che  guardino lontano, in una dimensione che non sia la nostra di tutti i giorni.

  • Fa che urga in noi quell’ “inafferrabile”  che non riusciamo a cogliere quando siamo presi dai nostri schemi, dalle nostre faccende, dai nostri interessi.

  • Non ci importa tanto di essere compresi o incompresi quanto invece di essere approvati da Te che scruti nel cuore e conosci i pensieri più reconditi.

  • Fa che convivano in noi Marta e Maria perchè la prima si renda conto che la seconda forse non è una brava massaia, ma rappresenta quella luce che non si può spegnere se non si vuole, prima o poi, perdere la strada.

  • Fa di noi donne e uomini che hanno nel Vangelo la loro ispirazione, testardi testimoni dell’amore per Te, o Cristo,  e quindi per l’uomo, amato proprio come Tu ci hai amati.

  • Fai di noi una Chiesa di “poveri”, saldamente radicati alla tua Parola, unica ricchezza, e donaci una volontà in fedeltà creativa al Concilio, al Magistero della Chiesa e ai segni dei tempi da discernere per mezzo del Tuo Santo Spirito.

  • Siamo nel mondo, ma non del mondo. Memori delle Tue promesse, fai di noi una cosa sola :

20“Io non prego soltanto per questi miei discepoli, ma prego anche per altri, per quelli che crederanno in me dopo aver ascoltato la loro parola.

21Fa’ che siano tutti una cosa sola: come tu, Padre, sei in me e io sono in te, anch’essi siano in noi. Così il mondo crederà che tu mi hai mandato.

22“Io ho dato loro la stessa gloria che tu avevi dato a me, perché anch’essi siano una cosa sola come noi: 23io unito a loro e tu unito a me. Così potranno essere perfetti nell’unità, e il mondo potrà capire che tu mi hai mandato, e che li hai amati come hai amato me.

24Padre, voglio che dove sono io siano anche quelli che tu mi hai dato, perché vedano la gloria che tu mi hai dato: infatti tu mi hai amato ancora prima della creazione del mondo.

25“Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto ed essi sanno che tu mi hai mandato.

26Io ti ho fatto conoscere a loro e ti farò conoscere ancora; così l’amore che hai per me sarà in loro, e anch’io sarò in loro”. (Giov 17, 20-26)

Benedetto XVI ci presenta il mondo per quello che è:

La fede non è una corazza fatta di certezze.

Il credente esercita la sua fede nell’oceano del nulla, della tentazione e del dubbio:

questo oceano della incertezza è il solo luogo in cui egli possa esercitare la fede.”

(Card. Joseph Ratzinger)

SAN RICCARDO PAMPURI O.H.

Il suo è “un cuore che vede“.

(Benedetto XVI, Deus Caritas est n.11)

IL GIOVANE CUORE DI SAN RICCARDO PAMPURI:

un cuore nel Cuore.

Per chiedere grazie aL santo medico o lasciare richieste di preghiere:

AMBULATORIO http://compagniadeiglobulirossi.splinder.com

 

 

 L’amico in Cielo

(Il  primo  dei Fatebenefratelli

a dare la sua adesione alla COMPAGNIA…)

“Vi leggo sempre.

Almeno una volta tanto scrivo,
per porgere i più cordiali auguri.
[di Pasqua]“.
Fra Raimondo Fabello o.h.

http://fraraimondo.splinder.com

PIERLUIGI MICHELI

medico di Dio nella città dell’uomo

” Eccomi! Sono pronto alla chiamata.” (P.Micheli)

http://www.tuoblog.it/pierluigimicheli/

CARLO MARIA MARTINI

Arcivescovo di Milano

UNA CHIESA DI SOGNI E DI VISIONI

Premessa

 

“…Coricatomi con questa ossessione, mi sono svegliato presto e sono andato a cercare lumi dal mio maestro, il Car. Carlo Maria Martini che considero il Direttore Spirituale della Compagnia, il quale ha parole illuminanti anche su questo punto.

A tal proposito, devo, solo per un momento, aprire una parentesi. Come forse avrai letto in altro punto del sito, il Card. Martini è l’ ispiratore della COMPAGNIA DEI GLOBULI ROSSI. Intendimi bene:

  • probabilmente lui non sa nemmeno della nostra esistenza;
  • epperò, la sua paternità spirituale ci ha generati;
  • il suo zelo pastorale ha suscitato ripensamenti, voglia di ri-cominciare, ri-partire, ri [e]cuperare, ri-educare…
  • Così che, mentre alla fonte dei suoi scritti spirituali ci dissetiamo,
  • contribuiamo almeno un poco a “tenere viva e presente la grande luce di fede e di intelligenza che, nel biblista e pastore Martini, Dio ha dato alla Chiesa e alla cultura del nostro tempo“. ( Brune Forte, Arcivescovo) “
  • La nostra è una Chiesa piena di sogni e di visioni. Sono frammentari, sbiaditi talvolta, ma ricalcano il grande sogno di Dio sull’uomo.

Il sogno di Compagnia dei Globuli Rossi si è manifestato nel contesto di Chiesa Ambrosiana, alla scuola del suo arcivescovo, il Cardinale Carlo Maria Martini, metropolita della Lombardia. Egli, intervenendo al Sinodo per l’Europa, il 7 Ottobre 1999, sviluppò il seguente tema: “…se, come e quando i nostri sogni possono diventare realtà”.

La Compagnia perciò,  memorizzando il sogno del suo mite Arcivescovo per la Chiesa del futuro, nel suo piccolo, prova a trovare il suo ruolo nella Chiesa e nel Mondo, consapevole che l’antica profezia mantiene intatta la sua attualità’:

Allora Pietro si alzò insieme con gli altri undici apostoli. A voce alta parlò così: “Uomini di Giudea e voi tutti che vi trovate a Gerusalemme: ascoltate attentamente le mie parole e saprete che cosa sta accadendo.

 

15 Questi uomini non sono affatto ubriachi, come voi pensate, – tra l’altro è presto: sono solo le nove del mattino. – 16 Si realizza invece quello che Dio aveva annunziato per mezzo del profeta Gioele.

17 Ecco – dice Dio – ciò che accadrà negli ultimi giorni:

  

 

 

 

  • manderò il mio Spirito su tutti gli uomini:
  • i vostri figli e le vostre figlie saranno profeti,
  • i vostri giovani avranno visioni,
  • i vostri anziani avranno sogni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  • 18 Su tutti quelli che mi servono, uomini e donne,
    in quei giorni io manderò il mio Spirito ed essi parleranno come profeti.” (Atti 2, 16-21)

Dal testo integrale ci lasciamo interrogare e provocare. Da esso possiamo attingere l’ispirazione per comporre il sogno della Compagnia già espresso da qualche altra parte del sito ma che va ripetutamente recuperato perchè si trasformi in un Magnificat di donne e uomini disposti ad essere “schiene a disposizione di Dio”, sull’esempio di Maria, di San Giovanni di Dio, di San Riccardo…

COSI’ L’ARCIVESCOVO AL SINODO

“Ho ascoltato con vivo interesse tutti gli interventi fatti fin qui, cercando di capire in che modo rispondessero alla domanda: “come Gesù Cristo vivente nella Chiesa è oggi sorgente di speranza per l’Europa’?

Ma prima di esprimere qualche mio parere, vorrei fare memoria di una persona che parecchi di noi ricordano presente in quest’aula e che il Signore ha chiamato a sè il 17 giugno scorso: è il cardinale Basil Hume, arcivescovo di Westminster. Più di un intervento fatto da lui in Sinodo cominciò con le parole: “I had a dream”, “Ho fatto un sogno”.
Anch’io in questi giorni, ascoltando gli interventi, ho avuto un sogno, anzi parecchi sogni. Ne richiamo tre.

1. Anzitutto il sogno che attraverso una familiarità sempre più grande degli uomini e delle donne europee con la Sacra Scrittura letta e pregata da soli, nei gruppi e nelle comunità, si riviva quella esperienza del fuoco nel cuore che fecero i due discepoli sulla strada di Emmaus (Instrumentum laboris 27). Rimando per questo a quanto già detto da mons. Egger, vescovo di Bolzano-Dressanone. Anche per la mia esperienza la Bibbia. Letta e pregata, in particolare dai giovani, è il libro del futuro del continente europeo.

2. in secondo luogo, il sogno che la parrocchia continui ad attualizzare, col suo servizio profetico, sacerdotale e diaconale, quella presenza del Risorto nei nostri territori che i discepoli di Emmaus poterono sperimentare nella frazione del pane (IL 34,47). in questo Sinodo sono già state spese parecchie parole per evidenziare il ruolo dei movimenti ecclesiali in ordine alla vivificazione spirituale dell’Europa. Ma è necessario che i membri dei movimenti e delle nuove comunità si inseriscano vitalmente nella comunione della pastorale parrocchiale e diocesana, per mettere a disposizione di tutti i doni particolari ricevuti dal Signore e per sottoporli al vaglio dell’intero popolo di Dio (IL 47). Dove questo non avviene, ne soffre la vita intera della Chiesa, tanto quella delle comunità parrocchiali quanto quella degli stessi movimenti. Dove invece si realizza una efficace esperienza di comunione e di corresponsabilità la Chiesa si offre più facilmente come segno di speranza e proposta credibile alternativa alla disgregazione sociale ed etica da tanti qui lamentata.

3. Un terzo sogno è che il ritorno festoso dei discepoli di Emmaus a Gerusalemme per incontrare gli apostoli divenga stimolo per ripetere ogni tanto, nel corso del secolo che si apre, una esperienza di confronto universale tra i Vescovi che valga a sciogliere qualcuno di quei nodi disciplinari e dottrinali che forse sono stati evocati poco in questi giorni, ma che riappaiono periodicamente come punti caldi sul cammino delle Chiese europee e non solo europee.

Penso in generale agli approfondimenti e agli sviluppi dell’ecclesiologia di comunione del Vaticano II.
Penso alla carenza in qualche luogo già drammatica di ministri ordinati e alla crescente difficoltà per un vescovo di provvedere alla cura d’anime nel suo territorio con sufficiente numero di ministri del vangelo e dell’eucaristia (112 14).
Penso ad alcuni temi riguardanti la posizione della donna nella società e nella Chiesa (IL 48), la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali (IL 49), la sessualità, la disciplina del matrimonio, la prassi penitenziale, i rapporti con le Chiese sorelle dell’Ortodossia e più in generale il bisogno di ravvivare la speranza ecumenica (IL 60-61), penso al rapporto tra democrazia e valori e tra leggi civili e legge morale.

Non pochi di questi temi sono già emersi in Sinodi precedenti, sia generali che speciali, ed è importante trovare luoghi e strumenti adatti per un loro attento esame. Non sono certamente strumenti validi per questo le indagini sociologiche, nè le raccolte di firme, nè i gruppi di pressione. Ma forse neppure un Sinodo potrebbe essere sufficiente. Alcuni di questi nodi necessitano probabilmente di uno strumento collegiale più universale e autorevole, dove essi possano essere affrontati con libertà nel pieno esercizio della collegialità episcopale, in ascolto dello Spirito e guardando al bene comune della Chiesa e dell’umanità intera.

Siamo cioè indotti ad interrogarci se, quaranta anni dopo l’indizione del Vaticano II, non stia a poco a poco maturando, per il prossimo decennio, la coscienza dell’utilità e quasi della necessità di un confronto collegiale e autorevole tra tutti i vescovi su alcuni dei temi nodali emersi in questo quarantennio. V’è in più la sensazione di quanto sarebbe bello e utile per i Vescovi di oggi e di domani, in una Chiesa ormai sempre più diversificata nei suoi linguaggi, ripetere quella esperienza di comunione, di collegialità e di Spirito Santo che i loro predecessori hanno compiuto nel Vaticano II e che ormai non è più memoria viva se non per pochi testimoni.

Preghiamo il Signore, per intercessione di Maria che era con gli apostoli nel Cenacolo, perché ci illumini per discernere se, come e quando i nostri sogni possono diventare realtà.

MATURITA’ SPIRITUALE

(Dall’Omelia di S.E.R. il card. C.M. Martini nella celebrazione eucaristica
di apertura per la XI Convocazione Nazionale del RnS [Rimini 22 aprile 1988], in Rinnovamento nello Spirito Santo, luglio/agosto 1988).

“[...] Sorge qui la domanda: in che consiste questa maturità spirituale? Che cosa è richiesto dal cammino ormai quindicennale del Rinnovamento nello Spirito?

Questo è il segreto di Dio e ve lo dirà il Signore.Ma noi possiamo chiederci ugualmente, partendo dai testi delle Scritture, quale sia il modo di santità a cui sono chiamati, oggi, anche i più semplici e umili tra noi. E io, con le stesse parole delle Scritture e con il coraggio che mi viene soltanto dalla parola di Dio, lo esprimerei sinteticamente così:

  • la maturità spirituale è crescere nella carità con tutti i suoi frutti.
  • Nel linguaggio giovanneo, è crescere nella coscienza di tralcio attaccato alla vite; come tralcio che è parte della vite, che cresce dalla vite, nella vite e con la vite.
  • Guai al tralcio che o si stacca dalla vite o si blocca nella sua crescita (cfr. Gv 15,1-6)!

Questo comporta due aspetti:

a ) il primo, negativo, è di non bloccarsi nella crescita, di non restare al di qua del guado di Cafarnao;

b) il secondo, positivo, è di crescere con la vigna, nella vigna, dalla vigna, insieme alla vigna intera [...].

1. Crescere anzitutto nella conoscenza e nell’amore della vigna che è lo stesso Gesù morto e risorto, nostra vita e Signore delle nostre vite.

2. Crescere nella conoscenza, amore e stima di quella vigna che Dio stesso ha piantato e per la quale Gesù è morto, cioè la santa Chiesa visibile, unita attorno al Papa, sotto la guida dei vescovi, amando ognuno e ciascuno dei più piccoli fratelli di essa.

3. Crescere nella conoscenza della Parola di Dio, studiata e approfondita secondo i criteri della Dei Verbum (capitoli III e VI), imparando a prendere la Scrittura come un insieme, come la rivelazione di un unico disegno di Dio sulla Chiesa e non come una semplice raccolta di parole staccate.

4. Crescere nell’interiorità della fede e della preghiera, imparando a fare una graduale economia dei segni esteriori e sensibili a favore di una preghiera interiore, di una adorazione umile e silenziosa.

5. Crescere nella forza evangelizzatrice che non viene dal gridare “Signore, Signore” ma, anzitutto, dal fare la volontà del Padre che è nei cieli: “Vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli” (cfr. Mt 5,16: questa è la prima evangelizzazione!).

6. Crescere nell’attenzione al contesto sociale, culturale e politico in cui la Chiesa opera, favorendo sempre più i gesti di prossimità concreta verso i più bisognosi

7. Crescere nella delicatezza delle espressioni delle preghiere private e pubbliche, non in commotione Domini. Crescere cioè nella dolce sensibilità del tocco leggero e soave della preghiera e dei gesti, nella delicatezza delle espressioni corporee, nella gioia intima e profonda, pudica e rispettosa, che non si esibisce ma, piuttosto si nasconde ed effonde soltanto una minima parte del suo ricchissimo tesoro interiore. Così sarà più facile far percepire ad altri, dal tenue profumo, la ricchezza del fiore nascosto e coltivarlo con attenzione anche nel proprio cuore.

8. Crescere nel dolore dei propri peccati; piangere per i peccati del mondo; contemplare senza sosta Cristo crocifisso; entrare nelle sue ferite e in quelle dell’umanità ferita e farsene carico come il buon Samaritano.

Se frutto del Rinnovamento nello Spirito sarà, anzitutto, il suscitare nella Chiesa intera, fino agli strati più semplici del popolo di Dio, presso tutti i laici, la gioia della lode, la lode spontanea, gratuita, nata dalla contemplazione del Signore crocifisso e risorto, e dalla misericordia di Dio per l’umanità perduta, tale lode potrà invadere tutte le Chiese e le parrocchie della terra quanto più sarà semplice, composta, rispettosa, autentica. Essa, allora, contagerà sempre più e cresceranno le comunità capaci di spezzare il pane con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo. Il Signore aggiungerà alla comunità un sempre maggior numero di salvati (cfr. At 2,46-48).

Ma la gioia della manna, l’alimento che “manifestava la dolcezza di Dio verso i suoi figli” (cfr. Sap 16,21), è dunque da lasciare cadere del tutto in vista di una lode puramente spirituale? Gesù non ha condannato la manna del deserto, anzi ha moltiplicato lui stesso i pani; però ci ha insegnato, nel discorso di Cafarnao, a cercare e gustare, a partire dalla manna e al di là di essa, quel frutto dello Spirito che è “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22).

  • Gesù ci insegna a capire come il vero pane del Cielo è lui.
  • Sei tu, Signore, il pane del Cielo,
  • sei tu che dai lo Spirito,
  • il Pane e lo Spirito che effonde nei cuori la carità

A queste cose occorre anzitutto aspirare. Sono esse che hanno una irradiazione gioiosa e contagiosa.

Gli altri carismi sono tappe intermedie, oasi nel deserto, stazioni di passaggio, aiuti per il cammino, manifestazioni per l’utilità; ma non sono un punto di arrivo, non sono la Terra Promessa, non sono lo stesso Cristo Signore, unico premio di coloro che lo cercano [...]“.

SCUOLA DI PREGHIERA – 23 GENNAIO 2004

6º incontro

Senza di me non potete far nulla” – La preghiera dà equilibrio

Ringraziamo Dio per questa scuola di preghiera.

Io ringrazio voi per la pazienza la costanza di quasi tutti voi. Come dicevo l’altra volta non bisogna disperdere il patrimonio. Perché possa fruttare vi consiglio di prendervi del tempo, però tutto insieme, per rileggere o i sussidi o gli appunti che avete preso o entrambi. Ricordare l’esperienza del venerdì fare memoria, è un ottimo modo per non disperdere. Sul sussidio di stasera trovate semplicemente come si fa la lectio divina. E’ infatti quella che faremo un venerdì al mese da febbraio in poi. Le date le ho già stabilite, sono 4 venerdi sera adesso sto cercando qualche persona che le venga a fare. Ieri un giovane diceva “innamorato della lectio divina” non sapendo prima cos’era.

Il card. Martini ha puntato tutto sulla lectio divina considerata il metodo migliore per far parlare la Bibbia, per attualizzarla, per conoscerla, per una vera spiritualità cristiana. Posso testimoniare che da 22 anni faccio ogni giorno la lectio divina, instancabilmente, nel senso che mai me ne stanco, che preparo le omelie con la lectio e che ogni volta lo Spirito mi suggerisce molte cose, alcune delle quali dico. Anche in questo caso è vincente il principio della costanza.

Lo Spirito suggerisce solo a chi lo interpella continuamente. L’icona biblica di stasera è – tanto per cambiare – bellissima. Senza di me non potete far nulla. E’ tratta dal Vangelo di Gv precisamente dal discorso sulla vite e i tralci.

Cap 15, 1-11. E’ uno di quei brani sui quali tenere sempre un segno perché costituisce una ricchezza enorme per la vita interiore. Semplicemente e in forma un minimo solenne ve ne rileggo alcune parti, alcune frasi che dovete semplicemente ascoltare

  • Io sono la vera vite………..

  • Rimanete in me e io in voi………..

  • Io sono la vite, voi i tralci………..

  • Chi rimane in me e io in lui fa molto frutto……….

  • Ogni tralcio che porta frutto, il Padre lo pota perché porti più frutto………

  • Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato……….

  • Senza di me non potete far nulla!

Un metodo che suggerisco e suggerirò è quello di registrare su una cassetta alcuni semplici brani della Parola, anche un salmo, così lentamente. Poi riascoltarli nel silenzio. È ‘ un modo per imprimere dentro la Parola. Il Signore dice proprio così: nulla.

Dobbiamo guardare severamente al Vangelo e chiederci: cosa conterà alla fine dei tempi? Nel momento del giudizio finale? Evitare di pensare che saremo giudicati con un metro umano, la mente di Dio è molto più grande. Però un criterio serve. Uno dei criteri è evidenziato da Giovanni: Dio ci chiede di portare frutto. Di essere un albero non secco, potato si, ma non secco. Non da buttare.

E’ da ricordare anche l’immagine del fico seccato in Mt 21,18. Gesù è molto severo. Qui sappiamo da Lui che la condizione per non arrivare al nulla è di stare con Lui. E’ terribile questo nulla. Ci sono vite che portano al nulla. Non immaginiamo le vite dei depressi, dei malati psichici, nel senso di un nulla del pensiero, della mente, di un nulla inteso come malattia, dunque anche delle malattie fisiche che impediscono la mobilità o come pensavano certe correnti ebraiche di nulla nel senso della non fruttuosità efficiente della vita. Questi sono criteri umani. Che cos’è un nulla di fronte a Dio? Se non possiamo dire esattamente cosa è possiamo certo dire che se le cose non si fanno con Lui sono uguali al nulla. In questo senso la formula finale della preghiera eucaristica: per Cristo, con Cristo, in Cristo.

Per, con , in. Il primo è un per finale: io faccio le cose per Te. Il secondo è un complemento di compagnia: io faccio le cose insieme a Te. Il terzo è intraducibile, è di San Paolo. Fare le cose in Cristo è più o meno quello che dice qui Gv. Rimanendo in Lui. E per capire Gv ci offre la metafora del tralcio che non può fare  nulla senza la linfa della vite. Dunque è nulla tutto quello che non è alimentato da questa linfa della vite. E non si può dire: ma io come posso dire che questa cosa la faccio per Dio e quest’altra per me?

Non è il problema di distinguere cosa da cosa o di ammantare tutte le cose di una falsa spiritualità. Bisogna vivere una vita in Cristo, alimentarla con Cristo, modificarla con Cristo ( è Lui che la modifica quando fa la potatura) e allora si capisce bene che non andiamo verso il nulla. Anche se non possiamo fare grandissime cose,anche se ci confrontiamo con risultati di altri e vediamo che i nostri sono scarsi, quello non sarà il nulla davanti a Dio. Togliamoci dalla testa l’idea di un Dio che pesa i risultati con una bilancia.

Possiamo chiederci un’altra cosa: ma c’è il rischio dell’illusione? Noi ci diciamo credenti e poi pensiamo che solo per questo motivo le nostre cose saranno approvate da Dio. Questo è quello che ci rimproverano molti potenziali non credenti. Certo il rischio c’è. Per questo la preghiera è il criterio determinante. Se è vero che lo scopo della vita è conoscere Dio, e se è vero che ci saranno richiesti i frutti della vita, è così vero che solo chi prega costantemente è in Cristo e si salva dal rischio del nulla. Su questo punto io sono un po’ rigido. I cosiddetti atei o non praticanti che sono meglio dei praticanti, dal punto di vista morale è vero. Ma chi rifiuta di conoscere Dio avendone avuto la possibilità credo che sarà valutato nel nulla. Molti sostituiscono a Dio il pensiero, l’intelligenza o l’azione sociale. Sono tutte cose importanti ma non possono esser fatte valere la posto della fede.

E lo dico senza presunzione ma semplicemente perché il Vngelo è molto chiaro. A maggior ragione dico che è sciocco che un credente consapevole continui a ripetere questo ritornello quasi per autosqualificarsi. Se tu hai la grazia di credere e di volere conoscere Dio pensa a migliorare questa via e non ripetere che l’ateo è meglio di te. mi sembra davvero una cosa un pò stupida.

Quanto al fatto che uno possa dire davanti a Dio: è tutta colpa della chiesa che ho conosciuto, anche su questo non punterei ( se fossi ateo) molto. E questo naturalmente non è un modo per giudicare alcuno. Non è questione di giudicare, solo di essere consapevoli. Noi dobbiamo dunque salvarci dal nulla soprattutto da quel nulla mascherato da vita fruttuosa. Certo chi ha raggiunto grandi obiettivi nella vita, nel suo lavoro, nel potere deve assolutamente fare molta attenzione.

Anche però chi non ha raggiunto questi scopi e si è mantenuto più modesto non deve pensare che tutto sia fatto. Perché esiste anche la mediocrità, il culto di sé attraverso magari i propri fallimenti. Ovvero nessuna vita può fermarsi nel percorso verso Dio.

L’ultima cosa che ci chiediamo deriva dal titolo che abbiamo dato: la preghiera dà l’equilibrio. E’ una provocazione perché la parola equilibrio non compare mai nella Bibbia. E’ una parola del linguaggio della fisica entrata però nel linguaggio normale. A me molto cara. Henry Noween un autore di spiritualità che consiglio molto parla della sua amicizia con un gruppo di artisti del circo. Ha osservato il loro equilibrio, il perfetto coordinamento dei movimenti. Dio gli ha ispirato che quel tenersi per mano, quell’abbracciarsi nell’aria senza alcun appoggio fosse la metafora del nostro rapporto con Dio. Il trapezista si abbandona certo che se l’altro non ha precisamente coordinato il suo movimento potrà cadere.

Ma a Dio ci si può solo abbandonare. Gv stasera parla di rimanere in.

E’ un’immagine che richiama molto l’equilibrio. Rimanere è un verbo che indica la staticità nel senso della saldezza. Che cos’è dunque questo equilibrio?

Non è la perfezione. E’ ovvio. Non è nemmeno la sintesi tra il modo di fare dell’uno e il modo di fare dell’altro. Richiede ovviamente una consapevolezza delle proprie debolezze e ricchezze che spesso si acquisisce con una psicoterapia che non è assolutamente contraria alla fede.

Ma penso che senza una vera spiritualità la terapia non basti. L’ho visto su di me e su altri. Direi che l’equilibrio della preghiera (e della fede) è quella capacità di essere totalmente di Dio essendo nel mondo. Mi sembra un bellissimo obiettivo.

Oggi l’accezione più comune di equilibrio dice equilibrio=relax. Si moltiplicano le tecniche, prevalentemente di origine orientale. Nulla va ignorato ma non è questo l’equilibrio della fede. Gesù sapeva che i suoi dovevano essere nel mondo, non fuggirne. Ma voleva che rimanessero suoi. Voleva che stessero con Lui. Questo è il vero equilibrio. Possiamo anche essere stanchi, non rilassati ma non perdere il nostro equilibrio.

Dio ce lo consenta.

F.B.F. – PROVINCIA LOMBARDO-VENETA:TRA STORIA E PROFEZIA – Angelo Nocent

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LA PROVINCIA LOMBARDO-VENETA

TRA STORIA E PROFEZIA

Riflessione teologico-pastorale

PREMESSE.

La presente riflessione fornisce l’ indicazione di alcune piste possibili per la Provincia Lombardo-Veneta F.B.F. che prende coscienza di essere Chiesa, ma presente in un contesto di Chiese locali.

1. La comunità cristiana (istituto religioso-comunità terapeutica, parrocchia,  diocesi).

1.1. Negli ultimi decenni (dall’ecclesiologia del Vaticano II; cf Lumen Gentium) è avvenuto un grande passaggio nel linguaggio e nella comprensione della Chiesa, legata alla teologia della Chiesa locale o particolare.

Da “parrocchia” a “comunità cristiana”.

E’ il passaggio da un criterio territoriale o geografico, giuridico e funzionale ad un criterio teologale:

  • la Chiesa è “sacramento” o “mistero”,

  • cioè realtà umana, storica che rende presente e operante il mistero di Dio e della salvezza,

  • strumento, via, mezzo con il quale Egli continua a operare per gli uomini di oggi.

Il criterio territoriale pone in evidenza l’appartenenza sociologia, culturale:

  • tutti gli abitanti fanno parte della parrocchia (“cuius regio, eius et religio”), in un’epoca di cristianità.

  • Si parla di “religione” (partecipazione ad atti religiosi, entrati a far parte della cultura del territorio, conoscenza delle verità – teologiche e morali – della religione cristiana).

Il criterio teologale pone in evidenza la fede, intesa non come “fides quae” (verità oggettive), ma piuttosto come “fides qua”.

  • La fede è adesione personale a Gesù Cristo, al suo vangelo, al suo stile di vita, al suo progetto di storia;

  • adesione accolta e vissuta insieme (la comunità).

  • La scelta della fede è una scelta di campo, una appartenenza che segna la vita, il pensiero (la cultura), la storia personale e collettiva.

1.2. C’è un’icona che esprime la realtà della comunità cristiana: l’assemblea domenicale per la celebrazione dell’Eucaristia. Occorre imparare a leggerla:

  • la composizione dell’assemblea nella casa di Dio (da luoghi diversi, da storie diverse;

  • adulti e bambini, religiosi e laici, buoni e cattivi, bianchi e neri… come i pesci della rete gettata in mare).

  • E’il corpo di Cristo.

Le azioni di Dio per generare, per nutrire, accompagnare, sviluppare la sua Chiesa:

  • la Parola,

  • la Liturgia,

  • lo Spirito di Carità.

E’ fatta di “uomini”, cioè di storia, di “mondo”: viene dal mondo ed è inviata al mondo.

Non è la quantità dei numeri che dice la vitalità della comunità cristiana, ma la profondità della fede che accoglie la Parola, celebra i santi misteri, vive dello Spirito di Carità.

1.3. La comunità cristiana, corpo di Cristo, continua il progetto di Dio in Cristo, qui e ora: il Regno di Dio. Occorre ripercorrere tutta la Scrittura per aver chiaro che cosa è il Regno di Dio:

  • dalla creazione alla liberazione (Esodo),

  • dai Profeti alla sapienza,

  • fino all’Incarnazione, alla Pasqua, alla Pentecoste.

E’ il progetto di Dio per venire incontro agli uomini, per offrire loro la salvezza, cioè una vita “salvata dalla morte” e dal male.

Gesù racconta il Regno con parabole: è la storia che si ripete.

  • Il regno di Dio non è un luogo, una struttura:

  • è la signoria del “bene”, cioè della verità, della giustizia, dell’amore e della libertà.

  • E’ la costruzione del bene dell’uomo, di ogni uomo e di tutti gli uomini.

Nella comunità i cristiani fanno esperienza del Regno che Dio realizza per essi e diventano strumenti del Regno: testimoni, annunciatori, costruttori.

1.4. La comunità cristiana è fatta di uomini e di donne che vivono l’esperienza e la fatica della famiglia, del lavoro e della professione, della malattia, dell’economia, della politica, ecc; in essi il “mondo”, la storia, la cultura del tempo e del territorio entrano nella casa di Dio e nel progetto del Regno.

  • La Parola annunciata e accolta “cade” come semente nel terreno della vita;

  • l’Eucaristia diventa cibo, lo Spirito diventa guida.

  • Diventano anche criterio che illumina, discerne, orienta la vita e la storia.

  • La comunità cristiana non è chiusa al mondo, alla storia.

  • Diventa “sorgente” o fontana che dà acqua per la vita.

1.5. Emerge un’urgenza pastorale per le nostre comunità cristiane:

  • ritornare al primato della fede,

  • non come enunciazione di verità dottrinali,

  • ma come esperienza esistenziale di uomini e donne.

  • Ritornare al primato della Parola che entra nella vita, della Liturgia, dello Spirito di carità.

Occorre imparare a “dirsi”, l’un l’altro, la nostra fede all’interno della comunità cristiana, per imparare a raccontarla nelle famiglie, tra amici e colleghi di vita, in tutti gli ambiti delle relazioni umane.

La comunità cristiana vive, cresce, cammina per questa comunicazione germinale della propria fede. Questa è l’evangelizzazione.

  • Solo a partire da questa visione teologale della comunità cristiana (parrocchia, diocesi) è possibile un rinnovamento della chiesa;

  • Dopo saranno possibili le riforme strutturali (unità pastorali, decanati, piccole comunità, movimenti e associazioni).

2. La pastorale.

2.1. La comunità cristiana è il corpo di Cristo; ogni corpo vive e opera perché ha un’anima e un corpo. La pastorale è il vivere, il crescere, il muoversi della comunità cristiana.

E’ necessario riscoprire l’anima della pastorale (a fronte dell’impressione che le attività e le strutture abbiano ridotto la pastorale ad un’azienda…fallimentare!).

La vita della comunità cristiana nasce dalla Parola, dalla Liturgia, dallo Spirito di carità.

Con una attenzione:

  • spesso abbiamo tenuto la vita lontana dalla Parola, dalla Liturgia e dallo Spirito di Carità.

  • La Parola è diventata evanescente, senza senso;

  • la Liturgia è diventata un rito,

  • lo Spirito non anima le ossa aride, perché non incrociano la vita delle persone.

Chi ascolta e accoglie la Parola, celebra l’Eucaristia e gli altri sacramenti, è una persona o una comunità che vive l’esperienza della famiglia, della professione, della cultura .

  • La Parola entra e illumina,

  • la Liturgia trasforma,

  • lo Spirito vivifica.

Da qui parte l’esperienza del raccontarsi, tra fratelli e sorelle della stessa comunità, l’esperienza di quanto il Signore, attraverso la sua Parola e i suoi doni, opera in me.

  • La mia esperienza raccontata ai fratelli,

  • la loro esperienza raccontata a me, diventano “parabole del Regno”, annuncio e testimonianza che evangelizza.

  • L’esperienza dei santi.

La prima pastorale è quella che si compie tra fratelli e sorelle della stessa comunità cristiana. Si crea un legame di fraternità nella fede. Penso alla predicazione, ai Consigli pastorali, ai gruppi associativi di giovani e di adulti…

2.2. Ma un corpo ha anche una struttura che lo regge; anche la pastorale ha una struttura, quasi uno scheletro: non è tutto, ma senza di esso…il corpo non vive, non si muove.

La pastorale spesso spreca le sue energie (preti e laici sfiduciati) perché la struttura non funziona.

  • La struttura della pastorale non è un opzional;

  • è dettata dalla natura e dalla finalità stessa della comunità cristiana.

  • ogni elemento, ogni persona, ogni iniziativa, ogni gruppo o attività ha un suo posto, una sua funzione e si collega vitalmente con tutto il resto del corpo, che è la comunità stessa.

  • La comunità è il primo e unico soggetto della pastorale: tutti i soggetti particolari (prete, religiosi, gruppi, attività, strutture…) sono parte ed espressione della comunità.

  • Il coordinamento degli elementi che costituiscono la comunità e la pastorale è essenziale: altrimenti …il corpo si smembra e spreca le energie. Ma questo è un “sacrilegio”.

2.3. Emerge la necessità irrinunciabile degli organismi di partecipazione, in primis del Consiglio pastorale. E’ il luogo e lo strumento che rende possibile la pastorale della comunità cristiana come corpo unitario.

Nella sua composizione è rappresentativo di tutta la comunità (attenzione alle regole per la composizione, il rinnovo del CP): tutte le realtà, i soggetti, i gruppi sono parte della Chiesa, cioè della comunità cristiana. Nessuno cammina e opera da solo nella chiesa!

Suo compito prioritario è di coordinare i soggetti, le attività, le proposte, le strutture…

  • La pastorale non è un insieme scomposto di attività;

  • la comunità non è il supermercato delle proposte.

  • Per questo il CP, all’inizio dell’anno pastorale, elabora – con la partecipazione di tutti – il programma pastorale della comunità, in sintonia con il decanato, con la diocesi, con la chiesa italiana.

  • La comunione ecclesiale non è un sentimento: è un criterio di azione e di organizzazione.

2.4. La Curia Provincializia – I Segretariati:

  • sono strutture di coordinamento tra comunità cristiane della stessa Chiesa locale (la diocesi).

  • Operano secondo il “principio di sussidiarietà”.

Gli organismi di partecipazione e di coordinamento

  • sono la strada concreta, prevista dalla Chiesa, che rendono reale la partecipazione e la corresponsabilità di tutti fedeli alla vita della propria comunità,

  • la valorizzazione e la maturazione dei cristiani laici,

  • la valorizzazione e la complementarietà dei carismi e dei ministeri che lo Spirito dona ad ogni Chiesa, secondo le proprie necessità,

  • la unitarietà della comunità cristiana,

  • il rinnovamento della pastorale secondo le esigenze del tempo presente, il dialogo con la cultura e la storia del territorio.

Se mancano o non funzionano questi meccanismi non resta altro che continuare a fare pii auspici.

Il compito del Provinciale, strettamente legato con quello del Pastore (capellano, parroco, Vescovo) è quello di far funzionare questi organismi, come strumento concreto di armonia e collaborazione tra carismi e ministeri presenti nella propria comunità, come strada reale per la “conversione pastorale” delle comunità.

2.5. Una annotazione merita il funzionamento degli organismi di partecipazione, primo fra tutti il CP; spesso diventano inutili per un funzionamento non corretto. Il lavoro di un CP assomiglia ad una tessitura:

  • ciascun Consigliere è chiamato (è tenuto) a dare il proprio “Consiglio” sull’argomento all’ordine del giorno.

  • Solo dalla pazienza di mettere insieme il Consiglio di ciascuno, comprendendo ciascuno le ragioni degli altri, nascono le indicazioni per la vita della comunità cristiana, come indicazioni dello Spirito. Il CP infatti è un “organo consultivo”!

  • La funzione del parroco-presidente del CP.

  • Importanza delle formalità: ordine del giorno, documentazione, verbalizzazione, comunicazione alla comunità…E’ una scuola esigente di vita cristiana, di santità.

3. La cultura e il territorio.

3.1. La Provincia Lombardo-Veneta deve tracciare con precisione l’identikit della cultura dei suoi Centri, condizione per poter innestare il discorso del carisma istituzionale che, diversamente, faticherebbe a reggersi o ne uscirebbe impoverito. E’ da tenere presente che:

  • La cultura crea mentalità, stili di vita, scelte personali, familiari, comunitarie, sociali e politiche a tutti i livelli.

  • Il territorio si configura, di fatto, in base alla cultura dei suoi abitanti.

  • Il passato si innesta sul presente e genera il futuro: le scelte di oggi condizionano il domani dei nostri figli.

Non è difficile notare alcuni tratti che connotano la cultura generale del nostro tempo; qualcuno parla della “religione del mercato”, cioè del prevalere dei criteri mercantilistici (tutto si compra e si vende). Il criterio mercantilistico si impone a livello personale, come anche a livello strutturale, sociale, politico, nazionale e internazionale.

Questo criterio tende a soppiantare i criteri etici che fondano la bontà e la correttezza della vita delle persone, dei gruppi sociali e degli stati: la verità, la giustizia, la carità, la libertà: è vero, giusto, buono, libero non ciò che oggettivamente è tale, ma ciò che può essere imposto con la forza del mercato, del potere, dei numeri. C’è, giustamente, da essere preoccupati.

3.2. A fronte di tutto ciò che sta avvenendo (o è già avvenuto), appare pensante l’afasia delle comunità cristiane. Sembrano problemi estranei; anzi spesso spunta l’accusa di “fare politica” per comunità o persone che “entrano” in terreni come questi. Eppure fanno parte della vita di quelle persone cristiane che, la domenica, ascoltano la Parola, celebrano i santi misteri e ricevono lo Spirito. Spesso, proprio i cristiani sono dubbiosi, angosciati, preoccupati (come nel caso della guerra all’Iraq, dell’immigrazione…).

Sembra di capire anche che il territorio spesso attende dai cristiani una parola di valutazione, di orientamento.

  • Ma la comunità cristiana è destinata a restare estranea e silenziosa di fronte alla cultura, alle scelte storiche, agli avvenimenti del proprio tempo e del proprio territorio?

  • non deve forse apprendere a muoversi in questi ambiti decisivi della vita delle persone, della città e dei popoli?

3.3. Il primo passaggio da compiere è quello di mettere sempre in evidenza la “valenza storica” (o politica) della parola di Dio, come della fede e della Liturgia. La Bibbia è la storia di un popolo nella quale i credenti leggono e accettano la presenza e l’azione di Dio che cammina con il suo popolo verso la salvezza.

Chi legge o ascolta la Parola oggi, è rimandato alla propria storia, alle vicende del proprio tempo: in caso contrario la Parola rimane astratta, incomprensibile.

  • E’ la vita che illumina la Parola, come la Parola illumina la vita.

  • Tutti i “misteri” della fede sono paradigma del vivere umano, secondo quel progetto di Dio che è il Regno (es. la Trinità è il paradigma delle relazioni umane a tutti i livelli).

E’ l’impostazione teologica di Giovanni Paolo II: chi ascolta la Parola, chi celebra l’Eucaristia non può non essere dalla parte della pace, della verità, della giustizia, della carità, della libertà; non può accettare scelte e comportamenti che sono di guerra, di falsità, di ingiustizia, di egoismo, di oppressione dei deboli. Questo non sarebbe solo un comportamento immorale: è una sconfessione della fede.

3.4. E’ necessario imparare a entrare nelle questioni della cultura, del territorio, della storia con l’esercizio del “discernimento comunitario” (cf. convegno di Palermo), per giungere alla “conversione pastorale”.

Il discernimento è un procedimento scientifico, esigente nei suoi passaggi metodologici. E’ la capacità di entrare dentro ad un fatto, ad un avvenimento, ad una scelta concreta, e discernere (cioè distinguere, separando elementi e fattori diversi), alla luce della Parola, della fede, del magistero della chiesa, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, in modo da valutare obiettivamente e di compiere le scelte corrette ed efficaci.

Il metodo del discernimento

  • permette ad una comunità cristiana di entrare nella storia, nei fatti che occupano e preoccupano i cristiani, come tutti gli altri cittadini di un territorio, dialogando – concretamente – con la cultura, con le istituzioni, i servizi i soggetti presenti e operanti;

  • permette di coniugare concretamente la fedeltà alla propria fede e alla Parola, con la fedeltà all’uomo, alla storia;

  • permette di non rimanere estranea e muta;

  • permette di non appiattirsi o di lasciarsi appiattire su posizioni ideologiche o di schieramenti politici;

  • permette di diventare profetica, cioè capace di indicare le vie del futuro.

3.5. Il soggetto deputato al discernimento comunitario è ogni organismo di partecipazione, in particolare il CP di ciascuna comunità (parrocchia, decanato, diocesi). Ma questo dovrebbe essere anche il modo ordinario di camminare (e di fare formazione) per i gruppi associativi di cristiani adulti (adulti nella fede, nella vita della propria città). C’è solo bisogno di iniziare, di imparare per scoprire quanto è “profetica” e innovativa questa strada.

PAMPURI: vita consacrata, Parola di Dio vissuta – Angelo Nocent

 

Fra Roberto Varasi o.h.

Vita consacrata: parola di Dio vissuta

 

UNA CORDA TESA

 

L’elogio che si può tessere di Fra Riccardo Pampuri è proprio questo:

Quando le nostre corde sono ben tese,

Dio suona già da sé sopra la nostra anima.

E più di essere tesi verso Dio

noi non dobbiamo proprio fare niente”.

(H.U. von Balthasar).

 

Una famiglia di battezzati che ha ricevuto il dono più grande che si possa immaginare:

  • entrare nella santità di Dio stesso

  • diventati figlie e figli adottivi del Padre,

  • essere incorporati in Cristo,

    - resi una dimora del suo Spirito:  Con lui infatti siete stati sepolti insieme nel battesimo, in lui anche siete stati insieme risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti” (Col 2,12 ;

  • una famiglia di cresimati nella quale lo Spirito opera perché possa raggiungere quella pienezza di cui parla l’apostolo Paolo: “Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione” (1 Tim 4,3);

  • una famiglia di persone semplici ma generose, chiamate a fare l’esperienza della carità di Dio:

    - Cristo risuscitato vive nel cuore dei suoi fedeli.

    - In lui i cristiani gustano “le meraviglie del mondo futuro” ( Eb 6,5 )

    - La loro vita è trasportata da Cristo nel seno della vita divina: [Cf Col 3,1-3 ]

    - “Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro” ( 2Cor 5,15 ).

Era la consapevolezza del cristiano Erminio Pampuri, del consacrato Fra Riccardo. Già da laico percepisce che deve vivere costantemente l’esortazione di Gesù agli apostoli: “manete in dilectione mea”, “Come il Padre ha amato me, così anch’io amo voi. Rimanete nel mio amore” (Gv 15,9).

L’amico Enrico Ghezzi, che ha studiato particolarmente il Vangelo di Giovanni, mi aiuta a comprendere il senso di questa espressione. Egli fa notare che “qui ‘kanthōs’ ha significato causativo col significato di ‘in quanto che’; l’amore del Padre per Gesù è la base dell’amore di Gesù per i suoi discepoli; il Figlio ama i suoi discepoli con lo stesso amore divino che il Padre ha per lui”.

Chi è discepolo di Gesù vive nell’amore. Questa è la vera ineffabile condizione del credente cristiano: vivere della stessa vita di amore che è in Gesù, come tralcio che porta frutto perché attaccato alla vite”.

Ci si può chiedere: perché ci vengono additati i religiosi come santi ? Semplice: perché sono Parola di Dio vissuta, per la Chiesa e per il Mondo. E’ il senso della loro consacrazione. Chiamati a dar prova che la santità, un costante “a tu per tu con Dio” è un’esperienza alla portata di tutti. Essi sono dei “mandati” a incoraggiare il Popolo di Dio: «Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione», il vostro aghiasmos, santificazione.

Tutto ciò noi la vediamo presente, incarnato in un fragilissimo frate, Erminio-Riccardo Pampuri che sente dentro di sé questa forte implorazione di Gesù: “Rimanete nel mio amore ( gr. meίnate en tēi agàpēi tēi emē”.

Riccardo di queste parole si ricorderà perfino sul letto di morte. A don Beretta, venuto a portargli il ‘Viatico’, l’Eucaristia, sostegno per il viaggio che sta intraprendendo, con molta serenità e fiducia chiede: “Padre, come mi accoglierà Iddio?” Poi guardando in alto verso il cielo, dopo qualche istante di silenzio, soggiunge: “L’ho amato tanto e tanto l’amo!”. La risposta è intrinseca. Questa è la sua ultima dichiarazione d’amore che i nostri orecchi hanno potuto registrare. Qui è lo Spirito che parla in lui. Egli non rimane soltanto fermo nella fede in Gesù. Sente di vivere nell’amore ricevuto da lui, amore che è in atto, amore che viene dal Padre, attraverso il Figlio e che il Consolatore gli fa percepire. E abbiamo la sintesi della sua vita: poiché sono stato amato da Lui, ho potuto vivere amando. In me ha agito il Signore che ha promesso: “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena ‘plēroũsthai” (v.11) . Gioia che va oltre il presente, che raggiunge la sua pienezza escatologica, ‘gioia’ insopprimibile, imperitura (16,22) 

Tante volte mi sono chiesto:

  • Ora che Erminio Filippo, Fra Riccardo Pampuri, dalla Chiesa è stato proclamato “Santo”, è ancora utile scrivere di lui?

  • C’è qualcosa di nuovo che può essere aggiunto al già detto?

Riccardo pensa, parla, scrive, usando il linguiaggio teologico-ascetico della Chiesa del suo tempo. Lo ricaviamo dalle lettere pervenuteci. Noi oggi siaco chiamati a trasferirne il sensso, usando il linguaggio che si è evoluto in seguito alla riflessione teologico-pastorale del Concilio Vaticano II. Credo sia doveroso farlo, giacché, a prima vista, il Pampuri e come un bell’armadio con tanti cassetti. da fuori si rischia di ammirare  la linea essenziale, morbida, tipica dell’arte povera. Ma si comincia a frugare nei cassetti si scoprono sorprendenti ricchezze.

Riccardo non è solo un credente. Egli è anche un “pensante”. Non nel senso di filosofo pensatore ma di “uditore della Parola” che rumina. E così finisce per divemtare “un amante”.

Uno dei suoi carismi è quello di “far pensare”. Dove passa, da studente, da soldato, da medico condotto, da frate, da morto…chi lo incontra è costretto a fermarsi, a restarne almeno sorpreso, se non toccato. Tanti non sono stati più quelli di prima. Egli non è un Socrate che eszercita l’arte maieutica di far partorire la verità  a chi gli sta di fronte. E’ uno che parla con il contegno. Che sia puro di cuore, povero, obbediente, misericordioso e felice, glielo si legge in viso. Pallido, smorto, talvolta è acceso dalla febbre. Ma l’occhio è limpido, disarmato. E smonta. E suscita interrogativi. Ma non solo da frate. L’, in convento, avviene una “professione solenne”, un’assunzione di responsabilità davanti all’assemplea dei credenti convocati per l’Eucaristia. E’ come un rinnovato battesimo in seno alla Liturgia Pasquale. Ma lui povero, casto, obbediente, misericordioso, sereno…lo era già all’Università. Ed ancor più nella sua Condotta Medica, concepita come un prolungamento dell’Altare, un tutt’uno com la Chiesa locale che gli affida il servizio del ministero sanante. La professione è solo l’aspetto tecnico, scientifico, conoscitivo della sua vocazione che è “sacerdozio regale”: “a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune”.

E’ appena il caso di accennare:

“Vi sono popi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; diversità di ministeri, uno solo è il Signore; diversità di operazioni, un solo Dio, che opera tutto in tutti”.

E a ciascuno è data la manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune. Questo è un aspetto che a ppartriene a tutti nel popolo di Dio. Ed è lo stesso Dio che opera tutto in tutti.

  • Ad uno il linguaggio della sapienza,

  • ad un altro la scienza,

  • la fede,

  • le guarigioni,

  • il potere dei miracoli,

  • la profezia,

  • il dono di distinguere gli spiriti,

  • la varietà delle lingue,

  • l’interpretazione,

ma tutte queste cose è l’unico e il medesimo Spirito che le opera distribuendole a ciascuno come vuole” (1Cor 12, 4-11).

Questa è praticamente la vocazione dei laici , come usiamo dire oggi, o dei discepoli, come sono chiamati negli Atti degli Apostoli. Il Pampuri fino ai trent’anni, si trova da questa parte. Poi c’è una svolta per una speciale dedizione al Regno di Dio. In questa molteplicità varietà di servizi che è provocata dall’alto, c’è un’abbondanza di suggerimenti che lo Spirito suscita nei credenti che meditano in cuor loro la Parola e le opere della sua grazia. E’ l’atteggiamento di Maria di fronte agli eventi che si svolgono sotto i suoi occhi nella vita di Gesù. Luca lo mette bene in risalto:  eventi lieti e tristi, molteplicità e complessività delle vicende storicche sono ricevuti da Maria nel suo cuore  e paragonati  l’un l’altro per conmprenderne il senso globale (Lc 2, 19-51).

Riccardo ascolta, si ripete nel cuore la Parola, guarda alla molteplicità degli eventi diversi (i lutti, la guerra, la miseria, la malattia…) tanti fatti oscuri o chiari, comprensibili o incomprensibili eanche lui va alla ricerca del senso globale

Nell’Anno di san Paolo, apostolo e missionario del Vangelo ad pochi mesi dopo il Sinodo dei Vescovi sul tema “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”, trovo non solo che sia utile indagare sullo stesso tema, riferendolo alla vita e alla missione di Fra Riccardo nella Chiesa ieri e oggi, ma che sia anche doveroso, giacché facilmente si scoprono spetti legati alla sensibilità contemporanea. Negli ormai ottant’anni che ci separano dalla sua morte è successo di tutto: la seconda guerra mondiale, il Concilio Vaticano secondo, la caduta del muro di Berlino…ed è in corso una delle crisi  economiche mai sperimentate fin’ora, con una mobilità di popoli in tutte le latitudini che fanno presagire due cose:

  • che siamo di fronte ad una svolta epocale;

  • che nelle nostre teste c’è confusione, crisi d’identità e bisogno di guardare in alto e di prendere il largo.

Avere per amico un dottore può essere anche un onore. Avere per amico un santo è certamente una grande fortuna da augurare a tutti.

Se il racconto biblico della presentazione di Gesù al tempio “costituisce un’eloquente icona della totale dedizione della propria vita per quanti sono chiamati a riprodurre nella Chiesa e nel mondo, mediante i consigli evangelici, “i tratti caratteristici di Gesù vergine, povero ed obbediente”” (Vita consecrata, n. 1), nel nostro caso esso offre una chiave di lettura anche della vita consacrata del Pampuri.

Ecco la prima grande sorpresa: se la vita consacrata, per il fatto di ripresentare la forma di vita di Cristo, è Parola di Dio per la Chiesa e per il mondo, il consacrato fra Riccardo è stato e lo è ancor più oggi che è stato elevato agli onori degli altari per l’intera Chiesa universale: Parola di Dio per la Chiesa e per il mondo.

Il secondo motivo di stupore: se è vero che la Chiesa si riconosce sommamente realizzata nella donazione di sé a Cristo, la vita consacrata rappresenta questo vertice ecclesiale e quindi Parola vissuta, cioè pronunciata e accolta con la vita, segno della presenza di Cristo e del mistero della Chiesa.

Se poniamo attenzione alla biografia di San Riccardo, il fascino di Dio lo coglie già durante il ginnasio, al collego Sant’Agostino di Pavia. Si può dire che la sua donazione a Cristo sia già totale negli anni del liceo. La sua è già una vocazione: essere fermento nella pasta, là dove si viene a trovare. La voglia di essere sale della terra e luce del mondo gli derivano dalla frequentazione abituale del Vangelo che si porta dietro perfino nello zaino militare, con le Lettere di San Paolo e l’Imitazione di Cristo. Lo attesta proprio il prof. Meda che del Pampuri è stato compagno di università e sotto le armi.

In entrambi questi periodi emerge un Pampuri che si spende generosamente e senza risparmio.

Il servizio militare rappresenta l’accettazione di un sacrificio generoso ad alto rischio, che servirà almeno a lenire le sofferenze di una guerra atroce e inutile dove un suo fratello di sangue perderà letteralmente la vita, rendendogli ancor più amara la chiamata di leva.

All’università si butta in uno sforzo generoso di recupero dei mesi perduti al fronte, per riportarsi alla pari con gli studi che son stati seri e proficui, come lo attesta il 110 e lode della laurea in medicina e chirurgia.

Mentre apprende la scienza medica, già tutto fa presagire che l’impegno non è tanto in vista di una brillante carriera ma è finalizzato a una missione. I suoi compagni di università e i docenti sono stati i primi a notare lo spirito che lo animava. O meglio, che era posseduto dallo Spirito che lui lasciava meravigliosamente agire senza porre resistenza.

Dove attingeva i generosi ideali? Al solito posto: vedi Marco 6, 7-13; Luca 9, 1-6: “Gesù percorreva città e villaggi, insegnava nelle sinagoghe e annunziava il regno di Dio, guariva tutte le malattie e tutte le sofferenze. Vedendo le folle Gesù ne ebbe compassione, perché erano stanche e scoraggiate, come pecore che non hanno un pastore. Allora disse ai discepoli: “La messe da raccogliere è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone del campo perché mandi operai a raccogliere la sua messe“.

Gesù chiamò i suoi dodici discepoli e diede loro il potere di scacciare gli spiriti maligni, di guarire tutte le malattie e tutte le sofferenze. I nomi dei dodici apostoli sono questi: innanzi tutto Simone, detto Pietro, e suo fratello Andrea; Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo; Filippo e Bartolomeo; Tommaso e Matteo, l’agente delle tasse; Giacomo figlio di Alfeo e Taddeo;  Simone, che era del partito degli zeloti, e Giuda l’Iscariota, che poi fu il traditore di Gesù.

Gesù mandò questi Dodici in missione dopo aver dato queste istruzioni: “Non andate fra gente straniera e non entrate nelle città della Samaria. Andate invece fra la gente smarrita del popolo d’Israele. Lungo il cammino, annunziate che il regno di Dio è vicino. Guarite i malati, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, scacciate i demòni. Come avete ricevuto gratuitamente, così date gratuitamente.”

Per questa ragione, il tempo non lo ha dedicato solo al sapere, in vista della professione medica, ma anche alla crescita della vita interiore, grazie anche agli animatori del Circolo Universitario Severino Boezio che hanno saputo trasmettergli un tale gusto del Vangelo da farne di lui una forza di traino, un esempio persuasivo anche per gli altri giovani.

Le condizioni del tempo, dominato nella vita pubblica dal liberalismo settario, nella cultura dal positivismo ateo, rendono difficile ed aspra, ma perciò tanto più vera e intensa l’attività della nuova Associazione.

Erminio ha esercitato una vera attività apostolica tra gli studenti, in un clima politico-culturale dominato dal liberalismo settario, da un diffuso positivismo ateo e da un anticlericalismo pronunciato ed esteso. Una situazione difficile ed aspra, facilmente infiammabile.

A buon diritto Don Giussani lo ha additato a Comunione e Lierazione come modello del Movimento. Si potrebbe dire che il Pampuri è un “Ciellino” ante litteram. Egli allora ha onorato la FUCI, espressione universitaria dell’Azione Cattolica; oggi è a pieno titolo ispiratore di entrambi i movimenti, ma non dei soli.

Non va trascurato un altro fatto importante e significativo: che, proprio in questo periodo è così provocato dalla Parola di Dio che nel 1921, l’anno della laurea, si iscrive al Terz’Ordine di San Francesco, facendovi la professione l’anno dopo.

Ciò significa giocarsi in prima persona. Il cristiano Erminio vive un Battesimo adulto. Man mano che cadono i denti da latte, si nutre dei cibi solidi della Parola di Dio e dell’ascetica cristiana ben espressa nell’Imitazione di Cristo.

Gli effetti della Cresima si fanno via via sempre più visibili: egli si assume la responsabilità di essere testimone del Vangelo in prima persona, senza i se e senza i ma. Un impegno ecclesiale che si rafforzerà sempre più nelle tappe successive, quando con la donazione di sé a Cristo nella vita consacrata raggiunge il vertice ecclesiale: farsi Parola vissuta, cioè pronunciata e accolta con la vita, per essere segno della presenza di Cristo e del mistero della Chiesa nel mondo.

Il poeta, scrittore e giornalista pavese Federico Binaghi, nel suo “Un epistolario rivelatore” del 1964, dopo aver letto tutto ciò che era in circolazione sul Servo di Dio, si poneva quell’interrogativo che assilla chiunque si accosti a questa figura di santo, apparentemente fatto di nulla, chiedendosi: “Chi fu dunque quest’uomo ?”.

Soffermatosi a lungo sull’epistolario, constatava gli evidenti e pronunciati segni di una santità luminosa e intensa, seppur non ancora pienamente riconosciuta, “in attesa che il Vicario di Cristo la dichiari in tutto il mondo,

ad esempio di ogni cristiano,

a conforto di tutti gli ammalati,

a incitamento di tutti gli incerti,

a confusione di tutti i perversi”.

Il pronunciamento c’è stato: Riccardo è santo della Chiesa universale.

Ma il Binaghi s’era posto ulteriori incalzanti interrogativi che interpellano anche noi e mettono in discussione il nostro bieco modo non solo di concepire la vita ma di vivere il Battesimo. Sono considerazioni che ci mettono a nudo e non ci lasciano scampo, giacché d’ispirazione tutta evangelica:

Che importa salire negli spazi, approdare sulla luna se un giorno questi nostri occhi mortali dovranno inesorabilmente chiudersi per sempre e il nosro corpo sprofondare sotto terra?…

Che importa se l’arte, la scienza, i prodigi delle macchine più perfette non avranno servito a mostrare all’anima nostra l’onnipotenza di Dio, la grandezza della sua misericordia, la follia del suo amore per noi?

Che importa conquistare tutto il mondo se perderemo l’anima nostra?

Fra Riccardo è proprio la risposta sensibile e vibrante a tutte le interpellanze del Binaghi: egli s’è fatto manifesta Parola di Dio per la Chiesa e per il mondo, avendo assunto “i tratti caratteristici di Gesù vergine, povero ed obbediente”.

Il Pampuri ha fatto tutto quello che ha fatto – scrive ancora il Binaghi – “pur di portare nel cuore di tutti coloro che avevano la ventura di avvicinarlo, il Nome di Gesù, la fede nel Padre comune, la presenza dello Spirito Santo”. Caspita! Ti par poco?

E aggiunge: “Fu un testimone dello Spirito Santo:

fu una delle sue voci più fervide, amorevoli, umili ma costanti, limpide e fascinose;

non aveva bisogno di parlare, il suo esempio parlava di lui e del suo amore e trascinava tutti con sapiente e sottile diplomazia alla fede, alla verità, alla gioia del vivere in Cristo.

Era sempre sereno: gli studenti lo amavano: chi non voleva cedere alla sua spiritualità non poteva però fare a meno di rispettarlo.

Parlava poco, sommessamente, ma quando il tema cadeva sulla Fede, non finiva più di parlare: esuberante, allora, e ardente e fluido e rapinoso travolgeva tutti gli ostacoli, abbatteva ogni contradditorio, trascinava tutti gli animi.

Una vita intensa, una giornata che non finiva mai: anche se di notte correva al capezzale degli ammalati, al mattino, come sempre era pronto alla Messa, era felice alla Comunione.

Questa è vita secondo Lo Spirito, un camminare lasciandosi guidare da Lui: «Camminate secondo lo Spirito (…). Se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge».

Queste sono le strade praticate dal Signore per le vie della Palestina. Ecco perché San Riccardo oggi è Parola di Dio per la Chiesa e per il mondo, perché non è rimasto tra le mura del Cenacolo. La Parola del Signore, pronunciata duemila anni fa, attraverso i testimoni è viva ed efficace e si rivela più potente e più forte delle nostre debolezze.

Riccardo ha chiesto come Maria che avvenisse in lui secondo la Parla che gli veniva detta dal Vivente Spirito del Crocifisso Risorto, presente nelle Scritture. Da Maria ha appreso lo spirito di disponibilità che gli ha permesso di ritrovare la verità di se stesso nei percorsi che il Signore di volta in volta gli ha indicato.

La sua esistenza, seppur breve, rimanda al secondo Isaia, cantore della topografia divina:

“Fra poco farò qualcosa di nuovo, anzi ho già cominciato, non ve ne accorgete? Costruisco una strada nel deserto, faccio scorrere fiumi nella steppa.” (Is 43, 19) .

“Non soffriranno più la fame o la sete, né il sole, né il vento caldo del deserto li colpirà. Li condurrò con amore,li guiderò a fresche sorgenti. Faro poassare attraverso le montagne facili strade” (Is 49, 10-11).

Riccardo è stato mandato a mettere in guardia, a provocare, cominciando dai suoi dai suoi “fratelli d’abito”, la Chiesa intera, un Popolo di Dio  dalla troppo facile confusione tra le scelte e cammini umani e i sentieri d el suo Signore:

  • Cercate il Signore,ora che si fa trovare.

  • Chiamatelo, adesso che è vicino.

  • 7Chi è senza fede e senza legge cambi mentalità;

  • chi è perverso rinunzi alla sua malvagità!

  • Tornate tutti al Signore, ed egli avrà pietà di voi!

  • Tornate al nostro Dio che perdona con larghezza!

  • Dice il Signore: “I miei pensieri non sono come i vostri
    e le mie azioni sono diverse dalle vostre” (Is 55, 6-8).

Quelli di Fra Riccardo sono trentatré anni di migrazione. E’ un itinerante con la fede di Abramo, ripetutamente chiamato a migrare sulle strade di Dio. Le sue sono tutte tappe di un esodo permanente che si conclude il 1 Maggio 1930, in Via San Vittore, 12 a Milano.

Un cammino emblematico fatto di ripetute richieste di aiuto, come fa Israele, per poter conoscere e percorrere le vie del Signore:

“Tutti i sentieri del Signore sono verità e grazia per chi osserva i suoi precetti” (Sal 25,10).

“Beato l’uomo che teme il Signore e cammina nelle sue vie, santo in tutte le sue opere” (Sal 145, 17)

Nell’inconro di Riccardo con Gesù di Nazareth ci viene dato di riconoscere come tutte le strade umane possono essere strade del Signore, se percorse con Gesù che è la “via” (Gv 14,6).

Riccardo, che ha confidenza con le Scritture di cui si alimenta quotidianamente con una lettura orante, la lectio divina, sa che il cristianesimo delle origini, descritto negli Atti degli Apostoli, è qualificato come la “via”. Nell’ Anno Paolino è bene cogliere il cammino di conversione dell’Apostolo che il Pampuri non ha mai perso di vista:

“1Saulo intanto continuava a minacciare i discepoli del Signore e faceva di tutto per farli morire. Si presentò al sommo sacerdote, 2e gli domandò una lettera di presentazione per le sinagoghe di Damasco. Intendeva arrestare, qualora ne avesse trovati, uomini e donne, seguaci della nuova fede, e condurli a Gerusalemme.

3Cammin facendo, mentre stava avvicinandosi a Damasco, all’improvviso una luce dal cielo lo avvolse. 4Allora cadde a terra e udì una voce che gli diceva:

  • Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?

  • 5E Saulo rispose:

  • Chi sei, Signore?

  • E quello disse:

  • Io sono Gesù che tu perseguiti! 6Ma su, àlzati, e va’ in città: là qualcuno ti dirà quello che devi fare.

7I compagni di viaggio di Saulo si fermarono senza parola: la voce essi l’avevano sentita, ma non avevano visto nessuno. 8Poi Saulo si alzò da terra. Aprì gli occhi ma non ci vedeva. I suoi compagni allora lo presero per mano e lo condussero in città, a Damasco. 9Là passò tre giorni senza vedere. Durante quel tempo non mangiò né bevve.

10A Damasco viveva un cristiano che si chiamava Ananìa. Il Signore in una visione lo chiamò:

Ananìa!
Ed egli rispose:
Eccomi, Signore!
Allora il Signore gli disse:

- Àlzati e va’ nella via che è chiamata Diritta. Entra nella casa di Giuda e cerca un uomo di Tarso chiamato Saulo. Egli sta pregando 12e ha visto in visione un uomo, di nome Ananìa, venirgli incontro e mettergli le mani sugli occhi perché ricuperi la vista.

13Anania rispose:

- Signore, ho sentito molti parlare di quest’uomo e so quanto male ha fatto ai tuoi fedeli in Gerusalemme. 14So anche che ha ottenuto dai capi dei sacerdoti l’autorizzazione di arrestare tutti quelli che invocano il tuo nome.
15Ma il Signore disse:

- Va’, perché io ho scelto quest’uomo. Egli sarà utile per farmi conoscere agli stranieri, ai re e ai figli d’Israele. 16Io stesso gli mostrerò quanto dovrà soffrire per me.

17Allora Ananìa partì, entrò nella casa e pose le mani su di lui, dicendo: “Saulo, fratello mio! È il Signore che mi manda da te: quel Gesù che ti è apparso sulla strada che stavi percorrendo. Egli mi manda, perché tu ricuperi la vista e riceva lo Spirito Santo”.

18Subito dagli occhi di Saulo caddero come delle scaglie, ed egli ricuperò la vista. Si alzò e fu battezzato. 19Poi mangiò e riprese forza.

Saulo predica a Damasco

Saulo rimase alcuni giorni a Damasco insieme ai discepoli, 20e subito si mise a far conoscere Gesù nelle sinagoghe, dicendo apertamente: “Egli è il Figlio di Dio”. 21Quanti lo ascoltavano si meravigliavano e dicevano: “Ma costui non è quel tale che a Gerusalemme perseguitava quelli che invocavano il nome di Gesù? Non è venuto qui proprio per arrestarli e portarli dai capi dei sacerdoti?”. 22Saulo diventava sempre più convincente quando dimostrava che Gesù è il Messia, e gli Ebrei di Damasco non sapevano più che cosa rispondergli.

Saulo riesce a sfuggire agli Ebrei

23Trascorsero così parecchi giorni, e gli Ebrei fecero un complotto per uccidere Saulo; 24ma egli venne a sapere della loro decisione. Per poterlo togliere di mezzo, gli Ebrei facevano la guardia, anche alle porte della città, giorno e notte. 25Ma una notte i suoi amici lo presero, lo misero in una cesta e lo calarono giù dalle mura.

Saulo arriva a Gerusalemme

26Giunto in Gerusalemme, Saulo cercava di unirsi ai discepoli di Gesù. Tutti avevano paura di lui perché non credevano ancora che si fosse davvero convertito. 27Ma Bàrnaba lo prese con sé e lo condusse agli apostoli. Raccontò loro che lungo la via il Signore era apparso a Saulo e gli aveva parlato, e che a Damasco Saulo aveva predicato con coraggio, per la forza che gli dava Gesù. 28Da allora Saulo poté restare con i credenti di Gerusalemme. Si muoveva liberamente per la città e parlava apertamente nel nome del Signore. 29Parlava e discuteva anche con gli Ebrei di lingua greca, ma questi cercavano di ucciderlo. 30I credenti, venuti a conoscenza di questi fatti, condussero Saulo a Cesarèa e di là lo fecero partire per Tarso.
31La chiesa allora viveva in pace in tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria. Si consolidava e camminava nell’ubbidienza al Signore e si fortificava con l’aiuto dello Spirito Santo”- (Atti 9, 1-31)

Nel suo peregrinare sulle vie del Signore, il Pampuri fa pensare a un altro passo degli Atti, dove si parla di un certo Apollo e che lui ha certamente presente ed in quella stessa ottica sembra muoversi nei diversi contesti in cui viene a trovarsi: “A Efeso in quei giorni arrivò un Ebreo, un certo Apollo, nato ad Alessandria d’Egitti. Parlava molto bene ed era esperto nella Bibbia.

25Apollo era già stato istruito nella dottrina del Signore; predicava con entusiasmo e insegnava con esattezza quello che riguardava Gesù; egli però conosceva soltanto il battesimo di Giovanni il Battezzatore.

26Con grande coraggio Apollo cominciò a predicare nella sinagoga. Priscilla e Aquila lo sentirono parlare: allora lo presero con loro e lo istruirono più accuratamente nella fede cristiana.

27Apollo aveva intenzione di andare in Grecia; i fratelli lo incoraggiarono e scrissero ai cristiani di quella provincia di accoglierlo bene. Appena arrivato, Apollo, sostenuto dalla grazia di Dio, si rese molto utile a quelli che erano diventati credenti. 28Egli infatti sapeva rispondere con sicurezza alle obiezioni degli Ebrei e pubblicamente, con la Bibbia alla mano, dimostrava che Gesù è il Messia promesso da Dio” (Atti 18, 24-25).

C’è un terzo aspetto degli Atti che Riccardo ha assimilato guardando all’Apostolo: essere decisi, forti, ma anche lasciarsi usare:

“24Alcuni giorni dopo, Felice fece chiamare Paolo per sentirlo parlare della fede in Cristo Gesù: era presente anche sua moglie, Drusilla che era ebrea. 25Ma quando Paolo cominciò a parlare del giusto modo di vivere, del dovere di dominare gli istinti e del giudizio futuro di Dio, Felice si spaventò e disse: “Basta, per ora puoi andare. Quando avrò tempo ti farò richiamare”. 26Intanto sperava di poter ricevere da Paolo un po’ di soldi: per questo lo faceva chiamare abbastanza spesso e parlava con lui.

27Trascorsero così due anni. Poi al posto di Felice venne Porcio Festo. Ma Felice voleva fare un altro favore agli Ebrei, e lasciò Paolo in prigione.” ((Atti 24-27).

Per il Pampuri l’importante è riuscire ad attuare la raccomandazione di Paolo, per una vita che abbia un senso:

“Poiché avete accolto Gesù Cristo, il Signore, continuate a vivere uniti a lui. 7Come alberi che hanno in lui le loro radici, come case che hanno in lui le loro fondamenta, tenete ferma la vostra fede, nel modo che vi è stato insegnato. E ringraziate continuamente il Signore. 8Fate attenzione: nessuno vi inganni con ragionamenti falsi e maliziosi. Sono frutto di una mentalità umana o vengono dagli spiriti che dominano questo mondo. Non sono pensieri che vengono da Cristo.

9- 10Cristo è al di sopra di tutte le autorità e di tutte le potenze di questo mondo. Dio è perfettamente presente nella sua persona e, per mezzo di lui, anche voi ne siete riempiti.

11Uniti a lui, avete ricevuto la vera circoncisione: non quella fatta dagli uomini, ma quella che viene da lui e che ci libera dalla nostra natura corrotta. 12Infatti quando avete ricevuto il battesimo, siete stati sepolti insieme con Cristo e con lui siete risuscitati, perché avete creduto nella potenza di Dio che ha risuscitato Cristo dalla morte. 13Un tempo, quando voi eravate pagani pieni di peccati, eravate addirittura come morti. Ma Dio che ha ridato la vita a Cristo, ha fatto rivivere anche voi. Egli ha perdonato tutti i nostri peccati. 14Contro di noi c’era un elenco di comandamenti che era una sentenza di condanna, ma ora non vale più: Dio l’ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce. 15Così Dio ha disarmato le autorità e le potenze invisibili; le ha fatte diventare come prigionieri da mostrare nel corteo per la vittoria di Cristo.” (Col 2, 6-16).

Ma l’aspetto rilevante di questa Parola biblica applicata a Riccardo è cogliere ciò che traspare da quel suo ripetuto abbandonarsi alla “volontà di Dio”. Per Riccardo la via o i sentieri sono del Signore, non tanto perché ci portano verso di Lui, ma perché sono percorsi da Lui o da noi ma con il Signore, operante in noi. Pur nello sforzo ascetico, più che il primato della capacità, lo sforzo, il merito personale, Riccardo esalta il primato dell’economia che regge la vita del cristiano: tutto è dono divino.

Ovunque il Pampuri è passato, nel suo fare del bene a tutti, ha sempre inteso di essere mandato per un annuncio, lo stesso di cui parla Paolo ai Corinzi:

“17Cristo non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunziare la salvezza” ( 1Cor 1,17)

6Il Cristo che vi ho annunziato è diventato il solido fondamento della vostra vita. 7Perciò non vi manca nessuno dei doni di Dio mentre aspettate il ritorno di Gesù Cristo, nostro Signore. 8Egli vi manterrà saldi fino alla fine. (1Cor 1,6-8).

La portata di questa affermazione è ben esplicata dall’apostolo nella menzionata lettera ai Corinti e che il Card. Ha fatto sua quando si è presentato alla Chiesa che è in Miano, inviato per esserne il Pastore. In quel programma apostolico c’è il ritratto dell’umile Fra Riccardo Pampuri, il disarmato di Dio, forte soltanto della sua Parola che dà vita anche alla carne più fragile e inferma:

“Vengo dunque tra voi mandato dal Signore, attraverso la missione conferitami da Papa Giovanni Paolo II: e vengo per portarvi un annuncio, quello di cui parla san Paolo ai Corinzi. E’ il vangelo che voi avete ricevutomnel quale restate saldi e dal quale anche ricevete la salvezza: cioè

  • Gesù Cristo morto e risorto”,

  • redentore dell’uomo,

  • di ogni uomo e di ogni donna che viene in questo mondo,

  • Gesù Cristo morto per noi,

  • Gesù il vivente che ci ama come Dio sa amare.

  • Gesù proclamato nella predicazione e nella catechesi,

  • glorificato nella liturgia,

  • Gesù nostra giustizia, cibo, vita, perdono, speranza, amicizia, trasparenza, fraternità;

  • Gesù che deve crescere in ciascuno di noi e in ogni nostra comunità, perché l’amore cresca.

  • Gesù figlio di Dio, manifestazione della bontà di Dio che si mette a nostro servizio e che ci mette in stato di servizio a favore di tutti gli uomini e le donne del nostro tempo e specialmente dei malati, degli oppressi, degli afflitti, dei disperati.

Ecco l’unico oggetto del mio annuncio, l’unica cosa che avrò a cuore di dire e ripetere con gesti e parole, in pubblico e in privato, a tutti voi e con tutti voi, in particolare con tutto il presbiterio, fino a che il Signore mi darà vita e parola”.

Ma, al di là delle sigle e di come lo vediamo noi, è curioso scoprire, come il Pampuri si vede, quale percezione ha di se stesso. Da un lato si evidenzia in lui una tale fame e sete di Dio che sembra insaziabile; dall’altra da far sollevare allo scrittore pavese Federico Binaghi, già nel 1964, nel suo “Un epistolario rivelatore”, un interrogativo che si pone anche oggi: “Chissà cosa c’era dentro l’anima per sentirsi sempre così colpevole!..”

E‘ Parola di Dio per la Chiesa e per il mondo

Lo dimostra ritardando gli studi, nella professione medica, raggiungendo l’apice nella consacrazione della vita a Dio nell’Ordine degli Ospedalieri che, nel voto di ospitalità assume il significato di una dedizione ai fratelli fino a dare la vita e il sangue, se occorre.

Tale ricorrenza, inoltre, è motivo per ringraziare il Signore per il dono delle persone consacrate che con la loro vita di conformazione a Cristo, di testimonianza al Vangelo e con la loro generosa disponibilità ad annunciarlo nei vasti campi della missione attraverso i diversi servizi carismatici, sono portatori, come lo fu l’apostolo Paolo, della bellezza di Dio e dei doni che lo Spirito del Signore diffonde nel loro genere di vita.

La testimonianza profetica della vocazione dei consacrati e delle consacrate si fonda sull’amore di Gesù, che ha trasformato le loro esistenze, e richiama la stessa passione evangelica di san Paolo, come ha affermato Benedetto XVI il 28 giugno 2008 nei primi vespri dei santi apostoli Pietro e Paolo:  l’apostolo Paolo “ci ha donato una professione di fede molto personale, in cui apre il suo cuore e rivela quale sia la molla più intima della sua vita. “(…) Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Lettera ai Galati 2, 20). Tutto ciò che Paolo fa, parte da questo centro. La sua fede è l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale; (…) è l’essere colpito dall’amore di Gesù Cristo, un amore che lo sconvolge fin nell’intimo e lo trasforma. La sua fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo. La sua fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore”.

È questo anche il movente che spinge ogni persona consacrata a donarsi a Dio e ai fratelli e che compendia tutta un’ampia riflessione sul valore fondante dell’amore per l’identità del cristiano e connota ancor più coloro che si donano al Signore alla radice stessa della loro vocazione e semplicemente li fa essere servi per amore del Vangelo.

Un fatto che certamente segnò la svolta decisiva nella vita di san Paolo fu l’evento di Damasco, l’incontro sconvolgente del giovane Saulo, feroce persecutore della Chiesa, con Gesù di Nazareth, che gli si manifestò con le parole:  “(…) Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?… Io sono Gesù che tu perseguiti!” (Atti degli Apostoli, 9, 4-5), rivelazione divina che lo trasformò in apostolo e missionario delle genti.

Tale cristofania sulla via di Damasco operò la conversione di san Paolo e fu l’investitura divina della sua missione, quale annunciatore del vangelo ai pagani. Egli dirà nella Lettera ai Filippesi:  “(…) Sono stato conquistato da Gesù Cristo” (3, 12), e da colui che “si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani” (Lettera ai Galati 1, 15-16).

È sempre il Signore che fa breccia nel cuore di ogni consacrato, chiamandolo alla comunione personale con lui e guidandolo in un’esistenza trasformata dal suo amore. La persona consacrata nel suo rapporto dialogico con Dio diventa così “epifania dell’amore di Dio nel mondo” (Vita consecrata, cap. III) e può ripetere con san Paolo:  “Per me (…) il vivere è Cristo” (Lettera ai Filippesi 1, 21),  perché  ”l’amore  del  Cristo ci spinge” (Seconda lettera ai Corinzi 5, 14).

La vita fatta donazione di amore, che le persone di vita consacrata vivono tramite i consigli evangelici, trova la sua sorgente e la sua forza nell’ascolto della Parola di Dio. Sul terreno dell’esperienza, infatti, tra i consacrati si avverte un notevole impulso verso la Bibbia come desiderio di ascoltare la Parola di Dio, per cui l’incontro con il Vangelo è la categoria privilegiata attraverso cui presentare la fede cristiana all’uomo d’oggi.

L’incontro con la Parola diviene così un fatto esistenziale interpersonale e un’esperienza religiosa da vivere. Il recente Sinodo dei Vescovi afferma:  “La vita consacrata nasce dall’ascolto della Parola di Dio e accoglie il Vangelo come sua norma di vita.

Alla scuola della Parola, riscopre di continuo la sua identità e si converte in evangelica testificatio per la Chiesa e per il mondo. Chiamata ad essere “esegesi” vivente della Parola di Dio, essa stessa è una parola con cui Dio continua a parlare alla Chiesa e al mondo” (Proposizione 24).

In questo cammino con la Parola di Dio le persone di vita consacrata, come esorta il concilio Vaticano ii, “abbiano quotidianamente tra le mani la Sacra Scrittura, affinché dalla lettura e dalla meditazione dei Libri sacri imparino “la sovreminente scienza di Gesù Cristo” (Filippesi 3, 8)” (Perfectae caritatis, n. 6) e trovino rinnovato slancio nel loro compito di educazione e di evangelizzazione specie dei poveri, dei piccoli e degli ultimi con il Vangelo “promuovendo nei modi consoni al proprio carisma scuole di preghiera, di spiritualità e di lettura orante della Scrittura” (Vita consecrata, n. 94).

Il Testo biblico deve diventare oggetto di quotidiana ruminatio e di confronto per un discernimento personale e comunitario in modo tale che Dio possa tornare, secondo le parole di sant’Ambrogio, a passeggiare con l’uomo come nel paradiso terrestre.

Specie la lettura orante della Parola di Dio (lectio divina), fatta insieme dalle persone consacrate, diventa il luogo per una rinnovata crescita vocazionale e un valido ritorno al Vangelo e allo spirito dei fondatori auspicato dal Vaticano II e sempre riproposto dal magistero della Chiesa come afferma Giovanni Paolo II:  “La Parola di Dio è la prima sorgente di ogni spiritualità cristiana.

Essa alimenta un rapporto personale con il Dio vivente e con la sua volontà salvifica e santificante. È per questo che la lectio divina, fin dalla nascita degli Istituti di vita consacrata, in particolar modo nel monachesimo, ha ricevuto la più alta considerazione. Grazie ad essa, la Parola di Dio viene trasferita nella vita, sulla quale proietta la luce della sapienza che è dono dello Spirito” (Vita consecrata, n. 94).

In particolare, le persone consacrate valorizzino il confronto comunitario con la Parola di Dio, che recherà comunione fraterna, gioiosa condivisione delle esperienze di Dio nella loro vita e faciliterà loro una crescita nella vita spirituale.

Molti sono stati i riferimenti alla vita cristiana e alla vita consacrata che il Sinodo dei Vescovi ha fatto in riferimento alla Parola di Dio. Una delle sottolineature più importanti emerse nell’Assemblea sinodale è stata quella relativa alla necessità di comprendere il senso e la dimensione dell’espressione “Parola di Dio” con il suo concetto analogico.

La Parola di Dio non va semplicemente identificata con le Sacre Scritture, testimonianza privilegiata della Parola, perché la Parola precede ed eccede la Bibbia stessa. La Parola, infatti, è essenzialmente una Persona, è Gesù Cristo, di cui il versetto di Giovanni 1, 14 sull’incarnazione, è la sintesi della fede cristiana. Il cristianesimo non è la religione del libro, ma la religione della Persona, di Gesù Cristo  evento centrale della storia umana, che offre a tutti i credenti la chiave ermeneutica per comprendere le Scritture.

Naturalmente il contesto adeguato e privilegiato per ascoltare la Parola di Dio è la liturgia ecclesiale, in particolare l’Eucaristia, dove la Chiesa vive l’unità dei due Testamenti e celebra la presenza del Cristo vivo, che svela il senso delle Scritture Sante. È in questo contesto che la comunità di fede, aperta a tutta la Tradizione viva della Chiesa, continua a nutrire il popolo di Dio nell’unica mensa della Parola e del Pane eucaristico.

Un contributo tra i più incisivi del Sinodo è stato quello di approfondire una riflessione teologica per situare con chiarezza la Scrittura nell’ambito teologico che le spetta, quello della sacramentalità, per cui il Libro sacro è totalmente relativo al mistero della Parola e ne è mediazione efficace.

Da questo ruolo sacramentale della Bibbia sono seguite alcune attuazioni pastorali:

il rapporto tra Bibbia e liturgia, dove la Scrittura trova nel contesto liturgico il proprio luogo di annuncio, di ascolto e di attuazione;

il rapporto tra Bibbia e comprensione teologica, per cui l’esegesi scientifica si deve aprire al progetto di salvezza, che trova il suo centro in Cristo sapendo valorizzare il dialogo tra esegeti, teologi e pastori;

infine, il rapporto tra Bibbia e Chiesa, in quanto la Tradizione vivente precede il Libro, gli offre l’ambiente vitale, grazie anche al magistero. Benedetto XVI, infatti, ha affermato:  “La storia della salvezza non è una mitologia, ma una vera storia ed è perciò da studiare con i metodi della seria ricerca storica”.

Un altro tema che ha suscitato vasto interesse tra i padri sinodali è stato quello della predicazione e specie dell’omelia, che dovrebbe essere mistagogica, cioè portare i fedeli presenti alla celebrazione ad un incontro di esperienza e di conversione con la persona del Signore e ad avvicinare ogni credente al mistero pasquale di Cristo.

In questa luce la Proposizione 15 sull’omelia recita:  “Essa conduce al mistero che si celebra, invita alla missione e condivide le gioie e i dolori, le speranze e le paure dei fedeli (…).

L’omelia deve essere nutrita di dottrina e trasmettere l’insegnamento della Chiesa per fortificare la fede, chiamare alla conversione nel quadro della celebrazione e preparare all’attuazione del mistero pasquale eucaristico”.

Per questo il Sinodo ha rivolto a tutti un caldo invito all’incontro vitale e diretto con la Scrittura perché da questa nasca “una nuova stagione di più grande amore per la Sacra Scrittura da parte di tutti i fedeli del popolo di Dio, cosicché dalla loro “lettura orante” e fedele nel tempo si approfondisca il rapporto con la persona stessa di Gesù”.

Il Sinodo, dunque, è stato un’esperienza che ha fortemente richiamato tutta la Chiesa, e in particolare le persone religiose impegnate nel campo della vita apostolica, al primato della Parola di Dio nell’annuncio e nella vita di fede, sottolineando sia la ricerca esegetico-teologica della Bibbia, che fa cogliere “il senso spirituale” del Testo sacro e permette di giungere al contenuto delle Scritture secondo il principio dell’ispirazione che anima l’intera Bibbia, sia una pastorale intimamente ancorata alla Parola di Dio e a un accesso comprensibile dei credenti al Libro sacro, accompagnato dall’azione dello Spirito Santo, che è il vero esegeta delle Scritture.

Il messaggio della Conferenza episcopale italiana per la Giornata mondiale della vita consacrata del 2 febbraio 2009 esorta le persone consacrate a un rinnovato e generoso slancio apostolico, affermando:  “Questa Giornata sia per tutti i consacrati e le consacrate l’occasione per rinnovare l’offerta totale di sé al Signore nel generoso servizio ai poveri, secondo il carisma dell’Istituto di appartenenza. Le comunità monastiche e religiose siano oasi nelle quali si vive il primato assoluto di Dio, della sua gloria e del suo amore, nella gioia della comunione fraterna e nella dedizione appassionata ai poveri, agli ultimi, ai sofferenti nel corpo e nello spirito”.

Si tratta, in conclusione, di abbandonarsi alla lode silenziosa del cuore in un clima di semplicità e di preghiera adorante come ha fatto Maria, la Vergine dell’ascolto e della Parola:  “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Luca 1, 38), perché tutte le Parole di Dio si riassumono e vanno vissute nell’amore (cfr. Deuteronomio 6, 5; Giovanni 13, 34-35). 

 

Oltre ogni limite! 

  

La splendida lettera di Papa Benedetto XVI ai Vescovi della Chiesa Cattolica, riguardo alla remissione della scomunica dei quattro Vescovi consacrati dall’Arcivescovo Lefebvre, merita di essere letta tutta e con grande attenzione. In questo blog ci limitiamo a riportarne un significativo passaggio.

Crediamo sia stato oltrepassato ogni limite. Non si può continuare a remare contro tutto e tutti. E’ quanto mai necessario ritornare ad indossare i panni dell’umiltà e della reciproca fiducia. La Chiesa non è un talk-show e non esiste nemmeno un televoto per stabilire quali tra cristiani laici, sacerdoti e vescovi bisogna eliminare! A quale sistema social-televisivo ci siamo adeguati? Quali sostanze sono ancora nutrienti per il nostro apparato spiritual-digestivo? Se la preghiera è il fondamento di ogni comunione, la comunione con Dio e con tutti i fratelli, perché non preghiamo più? Perché continuiamo a “morderci e a divorarci reciprocamente”? 

Ritengo le parole del Papa un serio monito non solo per tutti i Vescovi ma anche per ciascuno di noi.

«E non dobbiamo forse ammettere che anche nell’ambiente ecclesiale è emersa qualche stonatura? A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi – in questo caso il Papa – perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo. Cari Confratelli, nei giorni in cui mi è venuto in mente di scrivere questa lettera, è capitato per caso che nel Seminario Romano ho dovuto interpretare e commentare il brano di Gal 5, 13 – 15.

Ho notato con sorpresa l’immediatezza con cui queste frasi ci parlano del momento attuale: “Che la libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!” Sono stato sempre incline a considerare questa frase come una delle esagerazioni retoriche che a volte si trovano in san Paolo. Sotto certi aspetti può essere anche così. Ma purtroppo questo “mordere e divorare” esiste anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata. È forse motivo di sorpresa che anche noi non siamo migliori dei Galati? Che almeno siamo minacciati dalle stesse tentazioni? Che dobbiamo imparare sempre di nuovo l’uso giusto della libertà? E che sempre di nuovo dobbiamo imparare la priorità suprema: l’amore?» (Benedetto XVI).

Qui 

è possibile leggere tutta la Lettera di Papa Ratzinger.

 

 

ASSOCIAZIONE EX COLLABORATORI FBF BRESCIA

 

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fOTO DI GRUPPO

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MI DIVINIZZO PER UMANIZZARE – Angelo Nocent

 

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VUOI UMANIZZARE?

 

Allora lasciati divinizzare

 

 

Prendo spunto dalla Giornata Mondiale della Gioventù: da Toronto a Colonia

Roma 10-13 aprile 2003

 

Carissimi Padri e Fratelli che vi accingete a vivere il Capitolo Generale Straordinario, “Dio sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù!” (San Giovanni di Dio).

 

Siete nella Chiesa di Cristo che cinque secoli fa ha visto nascere, suscitata dallo Spirito, una nuova famiglia religiosa, per imprimerle una svolta storica: la presenza attiva, corresponsabile e con pari dignità dei Christifideles laici, da sempre collaboratori ma, dopo il Concilio Vaticano II, con la presa di coscienza del ruolo di co-attori sulle scene del mondo della salute; ognuno nel suo ruolo ma “insieme” convergenti nella realizzazione del disegno di Dio sulla storia.

 

Ciò avviene dopo anni di crisi vocazionali nella duplice direzione:

- sempre più rare le nuove vocazioni;

- sempre più numerose le richieste di esclaustrazione.

 

Il fenomeno ha scosso la Chiesa e le coscienze. Così ha sollevato interrogativi che hanno fatto prendere coscienza a tutti i livelli sulla necessità di comunicare nella fede e rendere ragione della speranza che è in ciascuno.

 

Di rendita non si può più vivere. La vigna che il Signore ci ha affidato è la Verità da estendere nel mondo: la buona notizia che il Crocifisso-Risorto vive ed è in mezzo a noi, compagno di viaggio e delle nostre disavventure.

 

Alla situazione attuale, spesso motivo per molti di vero sconforto, non si è giunti improvvisamente come dopo un terremoto od uno tsunami ma progressivamente, per gradi, con l’apporto un po’ di tutti. Ci si è soffermati a denunciare la crisi ma, forse, non si è cercato in egual misura di comprenderne le ragioni, di interrogare gli avvenimenti, di ascoltare le persone, specie le più sensibili e, pertanto, le prime vittime delle umane incomprensioni, dentro e fuori le mura del convento.

 

Oggi sarebbe un grave errore voltare pagina con disinvoltura, quasi non fosse successo nulla e voler ripartire da zero con progetti più fantastici che realistici. Meglio un po’ in ritardo per approfondita riflessione che di fretta per l’orgoglio di mettere la firma di protagonisti della svolta storica. Sotto ogni tornante esiste un precipizio ed un’uscita di strada sarebbe fatale.

 

Se non si ha né tempo né voglia di ritornare sui propri passi per capire cos’è accaduto per segnare così profondamente e dolorosamente la storia dell’Ordine nel nostro secolo, ci si sforzi almeno di leggere la realtà che ci circonda “con gli occhi di Dio”.

Da parte mia, non essendo in grado di leggere la vita religiosa che state vivendo, proverò a leggere quella parte di mondo che mi è più accessibile.

 

I giovani di fronte a Cristo e alla Chiesa

 

Premesso che non appartengo al movimento di Comunione e Liberazione, devo ammettere che non ho trovato una descrizione più sintetica e immaginativa della situazione dei giovani d’oggi che quella emersa in un dialogo di don Giussani con un gruppo di universitari. Se mi seguirete, scevri da futili pregiudizi, finirete per condividere. Egli dice:

” E’ come se tutti i giovani d’oggi fossero stati investiti da una sorta di Cernobyl, di un’ enorme esplosione nucleare: il loro organismo strutturalmente è come prima, ma dinamicamente non lo è più; vi è stato come un plagio fisiologico, operato dalla mentalità dominante. E’ come se oggi non vi fosse più alcuna evidenza reale se non la moda – che è un concetto e uno strumento del potere. Mai come oggi l’ambiente, inteso come clima mentale e modo di vita, ha avuto a disposizione strumenti di così dispotica invasione delle coscienze.

 

Oggi più che mai l’educatore, o il diseducatore sovrano è l’ambiente con tutte le sue forme espressive. Così anche l’annuncio cristiano stenta monto di più a diventare vita convinta, a diventar vita e convinzione. Quello che si ascolta e si vede non è assimilato veramente: ciò che ci circonda, la mentalità dominante, la cultura onniinvandente, il potere, realizzano in noi una estraneità rispetto a noi stessi, si rimane cioè, da una parte, astratti nel rapporto con sé stessi e affettivamente scarichi (come pile che invece di durare ore durano minuti); e, dall’altra, per contrasto, ci si rifugia nella comunità come protezione”.

 

Si può non essere d’accordo su questa diagnosi che coglie nel segno?

 

Parliamo dei giovani ma ci siamo dentro un po’ tutti:

- è come se noi fossimo una estraneità rispetto a noi stessi, degli emarginati, astratti nel rapporto con noi stessi.

 

Perché si è sostituita

 

E’ avvenuto che lo strumento di conoscenza della realtà che è la ragione, ossia quell’esigenza di esperienza in tutti i fattori, è stata sostituita con il sentimento. Vale a dire: io persona non sono quello che sono ma sono ciò che mi sento. La ragione allora si riduce a capacità di giustificazione di questa reazione: “Và dove ti porta il sentimento”. E così ciò che prevale è l’opinione, non il giudizio.

 

Se tolgo l’evidenza di una debolezza originale in cui vive la persona, sono poi costretto a inventarmi un dogma di supporto. Ci hanno pensato i mezzi di comunicazione sociale a far passare l’affermazione di di Rousseau: “Fa’ quello che vuoi perché per natura l’uomo è spinto ad atti virtuosi”. La conseguenza logica è questa: la fatica, il sacrificio, sono diventati una obiezione e non più la condizione del vivere.

 

- Il passo successivo è che ci si ritrova “affettivamente scarichi”, come pile che invece di durare ore durano minuti.

L’affezione, la predilezione, non è più l’attrattiva del vero ma diventa la soddisfazione di un piacere. Di conseguenza, tutto è volubile, insicuro e le pile scariche fanno diventare la vita non un cammino verso qualcosa ma un vagabondaggio, una intermittenza invece di un albore sempre più luminoso.

Anche la religiosità giovanile – non dissimile a quella di tanti adulti – spesso è il fluttuare del sentimento di Dio più che il suo riconoscimento per cui tutte le religioni sono uguali perché corrispondono alla propria spontaneità e non perché realizzano di più la propria natura.

 

- Ma per contrasto, si finisce col rifugiarsi nel gruppo o comunità come protezione.

Così le aggregazioni giovanili nascono per una prossimità di sensazioni e mode più che per un aiuto al crescere della persona. Ne consegue così una nuova forma di ideologia, ossia la cinghia di trasmissione della moda e della mentalità dominante.

In “PORTA LA SPERANZA” – ed. Marietti – l’educatore Don Giussani scrive un capitolo che merita di essere conosciuto, anche perché cita un passo estremamente lucido dell’allora Card. Ratzingher che è una messa in guardia di una certa mentalità dominante in ogni ambiente:

“Ma per il luogo che occupa nella cronologia di ogni vita, in tutti i tempi la gioventù avrà presentato spettacolo di crisi. Perciò, se ora si parla di una crisi dei giovani, particolare ed eccezionale, questa, in ultima analisi, deve essere ricercata in una crisi dell’educazione, dei fattori educativi.

La crisi degli educatori si profila:

 

- in primo luogo come inconsapevolezza che rende gli educatori stessi collaboratori magari incoscienti delle deficienze dell’ambiente

 

C’è una perdita del significato personale del fatto cristiano che è il costituirsi di un soggetto nuovo nella storia e non uno come gli altri con qualche impegno in più come ha detto il Cardinal Ratzinger al Meeting di Rimini del 1990:

- “E’ diffusa oggi qua e là, anche in ambienti ecclesiastici elevati, l’idea che una persona sia tanto più cristiana quanto più è impegnata in attività ecclesiali. Si spinge ad una specie di terapia ecclesiastica dell’attività, del darsi da fare; a ciascuno si cerca di assegnare un comitato o, in ogni caso, almeno un qualche impegno all’interno della Chiesa.

 

- (…) Può capitare che qualcuno eserciti ininterrottamente attività associazionistiche ecclesiali e tuttavia non sia affatto cristiano.

- (…) La Chiesa non esiste allo scopo di tenerci occupati come una qualsiasi associazione intramondana e di conservarsi in vita essa stessa ma esiste invece per divenire in noi tutti accesso alla vita eterna”.

 

All’interno della società  contemporanea spesso il cristianesimo appare legato a delle strutture.

Non essendo sempre queste strutture vivificate da una testimonianza personale, il rifiuto o l’indifferenza nei confronti di queste strutture coincidono col rifiuto o l’indifferenza nei confronti del fatto cristiano, come se la partecipazione ad esse bastasse a giustificare il proprio essere cristiani.

Manca in molti cristiani la testimonianza della soggettività nuova che è il cristianesimo così da rendere occasione di vita queste strutture: si è persa la coscienza del significato personale del richiamo cristiano, come corrispondente all’umano. Così il fatto cristiano rimane astratto, estraneo alla vita, al mondo normale.

E, in secondo luogo, come mancata vitalità nell’atteggiamento educativo che non li fa combattere con sufficiente energia la negatività dell’ambiente, in quanto li attesta su posizioni schematicamente tradizionali, formalistiche, invece che portarli a rinnovare l’eterno Verbo redentore nello spirito della nuova lotta”.

 

Si favorisce la frattura fra cristianesimo e vita.

La società tende a rifiutare o a relegare nell’ambito di una dimensione privata il cristianesimo: cioè un distacco da Dio come origine e senso della vita, quindi dall’esperienza.

Come se Dio rispondesse alla “religiosità” e non alle esigenze della vita. Così, inconsapevolmente, si accetta il ruolo che la società vorrebbe riservare ai cristiani che è quello di essere il supplemento religioso, l’anima per la realizzazione del proprio progetto invece di essere giudizio e quindi collaboratori originali dell’aspirazione comune degli uomini alla loro felicità.

 

Le difficoltà dei figli sono un interrogativo drammatico per i padri; per questo dobbiamo domandarci con T.S. Eliot:

  • “E’ l’umanità che ha abbandonato la Chiesa ?”

 

  • o “E’ la Chiesa che ha abbandonato l’umanità?” (T.S. Eliot – I cori de la Rocca)

 

CRISTO E LA CHIESA

 

Il cristianesimo è un fatto, un avvenimento

Il Cristianesimo è un evento; una persona è entrata nella storia: Gesù Cristo, che alcuni hanno incontrato ed accettato.

E la Chiesa è la possibilità di ripetere oggi questo incontro, la possibilità che si ripeta per tutti, come ha detto il Santo Padre per la XVIII°  Giornata Mondiale della Gioventù:

“Cari giovani, lo sapete: il Cristianesimo non è un opinione e non consiste in parole vane. Il Cristianesimo è Cristo! E’ una Persona, è il Vivente”.

Non dunque una teoria, ma un fatto che ci riguarda, un fatto la cui portata è data da una Presenza personale, la Presenza di Cristo: dell’ Emmanuele, “Dio-con-noi”, di Dio che si è fatto Compagno, amico dell’uomo.

Come scriveva Fedor Dostoevskij ne’ “I Demoni” “Molti credono che sia sufficiente credere nella morale di Cristo per essere cristiani; non la morale di Cristo, né l’insegnamento di Cristo salveranno il mondo ma precisamente questo: che il Verbo si è fatto carne”.

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L’ avvenimento è il metodo

L’ “Avvenimento” non è solo il momento in cui questo fatto si è posto ma indica un metodo, il metodo scelto e usato da Dio per salvare l’uomo: nell’Incarnazione, Dio salva l’uomo attraverso l’umano.

Il Cristianesimo non è la rivelazione dell’esistenza di Dio ma lo stupore che Dio è un Uomo, lo stupore di Kafka: “Colui che non abbiamo mai visto, che però aspettiamo con vera bramosia, che ragionevolmente però è stato considerato irraggiungibile per sempre, eccolo qui seduto” (F. Kafka – Il Castello)

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La salvezza non ci sarà: c’è, il valore del presente

- Se Dio è con noi, la salvezza c’è; e non solo c’è, ma é tra noi.

Perciò è utilizzabile, é sperimentabile già adesso, perché Dio che é salvezza, si compromette con l’uomo, con tutta la sua vita e con la storia. La salvezza é una compagnia: la compagnia di Dio all’uomo, nella quale l’uomo trova la possibilità della sua realizzazione, la consistenza della sua vita e di sé stesso, la sua vera fisionomia, l’unità della sua persona.

La nostra realizzazione, redenzione, non é il risultato del nostro sforzo di coerenza umana, ma é conseguenza dell’ accettazione di quella compagnia.

“Salvare” vuol dire che l’uomo capisca chi è, capisca il suo destino, sappia come condurre i passi verso il suo destino e vi possa camminare.

E’ incontrando questa Presenza che la persona incomincia a capire se stessa, a capire qual’ è il suo destino, a capire come andare al suo destino e con quale energia camminare.

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- Aderire al fatto cristiano, procedere in esso ha come modalità quella della   conversione. Convertirsi non è analizzare l’annuncio, ma compromettersi con esso, cioè con un Fatto, un avvenimento.

La consistenza dell’annuncio è tutta nel fatto che esso penetri nell’ esistenza e la  cambi. L’esperienza di un rinnovamento della vita, di una fisionomia personale imprevista è la prova esistenziale che l’opera della salvezza si sta compiendo, è il centuplo quaggiù.

Così ancora ricordava il Santo Padre ai giovani per la prossima giornata mondiale della gioventù:

“Cari giovani, solo Gesù conosce il vostro cuore, i vostri desideri  più profondi. Solo Lui, che vi ha amati fino alla morte (cfr. Gv 13, 1), è capace di colmare le vostre aspirazioni. Le sue sono parole di vita eterna, parole che danno senso alla vita. Nessuno all’infuori di Cristo potrà darvi la vera felicità.”

O come diceva il Cardinale Giacomo Biffi ad un convegno di teologi a Bologna:

 

  • “Noi non siamo il “popolo del libro”, a rigore non siamo neppure il “popolo della parola”: siamo il “popolo dell’Avvenimento” (…)

  • “Sventurato quel teologo, quel esegeta, quel lettore della sacra pagina per il quale Gesù è primariamente un personaggio letterario, e perciò egli parla del Cristo dei sinottici, del Cristo paolino, del Cristo giovanneo, e non del suo Salvatore”.

Non esiste possibilità di capire il cristianesimo se non si intuisce che il cristianesimo nasce interamente come passione per l’uomo, per il singolo uomo, meglio dalla passione per il destino del singolo uomo.

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LA PERSONA RINASCE DA UN INCONTRO

- Se Dio si è fatto un uomo, è entrato nella storia, il metodo per conoscerlo non può più essere quello di prima della sua venuta, quello di tutte le altre religioni fondate sulla ricerca, sul tentativo dell’uomo.

Prima era poggiato tutto sullo sforzo, lo studio, la genialità, il sentimento religioso, ora è Qualcuno da incontrare, non esige particolari capacità ma la semplicità di un incontro.

Come ha scritto il Santo Padre a don Giussani per i vent’anni della Fraternità di Comunione e Liberazione:

“Il cristianesimo, prima di essere un insieme di dottrine o una regola per la salvezza, è l’”avvenimento” di un incontro . E’ questa l’intuizione e l’esperienza che Ella ha trasmesso in questi anni a tante persone che hanno aderito al movimento di Comunione e Liberazione, più che ad offrire cose nuove, mira a far riscoprire la Tradizione e la storia della Chiesa, per riesprimerla in modi capaci di parlare e di interpellare gli uomini del nostro tempo”.

- L’io ritrova se stesso nell’incontro con una presenza che porta con sé questa affermazione: “Esiste quello di cui è fatto il tuo cuore! Vedi, in me, per esempio esiste”.

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L’incontro con una presenza non costituisce ontologicamente la persona nella sua soggettività:

- l’incontro risveglia qualcosa che era oscuro,

- qualcosa che era esistenzialmente impensato ed impensabile.

L’uomo riscopre la propria identità originale imbattendosi in una presenza che suscita un’attrattiva e provoca un ridestarsi delle esigenze costitutive della sua natura, un sommovimento pieno di ragionevolezza, in quanto realizza una corrispondenza alle esigenze della vita secondo la totalità delle sue dimensioni – dalla nascita alla morte.

Paradossalmente, l’originalità del proprio io emerge quando ci si accorge di avere in sé qualcosa che è in tutti gli uomini.

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- Quindi si tratta di una esperienza da fare. Ha detto il grande biblista Ignace de la Potterie: “La fede cristiana è un cammino dello sguardo” .

 

Senza l’impegno esperienziale non si può capire cos’è il cammino dello sguardo. La cosa più difficile da accettare è che ciò che ci risveglia a noi stessi, ciò che ci risveglia alla verità della nostra vita, al nostro destino, alla speranza, alla moralità sia un avvenimento.

Perché la parola avvenimento, di cui l’incontro è la forma, indica una “coincidenza” fra il reale sperimentabile e il soprannaturale.

Il più grande fatto non è l’esistere ma l’incontro: quel frangente unico da cui tutta una storia dipende, un momento nel tempo, in cui un essere dice “Io sono Tu che mi fai”.

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- La nostra responsabilità è rendere possibile l’incontro con Cristo presente nella nostra testimonianza.

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Occorre dunque immedesimarsi bene con il valore dell’affermazione che il cristianesimo “è” un avvenimento, non “fu” un avvenimento; non “è stato” un avvenimento ma “è”; adesso.

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E’ una presenza paterna che genera un Incontro, cioè l’ impatto con un Avvenimento che ti comunica una vita, perché la vera paternità e quando si comunica una proposta per la vita. E’ una paternità e perciò incontro se è proposta di una risposta a quello che l’altro è.

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- L’incontro si dilata in una compagnia: l’incontro genera una compagnia come certezza affettiva, una famiglia, un luogo in cui ci sia una speranza per la vita. Questa certezza affettiva per i giovani sta negli adulti.

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Come ha affermato il Papa due anni fa: “L’incontro con certe persone genera affinità e quest’affinità genera una compagnia, una comunione, un movimento. Vivere questa comunione è partecipare al Mistero dello Spirito”.

Dall’incontro con queste persone noi ci sentiamo sollecitati ed attratti, e ad esse spinti ad unirci.

L’incontro permane dunque come compagnia. Essa è il luogo dell’umano, è il luogo geografico e sociale in cui siamo richiamati a Ciò cui ci ha ridestato l’incontro: Cristo, il destino fatto uomo.

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La compagnia è il luogo di un’amicizia che nasce dal presentimento del destino e sostiene nel cammino del destino che è Cristo. Questa amicizia è aiuto nell’itinerario che porta alla realizzazione di sé e non alienazione di sé.

Questo è quello che noi dobbiamo provocare, altrimenti è inutile: facciamo solo riunioni. E’ l’esperienza di un Qualcosa che portiamo dentro, cui apparteniamo così profondamente che investe la vita con proposte, che già come parole, come organizzazione del tempo, come iniziative che si prendono e soprattutto come rapporti che si stabiliscono, così che l’altro si può accorgere che non ha mai trovato cose in cui l’umanità è più umana.

Vale a dire, lì si sperimenta, in senso analogico il miracolo.

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Pressappoco quello che avveniva con Gesù quando Egli faceva i miracoli. Lui non è venuto per fare i miracoli, ma ha fatto miracoli per far capire ciò per cui era venuto e chi era Lui, così il nostro scopo è di vivere questa Presenza per diventare la Presenza che prenda tutti gli uomini.

Il metodo è un incontro esistenziale come ha detto Giovanni Paolo I “il vero dramma della Chiesa che ama definirsi moderna è il tentativo di correggere lo stupore dell’evento di Cristo con delle regole

 

L’AMBIENTE

 

Una presenza non può che essere nell’ambiente.

Così lo descriveva don Giussani già all’inizio di Comunione e Liberazione ne’ “Il cammino al vero è un’esperienza” ed SEI:

- “Il nostro richiamo non può andare direttamente alla coscienza: per giungere all’io genuino deve perforare una mentalità che ne è come l’involucro. Tale soprastruttura è costruita in gran parte dall’esasperazione dell’influenza ambientale odierna attraverso i modernissimi mezzi di invasione della persona: propaganda, scuola, televisione ecc.

- Pretendere di resistere o neutralizzare questa influenza è vana cosa se non si riesce a raggiungere la persona proprio là dove essa è più influenzata, cioè nel suo ambiente.

- Tale “ambiente” non coincide evidentemente con un “luogo” nel senso materiale della parola: assai più che un luogo è un ambito, cioè tutto un modo di vivere, una trama di condizioni dell’esistenza.

- Pure nella società attuale tale ambito di vita ha il suo fulcro proprio in un luogo materiale, fisico, che diventa come il punto di riferimento o il crocevia obbligato di tutto quell’insorgere di rapporti e il conseguente prorompere di idee e di sentimenti. I luoghi di riferimento sono la scuola e, secondo proporzioni diverse, il lavoro.

- La capacità educativa è in crisi, quando non crea ambiente e non passa attraverso il confronto con l’ambiente. Non è una capacità educativa quella di far discorsi e di organizzare, ma è il confronto con l’ambiente, cioè la trama di problemi umani che la convivenza pone, come riflesso della società.

- l’impegno con l’ambiente, cioè l’incontro , è generatore di cultura, cioè fa giudicare la realtà alla luce della fede, di un orizzonte totale che avvalora il particolare e manifesta la menzogna della pretesa totalizzante dell’ideologia.

- Come diceva il Papa al congresso del MEIC nel 1982 “Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”.

- e fa crescere la convinzione attraverso la verifica, cioè accorgersi della corrispondenza fra la proposta di Cristo e le esigenze della persona.

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Perché che Dio sia Dio si manifesta come capacità di rispondere all’uomo più che come spiegazione della dottrina.

E’ il centuplo quaggiù, che non è quello che inventa l’uomo ma è la vita vissuta con la coscienza della grande Presenza come fu per Pietro: “Signore, dove andremo, solo tu hai parole che spiegano la vita”.

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DA DOVE PARTIRE

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- Un cristiano, uno che vive i problemi di tutti, che soffre dell’ingiustizia di tutti, che è implicato nelle contraddizioni di tutta la società e che sperimenta in questa esperienza una corrispondenza alla sua umanità, chiedersi che cosa può fare per il mondo?

- Può fare qualcosa di diverso che vivere e rendere presente ciò che ha incontrato ?

Il cristianesimo autentico è l’annuncio dell’Incarnazione: il mistero e l’infinito si incontra in una realtà spazio-temporale precisa: la persona.

Per poter cominciare non servono altri elementi: non serve un’analisi già compiuta, non serve raggiungere una determinata forza e capacità, non serve essere sicuri che si verrà ascoltati e che l’intrapresa andrà a buon fine.

Allora la prima condizione è che questa coscienza dell’avvenimento deve produrre un cambiamento di noi: devono accorgersi i compagni di scuola, la gente che incontriamo, gli amici e i colleghi, cioè che anche noi siamo personalmente coinvolti in questo cammino di realizzazione di sé: educa chi si lascia educare.

Se non si parte da qui il resto rotola nel nulla: può aver qualche momento di efficacia se c’è una personalità umanamente affascinante e attivamente costruttiva, ma passata lei, passato l’inganno.

- I giovani hanno bisogno di uomini che abbiano la statura delle loro esigenze umane sapendo dare ragione della fede che è in loro.

Ci sono due sintomi che ci segnalano se siamo con loro in questa posizione:

- che i ragazzi stessi diventino partecipi di questa esperienza, cioè missionari.

Una volta che si scopre per sé come l’intensità della vita cristiana coincide con l’intensità della passione per sé stessi, in quanto esseri che camminano verso il proprio destino, una volta scoperto questo sé, ci si accorge che questa coincidenza vale per qualunque persona che si incontri, fosse anche per il proprio nemico e non si può non comunicarla.

- che noi impariamo da loro.

Perché il rapporto educativo è una reciprocità: non fare per, MA FARE CON, così che l’adulto è chiamato a verificare lui quello che propone all’altro.

La scoperta più grande che ho fatto e faccio tutti i giorni è che insegnando si cresce, ci si accorge di imparare anzitutto noi e si vorrebbe che quello che si impara diventasse trasparente e persuasivo anche per coloro che sono con noi.

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Come diceva Pier Paolo Pasolini “Se qualcuno ti avesse educato, non potrebbe averlo fatto che col suo essere, non col suo parlare” (da Gennariello in Lettere Luterane).

 

LA VITA NON E’ UNA MERCE- Enzo Tiezzi

La vita non è una merce

Lo scienziato Enzo Tiezzi, ordinario di Fisica chimica all’Università di Siena, ecologista e ambientalista, nonché fotografo e scrittore, continua a sorprendere per il suo infinito canto di vita e di meraviglia per il mondo e il creato.

di Enzo Tiezzi

Quando gli Spagnoli iniziarono la conquista del Messico e del Guatemala, arrivarono in quella che oggi si chiama la penisola dello Yucatan, e furono molto colpiti dalla meravigliosa fortezza Maya di Tulùn, sul mare; cominciarono a pensare di trovarsi di fronte a una grande civiltà, quale poi in realtà si scoprì essere la civiltà Maya.

I primi soldati spagnoli si rivolsero ai gentilissimi indios che avvicinarono e chiesero loro: come si chiama questa città? E la risposta fu: Yucatan. E il vostro re come si chiama? Yucatan. Quindi presero nota nei loro diari di viaggio che erano arrivati nella terra del re Yucatan, che aveva costruito una bellissima città sul mare, che si chiamava Yucatan.

Poi, nei giorni seguenti, chiesero ancora come si chiamasse la terra in cui avevano messo piede, e la risposta fu di nuovo: Yucatan. E infatti ancora oggi, nelle carte geografiche, quella penisola in cui si trova una gran parte del Messico, il Chiapas, il Guatemala, il Belize, si chiama Yucatan.

In realtà in lingua Maya Yucatan significa “non capisco”. A tutte le domande degli spagnoli gli indios rispondevano nella loro lingua “non capisco “, ma c’era già la presunzione, tipica oggi della lingua inglese, del colonialismo americano, di pensare che lo spagnolo fosse la lingua che si doveva saper parlare, perché non ce n’erano altre, perché era la lingua del potere.

Vi ho raccontato questa storiella perché credo sia una buona metafora per parlare di linguaggi e di scambi, tra persone così diverse, come siete voi, di questo bellissimo movimento che mi ha chiesto di stare con voi oggi. Credo che questo sia un problema della scienza, sia un problema della politica, sia un problema della cultura: il problema di ascoltare l’altro, il problema dei linguaggi, il problema del parlare insieme.

E credo anche, come scienziato, che lo scopo corretto della scienza non sia di conquistare la natura, ma di vivere in armonia con la natura stessa, quell’armonia così ben descritta da questo meraviglioso disegno che ci è stato ora illustrato da Maria Cristina.

Una scienza, quindi, che vuole vivere in armonia con la natura, con tutta la natura, una specie di solidarietà estesa alle piante, agli animali, ma in modo particolare alle generazioni future. Vi parlerò in particolare di solidarietà generazionale, di quel concetto che va sotto il nome di sviluppo sostenibile, che però è approdato in Italia in maniera molto distorta, addirittura, in qualche caso, al contrario.

Si parla di “crescita sostenibile”, che è semplicemente un non senso, perché la crescita è ciò che distrugge, ciò che è soltanto merce, ciò che è soltanto profitto e denaro, è la crescita economica; lo sviluppo sostenibile invece dovrebbe essere uno sviluppo in armonia con la natura stessa. Io sono stato uno dei venticinque, insieme a Hermann Daly, Robert Costanza e altri, che, circa quindici anni fa, in una serie di riunioni che ci furono prima a Barcellona poi in Banca Mondiale e poi all’Aspen Institute, mise a punto questo concetto di “sviluppo sostenibile”, che sarà uno degli argomenti che tratterò oggi, ovviamente non pretendendo di essere esaustivo; per gli approfondimenti dovete ricorrere ai libri che ho scritto sull’argomento, in particolare all’ultimo che ho scritto con mia moglie, Nadia Marchettini, dal titolo: “Che cos’è lo sviluppo sostenibile”.

Il libro ripercorre la nascita di questo concetto, che si basa sulla solidarietà generazionale, cioè che guarda non soltanto a questa generazione, ma ai nostri futuri figli e nipoti, perché abbiano delle possibilità, la possibilità di avere uno sviluppo che sia quello di un popolo felice, per tutti i popoli felici della terra.

Ovviamente la mia relazione sarà centrata in modo particolare su alcuni aspetti del mio mestiere, cioè i problemi ambientali e i problemi legati al rapporto con i vincoli biofisici della natura. Sarà divisa in tre parti:

  • la prima parte sarà la più breve e sarà, purtroppo, un “cahier de doleance” su quali sono i grandi problemi drammatici del pianeta, che in questo inizio del millennio dovremo affrontare e che le future generazioni dovranno tentare di risolvere;

  • la seconda parte, la più lunga, sarà dedicata proprio al concetto di sviluppo sostenibile;

  • la terza parte parlerà di una cosa molto pericolosa che stanno facendo alle nostre spalle non tanto degli scienziati, quanto degli apprendisti stregoni: mi riferisco alle biotecnologie, all’ingegneria genetica, alla clonazione, ai cibi transgenici.

Tre parti, quindi, che sono tuttavia spezzoni di discorsi abbastanza globali e complessivi che io porto avanti ormai da tempo nei miei libri e con il mio gruppo di ricerca all’Università di Siena.

Questa prima trasparenza la adopero sempre, ormai dal 1980, e fa vedere che si sta passando da un’economia a “mondo vuoto”, in cui le risorse erano sì mal distribuite, ma in ogni modo, come quantità, sufficienti per la popolazione, a un’economia da “mondo pieno” in cui le risorse, il polmone verde, l’energia, non saranno più sufficienti per la popolazione in crescita. Non affronto, perché non è mio argomento, il problema demografico –
sapete che oggi abbiamo superato i 6 miliardi di individui – lo ricordo soltanto per ricordare un caro amico scomparso, Padre Ernesto Balducci, assieme al quale ho fatto molte cose.

Abbiamo anche scritto un libro, in occasione del centenario della scoperta dell’America, con il titolo rovesciato, 2941 invece che 1492, un anniversario da rovesciare, un anniversario letto alla rovescia. Una volta abbiamo fatto insieme un dibattito alla Cittadella di Assisi, e di fronte a questa mia prima trasparenza dei giovani mi dissero: “Nei sacri testi c’è scritto crescete e moltiplicativi, e quindi forse è giusto fare più figli possibile.” Risposi che non facevo nessuna critica alla mia nonna che aveva avuto dieci figli, ma che ora eravamo in questa nuova situazione. E Padre Balducci disse a questi ragazzi: “Non avete letto attentamente i sacri testi. Nei sacri testi c’è scritto: crescete, moltiplicatevi e riempite la terra. La terra è stata riempita alla fine di questo secolo, e quindi in futuro bisognerà porsi questo problema”.

Siamo passati da 3 a 6 miliardi: ai tempi di Gesù Cristo eravamo 300 milioni, ai tempi di Dante Alighieri 400 milioni, un miliardo all’inizio di questo secolo e tre miliardi 15 anni fa, 6 miliardi oggi, tra quindici anni saremo 12 miliardi, poi 24, il pianeta terra è molto piccolo, c’è il problema dell’ossigeno, il problema del ciclo del carbonio, dell’effetto serra, dell’energia, delle foreste, dell’agricoltura.

Se io volessi dar da mangiare a tutti dovrei disboscare, ma se disbosco distruggo il polmone verde del pianeta; se produco più cibo per ettaro ho l’eutrofizzazione dei mari, la salinificazione, l’erosione, la desertificazione, l’inquinamento delle falde e poi lo sconvolgimento del clima, un fenomeno sotto gli occhi di tutti.

Ad ogni modo dovremmo porci, di fronte a questo problema, il concetto di procreazione responsabile, cioè sapere che quello che poteva essere bello per mia nonna, avere dieci figli, non necessariamente in futuro sarà altrettanto bello. Il problema di fondo – e questo l’ho trattato in un libro che ho scritto e che ormai ha vent’anni, “Tempi storici e tempi biologici” – è che questo pianeta è molto piccolo e la nostra storia di uomini su questo pianeta è minima rispetto alla storia del pianeta stesso.

In questa trasparenza si vede la storia del pianeta Terra, che parte 4.600 milioni di anni fa, paragonata a un anno di tempo, come se fosse passato un anno dalla nascita della terra; quindi la Terra nasce il primo gennaio, l’atmosfera con l’anidride carbonica, il famoso gas serra, ma quello giusto per fare le stagioni, il primo aprile, l’ossigeno che permette alle piante, agli animali e all’uomo di apparire sulla terra, l’otto di novembre; il 26 dicembre appaiono i dinosauri, scompaiono quattro giorni dopo, se la storia del pianeta si rapporta ad un anno; l’uomo appare sostanzialmente a mezzogiorno del 31 dicembre, cioè se la storia del pianeta è la storia di un anno, l’uomo appare sul pianeta a mezzogiorno del 31 dicembre.

La rivoluzione industriale, quella che ha sconvolto i cicli del pianeta, che ha toccato per la prima volta, nella storia di questo pianeta, i gangli vitali della biologia, dell’evoluzione biologica, è iniziata il 31 dicembre alle ore 23, le 11 di notte, 59 minuti, 59 secondi e 59 centesimi. Quindi praticamente la rivoluzione industriale è sul pianeta Terra da un tempo infinitesimo rispetto alla storia meravigliosa, armonica, di biodiversità, di questo meraviglioso pianeta.

Nel frattempo noi stiamo distruggendo i cicli vitali. La pioggia che cadeva su questo pianeta con una certa acidità quando ero ragazzo, con ph di 5,6, cade oggi con un’acidità 20 volte superiore alla pioggia che cadeva al tempo del mio nonno; gli ettari distrutti da questa pioggia si contano in centinaia di milioni all’anno; nel frattempo stiamo sconvolgendo il clima del pianeta.

I satelliti al guinzaglio, quelli che vanno a livello di stratopausa e di termosfera, ci dicono che è in atto un abbassamento della temperatura negli alti strati della stratopausa della termosfera; questo significa che il calore viene trattenuto dentro la terra dal cosiddetto “effetto serra“, cioè dall’anidride carbonica che proviene dai combustibili fossili, che sono quindi per loro natura combustibili non sostenibili, e responsabili dei più grandi danni ambientali del pianeta.

È infatti già in atto un riscaldamento di mezzo grado/un grado; forse qui da noi, in Italia, potremmo essere anche contenti, perché si potranno avere delle stagioni un po’ più calde, ma attenzione, perché questo significa desertificazione nelle zone a rischio di desertificazione: 300 milioni di ettari in più all’anno di desertificazione si aggiungono ogni anno alla lista dei danni che l’effetto serra sta facendo nel mondo.

Qui da noi, non è poi così vero che necessariamente si andrà verso un simpatico caldo, andremo verso lunghi periodi di siccità, ma siccome siamo l’emisfero nord, il caldo, l’atmosfera più calda, farà evaporare enormi masse d’acqua, e quindi se per esempio provengono delle perturbazioni da nord, dall’Artico, dalla Siberia, potrebbero portare anche neve d’estate, sicuramente porteranno molta più acqua nei nostri emisferi e toglieranno l’acqua alla parte tropicale e subtropicale; quindi di nuovo il sud del mondo sarà penalizzato da una gigantesca pompa che prenderà acqua da là facendola evaporare e la riverserà da noi, magari portando uragani e devastazioni.

È stato fatto uno studio dal Global Dynamic Insitute che ha messo  in correlazione l’emissione di gas serra, cioè l’anidride carbonica proveniente dal petrolio e dal carbone, con la frequenza del numero dei cicloni che sono paurosamente aumentati negli ultimi venti-trent’anni. Purtroppo la correlazione è drammatica, il coefficiente di correlazione è 0,9917, quindi praticamente c’è una corrispondenza esatta, matematica, tra aumento dell’effetto serra e aumento del numero dei cicloni; ma potrei citare l’aumento della frequenza del fenomeno dell’acqua alta a Venezia, potrei citare le sciagure di questi ultimi anni del Mozambico, recentemente, del Costarica, dell’America Latina, tre o quattro devastanti uragani e cicloni, il numero dei cicloni nei Carabi sempre più alto: chi è che paga questi danni? In teoria li dovrebbero pagare i petrolieri.

Questo è quindi, sostanzialmente, il mio elenco della prima parte, potrebbe essere veramente lunghissimo, e comprendere ad esempio la rottura della fascia dell’ozono che ci ripara dai raggi ultravioletti e l’eutrofizzazione del mare Adriatico. Voglio aggiungere soltanto che non è che si voglia fare del catastrofismo, non serve a nessuno; si devono sapere le cose come stanno, sapere che se l’anidride carbonica continua ad aumentare nell’atmosfera, ad un certo punto non ci sarà più possibilità di vita sul pianeta, perché, come vi ho fatto vedere prima, la vita sul pianeta è apparsa quando l’anidride carbonica è andata via.

L’atmosfera del nostro pianeta fratello, Venere, è ricca di anidride carbonica e la temperatura è più 420 gradi, ed ogni anno cresce: perché su Venere non c’è possibilità di vita? La risposta la si può insegnare ad un ragazzino delle elementari: tutti sanno che l’acqua bolle a 100 gradi, le piante, gli animali, gli uomini sono all’80- 90% fatti di acqua.

A più 420 gradi nessuna forma vivente, animale o vegetale, potrebbe avere alcuna possibilità. di vita. Quindi l’effetto serra potrebbe cancellare la vita dal pianeta terra; è ovvio che questo stesso discorso riguarda tutto: la terra coltivabile non sarà ad un certo punto più sufficiente per sfamare in nessun modo la popolazione in crescita, non sarà possibile convertire le giungle e le foreste in terra coltivabile senza guastare irreparabilmente il polmone verde che assicura la vita sulla terra.

Quindi noi siamo di fronte, per la prima volta nella storia dell’umanità, ai vincoli biofisici globali del pianeta e con questi dobbiamo fare i conti. Questo non significa mettere da parte il discorso basilare, che per me è da sempre motivo di battaglia e di impegno, della equa distribuzione delle ricchezze: non può esistere uno sviluppo sostenibile, cioè uno sviluppo che tenga conto dei vincoli biofisici del pianeta, senza l’equa distribuzione delle risorse.

Ma l’equa distribuzione delle risorse, la solidarietà globale deve andare anche d’accordo con questi nuovi dati acquisiti dalla scienza dei grandi cambiamenti globali.

Si arriva così a introdurre, e qui passo alla seconda parte della mia relazione, il concetto di sviluppo sostenibile, cioè l’usare le nostre risorse in maniera armonica, corretta dal punto di vista termodinamico, dal punto di vista fisico; in particolare, Georgescu-Roegen, grande economista americano scomparso da una diecina d’anni, sottolineava che la disponibilità di ogni generazione è influenzata dal consumo delle generazioni precedenti. Una quantità di legno, di vegetale che cresce sarà a disposizione per le generazioni future, mentre ogni Cadillac o strumento di guerra significa meno aratri per qualche generazione futura e implicitamente anche meno esseri umani.

Il numero di anni di durata prevedibile delle risorse accertate è 36 per il rame, 100 per l’alluminio, 240 per il ferro, 26 per il piombo, 13 per il mercurio, 17 per lo stagno, 23 per lo zinco. Numeri piccoli nella scala dei tempi biologici; fa notare Georgescu-Roegen che la maggior parte di questi materiali non è riciclabile. Nonostante questo, a maggior ragione, il riciclaggio dei rifiuti è un discorso ovviamente basilare. È quindi all’interno di questi vincoli biofisici che si deve muovere la programmazione economica, al contrario di quanto afferma il pensiero unico di cui vi avrebbe sicuramente parlato in maniera magistrale Marco Revelli, il pensiero unico dell’economia nazionale, quella che ieri è stata fortemente bacchettata dal Papa, dicendo che non possono essere poche multinazionali e pochi paesi a decidere il destino e l’economia del mondo.

La programmazione economica, invece di seguire il diktat di queste poche multinazionali, dovrebbe essere fatta in sintonia con i ritmi della natura e con le dinamiche dei cicli biogeochimici globali. Ritengo, da questo punto di vista, che il bellissimo disegno del vostro Convegno potrebbe essere proprio un simbolo di questa armonia, che parte dalla biodiversità della terra, dalla biodiversità dei prodotti e dalle biodiversità culturali, religiose, filosofiche, che sono il grande patrimonio genetico culturale e storico di questa meravigliosa evoluzione biologica, di questo meraviglioso pianeta.

I vincoli servono a definire la carrying capacitydel pianeta, cioè la capacità del pianeta di portare, di sostenere la popolazione e tutte le altre forme viventi, vegetali e animali, di cui l’uomo e la natura hanno bisogno per sopravvivere. Questa è la base della sostenibilità. Se il pianeta fosse adibito soltanto a fare grano per dare da mangiare agli uomini, e si abbandonassero tutte le grandi diversità delle specie animali e vegetali si rischierebbe moltissimo, perché basterebbe un virus per far sparire quella monocoltura. E qui di nuovo viene un grande insegnamento, da un grande, grandissimo personaggio della storia italiana, San Francesco d’Assisi: quando diceva ai suoi frati di fare l’orto, diceva sempre di lasciarne una parte a selvatico. “Preparate l’orto per mangiare”, poi andavano anche a pesca nel torrente, ” ma lasciate una parte a selvatico”.

Perché? Perché in qualche modo, evidentemente, sapeva che quel selvatico serviva per impollinare le piante, per far vivere una serie di microrganismi, di farfalle, di insetti, che sono tutti essenziali per la vita del pianeta, perché la vita non è proprietà di un singolo individuo o di una singola specie. La vita è una proprietà globale, è un’interazione tra energia, materia, forme, molecole, cicli biologici, ecosistemi, piante, animali, tutti facenti parte di un unico globale. E ovviamente la vita, come scriveva Lucrezio nel De rerum natura, non è qualche cosa che appartiene solo a noi, ma passa da cosa a cosa e deve essere trasmessa alle generazioni future. E qui si viene a questo importantissimo concetto di sostenibilità, che è legato al concetto di capitale naturale.

Il capitale naturale è l’insieme della biodiversità delle specie viventi. In questo insieme c’è un qualche cosa che la scienza ha sempre trascurato: la qualità e la bellezza. La nostra scienza occidentale è basata su un folle assunto antiestetico, proprio di Newton, e anche di Einstein, proprio di Cartesio e di Bacone, che dice che in scienza contano solo i numeri e la quantità, come se le bellezze, le forme non contassero nulla; pensate all’importanza scientifica del suono degli uccelli, dei colori nella natura, il corteggiamento degli uccelli passa attraverso messaggi cromatici, la danza meravigliosa degli uccelli del paradiso, tutta questa bellezza, l’estetica, i colori, le forme, sono parte integrante dell’evoluzione biologica, e se sono parte integrante dell’evoluzione biologica devono essere anche dentro il libro della scienza. Una scienza che esclude la qualità, la bellezza, la diversità, le forme e l’estetica è secondo me una scienza rozza, una scienza meccanicista.

Il Premio Nobel Prigogine, che vive a Bruxelles, in una prefazione a un mio recente libro ha scritto che molti dei mali del mondo vengono dallo statuto promulgato in Inghilterra dalla Royal Society nel 1650. In questo Statuto, ancora vigente, c’è scritto che “scopo della scienza è occuparsi delle tecnologie, delle industrie, delle manifatture, delle produzioni delle merci, senza pasticciare con filosofia, etica, religione, morale, estetica”.

Senza pasticciare: cioè uno scienziato, se si occupa di etica, di filosofia, pasticcia. Credo al contrario che oggi uno scienziato globale dovrebbe mettere tutte queste meravigliose cose nelle sue ricerche scientifiche, altrimenti si vive in maniera schizofrenica, da una parte la quantità e la razionalità, dall’altra il nostro istinto, i nostri affetti, la qualità, la bellezza, la forma. Io ritengo che queste cose vadano integrate in una visione scientifica moderna, globale, diversa, che ci dovrebbe insegnare qualche cosa di nuovo.

Un qualcosa di nuovo è legato alla fondazione di questa nuova disciplina, che ormai ha dieci anni di vita, che si chiama Ecological Economics, la disciplina dello sviluppo sostenibile, che è un tentativo, scrive il suo Presidente, il professor Robert Costanza dell’Università del Maryland, di superare le frontiere delle discipline tradizionali, per sviluppare una conoscenza integrata dei legami tra sistemi ecologici ed economici. Un obiettivo chiave in questa ricerca è quello di sviluppare modelli sostenibili di sviluppo economico, distinti dalla crescita economica che non è sostenibile su un pianeta finito. Un aspetto chiave nello sviluppare modelli sostenibili è il ruolo dei vincoli: vincoli termodinamici, biofisici, limiti di risorse naturali, limiti all’assorbimento dell’inquinamento, limiti demografici, vincoli imposti dalla carrying capacity del pianeta e soprattutto limiti della nostra conoscenza rispetto a ciò che questi limiti sono e a come influenzano il sistema biofisico globale.

Si arriva così alla definizione di sviluppo sostenibile, che è stata fatta propria nel 1987 dalle Nazioni Unite: lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che viene incontro ai bisogni del presente senza compromettere le capacità delle future generazioni di soddisfare i loro propri bisogni. Quindi è una vera e propria solidarietà generazionale, uno sviluppo esteso alle generazioni future. Questa sostenibilità si basa su una serie di regole e principi, sui due principi base dello sviluppo sostenibile, dovuti a un grande economista americano, che ha lavorato per anni con sua moglie, una sociologa brasiliana, in modo particolare nei paesi dell’America Latina, Hermann Daly.

Daly è un cattolico americano, professore di economia ecologica e ha posto le basi della teoria della sostenibilità. Questi due principi dovrebbero in qualche modo sostituire i principi dell’economia classica, le regole auree della crescita, e sono secondo me basilari e fondamentali. Il primo principio di Daly si chiama principio del rendimento sostenibile, e dice che la velocità del prelievo delle risorse deve essere uguale alla velocità di rigenerazione.

Cioè, si può tagliare tanti alberi quanti facciamo in tempo a farne ricrescere, si può pescare tanti pesci quanti facciamo in tempo a fare in modo che vengano riprodotti. Il secondo principio è che la velocità di produzione dei rifiuti deve essere uguale alle capacità naturali di assorbimento da parte degli ecosistemi in cui i rifiuti vengono immessi, altrimenti distruggiamo, ovviamente, il serbatoio in cui viviamo. Questo pianeta, questa terra, l’unica che abbiamo, rischiamo di distruggerla.

Le due capacità, la capacità di rigenerazione o di rendimento sostenibile e quella di assorbimento, devono essere trattate come capitale naturale, sono un’eredità che ci viene da 4.600 milioni di anni. Per fare un esempio: quando la flotta peschereccia italiana di Mazara del Vallo ha cominciato a pescare con le reti a strascico ha distrutto in vent’anni il bentos del Canale di Sicilia. Il bentos è un capitale naturale che ha alle spalle una storia di 600 milioni di anni. In venti anni abbiamo distrutto 600 milioni di anni, e poi siamo andati a rubare ai tunisini, poi la flottiglia ha sconfinato nei mari della Tunisia.

Il fallimento – questa è una regola economica base – nel mantenere un capitale deve essere considerato una cosa negativa, quindi il fallimento nel mantenere queste capacità, le due capacità, i due principi, deve essere considerato come consumo del capitale e perciò non sostenibile.

C’è quindi da riscrivere una nuova pagina di economia che non verrà accettata dagli economisti tanto facilmente, perché mina alla base i loro principi, i loro dogmi, le loro convinzioni di crescita. Recentemente è apparso un articolo che ha fatto scalpore. Il primo firmatario è Robert Costanza, proprio il Presidente della società mondiale di Ecological Economics.

Per due o tre anni migliaia di scienziati in tutto il mondo, in Europa, in America Latina, in Asia, in Africa, hanno accumulato milioni di dati per valutare, per la prima volta, qual è la ricchezza che il pianeta terra ci dà. Il lavoro è apparso sulla più importante rivista scientifica mondiale, su Nature, la rivista in cui scrivono i premi Nobel.
Qual è stato il risultato di questa ricerca?

Non voglio leggervi tutto il contenuto dell’articolo, soltanto due numeri: hanno fatto una stima di qual è la ricchezza che ogni hanno la natura produce per noi, in termini di pesce, di legname, di biomassa, di energie naturali. Questa ricchezza, al valore di mercato di oggi, è equivalente a 33 trilioni di dollari USA all’anno.

Questo numero va paragonato con il Global National Product totale, cioè con la somma di tutti i PIL di tutti i paesi del mondo, cioè con la somma di tutti i Prodotti Interni Lordi – quelli che se aumentano il telegiornale ci dice che va tutto bene – cioè il prodotto mondiale lordo, il prodotto di tutte le attività industriali, artigianali, agricole del mondo, che è di 18 trilioni di dollari Usa all’anno.

La cifra di 33 trilioni di dollari, a causa dell’incertezza dei punti di riferimento, deve essere considerata una stima minima; quindi la natura produce ogni anno una ricchezza che è doppia di tutta la produzione di tutte le multinazionali, le industrie, le attività umane del mondo.

Ma la cosa incredibile è che se oggi comprate il Sole 24ore, c’è scritto che va tutto bene se c’è un aumento del 3% del PIL, si va alla grande, poi non si capisce perché la disoccupazione dilaga, perché il gap tra paesi industrializzati e paesi del Terzo Mondo sta aumentando, perché la povertà aumenta anche all’interno dei paesi industrializzati : penso a molte realtà che conosco negli Stati Uniti dove ho lavorato per due anni e dove le sacche di povertà sono presenti, un paese che tira, che si dice che tira, la cui economia è in crescita.

Se c’è un aumento del 3% il Sole 24ore ci dice che va tutto bene, che siamo a posto, la nostra economia tira – l’Italia poi non ci arriva mai, arriva a malapena al 2% – comunque, vuol dire che questo 18, facendo un conto molto veloce, diventerebbe 18,6: l’aumento del 3% vuol dire qualcosa meno dello 0,6%. Quindi se da 18 si arriva a 18,6 siamo tutti più contenti. Il 33 era 54, è sceso da 54 a 33 in vent’anni. Ogni anno abbiamo perso non 0,6, ma due o tre unità, cioè quasi dieci volte tanto.

E questa è la ragione per cui siamo tutti più poveri, perché il gap tra paesi industrializzati e paesi del Terzo Mondo sta aumentando, perché la disoccupazione giovanile anche in Italia, nonostante la crescita, dilaga. Ma gli economisti della crescita, gli economisti classici non se ne accorgono, o fanno la politica dello struzzo, non lo so, non ho capito ancora molto bene questa cosa. Quello che è certo è che se la terra produce sempre meno per noi, se investiamo sempre meno nel capitale naturale, cioè nel ripiantare alberi, nel far nascere pesci, nel far nascere animali e magari prelevare la selvaggina, nel fare agricoltura, nel fare pesca, se investiamo sempre meno in questo che è il settore primario e produciamo soltanto beni artificiali, magari predicando l’usa e getta, la rottamazione delle macchine, se viviamo sempre più in maniera più energivora, è ovvio che non si va da nessuna parte, perché da una parte ci arrabattiamo per far crescere il 18 a 18,6, cioè più 0,6, e dall’altra parte perdiamo 2, 3 o addirittura 6 nell’arco dello stesso anno.

Quindi distruggere il capitale naturale è la più grande follia che l’uomo abbia mai pensato con la sua ambizione da tecnocrate. Nello stesso tempo, e questi sono i grandi insegnamenti di Daly, di questo grande economista americano, non possiamo confondere il capitale naturale con il capitale prodotto dall’uomo.

La pesca è limitata dalla popolazione dei pesci, non dal numero dei pescherecci. È inutile fabbricare altri pescherecci, si va a distruggere altro bentos, e non si pesca più prima o poi; bisogna avere più pesci, non più pescherecci; è inutile fare più fabbriche di motoseghe, come è successo con i soldi della Comunità Europea in Salvador, quando ormai l’ultimo ettaro della foresta era stato tagliato.Ci vogliono più alberi, non ci vogliono più motoseghe. E così via.

Quindi il problema di fondo, oggi, è che il fattore limitante non è più il capitale prodotto dall’uomo, ma il capitale naturale. Non si tratta di investire per fare più merci e più fabbriche, ma di far in modo che la natura continui a dare quello che per centinaia di milioni di anni ha dato all’uomo e cioè il suo capitale naturale, le sue ricchezze naturali. Consci come siamo che nel mondo stiamo passando da un’era in cui il fattore limitante era il capitale prodotto dall’uomo – prima per dare lavoro bisognava fare fabbriche – a un’era in cui il fattore limitante è quel che rimane del capitale naturale.

Quindi non si deve investire nel fare ulteriori fabbriche che modifichino la natura, ma nel far crescere il capitale naturale, la natura stessa. Senza seguire l’ideologia dell’economia della crescita. Il fondamento che ha spinto l’ideologia della crescita non è la logica dell’economia classica.

Se ci sono degli economisti, sapranno che nelle teorie dell’economia classica, penso ad esempio ad Adam Smith, era molto chiaro che la crescita doveva fermarsi ad un livello ottimale, altrimenti diventava crescita non economica. Noi l’abbiamo superata: come abbiamo superato il limite demografico del pianeta, così abbiamo superato il limite di crescita economica.

E questo discorso vale a maggior ragione per i paesi in via di sviluppo. Perché se noi distruggiamo il capitale naturale, quelli che ci rimettono di più sono loro, il gap di povertà aumenterà sempre di più; non è il nostro modello di crescita quello da esportare per far decollare un minimo di dignità e di prodotti essenziali nei paesi in via di sviluppo, ma al contrario un’economia basata sul capitale naturale, altrimenti rischia di essere una crescita non economica.

Ora dirò una cosa che io non ho mai detto in pubblico, ne ho scritto, riportando le citazioni dell’autore, questo economista americano, Hermann Daly, ma non l’ho mai detta in pubblico perché è una cosa un po’ forte. Credo però che questa sia la platea giusta per dirla, vediamo quali saranno le vostre reazioni.

Daly dice che storicamente la spinta alla crescita è venuta da risposte pratiche fatte dagli economisti ai tre principali problemi, ciascuno associato con il nome di un grande economista della crescita:

  • Malthus per la sovrappopolazione,

  • Marx per l’ingiusta distribuzione delle ricchezze,

  • Keynes per la disoccupazione involontaria. La crescita è la risposta comune ai tre problemi sollevati dai tre moderni economisti.

Daly critica duramente tutti e tre. Malthus, il reazionario, il conservatore inglese del secolo scorso, Marx e l’economista americano moderno Keynes, per questi tre problemi, perché loro pensano, tutti e tre, che i tre problemi, della sovrappopolazione, della distribuzione delle ricchezze, della disoccupazione, si risolvano con la crescita economica, quindi distruggendo in ultima analisi il pianeta. Ora, scrive Daly, si pensa che si sia posto rimedio alla sovrappopolazione con la transizione demografica.

Quando il PIL, prodotto interno lordo pro capite, raggiunge un certo livello, scrivono gli economisti della crescita, i bambini diventano troppo costosi in termini di rinuncia ad altri beni, e la velocità di crescita automaticamente decresce. È quello che successe in Svezia trent’anni fa e quello che è successo in Italia negli ultimi anni. La crescita economica è il miglior contraccettivo, come dice lo slogan. Ci si arriva automaticamente, da sé, come è successo in Svezia e in Italia.

Ora la totale idiozia di questa affermazione è sottolineata dal fatto che come conseguenza si dovrebbe dire, scrive sempre Daly, che il consumo indiano pro capite può aumentare fino al livello svedese, perché la fertilità indiana decresca a livello svedese. Ma se succedesse questo, che cosa accadrebbe all’ecosistema indiano, come risultato di quel livello di consumo totale?

Pensateci un momento, a quello che potrebbe succedere all’India o alla Cina se consumassero come gli svedesi, se bruciassero energia come gli svedesi: dopo dieci anni nessuno più sopravvivrebbe su questo pianeta, e nel frattempo è davanti agli occhi di tutti che non sta succedendo così, sta succedendo esattamente il contrario, gli indiani sono sempre più poveri; quindi non sarà mai l’economia della crescita che porterà a questo.

Daly ancora sottolinea: l’ingiusta distribuzione di ricchezza tra le classi, ci viene detto dagli economisti della crescita, è resa tollerabile dalla crescita. L’alta marea che fa salire tutte le barche, per richiamare un altro slogan, è uno slogan di Marx. Invece la crescita ha aumentato la disuguaglianza sia all’interno che tra le nazioni, questo è davanti agli occhi di tutti. Per rendere le cose peggiori, scrive Daly, anche la metafora dell’alta marea è sbagliata, perché l’alta marea in una parte del mondo implica una bassa marea da qualche altra parte, si salta totalmente il concetto di equilibrio, il concetto di vincoli termodinamici e vincoli biofisici del pianeta e si pensa che con la crescita economica si abbatteranno le disuguaglianze, mentre si arriverà solo ad una maggiore distruzione del capitale naturale, a una maggiore distruzione degli ecosistemi, si renderanno più povere le generazioni future, i figli che devono ancora nascere, mantenendo o addirittura aumentando il gap tra paesi industrializzati e paesi del Terzo Mondo.

Su questa cosa ha dato un contributo bellissimo una meravigliosa donna italiana che purtroppo ci ha lasciato e che forse molti di voi conosceranno, con Ettore Masina l’abbiamo conosciuta nei banchi del Parlamento italiano, Laura Conti. Laura Conti, quando noi eravamo nella sinistra indipendente, era deputata del PCI e aveva fatto una critica fortissima proprio alla visione della crescita di Marx.

Ora guardiamo invece la risposta che dà Daly, bellissima, stupenda. C’è bisogno di soluzioni dirette e radicali ai problemi di Malthus, Marx e Keynes: il controllo della popolazione per trattare la sovrappopolazione, la procreazione responsabile, come diceva Padre Balducci; la ridistribuzione della ricchezza per trattare l’eccessiva disuguaglianza, e per la disoccupazione, un impiego nel settore pubblico come ultima risorsa e la riforma della tassa ecologica per aumentare i prezzi della risorsa in relazione al lavoro; quindi l’introduzione di lavoro, di investimenti nel capitale naturale, piantare alberi, allevare pesci, fare in modo che la natura continui a rendere come rendeva prima, non distruggendola da tutte le parti.

Investire meno nella produzione di merci industriali e investire molto di più nel conservare, difendere e far servire l’ambiente, ottenendo il duplice obbiettivo di attivare  un enorme numero di posti di lavoro e di aumentare il benessere materiale della società, proprio in termini di ricchezza prodotta. Questa non è la frase di un ecologista, di un ambientalista, questa è la frase di un grande economista, di uno dei più grandi economisti viventi, dell’Università del Maryland, Stati Uniti, e mi sembra che sia un frase molto importante e molto bella, anche per rilanciare l’occupazione in Italia, e ovviamente non prendere il PIL, prodotto interno lordo, come dio feticcio, perché il PIL aumenta anche se succede un incidente sull’autostrada, il PIL aumenta anche se c’è un incendio nella foresta e dobbiamo correre ai ripari, il PIL è un indicatore completamente rozzo e stupido, per quanto riguarda l’economia reale, rozzo e stupido, non ha niente di scientifico, non ha niente di serio, è solo un dogma di coloro che ragionano solo in termini di borse, di finanze, di cambi, come purtroppo ci sono, in tutto il panorama politico italiano, all’opposizione e al governo, tra moltissimi di quelli che oggi hanno responsabilità importanti all’interino di questo paese.

Questa crescita del “mondo pieno” spinge ogni paese a sfruttare ulteriormente i beni globali rimasti, cioè si va a distruggere le ultime cose che ci sono, si va a mercificare qualsiasi cosa, ed a cercare di crescere nello spazio ecologico e nei mercati di altri paesi.

Si sgomita da tutte le parti, distruggendo, non guardando alla qualità del cibo, si introducono i grassi cancerogeni nella cioccolata e la Comunità Europea approva ed allora non avremo più la cioccolata vera; si sgomita per crescere in quel poco spazio ecologico rimasto, ed i giapponesi tagliano ormai migliaia di ettari al giorno di foresta amazzonica. Questa follia collettiva la chiamiamo globalizzazione.

I bassi salari impediscono anche alla maggioranza della classe lavoratrice di importare e quindi di dissipare il surplus del commercio. La maniera per tenere i salari bassi è di avere un surplus di lavoro. Un surplus che si può ottenere da una immigrazione facile e da tassi di natalità elevati per la classe lavoratrice.

La globalizzazione economica richiede perciò, per la prosperità di una nazione, che la maggioranza della classe lavoratrice dei suoi cittadini debba essere povera, crescere di numero e vivere in un ambiente che si deteriora continuamente.

Questa è la base della globalizzazione a livello mondiale. La globalizzazione, attraverso la crescita finalizzata all’export, è la nuova pietra filosofale degli alchimisti del Fondo Monetario Internazionale e di altre istituzioni economiche internazionali. Le nazioni possono tutte a turno trasformare il loro piombo in oro attraverso il libero commercio.

In verità, la globalizzazione sta accelerando la transizione verso un’era di crescita non economica, un tempo nel quale, per citare ancora una volta quell’economista ecologico della prima era che è John Ruskin, ciò che sembra essere ricchezza è diventato l’indizio dorato di una rovina di vasta portata.

A questo punto vorrei dedicare la terza e ultima parte del mio intervento al problema delle biotecnologie, dell’ingegneria genetica, come esempio eclatante di quello che sta succedendo sulle nostre teste, alle nostre spalle, nel campo scientifico e industriale, come esempio eclatante di tutto quello che ho detto finora, cioè di una visione distorta del fare merci, del creare ricchezza.

Il ragionamento che viene fatto è il seguente: la gente deve mangiare, perciò produciamo cibo a più basso prezzo: una logica di mercato. A questo punto, si mettono in lizza miliardi di dollari di ricerca, ovviamente come sempre le multinazionali americane sono in prima fila, questa volta accompagnate da quelle olandesi, da quelle giapponesi e da quelle inglesi, e queste multinazionali da anni studiano come manipolare geneticamente le piante, gli animali e l’uomo.

Ovviamente i mass media danno grande risalto all’argomento; quasi tutti i quotidiani di oggi portano come prima notizia la scoperta della chiave della vita, per l’ennesima volta si è vista la sequenza di questo DNA. Però attenzione, perché sui cibi transgenici la Comunità Europea ha posto uno stop. Nonostante le multinazionali americane e inglesi – ovviamente l’Inghilterra ha votato a favore – la Comunità Europea, l’agricoltura francese, quella spagnola e con molte incertezze quella italiana, hanno messo uno stop ai cibi transgenici.

Allora viene fatto un tentativo: si adopera addirittura la platea del festival di San Remo e si manda il premio Nobel Dulbecco, uno degli apprendisti stregoni che è a capo dell’ingegneria genetica, una persona che non considero uno scienziato, anche se ha vinto il premio Nobel, ma solo un manipolatore di informazioni e di geni. Addirittura i giornali scrivono: il professor Dulbecco, premio Nobel, ha avuto un gettone inferiore a quello della valletta. Lui non è andato lì per i 100 milioni del gettone, lui è andato lì perché sta difendendo interessi di decine di migliaia di miliardi di dollari, vale a dire le multinazionali dell’ingegneria genetica.

Allora, si fa il cibo a basso prezzo, perché la gente muore di fame e gli diamo il cibo transgenico. Poi non sappiamo, però, se tra due o tre generazioni questo porterà malformazioni genetiche, morti, mutanti, mutazioni. Non lo sa nessuno: per cui si adopera il mondo per fare da enorme cavia, tanto chi ha i soldi non avrà bisogno di comprare il cibo con la soia transgenica, andrà a comprare il cibo ad alto prezzo di qualità, la nicchia di mercato.

Quindi si fa un esperimento, per la prima volta, sulla pelle di tutta l’umanità. Verranno immessi nei supermercati dei cibi transgenici; io spero di no, ci sono in Italia dei buoni segnali. Nella mia regione, la Toscana, io sono di Siena, hanno fatto scrivere a me e a mia moglie un editoriale, senza nemmeno mettere un briciolo di censura o di modifica. Noi abbiamo sparato a zero, come sto parlando con voi oggi, sull’Informacoop che va a 400.000 persone, tutti i soci Coop della Toscana, e si sono impegnati a non far entrare cibi transgenici nei magazzini Coop in Toscana.

Bisognerà stare molto attenti, comunque, perché poi faranno il trucco come con la cioccolata, non ci sarà scritto sull’etichetta, e allora non sarà così facile sapere quale soia è transgenica, quale riso è transgenico, quale grano, quale frutta. Si fa così un esperimento in cui la cavia è l’umanità intera, in cui ci saranno milioni di persone, prese per fame, che compreranno questi cibi e poi, tra un paio di generazioni, vedremo se queste cose danno mutazioni genetiche oppure no.

Due precisazioni: ci sono quattro parole che hanno lo stesso significato:

  • ingegneria genetica,

  • clonazione,

  • biologia molecolare,

  • cibi transgenici;

sono la stessa cosa, gli stessi apprendisti stregoni che manipolano queste cose.

Attenzione, non sono totalmente contro all’uso della ricerca in questo campo quando si fabbrica per esempio l’insulina per i diabetici, questo si fa in laboratorio. L’insulina non è di per sé cibo ingegnerizzato, si ingegnerizza solo il batterio che la produce, quindi nell’insulina non c’è niente di male, va più che bene, non voglio demonizzare totalmente tutte le ricerche in questo campo, ma quelle nella direzione del cibo, degli animali e dell’uomo sicuramente sì.

Addirittura si compie la più grande beffa scientifica, la più grande disonestà scientifica del mondo. Dicono: se riesco a ingegnerizzare una pianta, per esempio di frumento, o che so, una pianta di vite, questa lo faccio non solo perché sia più bella da vedere, che poi è un discorso molto relativo: tutto uguale, tutto rotondo, tutto dello stesso colore, io diffiderei di questa che non è diversità.

A me piace la mela col baco, perché se piace al baco vuol dire che è sana. Facciamo queste piante che rendono di più, tutte belle uguali, le immettiamo nel mercato e facciamo anche una meravigliosa operazione ecologica: ecco qui la truffa.

Perché questa pianta riesce da sola a uccidere i virus, i parassiti, gli insetti, addirittura tutti e tre: virus, parassiti e insetti, per cui non abbiamo più bisogno di usare i pesticidi, quindi è una pianta ecologica. Ora pensate:

  • una pianta che viene posta nel terreno e che è un killer capace di uccidere virus parassiti e insetti, che cosa farà ai diecimila microrganismi del terreno?

  • Cosa farà a tutti gli altri piccoli animaletti che ci vivono intorno?

  • Cosa farà alle radici delle altre piante?

  • Cosa farà in termini di mutazione?

Se un killer è così forte da poter uccidere virus, parassiti e insetti, evidentemente può uccidere tutto quello che gli sta intorno e domani può uccidere un’altra pianta, e domani può partire nel terreno, nell’agricoltura, in questa meravigliosa terra che abbiamo avuto in eredità da 4.600 milioni di anni, un’azione di omologazione e di killeraggio senza precedenti.

E ce la gabellano come pianta ecologica, perché uccide da sola gli insetti, ma non è una pianta carnivora, è il nostro frumento, è la nostra mela, la nostra uva. E io dovrei bere quel vino?

Questa è la prima cosa che fanno, poi vogliono clonare gli animali, vogliono farli tutti uguali. E qui veramente non hanno studiato Darwin, perché se avessero studiato un po’ di biologia saprebbero che la biologia è storia di biodiversità, che l’evoluzione biologica ha creato migliaia, milioni di tipi di farfalle, di uccelli, di animali, sei miliardi di individui, uno diverso dall’altro.

Qualcuno, una volta, mi ha chiesto in un dibattito della televisione austriaca: “Ma lei, professore, potrebbe avere un sosia?”.

Può darsi che ci sia uno uguale a me, in qualche parte del mondo, ma non parlerebbe col mio accento senese, non avrebbe il mio background, non avrebbe le mie conoscenze, non sarebbe della contrada della Giraffa, quindi non è un mio sosia. A parte il fatto che poi creano la pecora, hanno già fatto 102 pecore Dolly, e regolarmente muoiono, perché si dimenticano per esempio del gene della vecchiaia, perciò a due mesi è come se avesse 120 anni, oppure si dimenticano del gene del latte, quindi dà lana ma non dà più latte, quindi non potrebbe più allevare degli agnellini:
fanno queste pecore tutte clonate, tutte uguali.

La mia denuncia è che questo è contro la natura, è contro la storia della vita, perché la vita è una storia di biodiversità, non è una storia di clonazione, la clonazione è l’opposto della biodiversità, vuol dire fare tutto uguale, tutte le pecore uguali, perché ci interessa la lana, perché è il mercato che la vuole, non la biologia che la vuole; poi si va a toccare quella cosa sacra che è il genoma umano, si vuole anche mettere le mani su queste cose, e si vuole fare quello che nemmeno i nazisti hanno osato fare nei loro terribili esperimenti nei lager, cioè si vuole veramente creare una razza per così dire eletta, sana, perfetta, meravigliosa, non so se tutta bionda o tutta nera, non mi interessa. Quello che mi interessa è che la clonazione, essendo omologazione, essendo distruzione delle biodiversità è secondo me qualche cosa che nega l’esistenza stessa di quella meravigliosa storia di evoluzione biologiche da cui noi veniamo..

DIBATTITO

DOMANDA (Competelli Antonio) – C’è una corrente di pensiero, facente capo ad Alex Langer, che ritiene più idoneo parlare di futuro sostenibile, ritenendo inidoneo parlare di sviluppo sostenibile, forse perché come sviluppo si intende incremento di attività produttive, forse perché siamo influenzati dalla foga di aumentare il PIL. Le chiedo se ci sono coincidenze tra i termini “sviluppo sostenibile” e “futuro sostenibile”. La ringrazio per la risposta anche a nome di tanti amici ed estimatori di Alex Langer.

RISPOSTA – Alex era anche un mio carissimo amico, credo che la mia relazione abbia già chiarito questa cosa. È chiaro che “sviluppo sostenibile” vuol dire “futuro sostenibile” per tutte le popolazioni del mondo, vuol dire solidarietà estesa a tutti i popoli del mondo, solidarietà estesa agli animali e alle piante, solidarietà estesa non in senso conservativo, ma nel senso di uso armonico delle risorse della flora e della fauna, e ovviamente solidarietà generazionale, quindi “futuro sostenibile”.

Invece alcuni economisti della crescita, in Italia, hanno preso il concetto di “sviluppo sostenibile” che è stato coniato da noi con questo significato, con questa idea del futuro sostenibile, e l’hanno tout court tradotto in “crescita sostenibile”: la scorrettezza non è nella parola “sviluppo sostenibile”, ma nell’uso che è stato fatto da questi economisti, Modigliani in testa.

Da questo punto di vista, quindi, “sviluppo sostenibile” coincide con il concetto di “futuro sostenibile”, con grande attenzione all’uso delle risorse, con una base scientifica, seria, di modelli. Per chi fosse interessato, all’Università di Siena, facendo scambi da dieci anni con tutti i laboratori del mondo – io mando i miei giovani a lavorare negli Stati Uniti da Prigogine e da Daly, tutti gli anni – abbiamo in mano per la prima volta in Europa il know how per gli indicatori di sostenibilità da applicare in vari territori: se qualcuno di qualche Provincia o Comune è interessato – per ora è stato fatto un solo studio, in Italia, nella provincia di Modena, uno studio che è durato un paio d’anni, è costato circa 150 milioni – se qualche amministratore o gruppo è interessato a lavorare in questa direzione, noi siamo ben contenti di collaborare e di mettere a disposizione il nostro know how.

Per concludere, Alex Langer aveva ragione a parlare di “futuro sostenibile” e ovviamente quelli che intendono per sviluppo l’incremento delle attività produttive o addirittura l’aumento del PIL ci stanno prendendo per il sedere.

DOMANDA (Fausto) – Una domanda molto breve. Ho letto recentemente su una rivista la relazione di uno stu-dioso, sinceramente non ricordo il nome, però un italiano, che con il suo gruppo sta lavorando alla fusione fredda, che è quella cosa che sembrava fosse una barzelletta, non se vi ricordate qualche anno fa, venne dato questo annuncio, poi venne ridicolizzato, ma ora sembra che non sia una barzelletta, peccato però che naturalmente non ci siano investimenti su questa cosa, perché significherebbe avere una fonte di energia a basso costo non inquinante che chiaramente scardinerebbe il sistema del petrolio.

Se il professor Tiezzi è informato, volevo una conferma su questo. Dico subito, però, in coda alla domanda, che una scoperta di questo tipo, per quanto straordinariamente importante, se confermata, andrebbe nella direzione dell’ecologia dell’efficienza, cioè nella direzione di avere uno strumento che è in grado, con un impatto ambientale molato ridotto, anzi nullo rispetto a quello di altre forme di energia, di fornire una grande quantità di energia, però per tutti i discorsi che ha fatto anche il professor Tiezzi poco fa, è evidente che una ecologia dell’efficienza non è sufficiente, serve un’ecologia della sufficienza, cioè un’ecologia che ci porti ad adottare stili di vita diversi, compatibili con il quadro che prima è stato delineato.

Chiaro che noi non soltanto depriviamo i poveri del mondo delle risorse in termini monetari, li stiamo depredando delle risorse anche in termini ambientali. La Rete, che è nata dall’idea della restituzione di ciò che era stato sottratto e l’ha realizzata in termini di solidarietà “monetaria”, l’autotassazione, mi sembra che potrebbe fare un passo in questa direzione, cioè vedere la restituzione in termini di stile di vita, di assunzione di comportamenti: su questo argomento ormai in Italia stanno venendo avanti una serie di movimenti, di sensibilità, che vale la pena penso di prendere in considerazione.

RISPOSTA – Condivido tutte le considerazioni finali, quindi non entro nel merito. Uno dei modi del colonialismo moderno è anche quello di rubarci l’informazione, di rubarci la scienza, il modo di fare scienza.

La fusione fredda: io ho molta paura del nucleare, almeno del nucleare vecchio, quello che rompe l’atomo, la fusione è un processo diverso, è mettere insieme due atomi per tirare fuori energia.  Uno dei ricercatori che lavora su questo è della mia facoltà, il Professor Piantelli, dell’Istituto di Fisica dell’Università di Siena, credo che sia molto importante ricercare in quella direzione, non credendo però di avere già la soluzione in tasca, e meno che mai di demandare tutto a un’unica soluzione.

La cosa bella è una diversità di energie, l’usare il più possibile le energie del luogo, quindi la eolica, la geotermica, le biomasse, il biodiesel, l’idroelettrico, la cogenerazione, l’energia da rifiuti, il solare, il fotovoltaico;  tante piccole energie insieme forse danno più risposte di un’unica risposta, o tutto petrolio, o tutto nucleare. Però la ricerca sulla fusione nucleare come sull’idrogeno può essere una ricerca molto importante, ma attenzione, perché qui si va a toccare il punto fondamentale dell’esistenza delle multinazionali economiche.

È nostra convinzione – abbiamo parlato spesso anche con gli amici dello sviluppo sostenibile negli Stati Uniti, in Brasile, in America Latina – che dietro al problema dell’energia ci sia un patto faustiano tra i paesi produttori e i paesi consumatori. Il grande guadagno va in mano alle multinazionali, sostanzialmente anglo-americane, alle sette sorelle del petrolio che anche quando si va a toccare il 5% del loro profitto, non hanno problemi ad ammazzare– il caso di Enrico Mattei insegna, voglio dire, ed ora anche l’ENI è diventato subalterno alle scelte delle multinazionali del petrolio; sono i responsabili dell’effetto serra, ma non sono loro a pagare la distruzione del Mozambico o quella dei cicloni o quella delle inondazioni.

Queste multinazionali controllano il prezzo del petrolio. Mi domando, anche in seguito a quello che ha detto il Papa ieri sera, è giusto che siano i Paesi dell’OPEC a decidere il prezzo del petrolio? Non dovrebbero essere le Nazioni Unite o tutti i paesi del mondo? Perché solo quelli che hanno in mano la manipolazione o la produzione di questa fonte di energia così criminale, così terribile per il pianeta?

Infatti, cosa fanno di solito? Ogni volta che ci sono delle ricerche nella direzione dell’effetto serra, investono miliardi perché ci siano ricerche alternative che dicano che l’effetto serra c’è sempre stato, vere e proprie menzogne, ma che vengono scritte da fior di scienziati foraggiati a suon di miliardi. E quando c’è un’energia che comincia ad essere competitiva, come è successo con l’eolica in California, abbassano il prezzo del petrolio e la tagliano fuori dal mercato.

Quando le energie alternative sono un po’ indietro rialzano il rezzo del petrolio, poi lo riabbassano, in modo tale che fanno fallire, nel mezzo, tutti quelli che si mettono a fare energie alternative di vario tipo, e a maggior ragione, le ricerche in questa direzione.

Bene, questo è un patto faustiano: tra i paesi produttori di petrolio ci sono moltissimi paesi arabi, e moltissimi finanziamenti al  fondamentalismo islamico, alle armi del fondamentalismo islamico, vengono ovviamente dai petrodollari. Quindi i soldi che vanno a foraggiare il fondamentalismo islamico, ivi comprese le armi algerine, vengono dalle multinazionali del petrolio, le quali hanno il diritto di decidere qual è il prezzo dell’energia nel mondo.

DOMANDA – Faccio una breve domanda. Premetto che appartengo a quel mondo di coltivatori biologici, che ho da molto tempo amato, che abbiamo messo in piedi molti anni fa, e che adesso seguiamo. Noi siamo preoccupati di una cosa, e volevo chiedere al professor Tiezzi se aveva elementi per illuminarci su questo.

Oggi i nostri campi sono vicini ad altri campi; ci stiamo già organizzando per difenderci anche in termini giuridici, perché non c’è nel diritto alcu-na norma chiara in questo senso, perché se il vicino coltiva con la diossina, questa arriva anche nel mio campo, e quan-do mi produce un danno, oggi mi rispondono: “La diossina sono autorizzato a metterla”, però non hai il diritto di danneggiare il mio campo.

Stiamo difendendoci anche in termini giudiziari, però non sappiamo, questa è la domanda, se le impollinazioni crociate possono interferire sulle nostre sementi; quindi se il vicino, magari a sua insaputa, o perché il mercato glielo propone, mette della soia transgenica o del mais transgenico, questo viene a interferire con le impollinazioni, anche nel nostro campo che riteniamo naturale, di sementi antiche, o comunque da noi selezioniate? Questa è la domanda che ci preoccupa molto, perché vorrebbe dire che anche la nostra agricoltura biologica verrebbe fatalmente inquinata a nostra insaputa.

RISPOSTA – Rispondo brevemente dicendo che non è il mio campo, io mi occupo di problemi energetici e di indicatori di sostenibilità, però la preoccupazione c’è, senza il mimino dubbio, e non può non esserci. Bisognerà stare molto attenti e vedere se succede qualcosa del genere e a quel punto partire immediatamente con le denunce. Questo forse sarà il modo giusto per bloccare la diffusione dei cibi transgenici. C’è anche la speranza,però, che la natura, selezionata dall’uomo in centinaia di anni, con la sua meravigliosa biodiversità si sappia difendere e non accetti l’impollinazione di un gene troppo semplice come quello clonato.
* Professore universitario.

MUNDIAL LAIOS – Internazionale Laici Ospedalieri

 

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MUNDIAL LAIOS

 

INTERNAZIONALE

LAICI OSPEDALIERI

 

BOZZA

 

 

Nel nostro tempo, come parte ed espressione della ricchezza della diversità dei carismi e del dinamismo ecclesiale cresce sempre più la partecipazione di gruppi di laici alla spiritualità e all’apostolato degli Istituti Religiosi, ampliando così la dimensione della complementarietà:

  • Da parte degli Istituti, con la spiritualità propria di una famiglia religiosa;

  • Da parte dei gruppi o movimenti con l’estensione della vitalità del carisma nella società

  •  

Fin dall’inizio della sua opera verso i poveri, i malati e le vittime di ogni disagio sociale, GIOVANNI DI DIO ebbe i laici, donne e uomini, come parte effettiva e importante del suo progetto di carità illimitata e senza confini. Da sempre, presso i Centri e le opere dei Fatebenefratelli, i laici hanno costituito una presenza necessaria, generosa, continua, insostituibile, spontanea e diversificata.

In accordo con i nuovi tempi e riconoscendo la necessità di organizzarsi, al fine di rispondere con maggiore efficacia alla chiamata vocazionale nel mondo nell’attuale contesto ecclesiale e sociale, è necessario dare vita ad un Movimento di donne e uomini, dipendenti nei Centri FBF e non, che si uniscano nel carisma, alla spiritualità e alla vita apostolica dei Fatebenefratelli, come parte della stessa famiglia spirituale per esportare nel mondo della salute e nella Chiesa locale, i carismi del ministero sanante, dono dello Spirito alla Sua Chiesa universale per il Mondo.


I Laici devono studiare e approvarono un primo documento base del Movimento da sottoporre a revisione, integrazione ed approvazione del Capitolo Generale, previo un congruo periodo sperimentale a livello provinciale, fino a diventata sempre più risorsa comune per preparare insieme il cammino futuro. Approvate le “Direttive Generali del Movimento dei Laici Ospedalieri – LAIOS -” , queste orienteranno il Movimento ad experimentum per due anni.


I LAIOS, impegnati nella formazione e nel completamento dell’organizzazione a livello internazionale dovranno continuare tenacemente a coltivare il progetto nelle rispettive realtà locali custodendo e sviluppando il potenziale di cui ogni membro è portatore, annunciando il regno di Dio che è Gesù e guarendo ogni infermità nel Suo Nome. “Amen Gesù. Dio sopra tutte le cose del mondo”. (S.Giovanni di Dio).

Dalla biografia di San Giovanni di Dio e dalla tradizione risulta fondamentale il contributo che i laici possono dare alla vita politica, testimoniando una visione cristiana della vita e della società.

In particolare l’opera dei laici nei Centri della Salute costituisce un campo privilegiato d’incontro e di testimonianza di Cristo.

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I LAIOS ricevono indicazioni molto puntuali dal discorso del Santo Padre Giovanni Paolo II ai religiosi dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio “Fatebenefratelli” – Sala Clementina, Città del Vaticano.

 Titolo: L’accoglienza dei bisognosi è il linguaggio con il quale rendere comprensibile la grandezza dell’amore cristiano.

Testo:

1. Carissimi Fratelli e Collaboratori dell’Ordine Ospedaliero di san Giovanni di Dio! Sono lieto di accogliervi, mentre siete riuniti in Congresso, a Roma, in occasione del V Centenario della nascita del vostro Fondatore. Saluto cordialmente ciascuno dei presenti, in particolare il Priore Generale, come pure i Responsabili delle Famiglie religiose nate dal carisma di san Giovanni di Dio, che davvero ha segnato la storia dell’Ospitalità.E’ proprio questo il tema sul quale state riflettendo, favoriti certamente dall’esperienza comunitaria e dal valido contributo di religiosi, collaboratori, volontari e benefattori dell’Ordine, convenuti dai cinque Continenti.


Mi congratulo con voi per questa iniziativa, con la quale intendete rinnovare e qualificare l’impegno e la spiritualità dell’accoglienza, in un mondo che va sempre più stimolato alla fraternità e alla solidarietà specialmente verso le categorie umane più deboli.

 

2. Nel realizzare tale intento, voi non potete non ispirarvi all’esempio del vostro Fondatore. Egli è per voi un maestro ed un testimone di straordinaria importanza.

 

San Giovanni di Dio fu per i poveri e gli infermi abbandonati di Granada il “buon samaritano” che si prodigo con instancabile zelo per provvedere loro cio di cui avevano bisogno. Se la forza dell’amore lo portava a togliere dalla strada molti indigenti per offrire loro un ambiente più sicuro e confortevole, il suo spiccato senso di ospitalità lo spingeva a perfezionare l’organizzazione della abbozzata struttura ospedaliera, l’assistenza infermieristica e altre opere caritative, da lui progettate. Giovanni non solo pratico l’ospitalità, ma si fece, per cosi dire, egli stesso ospitalità, assistendo giorno e notte quanti la Provvidenza gli faceva incontrare.ale fu il segreto della sua esistenza cosi fedele al Vangelo? La risposta la si trova proprio nella qualifica apposta al suo nome: “di Dio”. Precisamente quel Dio che in Gesù Cristo si è rivelato Padre di ogni uomo fu la ragione del vivere e dell’operare del vostro Fondatore.

 

Consapevole del fatto che il Padre celeste va amato sopra ogni cosa e servito nel prossimo, egli si impegno a concretizzare tale programma spirituale imitando Gesù nella scelta preferenziale degli ultimi. L’uomo infermo e bisognoso divenne per lui la via per dire con Cristo il suo “amen” al Padre. Cosi, come Gesù era passato tra la gente beneficando e risanando tutti (cfr. Ac 10,3), Giovanni seppe portare agli indigenti la parola consolante di Dio, prestando loro le cure necessarie per amore e con amore divino.

4. Ecco dunque l’inestimabile eredità che il Santo Fondatore ha voluto lasciarvi! Si tratta, oggi, di riproporla in modo comprensibile all’uomo contemporaneo, immerso in una cultura individualista ed edonista, evitando di diminuire la forza e la profondità con le quali vi è stata tramandata.

 

In tale prospettiva si colloca la tempestiva apertura del vostro Ordine ai nuovi bisogni sociali, quali l’assistenza ai tossicodipendenti, agli ammalati di AIDS ed ai senza tetto; molto apprezzata è pure la vostra presenza in numerosi Paesi in via di sviluppo, dove i programmi di medicina preventiva e i qualificati servizi ospedalieri, da voi realizzati a favore di quelle popolazioni, costituiscono un’eloquente manifestazione di carità e un segno vivo di speranza.

Importante e significativo è inoltre l’impegno di offrire un servizio di assistenza professionale e nel contempo carico di umanità, competente e aggiornato alle nuove tecniche mediche ma sempre saldamente ancorato ai principi e ai valori del Vangelo e dell’etica cristiana. Senza questa elaborazione, a volte faticosa e complessa, si rischia di perdere la dimensione trascendente dell’ospitalità, riducendola a mera benevolenza per l’uomo.

3. Cosi intesa e realizzata, carissimi Fratelli e Sorelle, l’accoglienza dei bisognosi sarà pure per voi il linguaggio col quale render comprensibile a tutti la grandezza, la forza e l’efficacia dell’amore cristiano. Con tale linguaggio concreto e immediato potrete riaccendere attese, desideri e speranze in cuori talora delusi e affranti; potrete fare eco alla voce di Dio che, nell’intimo della coscienza, invita ogni uomo alla conversione.

 Dare amore attraverso lo stile quotidiano del servizio ai malati vi permetterà di seminare il seme della Buona Novella là dove la sola parola umana risulterebbe, probabilmente, fragile e perfino inefficace.

Vi esorto pertanto a proseguire con rinnovato coraggio ed impegno su questa strada, antica e sempre nuova. In forza del carisma originario potrete contribuire alla nuova evangelizzazione, compito che è dell’intera Chiesa ed al quale siamo tutti sollecitati per rispondere in modo serio ed efficace alle sfide della presente transizione dal secondo al terzo millennio cristiano.Vi aiuti Maria Santissima, che contempliamo durante l’Avvento come Vergine in ascolto della Parola di Dio e modello sublime di accoglienza offerta al Verbo divino; vi sostengano sempre san Giovanni di Dio ed i Santi del vostro Ordine; e vi accompagni la Benedizione Apostolica, che imparto di cuore a voi, alle vostre Comunità ed a quanti vi sono affidati nel quotidiano servizio. (Data: 1995-12-02 Data estesa: Sabato 2 Dicembre 1995).

La Chiesa, mentre si sforza di corrispondere alle necessità pastorali dei sofferenti di ogni genere, esorta di cuore tutto il popolo di Dio e in particolare i fedeli laici sensibili all’impegno apostolico perché, nello svolgimento dei propri compiti specifici si dedichino con generosità al rinnovamento del mondo e all’attuazione concreta di ciò che la verità, la giustizia e la carità esigono”.


Vivere in modo specifico la chiamata vocazionale del Battesimo e la dimensione ecclesiale per mezzo della partecipazione e della condivisione al carisma dell’Hospitalitas, nell’annuncio di Gesù Cristo e nella testimonianza dell’identità di Laico/a Missionario/a FBF nei differenti ambiti della vita quotidiana e nell’impegno missionario nel terzo mondo, affinché “di tutti i popoli si formi un solo popolo e di tutta l’umanità un solo gregge sotto la guida di un solo pastore.”

  Chi sono i LAIOS ? 

Sono laici cristiani, attenti alla sofferenza ed al disagio sociale. Essi partecipano al carisma dell’Ospitalità per vocazione. L’accoglienza è il loro biglietto da visita e la loro missione prima è testimoniare e annunciare l’amore di Dio tra i provati dalla sofferenza, nelle forme della vita quotidiana laicale. Essi si dedicano anche all’evangelizzazione e al servizio missionario ad gentes nelle differenti modalità che la creatività, le necessità e il carisma dell’Hospitalitas stesso suscitano nei diversi contesti. 

Cos’è il Movimento dei LAIOS ?


È la modalità organizzativa che i laici, partecipando allo stesso carisma dei religiosi Fatebenefratelli, si stanno dando a livello internazionale per meglio formarsi e svolgere la propria missione con maggior efficacia. Il Movimento, ancora recente, sta maturando altre modalità d’organizzazione secondo il Diritto Canonico e secondo il Diritto Civile delle singole realtà locali.
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Qual’ é il percorso formativo?


La formazione varia notevolmente da paese a paese. Alcune linee comuni sono delineate nelle “Direttive Generali del Movimento” che i LAICOS hanno approvato insieme al Capitolo Generale. Il programma consiste in un percorso triennale, con periodi formativi intensivi, che scandiscono tre differenti tappe, le quali vanno dall’interesse iniziale a partecipare al Movimento fino all’impegno vero e proprio di partecipazione attiva spirituale e apostolica all’interno di un gruppo locale. Due tematiche fondamentali per il percorso formativo sono l’Ospitalità ed il Farsi Prossimo.
  

Qual’è l’organizzazione?

 

L’elemento strutturale caratteristico è la laicità. Il Movimento è organizzato in gruppi ciascuno con un proprio organo di coordinamento regionale e/o nazionale. Ogni gruppo è costituito da tanti nuclei locali. Questa organizzazione è finalizzata alla formazione dei membri ed al rafforzamento della rete di comunione e scambio tra i membri del Movimento e tra il Movimento e i Religiosi FBF.

L’organizzazione si sta dotando di un organismo rappresentativo internazionale di collegamento tra le diverse realtà locali e di unità con L’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio.


I LAIOS vivono e coltivano la propria fede nel quotidiano, dedicandosi secondo il proprio lavoro e le proprie possibilità al servizio del bisogno. L’azione pastorale dei LAIOS è direttamente legata all’opera missionaria dei religiosi Fatebenefratelli, a seconda delle differenti realtà in cui essi sono inseriti. Si tratta di un dono di partecipazione al carisma.

 

I LAIOS, accomunati dallo stesso obiettivo, affermano che “essere Laica/o Missionaria/o

  • significa rispondere alla chiamata di Dio, vivere in continuo processo di conversione, avere una spiritualità ed esprimerla in tutti i tempi e luoghi dove ci si trova: PAROLA, TESTIMONIANZA e PREGHIERA;

  • essere accogliente, riconoscere ed accettare le differenze etnico-culturali di ogni popolo;

  • testimoniare e promuovere la speranza;

  • essere gioioso, solidale, sensibile e comunicativo, misericordioso”.

 

Il Movimento dei LAIOS è in fase di definizione del proprio statuto e della propria organizzazione a livello internazionale ed a livello di gruppi e nuclei locali, secondo le indicazioni del loro documento “Direttive Generali”, approvate ad experimentum. 

 

Due vele spinta dal soffio dello Spirito…

 Criteri per caratterizzare l’identità del laico ospedaliero – LAIOS

 Il LAIOS è una persona che prende coscienza della sua vocazione battesimale ed è disposto a vivere la dimensione del Regno nel mondo del disagio psico-fisico, nello spirito di Giovanni di Dio.

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Il LAIOS vive la dimensione di Chiesa come popolo di Dio in cammino, testimoniando in essa i valori di accoglienza, misericordia, compassione, solidarietà e giustizia.

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” La partecipazione dei laici non raramente porta inattesi e fecondi approfondimenti di alcuni aspetti del carisma, ridestandone un’interpretazione più spirituale e spingendo a trarne indicazioni per nuovi dinamismi apostolici”.

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  • Il LAIOS, memore della sua Cresima, si propone di vivere il mandato che si caratterizza per la sua specificità, specializzazione, esemplarità, cattolicità, comunione e interetnicità:   Andate…Guarite…Annunciate…” (Mt 10 ss )
  • Il LAIOS è, quindi, la persona che ama Cristo, Giovanni di Dio, il Samaritano, la Famiglia Ospedaliera ed il suo gruppo di appartenenza nella realtà in cui vive, nella prospettiva del regno di Dio.

Una ri-lettura della TRADITIO con un orizzonte anche di lettura laicale, familiare, femminile, ecologica, professionale e giovanile.

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Un cammino di formazione sulla Dottrina Sociale della Chiesa e sull’Etica della vita.

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La missione si presenta come la dimensione più critica dell’ attuale cammino del movimento.

 

  • Collaborare nella formazione specifica sipirituale e tecnica: con contenuti e persone.

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  • Vigilare sul rapporto tra: carisma (Scalabrini) -missione (Migranti) –ecclesialitá (Chiesa locale).

  • Proporre spazi di missione e favorire lo sviluppo del Movimento per una testimonianza organica e complementare dove i diversi ministeri, visioni e servizi siano in sinergia.

 

Dalla figura del Mendicante di Granada, tramandataci dalla storia, ci viene l’indicazione della visione profetica di Giovanni di Dio che già alla metà del 1550, aveva intuito la chiamata di tutti i battezzati all’evangelizzazione e al ministero sanante della Chiesa di Dio ad gente. Egli, discepolo laico del Signore Gesù, sotto la guida dell’Arcivescovo di Granada e del suo Direttore Spirituale San Giovanni d’Avila, coinvolse altri laici, recuperati alla fede e alla “carità, nelle sue opere di misericordia materiali e spirituali.

 

Il laicato si è andato sempre più affermando nella vita della Chiesa e molti, uomini e donne, pur nella diversità di vocazioni e situazioni, si sono adoperati e si adoperano per la costruzione del Regno di Dio.

 

Nella storia dell’ Ordine Ospedaliero, quanti hanno avuto il dono di incontrare la figura di San Giovanni di Dio, la sua spiritualità e il suo carisma, non hanno potuto che rimanerne affascinati.

 

Ancora oggi, in un mondo aperto alla globalizzazione, in cui l’attenzione ai problemi dell’altro, la cultura dell’accoglienza, sono le scelte necessarie per una convivenza pacifica, giusta ed un giorno anche gioiosa dei popoli, la voce di questo LAICO DALLE VISCERE DI MADRE risulta quanto mai viva e attuale.

 

Il fenomeno migratorio, la mescolanza di genti e culture diverse è un’opportunità che Giovanni di Dio avrebbe colto al volo per spendersi, arricchirs reciprocamente – “Fate del bene a voi stessi, fratelli, per amore di Dio!”- e costruire insieme il popolo di Dio.

 

In questa visione, quanti hanno avvicinato i Fatebenefratelli e lavorato accanto a loro in favore di sofferenze fisiche, psichiche hanno sentito il bisogno di formarsi sempre più nella spiritualità dell’Hospitalitas per essere capaci di testimoniare nella vita di ogni giorno l’accoglienza dell’altro, chiunque esso sia. Altri attendono di essere amorevolmente coinvolti nel gioioso spendersi per i fratelli: “L’avete fatto ame…”.

 

Sono nati così i primi gruppi di laici che, nelle varie situazioni locali, iziato un proprio itinerario di formazione e attività.

 

Il 2009 segnerà una svolta storica per l’Ordine FBF che sta per affrontare un Capitolo Generale straordinario per la costituzione della Nuova Famiglia Ospedaliera che sancirà il definitivo e formale coinvolgimento dei laici per la MISSIONE CONDIVISA con i religiosi.

 

 AMICI LAICI

SIATE LAIOS

TENACI E PERSEVERANTI

 

Il volontariato LAIOS ha come elemento identificante l’interesse globale per le tematiche della mondialità e, in particolare, per quelle della mobilità umana e dei rifugiati.

 Si tratta di una “esperienza” di vita in cui il dialogo viene proposto come atteggiamento di fondo per scardinare le chiusure egoistiche di un mondo in balia di un liberalismo incontrollato, incapace di offrire a tutti dignitose opportunità di vita.

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Anche attraverso il volontariato è possibile vedere nel mondo nuove possibilità di dare voce a chi ha voce ma non ha condizioni per poterla esprimere. 

In quest’ottica, i volontari internazionali promuovono e sostengono i progetti di cooperazione (contro vecchi approcci assistenzialisti) dell’Ascs per creare reali condizioni di accoglienza per migranti e rifugiati e per valorizzare le diversità purificandole dai luoghi comuni che alimentano solo stereotipi e pregiudizi.

 

Inoltre le attività promosse dai volontari diffondono la logica della solidarietà contro l’estremizzazione del profitto che ha pervaso le nazioni del cosiddetto primo mondo. 

Per diventare volontari sono disponibili vari corsi di formazione,attivati nei weekend a scadenza mensile, dove oltre all’area motivazionale e conoscitiva viene affrontata anche quella metodologica e progettuale, capace di offrire le competenze necessarie per un servizio di volontariato qualificato. 

Il volontariato, sebbene di recente costituzione, è capace di attirare molti giovani sensibili alle problematiche della globalizzazione, della mobilità umana e della cooperazione come strumento di riequilibrio delle sperequazioni mondiali. 

In sintesi, la logica del dono e dell’agire con gli altri, sono la chiave metodologica del volontariato «per non cavalcare le peggiori paure, ma per seguire le migliori speranze».

 

I VOLONTARI

 

L’impegno dei laici sul fronte dell’aiuto allo sviluppo

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LA COOPERAZIONE, OLTRE L’ASSISTENZIALISMO

 

Tappe di questo cammino, lento ma progressivo.

 

Nel 1998, il Capitolo Generale dell’Ordine intese rilanciare la promozione dei laici, partendo dalla constatazione che, nelle Province dove si era svolto un lavoro di formazione e di accompagnamento, erano sorti gruppi che già amavano chiamarsi “laici Fatebenefratelli”. 

Oggi si avverte che manca un Segretariato generale per la promozionedei laici, con il compito di fornire orientamenti e materiali formativi e suggerire i possibili percorsi di movimento nei diversi contesti locali.

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Nel tempo e sullo spontaneismo, si è andato costituendo un primo contesto operativo, composto da alcuni sacerdoti, religiosi e laici, non in tutte le Province dell’Ordine e non sempre rappresentativi delle varie comunità locali. Questi, incontrandosi periodicamente, hanno iniziato a ragionare sulla fattibilità di organizzare i numerosi gruppi locali in un vero e proprio movimento laicale. 

La “Traditio” è stata lo strumento che ha sollecitato la verifica della specificità dei LAIOS nella Chiesa. 

Oggi necessita al più presto un lavoro di riflessione  che veda i laici muoversi in autonomia ma sostenuti e stimolati dai religiosi. Primo passo: la formazione di una équipe europea di coordinamento fra le varie realtà; successivamente, la proposta del primo convegno dei laici della regione afro-europea,   asiatica ed ausraliana. Le esposizioni dei relatori daranno lo spunto per le successive riflessioni nei gruppi di lavoro. 

L’incontro fra persone di Paesi diversi, la celebrazione di momenti di preghiera interculturale e dell’Eucaristia, confermeranno  e rafforzeranno nei convegnisti la fiducia di poter operare insieme in favore di migranti secondo il carisma e poter trasmettere nei propri gruppi di appartenenza l’esperienza vissuta, per vivificare la convinzione di poter esplicare nella pratica l’invito di …all’accoglienza dell’altro. 

Da queste premesse sgorgherà  l’idea di dar vita ad un movimento laicale e di riflesso l’esigenza di approvare una bozza di statuto che potssa dare una prima struttura a questa nuova entità in fieri. 

Sono premesse necessarie per suscitare nuovo fervore nelle comunità locali e per invocare dallla base una più insistente richiesta di formazione approfondita e possibilmente comune, che costituisca il solido fondamento di una crescita nella spiritualità di San Giovanni di Dio.

Quanto più si riuscirà a capire ed amare la voce della Tradizione, tanto più si sarà capaci di operare nella società odierna con«larghezza di idee e tenacia di propositi».

Questo è l’intento con cui il neonato movimento dei laici dovrà muovendo i suoi primi passi.

 

SUI FONDAMENTI DELL’UMANO – Paola Ricci Sindoni

La «lezione» di Benedetto XVI ai docenti universitari

 

 Torniamo a riflettere

sui fondamenti dell’umano

Paola Ricci Sindoni
(“Avvenire”, 10/6/’08)

C’era molta attesa per le parole del Papa tra i partecipanti del “VI Simposio europeo dei docenti universitari”, svoltosi nei giorni scorsi alla “Lateranense” e promosso dall’”Ufficio per la Pastorale Universitaria” del Vicariato di Roma.


Il tema affrontato, “Allargare gli spazi della razionalità. Prospettive per la filosofia”, ha raccolto a Roma 400 studiosi di 29 Paesi, in ascolto di 63 relazioni incentrate sui vari ambiti del sapere: scienza, società, antropologia, religione, sui quali la filosofia ha dovuto misurarsi per rivedere criticamente i suoi metodi, i suoi spazi “epistemici”, gli obiettivi in ordine alle prepotenti sfide della conoscenza “globalizzata” e di fronte all’inesauribile orizzonte di comprensione che il cristianesimo promette.

Ha dovuto ancora una volta fare i conti con la sua costitutiva povertà: da un lato si è trovata infatti a confrontarsi con la teologia, che nei secoli l’ha vista sua “ancella” sottomessa. Ricca dei presupposti “veritativi” garantiti dalla Scrittura e dall’autorità del “Magistero”, la ricerca teologica ha per lo più finito nei secoli per affidare alla filosofia il “disbrigo” razionale dei ”praeambula fidei”, salvo poi abbandonarla al suo destino marginale.

La modernità, d’altro canto, con l’affermarsi sempre più vittorioso della ragione tecnologica, ha preteso che la filosofia si piegasse all’indiscussa autorità del sapere scientifico, ricco del suo progressivo accumulo di verità empiriche. Il compito della filosofia, “dismessa” la sua funzione di riscoperta del senso, non avendo tra le sue mani alcuna verità se non nella forma dell’indefettibile ricerca, si è spesso dispersa nei sentieri astratti delle teorie intellettuali “autoreferenziali”, o al contrario rivolta a “decostruire” la conoscenza razionale, puntando alla “frammentarietà” finita dell’esistenza umana.

Con linguaggio essenziale e profondo, Benedetto XVI ha riportato al centro la dignità della filosofia e del suo insostituibile ruolo di chiarificazione razionale della realtà e del destino dell’uomo, che vuole scoprire il senso del suo abitare dentro il mondo, al cui interno verità e “disillusione”, progetto e fallimento, idolatria e “disincanto” si intrecciano pericolosamente.

Da qui l’orientamento proposto dal Papa, una volta ammesso che il dialogo tra fede e ragione non può più avvenire nei termini in cui si è svolto nel passato: i filosofi hanno il compito di rimettere in moto le potenzialità ancora inespresse della ragione, al fine di individuare aperture costruttive, volte a garantire al nostro tempo quello spazio necessario alla riflessione sui fondamenti “ontologici” dell’umano, oltre che sulla concretezza dei suoi orizzonti di vita, così da permettere di accogliere con libertà le istanze positive e le promesse che il cristianesimo offre, là dove la ricerca può assumere il senso di un fecondo intreccio tra la “ratio” (che è l’ordine concettuale e rappresentativo della realtà) e il “Verbum”, luogo privilegiato di una Parola che interpella, accoglie e custodisce. Realizzare “laboratori culturali”, per approfondire questi punti di convergenza tra filosofia e gli altri ambiti della ricerca, coinvolgendo le energie creative delle giovani generazioni in questa straordinaria “avventura”, è il lascito prezioso di queste importanti “giornate” romane.

RELIGIOSI E LAICI fatebenefratelli VERSO IL CAPITOLO PROVINCIALE – A. Nocent

 

RELIGIOSI E LAICI

VERSO IL CAPITOLO PROVINCIALE

nella gioia della fede e nella prospettiva della missione

 

1. Collaborazione o corresponsabilità?

2. Collaboratori della verità

3. “Laici collaboratori”: un malinteso che perdura

4. I Laici al 66° Capitolo Generale

5. Prima del carisma viene il Fatto

6. Predicare e curare

 

Collaborazione o corresponsabilità?

 

Il 20 Gennaio 2007, ricorrenza della “conversione di san Giovanni di Dio”, incontro all’Università Cattolica di Milano il Direttore di questa rivista. E’ così buono che mi rinnova la collaborazione e mi  propone di orientare la riflessione sul carisma dell’ hospitalitas in direzione del binomio “Religiosi/Laici collaboratori”. E’ un tema emblematico perché, dopo gli approcci tentati in questi ultimi anni, sembra esservi in atto un timido fidanzamento che, tuttavia, stenta ad approdare alle nozze. Spero che mai e poi mai assuma il significato di un matrimonio “riparatore”, dovuto alla carenza di vocazioni. Oggi si tratta di passare dagli “ammiccamenti” ad un rapporto non tanto di collaborazione quanto di “corresponsabilità” che è poi la lezione che ci viene dalla Chiesa italiana convocata a Verona proprio in concomitanza del LXVI Capitolo Generale.

 

Nel confermare gli altri nella fede, testimoniando le ragioni “della speranza che è in me” (cfr. 1Pt 3,15), più che di essere arguto e brillante scrittore, qui mi viene primariamente chiesto di essere “credente”. Ciò che ha animato l’apostolo Paolo nella lettera ai Galati, deve ispirare ogni cresimato che si metta al servizio della Parola: “Dinanzi ai vostri occhi non ho presentato se non Cristo e Cristo crocifisso” (1Cor 2, 2). Cosa mi giustifica d’essere qui a mostrare Cristo con la penna? L’aver fatto l’esperienza di Gesù, l’averne avvertito esattamente il Suo sguardo personale d’amore, così ospitale, accogliente, nonostante le mie debolezze e ingratitudini.

 

Scrivere di hospitalitas non è facile. Lo faccio nella convinzione condivisa dai Fatebenefratelli, che anche questo è un servizio che rientra nel carisma del Fondatore. Egli infatti che fu pure venditore di libri, dapprima ambulante e poi stabile in Granada fino alla conversione, ha questuato, organizzato, assistito, curato…e perfino scritto e dettato lettere. Le poche rimaste, non solo ne rivelano il temperamento e la statura ma evidenziano il variegato carisma: anche “la carità della verità” rientra nel suo piano di attenzione all’uomo, nell’ottica delle opere di misericordia spirituali. Egli, apertosi totalmente all’azione dei Sette Santi Doni, reso partecipe della fantasia di Dio, si colloca tra i più benemeriti “collaboratori della verità ” (3 Gv, 8) del suo tempo. Ed è su questo tema che vorrei soffermarmi. 

Collaboratori della verità

 

I laici che si mettessero in mente di camminare sulle orme di San Giovanni di Dio, prima o poi saranno colti di sorpresa dalla stessa domanda che un giorno si sentirono rivolgere due fratelli, Andrea e Simone:

 

“Gesù si voltò e vide che lo seguivano. Allora disse:- Che cosa volete? Essi gli dissero:- Dove abiti, rabbì? (rabbì vuol dire: maestro). Gesù rispose:- Venite e vedrete. Quei due andarono, videro dove Gesù abitava e rimasero con lui il resto della giornata. Erano circa le quattro del pomeriggio” (Gv 1, 38-39)

 

Con l’invito a rileggere il testo evangelico parola per parola, perché fondamentale per chi intende mettersi in viaggio, mi auguro che la reazione personale sia identica. Ma vorrei portare velocemente ad un’ulteriore fondamentale considerazione che raccolgo da un carissimo amico, parroco di san Vigilio all’EUR, che ha appena pubblicato sul tema un poderoso volume di mille pagine sul vangelo di Giovanni di cui è innamorato: “L’altra grande immagine della Chiesa in Giovanni – che assomiglia molto a quella di Paolo – è al Cap. XV, quello della vite e dei tralci: “Chi è in me porta molto frutto, altrimenti viene tagliato e viene gettato via”. Paolo dirà che il l cuore della Chiesa è Cristo, che è il capo, mentre noi siamo le membra, e tutti facciamo un corpo solo. Giovanni riporta questa poderosa immagine della vite e Gesù che dice: “Chi è in me porta frutto”. Noi possiamo veramente vivere la nostra fede, la speranza e la carità nella Chiesa nella misura in cui siamo in Cristo. E guardate che tutte le grandi crisi che la Chiesa vive nei secoli, è perché forse viene meno qualche volta questa centralità di Cristo: magari un papa può pensare di essere lui il grande, ma è Gesù il Pastore e questo guardate dà una grande libertà, nella misura in cui noi siamo comunità in Cristo e da lui abbiamo l’acqua della vita eterna” (d. Enrico Ghezzi).

 

Le applicazioni nel nostro campo più ristretto sono identiche: tutto funziona “nella misura in cui siamo in Cristo”. Diversamente la “baracca” crolla addosso. Nella foga del dibattito di questi anni, forse è sfuggito un particolare che, se recepito, potrebbe ribaltare il rapporto non ancora ben definito religiosi/laici. L’apostolo Giovanni in una sua lettera parla dei discepoli come di “collaboratori della verità” (3 Gv, 8). E ne spiega le ragioni. E’ importante osservare che questa formula esprime la partecipazione di tutti i credenti all’opera di evangelizzazione e, insieme la dimensione “cattolica” della fede. Lui, che si definisce l’anziano, esorta all’ospitalità verso chi annuncia la fede. A tal proposito ho trovato sapienti e preziose considerazioni dell’ allora Card.  Ratzingher nella prefazione di un suo libro. Esse ci permettono di estendere gli orizzonti del nostro intendere l’ hospitalitas, quasi sempre esclusivamente legata al malato.

” Egli [l'Apostolo] mette così in guardia dal ripiegamento in sé e dall’isolamento di quelle comunità che si concepiscono come ambiti chiusi.

Negare ospitalità a  coloro che recano la buona novella del Vangelo è per lui espressione di un rinnegamento dell’autenticità cattolica e in questo modo è’ anche un atto di chiusura nei confronti della verità.

All’opposto, l’amore, la premura con cui i credenti offrono cibo e ricovero agli apostoli e missionari, nelle loro peregrinazioni, è già di per sé servizio alla verità.

Mediante la carità, essi rendono possibile la predicazione e in questo modo divengono a pieno titolo collaboratori del Vangelo.

Dunque, in questa breve formula ["collaboratori della verità "] già traluce l’intimo legame tra verità e amore, tra fede personale e cattolicità che e’ tipico della Chiesa, ma anche la correlazione vicendevole tra chi esercita un ministero e i semplici fedeli: essi, pur nella diversità del loro servizio all’unità, raggiungono insieme l’onere e la grazia della proclamazione del Vangelo”.

Queste indicazioni magisteriali cadono a proposito: esse illuminano quella difficoltà che si fa ormai sempre più evidente: sincronizzare il rapporto tra religiosi e laici collaboratori. Se il concetto venisse recepito, l’orizzonte si amplificherebbe fino a coinvolgere non solo gli ospedali ma anche le Chiese locali. Se in esse palpita il cuore della collettività intera, si vivono le gioie e i problemi, si celebra la vita e si ritrova la speranza di fronte alla morte, si fa festa per una nuova famiglia, si condivide la responsabilità e la preoccupazione del giovane che diventa adulto, si vive la pietà popolare che ha plasmato generazioni intere, che ha dato risposta alle domande più profonde e speranza di fronte alle difficoltà, sarà mai possibile estraniarle dal ministero sanante dell’ hospitalitas, percorso obbligato ”per dire l’uomo” nella veste di nuovi Samaritani?

 

. Dove ognuno si trova collocato nelle 24 ore della sua giornata, lì è presente un “collaboratore della verità”, lì salta fuori il profeta-servo di Dio inviato a portare la buona notizia ai poveri, a predicare l’anno della misericordia, a sanare ogni infermità. Volendo stilare un elenco, si rischierebbe di tralasciare qualche umile figura che ne farebbe parte a pieno titolo. Ma si può benissimo schematizzare:  il vescovo, i presbiteri e i diaconi, i religiosi, i laici nella molteplice espressione dei movimenti…Ed in posizione privilegiata: i sofferenti. Tutti nella Chiesa di Dio ed in modo davvero personale, siamo dei cooperatori.

Più che una curiosa divagazione, ritengo che quella della cooperazione sia una premessa necessaria e fondante l’ hospitalitas. Ciò  significa che nella fortezza apparentemente inespugnabile della sanità,  bisogna starci con le mani sul malato, gl’occhi sulla Parola e questa consapevolezza:

nessun cristiano parla e agisce a titolo proprio, bensì nell’ “appartenenza” e nella “comunione” con un Altro da sé.

Io faccio quello che devo fare, solo quando opero “con” Cristo e “con” l’intera tradizione vivente della Chiesa di ogni tempo e di ogni luogo.

Il mio compito non e’ di costruire un ambiente che fa per me, ma di edificare a Cristo la sua Chiesa.

Il votato all’ospitalità e’ paragonabile a una guida di montagna che aiuta nella scalata a raggiungere la vetta. Ma Cristo è la via perché è la verità (Gv 13,34).

La profondità dell’annuncio recato dai “collaboratori della verità ” sta proprio nell’intima correlazione tra verità e amore.

Il “Comandamento nuovo” (Gv 13,34) lasciatoci dal Maestro richiede accoglienza ed ospitalità vicendevoli, riflessione e fede, apertura e sguardo fisso e penetrante sulla verità del Vangelo.

Epperò, “… la verità della vita cristiana è come la manna nel deserto: non la si può mettere da parte e conservare; oggi è fresca, domani è marcia. Una verità che continui solo ad essere trasmessa, senza essere ripensata a fondo, ha perso la sua forza vitale. Il vaso che la contiene – per esempio la lingua, il mondo delle immagini e dei concetti – s’ impolvera, si arrugginisce, si sbriciola. Ciò che è vecchio resta giovane solo se, con il più giovanile vigore, viene riferito a ciò che è ancora più antico, e sempre attuale, la Rivelazione di Dio”. (Hans Urs von Balthasar, Abbattere i bastioni, 1962)

Poiché ad essere cristiani s’impara giorno dopo giorno, – così Giovanni di Dio, così Riccardo Pampuri e tutti gl’altri -, religiosi o laici, non resta che rimboccare le maniche e procedere con l’ardore del santo Papa Giovanni Paolo II: “E’ l’ora della fantasia della carità ” (Novo millennio ineunte). Senza dimenticare però che “se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme” (1 Cor 12,26).

“Laici collaboratori”: un malinteso che perdura

Devo confessare che l’idea dei cosiddetti collaboratori laici, almeno quella emersa nel dibattito di questi anni, non mi ha mai convinto più’ di tanto, Men che meno, dopo aver letto la petizione che la rappresentanza internazionale ha espresso al 66° Capitolo Generale. Ho appena finito di sfogliare il Documento Finale elaborato dalla Provincia Lombardo Veneta nel 1994 per il Sinodo dei Vescovi ed il Capitolo. Trovo che gli Autori (Quattrocchi, Faustini o.h., Merlo, Inzoli, Pulici, Ferrara, Santini o.h., Fiume, Bresciani, Giuliani) abbiano avuto valide intuizioni ed elaborato utili proposte. Un solo torto: l’eccessiva dose di ottimismo. Infatti, l’ “Allenaza” stipulata allora con i Collaboratori, ha subìto negl’anni successivi forti sbalzi di tensione, forse legata all’instabilità dell’animazione locale. Ma non solo. Segno evidente, dunque, che le buone intenzioni non bastano.

Il termine “collaboratori” è’ stato frettolosamente coniato dagli Istituti Religiosi per definire i laici presenti nelle rispettive attività ospedaliere, scolastiche, assistenziali, ecc. Sarebbe stato necessario guardare più scrupolosamente alle origini semantiche del termine perchè il rischio di moltiplicare la confusione, secondo me esiste, eccome!  Ciò emerge proprio quando si va a rileggere la “Christifideles laici” che parla appunto di laici discepoli di Cristo. Laico è un termine funzionale; teologicamente non significa nulla. E’ come il generico impiegato o il generico esaurimento nervoso: se non si precisa, si specifica, si qualifica, se ne sa quanto prima. E il Papa non ha lasciato nell’incertezza: laici discepoli di Cristo.

La questione dei collaboratori andrebbe presa da lontano. Quando si parla dei laici che partecipano al carisma dei Fondatori – nel nostro caso di hospitalitas e di san Giovanni di Dio – coloro che intendono aderirvi (e l’adesione non deve essere estorta o scontata), hanno tutto il diritto di sapere il più concretamente possibile di cosa si tratta. Comincerei col dire che per i col-laboratori dev’essere l’inizio di una scoperta che porta la firma di San Giovanni di Dio: la letizia e la libertà dell’incontro con Cristo, per seguirlo, senza stanchezze sproporzionate e faticosi programmi culturali, nel Suo cammino in mezzo agli uomini. In altre parole, io accetto di collocarmi come servitore della verità sull’uomo.

Ciò significa che io aderisco, vengo a far parte di un movimento. Ma devo sapere che l’innesto nel movimento dell’hospitalitas può attecchire e posso partecipare al carisma nella misura in cui anch’io mi pongo in movimento, ossia mi apro allo Spirito. E’ lodevole aspirare ai carismi ma è solo Lui che può donarli. Inoltre il movimento ha per definizione una sua originalità di cui devo rendermi consapevole scoprendone le ragioni della speranza che racchiude in sè.(1 Pt 3,15) Allora va benissimo che si usi la terminologia di “collaboratori laici”, a patto che si viva coscientemente lo stato di un’appartenenza stabile: entro a far parte di un movimento carismatico che traduce nel linguaggio  ecclesiale e sociale del nostro tempo l’aforisma latino “Ubi caritas et amor, Desu ibi est”. Che è poi l’equivalente Juandediano: “Dio sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesu’ “. E proprio perché questo Dio, questa voce fuori campo che mi chiama e sollecita ad uscire dall’isolamento non é un Solitario ma la Trinità nell’Unità, trovo la mia identità nella misura in cui anch’io scopro ad attendermi una Fraternità nell’unità con la Trinità. Diversamente, sono un disorientato.

La tentazione dell’utopia è sempre in agguato: vi si cade quando, magari involontariamente, si riduce Gesù Cristo a puro pretesto. Come dice il termine stesso,  che significa non-luogo, cedere alla tentazione dell’utopia significa non partire dalla realtà ma imporre alla realtà una teoria fabbricata a tavolino e costringerla nella gabbia della nostra limitata misura. La gabbia è l’imprigionarsi dentro l’utopia che basti lanciare ai laici che lavorano nei Centri FBF, un messaggio che li classifica d’ufficio “collaboratori”, ossia partecipi del carisma di San Giovanni di Dio. Nessuna disposizione legislativa, per quanto animata da buone intenzioni, può dichiarare sano di mente uno che non lo è. Nella storia recente della psichiatria abbiamo assistito anche a questa forzatura e subìto poi le conseguenze.

Bisognerà evitare di scivolare in due fuorvianti semplificazioni:

quella di non passare dal cuore di ogni uomo e donna che lavorano nei Centri FBF;

quella di ignorare totalmente la grande massa  dei laici Christifideles che operano nelle Istituzioni Pubbliche e nel sociale, quasi fossero “altro da noi”, cosa che non ci riguarda, frangia del Popolo di Dio assegnato alla Pastorale Sanitaria dei cappellani ospedalieri.

La paura porta a sacrificare il grande obiettivo di estendere e dilatare al massimo il grande carisma Giovandiano, giustificato da una considerazione ritenuta più realistica: meglio cominciare a guardare in casa propria prima di pensare alle espansioni.

 

Le conclusioni degli scettici sono penalizzanti; l’avvilimento li porta ad esclamazioni note: ” sono cambiati i tempi…non c’è via d’uscita…chi vivrà, vedrà…” E’ un’ insinuazione diabolica e bisogna reagire investendo: in preghiera, adorazione, riflessione, ricerca, mobilitazione, formazione permanente… Il percorso esiste. Solo che è arduo perché passa per la via del cuore e non dell’ideologia né dell’utopia, che immaginano ciò che non è.

L’hospitalitas passa attraverso l’educazione alla fede, lavoro personale e di gruppo. L’hospitalitas non è carisma condivisibile se non attraverso un cammino ed un’esperienza di forte appartenenza alla “fraternita’” del Centro FBF, vitale, concretamente incontrabile. Le Fraternità o sono luogo di educazione permanente alla carità, al giudizio sulla realtà (cultura), a vivere le dimensioni del mondo (missione) o non sono.

Forte delle indicazioni suggerite dalla CEI, una proposta pratica che mi sentirei di suggerire è questa: fare del castello di Monguzzo un C.O.V.O. ossia un Centro Orientamento Pastorale Ospitalità, aperto agli operatori sanitari di ogni estrazione, agli addetti alla pastorale dei malati, dei carcerati, degli stranieri, alle Caritas…, coinvolgendo Diocesi e Chiese locali. I docenti dovrebbero essere sacerdoti, religiosi e laici esperti nelle diverse discipline. In questo orientamento vocazionale all’hospitalitas potrebbero nascere anche chiamate sacerdotali e religiose. La parola d’ordine del momento è: investire!

I Laici al 66° Capitolo Generale

Presente per la prima volta una rappresentanza così numerosa di collaboratori laici, dagli stessi è stato interpretato come un segno di apertura e di speranza e sembra che il tema del rapporto tra collaboratori e religiosi sia stato forse quello più dibattuto al Capitolo. Invito a cogliere subito la sfumatura che considero preoccupante: “Su richiesta del Governo generale è stato chiesto al gruppo dei collaboratori laici invitati al Capitolo di formulare alcune indicazioni come contributo al discernimento dei Padri Capitolari nella elezione del nuovo Superiore generale e del suo Consiglio”.

Leggendo e rileggendo il documento elaborato dagli stessi, nasce un fondato sospetto che già ci si stia muovendo, più o meno consapevolmente, nell’ottica del “potere”.  Essi vogliono contare. Perfino “in materia di dottrina”. E lo chiedono formalmente nelle seguenti dieci formulazioni che mi limito a citare per titoli. Per quanto legittime, sono rivelatrici di una sintomatica povertà propositiva che non andrebbe sottovalutata.

” Al nuovo Superiore Generale e al suo Consiglio chiediamo:

1) Riconoscimento del carisma.
2) Consultazione dei laici.
3) Messaggio di fiducia.
4) Apprezzamento dei collaboratori.
5) Condivisione e integrazione.
6) Coraggio del rischio.
7) Valorizzare l’umanizzazione.
8) Incontri internazionali.
9) Opere gestite da laici.
10) Scuola dell’Ospitalità.

Per il testo integrale dove i titoli vengono sviluppati, invito a prendere in mano l’inserto contenuto nell’ultimo numero. Forte del punto 6, “Il rischio del coraggio”, mi permetterò alcune pungenti salutari provocazioni del tipo ago-puntura:

Il documento precisa: “Richiesti di formulare…” Vuol dire che la ventina di rappresentanti dei 43 mila operatori laici che operano nelle strutture dell’Ordine, si sono presentati al Capitolo a mani vuote. Ciò è molto grave.

Le spiegazioni fornite non sono convincenti sia per ragioni di forma che di sostanza. Come si fa a collocare la “Scuola di Ospitalità” al decimo posto e poi mettere al primo “Il riconoscimento del carisma” che si dà per posseduto ?

Non si parla di conversione né di “disposizione a testimoniare con la fede e col sangue che c’è un Cielo”, come direbbe Teresa di Gesù Bambino;

Non emerge un carisma sapienziale come il “gusto di Dio”, l’ardore per il suo Regno, la Parola, la Chiesa…

Non emerge la profezia: un amore che discende verso la miseria, la povertà umana, compresa quella dei “poveri ricchi”;

Non emerge il cuore di donne e uomini, normalmente coniugati, che sono anche genitori, educatori…

Non emerge l’affidamento alla Provvidenza ma alle capacità manageriali.

Al punto 3 si equivoca: il laicato sembra inteso, in ultima istanza, come un superamento della vita religiosa, salvandone il carisma: ”l’Ordine non si estinguerà, anche con l’attuale futura penuria dei religiosi, fino a quando ci saranno laici che responsabilmente parteciperanno al suo carisma, lo custodiranno e lo attueranno”.

Prendo la palla al balzo. Io non ho dubbi: l’Ordine non si estinguerà, a prescindere dalle buone intenzioni di salvataggio dei laici. Poi ci sono alcuni punti non facili da digerire senza bicarbonato, perché intaccano la sostanza:

p. 5) CONDIVISIONE E INTEGRAZIONE: “Chiediamo che siano definitivamente superate le logiche proprietarie”. La motivazione non è certamente francescana. Qui affiora il vero problema: la borsa, i soldi. Domanda:i laici vogliono diventare comproprietari, soci in affari? E cosa portano, solo il capitale lavoro? Coniugati o meno, a nessuno viene in mente di allegare una “cambiale di matrimonio” con “Madonna Povertà”, di farsi una sola carne con Lei nel senso autentico ed originale che sarebbe rivoluzionario anche per il nostro tempo: mi voto alla libertà? Va detto per inciso che questa aspirazione moderna Francesco la chiamava povertà. Che non aveva il concetto capitalista, pauperista, economico che abbiamo noi della povertà. Per noi il povero è colui che non possiede, perché il nostro riferimento è l’avere. Il ricco, invece, possiede molto. Per il Santo universale, povertà è la capacità di dare, dare e dare ancora una volta, dare e darsi. Quanto più ti dai, tanto più libero ti rendi e tanto più possiedi. Nella logica dell’essere, quanto più dai e ti dai, tanto più sei e ricevi, in umanità e cordialità.L’Hospitalitas è una scelta, un voto, un impegno…di povertà, ossia di libertà. Vale per laici e consacrati.

p. 8) INCONTRI INTERNAZIONALI:“Istituzionalizzare momenti di incontro internazionale per collaboratori laici… anche al di là di questi brevi scambi capitolari, durante i quali confrontarsi e portare avanti le problematiche dell’Ordine in una prospettiva laicale, guardando da un lato alla mondialità dell’Ordine, dall’altro alla specificità regionale delle sue Province”. Si badi: non in prospettiva evangelica.

9) OPERE GESTITE DAI LAICI: mentre s’invoca una formazione adeguata – non si comprende perché solo di alcuni – subito si chiede “che in tutto l’Ordine si affidi l’intera gestione di alcune opere a laici preparati e partecipi del carisma in nome e per conto dell’Ordine”. Non solo si chiede ma si sollecita “fin da adesso”.

Me lo si permetta: questa è  farneticazione pura! Sono proposte all’insegna dell’improvvisazione, non della sofferta meditazione. La piena realizzazione umana ha un nome evangelico: santità. Che non si trova nella linea del fare ma dell’essere, quell’essere che si rivela, ovviamente, nel fare. Sembra che nessuno abbia mai letto due documenti importanti: la lettera dell’uscente Generale, Fra Pasqual Piles, “Lasciatevi guidare dallo Spirito” ed il recente volume voluto dallo stesso, “Spiritualità dell’Ordine”.

Possono sembrare parole esagerate le mie e me ne scuso perché sono certo che i redattori della petizione sono meno maliziosi di me ed hanno operato in buona fede. Ma per chi legge, le parole talvolta possono tradire le intenzioni. Il guazzabuglio di idee confuse che sono emerse potrebbero essere il risultato anche di una malintesa interpretazione dell’ “umanizzazione”  che ha il suo eroico paladino nell’ uomo psichico, il cosiddetto ‘ “animalis homo”, secondo la traduzione latina della Vulgata, che ognuno si porta dentro. Lo spazio tiranno non permette di aprire subito un capitolo chiarificatore sull’argomento, appena riproposto anche in un convegno alla Cattolica. Ciò che era chiaro nella mente propositiva del Padre Marchesi, non è detto che lo sia altrettanto in quella dei suoi nuovi lettori e discepoli. Se personalmente m’infiammo è perché in un momento di transizione così delicato, non è permesso partire con il piede sbagliato: una solenne cantonata iniziale equivarrebbe a infilare il primo bottone nell’asola sbagliata: i successivi farebbero la stessa fine. Mi sovviene la figura di Francesco inginocchiato davanti a Papa Innocenzo III° a chiedere l’approvazione della regola. Si noti: “Regola dei Frati Minori che è questa: osservare il Santo Vangelo di Nostro Signore Gesù Cristo”. Capite cosa Francesco va a chiedere a Roma? Come si avverte che le richieste dei nostri amici non sono prima state sottoposte, in ginocchio, allo Spirito Santo!

Perché non appaia che si tratti di mie idee cervellotiche, invito a riflettere sul cap. X del Vangelo di Giovanni. Se c’e’ un testo dove appare la Chiesa è proprio quello del Buon Pastore: “Io sono il buon pastore, questo è il mio gregge”. Secondo il mio amico parroco, le cose stanno così:

 

c’è il gregge di cui Gesù è il pastore e, attenti bene,

di questo gregge che è la Chiesa, è Gesù il buon pastore, non altri,

noi siamo tutti al servizio di questo buon pastore che è Gesù,

nessuno di noi – né il papa, né i vescovi, né i sacerdoti, nessuno nella Chiesa – deve

avere il potere, se non l’autorità nella carità e il servizio che provengono dal seguire

Gesù e fare la Sua volontà.“ (d. Enrico Ghezzi)

 

Sembrano parole di scoraggiamento le mie? Vorrei sperare di no . Bramerei che fossero recepite

nel segno dello stupore dei primi cinque seguaci di Giovanni di Dio, Anton Martin, Pedro Velasco, Simon de Avila, Domenico Piola e Juan Garcìa e della loro prima Impresa Missionaria;

che stimolassero a quella comunione, di collegialità e di Spirito Santo che è stato possibile vivere durante il Concilio Vaticano II e che ormai non è più memoria viva se non per pochi testimoni.

Perciò:

Se non prendo come archetipo centrale la santa umanità di Gesù,

se non voglio imitare il Maestro in tutta la sua grandezza, se non passo attraverso la “stigmatizzazione” delle mani e del costato che equivale al dono del carisma dell’hospitalitas, ossia l’accettazione del dare la vita, di metterla a disposizione di Dio, identificandomi con Cristo e Cristo crocifisso, il Vivente nei crocifissi della terra…

se non nascono gruppi al maschile e al femminile di “folli” ossia di pazzi che sognano la regola del Vangelo prima degli Statuti giuridici e canonici, lievito e fermento sul posto di lavoro, cellule che si moltiplicano, “ponti” tra ospedale e Chiesa locale, con una travolgente forza interire che viene dalla dimensione contemplativa della vita, alla Scuola della Parola…

se non possiedo la libertà del mio fratello Gesù, se non abbandono i miei feticci per mettermi a Sua completa disposizione, senza interessi, senza niente che si interponga tra me e gl’altri,

sarebbe meglio lasciar perdere! Perché si va incontro ad un fallimento annunciato. E, dall’esperienza negativa, una sfiducia contagiosa nel “Cristifidelis laicus”, il laico discepolo di Cristo che invece è un segno dei tempi.

Ma come far emergere un’intesa realistica e compatibile? Ribaltando il problema: più che formulare ai laici la richiesta di offrirsi come collaboratori dei religiosi, ogni progetto dovrebbe mobilitare entrambe le parti su un terreno di parità accettato e condiviso: “collaboratori della verità” (3Gv 8). Questo concetto supera di gran lunga il concetto ristretto e asfittico di “collaboratori alle dipendenze” ed apre spazi di cooperazione, che potrebbe essere anche statutaria, ai laici non solo dei Centri FBF ma della Chiesa locale, della Salute Pubblica, dell’Università, della Politica, della Sofferenza…Tale proposta ha un pregio: quello di essere parola di Dio. Il proponente e Lui. A chiederlo sono proprio i Vescovi: le Istituzioni devono superare l’isolamento, rendendosi sempre più visibili nelle comunità ecclesiali (n.22)

Vogliamo esempi di concretezza? Porto un’esperienza che vivo. Tre volte la settimana la Comunità di Sant’Egidio che è in Milano, quella che conosco io, convoca i suoi membri, donne e uomini di ogni estrazione di età e culturale, nella restaurata ma non riscaldata chiesa di San Bernardino alle Monache, in via Lanzone, a due passi dall’Ospedale San Giuseppe dei Fatebenefratelli. Si ritrovano ogni martedì, mercoledì e sabato alle ore 20,30. Abitando io nel cremasco, quando posso, vi partecipo per ossigenarmi. L’Eucaristia non viene conservata perché, normalmente il tempio è chiuso al pubblico. Non presenzia né un presbitero né un diacono. Cantano i salmi accompagnati da un’organista, leggono la Parola di Dio, una donna preparata la commenta, si prega per la Chiesa e si chiude in bellezza. Poi si passa allo scambio dei saluti e si fa ritorno a casa. Alcuni prendono le borse depositate all’ingresso, piene di viveri, bevande, indumenti e vanno a distribuire in tre punti diversi della Milano-notte. Più che per offrire ristoro, ben gradito, l’occasione è per “parlare” con coloro che vivono emarginati e attendono questo momento unico. Un signore sulla cinquantina mi ha detto che lo fa da tre anni. Verso mezzanotte rincasa, fa la doccia e si prepara la cena.

Cosa mi preme sottolineare? Che i carismi non cadono dagl’alberi come le foglie né possono essere assegnati d’ufficio con un attestato o una benemerenza. Necessita un processo di ri-conversione individuale maturato nel contesto di una Fraternità, una compagnia… Se non sono inserito in una comunità, sono destinato a perdermi, sopraffatto dagli impegni e dalla noia. Chi vuol appartenere alla “Chiesa sanante”, partecipare all’Hospitalitas, deve lasciarsi coinvolgere in un cammino impegnativo, più che pensare subito ai convegni internazionali o ad amministrare le Istituzioni religiose. Senza basi solide , prima o poi la casa crolla. Bando alle illusioni! Se ai discepoli di Gesù tre anni di scuola ad alta specializzazione tenuta dal Maestro stesso non sono bastati a farli restare sul campo al momento della prova e sono tutti fuggiti, perché il miracolo dovrebbe compiersi ora, sulla base di così fragili premesse?

La richiesta dei Laici Collaboratori termina con un proposito: “Saremo in comunione con voi, accompagnandovi con il nostro affetto e la nostra preghiera allo Spirito Santo”. Si riferivano all’elezione canonica del Priore Generale. Nulla di più lodevole. Mi si dice che Fra Donatus Forkan sia uomo di grande spiritualità. Ha posto nello stemma generalizio i tre amori: la croce, al centro, il melograno dell’Hospitalitas, l’icona dell’ in-yang, simbolo della Corea dove è vissuto a lungo, ossia la missionarietà. E c’è anche un motto: “Hospitality always”. Ci uniamo in quel “sempre”, da vivi e da morti. E gli auguriamo di far attraversare alla grande comitiva che lo segue, il Mar Rosso della sofferenza umana, additandoci il nome della terra promessa che é la “divinizzazione” dell’uomo. Non in contrapposizione all’ ”umanizzazione” che ha pieno diritto di cittadinanza, ma come traguardo di una via già indicata dai Padri della Chiesa delle origini.

Senza offesa per nessuno, in questo preciso momento, l’ottimismo sui laici e dei laici sa più di scaramantico che di fondato, di malcelata paura, di auspicio più che evento di spessore, utopistico dunque, nella misura in cui, mancando di “profezia”, resterà inchiodato nell’immobilismo degli slogan e delle frasi ad effetto. Auspico un “foglio” di collegamento, snello, quindicinale o mensile, un blog… per comunicare nella fede e per la circolazione delle idee. L’alternativa al movimento è la staticità di cui nessuno avverte il bisogno.

Prima del carisma viene il Fatto

Non s’è mai chiesto nessuno come abbia fatto Don Giussani ad aggregare migliaia di giovani e non in tutto il mondo?

La Chiesa riafferma con forza che i laici non sono cristiani di “serie B”, ma discepoli del Signore chiamati a testimoniare la fede nella realtà di tutti gli uomini e di tutti i giorni: famiglia, società, scuola, lavoro, economia, politica, sanità…) “Essere laici è’ dunque una chiamata, una vocazione, un dono che viene da Dio e che invia a un compito alto e difficile: incarnare la fede e darle forma nelle realtà quotidiane”.

Senza la preoccupazione formativa e di un suo cammino permanente, metodico, integrato e completo, coloro che si ripropongono di testimoniare la loro fede nel sociale, e che desiderano educare altri a questo fondamentale compito, rischiano di cadere in un pragmatismo di cui oggi soffre la nostra società . Il Papa della Centesimus annus è molto esplicito: “51. Tutta l’attività umana ha luogo all’interno di una cultura e interagisce con essa. Per un’adeguata formazione di tale cultura si richiede il coinvolgimento di tutto l’uomo, il quale vi esplica la sua creatività, la sua intelligenza, la sua conoscenza del mondo e degli uomini. Egli, inoltre, vi investe la sua capacità di autoominio, di sacrificio personale, di solidarietà e di disponibilità per promuovere il bene comune. Per questo, il primo e più importante lavoro si compie nel cuore dell’uomo, ed il modo in cui questi si impegna a costruire il proprio futuro dipende dalla concezione che ha di se stesso e del suo destino”.

Vorrei citare La Pira, Lazzati, laici che hanno insegnato a volare alto. Ma veniamo a noi. L’ospitalitas prima di essere un carisma è un Fatto, un Avvenimento, un’ Esperienza, una Persona: l’incontro con Gesù di Nazareth, il Figlio del Dio vivente, la folgorazione del Suo sguardo, il “vieni e seguimi”, il “ti farò pescatore di uomini”, il “se vuoi…”
Sarebbe fuorviante pensare che sono parole rivolte solo ai chiamati al sacerdozio o alla vita consacrata…Si tratta delle scelte battesimali di coloro che divengono adulti in Cristo e, dopo aver chiesto responsabilmente alla Chiesa la fede, ricevono con la sacra unzione crismale, il mandato di andare oltre i confini della terra, di prendere il largo. Lui, l’Ospitante, farà di me una persona capace di ospitare, accogliere;  una casa, una porta aperta, una dimora… Se manca questa premessa, possiamo fare tutti i convegni del mondo, partecipare a tutte le Assise Capitolari: tempo perso. Non lo dico per scoraggiare ma come stimolo per non illudersi  e illudere. Quella che si vede nascere è una pianta selvatica che non potrà fruttificare se non innestata nell’albero buono. Già Paolo VI nella Octogesima adveniens esprimeva la sua preoccupazione: ” Ciascuno esamini se stesso per vedere quello che finora ha fatto e quello che deve fare. Non basta ricordare i principi, affermare le intenzioni, sottolineare le stridenti ingiustizie e proferire denunce profetiche: queste parole non avranno peso reale se non sono accompagnate in ciascuno da una presa di coscienza più viva della propria responsabilità e da un’azione effettiva. È troppo facile scaricare sugli altri la responsabilità delle ingiustizie, se non si è convinti allo stesso tempo che ciascuno vi partecipa e che è necessaria innanzi tutto la conversione personale”.

 

Predicare e curare

Sopra ho accennato alla CEI. Per il momento non si può che procedere schematicamente. Cosa chiedono i Vescovi col documento “Predicate il Vangelo e curate i malati” ? Una svolta storica fatta di gesti concreti, di segni credibili: essere tralci di un’unica Vite

per promuovere la salute (coinvolgimento di tutte le componenti del popolo di Dio nella pastorale della salute) n. 4

per dare voce alle chiese locali (sostenere l’integrazione della pastorale sanitaria nella pastorale d-insieme delle comunità cristiane) n. 4

per educare alla “speranza che non delude” (progettualità…itinerari formativi) n.4

Si tratta di mettere in evidenza le coordinate:

La grande tradizione, nata nella Chiesa “quale espressione del suo amore per l’uomo” (40).

La Chiesa “profezia della speranza”…(21).

Una comunità ospitale “che si prende cura”…(22) affinché la presenza delle istituzioni sanitarie cattoliche possa esercitare un influsso positivo sulla comunità ecclesiale e sulla società, occorre che vengano compiuti alcuni passi. Il primo porta le istituzioni a superare l’isolamento, rendendole sempre più visibili nella comunità ecclesiale.

La popolazione del territorio deve poter riconoscere in esse un punto di riferimento, uno strumento di sensibilizzazione ai problemi della salute, della morte, della vecchiaia e della disabilità.

Ciò costituisce il compito carismatico dei religiosi che le gestiscono: la missione loro affidata di servire i malati e di promuovere la salute appartiene a tutta la Chiesa.

A loro incombe il dovere di aiutare la comunità ecclesiale a diventarne maggiormente consapevole” (42)

Da dove cominciare? Il primo segnale di un cambiamento di rotta potrebbe essere la creazione di “gemellaggi”. I primi saranno timidi, poi si faranno più arditi. Se ogni ospedale o struttura sanante confessionale adottasse un ospedale, una struttura pubblica, nascerebbe una proficua sinergia d’intenti e di carismi che finiranno per stimolare e coinvolgere anche la comunità ecclesiale. Solo così sarà in grado di maturare nel suo seno la consapevolezza e l’importanza di ospitare i collaboratoti del vangelo che “predicano e curano”.

 

 

HOSPITALITAS: UN PERCORSO PER DIRE L’ UOMO

 


 

 

CAPITOLO STRAORDINARIO – BOZZA REVISIONE STATUTI – Proposta A. Nocent

 statuti

BOZZA REVISIONE STATUTI GENERALI 2008

PREMESSA

 

 

Il libretto degli  “Statuti Generali” è uno dei tanti che, forse letto per intero appena uscito o magari anche solo sbirciato, finisce in uno scaffale e vi resta per anni, nuovo di zecca.  Il fatto che non interessi più di tanto, deve celare una ragione che qui si vorrebbe smascherare: forse un certo modo di dire cose importanti ma con distacco burocratico. Se gli Statuti appaiono un codice di norme più che una lettera d’amore che, di tanto in tanto,  si riprende volentieri in mano perché parla l’Amato ed è coinvolgente e passionale, l’interesse ovviamente vien meno. 

 

Il nostro Santo Padre Agostino, Vescovo d’Ippona e dottore della Chiesa,  in una preghiera , come del resto anche nella Regola, ci ricorda il movente gioioso della sequela: “Signore, rendici capaci di vivere con amore la nostra vocazione, da veri innamorati della bellezza spirituale, rapiti dal profumo di Cristo che esala da una vita di conversione al bene, stabiliti non come schiavi sotto una legge, ma come uomini liberi guidati dalla grazia”.

Questo lavoro è stato costruito  a più mani e chi ne è interessato e lo condivide, non ha che da sottoscriverlo. Che, se altri hanno fatto di meglio, saremo i primi a scartare questa proposta e ad aderirvi gioiosamente, perché grande è il Signore.

In un primo momento si era tentato di rispondere punto per punto alla Bozza Statuti Generali 2008, come da istruzioni. Ma subito ci si è resi conto che i ritocchi avrebbero solo guastato la Bozza che ha una sua logica e regge su uno schema di fondo. Le varianti avrebbero finito per stravolgere più che migliorare il documento.  Ed è proprio su tale impostazione che è subito nato il disaccordo. Disaccordo che non è tanto nelle norme dettagliate su una questione o su un’altra, di carattere squisitamente giuridico-regolamentare,  ma sull’impostazione di fondo, la stessa della precedente edizione.

Dopo ripetute letture, la convinzione maturata è che i nuovi Statuti nascono vecchi e non si adeguano sufficientemente all’evolversi rapido delle situazioni. Le ragioni sono molteplici  ma le maggiori criticità si notano proprio in quel “processo di collaborazione e di integrazione istituzionale con i laici “che, partendo da   equivoci di fondo, è solo generatore di contraddizioni e difficoltà applicative.

Sull’identità dei laici bisogna fare chiarezza e non bisogna emarginarli. Per farlo, non mancano i pretesti, non sempre infondati: non sono preparati, hanno una debolezza d’identità vocazionale, ecc… Fosse davvero così, sarebbe un motivo in più per concentrare gli sforzi onde promuovere concretamente la loro maturazione. Mantenere lo status quo, significa rinunciare al mandato che ci affida la Chiesa, voce dello Spirito Santo. Le  generiche buone intenzioni non bastano. Approvare uno Statuto che non si sa fino a che punto sia condiviso da religiosi e laici – almeno nella Provincia Lombardo-Veneta -  e, successivamente, renderlo esecutivo, è quanto di meno auspicabile, in un contesto dai sensibilissimi nervi scoperti. Se dovesse accadere, rispecchierebbe una mentalità che stenta a morire: quella di calare le cose dall’alto, senza farle maturare a livello di base. In altre parole: la regola nasce a tavolino. Ad altri tocca viverla e realizzarla. Si è già verificato mille volte e non funziona.

A 20 anni dal Convegno di Brescia “RELIGIOSI E LAICI INSIEME PER SERVIRE”, momento indubbiamente Pentecostale, s’è perso il gusto di guardare il mondo, le persone, la vita, il lavoro, il denaro, la missione, l’impegno culturale e politico, ossia la Dottrina sociale della Chiesa, che è un guardare la realtà con lo sguardo di Cristo, alla luce del Vangelo. Il “dialogo” pluridirezionale sembra essersi spento e il fuoco, se la legna è umida, non s’accende.

Partendo da questa premessa, si è ritenuto di suggerire pochi punti chiave, da ribadire in premessa, perché ritenuti fondamentali e determinanti il seguito. Essi hanno uno scopo propedeutico ed una intrinseca forza pedagogica propositiva che viene dalla Parola, la sola capace di suscitare le novità dello Spirito, la fantasia della carità e di riscaldare il cuore di noi discepoli, per certi versi, molto simile a quello dei due avviliti di Emmaus.

 Pertanto, se le Commissioni lo riterranno, non avranno che da schematizzare le parti sviluppate, focalizzando i punti che contraddistinguono questo lavoro, incompleto per ragioni di tempo, ma sufficientemente indicativo dal punto di vista metodologico:

  1. 1.     L’Introduzione… che parte con la benedizione di San Giovanni di Dio e l’invocazione della Trinità Santissima per il dono della saggezza.
  2. 2.     Le pagine bibliche dimenticate
  3. 3.     Dove sono, Signore? …L’interrogativo di  Giacobbe e di Giovanni di Dio, due smarriti in un tempo che assomiglia al nostro.
  4. 4.    La strada…
  5. 5.     Il Tempo  -  Kairòs, il tempo favorevole
  6. 6.    Il Volto nei volti…    
  7. 7.    La Grazia
  8. 8.     Lo Spirito di Verità
  9. 9.     I Laici Christifideles…   con particolare riguardo alla donna.

10.

ARGOMENTI CHE DOVREBBERO FIGURARE NEGLI STATUTI con maggior determinazione e chiarezza

La Chiesa del Concilio Vaticano II indica tre grandi prospettive vocazionali per l’unica missione:

  1. 1.     la ministerialità dei laici cristiani, i quali, pur coscienti dell’indole secolare della propria missione sono disposti alla testimonianza del servizio nella Chiesa;
  2. 2.     la ministerialità dei consacrati, chiamati al carisma di una “vita-segno” del Cristo vergine, povero, obbediente e accogliente;
  3. 3.     la ministerialità dei presbiteri, “ripresentazione sacramentale” del Cristo pastore e capo della sua Chiesa, nonché la ministerialità dei diaconi permanenti, coniugati compresi, segni della pluriforme diaconia di Cristo.

Ne consegue che, sia l’Ordine che la Provincia, devono assumere dei connotati ben visibili:

  1. 4.     Una Provincia in ascolto, che colloca la Parola al centro della sua programmazione. L’ascolto si tramuta in servizio: “Il primo servizio che dobbiamo rendere ai fratelli è quello dell’ascolto. Chi non sa ascoltare il proprio fratello presto non saprà neppure ascoltare Dio, sarà sempre lui a parlare, anche con il Signore” (D. Bonhoeffer). E’ un’amara constatazione: davanti al Testo Sacro si può restare inerti e muti o per indifferenza o per impreparazione. In questo modo tante potenzialità contenute nelle Scritture, che sarebbero di speranza per il contesto in cui operiamo, rimangono inesplorate e improduttive. Questo è un buon motivo per incoraggiare ad acculturarsi. Qui, a tal proposito, va inserito il paragrafo 8 della Dei Verbum.
  2. 5.     Una Provincia che si colloca in stato di missione per promuovere le menzionate tre prospettive vocazionali. I diaconato permanente di laici coniugati sono una possibilità da prendere in seria considerazione. Lo stesso dicasi per l’”ordo virginum”, tornato in auge dopo il concilio e da incrementare collaborando con il Vescovo nella Chiesa locale. Sono ministeri che possono avere una ricaduta benefica sui Centri di assistenza.
  3. 6.     Un osservatorio Provinciale  “Caritas” permanente, in contatto con le Caritas delle diocesi dove si è presenti. E’ lì che si percepisce il polso della Chiesa locale e del Territorio: l’ emarginazione, il disagio psichico, i malati che vivono a domicilio nell’anonimato…TONINO BELLO VESCOVO: “Occorre chiarire un equivoco. La Caritas non è l’organo erogatore di aiuti, distributore di fondi, promotore di collette da dividere ai poveri. E’ invece l’organo che aiuta l’organismo a realizzare una sua funzione vitale: la pratica dell’amore. E l’OCCHIO che fa vedere i poveri, antichi e nuovi. E’ l’UDITO che fa ascoltare il pianto di chi soffre e amplifica la voce di Dio che provoca al soccorso. La Caritas, perciò, non è tanto una struttura assistenziale impegnata a prestare dei servizi ai poveri, ma è lo strumento abilitato a far conoscere a tutta la comunità le situazioni di sofferenza e di bisogno, a stimolarla all’impegno generoso e, soprattutto, a far diventare le sofferenze di alcuni problema per tutti. Fra i suoi compiti vi dovrà essere sicuramente l’animazione della carità, l’educazione alla giustizia, la promozione e il coordinamento del volontariato”.
  4. 7.     Un “Sinodo” decennale della Provincia,  syn (che significa: insieme),  odòs (che significa: cammino), potrebbe essere un modo per sentirsi Chiesa viva, in stato di missione. Un tale organismo, farebbe capire  immediatamente che il sinodo è un evento che ha il preciso scopo di permettere una partecipazione ampia di tutte le componenti della Famiglia Ospedaliera con le componenti ecclesiali e sociali dei  territori interessati. Attraverso il Sinodo, cioè, il “cammino percorso insieme”,  si potrebbe dar vita ad uno “Statuto Provinciale” che si  ispiri a quello dell’Ordine ma lo adegui alle realtà locali. Un modo di partecipazione plenaria statuitaria, periodica e prestabilita, (possibilmente subito dopo il Convegno Ecclesiale Nazionale CEI), per verificare lo stato di salute della Comunità Terapeutica e del rapporto Chiesa locale -Territorio.
  5. 8.      Il genio poliforme della donna: dimensione interiore e linguaggio della tenerezza. Una ricchezza enorme di cui dispone la Provincia e che magari non sa apprezzare a sufficienza. La donna, come Maria a Cana – bisogna scriverlo negli Statuti – restando talora nelle retrovie del silenzio, può sdrammatizzare scontri, tessere comunione, aiutare le persone a superare i guadi del disagio, illuminare decisioni più avvedute. La donna consacrata non è da meno: essa sa disegnare una sorprendente geografia della carità. Più ore di presenza di suore nei centri, più fermento della pasta, più carità in espansione. Facciamo parlare le donne consacrate. Quelle preparate a farlo non mancano.
  6. 9.     Aprire a sacerdoti, religiosi e laici esterni: sono queste le forze capaci di contagio evangelico e di sostegno nel momento di debolezza diffusa che sperimentiamo. Noi siamo Chiesa ma la Chiesa è anche per noi. E  dobbiamo umilmente lasciarci soccorrere e curare nel momento della fragilità.

10. Apprendere e sviluppare la mentalità di una nuova  “Economia di Comunione”. Discorso difficile ma che va iniziato perché il mondo è già su un’altra rotta.

11. Contatto mensile con i Centri per mezzo di una “équipe” volante che si sposta, fornisce linee per un sentire comune nella Provincia, crea comunione,  raccoglie le criticità locali, mantiene i contatti e stimola all’unità in una gioiosa carità.

…. Ecc…

 

STATUTI GENERALI ORDINE OSPEDALIERO DI SAN GIOVANNI DI DIO

BOZZA STATUTI 2008

INTRODUZIONE

Siamo un Istituto di fratelli approvato dalla Chiesa come un Ordine Religioso per vivere e testimoniare il carisma dell’ospitalità. La nostra missione consiste nel manifestare la misericordia di Dio mediante il servizio ai poveri, ai malati e ai bisognosi.. Esistiamo per continuare l’opera iniziata da San Giovanni di Dio a Granada in Spagna nel sedicesimo secolo. La nostra identità di fratelli consacrati nell’ospitalità ci impegna ad incoraggiare, favorire e creare legami di fraternità con tutti coloro che desidera unirsi a noi per condividere la nostra spiritualità, il carisma e/o la missione come volontari, professionisti e benefattori.

NUOVA PROPOSTA 2008

INTRODUZIONE

Questo  aggiornamento degli Statuti Generali ha preso forma “nel nome  di nostro Signore Gesù Cristo e di nostra Signora la Vergine Maria sempre intatta. Dio prima di tutto e sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù” (Lett. S.Giovanni di Dio)

Ti chiediamo, Padre, per la morte del tuo Figlio sulla croce, di donarci il tuo Santo Spirito perché apra il nostro cuore alla conoscenza della tua Parola.

Donaci di non subire questa nuova esperienza che siamo chiamati a sperimentare nell’Ordine ma di viverla con la pazienza, minuto per minuto, e la certezza che tu ci conduci anche attraverso i momenti di silenzio, di aridità, di fatica, di deserto, perché tu sei più grande di noi e il nostro cuore trova soltanto in te il suo riposo. AMEN

 

   
   
   
Criterio abbandonato  
   

 

INTRODUZIONE

Questo  aggiornamento degli Statuti Generali ha preso forma “nel nome  di nostro Signore Gesù Cristo e di nostra Signora la Vergine Maria sempre intatta. Dio prima di tutto e sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù” (Lett. S.Giovanni di Dio)

Ti chiediamo, Padre, per la morte del tuo Figlio sulla croce, di donarci il tuo Santo Spirito perché apra il nostro cuore alla conoscenza della tua Parola.

Donaci di non subire questa nuova esperienza che siamo chiamati a sperimentare nell’Ordine ma di viverla con la pazienza, minuto per minuto, e la certezza che tu ci conduci anche attraverso i momenti di silenzio, di aridità, di fatica, di deserto, perché tu sei più grande di noi e il nostro cuore trova soltanto in te il suo riposo. AMEN

La tentazione ricorrente nella vita consacrata postconciliare è quella di chiederci che cosa dobbiamo fare e di mettere insieme una lista  di impegni, di propositi o elencare dei campi in cui metterci ad operare, dimenticando che la domanda vera cui tentare una risposta è un’altra: a quali condizioni c’è per la vita consacrata  un futuro carico d’eternità.

“…voi avete il compito di invitare nuovamente gli uomini e le donne del nostro tempo a guardare in alto, a non farsi travolgere dalle cose di ogni giorno, ma a lasciarsi affascinare da Dio e dal Vangelo del suo Figlio. Non dimenticate che voi, in modo particolarissimo, potete e dovete dire non solo che siete di Cristo, ma che «siete divenuti Cristo»!

A queste sollecitazioni della Chiesa, segue un incoraggiamento  da raccogliere:

Voi non avete solo una gloriosa storia da ricordare e da raccontare, ma una grande storia da costruire! Guardate al futuro, nel quale lo Spirito vi proietta per fare con voi ancora cose grandi.” (Vita consacrata.110)

L’impegno post conciliare dev’essere coronato e rafforzato da un nuovo impeto (13). Ma se la rivitalizzazione passa attraverso l’intraprendenza, l’inventiva e la santità dei Fondatori (37), l’audacia e la creatività scaturiscono dalla familiarità con la pagina evangelica, molto pragmatica:


Gesù disse loro anche questa parabola: “Nessuno strappa un pezzo di stoffa da un vestito nuovo per metterlo su un vestito vecchio, altrimenti si trova con il vestito nuovo rovinato, mentre il pezzo preso dal vestito nuovo non si adatta al vestito vecchio.

E nessuno mette del vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino li fa scoppiare: così il vino esce fuori e gli otri vanno perduti. Invece, per vino nuovo ci vogliono otri nuovi. Chi beve vino vecchio non vuole vino nuovo. Dice infatti: quello vecchio è migliore“. (Lc 5, 36-39)

Se il Concilio Vaticano II è nuova Pentecoste venuta a ravvivare lo spirito, la nostra presa di coscienza è di sentirci coinvolti  ora  nel ricreare  generosamente strutture, metodi e prospettiva affinché il punto di convergenza sia lo Spirito. Se le strutture in cui operiamo non sono carismatiche, evangelizzatrici, fraterne, semplici, comunicative, chiare, trasparenti…vuol dire che, al di là delle buone intenzioni e della generosità personale, esiste qualcosa che non va.

San Giovanni di Dio a parte, nel passato abbiamo avuto singolari figure di innovatori. Due per tutte:

  • il Padre Alfieri, per lunghi anni Priore Generale dell’Ordine,
  • San Benedetto Menni, restauratore e fondatore.

 Dai loro scritti e dalla loro esperienza dobbiamo attingere l’ardore “paolino” che li ha animati: Guai a me se non evangelizzo (1 Cor 9,16).   

La rivitalizzazione di un orto passa attraverso due fasi principali:

  • la bonifica del terreno
  • la semina

Se è vero che  le strutture si rinnovano attraverso architetti ed ingegneri, a noi vengono chiesti sapienza,vigilanza e discernimento:

“Se uno di voi decide di costruire una casa, che cosa fa prima di tutto? Si mette a calcolare la spesa per vedere se ha soldi abbastanza per portare a termine i lavori. Altrimenti, se getta le fondamenta e non è in grado di portare a termine i lavori, la gente vedrà e comincerà a ridere di lui e dirà: “Quest’uomo ha cominciato a costruire e non è stato capace di portare a termine i lavori”.
“Facciamo un altro caso: se un re va in guerra contro un altro re, che cosa fa prima di tutto? Si mette a calcolare se con diecimila soldati può affrontare il nemico che avanza con ventimila, non vi pare?2Se vede che non è possibile, allora manda dei messaggeri incontro al nemico; e mentre il nemico si trova ancora lontano gli fa chiedere quali sono le condizioni per la pace. (Lc 14, 28-32)

A rinnovare le persone è la semina:

  • la riscoperta personale della Bibbia (quotidiana lectio divina),
  • la vicinanza diretta, fisica,  ai poveri ed ai malati,
  • il ritorno costante alle fonti dell’Ordine,
  • l’apertura mentale che avviene con la fatica dello studio ed il contatto con le scuole del sapere umano e teologico,
  • il contatto con la Chiesa locale, i suoi giovani, i suoi malati (il frate che porta l’eucaristia a domicilio),
  • la presenza nell’Università
  • la promozione del Centro di ascolto e di condivisione (caritas)

 

LE PAGINE DIMENTICATE

Lc 14,12-14 La scelta degli invitati

In quel tempo Gesù disse: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando dài un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

Gesù si rivolge al fariseo che l’aveva accolto in casa e lo esorta ad invitare, le prossime volte, coloro che non possono dargli una ricompensa. Ancora una volta rovescia completamente le regole abituali di questo mondo.

Alla cura meticolosa con cui si scelgono gli invitati di riguardo, Gesù contrappone la larghezza e la generosità nell’invitare coloro che non possono ricambiare, ed elenca poveri, ciechi, storpi e zoppi. Tutti costoro erano esclusi, ma Gesù li rende partecipi del banchetto che si deve preparare.

È una concezione nuova dei rapporti tra gli uomini che Gesù stesso vive per primo: le nostre relazioni vanno fondate non sulla reciprocità ma sulla totale gratuità, sull’amore unilaterale, appunto com’è l’amore di Dio che abbraccia tutti e particolarmente i poveri.

E la felicità, contrariamente a quanto si pensa ordinariamente, sta proprio nell’allargare il banchetto della vita a tutti gli esclusi senza pretendere una ricompensa. La ricompensa vera, infatti, è poter lavorare per questo.

Peraltro, solo in questa prospettiva si costruisce un mondo su basi solide e pacifiche. L’allargarsi della distanza tra chi sta alla tavola della vita e chi ne è escluso, mina alle radici la pace tra i popoli. Il messaggio del Vangelo è esattamente il contrario. Ma è un’altruità che salva il mondo dal cadere nel baratro della violenza.

Lc 14,25-33 Seguire Cristo comporta delle rinunce

Siccome molta gente andava con Gesù, egli si voltò e disse: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.

Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda un’ambasceria per la pace. Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.

 

Gesù, dopo una lunga sosta nella casa di uno dei capi dei farisei, riprende il cammino verso Gerusalemme. Molta folla lo segue, nota l’evangelista. L’entusiasmo di quelli che lo seguono è davvero sorprendente. Ed è comprensibile: come restare affascinati da un uomo così buono che cercava in ogni modo di consolare e di confortare tutti e particolarmente chi aveva problemi e bisogno di guarigione?

Gesù, di fronte a questa folla che gli andava dietro, sente però l’esigenza di chiarire cosa significa seguirlo, cosa significa essere suo discepolo.

Ne ha già parlato precedentemente quando ha detto: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso” (9,23). Tornarci sopra sta a dire l’importanza che egli attribuisce alla scelta della sequela. Gesù chiede un legame esclusivo con lui, più forte di quello che si ha con la propria famiglia.

 L’evangelista Luca fa un lungo elenco di persone che non debbono essere amate più di lui. Può suonare strano l’elenco. Ma è assolutamente chiaro che la scelta di seguire Gesù viene prima di ogni affetto e di ogni affare. E’ la scelta più alta che l’uomo è chiamato a compiere.

 Ed è in tale contesto che va compresa la parola “odiare”, ossia non preferire nessun altro.

La scelta di seguire Gesù in maniera così radicale comporta evidentemente tagli e divisioni da fare, a partire dall’interno del cuore di ciascuno. L’amore esclusivo per Gesù è il fondamento della vita del discepolo.

Se non c’è questo amore, che si esprime appunto nel seguirlo, nell’ascoltarlo, nel mettere in pratica il Vangelo, è come costruire una torre (la vita) senza fondamenta o come andare in battaglia senza un esercito adeguato. L’amore per Gesù è la sostanza del Vangelo ed è anche ciò che i discepoli debbono testimoniare al mondo. Questo amore è il sale della vita.

 

DOVE SONO, SIGNORE?

Per un certo verso, Giacobbe e Giovanni di Dio si assomigliano. Entrambi sono dei viandanti sbandati,  hanno vissuto una situazione di smarrimento e di inquietudine, senza più riferimenti certi sui quali fondare il proprio cammino nella vita. Entrambi sono un po’ il simbolo dell’uomo fuggiasco, che non sa dove va e si smarrisce nell’oscurità della notte. Ma che Dio alla fine sottrae all’abbandono ed accompagna verso il destino che ha loro preparato.

Racconta il Libro della Genesi che “10Giacobbe partì da Bersabea e si avviò verso Carran. Capitò in un posto dove passò la notte perché il sole era già tramontato. Li prese una pietra, se la pose sotto il capo come guanciale e si coricò. Fece un sogno: una scala poggiava a terra e la sua cima raggiungeva il cielo; su di essa salivano e  scendevano angeli di Dio. Il Signore gli stava  dinanzi e gli diceva:


“Io sono il Signore,
il Dio di Abramo e di Isacco.
La terra sulla quale sei coricato,
la darò a te e ai tuoi discendenti:
14essi saranno innumerevoli,
come i granelli di polvere della terra.
Si estenderanno ovunque:
a oriente e a occidente,
a settentrione e a mezzogiorno;
e per mezzo tuo e dei tuoi discendenti
io benedirò tutti i popoli della terra.
15Io sono con te,
ti proteggerò dovunque andrai,
poi ti ricondurrò in questa terra.
Non ti abbandonerò:
compirò tutto quel che ti ho promesso”.
16Giacobbe si svegliò e disse: “Veramente in questo luogo c’è il Signore, e io non lo sapevo!”. 17Fu preso da spavento e disse: “Quant’è terribile questo luogo! Questa è certamente fa casa di Dio! Questa è la porta del cielo!”.

E’ da questa consapevolezza  della presenza di Dio – non astratta ma concreta e personale – che deve iniziare anche il cammino dell’uomo che cerca Dio, sia esso consacrato o fedele laico, e che da Dio è già cercato.

Dio cerca per chiamare a sé, e questa chiamata è per tutti, indipendentemente da quello che uno è, da quello che uno fa, da dove uno viene.

Spesso, tuttavia, non ci si rende conto per che cosa si è chiamati, e – come i discepoli sulla barca che pescano tutta la notte “senza prendere nulla” (Gv 21,3) – si sperimenta l’amarezza della delusione e del fallimento, che tuttavia non è vana perché serve come salutare purificazione per capire, proprio attraverso l’insuccesso, che si è chiamati a qualcosa di più grande.

Come Giovanni di Dio, anche Giacobbe

  • non ha la protezione della madre,
  • ha dovuto abbandonare il padre senza poterlo nemmeno salutare,
  • è stato costretto a sottrarsi a tutte le sue coordinate visibili,
  • la sua situazione morale non è a posto,
  • il peccato gli rimorde la coscienza.
  • Finanziariamente ha perso tutto e cerca scampo senza poter contare sul denaro.

Persi i tre riferimenti che per la Bibbia  sono costitutivi dell’uomo:

  • Dio,
  • la famiglia,
  • le amicizie, la terra e il lavoro,

quasi un maledetto da Dio, si ritrova con la domanda bruciante nel cuore: dove sono? Quale sarà il mio avvenire?

  • l simboli: > il sogno di Giacobbe; > “Granada sarà la tua croce” –
  • la promessa: la discendenza, le nazioni… 
  • il risveglio: “Giacobbe si svegliò e disse: “Veramente in questo luogo c’è il Signore, e io non lo sapevo!”. (Gen 28,16). > Giovani di Dio: “Lo farò io un ospedale come lo voglio io!”

C’è la presa di coscienza, che per Giovanni all’Eremo dei Martiri, poi la scoperta straordinaria di chi si vede al centro delle coordinate di Dio e reinterpreta tutta la sua vita – l’essere solo in viaggio, ramingo e povero – ed in fine la luce che mette chiarezza nei pensieri e coraggio nell’azione.

Entrambi, Giacobbe e Giovanni di Dio, assumono una nuova umanità , una missione, un impegno di cammino che affronteranno fiduciosamente. Due testimoni che ci fanno scuola

LA STRADA

L’inizio del cammino.

Prima di mettersi in viaggio è fondamentale conoscere due cose:

  • la meta,
  • l’itinerario.

Gli Statuti Generali intendono rispondere a questa esigenza. Dovendo talora attraversare zone desertiche, è sconsigliabile procedere senza mappa, la guida, la bussola. Siamo eredi di una storia che inizia con il Libro della Genesi e termina con le parole dell’Apocalisse: Maràn Athà

Dove c’è l’assunzione piena e completa di una “passione per Dio e di una passione per l’uomo” del nostro tempo lì c’è “vita consacrata”.

Se l’espressione è comunemente intesa come una scelta nel seguire il Signore attraverso una “vocazione di particolare consacrazione a Lui”, essa non può essere più limitata alla vita religiosa strettamente intesa, ma pensando anche a tutte quelle forme di vita che vivono in maniera totale e radicale il discepolato del Signore nei vari ambiti ecclesiali. Dunque, “vita consacrata” si ha nel presbiterato come nella vita religiosa; nella vita monastica come in quella missionaria; o in tutte quelle particolari forme di consacrazione laicale, nelle quali il Sì al Signore è totale, pur esplicandosi in ambiti di vita anche diversificati, rispetto alle più conosciute e classiche forme della vita religiosa.

Il Signore apre tante “strade” all’uomo. Il cantore di questa topografia divina è il secondo Isaia che, proponendo un messaggio in un momento storicamente travagliato agli uomini del suo tempo, finisce per indicare anche a noi la strada: “Fra poco farò qualcosa di nuovo, anzi ho già cominciato, non ve ne accorgete? Costruisco una strada nel deserto, faccio scorrere fiumi nella steppa“. (Is 43,19) “Non soffriranno più la fame o la sete, né il sole, né il vento caldo del deserto li colpirà. Li condurrò con amore, li guiderò a fresche sorgenti” (Is 49, 10-11).

Il Profeta mette in guardia anche dalla troppo facile confusione tra le scelte e i cammini umani e i sentieri di Dio: “Cercate il Signore, ora che si fa trovare. Chiamatelo, adesso che è vicino. Chi è senza fede e senza legge cambi mentalità; chi è perverso rinunci alla sua malvagità! Tornate tutti al Signore ed egli avrà pietà di voi! Tornate al nostro Dio che perdona con larghezza! Dice il Signore: “I miei pensieri non sono come i vostri e le mie azioni sono diverse dalle vostre” (Is 55, 6-8).

Chiamati a sperimentare la profezia, se il nostro padre Abramo è per eccellenza l’uomo di fede che percorre le strade che Dio gli indica (Gn 12, 1-5), in San Giovanni di Dio, nostro fondatore, scorgiamo il discepolo del Signore che ci ha preceduti nella testimonianza della sequela. La sua esistenza così movimentata ed apparentemente inconcludente, evidenzia come tutti gli itinerari umani possono essere strade del Signore se percorsi con Gesù che è la “via” (Gv 14,6) e esperienze mortificanti, come ad Emmaus, quando il Signore è recepito come un passante qualsiasi col quale sfogare le proprie frustrazioni e delusioni.

Già negli Atti degli Apostoli il cristianesimo stesso è qualificato come la “via” (At 9,2; 18,25; 24,25). Ciò significa allora che noi, consacrati o donne e uomini Christifideles laici, nella misura in cui siamo discepoli autentici del missionario di Granada perché attratti dal suo esempio e desiderosi di continuare l’opera da lui iniziata, siamo in realtà discepoli del Maestro Divino, Via che porta alla Verità, generatrice di Vita Eterna.

Il Padre dei poveri ha sperimentato la missione attraverso la via dell’ospitalità, la stessa percorsa da Abramo, da numerosi servi del Signore e, in modo mirabile dalla Vergine Maria, la “sempre intatta”.

Ed è nel suo incontro con Elisabetta, proprio perché si sente accolta dalla sua parente e avverte di essere capita nel suo intimo segreto, cioè nella sua maternità per opera dello Spirito Santo, che prorompe nel canto di gioia. Un inno che, se esalta l’opera di Dio nella storia della salvezza, è anche profezia. Stranamente la Madre di Dio, usa una serie di verbi al passato: “Grandi cose ha fatto l’Onnipotente, ha spiegato la potenza del suo braccio, ha rovesciato i potenti, ha disperso i superbi, ha innalzato gli umili, ha soccorso Israele”. Come può la Benedetta pronunciare queste parole quando ha appena cominciato a sperimentare la grandezza di Dio in lei? Se ancora molti superbi non sono stati dispersi, né potenti sono stati rovesciati dai troni, né affamati sono stati ricolmati di beni e Gesù stesso non ha ancora proclamato beati i poveri, su che cosa si fonda questa incrollabile certezza?

Maria non esita a proclamare eventi che in parte si devono ancora verificare perché mettendosi dalla parte di Dio, nella certezza della sua fede, vede già il compimento delle promesse messianiche. Infatti l’Apostolo Paolo scriverà alla comunità degli ebrei che la fede è un possedere già le cose che si sperano (Eb 11),

La piena di Grazia Maria pone anche noi, chiamati a realizzare la profezia, sulle orme di un “già e non ancora” che ci coinvolge nella dimensione del Regno.

Paolo, apostolo non per chiamata diretta ma per vocazione come noi, quando scrive ai fratelli Ebrei, è memore del comando del Signore:

Andate…annunciate…guarite…”(Mt. 10, 1-ss).

 Nel vangelo di Matteo si legge che “1Gesù chiamò i suoi dodici discepoli e diede loro il potere di scacciare gli spiriti maligni, di guarire tutte le malattie e tutte le sofferenze.

Fra le istruzioni che il Signore ha dato a coloro che considera “sale e luce del mondo“, c’è questa:

7Lungo il cammino, annunziate che il regno di Dio è vicino. 8Guarite i malati, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, scacciate i demòni. Come avete ricevuto gratuitamente, così date gratuitamente.

 9Non procuratevi monete d’oro o d’argento o di rame da portare con voi. 10Non prendete borse per il viaggio, né un vestito di ricambio, né sandali, né bastone. Perché l’operaio ha diritto di ricevere quel che gli è necessario.”

Le raccomandazioni che Paolo rivolge ai fratelli cristiani di origine ebraica che si lasciavano prendere dalla nostalgia per il culto fastoso del tempio di Gerusalemme ed erano tentati di disertare le assemblee cristiane per ritornare all’ebraismo, rivolge un caldo invito alla perseveranza nella fede e nella vita cristiana. Esse rappresentano la traccia anche per le Fraternità di accoglienza che siamo chiamati a costruire nel mondo:

 ”Continuate a volervi bene, come fratelli. Non dimenticate di ospitare volentieri chi viene da voi. Ci furono alcuni che, facendo così, senza saperlo ospitarono degl’angeli. Ricordatevi di quelli che sono in prigione, come se foste anche voi prigionieri con loro. Ricordate quelli che sono maltrattati, perché anche voi siete esseri umani”. (Eb 13,1,3).

L’Apostolo, nella medesima lettera, che dovrebbe essere parte integrante di questi Statuti, eco dello spirito di cui era animato San Giovanni di Dio, ai viandanti di oggi, servitori del Vangelo, aggiunge ancora alcune raccomandazioni importanti. Se a coloro che sono coniugati, pur essi mandati per la missione, egli rivolge un particolare monito: “Il matrimonio sia rispettato da tutti, e gli sposi siano fedeli (Eb 13, 4-8), a tutti, indistintamente, richiama la fedeltà di Dio:

La vostra vita non sia dominata dal desiderio dei soldi. Contentatevi di quel che avete, perché Dio stesso ha detto nella Bibbia:

Non ti lascerò,
no“5n ti abbandonerò mai.
6E così anche noi possiamo dire con piena fiducia: Il Signore viene in mio aiuto,
non avrò paura.
Che cosa mi possono fare gli uomini?

7Ricordatevi di quelli che vi hanno guidati e vi hanno annunziato la parola di Dio. Pensate come sono vissuti e come sono morti, e imitate la loro fede. 8Gesù Cristo è sempre lo stesso, ieri, oggi e sempre. 9Non lasciatevi ingannare da dottrine diverse e strane. È bene che il nostro cuore sia fortificato dalla grazia di Dio e non da regole a proposito dei vari cibi: chi ubbidisce a quelle parole non ne ha mai avuto un vantaggio”.

Paolo suggerisce a tutti di vivere in stato di provvisorietà e lo motiva così:14Perché noi non abbiamo quaggiù una città nella quale resteremo per sempre; noi cerchiamo la città che deve ancora venire. 15Per mezzo di Gesù, offriamo continuamente a Dio – come sacrificio – le nostre preghiere di lode, il frutto delle nostre labbra che cantano il suo nome.
16Non dimenticate di fare il bene e di mettere in comune ciò che avete. Perché sono questi i sacrifici che piacciono al Signore.
17Ubbidite a quelli che dirigono la comunità e siate sottomessi. Perché essi vegliano su di voi, come persone che dovranno rendere conto a Dio. Fate in modo che compiano il loro dovere con gioia; altrimenti lo faranno malvolentieri e non sarebbe un vantaggio nemmeno per voi.

IL TEMPO

Questo è il Kairòs di Dio, il tempo opportuno, favorevole, che ci è stato accordato. Non siamo chiamati ad esprimere un giudizio severo e distaccato sul mondo della salute ma piuttosto ad immettere nelle pieghe di tanti drammi la luce della Parola di Dio, il calore della carità e la testimonianza della sua misericordia: “Il signore è vicino a chi ha il cuore ferito” (Sal 34,19).

Questo è anche il tempo dell’attenzione di Maria, come a Cana: “non hanno più vino” (Gv 2,1-5).

Siamo chiamati a imitarla nel suo atteggiamento davanti al messaggero celeste, portavoce dello Spirito: ascolta, si scuote, interroga, si domanda.

A noi oggi è chiesto un atteggiamento dialogico, semplice, istintivo e insieme delicato, attento, perfettamente proporzionato alla situazione di un mondo nuovo, imprevisto, inedito.

Negativo sarebbe il passare dalla paura alla rigidità, alla pretesa di prove dall’alto, quasi non bastassero il numero di santi che ci sono stati inviati negli ultimi tempi.

Ma a farci del male potrebbe contribuire anche un eccessivo e sconsiderato ottimismo che banalizza i problemi e  minimizza le priorità da intraprendere.

Il distacco di Maria, attento e discreto, le permette di vedere ciò che nessuno di fatto vede e cioè che il vino  è terminato.

Maria è modello di attenzione al momento umano dell’esistenza, è attenta alle situazioni, alle persone e alle cose. Sono gli atteggiamenti che deve tenere chi è chiamato a portare il Vangelo in un mondo che cambia.

IL VOLTO NEI VOLTI

Come cristiani ed a maggior ragione, come consacrati, siamo chiamati a rivivere la Passione di Cristo, nella nostra carne e nella nostra sofferenza personale, alla quale rimanda anche San Giovanni di Dio in una sua lettera alla Duchessa di Sessa:

Quando vi trovate angustiata, ricorrete alla Passione di Gesù Cristo nostro Signore e alle sue preziose Piaghe, e sentirete grande consolazione; considerate tutta la sua vita: che cosa è stata se non fatiche, per darci l’esempio?…”(I lett. 10)

Se nel mistero e nel simbolo eucaristico la Chiesa rivive la Passione di Cristo, nel mistero pasquale entra nel dolore infinito del Crocifisso Risorto per l’uomo peccatore, in quella solidarietà che Gesù ha pagato a caro prezzo.

  • E’ la sola capace di offrire parole credibili di conversione e di riconciliazione;
  • la sola capace di calarsi nelle situazioni più aberranti dell’esistenza.
  • E’ solidarietà che non dice semplicemente parole formali o esteriori bensì testimonia la comunione obbediente, pur se sofferta, con Dio e una profonda solidarietà con le più terribili sofferenze umane.
  • La più atroce delle sofferenze è quella del peccato, cioè della solitudine dell’uomo che si sente abbandonato da Dio perché ha tolto gli occhi da lui.

La contemplazione del Volto dolente del Signore del Venerdì Santo, ci mette in atteggiamento di Chiesa che non è atterrita e sommersa dalle miserie del genere umano perché sa che la croce di Cristo, posta al centro della liturgia e della vita, è capace di prendere su di sé tutto il dramma, il dolore, il peccato dei volti sfigurati dell’uomo.

E’ nella croce di Gesù che Dio stesso ci assicura che neppure la morte può fermare il suo amore e che non c’è situazione umana, per quanto drammatica e opaca, che possa rimanere estranea all’immenso abbraccio della croce. Del resto, questa è la stessa promessa di Gesù: “Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32)

Oggi la Passione di Cristo passa per le case di una moltitudine che soffre:

  • del disoccupato, di chi pensa all’avvenire con crescente timore,
  • del sequestrato atteso con ansia e afflizione,
  • della vittima di una violenza assurda e spietata.
  • Ma passa anche per le case degli anziani, spremuti delle loro energie e messi da parte, in solitudine, che sono in troppi a lamentare.
  • Passa per le case di coloro che attendono giustizia senza riuscire ad ottenerla,
  • di quanti, per un qualunque motivo, hanno dovuto, abbandonare una patria senza riuscire a trovarne una nuova o a sentirsi accolti, persone che forse non hanno neppure una casa e stanno magari vicino a noi.

Il mistero della croce si rinnova in tutti coloro che si sentono esclusi e che la società fa sentire tali. A cominciare dai sofferenti psichici.

Accanto all’irrefrenabile ondata del marcato disagio psichico giovanile ed accanto agli handicappati, esistono coloro a cui vengono indicate vie d’uscita che sono soluzioni di morte: drogati, disadattati, carcerati che, anche nei luoghi che dovrebbero essere di espiazione ma pure di redenzione, rimangono vittime di un clima di violenza che in passato hanno o possono aver contribuito a creare.

Questa Passione e questa sofferenza passa, infine, per il cuore dei molti che pensano inutile la loro fedeltà ed incompreso e vano il sacrificio al dovere quotidiano e che di questo dovere cadono vittime.

Le Fraternità dei discepoli di Giovanni di Dio, sparse in ogni latitudine, potrebbero estendere l’elenco dei disagi che affliggono donne e uomini del nostro tempo.

Se la passione del Signore insegna ad accorgersi di chi soffre ed a soccorrerlo, sprona a credere che possiamo anche essere annunciatori dell’alba del giorno di Pasqua. Il sapere che Cristo non vuole avere oggi altre mani che le nostre per farsi carico dei fratelli, fa di noi non solo dei samaritani ma anche dei profeti anonimi, come Isaia, donne e uomini che possiedono uno spirito nuovo e sono chiamati a dire parole nuove perché

4Dio, il Signore mi ha insegnato
le parole adatte
per sostenere i deboli.
Ogni mattina mi prepara
ad ascoltarlo,
come discepolo diligente.
5Dio, il Signore, mi insegna
ad ascoltarlo,

e io non gli resisto
né mi tiro indietro.

6 Ho offerto la schiena
a chi mi batteva,
la faccia a chi mi strappava la barba.
Non ho sottratto il mio volto
agli sputi e agli insulti.
7Ma essi non riusciranno a piegarmi,
perché Dio, il Signore, mi viene in aiuto,
rendo il mio viso duro come la pietra.
So che non resterò deluso.
(Is 9, 4-7).

La sofferenza del messaggero è quella che salva il popolo. La Buona Notizia che siamo chiamati a diffondere, ossia che “per le sue piaghe siamo stati guariti” (Is 53-5), non ci fa esitare perché ci riporta alla profezia del Magnificat: pur nell’apparente smentita della storia, mettendoci dalla parte di Dio, nella certezza della fede, come a Maria, ci è dato vedere già il compimento.

IL CUORE

 

“Adamo, dove sei?”, dove sei finito?, si domanda sbalordito Dio di fronte alla condizione di morte in cui l’uomo è caduto col peccato.

 
E’ necessario partire da qui per capire l’iniziativa di salvezza che Dio attua per l’umanità; iniziando proprio da Maria, quale alba e primizia di un ricupero a quella dignità e destino che Lui stesso, Dio, si era proposto nel creare ogni uomo.

 
Maria diviene allora la pagina biblica – scritta in una vita non a parole – nella quale leggere con speranza la nostra stessa vicenda di uomini redenti; cioè rileggere la proposta di Dio e la nostra risposta.

  1

 

) KECARITOMÈNE, PIENA DI GRAZIA

 

Quando l’angelo Gabriele giunge a Nazaret in casa di Maria, non la chiama per nome, ma “kecaritomène“, cioè “piena di grazia”, CARA A DIO, oggetto d’un amore personale, termine di un dono speciale.

 

 

 

 

Il nome proprio di Maria davanti a Dio è:

  • “tutto mio dono – kecaritoméne”.
  • Ma anche tu allora, o uomo, chiunque tu sia, sei “kecaritomene”, sei CARO A DIO,
  • sei uscito dal suo cuore prima che dal ventre di tua madre,
  • sei amato da Lui “come se fossi l’unico” (sant’Agostino).

Benedetto sia Dio – esclama san Paolo – Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo“.

 

Una benedizione che si concretizza in un progetto preciso: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo“. Anzi, “in lui siamo stati fatti anche eredi, perché fossimo a lode della sua gloria“.

 

Perché proprio questa è la soddisfazione più grande di Dio: averci partecipi di casa sua.
L’uomo stranamente schifa questo dono col dire di no a Dio:

 

  • Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?”; hai forse pensato di fare a meno di Me?
  • Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto“.

 

Quando si perde un padre, si trova un padrone: la padrona del mondo che è la morte, regalo del principe di questo mondo che è satana. -”Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe“; una drammatica lotta tra satana e l’umanità sconvolgerà tutta la storia dell’uomo: “tu le insidierai il calcagno”.

 

Anche se le prospettive alla fine sono positive: “essa ti schiaccerà la testa“, l’umanità ne uscirà vittoriosa!


Nel più autentico frutto della stirpe umana, in Cristo, questa battaglia si farà vittoriosa; l’uomo sarà liberato dal peccato, dal male e dalla morte; sarà reso capace di resistere a satana per riconciliarsi con Dio; riavrà fiducia in Dio e ancora la partecipazione alla natura divina. Per la prima volta proprio in Maria l’uomo si sente – gratuitamente, per pura misericordia – chiamato ancora “kecaritoméne”, mio amato figlio, mio perdonato figlio, mia pecora smarrita che sono venuto a cercare, mio figlio prodigo che sono pronto a riaccogliere in casa con più festa di prima!

 

Anche di Maria oggi è detto, come verità di fede, che è piena di grazia perché “preservata dal peccato “ante previsa merita”, cioè in previsione della croce di Cristo“. Immacolata non per merito suo, ma perché per prima – e per esprimere in modo vistoso la gratuità offerta poi a tutti – è stata preservata fin dal primo istante della sua vita, cioè dal concepimento, dall’onda del male (concepita immacolata, immacolata concezione).

In Maria leggiamo l’assoluta generosità e ospitalità di Dio che gioca sempre d’anticipo, prima cioè d’ogni nostro merito, d’ogni nostra stessa domanda. Dio ama sempre a credito.

 

 

2) IO SONO LA SERVA DEL SIGNORE

 

  Prima di partire da lei, l’angelo Gabriele raccoglie un SI’ che è condizione decisiva per l’opera restauratrice di Dio: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1,38). Alla gratuità del dono di Dio, Maria risponde con il SI’ della FEDE.

 

 

 

 

Da “kecaritoméne” Maria diviene “credente”: “Beata te che hai creduto” (Lc 1,45), la chiamerà subito dopo la cugina Elisabetta.

 

L’altra grandezza di Maria sta proprio nella sua risposta totale a Dio; dirà di lei sant’Agostino che “Maria è più grande per essere stata discepola di Gesù che non per essere sua madre“. Del resto un giorno Gesù disse così: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 11,27).

Ogni dono di Dio richiede una riconquista. “Il Signore che ha fatto te senza di te, non salverà te senza di te” (sant’Agostino). Dio stima troppo la nostra libertà, perché ci possa dare una salvezza senza la nostra collaborazione. Maria ha percorso il suo cammino di fede fino ai piedi della croce. A dire che anche la nostra fede si deve tradurre in opere quotidiane, in scelte coerenti, e in obbedienza d’amore a Dio, fatta anche di prove.

 

E’ un SI’ faticoso da esprimere a Dio, dopo il no che diciamo nel peccato. E’ quello che noi chiamiamo: santificazione. Maria è immacolata anche perché non ha mai detto di no a Dio.

 
Divenendo così il nostro modello e la nostra garanzia.

 

Una creatura, corrispondendo pienamente al dono di Dio, ha realizzato in pieno il superamento del male e della morte. Questa è la formula vincente, questa è la partenza per ogni riforma della nostra storia di uomini inficiata di egoismo e divisione. “Dio ci ha scelti – dice Paolo – prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità“: immacolati perché diciamo di sì al Signore vivendo come Lui l’amore.

  I Fratelli Ospedalieri ed i Laici Christifideles con l’intera comunità sanante, hanno parole  in comune per rivolgersi alla “Mater intemerata”:

 

 

 

 

  • “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te” (Lc 1,28), “per farti santa e immacolata al suo cospetto nella carità” (Ef 1,4).
  •  
  • Tu sei Immacolata fin dall’inizio, o Maria, preservata da ogni ombra di peccato, per testimoniare la gratuità del Dono di Dio verso ogni sua creatura.
  •  
  • “Tutte le genti ti diranno beata”; “beata perché hai creduto nell’adempimento della parola del Signore” (Lc 1,45).
  • Tu sei stata capace di dire di SI’ per una vita intera, diventando così la regina di tutti i Santi.
  •  
  • O Vergine Immacolata, fa’ che anche noi ci rendiamo “santi e immacolati”, se non per innocenza almeno per penitenza, per divenire come te eredi di quel regno che Dio dona solo “ai puri di cuore” (Mt 5,8). Amen.

IN ASCOLTO DELLA PAROLA

  • “Di’ soltanto una parola…”
  • Gesù, parola vivente del Padre
  • Da Gesù alla Bibbia
  • Parola e Chiesa
  • Parola ed Eucaristia
  • Parola e vita

L’ANCORA DELLA PREGHIERA

  • La domanda al “Padre nostro”
  • La Preghiera continua
  • La fiducia nella preghiera

APRIRE LE PORTE A CRISTO

  • Chi è Cristo per me
  • Lasciar entrare Cristo nella vita
  • Diventare segni di Cristo amore

LO SPIRITO DI VERITA’

La nostra missione nel mondo non reggerebbe se non avesse il sostegno che viene dall’alto. Questo è lo Spirito Santo. Giovanni in 14-16 , inseriti fra altri discorsi, sottolinea i titoli dello Spirito che dobbiamo conoscere, dal momento che tutto regge grazie a Lui:

  • “Io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché Egli dimora presso di voi e sarà in voi….
  • .Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto…..
  • Quando verrà il Consolatore che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza….”

    “Se non me ne vado non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò. E quando sarà venuto, egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio. Quanto al peccato, perché non credono in me; quanto alla giustizia, perché vado dal Padre e non mi vedrete più; quanto al giudizio, perché il principe di questo mondo è stato giudicato.”
  • “Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l’annunzierà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà del mio e ve l’annunzierà.” (Gv 14,16-17,26; 15,26; 16,7-15).


E’ importante che noi prendiamo coscienza  di questa rivelazione riguardante lo Spirito Santo. L’attenzione va concentrata sui due titoli dello Spirito Santo più cari a Giovanni:

  • Spirito di Verità e
  • Paraclito, o Consolatore.

Spirito di verità. Il senso della parola “verità” in Giovanni significa sia la realtà divina che la conoscenza della realtà divina. L’interpretazione tradizionale, specialmente quella cattolica, ha inteso la “verità” soprattutto nel secondo senso, nel senso dogmatico. Lo Spirito guida la chiesa attraverso i concili, il Magistero, la tradizione.

Questo è un aspetto importante dell’azione dello Spirito di Verità – il più importante se vogliamo – ma non l’unico.

C’è un aspetto più personale che dobbiamo tenere presente: lo Spirito Santo ci introduce alla vera vita di Cristo.

  • S. Ireneo definisce lo Spirito Santo la nostra “comunione con Dio“, e
  • S. Basilio dice che “grazie allo Spirito diventiamo amici intimi di Dio“.
  • Non conosciamo più Dio per sentito dire, ma “in persona”.

L’azione dello Spirito non è limitata solo ad alcuni momenti solenni della vita della chiesa. C’è anche un’azione interiore, quotidiana e continua, nel cuore di ogni credente. “Egli dimora presso di voi e sarà con voi” (Gv 14,17). Questa è l’unzione “che viene dal Santo” che dona sapienza, che rimane in noi, che ci insegna ogni cosa e ci rende saldi (1Gv 2,10-27)

Tale ammaestramento che lo Spirito impartisce nella profondità del cuore di ogni credente deve essere sottoposto al discernimento e al giudizio della comunità e specialmente dei suoi pastori cosicché lo “Spirito di verità” sia distinto dallo “spirito di errore” (1Gv 4,1-6). 

Ma il fatto che questa guida interiore e personale dello Spirito possa essere soggetta ad abusi ed inganni non giustifica il sospetto e la sua soppressione. Se i santi sono diventati tali, è stato soprattutto grazie alla sottomissione a questa guida segreta che passo dopo passo ha suggerito loro quello che era più gradito a Dio e maggiormente conforme allo Spirito di Cristo.

Il Consolatore. L’altro titolo dello Spirito usato da Giovanni è Paraclito, o Consolatore. “Un altro” Consolatore, lo definisce Gesù. Durante la sua vita terrena Gesù stesso era il Consolatore: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, ed io vi ristorerò” (My 11,28). Quando promette il Consolatore è quasi come se dicesse: “Andate a lui, voi tutti che siete affaticati e oppressi, ed egli vi ristorerà!”. Lo Spirito Santo svolge in noi un ruolo esattamente opposto a quello dello spirito del male. Lo Spirito santo difende i fedeli e “intercede” incessantemente per loro davanti a Dio con “gemiti inesprimibili” (Rm 8,26-28). Lo spirito del male accusa i credenti davanti a Dio “giorno e notte” (Ap 12,10). Ma il difensore è infinitamente più forte e vittorioso dell’accusatore! Con lui possiamo vincere ogni tentazione e trasformare la tentazione stessa in vittoria.

 

 

 

Come fa a consolarci questo “Consolatore perfetto”? Egli è in sé stesso la consolazione. Egli consola facendo risuonare nei nostri cuori le parole che Gesù disse ai suoi discepoli: “Voi avrete tribolazioni nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!” (Gv 16,33). Egli consola testimoniando al nostro spirito che siamo figli di Dio (Rm 8,16).


Sete o paura? “Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù levatosi in piedi esclamò: chi ha sete venga a me e beva” (Gv 7,37). La prima condizione per ricevere lo Spirito Santo non sono i meriti e le virtù, ma il desiderio, il bisogno, la sete.
Il problema pratico con lo Spirito Santo risiede proprio qui. Abbiamo sete dello Spirito Santo o abbiamo un’inconsapevole timore di esso? Noi avvertiamo che se lo Spirito Santo viene, non può lasciare le cose come le trova. Potrebbe anche farci fare cose “strane” che non siamo pronti ad accettare. Tutto quello che lo Spirito Santo tocca, lo Spirito Santo cambia!

 

 

 

La nostra preghiera per ricevere lo Spirito Santo a volte assomiglia alla preghiera di Agostino prima della sua conversione.: “Donami la castità e il dominio di me, ma non subito”. Siamo tentati di dire, “Vieni Spirito Santo….ma non ora, e soprattutto niente stranezze!” Non è forse Dio ordine, decoro, compostezza e equilibrio? Se gli apostoli avessero potuto scegliere per sé stessi il modo in cui lo Spirito avrebbe dovuto manifestarsi, non avrebbero mai scelto di parlare in lingue sconosciute, di esporsi al ridicolo di fronte alla gente che diceva “Hanno bevuto troppo vino nuovo” (Atti 2,13). Quindi, domandiamo allo Spirito Santo di toglierci la paura di lui. Diciamo “Vieni, Spirito Santo!” Vieni ora, come tu desideri.”

 

 

 

Ricevete lo Spirito Santo! La sera di Pasqua Gesù alitò sui suoi discepoli e disse: “Ricevete lo Spirito Santo,” quasi pregandoli di accettare il suo dono. In questo gesto si compie la grande profezia di Ezechiele riguardo le ossa aride: “Dice il Signore Dio: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano” (Ez 37,9).

Il figlio dell’uomo adesso non è più Ezechiele, un profeta, ma colui che è anche il Figlio di Dio. Egli grida allo Spirito, lo invoca e lo alita. Egli non lo chiama dal di fuori di sé, “dai quattro venti”, ma dal suo intimo. Anche oggi egli sta davanti ai discepoli e alla chiesa e ripete il suo pressante invito: “Ricevete lo Spirito Santo!”

I membri delle Fraternità e dei Centri di assistenza devono costantemente rivolgere i loro volti e le loro anime a questo soffio di vita e lasciarsi ravvivare  e rinnovare. Anche oggi, se tutta la Chiesa ricevesse questo potente soffio, se lo Spirito penetrasse tutte le sue realtà, essa “si alzerebbe e camminerebbe” e sarebbe nuovamente “un grande esercito senza fine.”

 

LAICI  CHRISTIFIDELES

 

 

I laici e consacrati, entrambi nel ruolo di  “collaboratori della verità” (1 Gv 3 ss),  sono corresponsabili  di quella  Messianica Missione che è di guarigione-salvezza, iniziata con parole e gesti da Gesù di Nazaret  che “Dio consacrò in Spirito Santo e potenza” (v.5). Di tale sacerdozio siamo tutti chiamati a prenderne sempre nuova coscienza. L’apostolo Pietro ci ricorda l’investitura:  “Voi siete la stirpe eletta, voi siete il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le meraviglie di Lui” (1 Pt 2,9). Nel sacerdozio non ministeriale ma vero, non segregato ma di solidarietà con i fratelli, come quello di Gesù,  per “offrire sacrifici spirituali graditi a Dio (1 Pt 2,5), vi sono tutte le implicazioni del soffrire e dell’amare.

 

La teologia ci dice che Cristo ha abolito il sacerdozio antico, segregato e separato il più possibile dalla comunità, perché “offrì se stesso” (Ebr10,14). In Lui, non più distinzione tra sacerdote offerente e la vittima offerta, ma contemporaneamente, Lui, sacerdote e vittima, solidale con noi, divenuti così popolo sacerdotale, profetico e regale, chiamati a identica missione.

 

Nell’Amen eucaristico, consacrati e fedeli laici devono essere consapevoli di dare non solo l’adesione al Corpo di Cristo sacramentale, ma anche al Corpo di Cristo ecclesiale, di cui egli è il Capo: principio di solidarietà fra le Sue membra e in Lui comunione con il Padre.

 

Sono i fondamenti della spiritualità laicale che ci accomunano nell’unica Famiglia Ospedaliera, liberandoci dai fraintendimenti dell’invocata collaborazione e corresponsabilità che non devono trovare appoggio prevalentemente sull’umano,   sull’effimero o sul “carisma immaginario”,  ma sul concetto Biblico della memoria viva di Gesù che ci ha preceduti, promettendoci lo Spirito santo.

 

Noi siamo soliti enfatizzare la genialità del Santo che, dal Lombroso in avanti, viene accettato come inventore dell’ospedale moderno. Se corrisponde al vero, non è cosa da poco.  Ma  il punto focale sul quale convergere dovrebbe essere un altro: quel chiodo fisso che quel pazzo di portoghese, trapiantatosi a Granada, s’è ficcato in testa: “Dio sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù”. (Dalle lettere).

 

Perché questo motto rivoluzionario è prodigioso e  ne suscita uno conseguente, perfino contagioso: “Fate del bene a voi stessi, fratelli, per amore di Dio”. Il resto è relativo, contingente.

 

  • Perché rivoluzionaria è l’audacia dei deboli che fa andare in confusione i potenti (1 Cor 1,27-28),
  • la fortitudo dello Spirito che li abita: Deus, in te sperántium fortitúdo,  Dio, sostegno e forza di chi spera in Te…
  • Qui sta la grandezza dell’uomo abitato dall’Amore Trinitario, del medico cristificato.
  • vivo autem, iam non ego: vivit vero in me Christus! (Gal 2, 20).

 

Parafrasando, si potrebbe tradurre così:

 

  • Se ho la consapevolezza di essere stato crocifisso con Cristo, so­no liberato dalla legge, «e non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me…».
  • La convinzione che va radicata e stimolata oggi è una consapevolezza: “Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me”(Gal 2, 20).

 

Il tema dei Laici è fra le priorità che il Governo Generale dell’Ordine si è dato per il sessennio 2006-2012 (Vedi programma).

 

Con un po’ più di lungimiranza e determinazione, i Padri Capitolari avrebbero dovuto sancire quanto già dieci anni fa i Padri Gesuiti hanno espresso nel decreto 13 della Congregazione Generale 34°. L’affermazione perentoria dei figli di Sant’Ignazio è questa:

 

Una lettura dei segni dei tempi dopo il Vaticano II indica in maniera inequivocabile che la Chiesa del terzo millennio sarà la “Chiesa del laicato”.

 

Ma la parte ancor più carica di conseguenze, è al n.1:

 

La Compagnia di Gesù riconosce come una grazia per i nostri giorni e come una speranza per il futuro che i laici prendano parte viva, responsabile e consapevole alla missione della Chiesa in quest’ora magnifica e drammatica della storia”. Noi cerchiamo di rispondere a questa grazia ponendoci al servizio della piena realizzazione della missione del laicato, e ci impegniamo a questo scopo cooperando con i laici alla missione”.

 

Come si vede, qui il concetto è capovolto: sono i religiosi, con i loro carismi, a farsi collaboratori dei laici, chiamati sulla scena da PROTAGONISTI.

 

Responsabilmente, operazioni del genere non si portano a termine in ventiquattro ore ma con un lento e paziente cammino di  RI-CONVERSIONE che non umilia i religiosi ma li esalta e li considera guide spirituali ed animatori instancabili del dialogo perché hanno tanto da “SVELARE” ai laici, abbandonati per secoli al loro destino di emarginati per mille motivi storici che è inutile recriminare ma che vanno superati con determinazione. E’ un atto di Ospitalità che oggi può avere anche il sapore del martirio. Ma per una causa giusta. E’ Dio che chiede ad Abramo di sacrificare il figlio. E quella obbedienza lo farà padre di una moltitudine. San Giovanni di Dio, su invito del Vescovo e di Giovanni d’Avila, non avrebbe esitato un’ora.

 

Sulla cooperazione professionale non c’è molto da dire, giacché al di là di tutto, essa è sancita dai contratti di lavoro che vincolano entrambe le parti contraenti ed è tutelata dalle norme del Diritto. 

 

Altra cosa è la cooperazione apostolica tra Fatebenefratelli e Fedeli laici. Se essa non viene considerata una mossa strategica suggerita dal bisogno di far fronte alla diminuzione delle vocazioni, ma una scelta profetica richiesta dallo Spirito Santo a tutta la Chiesa e fondata sulla nuova dottrina del Magistero, bisogna che lo si dica a chiarissime lettere, accettandone poi le conseguenze logiche. E va promossa con ogni mezzo, definendo ruoli e funzioni. Fare discorsi generici è come promuovere il cambiamento con matrice gattopardiana: cambiare tutto, affinché resti tutto come prima. 

FBF – IL FUTURO E’ DONNA: “sorelle del nostro habito

L’affermazione può apparire come una ingiustificata forzatura ma, forse non lo è. Si tratta piuttosto di una dimenticanza del passato ed una nuova “provocazione”, leggibile anch’essa nei segni dei tempi.

Una constatazione: la diffusa non propensione maschile verso le attività socio-sanitarie assistenziali, non è solo per motivi economici ma anche fatto culturale. Logica vuole che il ruolo tradizionale del religioso ospedaliero sarà sempre più assunto dal mondo femminile. Non è il caso di stracciarsi le vesti: il discorso sulle “sorelle del nostro habito”, è già presenti alla prima ora e perciò  non andrebbe scartato a priori, acriticamente. Se è difficile immaginare subito in quale forma, – ma se è nei disegni di Dio avverrà nei modi che ancora non sospettiamo -  è tempo di prenderne atto, di invocare lo Spirito e di chiedere lumi alla Chiesa.

Ciò non significa che tocca ora ai “fratelli dello stesso habito” sparire dalla circolazione. Ma che essi, pur mantenendo i ruoli tradizionali, per essere davvero animatori del laicato, dovranno  potenziare il numero di addetti al sacerdozio, al diaconato, agli studi universitari nelle diverse discipline socio-sanitarie.  Osservando la società, viene da sé che vanno privilegiate le scelte verso le scuole di psicologia e di psichiatria, il solo modo per essere utili anche alla Chiesa locale, attualmente scoperta su questi fronti, con una società sempre più in preda al disagio psichico. Basti pensare che solo gli schizofrenici nel mondo sono circa 260 milioni, in balia di terapie oggi molto discusse!

LE  SORELLE di san Giovanni di Dio nella PAGINA DIMENTICATA DAI FRATELLI  

“Le Costituzioni dell’Ordine, anno 1585 per “L’OSPEDALE DI GIOVANNI DI DIO” in Granada, prescritte da Mons. Giovanni Mendez Salvatierra, Arcivescovo di Granata, furono la base delle prime Costituzioni dell’Ordine e delle altre edizioni successive. Se ne conserva copia stampata – mancante però di più pagine – nell’Archivio Generale dei Fatebenefratelli in Roma. Il titolo intero è: Regla y Costituciones, para el Hospital de Juan de Dios desta ciudad de Granada, Por el Illustrissimo Reverendissimo Senor don Joan Mendez de Salvatierra, Arcobispo della…, del consejo de su Majestad, etc. (Granada , 1 gennaio 1585, pp. 17-18)

TITOLO XV delle COSTITUZIONI 1585

DEL MEDICO, DEL CHIRURGO E DEL BARBIERE

Prima Costituzione, che tratta delle ore in cui debbono trovarsi nel detto Ospedale, a chi spetta la loro nomina e da chi debbono dipendere dentro l’Ospedale. 

  1. Il medico e d il chirurgo… 
  2. Come debbono essere multati…
  3. Dell’ordine, che devono osservare nella visita ai malati…
  4. Quando il medico deve ispezionare la farmacia…
  5. Della carità e diligenza, con cui debbono visitare i detti infermi…
  6. Dell’ora, in cui il barbiere deve essere presente alla visita insieme col medico…  “

Nel volume di P. Gabriele Russotto o.h. “L’ORDINE OSPEDALIERO DI S.GIOVANNI DI DIO”, 1950, A PAG.179 è riportato il testo integrale degli articoli citati o di riferimento per la parte non riprodotta”. 

 

(1587)

Queste Costituzioni – delle quali è giunto fino a noi solo il Capitolo XV – furono approvate dal primo Capitolo Generale, celebrato in Roma nei giorni 20-29 giugno 1587, e sono la documentazione scritta del metodo assistenziale introdotto nel 1537 da san Giovanni di Dio nel suo Ospedale in Granada e poi continuato fedelmente dai suoi Figli nella Spagna e nelle altre nazioni.

Il Capitolo XV è riportato nella prima biografia del Santo – più volte citata – del P. Francesco de Castro: Vita et opere sante di Giovanni di Dio…, tradotta dallo spagnolo dal P. Francesco Bordini (Firenze, 1589) p. 196.

  • Dell’ordine che tengono li Fratelli di Giovanni di Dio  in governare li poveri infermi nelli loro spedali, estratto brevemente, et sommariamente dal Capitolo XV delle loro Costitutioni.  Conviene  grandemente…
  • Dell’ordine che si tiene nel ponere li poveri infermi nel letto. S’ha da procurare…
  • Del modo che si tiene nel visitare gli poveri infermi con il medico, et chirurgico.  Nelle due visite…
  • Ordine che si tiene nel dar da mangiare a’ poveri infermi. Venuta l’hora…
  • Della guardia che s’ha da tenere, così nel giorno, come nella notte dell’infermeria; et la maniera che s’ha da tenere in licentiare i poveri, di poi che sono risanati.  Et acciò… 
  • Della gran cura che s’ha da tenere degll’infermi, che stanno nell’agonia della morte.  Et perché importa…
  • Come si sepeliranno l’infermi, che sono morti nel nostro spedale, e delle messe de’ defunti ogni lunedì. Quando per voluntà di…
  • Degli esercitij spirituali, che si fanno nelle i infermarie. Nelle infermarie si dirà Messa ogni mattina,…

Mentre i succitati articoli sono stati ripetutamente richiamati lungo i secoli, ad ispirare nelle successive generazioni lo spirito dei pionieri, quelli che seguono sono stati dimenticati ed archiviati.

Delle sorelle del nostro habito, che hanno da medicare le povere inferme.    

 ”In alcuni delli nostri spedali si ha usato, et usa ricevere  donne inferme, et medicarle in luogo distinto, et separato, et lontano dalle infermarie degli huomini, servendo le sorelle del nostro habito con la carità possibile, et questo perché le donne siano rimediate come gli huomini: ha parso al capitolo che si faccia il medesimo da qui innanzi ne’ luoghi commodi, et ritirati dove si possa fare, procurando sempre di andare  innanzi di perfettione, et s’intenda che non ha da essere con ogni picciola commodità; ma dove possino stare molto appartate, et raccolte, et che non possa entrare in esse niuna sotre d’huomini; eccetto che i medici, et che siano in istanze molto commode, e per questo effetto si terrà particolar cura in questo esercitio”.

 

Della infermiera maggiore, facendosi spedale di donne. 

  

Sarà una infermiera maggiore d’età di anni 40 poco più, o meno, la quale sarà religiosa del nostro habito, diligente et sufficiente per questo ministerio, dove sarà obedita da tutte le altre sorelle, et farà l’infermiera maggiore, che nel spedale delle donne si osserva quell’ordine, che s’è detto nello spedale degli huomini, nella visita de’ medici, et in tutti gli altri esercitii, così spirituali, come corporali, et così anco  tenirà particolar cura nello spedale si viva con ogni modestia, et non lasci uscire niuna fuora se non sarà sana, er licentiata dal medico, et farà che tutte le cose le siano provedute, et convenienti atte: di maniera che non si manchi niente di quello che dal medico fu ordinato, et per quest’effetto sarà una ruota per dove le si diano tutte le cose necessarie, et per la porta non entrerà se non l’inferme, et li medici quando anderanno a visitare, et il fratello maggiore si troverà sempre presente alla visita, et se sarà bisogno il barbiero, et lo spetiale, et l’infermiera maggiore farà che si faccia la visita con ogni modestia et honestà, et che alle inferme non le manchi cosa niuna, come sìè detto nella infermità degli uomini, et nella porta della infermeria delle donne saranno due chiavi differenti una dall’altra, et una la tenirà il fratello maggiore, et l’altra la sorella infermiera maggiore; di maniera che non possa aaprire l’uno senza l’altra”.

 

DA: “L’ORDINE OSPEDALIERO DI S. GIOVANNI DI DIO” – ROMA – ISOLA TIBERINA . Anno Giubilare 1950 – P. GABRIELE RUSSOTTO O.H.

 

Fin dalle origini è evidente che vi è già una fondazione religiosa al femminile, analoga a quella dei frati, sorretta dalle medesime norme: 

 

In alcuni delli nostri spedali si ha usato, et usa ricevere  donne inferme, et medicarle in luogo distinto, et separato, et lontano dalle infermarie degli huomini, servendo le sorelle del nostro habito con la carità possibile, et questo perché le donne siano rimediate come gli huomini:..”

  • Sarà una infermiera maggiore d’età di anni 40 poco più, o meno, la quale sarà religiosa del nostro habito, diligente et sufficiente per questo ministerio, dove sarà obedita da tutte le altre sorelle, et farà l’infermiera maggiore, che nel spedale delle donne si osserva quell’ordine, che s’è detto nello spedale degli huomini…” 

L’argomento meriterebbe di essere approfondito. E, se vi sono dei ritardi storici, andrebbero recuperati.

Siamo tentati di credere che certe crisi celino l’accorato desiderio di Dio: far emergere e riconoscere nel nostro tempo quella diaconia delle donne che da sempre esse hanno esercitato, con quella riservatezza tipica di Maria.

Poiché non vi è nulla di nuovo sotto il sole, possiamo provare a chiederci:

e se un giorno fossero le donne a prendere in mano la situazione di alcune postazioni dell’Ordine? Fino a prova contraria, Fatebenefratelli vuol dire anche Fatebenesorelle. O no ?

La carità di Giovanni di Dio è stata sostenuta sia dalla ricchezza delle nobildonne che dagli spiccioli, dalle pagnotte, e dalla scontata fatica delle donne del popolo. E tra esse, alcune di quelle sottratte dal Santo alla schiavitù della prostituzione. Tutto fa pensare che San Giovanni di Dio, sul ruolo della donna, pur nei condizionamenti legati alla mentalità del tempo ed ascoltando gli ammonimenti di San Giovanni d’Avila, in questo campo abbia precorso i tempi e visto più lontano di noi che ci consideriamo più emancipati rispetto a lui.

Sulle forme e modi in cui si realizza la collaborazione  

“Agli amici e collaboratori dei Fatebenefratelli (nei Centri e non) va detto che è ormai parte integrante del nostro agire di religiosi, in opere proprie o non ed alle quali abbiamo dato vita insieme, la corresponsabilità e la cooperazione apostolica che è il vero motivo di esistere”. (Così in “Insieme per servire-Brescia 1988”.

Una condivisa analisi dei problemi, il progettare insieme, il mettere in campo le nostre diverse e complementari vocazioni e sensibilità, sono il modo migliore per affrontare le difficoltà e le fatiche di un simile percorso che richiede conoscenza reciproca, pazienza, disponibilità al cambiamento, capacità di porsi in un’ottica differente dal passato, attraverso una vera e propria rivoluzione culturale per i religiosi e per i laici.

Le esperienze già in atto nell’Ordine, ci confortano e ci indicano che questa è una strada possibile e fruttuosa ma che richiede anche premesse di fondo fondamentali, come

  • la condivisione di una vita di fede,
  • una adeguata preparazione,
  • una prassi di riflessione comune.

Di tutto questo si è provato a parlare  in un Convegno di vent’anni fa, dal tema: “RELIGIOSI E LAICI INSIEME PER SERVIRE – BRESCIA 1988”.

Da allora sono successe tante cose ed ora i tempi impongono di non tergiversare ma di affrontare realisticamente il momento storico in cui viviamo, in considerazione sia delle sollecitazioni che vengono dal Governo Generale dell’Ordine che dal Convegno Ecclesiale di Verona. 

CONCLUSIONE

GLI STASTUTI dovrebbero partire da ben identificati presupposti che possano generare una fase sperimentale di iniziative locali da presentare al Capitolo Generale che le valuterà.

 

Se qui le proposte, per mancanza di tempo sono state solo abbozzate  e necessiterebbero di ulteriore riflessione e sviluppo, c’è quanto basta per suggerire una diversa impostazione degli Statuti.

 

Premeva, come già detto,  di evidenziare che vanno posti dei punti fissi introduttivi:

 

  • Religiosi e Laici camminano insieme per servire, entrambi  “collaboratori della Verità” (3 Gv 8).
  • Ognuno è portatore di carismi, ma è nella comunione di beni spirituali, intellettuali e materiali che si manifesta l’unità nella molteplicità.

 

I laici non devono diventare dei semi-religiosi ed i frati non devono mutarsi in semi-laici. Oggi, pur continuando a parlarne, si vive in un permanente equivoco d’identità.

 

Restare a lungo in un tacito compromesso, ritenuto funzionale, non giova a nessuno e, col tempo, nuocerà a tutti.

 

 

Ma. “Se il Signore non edifica la casa, invano faticano i costruttori” (sal 127)