VANGELO – AUDIOVISIVI -BRESCIA

http://www.centroaudiovisivi.it/index.shtml


Presentazione della Fondazione missionaria, della formazione del clero e dei laici, della

cura delleanime, dell’educazione alla concezione cristiana della vita.

Presentazione della “Fondazione Opera diocesana San Francesco di Sales”


Il nuovo millennio sembra aprirsi all’insegna di una grande rivoluzione, quella prodotta dalle tecnologie del digitale, dai nuovi media, dagli sviluppi dell’informatica e della telematica.

È una rivoluzione che riguarda soprattutto il modo di produrre, elaborare, raccogliere, scambiare informazione.
In questo contesto l’informazione comprende l’azione di comunicare una notizia, il contenuto della comunicazione (che a sua volta potrebbe essere distinto nel suo aspetto materiale e nel suo aspetto significativo), le caratteristiche del mezzo di comunicazione usato…

Una rivoluzione che porta con sé conseguenze culturali, sociali, politiche, economiche di immenso rilievo.
Di fronte a questa evidenza, il Consiglio episcopale, già nell’arco dell’anno 2000, ha ritenuto opportuno valutare attentamente quanto già viene realizzato nella nostra Diocesi e, soprattutto, progettare una presenza sempre più significativa nell’ambito del mondo della comunicazione, non solo attraverso strumenti tradizionali (carta stampata) ma anche attraverso i nuovi strumenti ormai molto diffusi, alla portata di tutti e sempre più destinati a fagocitare ampi spazi precedentemente occupati da giornali, radio e televisione.


Dalla comunicazione unidirezionale si sta passando al “contagio mediale” dove l’interattività, la povertà dei mezzi, l’universalità, nuove forme di democrazia, nuove convergenze… diventano ogni giorno più reali, sia pure nella realtà del virtuale.

Senza abbandonare nulla di quanto già viene fatto in Diocesi, è ormai necessario dotarsi di nuovi strumenti e di tecniche di lavoro e di elaborazione della comunicazione totalmente nuovi.
Al Consiglio episcopale è parso quindi opportuno istituire una “Fondazione” con il preciso compito di collegare in sinergia le tante, belle e gloriose realtà operanti in questo campo nella nostra Diocesi.

La Fondazione San Francesco di Sales nasce come risposta a questo progetto ed è stata istituita da mons. Giulio Sanguineti il 15 febbraio 2001 con uno statuto che all’articolo numero 2, indicando gli scopi della Fondazione, così recita:
La Fondazione “Opera Diocesana San Francesco di Sales” persegue scopi di religione e di culto. Ha lo scopo di promuovere, organizzare, sostenere l’attività pastorale, con particolare riguardo al coordinamento degli interessi apostolici della diocesi di Brescia nel campo della nuova evangelizzazione, del culto, della catechesi, della cooperazione

PER AIUTARE CHI SOFFRE Una proposta formativa che si ispira al metodo del CPE, Clinical Pastoral Education Training, che tanti frutti sta dando per la pastorale della sa¬lute sia in Italia sia all’Estero, per formarsi ad accostare i sofferenti con competenze umane e prospettiva pastorale, aiutandoli a scoprire vicino a sé il Signore della vita Teoria e pratica insieme Adottando una metodologia basata sull’integrazione della teoria alla pra¬tica, questo corso si propone di aiutare i partecipanti ad acquisire una mi¬gliore capacità di incontrare le persone in situazione di crisi, a sviluppare metodi pastorali basati su una comunicazione efficace e una relazione di aiuto autentica, a migliorare la capacità d’integrare la propria teologia alla pratica pastorale… S

eguiti da una persona qualificata L’apprendimento – frutto di una riflessione sulla propria attività pastorale – si realizza attraverso un insieme di attività (esercitazioni pratiche in ospedale, lavori scritti, seminari clinici e didattici, dinamiche di gruppo, verifiche…) che trovano il loro elemento unificatore nella supervisione offerta da una persona qualificata. Si rivolge a volontari, operatori pastorali, seminaristi, sacerdoti e diaconi. Il Corso è aperto ad una massimo di 10 (dieci) partecipanti.

Brescia, presso Fondazione Poliambulanza Istituto Ospedaliero Via Bissolati, 57 – 25124 Brescia dal 16 luglio al 25 luglio 2009 con tirocinio in alcuni ospedali cittadini. P. Dott. Angelo Brusco M.I. Laureato in filosofia (Università Cattolica di Milano), teologia (Università Laval, Quèbec, Canada) e psicologia (Università Laval). Tra i fondatori delle cure palliative italiane, è Pro¬fessore Ordinario all’Istituto Internazionale di Teologia Pastorale Sanitaria “Camillianum” di Roma e Direttore del Centro Camilliano di Formazione di Verona. 190 € per l’iscrizione Per chi pernotta: 170 € per contributo spese di soggiorno (9 giorni) Per chi non pernotta: 80 € contributo spese di solo vitto (9 pasti) destinatari Si rivolge a volontari, operatori pastorali, seminaristi, sacerdoti e diaconi.

Il Corso è aperto ad una massimo di 10 (dieci) partecipanti. Per informazioni ed iscrizioni contattare direttamente l’Ufficio diocesano Pastorale della Salute. Periodo e sede del corso Supervisore Quota di partecipazione Informazioni e iscrizioni Il bisogno di avere qualcuno vicino Accanto ad ognuno che soffre ci dovrebbe essere un uomo che veglia Il rapporto fra chi vuole offrire sostegno e chi soffre si configura in una relazione d’aiuto con caratteristiche ben precise, che nulla hanno a che fare con la superficialità o l’indiscrezione.

Come incontrare una persona in situazione di sofferenza e di crisi? Come comunicare con lei in modo da non urtarla? Come instaurare una relazione senza essere soffocato dai suoi molti problemi? Come aiutarla a trovare una risorsa di vita nella vicinanza e nell’Amore del Signore? Il servizio alle persone ammalate ed inferme, più che riguardare i singoli atti, è un modo di essere e di porsi; è un servizio all’uomo intero, alla persona che denuncia bisogni fisici, psicologici, morali e spirituali.

VANGELO E CULTURA NEL CAMMINO DELL’UOMO – Card. Zenon Grocholewski

grocholewskiCONFERENZA

DELL’ARCIVESCOVO

GROCHOLEWSKI 

ALL’INCONTRO DELLE UNIVERSITÀ CATTOLICHE D’EUROPA

 

Il Vangelo e la cultura nel cammino dell’uomo:  il Giubileo e il rinnovamento dell’Università

 

Santiago de Compostela, luglio 2000

 

ZENON GROCHOLEWSKI

Arcivescovo titolare di Agropoli 
Prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica

 

 

Ringrazio sentitamente per l’invito rivoltomi a partecipare al presente Incontro qui a Santiago di Compostela.

Il  tema  Il  Vangelo  e  la  cultura nel cammino dell’uomo:  il Grande Giubileo e  il  rinnovamento  dell’Università  è, oltre che estremamente attuale, certamente ampio  e  complesso,  per  cui  non  mi  è  possibile  affrontarlo  sotto tutti  i  punti  di  vista.

Mi limiterò, quindi, ad alcune considerazioni di ordine generale, le quali possono aiutare a comprendere meglio e a vivere il significato del Giubileo dei docenti universitari.

 

A. La realtà che c’interpella

1. È noto a tutti che il nostro tempo è caratterizzato da profonde trasformazioni che incidono direttamente o indirettamente anche sulla realtà universitaria e la sua finalità. Tra i diversi aspetti che toccano gli studi accademici si constata sempre più un interesse crescente per le discipline produttive, cioè di ambito tecnologico ed economico, a scapito delle discipline umanistiche, con la conseguente tendenza a ridurre la conoscenza dell’uomo e anche la verità stessa a tutto ciò che è visibile e immanente.

2. La ricerca disinteressata della verità in questo contesto – che si potrebbe definire tecnologico-scientifico – pare riscontrare la mancanza d’attenzione. Infatti, non si può negare che nella realtà odierna sono in crisi sia il concetto della verità che l’interesse per essa, per quanto riguarda le cose sostanziali della vita (1).

Ma senza la passione per la ricerca della verità ogni cultura si sfalda nel relativo e nell’effimero. La verità è il vero fondamento dell’umanesimo.

3. Con queste osservazioni è strettamente connessa quella circa la relazione tra progresso scientifico-tecnico e progresso etico-morale.

Il vero progresso, particolarmente oggi, esige che lo sviluppo scientifico-tecnico si realizzi di pari passo con quello etico-morale. Senza ciò, il solo sviluppo della tecnica e della scienza – come palesemente dimostrano, a livello mondiale, non pochi eventi del secolo appena trascorso – conduce a ingiustizie sempre più evidenti, ad oppressioni sempre più raffinate e addirittura a conflitti sempre più orribili. Dobbiamo, purtroppo, constatare che sono stati proprio i mezzi economici e le moderne conquiste della scienza e della tecnica ad offrire gli strumenti idonei per compiere i crimini più orrendi.

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A riguardo vale la pena menzionare il pensiero di un conoscitore dell’educazione occidentale e della sua crisi, Christopher Dawson, il quale rilevava:  “La civiltà moderna nonostante le immense mete raggiunte in campo tecnico è moralmente debole e spiritualmente divisa [...]. La scienza e la tecnica sono soggette ad essere usate da qualsiasi potere de facto che si trova a controllare la società per fini particolari. Possiamo così vedere [...] come le risorse della scienza siano state usate dagli Stati totalitari come strumenti di potere, e come l’ordine tecnologico sia stato applicato nel mondo democratico occidentale al servizio della ricchezza e dell’appagamento dei bisogni materiali, anche se questi bisogni sono stati stimolati artificialmente dagli stessi poteri economici che trovano il proprio guadagno nel loro appagamento” (2).

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Si tratta della preoccupazione espressa da uomini di prestigio che hanno a cuore la finalità dello studio. Si pensi, ad esempio, a quanto scrive Romano Guardini:  “In maniera sempre più chiara si fa avanti quel valore che intende sostituire la verità:  il potere” (3).

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Lo  sviluppo  della  tecnica,  per  poter realmente servire gli uomini, esige un proporzionato  sviluppo  della  vita  morale (4).

“Il senso essenziale [... del] dominio dell’uomo sul mondo visibile, a lui assegnato come compito dallo stesso Creatore – ha osservato perspicacemente Giovanni Paolo II – consiste nella priorità dell’etica sulla tecnica, nel primato delle persone sulle cose, nella superiorità dello spirito sulla materia” (5).

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Altrimenti si corre il rischio che lo sviluppo della tecnica si rivolga contro l’uomo stesso, non renda la vita umana sulla terra in ogni suo aspetto più umana, non la renda più degna dell’uomo; in tal caso, l’uomo, proprio in quanto uomo, non si sviluppa né progredisce, ma piuttosto regredisce e si degrada nella sua umanità (6).

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In questa prospettiva, il Pontefice scorge il pericolo reale “[...] che, mentre progredisce enormemente il dominio da parte dell’uomo sul mondo delle cose, di questo suo dominio egli perda i fili essenziali, e in vari modi la sua umanità sia sottomessa a quel mondo, ed egli stesso divenga oggetto di multiforme [...] manipolazione, mediante tutta l’organizzazione della vita comunitaria”.

Invece “l’uomo non può rinunciare a se stesso, né al posto che gli spetta nel mondo visibile; non può diventare schiavo delle cose, schiavo dei sistemi economici, schiavo della produzione, schiavo dei suoi propri prodotti. Una civiltà dal profilo puramente materialistico condanna l’uomo a tale schiavitù” (7), subordina l’uomo alle sue esigenze parziali, lo soffoca e disgrega la società (8).

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zenon-grocholewski-cardinale-150x150B. La risposta della fede

a livello universitario

 

4. Questo discorso non significa affatto che le varie scienze debbano perdere la loro autonomia e il loro oggetto specifico; esso intende, invece, sottolineare la necessità di far sì che l’attuale progresso scientifico-tecnologico così vertiginoso sia umanizzato al fine di essere veramente a vantaggio dell’uomo e della società.

La fede ha la capacità di arricchire questo sviluppo scientifico e tecnologico in diversi modi: 

- Prima di tutto provocando al suo interno la riflessione sul significato e la finalità ultima della ricerca e della tecnologia.

Infatti, la sola scienza non è in grado di dare la piena risposta al riguardo, e si tratta di una questione vitale nel coltivare le scienze (9).

- La fede inoltre ci permette di cogliere il concetto di umanesimo – che, con lo sforzo di tutti, occorre riportare in seno all’università facendole ritrovare la sua vocazione originaria, luogo segnato da “humanitas” -, come campo della coltivazione di un sapere volto a sviluppare l’uomo nella sua integrità e quindi anche nella sua dimensione spirituale-religiosa. Non per nulla, nelle prime università, noi troviamo presente la Facoltà di Teologia.

In questo senso – con riferimento al Concilio Vaticano II (GS, 43 ss.) – la Cost. Ap. Sapientia christiana (10) all’inizio osserva:  “La sapienza cristiana [...] è di continuo incitamento ai fedeli perché si sforzino di raccogliere le vicende e le attività umane in un’unica sintesi vitale insieme con i valori religiosi, sotto la cui direzione tutte le cose sono tra loro coordinate per la gloria di Dio e per l’integrale sviluppo dell’uomo, sviluppo che comprende i beni del corpo e quelli dello spirito”.

- In questa prospettiva la fede necessariamente c’impegna a sollecitare l’università a scrutare più profondamente il mistero dell’uomo e nel medesimo tempo a far sì che l’università formando l’uomo promuova l’autentico bene della società.

 

In questo contesto mi permetto di ricordare quanto Giovanni Paolo II nota con insistenza:  “Non si può [...] comprendere l’uomo fino in fondo senza il Cristo. O piuttosto l’uomo non è capace di comprendere se stesso fino in fondo senza il Cristo. Non può capire né chi è, né quale è la sua vera dignità, né quale sia la sua vocazione, né il destino finale. Non può capire tutto ciò senza il Cristo. E perciò non si può escludere Cristo dalla storia dell’uomo in qualsiasi parte del globo, e su qualsiasi longitudine e latitudine geografica” (11).

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Il Cristo è “la chiave per la comprensione di quella grande e fondamentale realtà che è l’uomo” (12). Citando le parole del Concilio Vaticano II, Giovanni Paolo II sottolinea:  “In realtà, solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo [...] Cristo [...] svela [...] pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione” (13), e la piena verità sulla libertà umana (14), sul suo vero bene (15). Anzi, “attraverso l’Incarnazione Dio ha dato alla vita umana quella dimensione che intendeva dare all’uomo sin dal suo primo inizio, e l’ha dato in maniera definitiva” (16). In lui si è rivelata in modo nuovo e più mirabile anche “la fondamentale verità sulla creazione” intera (17). L’uomo quindi “che vuole comprendere se stesso fino in fondo – non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere - deve [...] avvicinarsi a Cristo” (18).

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- Servire l’uomo significa – secondo l’umanesimo cristiano – anzitutto cercare disinteressatamente la verità, la quale ha la sua pienezza in Cristo. Il consacrarsi senza riserve alla causa della verità significa servire “la dignità dell’uomo e la causa della Chiesa, la quale ha “l’intima convinzione che la verità è la sua vera alleata… e che la conoscenza e la ragione sono fedeli ministre della fede” (Card. Newman)” (19). “La nostra epoca [...] ha urgente bisogno di questa forma di servizio disinteressato, che è quello di proclamare il senso della verità, valore fondamentale senza il quale si estinguono la libertà, la giustizia e la dignità dell’uomo” (20).

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C. Dialogo tra fede e cultura

5. In questa prospettiva, la parola della fede appare come interlocutore culturalmente significativo e rilevante nell’ambito universitario. Infatti, “una fede che non diventa cultura [nel senso di modo di esistere e di essere dell'uomo] è una fede non pienamente accolta, non intensamente pensata, non fedelmente vissuta” (21).

Le scienze tecniche, aiutate a superare una riduzione culturale che le mortificherebbe circoscrivendole a sapere meramente funzionale e pragmatico, possono così riprendere la loro fisionomia di ricerca posta a servizio della qualità della vita, mai slegata dalla verità totale sull’uomo e sul mondo.

Le scienze umane, a loro volta, vengono provocate a quasi riscattarsi da una visione del sapere strumentale e calcolatore, che tende a relegarle a ruoli secondari, e a mostrare la loro capacità di scrutare l’uomo nella sua profondità, e quindi di saper cogliere in esso il desiderio vivo di Dio e nel medesimo tempo l’idoneità dell’intelletto umano di saper arrivare, con la sua acutezza, a Dio stesso (22).

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6. In questo orizzonte, si comprende come fede e cultura non siano estranee l’una all’altra; esse sono indissolubilmente connesse in radice:  “nella sua base ontologica il fenomeno della cultura possiede una intrinseca dimensione religiosa, giacché in molti modi manifesta quel desiderium naturale videndi Deum che è presente in ogni uomo” (23).

La dimensione religiosa appare, dunque, punto d’incontro naturale e fecondo tra la concezione dell’uomo e il concetto di cultura:  “È tempo di comprendere più profondamente che il nucleo generatore d’ogni autentica cultura è costituito dal suo approccio al mistero di Dio, nel quale soltanto trova il suo fondamento incrollabile un ordine sociale incentrato sulla dignità e responsabilità personale” (24).

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7. Un eventuale tentativo di infrangere questo connubio porta l’uomo e la cultura stessa a ripiegarsi su di sé, su interessi puramente egoistici e a non aprirsi ad orizzonti più vasti che sono indispensabili perché l’uomo possa veramente essere compreso ed esprimersi nella sua totalità.
In tale dialogo ha una grande rilevanza la riflessione teologica in seno all’università. Essa, infatti, promuove proprio un dialogo costruttivo nella verità, contribuendo ad evitare una concezione dualistica del sapere umano e quindi una separazione tra Vangelo e cultura, tra fede e ragione.

Il carattere di scientificità che la riflessione teologica assume impedisce ogni confusione di piani. Attraverso un uso critico della ragione, essa tende a illustrare la coerenza, la struttura intelligibile, il significato perenne dell’asserto di fede nel confronto con il mutamento delle culture, lasciandosi provocare da esse e al tempo stesso provocandole per un’intelligibilità sempre più profonda della verità. Unendo in sé l’audacia della ricerca e la pazienza della maturazione, l’orizzonte teologico può e deve interessarsi di tutti i problemi che tormentano gli uomini; può e deve valorizzare tutte le risorse della ragione.

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8. Comunque, occorre sottolineare in questo contesto che la questione della Verità e dell’Assoluto – la questione di Dio – non è una investigazione astratta, avulsa dalla realtà del quotidiano; ma la domanda cruciale, da cui dipende radicalmente la scoperta del senso (o del non senso) del mondo e della vita.

9. Quindi, il dialogo tra fede e cultura, l’attenzione costante al significato della ricerca e della tecnologia, la preoccupazione di un sapere che abbracci la visione e la formazione integrale dell’uomo, la ricerca disinteressata della verità:  tutto ciò costituisce un servizio all’uomo stesso e al vero progresso.

La sensibilità cristiana è chiamata ad inserirsi in questo dialogo, senza avanzare pretese egemoniche di nessun tipo. Non solo per rispetto delle legittime libertà d’espressione e convinzione, ma per fedeltà alla sua missione specifica.

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Venti anni or sono, Giovanni Paolo II, rivolgendosi ai professori e agli studenti in Germania, sottolineò:  “Una soluzione sicura, capace di rispondere alle urgenti questioni relative al senso dell’esistenza umana, ai principi che guidano l’agire, alle prospettive di una speranza aperta al futuro è possibile soltanto in una rinnovata unione del sapere scientifico con la forza della fede dell’uomo, la quale cerca la verità. La lotta per un umanesimo, sul quale si può fondare lo sviluppo del terzo millennio, porterà al successo soltanto quando in esso la conoscenza scientifica di nuovo si unirà in maniera vitale con la verità che è stata rivelata all’uomo come dono di Dio” (25).

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10. Vorrei aggiungere una parola circa il ruolo dei docenti e degli studenti cattolici in questo dialogo. Anche dove non è possibile parlare esplicitamente di Dio si può operare perché si crei quello spazio spirituale e culturale dove Dio possa parlare. Per creare questo spazio ovviamente occorre: 

- una fede viva nella forza del Vangelo. Dobbiamo essere convinti anzitutto che nel Vangelo si dà “una concezione del mondo e dell’uomo che non cessa di sprigionare valenze culturali, umanistiche ed etiche da cui dipende tutta la visione della vita e della storia” (26);

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- una testimonianza di vita cristiana visibile. La potenza del Vangelo, pur essendo efficace in sé e per sé, richiede però quella testimonianza visibile da parte dei cristiani che vivono nell’ambito universitario e che hanno realizzato una sintesi esistenziale tra la loro fede e la loro professione accademico-scientifica. Infatti – come ha notato Paolo VI – “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, [...] o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni” (27).

 

D. Il Giubileo degli Universitari

11. Il presente Incontro con la sua tematica s’inserisce nel contesto della celebrazione del Giubileo, nel quale ricordiamo il bimillenario dell’Incarnazione del Verbo di Dio. La nostra riflessione non può prescindere da questo avvenimento; anzi, deve inserirsi in esso. Siamo, pertanto, tutti chiamati a guardare a Cristo, Via, Verità e Vita (Gv 14, 6), il quale è venuto nel mondo per portarci la pienezza della verità e la salvezza. Il nostro discorso sull’umanesimo rischierebbe di restare astratto e incompleto senza questo sguardo, il quale è capace di cambiare il cuore dell’uomo e la visione con cui egli è chiamato a vedere la realtà e a risolvere i molteplici problemi che la vita presenta.

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Il Giubileo comporta necessariamente la conversione a Cristo; tale conversione per i docenti e gli studenti universitari cattolici significa anche uno sforzo continuo di armonizzare fede vissuta e insegnamento-ricerca, comporta una testimonianza chiara della loro vita cristiana.

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Senza l’apporto dei docenti cattolici e in un certo grado degli studenti in seno all’Università, volto a coniugare Vangelo e cultura, ogni discorso rischia di rimanere astratto. I docenti, infatti, svolgono una funzione primaria e delicatissima nel contesto della ricerca della verità e nell’aprire i cuori dei giovani e dei loro colleghi alla verità assoluta che è Cristo stesso. Questa loro attività la svolgeranno nella convinzione che la scienza e la cultura non devono avere paura di Cristo; anzi, occorre spalancare le porte a Lui,  che  sa  ciò  che  è  dentro  l’uomo, per permettergli di parlare all’uomo stesso e di svelargli la sua identità e missione (28).

 

Questo sguardo a Cristo deve essere talmente personale e forte da far attirare l’attenzione anche dei docenti e degli studenti non cristiani verso Gesù. La gioia della nostra celebrazione giubilare deve costituire un’occasione perché anche i non credenti siano provocati alla ricerca della verità assoluta che è Cristo stesso. Voglio ricordare quanto il Papa scrive nella Bolla d’Indizione del Grande Giubileo dell’Anno 2000 Incarnationis Mysterium:  “In occasione di questa grande festa sono cordialmente invitati a gioire della nostra gioia anche i seguaci di altre religioni, come pure quanti sono lontani dalla fede in Dio. Come fratelli dell’unica famiglia umana, varchiamo insieme la soglia di un nuovo millennio che richiederà l’impegno e la responsabilità di tutti” (29).

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Di tutto cuore mi auguro che il presente Incontro sia un’occasione per tutti di riflessione, di conversione e d’impegno. Il futuro della società si gioca in gran parte in seno alle Università, luoghi dove si preparano coloro che avranno responsabilità di rilievo nei vari settori del sapere, della scienza e della tecnica. Il momento attuale è carico di tensioni e incertezze, ma è anche aperto a grandi speranze. Tocca a noi tutti, particolarmente in questo Giubileo che ricorda la nascita di Gesù, orientare queste speranze verso l’autentico bene dell’uomo e della società.

 



Note: 

(1) Cfr ad es. P. Poupard, La ricerca della verità nella cultura contemporanea in Studi Senesi 106 (1994) I, 108-133; C. M. Martini, Renderò gloria a Chi mi ha concesso la sapienza, Milano 2000,  20-22.  Questa  crisi  è  stata,  del resto,  spesso  rilevata  anche  dal  Magistero.

(2) La crisi dell’educazione occidentale, Brescia 1965, 175.

(3) R. Guardini, Tre scritti sull’università, Brescia 1999, 79.

(4)  Cfr  Enc.  Redemptor  hominis, 15d, 16a.

(5) Enc. Redemptor hominis, 16a; cfr Sollicitudo rei socialis, 27-34.

(6) Cfr Enc. Redemptor hominis 15b 15d, 15e.

(7) Ivi, 16b.

(8) Ivi, 16g.

(9) Cfr al riguardo Giovanni Paolo II, Allocutio ad professores et alumnos publicarum Universitatum in Coloniensi metropolitano templo habita, 15 novembris  1980,  n.  3,  in  AAS  73 (1981) 52-53.

(10) Del 15 aprile 1979, in AAS 71 (1979) 469-499. Traduzione italiana in Enchiridion Vaticanum, vol. VI, nn. 1330-1454.

(11) Varsavia, 2 giugno 1979, in AAS 71 (1978) 738, n. 3a. Traduzione italiana in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, 2 (1979) I, 1388.

(12) Ivi.

(13) Enc. Redemptor hominis, 8b; cfr anche ivi, 13a, dove Giovanni Paolo II parla della “potenza di quella verità sull’uomo e sul mondo, contenuta nel mistero dell’Incamazione e della Redenzione” e della “potenza di quell’amore che da essa irradia”.

(14) Ivi, 21e.

(15) Ivi, 13b.

(16) Ivi, 1b.

(17) Ivi, 8a.

(18) Ivi, 10a.

(19) Cfr Cost. Ap. Ex corde Ecclesiæ, 15 aprile 1990, 4.

(20) Ibidem.

(21) Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Congresso nazionale del movimento ecclesiale di impegno culturale, 16 gennaio 1982, 2, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, 5 (1982) I, 131.

(22) In fondo si tratta di quella visione metafisica che potrà aiutare a superare visioni parziali della realtà. Al riguardo mi piace ricordare quanto osserva Giovanni Paolo II nella Lettera Enciclica Fides et Ratio:  “L’importanza dell’istanza metafisica diventa ancora più evidente se si considera lo sviluppo che oggi hanno le scienze ermeneutiche e le diverse analisi del linguaggio. I risultati a cui questi studi giungono possono essere molto utili per l’intelligenza della fede, in quanto rendono manifesti la struttura del nostro pensare e parlare e il senso racchiuso nel linguaggio. Vi sono cultori di tali scienze, però, che nelle loro indagini tendono ad arrestarsi al come si comprende e come si dice la realtà, prescindendo dal verificare le possibilità della ragione di scoprirne l’essenza. Come non vedere in tale atteggiamento una conferma della crisi di fiducia, che il nostro tempo sta attraversando, circa le capacità della ragione?” (n. 84).

(23) Giovanni Paolo II, Messaggio alla Pontificia Università Lateranense, 7 novembre 1996, n. 3, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, 19 (1996) II, 656.

(24) Giovanni Paolo II, Discorso al Convegno ecclesiale di Palermo, 23 novembre 1995, n. 4, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, 18 (1995) II, 1199.

(25) Allocutio ad professores et alumnos publicarum Universitatum in Coloniensi  metropolitano  templo  habita, 15 novembris 1980, n. 5, in AAS 73 (1981) 57.

(26) Giovanni Paolo II, Discorso al Forum dei Rettori delle Università Europee, 19 aprile 1991, n. 7, in AAS 84 (1992) 55.

(27) Esort. Ap. Evangelii nuntiandi, 8 dicembre 1975, n. 41, in AAS 58 (1976) 5-76.

(28) Cfr Discorso inaugurale del Pontificato di Giovanni Paolo II, 28 ottobre 1978, in AAS 70 (1978) 947.

(29) N. 6.

 

GIOVANNI PAOLO II VISTO DA VICINO – AA.DD.

Servo di Dio GIOVANNI PAOLO II, Papa


(18/05/1920 – 02/04/2005)


 

Karol Józef Wojtyła, divenuto Giovanni Paolo II con la sua elezione alla Sede Apostolica il 16 ottobre 1978, nacque a Wadowice, città a 50 km da Kraków (Polonia), il 18 maggio 1920. Era l’ultimo dei tre figli di Karol Wojtyła e di Emilia Kaczorowska, che morì nel 1929. Suo fratello maggiore Edmund, medico, morì nel 1932 e suo padre, sottufficiale dell’esercito, nel 1941. La sorella, Olga, era morta prima che lui nascesse.

Fu battezzato il 20 giugno 1920 nella Chiesa parrocchiale di Wadowice dal sacerdote Franciszek Zak; a 9 anni ricevette la Prima Comunione e a 18 anni il sacramento della Cresima. Terminati gli studi nella scuola superiore Marcin Wadowita di Wadowice, nel 1938 si iscrisse all’Università Jagellónica di Cracovia.

Quando le forze di occupazione naziste chiusero l’Università nel 1939, il giovane Karol lavorò (1940-1944) in una cava ed, in seguito, nella fabbrica chimica Solvay per potersi guadagnare da vivere ed evitare la deportazione in Germania.

A partire dal 1942, sentendosi chiamato al sacerdozio, frequentò i corsi di formazione del seminario maggiore clandestino di Cracovia, diretto dall’Arcivescovo di Cracovia, il Cardinale Adam Stefan Sapieha. Nel contempo, fu uno dei promotori del “Teatro Rapsodico”, anch’esso clandestino.

Dopo la guerra, continuò i suoi studi nel seminario maggiore di Cracovia, nuovamente aperto, e nella Facoltà di Teologia dell’Università Jagellónica, fino alla sua ordinazione sacerdotale avvenuta a Cracovia il 1̊ novembre 1946, per le mani dell’Arcivescovo Sapieha.

Successivamente fu inviato a Roma, dove , sotto la guida del domenicano francese P. Garrigou-Lagrange, conseguì nel 1948 il dottorato in teologia, con una tesi sul tema della fede nelle opere di San Giovanni della Croce (Doctrina de fide apud Sanctum Ioannem a Cruce). In quel periodo, durante le sue vacanze, esercitò il ministero pastorale tra gli emigranti polacchi in Francia, Belgio e Olanda.

Nel 1948 ritornò in Polonia e fu coadiutore dapprima nella parrocchia di Niegowić, vicino a Cracovia, e poi in quella di San Floriano, in città. Fu cappellano degli universitari fino al 1951, quando riprese i suoi studi filosofici e teologici. Nel 1953 presentò all’Università cattolica di Lublino la tesi: “Valutazione della possibilità di fondare un’etica cristiana a partire dal sistema etico di Max Scheler”. Più tardi, divenne professore di Teologia Morale ed Etica nel seminario maggiore di Cracovia e nella Facoltà di Teologia di Lublino.

Il 4 luglio 1958, il Papa Pio XII lo nominò Vescovo titolare di Ombi e Ausiliare di Cracovia. Ricevette l’ordinazione episcopale il 28 settembre 1958 nella cattedrale del Wawel (Cracovia), dalle mani dell’Arcivescovo Eugeniusz Baziak.

Il 13 gennaio 1964 fu nominato Arcivescovo di Cracovia da Papa Paolo VI, che lo creò e pubblicò Cardinale nel Concistoro del 26 giugno 1967, del Titolo di S. Cesareo in Palatio, Diaconia elevata pro illa vice a Titolo Presbiterale.

Partecipò al Concilio Vaticano II (1962-1965) con un contributo importante nell’elaborazione della costituzione Gaudium et spes. Il Cardinale Wojtyła prese parte anche alle 5 assemblee del Sinodo dei Vescovi anteriori al suo Pontificato.

I Cardinali, riuniti in Conclave, lo elessero Papa il 16 ottobre 1978. Prese il nome di Giovanni Paolo II e il 22 ottobre iniziò solennemente il ministero Petrino, quale 263° successore dell’Apostolo. Il suo pontificato è stato uno dei più lunghi della storia della Chiesa ed è durato quasi 27 anni.

Giovanni Paolo II ha esercitato il suo ministero con instancabile spirito missionario, dedicando tutte le sue energie sospinto dalla sollecitudine pastorale per tutte le Chiese e dalla carità aperta all’umanità intera. I suoi viaggi apostolici nel mondo sono stati 104. In Italia ha compiuto 146 visite pastorali. Come Vescovo di Roma, ha visitato 317 parrocchie (su un totale di 333).

Più di ogni Predecessore ha incontrato il Popolo di Dio e i Responsabili delle Nazioni: alle Udienze Generali del mercoledì (1166 nel corso del Pontificato) hanno partecipato più di 17 milioni e 600 mila pellegrini, senza contare tutte le altre udienze speciali e le cerimonie religiose [più di 8 milioni di pellegrini solo nel corso del Grande Giubileo dell’anno 2000], nonché i milioni di fedeli incontrati nel corso delle visite pastorali in Italia e nel mondo. Numerose anche le personalità governative ricevute in udienza: basti ricordare le 38 visite ufficiali e le altre 738 udienze o incontri con Capi di Stato, come pure le 246 udienze e incontri con Primi Ministri.

Il suo amore per i giovani lo ha spinto ad iniziare, nel 1985, le Giornate Mondiali della Gioventù. Le 19 edizioni della GMG che si sono tenute nel corso del suo Pontificato hanno visto riuniti milioni di giovani in varie parti del mondo. Allo stesso modo la sua attenzione per la famiglia si è espressa con gli Incontri mondiali delle Famiglie da lui iniziati a partire dal 1994.

Giovanni Paolo II ha promosso con successo il dialogo con gli ebrei e con i rappresentati delle altre religioni, convocandoli in diversi Incontri di Preghiera per la Pace, specialmente in Assisi.

Sotto la sua guida la Chiesa si è avvicinata al terzo millennio e ha celebrato il Grande Giubileo del 2000, secondo le linee indicate con la Lettera apostolica Tertio millennio adveniente. Essa poi si è affacciata al nuovo evo, ricevendone indicazioni nella Lettera apostolica Novo millennio ineunte, nella quale si mostrava ai fedeli il cammino del tempo futuro.

Con l’Anno della Redenzione, l’Anno Mariano e l’Anno dell’Eucaristia, Giovanni Paolo II ha promosso il rinnovamento spirituale della Chiesa.

Ha dato un impulso straordinario alle canonizzazioni e beatificazioni, per mostrare innumerevoli esempi della santità di oggi, che fossero di incitamento agli uomini del nostro tempo: ha celebrato 147 cerimonie di beatificazione – nelle quali ha proclamato 1338 beati – e 51 canonizzazioni, per un totale di 482 santi. Ha proclamato Dottore della Chiesa santa Teresa di Gesù Bambino.

Ha notevolmente allargato il Collegio dei Cardinali, creandone 231 in 9 Concistori (più 1 in pectore, che però non è stato pubblicato prima della sua morte). Ha convocato anche 6 riunioni plenarie del Collegio Cardinalizio.

Ha presieduto 15 assemblee del Sinodo dei Vescovi: 6 generali ordinarie (1980, 1983, 1987, 1990; 1994 e 2001), 1 assemblea generale straordinaria (1985) e 8 assemblee speciali (1980, 1991, 1994, 1995, 1997, 1998 [2] e 1999).

Tra i suoi documenti principali si annoverano 14 Lettere encicliche, 15 Esortazioni apostoliche, 11 Costituzioni apostoliche e 45 Lettere apostoliche.

Ha promulgato il Catechismo della Chiesa cattolica, alla luce della Tradizione, autorevolmente interpretata dal Concilio Vaticano II. Ha riformato i Codici di diritto Canonico Occidentale e Orientale, ha creato nuove Istituzioni e riordinato la Curia Romana.

A Papa Giovanni Paolo II, come privato Dottore, si ascrivono anche 5 libri: “Varcare la soglia della speranza” (ottobre 1994); “Dono e mistero: nel cinquantesimo anniversario del mio sacerdozio” (novembre 1996); “Trittico romano”, meditazioni in forma di poesia (marzo 2003); “Alzatevi, andiamo!” (maggio 2004) e “Memoria e Identità” (febbraio 2005).

Giovanni Paolo II è morto in Vaticano il 2 aprile 2005, alle ore 21.37, mentre volgeva al termine il sabato e si era già entrati nel giorno del Signore, Ottava di Pasqua e Domenica della Divina Misericordia.

Da quella sera e fino all’8 aprile, quando hanno avuto luogo le Esequie del defunto Pontefice, più di tre milioni di pellegrini sono confluiti a Roma per rendere omaggio alla salma del Papa, attendendo in fila anche fino a 24 ore per poter accedere alla Basilica di San Pietro.

Il 28 aprile successivo, il Santo Padre Benedetto XVI ha concesso la dispensa dal tempo di cinque anni di attesa dopo la morte, per l’inizio della Causa di beatificazione e canonizzazione di Giovanni Paolo II. La Causa è stata aperta ufficialmente il 28 giugno 2005 dal Cardinale Camillo Ruini, Vicario Generale per la diocesi di Roma.

fonte: www.vatican.va

FEDE E CORAGGIO DI UN PAPA

 

Tre anni fa si spegneva Giovanni Paolo II, al termine di un declino fisico vissuto con una fede e un coraggio impressionanti. E davvero la morte del Papa venuto da “lontano” colpì moltissime persone in tutto il mondo, come subito fu evidente dalle reazioni moltiplicatesi nei giorni successivi e poi dalla celebrazione dei funerali. Tanto che alcuni storici hanno ricordato quelle che seguirono, in circostanze del tutto diverse, la morte di Pio IX e, in tempi più vicini, l’agonia di Giovanni XXIII.

La stessa fede e lo stesso coraggio avevano del resto caratterizzato tutta la vita di Karol Wojtyla e hanno poi segnato il suo lunghissimo pontificato, urbi et orbi: così come davanti “alla città e al mondo”, da piazza San Pietro, risuonarono il 16 ottobre 1978 le parole vigorose del cinquantottenne cardinale arcivescovo di Cracovia appena eletto Papa e quelle gravi del sostituto della Segreteria di Stato che il 2 aprile 2005 ne annunciarono la morte.

Prete dal carisma indiscusso, nominato già da Pio XII vescovo a soli trentotto anni, poi da Paolo VI promosso, ancora giovane, metropolita della storica sede polacca e quindi creato cardinale, Wojtyla è stato un vero protagonista della seconda metà del Novecento. E, “avvicinandosi il terzo millennio”, tertio millennio adveniente, come “pastore universale della Chiesa” ha saputo – con una visione mistica e politica – accompagnare i fedeli cattolici e i cristiani, ma più in generale credenti e non credenti, in un arco di tempo segnato da mutamenti rapidi e inattesi: dalla crisi e dal crollo del comunismo europeo all’imporsi del fenomeno mondiale che va sotto il nome di globalizzazione. Con una nuova attenzione alle donne, alle quali per la prima volta dedicò diversi documenti e interventi.

Così la critica serrata all’ideologia materialista e disumana del comunismo da parte del Papa venuto dalla Chiesa del silenzio – che ora grazie a lui aveva ripreso a parlare – andò di pari passo e fu seguita da quella al materialismo pratico delle società ricche sempre più scristianizzate, povere di ideali ma pervasive con i loro avvilenti modelli di vita. Di fronte a nuove guerre e alla crescita dei fondamentalismi religiosi, in particolare quello islamico, la predicazione di Giovanni Paolo II riprese e rafforzò l’opera di pace della Santa Sede, ininterrotta almeno da oltre un secolo, ponendo la Chiesa cattolica all’avanguardia della difesa dei diritti umani e cercando un’intesa tra le grandi religioni. E dinnanzi alle minacce per la vita umana nascoste nelle biotecnologie Papa Wojtyla individuò e denunciò i pericoli per la dignità dell’essere umano.

Soprattutto, sulle vie indicate dai predecessori e dai concili, appassionato di Cristo e devoto alla Madre di Dio, Giovanni Paolo II ha percorso i cinque continenti senza stancarsi – e senza lasciarsi intimorire dall’attentato che nel 1981 lo ridusse in fin di vita – per dare visibilità e infondere coraggio alla Chiesa. Che per questo, iniziando da Benedetto XVI, è grata a Papa Wojtyla, prega per lui e alla sua preghiera si affida nella comunione dei santi.

g. m. v.

(©L’Osservatore Romano – 2 aprile 2008)

 

Il 2 aprile di tre anni fa moriva Giovanni Paolo II
E LA CHIESA DEL SILENZIO PARLO’

Giornalista e scrittore, l’autore del volume Jean-Paul II - edito da Gallimard (Paris, 2003) e tradotto in italiano per Baldini Castoldi Dalai Editore (Milano, 2004) – ha tracciato un profilo del Pontefice soffermandosi in particolar modo sul ruolo da lui esercitato sullo sviluppo della recente storia europea.

 

 

 

di Bernard Lecomte

 

Se Giovanni Paolo II ha lasciato il ricordo di un pastore eccezionale, di un uomo dalla grande fede, di un intellettuale fuori dal comune, resterà nella storia anche come un Papa molto “politico”, soprattutto per il ruolo esercitato sulla fine del comunismo in Europa. Certo, il Papa polacco non ha mai lanciato “crociate” contro l’uno o l’altro regime: “Non faccio politica” ha detto un giorno a un giornalista, “io parlo del Vangelo. Ma se parlare della giustizia, della dignità umana, dei diritti dell’uomo, è fare politica, allora siamo d’accordo!”.

Oggi tutti gli storici concordano che se il Papa eletto nell’ottobre del 1978 fosse stato italiano, spagnolo o francese, il corso della storia, sul finire del ventesimo secolo, sarebbe stato diverso.

Appena eletto, in effetti, si vede il nuovo Pontefice moltiplicare segni, gesti e iniziative in direzione dell’Est. Durante la messa per l’inizio del ministero petrino, domenica 22 ottobre 1978, dopo aver lanciato il suo famoso “Non abbiate paura!”, il Papa slavo pronuncia saluti particolari in ceco, slovacco, russo, e così via. Chi nota allora che egli invia la sua berretta di cardinale al santuario della Porta dell’Aurora, a Vilnius, capitale della cattolicissima Lituania? Chi osserva che riceve, in primo luogo, il cardinale Frántisek Tomásek, primate di Boemia e futuro padrino della “rivoluzione di velluto” cecoslovacca? “Santità, non dimentichi la Chiesa del silenzio!” gli dice una donna ad Assisi, il 5 novembre 1978. Giovanni Paolo II le risponde: “Non c’è più Chiesa del silenzio, perché parla con la mia voce!”.

Il nuovo Papa non ha elaborato alcun progetto, non ha fomentato alcun complotto, per rovesciare il sistema sovietico. È tuttavia portatore di un’esperienza particolare: quella di un sacerdote, di un vescovo, di un cardinale venuto dall’altra parte della “cortina di ferro”. Il suo discorso è tanto originale quanto sovversivo: contrariamente alla maggior parte dei responsabili occidentali di allora, egli è convinto che la divisione dell’Europa in due sia un incidente politico e che il marxismo-leninismo non sia altro che una parentesi della storia.

Il cammino spirituale e l’insegnamento morale di Giovanni Paolo II sono stati altrettanti incoraggiamenti per i cristiani dell’Est, come i grandi temi che hanno presto costituito l’armatura del suo discorso politico e sociale:

  • - innanzitutto il primato della “cultura”, che ha colpito tanto le menti nel discorso all’Unesco del 2 giugno 1980, e quell’insistere sul risuscitare la storia confiscata, di tutti i popoli sottomessi; – la permanenza della “nazione”, cellula primaria della comunità internazionale, la cui esistenza e la cui sovranità non devono dipendere dal beneplacito di qualche entità superiore;

  • - l’opzione per “l’Europa” in quanto associazione di nazioni che custodiscono la loro storia, le loro specificità e anche le loro radici cristiane, ben diversa, quindi, dall’Europa conflittuale di Yalta e di Helsinki;

  • - infine l’insistenza per i “diritti dell’Uomo”, tema centrale dell’insegnamento di Giovanni Paolo II fin dalla sua prima enciclica, Redemptor hominis, la lotta per le libertà individuali e soprattutto per la più intima: la libertà religiosa.

Il Papa non si è accontentato di tradurre tali temi in omelie a Roma, ma li ha portati, a volte personalmente, nei quattro angoli dell’Europa. Innanzitutto con i suoi viaggi, a cominciare dalla straordinaria visita pastorale in Polonia nel giugno del 1979, che in qualche modo diede il via all’esperienza di Solidarnosc. Poi, per interposta persona: basti ricordare la missione del cardinale Agostino Casaroli inviato a rappresentare il Papa nelle cerimonie del millenario della Chiesa russa, nel giugno del 1988. Infine, mediante innumerevoli incontri in Vaticano, dalla prima udienza concessa al ministro Andrei Gromyko (gennaio 1979) al caloroso incontro con il dissidente Andrei Sakharov (febbraio 1989).

Il più sorprendente di questi incontri sarebbe stato, naturalmente, quello con Mikhail Gorbaciov, svoltosi in Vaticano il primo dicembre 1989, alcuni giorni dopo la caduta del Muro di Berlino, come uno straordinario simbolo della fine di un’epoca.
“Varsavia, Mosca, Budapest, Berlino, Praga, Sofia e Bucarest sono divenute le tappe di un lungo pellegrinaggio verso la libertà”, avrebbe detto il Papa dinanzi al corpo diplomatico, un mese dopo, prima che Gorbaciov stesso riconoscesse, in un articolo pubblicato nel febbraio 1992: “Nulla di quanto è accaduto in Europa sarebbe stato possibile senza questo Papa”.

 

(©L’Osservatore Romano – 2 aprile 2008)

Gli ultimi giorni nel ricordo filiale del cardinale Stanislaw Dziwisz

 

 

 E PENSAI: L’HO ACCOMPAGNATO

PER QUANTANT’ ANNI

E  ORA? DALL’ALTRA PARTE

CHI LO ACCOMPAGNA ?

 

Martedì 1 ° aprile alle ore 18, nella basilica romana di Santa Maria in Trastevere, si è svolto l’incontro “Ricordando Karol. A tre anni dalla scomparsa di Giovanni Paolo II” con la partecipazione dei cardinali Camillo Ruini, vicario di Roma, e Stanislaw Dziwisz, arcivescovo metropolita di Cracovia, di monsignor Slawomir Oder, postulare della causa di beatificazione e canonizzazione di Karol Wojtyla, dello storico Andrea Riccardi, docente all’università di Roma Tre, e del giornalista Gianfranco Svidercoschi,. già vicedirettore del nostro giornale. In occasione della pubblicazione dell’edizione tascabile Bur del libro di Dziwisz Una vita con Karol. Conversazione con Gianfranco Svidercoschi, l’attore Piotr Adamczyk ha letto alcune pagine del volume e sono state proiettate parti della docu-fiction tratta dal libro e prodotta da Tba. Pubblichiamo un estratto dell’ultimo capitolo nel quale il segretario personale di Giovanni Paolo II racconta gli ultimi giorni di vita del Papa.


di Stanislaw Dziwisz

Per la prima volta dall’inizio del pontificato, Giovanni Paolo II, pur tornato in Vaticano, non poté presiedere i riti del Triduo pasquale. Il Venerdì Santo volle comunque seguire la Via Crucis al Colosseo da uno schermo televisivo sistemato nella cappella privata. Alla quattordicesima stazione prese nelle mani il crocifisso, come per unire il suo volto a quello di Cristo, la sua sofferenza a quella del Figlio di Dio morto in croce.

Interviste ai cardinali Giovanni Battista Re

e Leonardo Sandri, già sostituti della Segreteria di Stato

negli anni del pontificato di Karol Wojtyla
 UNA VITA DONATA PER FAR RIENTRARE DIO IN QUESTO MONDO

di Mario Ponzi

 

“Il suo sforzo più grande? Far rientrare Dio in questo mondo”. Non ha dubbi il cardinale Giovanni Battista Re a proposito della caratteristica fondamentale del pontificato di Papa Wojtyla. Qualsiasi cosa dicano alcuni suoi presunti “profondi conoscitori”, Giovanni Paolo II ha influito tanto profondamente nella storia della nostra epoca perché ha saputo fedelmente interpretare “i grandi compiti che la Provvidenza divina gli ha riservato”. E se si è reso “protagonista” negli storici eventi che hanno portato al crollo del muro di Berlino, lo ha fatto certamente non per “motivi politici ma per motivi esclusivamente religiosi”. Il cardinale Re, a lungo diretto collaboratore di Papa Wojtyla, in questa intervista offre alcuni ricordi personali dell’esperienza maturata accanto a un Pontefice che egli stesso non esita a inserire tra “i giganti della storia”.

Tre anni fa moriva Giovanni Paolo II. Che cosa ricorda di quei giorni?
La malattia, l’agonia e la morte di Giovanni Paolo II hanno scosso il mondo e hanno fatto vivere a moltissime persone delle giornate che il trascorrere del tempo non ha fatto dimenticare. Mai si era vista una solidale vicinanza al Papa così ampia e convinta. Con l’esempio delle ultime settimane di malattia, l’amato Pontefice ha testimoniato che sia l’età avanzata, sia la malattia vanno accolte con serenità e ci ha insegnato che la vita è un dono che va vissuto fino in fondo, accettando quanto Dio dispone e sopportando con forza i disagi e le sofferenze che comporta. Papa Giovanni Paolo II ha vissuto la sua missione fino all’ultimo, cercando di non fare mancare del tutto la sua presenza ai riti della Settimana Santa di quell’anno e non nascondendo la debolezza del suo fisico. Il momento più drammatico della sua volontà di comunicare è stato vissuto in diretta televisiva il giorno di Pasqua (27 marzo 2005) quando egli, reduce dal decimo ricovero al Policlinico Gemelli, dopo l’intervento di tracheotomia, come tutti ricordiamo, ha cercato di farsi udire, ma chiaro è stato soltanto il gesto della benedizione. Col suo esempio, il compianto Papa ci ha insegnato come si percorre il cammino verso il mistero che ci attende quando per ciascuno di noi si apriranno le porte dell’eternità. È stato l’insegnamento ultimo di Giovanni Paolo II e il punto più alto del suo magistero, perché tutto il suo pontificato ha mirato a questo: indicare la via che conduce al cielo, alla salvezza eterna. Ed è stato un insegnamento da grande Papa.

 

Che cosa l’ha impressionata di più in quei giorni?

 

 

Il fatto che il Papa Giovanni Paolo II non aveva per nulla paura della morte. Per lui la morte era come passare attraverso la porta che conduce all’incontro con Dio. Nonostante la sofferenza e i disagi per i suoi gravi problemi di salute, attese la morte con serenità.

Quale fu il suo ultimo incontro col compianto Papa?

Fu la sera della vigilia della sua morte: alle ore 20 di venerdì 1 aprile uscendo dall’ufficio passai all’appartamento pontificio. Monsignor Stanislao mi introdusse nella camera del Papa. Sua Santità era cosciente, respirava con grande fatica, ma era sereno in volto. Mi fissò, non parlò.

Il suo pontificato ha inciso nella storia?

Direi che Papa Giovanni Paolo II ha saputo influire da protagonista sul corso degli eventi. La Provvidenza divina gli ha riservato grandi compiti nella storia della nostra epoca. Tuttavia, anche se è vero che Giovanni Paolo II ha inciso nella storia e negli avvenimenti che hanno portato alla caduta del muro di Berlino, come ha rilevato lo stesso Gorbaciov, la prima e fondamentale caratteristica del suo pontificato è quella religiosa. Il movente di tutto il pontificato, la radice della sua incontenibile energia, il motivo ispiratore di tutte le iniziative è stato religioso: tutti gli sforzi del Papa miravano a fare rientrare Dio in questo mondo. La fedeltà al Vangelo ha poi portato Giovanni Paolo II a difendere col vigore del lottatore i grandi valori umani e cristiani. Difese tali valori con importanti encicliche e innumerevoli interventi, facendo sentire la sua voce anche nelle conferenze internazionali. In tutti gli angoli della terra ha seminato ragioni di vita e di speranza e ha rivendicato la dignità di ogni uomo e di ogni donna e il rispetto della libertà e dei diritti umani. Ha indicato a tutti la via della verità e dei valori morali come unica strada che può assicurare un avvenire più umano, più giusto, più pacifico. In questa nostra epoca, nella quale ha lasciato un segno incancellabile, è stato il più strenuo e appassionato tutore dei valori che danno senso alla vita e che fanno parte del patrimonio della civiltà cristiana. È stato un grande messaggero di pace e un instancabile operatore per una convivenza tra gli uomini e i popoli all’insegna dell’armonia e della collaborazione.

Alcuni hanno giudicato quel pontificato per i suoi aspetti di lotta al comunismo. Le sembra una valutazione corretta? L’elemento qualificante del pontificato di Giovanni Paolo II è stata la fedeltà al Vangelo.

È vero che egli era contro il comunismo, però il motivo non era politico, ma essenzialmente religioso: egli operò con coraggio contro il comunismo perché era un sistema che professava l’ateismo e perseguitava la Chiesa, e in pari tempo opprimeva l’uomo, negandogli piena libertà. Era un motivo religioso quello che ispirava il Papa e che faceva seguito alle parole vibranti da lui pronunciate nella prima celebrazione in Piazza San Pietro: “Non abbiate paura! Aprite le porte a Cristo!”.

Lei è stato per molti anni al suo fianco come assessore e poi sostituto della Segreteria di Stato: che cosa l’ha colpita di più?

Stando vicino a Papa Giovanni Paolo II colpiva la capacità che aveva di parlare alle folle e impressionava la ricchezza della sua umanità – il rapporto che stabiliva con le persone, il calore delle amicizie, la profondità del pensiero, la capacità di godere della bellezza della natura, della letteratura e dell’arte – ma ciò che sempre mi ha impressionato di più è stato il suo rapporto con Dio. Colpiva come egli si abbandonava alla preghiera: si notava in lui un trasporto che gli era connaturale e che lo assorbiva come se non avesse problemi e impegni urgenti che lo chiamassero alla vita attiva. Commuoveva la facilità e la spontaneità con le quali passava dal contatto umano con le folle al raccoglimento del colloquio intimo con Dio. Quando era raccolto in preghiera, ciò che succedeva attorno a lui sembrava non toccarlo e non riguardarlo. Egli si preparava ai vari incontri, che avrebbe avuto in giornata o nella settimana, pregando. Prima di ogni decisione importante Giovanni Paolo II vi pregava sopra a lungo. Più importante era la decisione, più prolungata era la preghiera.

Che cosa rimane della sua testimonianza nel cuore degli uomini e delle donne di oggi?

La sua fede, le sue certezze, il suo coraggio restano una testimonianza che parla al cuore di ogni uomo e di ogni donna, perché la sua vita è stata sempre in sintonia col suo messaggio. Questo Papa, sempre più debole e limitato nel suo fisico, è stato particolarmente forte nel suo coraggio, nella sua capacità di proclamare la verità sull’uomo e su Dio, nel donare se stesso. Molti hanno attinto da Giovanni Paolo II speranza e fiducia nella ricerca del senso della vita. Molti hanno appreso da lui la strada per ritrovare la via che conduce a Dio. Ora che ha varcato la soglia dell’eternità e contempla il volto di Dio, la sua luce non si è spenta ed egli continua a vivere nei cuori.


 

UN RESPIRO A DUE POLMONI: ORIENTE E OCCIDENTE

di Nicola Gori

 

È stato la voce di Giovanni Paolo II negli ultimi giorni in cui l’aggravarsi della malattia gli impediva di comunicare. Ed è stato anche colui che, la sera del 2 aprile 2005, vigilia della domenica della Divina Misericordia, annunciò in piazza San Pietro la morte del Pontefice. È legato anche a queste due esperienze il ricordo personale che il cardinale Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, conserva di Papa Wojtyla a tre anni dalla scomparsa. In questa intervista il porporato ripercorre gli anni in cui ha lavorato fianco a fianco con Giovanni Paolo II, soprattutto dal 2000 come sostituto della Segreteria di Stato, partecipando, tra l’altro, personalmente alla preparazione e allo svolgimento dei viaggi apostolici in varie parti del mondo.

Nel terzo anniversario del ritorno alla Casa del Padre di Giovanni Paolo II, quali sentimenti accompagnano il suo ricordo?

Nella messa di suffragio che Benedetto XVI presiede mercoledì 2 aprile in piazza San Pietro troveranno espressione la gratitudine che dobbiamo a Dio per averci dato in Giovanni Paolo II un segno così luminoso della vicinanza del Buon Pastore; l’affetto dei figli per il Padre che li ha amati fino al suo ultimo respiro; la speranza di rimanere sempre con Cristo, il Crocifisso Risorto, al quale egli aveva consegnato se stesso in modo incondizionato.

Sono questi i sentimenti che provo quando penso agli anni passati accanto al compianto Pontefice. Ritengo si tratti di una grazia speciale ricevuta dal Signore ed è confermata nella collaborazione che ho l’onore di poter offrire al suo Successore. La gratitudine, se è autentica, diventa atto di fede nel Cristo, nella santa Chiesa e nell’uomo, che costituivano i grandi valori ai quali Papa Wojtyla volle consegnare la sua esistenza di credente e di pastore. E rimane autentica se cerca sempre di accogliere l’esempio e il magistero da lui offerti tanto generosamente.

 

Cosa ritiene peculiare nella sua testimonianza?

L’adesione a Cristo. Egli la viveva in compagnia di Maria Santissima, a lode e gloria del Dio dell’amore e per la salvezza di tutti. Questa era la testimonianza che si percepiva soprattutto quando celebrava l’Eucaristia e nella sua devozione al sacramento dell’altare. Era impressionante assistere alla sua preparazione alla messa, e poi alla celebrazione e al ringraziamento. Disarmante e coinvolgente poiché il desiderio di imitare cresceva istintivamente nel cuore. Nella Eucaristia quotidiana trovavano novità e fecondità la sua parola e le sue opere.

Nel “perdersi eucaristico” di Cristo servo, nel suo farsi pane e bevanda di salvezza per ogni uomo, nella comunione che rinvigoriva il suo inserimento nel Corpo di Cristo e nel mistero della santa Chiesa, Giovanni Paolo II trovava la capacità di presentare a tutti, soprattutto ai sofferenti nel corpo e nello spirito, ai dubbiosi e agli stanchi sotto il profilo religioso, e con quale impeto ai giovani, il Cristo vivo, il Redentore misericordioso sempre amico dell’uomo.

La certezza, poi, che il Signore lo precedeva nel cuore di coloro ai quali come pastore si sentiva inviato rendeva costante e fiducioso il suo lavoro apostolico. Dava coraggio ai ministri della Chiesa, ma anche ai fedeli, questa sua convinzione di fede, dalla quale si avvertiva la verità di quanto dice la scrittura: “La nostra fede vince il mondo”. Tanto più eloquente divenne questa testimonianza nella lunga stagione della malattia fino al silenzio dell’addio.

 

Molti esaltano il suo servizio alla storia umana e la sua missionarietà.

Certo non si possono dimenticare la responsabilità missionaria che lo portò in ogni angolo della terra e la sensibilità ecumenica e interreligiosa. Come del resto la fedeltà alla tradizione e l’apertura alle novità dello Spirito felicemente intrecciate nel suo magistero e governo pastorale. E l’attenzione ai temi sociali; il servizio alla pace, alla giustizia, alla verità quali fondamenta della concordia e solidarietà mondiali. Potremmo continuare a lungo nell’elencare i suoi meriti.

Ma la peculiarità rimane il Cristo, amato in compagnia della Madre del Signore. Tutti i santi e i beati che egli nel lungo pontificato ha proclamato attestano questa peculiarità ed esaltano l’attualità della santità cristiana, quale vita pienamente salvata e perciò felicemente realizzata grazie a Cristo Signore.

 

Può farci dono di qualche “inedito” ricordo personale di Papa Wojtyla?

Abbiamo la responsabilità di non disperdere il suo carisma, ma aggiungo che dobbiamo custodirlo con la riservatezza di chi ama, di chi è riconoscente e di chi cerca di imitare. Certo, sento viva commozione e immensa riconoscenza al Signore e allo stesso Papa Giovanni Paolo II ricordando il compito che mi aveva affidato di prestare la mia voce alla sua parola, allorché sempre più sofferente avvertiva ormai impedita la capacità di comunicare.

Rimane indelebile nel mio animo la conclusione di un Angelus domenicale quando impartendo la benedizione a nome del Santo Padre scorgevo lo stesso Pontefice tracciare su di sé a fatica il segno di croce. Era padre e fratello, e, mentre percorreva la personale Via Crucis col suo Signore, voleva riversare su tutti la grazia del salvifico dolore di Cristo.

Ma c’è un altro pensiero per così dire “inedito” che vorrei lasciare e riguarda quella che ritengo una “speciale introduzione all’Oriente cristiano” ricevuta da Giovanni Paolo II. Dalla fine dell’Anno santo ho potuto condividere numerosi viaggi papali e in maggioranza erano compiuti in Paesi orientali. L’accurata preparazione delle tappe di ciascuno di essi e poi il loro svolgimento, con le celebrazioni e gli innumerevoli incontri aperti alle categorie più diverse e qualificate della comunità ecclesiale, ai fratelli di altre Chiese e comunità ecclesiali, di altre religioni, alle autorità civili, ai giovani, mi hanno disposto al servizio che Benedetto XVI mi avrebbe poi affidato come Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali Cattoliche.

Il servo di Dio Giovanni Paolo II mi ha personalmente dato prova della sua profonda venerazione per i tesori costituiti dalle tradizioni teologiche, liturgiche e disciplinari dei cattolici orientali e dalla testimonianza dei martiri cristiani antichi e contemporanei figli dell’Oriente. Egli ha allenato anche me al pieno respiro ecclesiale. La Chiesa deve respirare a due polmoni! La Chiesa ha bisogno dell’apporto dell’Oriente e dell’Occidente per continuare a glorificare il nome del Signore e parlare in modo convincente del Redentore misericordioso all’uomo contemporaneo. Papa Wojtyla ne era gioiosamente convinto!

 


Sentii che stava davvero arrivando il momento, il Signore lo chiamava…

A Pasqua, il Santo Padre desiderava almeno impartire la benedizione Urbi et orbi. Si era preparato con cura, poco prima della cerimonia aveva provato a ripetere la formula, e tutto sembrava andare bene. Ma poi, finito il discorso letto in piazza dal cardinale Sodano, il Papa alla finestra rimase come bloccato. Sarà stata la commozione, la sofferenza, ma non riuscì a dare la benedizione. Sussurrò: “Non ho voce”, e quindi, sempre in silenzio, fece un triplice segno di croce, salutò la folla, infine con lo sguardo fece capire che voleva rientrare.

Era profondamente scosso, amareggiato, e, nello stesso tempo, come esausto per lo sforzo che aveva tentato inutilmente di fare. La gente, giù, era commossa, lo applaudiva, lo chiamava, ma lui sentiva tutto il peso di quel gesto di impotenza, di sofferenza. Mi guardò negli occhi: “Sarebbe forse meglio che muoia, se non posso compiere la missione affidatami”. Cercai di replicare, ma lui aggiunse: “Sia fatta la tua volontà… Totus tuus“. Non erano parole di disperazione, ma di sottomissione alla volontà divina.

Mercoledì 30 marzo, il Papa si affacciò di nuovo, in piazza c’erano cinquemila ragazzi dell’arcidiocesi di Milano venuti per la professione di fede. Pensavamo, io per primo, che dovesse dare solo la benedizione. Ma, dopo averla impartita, fece un gesto con la mano, un gesto deciso, per chiedere che gli avvicinassimo il microfono. Voleva dire qualche parola, anche solo una parola, un ringraziamento, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono. Nell’allontanarsi dalla finestra, non ebbe neppure la reazione di insofferenza che aveva avuto a Pasqua. Ormai sapeva, era pronto…

Il giorno dopo, verso le 11, era in cappella per la celebrazione della Messa. All’improvviso il suo corpo venne squassato da qualcosa che gli era come scoppiato dentro. La febbre era quasi a quaranta, e i medici diagnosticarono subito che era subentrato un gravissimo shock settico con collasso cardiocircolatorio, dovuto a una infezione delle vie urinarie. Stavolta, però, niente ricovero. Ricordai al dottor Buzzonetti la ferma volontà del Papa di non tornare più in ospedale. Intendeva soffrire e morire a casa sua, presso la tomba di Pietro. E, a casa sua, i medici avrebbero potuto benissimo assicurargli le cure indispensabili.

Ora, perciò, Giovanni Paolo II era nella sua camera. Sulla parete di fronte al letto, un quadro di Cristo sofferente, legato con le corde. Una immagine della Madonna di Czestochowa. E, su un tavolino, la foto dei genitori. Al termine della Messa, celebrata lì, ci avvicinammo tutti a baciare la sua mano. “Stasiu”, disse accarezzandomi la testa. Poi le suore della casa, che chiamò tutte per nome, e infine i medici, gli infermieri.

Il venerdì fu una giornata di preghiera: la Messa, la Via Crucis, l’Ora Terza dell’Ufficio divino, e alcuni brani della Scrittura letti da un altro grande amico di Karol Wojtyla, padre Tadeusz Styczen. Le condizioni generali erano di una estrema gravità. Il Papa riusciva ormai a dire solo poche sillabe, con difficoltà.
E siamo arrivati al 2 aprile, sabato.

Vorrei poter veramente ricordare tutto.

Nella stanza c’era grande serenità. Il Santo Padre benedisse le corone destinate alla Madonna di Czestochowa nelle Grotte Vaticane, e altre due da mandare a Jasna Góra. Poi si congedò dai suoi più stretti collaboratori, cardinali, monsignori della Segreteria di Stato, responsabili di uffici, e volle salutare Francesco, incaricato delle pulizie nell’appartamento.

Era ancora pienamente cosciente, perché pur esprimendosi a fatica chiese che gli venisse letto il Vangelo di san Giovanni. Non era stato un nostro suggerimento, l’aveva chiesto lui. Anche per l’ultimo giorno, come aveva fatto per tutta la vita, voleva nutrirsi della Sacra Scrittura.

Padre Styczen cominciò a leggere Giovanni, un capitolo dopo l’altro. Ne lesse nove. E nel libro, alla fine, rimarrà il segno nel punto in cui era arrivata la lettura: e, insieme, il segno di quando si era conclusa la sua esistenza.

Ecco, nell’estremo momento, il Santo Padre era tornato a essere quello che fondamentalmente era sempre stato, un uomo di preghiera. Era un uomo di Dio, un uomo in intima comunione con Dio, e quindi la preghiera costituiva incessantemente come il “basamento” della sua vita. Quando doveva incontrare qualcuno, o prendere una decisione importante, scrivere un documento, fare un viaggio, prima si rivolgeva sempre a Dio. Prima, pregava. E anche quel giorno, prima di intraprendere l’ultimo grande viaggio, anche quel giorno recitò, con l’aiuto dei presenti, tutte le preghiere quotidiane; fece l’adorazione, la meditazione, e anticipò perfino l’Officio delle letture per la domenica.

A un certo punto, suor Tobiana “sentì” i suoi occhi; si avvicinò con l’orecchio alla bocca, e lui, con voce debolissima, appena percettibile, disse: “Lasciatemi andare dal Signore”. La religiosa uscì di corsa dalla camera, voleva raccontarcelo ma continuava a piangere.

Ci ho pensato soltanto dopo, ma è stato straordinario che le ultime parole le abbia dette a una donna.
Verso le 19 il Santo Padre entrò in coma. La stanza era illuminata solo da un piccolo cero acceso, che il Papa stesso aveva benedetto il 2 febbraio per la festa della Candelora.

Piazza San Pietro e tutte le strade adiacenti si erano andate affollando. C’era sempre più gente, e soprattutto c’erano sempre più giovani. Le loro grida – “Giovanni Paolo!”, “Viva il Papa!” – arrivavano fin su al terzo piano. Io sono convinto che le abbia sentite anche lui. Non poteva non sentirle!
Erano ormai quasi le 20, e improvvisamente avvertii dentro di me come un imperativo categorico: dovevo celebrare la Messa! E così cominciai a fare, assieme al cardinale Jaworski, all’arcivescovo Rylko e a due sacerdoti polacchi, Styczen e Mokrzycki. Era la Messa prefestiva della domenica della Divina Misericordia, una solennità tanto cara al Papa. Il Vangelo era sempre quello di Giovanni: “Venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse “Pace a voi!..”". Alla Comunione, riuscii a dargli, come viatico, alcune gocce del sangue preziosissimo di Gesù.

Erano le 21.37. Ci eravamo accorti che il Santo Padre aveva smesso di respirare. Ma solo in quel preciso momento “vedemmo” sul monitor che il suo grande cuore, dopo aver continuato a battere per qualche istante, si era fermato.
Il dottor Buzzonetti si chinò su di lui e alzando appena lo sguardo mormorò: “È passato alla casa del Signore”.

Qualcuno intanto aveva bloccato le lancette dell’orologio su quell’ora.

E noi, come se lo avessimo deciso tutti insieme, ci mettemmo a cantare il Te Deum. Non il Requiem, perché non era un lutto, ma il Te Deum, come ringraziamento a Dio per il dono che ci aveva dato, il dono della persona del Santo Padre, di Karol Wojtyla.

Piangevamo. Come si faceva a non piangere! Erano, insieme, lacrime di dolore e di gioia. E fu allora che si accesero tutte le luci della casa…
Poi, non ricordo più. Era come se fosse calato improvvisamente il buio. Il buio sopra di me, dentro di me. Sapevo bene quello che era successo, ma era come se, dopo, non riuscissi ad accettarlo. O non riuscissi a capirlo. Mi mettevo nelle mani del Signore, ma quando pensavo di avere il cuore sereno ripiombava il buio…

Finché è arrivato il momento del congedo.

C’era tutta quella gente. Tutte quelle persone importanti venute da lontano. Ma, soprattutto, c’era il suo popolo. C’erano i suoi giovani. C’erano quelle scritte, così significative e così impazienti. In piazza San Pietro c’era una grande luce. E adesso era tornata anche dentro di me.

Concludendo l’omelia, il cardinale Ratzinger ha fatto quell’accenno alla finestra, e ha detto che lui stava sicuramente là, a vederci, a benedirci. Anch’io mi sono voltato, non ho potuto fare a meno di voltarmi, ma non ce l’ho fatta a guardare in su.

Alla fine, quando sono arrivati sul sagrato, i sediari che portavano la bara l’hanno lentamente girata. Come per permettergli l’ultimo sguardo verso la sua piazza. Il congedo definitivo dagli uomini, dal mondo.

Ma anche da me?

No, da me no. In quel momento, non ho pensato a me. L’ho vissuto insieme con tutti gli altri. E tutti erano scossi, turbati. Ma per me è stata una cosa che non potrò mai dimenticare.
Intanto, il corteo stava entrando in basilica, dovevano portare la bara giù nella tomba.

E allora, proprio allora, mi è venuto di pensare…
L’ho accompagnato per quasi quarant’anni, prima dodici a Cracovia, poi ventisette a Roma. Sono stato sempre con lui, accanto a lui.

Ora, nel momento della morte, lui è andato da solo.

L’ho sempre accompagnato, ma da qui è andato da solo. E questo fatto, di non averlo potuto accompagnare, mi ha colpito tanto.

Sì, certo, lui non ci ha lasciati. Sentiamo la sua presenza, e anche le tante grazie ottenute tramite lui. E poi, io l’ho accompagnato fino a questo punto della Chiesa.

Ma, da qui, è andato da solo. E ora? Dall’altra parte, chi lo accompagna?

 

(©L’Osservatore Romano – 2 aprile 2008)

Giovanni Paolo II uomo di preghiera e di perdono LA MISERICORDIA IN EREDITA’

 

 

In qualità di giornalista vaticanista di agenzia, ho seguito giorno per giorno il lungo pontificato di Giovanni Paolo II. Mi restano molti ricordi. Alcuni personali, altri condivisi con tanti. Di fronte a Papa Wojtyla è stato difficile l’equilibrio informativo, senza adulazione e senza pregiudizio.

Ora che il tempo aiuta a leggere con passioni attenuate il suo non semplice pontificato, ci si rende conto di quanto l’imparzialità continui a essere importante per una lettura libera della sua eredità.

Giovanni Paolo II si è intrecciato in profondità con il mondo dei media come mai era prima capitato a un pontefice. È stato tanto mediatico che a volte si rischiava di lui un’immagine virtuale, lontana dalla realtà.

Non a caso più raramente si evidenzia ciò che lo ha reso indimenticabile: la prova di umanità e la straordinaria fede cristiana vissuta nella vita ordinaria. E in questo modo ha contribuito grandemente a svecchiare l’ufficio petrino e a concentrare i cattolici sull’essenziale. Se la sua capacità di comunicazione è stata enorme, tanto da raggiungere moltissimi anche lontani dalla Chiesa, ancora più grande mi è parsa la sua capacità di comunicare con il mistero cristiano. Ha lasciato un ricordo indelebile di un papa che prega, che perdona e sa chiedere perdono. Fin dai primi mesi di pontificato la sua preghiera apparve un punto di forza per intravedere con una certa attendibilità gli sviluppi futuri.
Trovai conferma a questa intima convinzione in un’intervista con padre Adam Boniecki, responsabile della prima edizione in lingua polacca de “L’Osservatore Romano”, una delle prime da lui rilasciate. Egli confermò che di Wojtyla non si sarebbe capito nulla senza cogliere il primato della preghiera nella sua vita e nel suo programma pastorale.
Un riscontro lo si ebbe in occasione dell’attentato del 13 maggio 1981 che portò il papa sull’orlo della morte prematura. Un uomo forte, che sprizzava vitalità e che il mercato informativo tentava di arruolare quale “sciatore di Dio”, era ridotto a persona debole e provata come ogni malato sul letto di ospedale. Le sue prime parole furono invece rivelatrici di un animo lontano dal personaggio vincente che piaceva ai media: non parlava di rivincita o di castigo esemplare. P

Perdonava l’aggressore e pregava per lui. Parole più potenti della pallottola che lo aveva quasi ammazzato. Nel clamore dell’incredibile attentato subito, il papa aveva il primo pensiero per il suo mancato assassino, considerandolo un fratello. Parlava di pregare e perdonare, due elementari componenti dell’essere cristiani.

Rimasi ugualmente colpito appena lo stesso pontefice uscì dalla cella di Ali Agca nel carcere di Rebibbia. Mi avvicinai a lui con il registratore, spezzando l’incantesimo del momento. Anche in quell’occasione, subito Giovanni Paolo II parlò di preghiera e di perdono con molta naturalezza e nessuna enfasi.

Tra le conseguenze della forza della sua vita spirituale, vorrei ricordare anche la sua estraneità alla strumentalizzazione politica. Mi è parso di cogliere la sua costante preoccupazione di dovere e volere incontrare le persone anziché i sistemi politici e di muoversi in piena coerenza con la dottrina sociale della Chiesa nella lettura degli eventi, alcuni straordinari, che ne segnarono il pontificato. Sono sempre restato meravigliato di quanto silenzio scendesse nei giornali occidentali intorno ai suoi interventi ordinari, attinenti la giustizia sociale, la pace e il primato della persona e del lavoratore rispetto al denaro e all’impresa.

Fuori dal mito che opposte letture hanno cercato di accreditare, Giovanni Paolo II è stato ancora più importante nella storia della Chiesa, perché ha contribuito con la sua umanità e la sua spiritualità a diffondere l’idea che anche oggi sia possibile essere cristiani vivendo una fede fondata sull’amore e la misericordia anziché sul rigorismo. Un anno prima che gli sparassero scrisse la sua seconda enciclica.

Parlava della misericordia. Quando venne pubblicata nessuno ebbe sentore che la fede nella misericordia sarebbe stata messa a dura prova nei successivi eventi del mondo e del pontificato. Stava per finire un’era.

Papa Wojtyla parlò di misericordia quando fu colpito, ne parlò alla caduta del muro, ne parlò evocando episodi amari di responsabilità ecclesiastiche. L’ha lasciata come sua eredità più duratura, raccolta da Benedetto XVI.

c. d. c.

(©L’Osservatore Romano – 2 aprile 2008)

In Papa Wojtyla la liturgia è stata comunicazione con il mistero cristiano Quel colloquio interiore


che precedeva ogni messa

Konrad Krajewski
Cerimoniere Pontificio

Ho conosciuto di persona Giovanni Paolo II nel 1998, anno in cui ho iniziato a lavorare nell’Ufficio delle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice.
Quando era il mio turno di assisterlo durante le celebrazioni, insieme con il maestro monsignor Piero Marini, rimanevo sempre colpito da ciò che accadeva nella sagrestia prima e dopo la celebrazione.

Quando il Papa veniva nella sagrestia e restavamo soltanto noi due, si metteva in ginocchio o, negli ultimi anni del Pontificato, rimaneva sulla sua sedia, e pregava in silenzio. Questa preghiera durava dieci, quindici o anche venti minuti e, durante i viaggi apostolici, perfino di più.

Sembrava che il Pontefice non fosse presente tra di noi. Quando il momento di preghiera sembrava protrarsi troppo a lungo, entrava monsignor Stanislaw Dziwisz, tentando di suggerire al Papa di prepararsi: spesso il Pontefice non rispondeva a questa chiamata.

A un certo momento, alzava la mano destra, e noi ci avvicinavamo per cominciare a vestirlo in assoluto silenzio. Sono convinto che Giovanni Paolo II, prima di rivolgersi alla gente, si rivolgeva – o, per dire meglio, parlava – a Dio. Prima di rappresentarLo, chiedeva a Dio di poter essere la Sua immagine vivente davanti agli uomini. Lo stesso accadeva dopo la celebrazione: appena deposte le vesti sacre, si metteva in ginocchio nella sagrestia, e pregava. Avevo sempre la stessa impressione, che non fosse presente tra di noi.

Di tanto in tanto, durante i viaggi, entrava il suo segretario e sfiorandolo con delicatezza lo esortava a uscire dalla sagrestia, perché la gente lo aspettava per salutarlo (presidenti, sindaci, autorità…), ma quasi mai il Papa reagiva: rimaneva sempre in profonda preghiera e di nuovo, a un certo momento, si alzava da solo, o dava a noi un segnale per essere aiutato.

Questi momenti di preghiera, prima e dopo l’azione liturgica, mi colpivano sempre profondamente. Quando lo assistevo, ponevo la mitra, passavo il fazzoletto, ero sicuro di toccare una persona non solo straordinaria, ma veramente santa.

Negli ultimi anni del Pontificato ero cerimoniere stabile del Pontefice: seguivo tutte le celebrazioni stando accanto al Papa, vedevo la sua sofferenza e le sue difficoltà in ogni movimento. Una volta, quando egli stava molto male, durante una celebrazione sul sagrato della basilica di San Pietro, inchinandomi, mi sono permesso di dire: “Santità, posso aiutarla in qualche modo? Forse qualcosa le fa male?”. Egli mi ha risposto: “Ormai tutto mi fa male, ma deve essere così…”. Ero sicuro e profondamente convinto che assistevo e toccavo una persona santa.

Mi sentivo così indegno di stare accanto a quest’uomo e di servirlo, che negli ultimi anni del suo Pontificato, prima di ogni celebrazione, andavo a confessarmi, anche se avevamo due o tre celebrazioni alla settimana.

Così facevo un po’ arrabbiare i confessori della basilica di San Pietro, ma sentivo profondamente il bisogno di essere totalmente “pulito” quando mi avvicinavo al Papa. Dopo tanti anni di servizio, e dodici viaggi all’estero, sono giunto a questa conclusione: tanti milioni di persone che partecipavano alle celebrazioni liturgiche presiedute dal Pontefice accorrevano per incontrare Gesù, che era rappresentato da Giovanni Paolo II, e presente proprio in lui, nella sua parola predicata, nei suoi gesti e nei suoi atteggiamenti liturgico-mistici. Per questo motivo la gente piangeva. Diceva: “Ha parlato solo a me, ha guardato me, ha cambiato la mia vita…”. Come era possibile ciò, quando qualcuno durante la celebrazione stava lontano dal Pontefice centinaia di metri o, addirittura, chilometri (come succedeva durante i viaggi)? Come poteva dire: “Ha visto me”, “ha parlato proprio a me”?

Anch’io, personalmente, devo testimoniare che la mia vita sacerdotale è cambiata totalmente, da quando ho cominciato a lavorare accanto a Giovanni Paolo II.

Vorrei ancora sottolineare alcuni momenti molto significativi, che mi hanno colpito profondamente durante l’ultima celebrazione del Corpus Domini presieduta dal Papa.

Ormai il Pontefice non camminava più. Il maestro delle celebrazioni e io lo abbiamo issato con la sedia sulla piattaforma della macchina appositamente preparata per la processione: davanti al Papa, sull’inginocchiatoio, era posto l’ostensorio con il Santissimo Sacramento.

Durante la processione il Pontefice si è rivolto a me in polacco, chiedendo di potersi inginocchiare. Sono rimasto imbarazzato da tale domanda, perché fisicamente il Papa non era in grado di farlo. Con grande delicatezza, ho suggerito l’impossibilità di inginocchiarsi, poiché la macchina oscillava durante il percorso, e sarebbe stato molto pericoloso compiere un gesto simile. I

l Papa ha risposto con il suo famoso dolce “mormorio”. Trascorso un po’ di tempo, all’altezza della Pontificia Università “Antonianum”, ha ripetuto di nuovo: “Voglio inginocchiarmi!”, e io, con grande difficoltà nel dover ripetere il rifiuto, ho suggerito che sarebbe stato più prudente tentare di farlo nelle vicinanze di Santa Maria Maggiore; e di nuovo ho sentito quel “mormorio”. T

uttavia, dopo qualche istante, giunti alla curia dei padri Redentoristi, ha esclamato con determinazione, e quasi gridando, in polacco: “Qui c’è Gesù! Per favore…”.

Non era più possibile contraddirlo. Il maestro è stato testimone di quei momenti. I nostri sguardi si sono incontrati, e, senza dire nulla, abbiamo cominciato ad aiutarlo a inginocchiarsi. Lo abbiamo fatto con grande difficoltà, e quasi lo abbiamo messo di peso sull’inginocchiatoio.

Il Papa si aggrappava al bordo dell’inginocchiatoio e cercava di sorreggersi; tuttavia le ginocchia non lo reggevano più, e abbiamo dovuto subito rimetterlo sulla sedia, tra difficoltà che non erano solo fisiche, ma erano dovute anche all’ingombro dei paramenti liturgici.

Avevamo assistito a una grande dimostrazione di fede: anche se il corpo non rispondeva più alla chiamata interiore, la volontà rimaneva salda e forte. Il Pontefice aveva mostrato, nonostante la sua grande sofferenza, la forza interiore della fede, che voleva manifestarsi attraverso il gesto di inginocchiarsi. Non contavano nulla i nostri suggerimenti di non compiere quel gesto.

Il Papa ha sempre ritenuto che, davanti a Cristo presente nel Santissimo Sacramento, bisogna essere molto umili ed esprimere questa umiltà attraverso il gesto fisico.

Infine, voglio sottolineare che, attraverso il mio semplice servizio al Romano Pontefice, anch’io sono diventato migliore, come uomo e come sacerdote.

Egli ci ha insegnato che “il vero amico è colui grazie al quale io divento migliore”: allora posso dire che, secondo tale definizione, Giovanni Paolo II era il mio vero amico.
Attraverso la sua testimonianza mi sono avvicinato ancora di più a quel Dio, che veniva rappresentato da Giovanni Paolo II. Ho potuto vedere come, durante la sua vita, egli si dedicava e si abbandonava totalmente a Dio in occasione delle celebrazioni liturgiche, e in tale stato di dedizione si è spento.

Quando è morto, io camminavo nelle logge vaticane, esercitando la mia funzione di Cerimoniere Pontificio, e piangevo. Forse per la prima volta nella mia vita di adulto non mi vergognavo delle lacrime. Tuttavia erano lacrime per me stesso: perché non sono come lui, perché non sono un santo sacerdote, perché non mi sono offerto fino in fondo al Signore, perché non sono totus tuus

Non ricordo completamente che cosa pensavo portando l’evangeliario davanti alla semplice bara di Giovanni Paolo II. Volevo solo portarlo con dignità, così come si porta il più importante libro della vita: il libro della vita di Giovanni Paolo II.

Questo libro l’ho deposto con il maestro sulla bara, e sentivo come ero indegno di questo gesto. Mi sentivo così piccolo e così peccatore… Pregavo il Signore di poter portare il libro del Vangelo nella mia vita, così come lo aveva portato Giovanni Paolo II. E di non chiuderlo mai.

Da quando Giovanni Paolo II è tornato alla casa del Padre, ogni giorno vado a confessare nella chiesa di Santo Spirito in Sassia alle 15, l’”ora della misericordia” nella quale tanta gente canta la coroncina della misericordia e segue la Via Crucis. Mi è capitato parecchie volte di suggerire a diverse persone di andare alla tomba del servo di Dio Giovanni Paolo II a pregare.

Perché egli superava se stesso. Superava il proprio corpo, le proprie sofferenze. Quando si affacciava alla finestra, e ormai aveva smesso di parlare, tutti sapevamo che cosa avrebbe voluto dirci. Quando alzava con difficoltà la mano, facevamo subito il segno della croce, perché sempre lui ci benediceva. Mentre finivo di dire queste parole, tanti mi rispondevano: “Ma io vengo proprio dalle Grotte Vaticane, dalla tomba di Giovanni Paolo II, e perciò mi confesso. Non sapevo neppure che a quest’ora ci si potesse confessare…”.

 

(©L’Osservatore Romano – 2 aprile 2008)

 

 

 

DZIWISZ: GIOVANNI OPAOLO II IL PAPA DELLA VITA
La testimonianza: tanti chiedono la sua intercessione per il dono di una nuova nascita

 
AVVENIRE ON LINE 1 APRILE 2008

DAL NOSTRO INVIATO A CRACOVIA

LUIGI GENINAZZI

Miracoli. La scritta a caratteri cubitali sovrasta un gran*e ritratto di Giovanni Paolo II che copre l’intera facciata del palazzo arcivescovile.

È un Wojtyla nel pieno delle forze, sorridente, mentre viene sfiorato dalle mani dei fedeli. Domani, a tre anni dalla scomparsa del Papa polacco, i suoi connazionali torneranno a fare memoria di «Karol il Grande», ritrovandosi uniti ancora u*na volta nella commozione e nella preghiera. «È un momento di grazia che si ripete» ci dice il cardinale Stanislaw Dziwisz, testimone privilegiato di Karol Wojtyla cui è stato vicino come segretario personale per quasi quarant’anni. Di lui ama parlare spesso, gli facciamo notare all’inizio dell’intervista. «Sì, è vero – ribatte l’arcivescovo di Cracovia –. Ma per me la cosa più importante non è tanto parlare di lui, quanto piuttosto parlare con lui. Intendo ovviamente un dialogo  non fisico ma spirituale. Ogni volta che ho un problema difficile da risolvere mi rivolgo al servo di Dio Giovanni Paolo II, chiedo il suo aiuto. È un’esperienza non solo mia. Tantissima gente fa lo stesso, prega Dio per la sua intercessione e ne riceve grazia».

Eminenza, allude a casi che si possono ritenere miracolosi?

Credo proprio di sì. Ed il fatto più sorprendente è che spesso si tratta del dono della nascita, del mistero di una nuova vita. Giovanni Paolo II è stato il Papa della difesa della vita, il Papa della famiglia. Ed ora ne vediamo gli straordinari effetti. Sono appena tornato da Gerusalemme e lì sono stato avvicinato da una signora polacca che mi ha raccontato di sua figlia. Aveva ricevuto la cresima dall’arcivescovo Wojtyla, poi si era sposata ma non poteva avere bambini. Recentemente si è recata a pregare sulla tomba di Giovanni Paolo II con quest’intenzione ed ora aspetta un figlio.

Un altro caso: una coppia di italiani, residenti a Milano. Anche loro dichiarati sterili dai medici. «Pregate Papa Wojtyla», ha consigliato loro un amico. Ma non erano molto praticanti e non l’hanno fatto. Ci ha pensato lui, è andato a inginocchiarsi davanti alla tomba del Papa chiedendo la grazia per questa coppia. Poche settima*ne dopo lei è ri*masta incinta. Ma sono soltan*to due esempi fra tanti di cui ho notizia.

Col passare del tempo i ricordi inevitabilmente tendono a sbiadire. Cosa resta della memoria di Wojtyla nel cuore della gente?

Io vedo che più passa il tempo più cresce il desiderio di conoscere meglio la sua figura ed il suo insegnamento. Adesso lo riscoprono in profondità, capiscono che tutto quel che diceva e faceva era in forza della sua comunione con Dio.

L’ultimo viaggio di Giovanni Paolo II in Polonia, nel 2002, era stato all’insegna della Divina Misericordia. E così pure la sua morte, alla vigilia della festa di Gesù Misericordioso istituita proprio da lui. Ci vede qualcosa di simbolico?

Prima del suo Pontificato questo tema non era molto diffuso nella Chiesa. È stato lui a metterlo in evidenza fin dall’encilcica «Dives in Misericordia». Ha mostrato che non c’è rimedio alla disperazione se non ci si affida all’abbraccio salvifico di Dio. «Qual è l’oggetto principale della sua preghiera?» gli domandò una volta lo scrittore francese André Frossard. E lui rispose: «Io prego affinché la misericordia di Dio avvoolga tutto il mondo». Alla radice di quest’atteggiamento credo ci fosse la sua esperienza contemplativa. Era un uomo sempre immerso nel mistero di Dio. Parlava come viveva. Da qui la forza del suo insegnamento.

Sembra però che alcuni temi tanto cari a Papa Wojtyla oggi siano un po’ dimenticati da una parte dell’opinione pubblica. Ad esempio, quando oggi si parla dell’Iraq, pochi si ricordano degli interventi di Giovanni Paolo II contro la guerra.

Tocca agli studiosi esaminare quei fatti e mettere in luce il suo grande impegno per la pace. Ma, a proposito dell’Iraq, ho notato una grande consonanza fra il grido di Giovanni Paolo II cinque anni fa e le parole pronunciate recentemente da Be*nedetto XVI dopo il brutale assassinio dell’arcivescovo caldeo di Mosul monsignor Rahho.

Nei rapporti tra cattolici e musulmani molte cose sono cam*biate dai tempi di Papa Wojtyla, non crede?

Giovanni Paolo II ha sempre considerato «lo scontro di civiltà » come un’autentica sciagura. Lui credeva nel dialogo, lo cercava a livello culturale e personale. E non perdeva occasione per praticarlo. Ma sempre con una chiara coscienza dell’identità cristiana. È rimasto memorabile il suo incontro coi giovani musulmani in Marocco. Mi ricordo che prima del viaggio si era riunito con vari esperti del mondo islamico che gli consigliarono di usare parole molto prudenti. E lui ribatté deciso: ah no, io sono il vicario di Cristo sulla terra e questo devo testimoniare!

È come andò l’incontro?

Allo stadio di Rabat pronunciò un discorso che suscitò grande ammirazione. I giovani lo applaudirono più volte ed io, pensando a quanto succedeva da noi sotto il regime comunista, ho temuto che fosse tutto orchestrato dall’alto. Invece scoprii che nessuno si aspettava una reazione così entusiasta. E poi al Cairo e a Damasco mi ricordo che i capi religiosi dell’islam lo accolsero come «un amico». Si sentivano stimati da lui. Ed a loro volta riconoscevano nel Papa« il leader spirituale del mondo». Così venne definito durante il suo viaggio in Siria.
Oggi sembra dominare un linguaggio diverso…

Possono cambiare toni e accenti ma la scelta rimane quella del dialogo schietto e non della contrapposizione ideologica. Ogni Papa ha il suo carisma e Benedetto XVI sa affrontare anche le situazioni più difficili con grande saggezza e profondità culturale. E più volte, in modo molto chiaro, ha ribadito la sua netta presa di distanza dalla logica dello scontro di civiltà.

Eminenza, ci sarà presto la beatificazione di Giovanni Paolo II?

Le cose procedono bene. Naturalmente occorre tempo perché ci sono tanti documenti da esaminare e tante testimonianze da raccogliere, non solo a Roma o in Polonia ma in tutto il mondo.

Noi, come arcidiocesi di Cracovia, non facciamo pressioni. L’ho detto anche al Santo Padre. La decisione tocca a Benedetto XVI che agisce sotto l’illuminazione dello Spirito Santo. Noi sempre preghiamo per questo.

DA: http://www.cattoliciromani.com/forum/showthread.php/servo_dio_giovanni_paolo_ii_papa-48.html?s=d95cda91

Giovanni Paolo II, papa del Sacro Cuore


 

Era il 3 giugno del 2005, giorno della festa del Sacro Cuore, quando suor Marie-Simon-Pierre guariva dal morbo di Parkison per intercessione di papa Giovanni Paolo II.


Un giorno memorabile se sarà questo il miracolo che farà beato papa Wojtyla. Tutto nasce da quel grande attaccamento alla devozione al Sacro Cuore che Giovanni Paolo ebbe in vita sua.

Come ricorda il Cardinal Dziwisz ne “Una vita con Karol” Bur Rizzoli, a pagina 83, le devozioni erano tra le preghiere che intessevano la giornata del Papa.


La consacrazione al Cuore dell’Immacolata ha costituito la sintesi di tutto il suo pontificato racchiuso in quel “Totus Tuus”, tutto tuo perchè si compia il dolce regno del Sacro Cuore, come riportato nell’atto di consacrazione composto San Massimiliano Kolbe.


Per chi vuol conoscere il pensiero del Papa sul Sacro Cuore c’è il libro di padre Drazek: “Il Cuore di Gesù nell’insegnamento del Papa Giovanni Paolo II” Edizioni ADP.


Giovanni Paolo II moriva proprio il 2 aprile del 2005, primo sabato del mese e festa liturgica della Divina Misericordia.
Il 2005 peraltro è l’anno delle date memorabili: suor Lucia, l’ultima veggente di Fatima, moriva appunto il 13 febbraio 2005 e il giorno 13 è la ricorrenza dell’apparizione della Madonna Santissima a Fatima.


La cosa terribile sta proprio nel miracolo fatto proprio in Francia a suor Marie-Simon-Pierre: la festa del Sacro Cuore è infatti il giorno in cui Cristo ha promesso tramite Santa Margherita Maria Alacoque di concedere ogni sorta di grazia in cambio della comunione riparatrice e dell’atto di riparazione.

Se il miracolo, che farà beato papa Wojtila, sarà questo, vorrà dire che il papa ci ha regalato la sua ultima catechesi sulla vita di fede richiamandoci appunto al culto del Sacro Cuore, alla consacrazione personale e alla riparazione, e alle famose rivelazioni di Paray le Monial e di Fatima.


A margine delle precedenti considerazioni aggiungo un passo enigmatico quanto affascinante in cui a parlare è Cristo stesso a Santa Faustina Kowalska: «Amo la Polonia in modo particolare e, se ubbidirà al Mio volere, l’innalzerò in potenza e santità. Da essa uscirà la scintilla che preparerà il mondo alla Mia ultima venuta» (dal Diario di Santa Faustina Kowalska, LEV, pagina 897).


Giovanni Paolo II era stato eletto il 16 ottobre del 1978, giorno in cui la Chiesa fa la memoria liturgica di Santa Edvige, patrona della Polonia, e di Santa Margherita Maria Alacoque, la veggente del Sacro Cuore.


Che il mondo si sia davvero riacceso al passaggio di quel povero dolce Cristo in terra?

 

 

 

INTRODUZIONE AL VANGELO DI LUCA

Introduzione al Vangelo di Luca

Il Vangelo di Luca non è che il primo volume della sua opera, gli Atti degli Apostoli costituiscono la seconda tavola del dittico, inseparabile dalla prima. L’intenzione di Luca era quella di offrirci un resoconto ordinato (Lc 1, 3), mostrando come la buona novella iniziata in Galilea “dopo il battesimo predicato da Giovanni” (At 10,37) si sia poi diffusa “fino all’estremità della terra” (At 1,8).
Vogliamo ripercorrere l’itinerario spirituale di Luca e la sua riflessione, nello sforzo che ha fatto di coordinare il suo Vangelo in una certa maniera. Infatti gli evangelisti non adoperano a capriccio il materiale (narrazioni, lettere, manoscritti riguardanti la vita di Gesù) che hanno a disposizione, disponendolo in una maniera o in un’altra; lo fanno intenzionalmente, perché hanno delle finalità che essi raggiungono proprio nell’adattare, nello strutturare in una determinata maniera il materiale evangelico preesistente. È di qui che nasce la “teologia” di Luca, di Marco, di Matteo e di Giovanni, ossia la spiritualità di ciascuno degli evangelisti.
Alcuni definiscono il Vangelo di Marco: “Vangelo del catecumeno”, perché ha lo scopo di aiutare chi viene introdotto alla fede e si appresta a diventare in un certo senso un discepolo del Signore. Il Vangelo di Matteo, invece, è il “Vangelo del catechista”, cioè il Vangelo per aiutare colui che deve introdurre altri alla fede.
Il Vangelo di Luca, invece, è il “Vangelo del discepolo” di Cristo, vale a dire di colui che ha intrapreso a seguire Gesù e lo vuol seguire nonostante tutto. Molti sono gli elementi che avvalorano questa intenzione di Luca, per esempio, quel detto che è riportato soltanto nel suo vangelo: “Chi mette mano all’aratro e poi si volge indietro non è adatto per il regno di Dio” (Lc 9,62). Non basta intraprendere, non basta fare un bel tratto di strada, bisogna andare fino in fondo senza pentimenti. Un altro elemento importante per capire il ruolo del “discepolo” è dato dalla “grande inserzione” lucana, che va dal capitolo 9,51 fino al capitolo 19,28. Questo blocco letterario caratteristico di Luca, descrive il viaggio di Gesù a Gerusalemme, quasi a dire che chi crede in Cristo deve percorrere questo “faticoso” itinerario che culmina in Gerusalemme, cioè la città del sacrificio e della morte. Nella prospettiva lucana il discepolo di Cristo è colui che “segue” il Maestro ovunque egli vada, fino al martirio, se è necessario.

L’autore

Chi ha scritto questo vangelo? Questo scrittore è quel Luca di cui parlano le lettere di Paolo (Cl 4,14; Fm 24; 2 Tm 4,11)? La tradizione antica, da Ireneo di Lione (Adv. Haer, III,1,1; 14,1) alla fine del II secolo, non ha dubbi al riguardo.
Altri antichi documenti e scrittori ci danno informazioni ancora più precise: Luca è originario di Antiochia di Siria, medico di professione, celibe, discepolo degli apostoli e compagno di Paolo. Questa concordanza della tradizione antica nell’attribuire a Luca il vangelo si può spiegare con la tendenza a collocare gli scritti canonici sotto l’autorità degli apostoli o dei discepoli degli apostoli.
Luca è quel discepolo anonimo che racconta negli Atti alcuni episodi in prima persona durante il secondo e terzo viaggio di Paolo (At 16,10-17; 20,15-21,18; 27-28,16). Infatti fra tutti i compagni di Paolo soltanto Luca può aver composto quelle sezioni in prima persona che sono imparentate, per vocabolario e stile, con il resto degli Atti. In breve quel discepolo compagno di Paolo è l’autore degli Atti. Ora Vangelo e Atti formano chiaramente un’opera unitaria; dunque Luca è l’autore del vangelo.
Si tratta di un cristiano convertito dal paganesimo, o forse meglio di un giudeo-ellenista convertito; così si spiegherebbe meglio la sua familiarità con la Bibbia nella versione greca liturgica.
Egli ha alle spalle un’esperienza missionaria vissuta con Paolo e Barnaba. Nei suoi viaggi, che lo hanno portato a contatto con le chiese più importanti (Gerusalemme, Antiochia, Efeso, Cesarea, Roma), ha potuto avere informazioni di prima mano. È venuto a contatto con la tradizione evangelica più antica; forse ha potuto conoscere anche il vangelo di Marco (a Roma). Di questo materiale Luca si e servito per comporre il suo vangelo. Egli è dunque debitore al testo di Marco, come documento fondamentale, a una tradizione che gli autori indicano con la sigla Q (quelle, fonte), che comprendeva una serie di piccole raccolte a forma di trattati o cicli di tradizioni evangeliche, alle quali fa riferimento anche il vangelo di Matteo; e infine altre tradizioni orali e scritte dei circoli giudeo-cristiani e di altri ambienti cristiani. Fra questi la tradizione giovannea, con la quale Luca ha particolari affinità tematiche.

Il contenuto

La figura di Gesù tratteggiata da Luca è ricca e articolata e, ovviamente, nelle sue linee fondamentali è comune anche agli altri vangeli. Tuttavia ci sono sottolineature particolari, come ad esempio l’universalità, la predilezione per i poveri, la misericordia e il perdono. Uomo di chiesa e di tradizione, Luca è anche uomo dai vasti orizzonti e di delicata sensibilità, specialmente nei confronti dei peccatori, degli emarginati, dei pagani e dei poveri.

Il Vangelo della salvezza universale
Un unico grande piano inizia nel Vangelo e si compie in Atti. Sia il vangelo che Atti iniziano nella Gerusalemme messianica con il dono dello Spirito (Lc 1,5-2,52;3,21-22; At 1-2). Il Vangelo ci presenta poi il ministero galilaico di Gesù (Lc 4,1-9,50) e il suo viaggio a Gerusalemme (Lc 9,51-19,28). Il libro degli Atti continua questo piano descrivendo il primo ministero degli apostoli, limitato per la massima parte all’ambiente giudaico (At 8,15), a cui fa seguito il viaggio di Paolo al centro del mondo: Roma. Non soltanto esiste questo parallelo tra il Vangelo e gli Atti, ma noi vediamo che gli Atti continuano là dove il Vangelo termina.
In Luca Gesù non predica direttamente ai pagani, né porta a termine l’instaurazione del suo regno. Il regno deve includere anche i pagani, ma questa dimensione universale è realizzata soltanto dopo l’ascensione di Gesù, nel ministero della Chiesa, come viene descritto in Atti.
Ma nella sua predicazione Gesù annuncia che il perdono è offerto a tutti gli uomini, e possiamo così dire che Luca ha composto il “Vangelo della salvezza universale”. La tavola genealogica (Lc 3,23-38) non circoscrive la stirpe di Gesù unicamente alla linea regale di Davide, come avviene in Mt 1,1-16, ma colloca Gesù nell’albero genealogico dell’intera razza umana in quanto figlio di Adamo che era figlio di Dio. La fede di Abramo può essere condivisa da tutti gli uomini, che diventano per ciò stesso figli di Abramo (Lc 3,8).

Il Vangelo della misericordia
Egli scrive il “Vangelo della misericordia” o il “Vangelo dei grandi perdoni”. Tra i sinottici Luca è il solo che include episodi o parabole quali la donna peccatrice (Lc 7, 36-50); la pecora smarrita, la dramma perduta, il figlio prodigo (cap. 15); la presenza di Gesù nella casa di Zaccheo (Lc 19,1-10); il perdono di Gesù ai suoi carnefici (Lc 23,34); il buon ladrone (Lc 23,39-43). Luca (6,36) riporta le parole di Gesù: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro”. Tutto il discorso della “pianura” accentra l’attenzione sul vincolo sociale della carità (Lc 6,17-49).

Il Vangelo dei poveri
Questo stesso interessamento misericordioso è offerto a tutti i poveri e umili, così che Luca merita di essere definito il “Vangelo dei poveri”. Questo spirito si manifesta chiaramente nei racconti dell’infanzia, nei quali i poveri e gli insignificanti sono scelti per i più grandi privilegi: la coppia sterile, Zaccaria ed Elisabetta; Maria e Giuseppe scelti tra oscuri nazareni; i pastori della campagna; un vecchio e una vecchia vedova al tempio. Luca conserva questa grande stima per la povertà di fatto nelle beatitudini, nello scrivere “beati voi che siete poveri”. Egli inserisce l’intero testo di Isaia che riguarda i poveri ai quali sarà predicato il vangelo (Lc 4,18; 7,22). La parabola dell’uomo ricco e di Lazzaro è esclusiva di Luca (Lc 16,19-31). Altri detti sulla povertà inclusa una parabola, si trovano soltanto in Luca (Lc 12,13-21).

Il Vangelo dell’assoluta rinuncia
Non sorprende, però il fatto che Luca oltre che presentarci un Gesù amico dei poveri, dei peccatori, degli ultimi, ci mostra anche un Gesù esigente nella sua sequela e nei suoi insegnamenti. Per questo il suo vangelo può anche essere definito: il “Vangelo dell’assoluta rinuncia”. I discepoli devono lasciare ‘tutto’ (Lc 5,11). Di riscontro, un’altra asserzione, propria al solo Luca (9,62), insiste sulla dedizione totale a Gesù. Soltanto Luca aggiunge la parole ‘moglie’ alla lista di ciò che ad alcuni verrà richiesto di abbandonare per amore del regno (14,26). Ancora, dove Matteo scrive “accumulatevi dei tesori nel cielo” (6,20), Luca ha, “vendete quello che possedete e datelo in elemosina” (12,33). Luca estende la sopportazione della croce dal singolo momento escatologico (Mc 8,34; 16,24) alle continue sofferenze della vita di ogni giorno (9,23). La realtà della sofferenza e della rinuncia sono presentati come mezzi per attuare il compimento glorioso, viene sottolineata dalle ripetute affermazioni che Gesù ‘deve soffrire’ (9,22; 13,33; 17,25; 22,37; 24,7.26.44).

Il Vangelo della preghiera e dello Spirito Santo
Tale distacco e tale rinuncia sono possibili perché Gesù e i suoi discepoli sono presentati in un continuo impegno verso Dio in questo “Vangelo della preghiera e dello Spirito Santo”. Luca ci raffigura Gesù in preghiera prima di qualsiasi tappa importante nel suo ministero messianico: al suo battesimo (3,21); prima della scelta dei Dodici (6,12); prima della professione di fede di Pietro (9,18); alla trasfigurazione (9,28), prima di insegnare il “Padre Nostro” (11,1); nel Getsemani (22,41). Gesù era il maestro della preghiera e insistette con frequenza che anche i suoi discepoli fossero uomini di preghiera (6,28; 10,2; 11, 1-13; 18, 1-8; 21,36).
Luca allude ininterrottamente al ruolo dello Spirito (1,15.35.41.67; 2, 25-27; 3,16.22; 4,1.14.18; 10,21; 11,13; 12,10.12). Dove Matteo (7,11) parla delle cose buone che il Padre dà a coloro che gliele chiedono, Luca (11,13) parla dello Spirito come del dono per eccellenza. Concesso nel passato ai Giudici dell’Antico Testamento questo Spirito è ora inviato a Giovanni Battista (1,15.80) e ai suoi genitori (1,41.67). Gesù è concepito per opera dello Spirito Santo (1,35) ed egli stesso è ripieno di Spirito Santo (4,1). Ciò che avvenne per Gesù deve continuare ad avvenire per la Chiesa, fino alla parusìa (manifestazione finale di Gesù). Lo Spirito di conseguenza occupa lo stesso ruolo di primaria importanza anche in Atti: la Chiesa continua la missione di Gesù, l’era escatologica, inaugurata da Cristo che durerà fino a quando lo Spirito la porterà a compimento in un certo momento del futuro.

Il Vangelo della gioia messianica
Lo Spirito, posseduto da Gesù, irradia gioia e pace fra tutti coloro che lo ascoltano. Luca scrisse il “Vangelo della gioia messianica”. Vari termini greci che esprimono la gioia o l’esultanza ricorrono con notevole frequenza. Una lettura sia pure affrettata dei singoli vangeli lascia l’impressione che Matteo abbia un’impostazione seria e quasi maestosa, Marco il candore non impegnato di un diario, ma Luca trabocca di gioia non appena la persona si è resa conto della realtà stupenda che si è attuata. Più di qualsiasi evangelista, Luca riporta l’ammirazione delle folle che seguivano Gesù (5,26; 10,17; 13,17; 18,43). Questo spirito di gioia diffuso tra la gente è l’adempimento della promessa di Gesù che i suoi seguaci saranno “felici” e “fortunati” (1,45; 6,20-22; 7,23; 10,23; 11,27ss.; 12,37ss.; 14,14ss.; 23,29).

La comunità

La prospettiva che Luca persegue nella sua opera non è frutto di scelte private o di preferenze personali, ma riflette le preoccupazioni e gli interrogativi delle comunità e dell’ambiente cristiano in cui Luca vive e opera. Per conoscere la sua comunità, egli ci ha lasciato il testo degli Atti, con il quale confrontare il vangelo. In questa seconda parte del suo lavoro Luca espone il seguito di quel percorso salvifico che ha il suo centro nella morte e risurrezione di Gesù e continua e si prolunga nella storia della prima chiesa. Nel tracciare il quadro dell’espansione storica del messaggio cristiano da Gerusalemme a Roma, Luca non obbedisce a criteri documentaristici, cioè non intende raccogliere o fare l’inventario dei documenti d’archivio della chiesa di Gerusalemme o di Antiochia o fare il reportage dei viaggi missionari di Paolo. La storia della prima chiesa è uno specchio ideale per l’oggi in cui vive Luca, per la vita delle sue comunità. Così, percorrendo le pagine degli Atti, è possibile scoprire gli interrogativi e le preoccupazioni, le esigenze e le aspirazioni dei cristiani che stanno attorno a Luca e per i quali egli ha steso il vangelo.
Sono i cristiani della seconda generazione, che vivono fuori della Palestina, a contatto con un mondo culturale e religioso diverso da quello nel quale visse e operò Gesù e anche, in parte, i primi testimoni del vangelo. I contrasti con il giudaismo ufficiale stanno ormai alle spalle, dopo la caduta di Gerusalemme nel 70 d.C. Il movimento cristiano, affermatosi nelle città ellenizzate del bacino del Mediterraneo orientale, ha acquistato piena autonomia. Questo fatto costringe i cristiani a ripensare la propria identità in confronto con le comunità degli inizi, con il messaggio e la missione storica di Gesù. Il distacco dall’ambiente e dalla cultura giudaica dà loro la possibilità di rivedere anche il proprio rapporto con la tradizione biblica alla quale si rifà il messaggio di Gesù e gli schemi culturali ad esso soggiacenti. La tensione apocalittica iniziale si e attenuata; le impazienze storiche e i fanatismi di estrazione apocalittica, all’interno della comunità cristiana, si sono smorzati; o meglio una maturazione storica dell’esperienza cristiana, provocata anche dai fatti del 70, ha contribuito a ridimensionare alcuni estremismi di matrice apocalittica (At 1,6.11).
Lo slancio missionario è ancora vivace e promettente e il messaggio cristiano trova buona accoglienza presso quei simpatizzanti del monoteismo che, nel mondo greco-romano, un tempo gravitavano attorno alle sinagoghe giudaiche. Nonostante le resistenze di alcuni nostalgici del rigorismo e della chiusura dei primi tempi, le comunità accolgono con entusiasmo i nuovi convertiti. Non mancano certo tensioni all’interno, con casi di defezioni e rilassamento, e difficoltà all’esterno, per le avvisaglie di nuove persecuzioni e per i sospetti e le calunnie dell’ambiente pagano come di quello giudaico.
L’evangelista Luca, da una parte è sensibile e attento a questa svolta culturale dell’esperienza cristiana e alla nuova situazione delle comunità, dall’ altra ha viva coscienza della continuità storica del messaggio trasmesso dalla prima generazione. Il suo messaggio evangelico risponde a questa esigenza di fondo: una ripresa e un ripensamento della tradizione nella nuova prospettiva culturale e storica della sua chiesa.

Data e luogo di composizione

La data di composizione si può desumere approssivamente da alcuni indizi circa la caduta di Gerusalemme, punto discriminante per la datazione dei vangeli. Il discorso di Luca ‘sulla fine’ (cap. 21) ha riferimenti così precisi e dettagliati all’assedio di Gerusalemme (21,20.22; cfr. 19,42), quali furono possibili soltanto dopo gli avvenimenti stessi. Anche la distinzione che fa Luca tra la fine di Gerusalemme e la venuta del Figlio dell’uomo, depone a favore di una stesura del discorso, e quindi del vangelo, dopo la caduta della città. Così tenendo conto, da una parte della dipendenza di Luca da Marco, scritto verso gli anni 70/75, dall’altra del suo modo di riferirsi ai fatti del 70, si può proporre per il vangelo lucano una data intorno agli anni 80/85.
Il luogo di composizione del terzo vangelo può essere cercato in una comunità cristiana fuori della Palestina. Una tradizione antica (Ireneo, Prologo monarchiano) indica la Grecia meridionale (Corinto?).

Suddivisione del Vangelo

Vangelo dell’infanzia o origini di Gesù (1-2)
Ispirandosi ai moduli letterari dell’Antico Testamento e dell’ambiente giudaico, Luca presenta una sintesi della professione di fede cristiana in Gesù Messia e Figlio di Dio (1,32.35), Salvatore e Signore (2,11). Questa proclamazione di fede viene inquadrata in piccole scene, annuncio e nascita, alle quali sono contrapposte le scene simmetriche di Giovanni, in modo che dal contrasto risalti la novità e grandezza di Gesù.

Attività in Galilea (3,1-9,50)
Luca ha cura di concludere il curriculum del Battista in modo che quando appare sulla scena Gesù, la missione di Giovanni è completamente esaurita. Con il profeta di Nazaret inizia il tempo nuovo, il tempo definitivo della salvezza annunciato e preparato dalla ‘legge e i profeti’.
A Nazaret Gesù, in un discorso ufficiale durante un’assemblea liturgica, annuncia il compimento della salvezza: Oggi la promessa di Dio si compie.
La raccolta d’istruzioni ai discepoli qualifica subito il Vangelo di Luca come ‘la buona notizia per i poveri’, grazie alla solenne apertura: “Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio”.
I gesti successivi di misericordia e di accoglienza rivelano una sua scelta di campo: Gesù è un profeta “potente in parole e opere” (24,19), che rende attuale e a portata di mano dei più miseri la salvezza di Dio.

Il cammino verso Gerusalemme (9,51-19,28)
Il cammino di Gesù è diretto verso Gerusalemme, il centro e simbolo dell’antico popolo di Dio, il cuore di tutte le attese e speranze d’Israele. Ma Gesù va a Gerusalemme per consumare il suo progetto e portare a compimento tutte le profezie. È un cammino verso la morte per entrare nella gloria. Per questo la lunga marcia di Gesù è scandita non solo dagli annunci classici della passione, ma anche da alcune sentenze profetiche proprie di Luca, per mezzo delle quali Gesù interpreta la propria morte violenta alla luce del giusto perseguitato e del profeta rifiutato.

L’ultima ‘visita’ alla città di Gerusalemme (19,29-21,38)
La visita di Dio diventa il giudizio storico, la separazione dalla città e dal popolo che essa rappresenta. È la rottura con l’antica storia del popolo di Dio, ma perché il progetto di Dio possa continuare nel nuovo popolo.

Passione e Risurrezione (22,1-24,53)
Luca ha ampliato il racconto dell’istituzione eucaristica in modo che la cena eucaristica, disposta in parallelo e simmetria con la cena pasquale antica, appaia come 1a pasqua del nuovo popolo di Dio.
Luca intende presentare ai cristiani Gesù come il profeta rifiutato dai capi del popolo, il martire, modello di fedeltà e bontà per i discepoli, che accoglie e salva i peccatori.
La pasqua può aver luogo soltanto nel centro della storia salvifica, in Gerusalemme: Luca vuol mostrare la continuità tra il compimento della salvezza nella morte e risurrezione di Gesù e il suo prolungamento storico nel tempo della chiesa. I racconti della risurrezione convergono verso la scena madre, l’incarico di missione agli apostoli.

(Cfr. I Vangeli, Cittadella Editrice, Assisi, p.919.937)

 
 

 
 
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Atti degli apostoli
Lettere di Paolo
Lettere di Giovanni
Apocalisse
.: Ultimi inserimenti :.
Mc 8, 27-38: Chi è per me Gesù di Nazaret? - GIM1 Padova, febbraio 2009
Mc 14, 1-11: L’unzione di Betania - GIM2 Padova, Marzo 2009
Mc 10, 1-16: Gesù nel segno della fedeltà nell’amore - Gim Pesaro (maggio 2009)
 

 

SAN GIOVANNI DI DIO – LETTERE DAL CIELO – 01 – CARISSIMI… – A. Nocent

Carissimi,

io, Giovanni di Dio, vostro fratello in Cristo e vostro compagno nella persecuzione, nella costanza e nell’attesa del Regno, (Apoc.1,9) mi rivolgo a voi, missionari tutti della carità di Dio, per trasmettervi il messaggio dello Spirito del Signore Gesù nel quinto centenario della mia nascita che desiderate celebrare, con la Chiesa universale, per la Sua gloria.
.
La nostra famiglia ha ormai cinque secoli. Viene spontaneo chiedersi come gravano sulle spalle. Vista la dimensione planetaria dei destinatari, vorrei che questa Parola che non mi appartiene, facesse il giro del mondo.
.
( * ) ALLE FRATERNITA’ CHE SONO IN EUROPA:
  • Corea
  • India
  • Israele
  • Japan
  • Vietnam
  • Filippine
  • ALLE FRATERNITA’ CHE SONO IN AFRICA:

  • Bernin
  • Cameroom
  • Ghana
  • Liberia
  • Malaria
  • Mauritius
  • Mozambique
  • Senegal
  • Sierra Leone
  • Togo
  • Zambia
  • ALLE FRATERNITA’ CHE SONO IN AMERICA:

  • Argentina
  • Bolivia
  • Brazil
  • Canada
  • Chile
  • Columbia
  • Cuba
  • Ecuador
  • Mexico
  • Peru
  • United States of
  • America
  • Venezuela
  • ALLE FRATERNITA’ CHE SONO IN OCEANIA:
    • Australia
    • New Zealand
    • PapuaNew Guinea

      ( * ) I dati si riferiscono all’epoca del quinto centenario.

    • Da Oriente ad Occidente, non c’è Continente della terra dove un frammento eucaristico, staccatosi dalle nostre fraternità non sia andato a depositarsi per divenire fermento di nuove comunità cristiane.
      .
      Chiamandovi frammento eucaristico, ho voluto evidenziare le motivazioni di fondo che ci mostrano come eucaristia-chiesa-ospedale siano una triade che si richiama, si completa e si sovrappone. Questa realtà mi fa pensare a tante particole che il vento dello Spirito, soffiando sull’altare del primo ospedale di Granata, ha disseminato lontano. Ciò nonostante, la mensa non si è impoverita.
      .
      Non è l’Eucaristia, infatti, che diminuisce, è l’Altare che si dilata.
      .
      In questo momento penso con particolare trepidazione a voi, portati apparentemente alla deriva dal vento di Pentecoste ed approdati su spiagge remote. Giunga a ciascuno in particolare, ovunque vi capiti di leggere questa lettera, la mia benedizione e la gratitudine di tutti i fratelli.
      In Cristo Gesù, nel cui cuore

    • le fatiche si placano
    • le nostalgie si dissolvono
    • le stagioni hanno tutte la struggente bellezza della primavera
    • le amicizie antiche si ritrovano
    • e la vita acquista il sapore della libertà

      ho pensato che a ben poco servirebbe ripetere o risentirsi dire in questa celebrazione del quinto centenario della mia nascita e, quindi, della fondazione, che sono stato il lungimirante fondatore dell’ospedale moderno. Ciò potrà anche gratificarvi, ma non è questo il punto. Conta invece che voi esprimiate la vostra lungimiranza, leggendo nella realtà storica alla quale appartenete e compiendo gesti profetici per il tempo presente.

    • In nome di una solidarietà critica, siate

    • onesti con Dio
    • onesti con il mondo

    • 7 «Chi è in grado di udire ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese: Ai vincitori darò da mangiare il frutto dell’albero della vita, che si trova nel giardino di Dio” (Ap.2,1-7 e ss.)
      .
      PER LA CHIESA CHE E’ NELLA CITTA’ DI…
      .
      SMIRNE
      .
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      .
      8 «Per la chiesa che è nella città di Smirne, scrivi questo:
      Così dice il Signore, che è il Primo e l’Ultimo, che era morto ed è tornato a vivere:
      9 Io so che siete perseguitati e ridotti in miseria, ma in realtà siete ricchi.
      So che parlano contro di voi alcuni che pretendono di essere il popolo mio, ma non lo sono, perché sono seguaci di Satana.
      .
      .
      IMGP4455.jpg
      .
      10 «Non abbiate paura delle sofferenze che vi aspettano. Sentite: il diavolo getterà presto alcuni di voi in prigione per mettervi alla prova. Sarete perseguitati per dieci giorni. Siate fedeli anche a costo di morire, e io vi darò la corona della vittoria: la vita eterna.
      11 «Chi è in grado di udire ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese: La seconda morte non colpirà i vincitori. “
      .
      PER LA CHIESA CHE E’ NELLA CITTA’ DI…
      .
      PERGAMO
      .

      Pergamo, i simboli di Asclepio in una colonna dell’Asklepeion

      Pergamo: il Tempio di Serapide, trasformato in basilica cristiana
      .
      12 «Per la chiesa che è nella città di Pèrgamo, scrivi questo: Così dice il Signore, che ha una spada affilata, a due tagli:

       


  • Austria
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  • ALLE FRATERNITA’ CHE SONO IN ASIA:

    AFAGNAN – OSPEDALE SAN GIOVANNI DI DIO – Progettato dall’Arch. Prof. Fernando Michelini

    Ingresso ospedale

    AFAGNAN – TOGO

      

     

    Apri il video: L’ospedale della foresta (Rai Tre)

     

    http://www.uta96.it/Pagina%20iniziale.htm

     

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    L’ Ospedale San Giovanni di Dio

     

    E’ stato progettato dall’Arch. Prof. FERNANDO MICHELINI, il miracolato da San Riccardo Pampuri che ne ha diretto anche i lavori. 

    (Vedi anche: FERNANDO MICHELINI il milanese miracolato da San Riccardo Pampuri)

     

    1.Origine

    I primi passi per la fondazione di un dispensario e di un ospedale nell’arcidiocesi di Lomé furono intrapresi da Fra Mosè Bonardi, allora Provinciale della Lombardo-Veneta, nel 1959, con l’intermediazione di un sacerdote togolese, Gérard Nyuiadzi, presso l’arcivescovo Mons. Joseph Strebler, e con il pieno appoggio delle autorità civili.

    Il prelato indicava come sito possibile per la nuova fondazione opedaliera missionaria il villaggio di Afagnan, situato a 80 km. da Lomé, che non poteva contare su alcuna assistenza sanitaria.

    I due primi missionari provenienti da Milano, Fra Onorio Tosini e Fra Aquilino Puppato, si imbarcarono a Marsiglia il 15 marzo 1961, per giungere a destinazione il 4 aprile.

    Da sx: Fra Pierluigi Marchesi, Fra Onorio Tosini, Fra Raimondo Fabello

    Fra Onorio Tosini, il superiore, così scriveva: «Sin dal primo giorno del nostro arrivo, è stato chiesto il nostro intervento per alcuni malati. Il fatto di essere riusciti ad alleviare le loro tribolazioni ha spinto verso la nostra abitazione molti altri sofferenti: il capo del villaggio Augustin Adolehoumé V è dovuto intervenire per limitare le richieste ai casi più gravi. Data questa situazione di estrema necessità, ci siamo dati da fare per attrezzare un dispensario ».

    Dieci giorni dopo, la mattina dell’inaugurazione del dispensario, il 14 aprile del 1961, oltre 60 poveri malati aspettavano sin dall’alba. Il primo bambino (11 anni) malato affidato alle cure dei Frati che morì tra le loro braccia fu battezzato da Fra Onorio e ricevette i nomi di Giovanni di Dio, Giuseppe e Maria.

    michelini-fernando-il-miracolato-da-san-riccardo-pampuriBen presto i Confratelli iniziarono a pensare all’ospedale. La prima pietra dell’edificio, disegnato dall’architetto Fernando Michelini e costruito sotto la direzione dell’ingegnere Alberto Fusini, venne benedetta da Mons. Strebler il giorno 8 marzo del 1962. Partecipò alla cerimonia il primo Presidente della Repubblica del Togo, Sylvanus Olympio.

    Due anni dopo, il 4 luglio 1964, ebbe luogo l’inaugurazione della cappella da parte del nuovo arcivescovo, Mons. Robert Dosseh Anyron, e il giorno successivo l’ospedale venne benedetto e inaugurato.

    Il Capo di Stato, che non aveva potuto partecipare in quanto malato, era rappresentato in veste ufficiale dal Ministro della Salute, il Dr. Valentin Vovor, e tra le personalità presenti ricordiamo il Priore Generale dell’Ordine, Fra Igino Aparicio, il Provinciale della Lombardo-Veneta, Fra Mosè Bonardi, alcuni ministri, il capo del villaggio di Afagnan e altri capi tribù.

    Il nuovo ospedale venne giudicato come «il più bell’ospedale privato della costa occidentale dell’Africa». Con una capacità di 80 posti letto, era stato attrezzato con strumenti moderni in tutti i reparti, e cioè: medicina, chirurgia, maternità, ginecologia, neurologia e pediatria. Annessa all’ospedale c’era una scuola per infermieri.

    I Fatebenefratelli sono stati aiutati nel loro lavoro dalle Suore della Consolata.

     

     

     

    2. L’ Ospedale di Afagnan oggi

     

     

     

    Attualmente è un ospedale generale con 269 posti letto, distribuiti nei seguenti reparti:

    - Medicina Generale (84 posti letto)
    - Chirurgia Generale (39 posti letto)
    - Ostetricia – Ginecologia (45 posti letto)
    - Pediatria (75 posti letto)
    - Clinica medico-chirurgica (21 posti letto)
    - Oftalmologia
    - Cure Intensive (5 posti letto)

    Inoltre, l’ospedale annovera:

    - un servizio di consultazione medica e prenatale;
    - un Blocco Operatorio con 4 tavoli operatori;
    - un Laboratorio di Analisi;
    - un servizio di Radiologia, che prevede anche endoscopie e ecografie;
    - un servizio per le Urgenze, da dove transita il 75% dei malati ricoverati;
    - un servizio di Fisioterapia;
    - una farmacia interna;
    - un servizio per gli apparecchi ortopedici;
    - un gabinetto dentistico;
    - un servizio di cure ambulatoriali per seguire i malati dimessi dall’ospedale;
    - un servizio che si occupa della manutenzione (meccanica, elettricità, saldature, ecc);
    - un servizio che si occupa della cucina (i pasti vengono serviti ai malati 3 volte al giorno), della biancheria e della lavanderia;
    - una Scuola per Infermieri Diplomati, e per Ausiliari;
    - un servizio di salute pubblica, che coordina 6 gruppi sanitari nel territorio della Sub-Prefettura di Afagnan, collegati all’ospedale via radio;

    Sono presenti anche delle strutture extra-ospedaliere:
    - la « piccola scuola » istituita presso il reparto di Pediatria per l’insegnamento ai bambini ricoverati per lungo tempo (riabilitazione dopo la poliomielite, ulcera di Buruli, osteomielite, ecc.) una trasmissione radio « La Voix de saint Jean de Dieu » destinata alla pastorale della salute, alla educazione alla salute, alla catechesi, all’intrattenimento, ecc.

    Nel 2004, l’Ospedale San Giovanni di Dio di Afagnan ha curato 19.974 malati; hanno avuto luogo 2.142 interventi chirurgici impegnativi, e 379 interventi meno importanti. Nel corso dell’anno ci sono stati 1.209 parti, sono stati effettuati 91.753 test di laboratorio e 5.355 esami radiologici. I malati e i bisognosi che sono assistiti nel nostro ospedale provengono dal Togo ma anche dai Paesi limitrofi come Benin, Ghana, Burkina Faso e persino dalla Nigeria.

     

     

    Il costo delle cure per un malato adulto ricoverato in ospedale è di 2 000 F CFA al giorno (circa 3 euro giornaliere per cure mediche, 3 pasti ed altre prestazioni). E’ difficile che i malati possano farsi carico di questa somma. Il costo per il ricovero di un bambino è di 1.000 F CFA. Oltre il 15% dei malati sono curati gratuitamente, in quanto sono totalmente privi di mezzi.

    Pur rimanendo un’opera privata confessionale, l’Ospedale San Giovanni di Dio di Afagnan è parte integrante della struttura sanitaria nazionale del Togo, con quale ha stipulato una convenzione. Inoltre, il 23 febbraio 2004 è stato firmato un accordo di cooperazione con la Facoltà mista di Medicina e Farmacia dell’Università di Lomé, che fa di questo centro un luogo per il tirocinio degli studenti in medicina del 3° ciclo e per i medici specializzandi.

    Fedeli al carisma di San Giovanni di Dio, orientato al sollievo di ogni sofferenza, il nostro Ospedale di Afagnan persegue l’obiettivo fondamentale di curare tutti i malati che bussano alla nostra porta, senza alcuna distinzione, con un’opzione preferenziale per i più poveri, e ciò nonostante le difficoltà legate al divario sempre crescente tra possibilità economiche e mezzi tecnici. Esprimiamo la nostra fedeltà al carisma attraverso:
    - L’accoglienza dei più poveri;
    - La possibilità di prestare le prime cure al pronto soccorso senza far pagare nulla;
    - Le tariffe forfettarie sono di molto inferiori al costo reale delle cure prestate;
    - La continuità dei servizi e la disponibilità a ricoverare ogni malato grave, anche se ciò comporta dei problemi di posto;
    - Il rispetto della vita e della dignità umana, conformemente ai principi evangelici.
    La nostra ospitalità si esprime anche attraverso la preoccupazione di offrire al malato un’accoglienza calorosa e premurosa, dal primo momento sino al termine del soggiorno in ospedale.
    L’apertura alla medicina tradizionale aumenta le possibilità terpautiche e ne riduce i costi.

     

     

     

     

     

     

     

     


    DON VINCENZO CIMATTI il Don Bosco del Giappone

    Vincenzo Cimatti all'organo

    Don Vincenzo Cimattivincenzo_cimatti all’harmonium

               Un missionario, un salesiano, un musico, laureato

               Un missionario, un salesiano, un musico, laureato in scienze naturali e filosofia, ma sopratutto un santo. Lui diceva che voleva diventarlo, ma non pensava di esserlo. 

               Lo chiamano il Don Bosco del Giappone. Lui Don Bosco lo vide coi suoi occhi quando aveva tre anni. La mamma gli disse: “Vicenzino, guarda Don Bosco!” E lui lá, in una chiesa di Faenza lo guardò, e se lo ricordò per tutta la vita. Cercò di imitarlo e ci riuscì. Lo amava e aveva un cuore grande come quello di Don Bosco.

               Amò la musica. Suonò e compose per tutta la vita: 950 composizioni musicali e 2000 concerti in Giappone , in Manciuria, nella Corea del Nord e del Sud. 

               Tutti gli volevano un gran bene e conservarono le sue lettere: sono più di 6000. Diceva che voleva bene a tutti, adulti e bambini, uomini e donne e doveva frenare il suo cuore troppo sensibile. Ma più di tutto amava Gesù e “la Mamma”, Maria, come la chiamava lui. 

               Non gli piacevano le cariche, ma dovette sempre accettarle.

               Gran lavoratore, diceva: “Il lavoro è la mia salute” . Ma i soldi furono la sua croce. 

              Vincenzo Cimatti 2 Era l’uomo più naturale del mondo, nell’agire, nel parlare, nel pregare, con quel suo atteggiamento senza pose che incantava tutti, adulti e piccoli, con un sorriso indimenticabile.

                La sua passione fu il Giappone. Ma quanto ebbe a soffrire…! Nessuno se ne accorgeva, perchè non voleva essere di peso a nessuno.

                Il suo corpo, dopo 12 anni dalla morte fu trovato intatto, ancora soffice e flessibile.

                Per farlo Santo ora ci vuole un miracolo.

    Vuoi conoscere don CIMATTI attraverso le sue lettere?

    Ecco le prime raccolte:

    1. Lettere 1896 – 1903
    2. Lettere 1904 – 1919
    3. Lettere 1920 – 1922
    4. Lettere 1923 – 1925
    5. Lettere 1926

    - Possibilità di ricerca nella raccolta completa delle oltre 6.000 lettere

    Raccolta completa delle oltre 6.000 lettere (occorre attendere qualche istante per il caricamento della pagina)

    Chi avesse da segnalare grazie ricevute può rivolgersi a:

     

     

    Don Gaetano Compri  -  GiapponeUn'immagine del nostro ospite: Don Gaetano Compri 
     Missionario in Giappone, vice-postulatore della causa del Ven. Don Vincenzo Cimatti. Veronese di nascita, partì per il Giappone nel 1955 a 25 anni.
     Don Compri spera che presto Don Cimatti sia dichiarato Beato, e per questo domanda a tutti di pregarlo affinché interceda presso il Signore che ci conceda il miracolo richiesto per la sua beatificazione. Sente però che Don Cimatti, avendo lavorato per 40 anni nel lontano Giappone, in Italia non è ancora abbastanza conosciuto. Eppure è una figura straordinaria di santità moderna, che non si deve dimenticare. È sicuro che se si leggono le sue lettere, sarà per molti una grande scoperta.
     Indirizzo: Salesian Seminary, Fujimi-cho 3-21-12, Chofu-shi  182-0033 TOKYO  JapanE-mail di Don Compri: compri@v-cimatti.com Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo. www.v-cimatti.com

    FORMIDABILI QUEGL’ANNI – Fra Angelo Bertoglio o.h.

     

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    E’ UNO SPEZZONE DI STORIA CONTEMPORANEA DEI FATEBENEFRATELLI

    Un documento storico che si ripropone  alla vigilia di una svolta importante:   IL CAPITOLO GENERALE STRAORDINARIO 2009.

    OPZIONI ’70 -

    Centro Studi Fatebenefratelli – Erba (Como)

    Gennaio 1970  -  Anno I  -  N. 1

    SOMMARIO

    1. Editoriale (d. nocent)

    2. Ai nostri fratelli (équipe)

    3. “Regula aurea” (c. medaglia)

    4. Comunità e individuo (f. zecchini)

    5. La formazione della personalità nella vita religiosa (a cura di T. Quadri)

    6. l dialogo (s.manera)

    7. Per una sana educazione affettiva (p. zamborlin)

    8. Una certa coscienza di Povertà

    9. Dall’Osservatore Romano (Maria Soledad Torres Agosta sugli altari)

    10. Preghiera di uno che non sa più pregare.

    EDITORIALE

    Non ci è dato di sapere  che cosa ci riserveranno gli anni ’70. Saranno certamente di grandi impegni e decisioni. Forse anche di successi.

    • La scienza è impegnata nella lotta contro il cancro;

    • i politici  nel ristabilimento di una pace e sicurezza mondiale e nell’impostazione di una economia di sviluppo del terzo mondo;

    • la Chiesa deve dare una risposta vitale ai grandi problemi del Concilio Vaticano II.

    • Anche la nostra Fraternità dovrà fare una profonda revisione di vita per mettersi in sintonia con la storia e tradurre vitalmente i “segni dei tempi”. Con il Capitolo Generale speciale, ma non soltanto.

    “OPZIONI  ‘ 70″ perche?

    Dire opzione è dire scelta, preferenza deliberata. Questa scelta si presenta come una ricerca e una interpretazione; è legata a una certa lettura – sempre discutibile – di un mondo in evoluzione e della vita religiosa in trasformazione.

    A ciascuna epoca appaiono linee di sensibilità profonda che generano comportamenti e modi di essere: questi tratti fondamentali indicano alla nostra fede qual è il conntrassegno dello Spirito  sul nostro tempo, il suo cammino e il suo campo d’azione più favorevole.

    “OPZIONI  ‘ 70″, che non ha niente di esclusivo, vorrebbe tentare di rispondere a questi “segni”.

    Più volte ci ha tormentato il pensiero della sua accoglienza nelle comunità. Sarà inteso come strumento di contestazione giovanile?

    Ebbene: vuol essere semplicemente un periodico di opinioni e confronti, scritto nella libertà e nella carità e aperto a tutti i Fratelli, in comunione e responsabilità.  Palestra di idee, vuol essere costruttore e apertamente impegnato nella riscoperta del Vangelo, particolarmente di Cristo medico, offerto alla giovane generazione ed anche a quanti giovani non sono forse ormai più, ma conservano freschezza di spirito e tensioni giovanili. Più che di noi, vogliamo parlare di ciò che non siamo e non vogliamo essere . Più che definire (assurda impresa), intendiamo precisare.

    “OPZIONI  ‘ 70″, si colloca al centro di tutti gli slanci che vengono dalla periferia. Vuol  essere

    • punto di convergenza della chiamata  del Signore in tutti i fratelli,

    • vincolo di fratellanza,

    • perno della ricerca comunitaria di perfezione evangelica,

    • momento di verifica della fedeltà allo Spirito.

    Tra uomini, ogni comunione vera esige il rispetto più assoluto della intrinseca dignità dell’altro. Per noi questa dignità non è altro che la qualità di “figlio adottivo del Padre”  con la liberta dello Spirito che essa conferisce. E lo Spirito è inventivo, creatore, soffio di un perpetuo rinnovamento.

    Chi scrive e chi legge faranno bene a tenere un atteggiamento di povertà e schiettezza:

    • Povertà dello scrittore che si mette in ascolto dello Spirito e, considerandosi servo della fraternità, riversa in essa il suo carisma.

    • Povertà del lettore che accoglie ogni cosa, senza sospetti, senza nemmeno disprezzo, come una parola che il Padre gli rivolge nello Spirito, attraverso i suoi fratelli e per essi.

    • E schiettezza: piedi a terra e fronte alta , con gl’occhi spalancati sulle cose e sul Cielo.

    Giudicare, discutere, consultare, accettare o rifiutare o modificare devono essere il frutto della fraternità vissuta, non un gesto macchiato da autarchia o autocrazia. Una fraternità non è infatti una semplice agglomerazione di persone, ma esige una osmosi delle intelligenze e dei cuori.

    Noi crediamo all’obbedienza. Essa ci appare ancora una virtù. A patto che i singoli e le comunità siano interessati in un modo attivo e personale nella lettura e nell’interpretazione di questa chiamata di Dio per l’ oggi. Allora diventa più grande  la dignità dell’atto di obbedienza perché è adesione cosciente e amante a un volere divino che si sa incarnato in qualcosa di concreto, percettibile attraverso il segno degli eventi, e di cui si coglie più chiaramente la relazione col mistero della salvezza.

    C’è un domani per i Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio? Crediamo di sì. A patto che le nostre mani non taglino i ponti delle grandi strade del domani. Dice don Primo Mazzolari che “un uomo d’onore non lascia agli altri la pesante eredità dei suoi “adesso” traditi “.

    Iniziamo con speranza perché la causa ci sembra buona. Proseguiremo con gioia se sapremo di aver servito, almeno un poco, agli ideali che abbiamo dichiarato.   .

    D. Nocent

    Il clima che si respirava era quello del  ’68.  Ma anche del post Concilio Vaticano II. Mentre i voli spaziali occupavano la mente degli scienziati e delle cronache, il Papa faceva quotidianamente i conti con “l’aggiornamento” della Chiesa che sembrava avere dei costi elevatissimi. Le sue parole sono sintomatiche delle tensioni presenti nella Chiesa di allora ma illuminanti anche per il nostro tempo, con vecchie e nuove contraddizioni.

    INDIGNAZIONE – CARITA’ – RISPETTO

    Da OPZIONI ’70  – N. 5  Giugno 1970

    Questa premessa s’ era resa necessaria per tentar di far passare in modo accettabile sia l’articolo “vigoroso” che Fra Angelo Bertoglio aveva spedito alla redazione per la pubblicazione, che di altre, non meno sincere ma poco diplomatiche riflessioni. Da come sono andate le cose, evidentemente non è risultata convincente.

    Editoriale

    Quando noi affermiamo che certe posizioni di apertura sono tutt’altro che infrequenti, anzi costituiscono il patrimonio mentale ormai comune di una larghissima zona della Chiesa, ci si risponde, con sufficiente sufficienza, che il realtà si tratta di pochi gruppi del dissenso: “isoliti fanatici”, come ormai si dice in Vaticano, tentando di screditarli e metterli in tal modo fuori gioco.

    Quella della forma in chi scrive è una questione nevralgica. Molti sono disposti ad accettare i contenuti critici, purché siano espressi in un modo diverso. Ma non è facile distinguere il contenuto dal linguaggio e, in genere, bel giustamente, gli scrittori contestati rifiutano di ammorbidire la forma perché sembra loro di devitalizzare la sostanza. In effetti, un sentimento vivace va espresso con vivacità, un’indignazione va espressa con forza e con violenza. Se la si esprime con dolcezza la si tradisce: non è più indignazione ma puro e semplice dissenso.

    C’è differenza tra dissenso e indignazione ed il linguaggio deve registrarlo. Ma la realtà è che non siamo più capaci di indignazione. Forse, quando si critica un linguaggio forte. Si contesta questa legittimità di indignazione o il suo possibile convivere con la carità e con il rispetto. Ma noi non crediamo che le cose siano tra loro incompatibili, e basterebbe un richiamo al linguaggio evangelico per rendercene convinti.

    Certo, i nostri critici avrebbero fatto al Signore le medesime obiezioni: che si potevano dire le stesse cose in modo diverso. E invece no: il modo diverso dice cose diverse.

    Non si può esprimere tutta la carica di sdegno racchiusa nella formula “razza di vipere” con locuzioni più pacate: magari con “gente poco sincera”. “Gente poco sincera” non vuol dire “razza di vipere” ma assai meno. Insomma, la contestazione della forma non è mai solo della forma ma investe direttamente la sostanza; e l’incapacità di ammettere un linguaggio robusto forse deriva da un certo stile di dipendenza clericale che ci rende incapaci di robusto dissenso.

    *   *   *

    La verità non si manda a dire per procura. Di particolare interesse è la critica diretta, semplice e franca: critica che, naturalmente, è definita “irriverenza” e peggio. E dobbiamo essere davvero “cortigianizzanti” per ritenere irriverente una diversità di opinione su problemi tanto discutibili.

    E’ invece da queste divergenze conosciute ed espresse che nasce una coscienza ecclesiale robusta, filiale e aliena da falsi feticismi. E’ di questa coscienza che abbiamo bisogno noi e di cui più di noi ha bisogno la stessa Autorità, attorniata talvolta da un silenzio osannante che gli nasconde la verità.

    Quest’operazione falsificatoria è il servizio peggiore che gli si possa rendere, soprattutto se è reso dai collaboratori più prossimi.

    L’Autorità ha bisogno di essere aiutata a sostenuta. Ma per aiutarla non serve la pietosa bugia o l’adulatorio consenso; serve la parola franca e, all’occasione, anche il filiale dissenso.

    Non si vien meno al dovuto rispetto e alla necessaria disciplina solo perché si esprime un diverso parere.

    **

    “CHI METTE MANO ALL’ARATRO…”

    Di Angelo Bertoglio

    Una delle interpretazioni al noto testo evangelico potrebbe essere questa: chi mette mano, chi punta su un programma d’azione, lo espone, lo illustra, lo propone entusiasmando i seguaci e poi…si volta indietro, tergiversa nelle idee, cambia rotta illudendo i discepoli e abusando della obbligatorietà di sottomissione cui benevolmente si sono impegnati, costui no, non è atto…

    Il Regno dei Cieli esige l’impegno incondizionato di uomini dalle idee chiare, coraggiose, che non ricorrono al sopruso della contraddizione sistematica ingannando se stessi e gli altri. Sì, è vero, questo vale per ogni cristiano, perché in Paradiso o all’Inferno nessuno mai ci va da solo, ma soprattutto riguarda colui che nella comunità ha una giuridica responsabilità di severissimo rendiconto.

    Devo dire che troppe volte ho visto anche nel nostro ambiente religiosi miei fratelli con impressionante leggerezza accedere ai posti di comando quasi desiderandoli…

    E’ incredibile! C’è da dubitare che costoro abbiano coscienza del valore, della natura delle anime che i prendono l’ impegno di guidare e di governare. Perché, si noti bene, non si tratta di cavalli o di macchine per i quali vale una tecnica umana, ma di anime…che valgono quanto vale Dio, di cui sono immagine.

    Ebbene, senza tanti preamboli, mi sia lecito dire subito come con questo scritto io intenda entrare in aperta polemica col Padre Provinciale.

    Così si è espresso recentemente Mons. Camàra: “ Non parlo contro il Brasile, parlo contro la tortura. Non tradisco il Brasile, lo tradirei se tacessi”. E io dico: “Non parlo contro il Provinciale, parlo contro il suo modo di agire. Non tradisco il Provinciale, lo tradirei se tacessi”.

    Il vescovo ha soggiunto. “Quali che possano essere le conseguenze di ciò che dirò stasera,intendo parlarne francamente”. E io ripeto con lui: “Quali che possano essere le conseguenze di ciò che dirò ora, intendo parlarne francamente”.

    Mons. Elder Camàra è un ometto fragile, dal volto mobilissimo, che parla in modo convincente senza alzare la voce e quasi ipnotizzando l’uditorio. E appassionato, combattivo, sincero, ardente, commovente pur non trascendendo nel tono. Costui è un uomo di Dio che piace a me come piace a molti.

    Il mio Provinciale no. Cosa devo dire? Non piace a me come non piace a molti della nostra piccola comunità religiosa provinciale. Si capisce, piacere a tutti e anche solo a molti, è impresa ardua perché, ragionando con una mentalità ecclesiale, governare le anime non è mestiere, è missione sacrosanta; non occorre un’arte, ci vuole un carisma, una personalità trasparente, tersa come cristallo, che dia prova di sincerità, di lealtà, di saggezza, di sapienza, di…coerenza. E in questo il Leader innamora, attrae, seduce, trascina, s’impone, non tanto con la forza dell’autorità che indispone, spoetizza, ma disponendo con la simpatia che piace o meglio con la carità.

    Perché, come asserisce San Francesco di Sales, lui che ne compose anche una preghiera per ottenerla, “la carità è simpatica, è dolce, amabile”. Ed è risaputo come un tale santo si distinse proprio per questa luminosità di carattere acquisito.

    Affermando che Padre Pierluigi non si è cattivato la simpatia dei suoi figli in questa maniera, mi affretto tuttavia a premettere il mio più alto sentimento di sudditanza a lui, con ubbidienza e rispetto. E constatando, forse anche con rassegnato stupore, come questo atteggiamento di sudditanza esista in tutti i suoi sudditi, devo tuttavia affermare che a un tale doveroso atteggiamento non è più unita purtroppo l’antica stima e fiducia che da principio godeva.

    Soprattutto nel ceto giovanile Pierluigi poteva essere l’emblema dei giovani, il loro prototipo, la personificazione di essi. Furono i giovani a guardare a lui, a volere lui, l’unico che dava loro garanzia di idee giovani e su di lui puntarono i loro voti.

    Oggi dobbiamo dire con tristezza, quasi con una stretta al cuore e a nostra confusione di fronte a Dio: ci ha delusi! Non fu l’uomo del tempo, dell’ora presente, come credevamo, come pensavamo, come speravamo… E purtroppo l’uomo di alte responsabilità che fallisce oggi, non può sperare di rifarsi domani; è troppa la vertiginosità con cui gli uomini mutano in un progressivismo tecnologico pari a quello filosofico, e chi si ferma è realmente…perduto !

    E rimane travolto lui e tutta la sua compagnia se è ad un posto di responsabilità.

    Comunque, per ora, prima che sia ormai  troppo tardi, sperando di scongiurare almeno il peggio, non posso fare altro che ripetere ancora una volta con rassegnato scoramento, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi: pazienza! E ancora una volta, piegati ma non spezzati, sperando sempre con indomito coraggio, non volendo cessare di sognare tempi migliori sempre imminenti, volgiamo il nostro sguardo ai giovani che hanno mentalità fresche, perché solo da essi si può sperare qualcosa, non certo da chi giovane non è più.

    Anche il Provinciale ha commesso l’errore di quasi tutti gli anziani: non ha saputo capire, intuire, colpire giusto nel loro presente. Su questo punto, se ce lo permetteranno, quanto, quanto ci sarà da dire! Che il proibircelo sarà l’ultimo errore a consumarsi, poi basta, poi la catastrofe definitiva.

    La libertà di pensiero, di parola, è la caratteristica dei tempi nuovi e con questo mezzo caratteristico si dovrà poter cambiare radicalmente le vecchie strutture che sanno di muffa, di antiquato anche nella nostra Istituzione.

    Come ogni anno il corpo umano si rinnova biologicamente,  così anche psicologicamente l’uomo, la società, si rinnovano e quello che era dell’anno scorso nella composizione delle idee, nella problematica della vita, , della convivenza, quest’anno è già passato alla preistoria. Bisogna dunque essere capaci di camminare coi tempi, non fermarsi su un metodo acquisito cinque, dieci, vent’anni fa, altrimenti c’è da ridere!  Bisogna aggiornarsi continuamente, cambiare sempre le posizioni con agilità di spirito, agilità che in ultima analisi ci viene dal mistero pasquale. Ogni giorno ci viene proposto ed è lì che dobbiamo costantemente rifarci, In Cristo risorto ( e in coloro che sono risorti con Lui) la prima prerogativa dello  spirito è l’agilità e non la stasi d’intontimento.

    Sopra accennai ai mezzi coercitivi usati in Brasile che il vescovo Camàra sdegnosamente condanna. Ma, al dire di P. M: Turoldo, “non esistono solamente campi di concentramento fatti di reticolati, ma ci sono anche la prigionia morale e il genocidio dello spirito” (prefazione  a “Libertà dello Spirito” di G. Vannucci).

    E nel suo giudizio espresso a riguardo della “Marcia di Parma”, il fratello Dionigi si esprimeva così: “sono uscito per un momento dai silenzi prudenti e dalle calcolate paure” (OPZIONI ’70 – n.2). Bravo Dennis e fortunato te che almeno per un momento hai potuto uscire dalla tortura morale a cui sono sottoposti i nostri poveri spiriti. Io p.e. che da trent’anni subisco in silenzio una tale tortura, questo sia pur anche breve sospirato momento di “libertà” non l’ho provata mai e ne ho il cervello liso a motivo dei continui ininterrotti lavaggi che ho subito e ai quali ho dovuto soggiacere passivamente, dietro l’esempio dei Santi (!?) che i comodi pseudo-maestri di una santità interessata, mi andavano insinuando fino alla ossessione spasmodica.

    Il troppo che ho sofferto anch’io da giovane avrò poi occasione di dirlo un’altra volta per denunciare la mentalità ottusa degli anziani che  in ogni tempo, (da secoli, da millenni) ha sempre prevalso sulle forze esplosive fella giovinezza, carica di preziosissima energia dinamica che mai loro hanno saputo sfruttare quale ricchezza donativa di Dio Provvido all’umanità.

    Hanno preferito usare solo  e attuare sempre il metodo di un “comodo” negativismo ispirantesi (l’abbiamo detto prima) a cervellotica santità che non vuole disturbi e fastidi. E da ciò il sistema oppressivo di giudici inappellabili a cui solo appartiene (eterni detentori) il diritto di governo assolutista rendendo nulle le nuove vite in germoglio nella fase del loro massimo rendimento, ritardandone lo sviluppo, anzi soffocandone la normale e regolare maturazione intellettiva stabilita dal Creatore a beneficio dell’umanità intera.

    Sembra quasi che solo le guerre siano capaci di rivoluzionare questa ottusa mentalità a carattere tradizionalista impostata unicamente sulla saggia esperienza, refrattaria, ostile al rischio.

    L’attempata esperienza che certo non è da disprezzarsi da nessuno, deve essere integrata dalla fresca intelligenza e dal genio dei giovani. Deve accettare il contributo costruttivo anche di chi esperto non è ma ha una maggiore apertura mentale ed è più informato e aggiornato. Altrimenti, il conflitto tra giovani e anziani è inevitabile e continueremo a perdere le migliori speranze.

    Ora dunque basta. E’ l’ora della rivendicazione sacrosanta delle forze nuove, delle energie fresche, delle menti aggiornate, delle anime giovanili, agili.

    Avanti anche a chi con ottant’anni sulle spalle ha saputo conservarsi un’anima non aggravata dalla deleteria psicosi dell’ottusità.

    Quello che fa tanto male anche a me è il constatare come si siano persi due anni preziosissimi, o almeno non impegnati come si doveva, in questa urgente conquista di libertà, di democratica convivenza comunitaria fondata su solide basi di carità che vuole il bene temporale (prima che Eterno) di tutti e non solamente di chi comanda. Dio di nulla è più geloso che della libertà dell’uomo.  Prerogativa dell’uomo di “essere creato a sua immagine e somiglianza” sta proprio nell’essere libero e volontario nelle sue azioni deliberatamente scelte che lo rendono responsabile, cosciente e maturo.

    Un’altra volta,(sempre se ci sarà permesso) torneremo a sviluppare questo tanto profanato, deforma pro e deturpato argomento della personalità del religioso e dell’ubbidienza. Per adesso lasciamolo lì.

    In questo avvio di libertà il Fratello Pierluigi quale nuovo Provinciale, ce ne aveva dato ampia speranza, anzi diciamo generosa promessa, quasi iaspettato trionfo. Poi…capovolgimento completo della situazione! Alludo certo alla parte giovani: quale e quanta delusione! A parte i frequenti casi singoli il cui racconto mette tanta tristezza nell’animo, ultima amara constatazione del genere è la lettera di programmazione  “Esercizi Spirituali – Vacanze 1970”: è una cosa avvilente, scoraggiante nel constatare la marcia in dietro di quei pochi passi che  faticosamente si erano fatti in avanti.

    Cosa devo dire io? Sì, dirò innanzitutto il mio disappunto personale per tanto errore, E dirò ancora che a questo punto mi si stringe il cuore nel dover rimpiangere la persona di Padre Mosé (nelle sue alte qualità di despota, qualcosa di buono l’aveva anche lui – Dio ce l’abbia in gloria -) che proprio qui a Solbiate  nelle parole di presentazione alla comunità religiosa dei “libri rossi” (formulario per le proposte di rinnovamento delle Costituzioni) disse, tra l’altro, proprio testuali parole di santa memoria che io, sì, mi piace dirlo, ho raccolto come suo testamento spirituale, sua ultima volontà: “Ascoltiamo i giovani (e lo ripeté quasi con insistenza), ascoltiamo i giovani, può d’arsi che abbiano ragione!”.

    Può darsi…Quindi, come sempre nella vita, i casi sono due: o non hanno ragione, come dicono (come hanno sempre detto) gli anziani ora capitanati, come sembra chiaro da un certo atteggiamento politico, dal successore di P. Mosé che, a quanto pare ha cambiato bandiera, ha deluso i giovani (non uso la parola “traditi” che non mi piace), li ha lasciati, “ha volto lo sguardo dall’aratro”; Che…se per caso, a dispetto degli anziani, l’avessero, come io ne sono profondamente convinto? Se l’avessero…quale errore spaventoso e irreparabile sarà allora quello di non averli ascoltati!

    E la fatale responsabilità cadrà ancora sugli anziani che da soli, senza i giovani hanno voluto assumersi il delicatissimo e difficile impegno del governo della Chiesa, del Popolo di Dio.

    E allora dall’alto se ne avrà l’accusa e non certo la benedizione di P. Mosé che ben ce lo disse, ce ne avvisò, ce ne premunì del pericolo, ci mise in guardia e raccomandò.

    E per ascoltare i giovani, certo bisogna farli parlare, o almeno “lasciarli” parlare: “Lasciate che i fanciulli vengano a me e non vogliate ad essi impedirlo” (Mt 19,14).

    Mi si dirà subito che i giovani oggi (premesso che si allude qui a i giovani della nostra Congregazione) possono parlare fin troppo! Io invece dico e confermo se volete, che, come non possono dire ancora nulla del tanto che vorrebbero, che hanno da dire, così rimane ancora tutto da dire; al che corrisponde ed equivale il tanto che vorrebbero fare e ancora non hanno fatto perché non possono!.

    Ho prova di come il Provinciale abbia loro chiuso la bocca o meglio non ha loro permesso di aprirla addirittura; che più di una volta abbia tagliato loro le gambe, quasi deprimendoli nel loro alto ideale di azione.

    Il peggio è che due volte si è fatto sentire da me a parlar male dei giovani: loro atteggiamento, operato, loro presa di posizione! Da me che sento di vivere solo per loro, la cui anima giovanile è la mia passione ospedaliera, il tormento del mio apostolato nella Chiesa, nell’Ordine.

    Ho sentito  e strasentito fino alla nausea, letto e strariletto che i giovani vanno diretti, governati, fatti studiare, giocare, pregare, mangiare, viaggiare, lavorare ecc. ecc. , ma mai che abbia avuto conferma anche una sola volta di leggere o sentir dire nell’ambiente religioso F.B.F. che il giovane va amato, mai!

    E pensare che questo è nell’ordine di Dio, questo deve essere nel programma della nostra santità. Non si può avere un’insensata rivalsa sul giovane solamente perché noi giovani non siamo più, o perché il giovane non è anziano come noi, non ha i nostri anni quasi che lui nel pieno diritto alla vita usurpi la nostra. E’ una mentalità sbagliata di persone che uomini non lo saranno mai perché mai raggiungeranno la maturità, la superiorità del pensiero.

    Puntiamo dunque il nostro impegno di doverosa santificazione, non solamente sulla fedeltà intransigente ad una pietà unicamente formale (Mt 7, 21), bensì e soprattutto nella conoscenza e nella scoperta inesauribile del Comandamento Nuovo di Gesù, impegno che coinvolge intelligenza e cuore in una infinità di sfumature e rami particolari che richiede l’amore del prossimo.

    Nel nostro caso un ramo particolare da amare sono i giovani. E amare i giovani vuol dire entrare nella loro mentalità, capirla, assimilarla, viverla.

    Il giovane è molto intuitivo e sensibile e percepisce immediatamente l’atmosfera di affetto che lo circonda. Trovandosi a suo agio, capirà subito di essere in un ambiente religioso bello, ove solo regna carità e amore (Deus ibi est), si guarderà bene dal lasciarlo e ripagherà amore con altrettanto amore. Si troverà bene perché qui potrà esplicare la sua personalità, trafficare i suoi preziosi talenti avuti da Dio (prestito bancario di altissimo reddito).

    I nostri giovani religiosi si aspettano tanto dal Padre Provinciale, onde tendono a lui non una ma quattro mani se ne avessero! In lui si attendono di trovare un vero padre che li ami, che li comprende, sempre pronto ad accoglierli a braccia aperte, a incoraggiarli nei loro entusiasmi, a compatirli nei loro errori che essi per primi sanno ammettere quando ci sono, a sostenerli nelle loro debolezze.

    Il giovane come è facile all’entusiasmo così è facile  allo scoramento, onde nei suoi sbagli ha bisogno di sentirsi non declassato con brutale drasticità, ma aiutato con amore a correggersi, a rialzarsi se caduto.

    Se un’infinità di giovani è uscito dalle nostre file è unicamente perché nessuno li ha sostenuti nelle loro crisi giovanili, molte causate dal non poter “fare”, onde vedevano le loro persone intristirsi miseramente in un andazzo di vita metodica tipicamente conventuale di sapore tutt’ora medioevale.

    Anziché paternamente e fraternamente intesi, si son sempre visti da tutti solo biasimati, criticati, quasi tollerati e persino disprezzati dall’arroganza dei saggi anziani.

    Ma consolatevi o seniori (e ora lo sono già anch’io che scrivo)!  Ne andranno via ancora, ne usciranno ancora dalle nostre file, tutti forse, fin che non ci decidiamo, fin che noi non ci rendiamo capaci di renderci “giovani coi giovani” come ad esempio Don Barra, di cui io leggo sempre le numerose rubriche per i giovani.

    Il peggio è che nessuno più è disposto ad entrarvi perché sanno (abbiamo già detto come il giovane è intuitivo e ora poi intelligente più che mai) che “dai frati c’è casino”, come ho sentito io qualche domenica fa dai ragazzi che ho avvicinato in un oratorio. Alludevano proprio al dissidio tra due mentalità: conservatrice e innovatrice che loro sanno esista anche nei conventi, e se ne guardano bene dal cascarci dentro.

    Il nostro ambiente religioso non è atto a ricevere i giovani della società di oggi, onde è impossibile che un ragazzo dall’esterno si innamori, se ne entusiasmi, è letteralmente impossibile.

    Portarne io qui le testimonianze, enunciarne i motivi concreti? Oppure farne le accuse, tentare una diagnosi?

    E’ cosa audace quasi impossibile con tanta diffidenza, permalosità, personalismi, disistima nostra interna! Non sarei creduto: “nemo propheta in domo sua”.  Ma che il profeta venga dall’esterno, se ne disilluda ognuno. La situazione peggiorerà sempre più, fino allo sfacelo fino all’annullamento forse di tutta un’istituzione vecchia, oggi che fioriscono quelle nuove con nuovi concetti costituzionali, nuovi metodi formativi, nuove strutture. L’ha detto anche Gesù: “è impossibile mettere una pezza nuova su un vestito vecchio o vino nuovo in botti vecchie”. E’ lui non sbaglia mai.

    Io speravo che queste cose ben le sapesse il Provinciale (che sarebbe stato già troppo triste il dovergliele far capire), e invece…

    Certo questa mia polemica susciterà la reazione non solo da parte sua, ama anche da parte dei suoi sostenitori che non mancheranno di gridare allo scandalo e soprattutto di chi ha contribuito con tutte le sue forze a infangare il suo bellissimo programma iniziale di coraggiosa apertura. Comunque, sono pronto a subirle tutte e  a combattere. Però mi siano fatte con lealtà e apertamente alla luce del sole e non ancora con l’antico sistema poliziesco che perdura anche nei conventi come nella Chiesa, quella degli uomini, s’intende, non quella di Dio.

    Del resto, noi non intendiamo litigare, scendere a dissidio, creare partiti e schierarci per la battaglia, no, ma unicamente intendiamo scendere, si noti bene: “scendere”. Quindi un po’ di umiltà anche da parte dei superiori come dei sudditi per un dialogo aperto e sincero sullo stesso piano, quale espressione di buona volontà da parte di tutti per attuare quel bene che urge l’impegno di tutti con sincerità e sacrificio.

    Sacrificio-rinuncia all’amor proprio che non può sopportare la critica sfavorevole perché troppo farisaicamente avido di lode e plauso. Onde, quasi indicando un’ultima tavola di salvezza, voglio scongiurare in ginocchio a mani giunte il Provinciale (e consigliare i suoi collaboratori a farlo): non chiudete più la bocca a nessuno (salvo si denoti in chi parla cattiva volontà, cattiveria di mal’intenzionati che, del resto, è subito individuabile). Che se non basta un periodico =OPZIONI ’70) se ne dia vita ad un altro, purché tutti possano dire e ridire, nel tentativo di costruire e di rimuovere.

    Su mille cose dette, anche se solo dieci risultassero apprezzabili, non sarebbe poco, basti pensare che se nessuno parlava, non ci sarebbero state neanche quelle dieci unità di contributo positivo.

    E siccome fra coloro che oggi hanno molte cose da dire sono principalmente i giovani, io insisto ancora, quasi portavoce di Padre Mosé: fate parlare i giovani, lasciate parlare i giovani e fermatevi un momento ad ascoltarli, date peso alle loro idee, soppesatele bene, vagliate minutamente quanto dicono, non scartate così, di primo acchito quanto esprimono: “PUO’ DARSI CHE ABBIANO RAGIONE”.

    .

    Angelo Bertoglio o.h.

     

     

    .

    E’ UNO SPEZZONE DI STORIA CONTEMPORANEA DEI FATEBENEFRATELLI

    Un documento storico che si ripropone  alla vigilia di una svolta importante:   IL CAPITOLO GENERALE STRAORDINARIO 2009.

     

    OPZIONI ’70

     

     

    OPZIONI ’70

     

     

     

    Centro Studi Fatebenefratelli – Erba (Como)

     

    Gennaio 1970  -  Anno I  -  N. 1

    SOMMARIO

    1. Editoriale (d. nocent)
    2. Ai nostri fratelli (équipe)
    3. “Regula aurea” (c. medaglia)
    4. Comunità e individuo (f. zecchini)
    5. La formazione della personalità nella vita religiosa (a cura di T. Quadri)
    6. l dialogo (s.manera)
    7. Per una sana educazione affettiva (p. zamborlin)
    8. Una certa coscienza di Povertà
    9. Dall’Osservatore Romano (Maria Soledad Torres Agosta sugli altari)
    10. Preghiera di uno che non sa più pregare.

    EDITORIALE

    Non ci è dato di sapere  che cosa ci riserveranno gli anni ’70. Saranno certamente di grandi impegni e decisioni. Forse anche di successi.

    • La scienza è impegnata nella lotta contro il cancro;
    • i politici  nel ristabilimento di una pace e sicurezza mondiale e nell’impostazione di una economia di sviluppo del terzo mondo;
    • la Chiesa deve dare una risposta vitale ai grandi problemi del Concilio Vaticano II.
    • Anche la nostra Fraternità dovrà fare una profonda revisione di vita per mettersi in sintonia con la storia e tradurre vitalmente i “segni dei tempi”. Con il Capitolo Generale speciale, ma non soltanto.

    “OPZIONI  ‘ 70″ perche?

    Dire opzione è dire scelta, preferenza deliberata. Questa scelta si presenta come una ricerca e una interpretazione; è legata a una certa lettura – sempre discutibile – di un mondo in evoluzione e della vita religiosa in trasformazione.

    A ciascuna epoca appaiono linee di sensibilità profonda che generano comportamenti e modi di essere: questi tratti fondamentali indicano alla nostra fede qual è il conntrassegno dello Spirito  sul nostro tempo, il suo cammino e il suo campo d’azione più favorevole.

    “OPZIONI  ‘ 70″, che non ha niente di esclusivo, vorrebbe tentare di rispondere a questi “segni”.

    Più volte ci ha tormentato il pensiero della sua accoglienza nelle comunità. Sarà inteso come strumento di contestazione giovanile?

    Ebbene: vuol essere semplicemente un periodico di opinioni e confronti, scritto nella libertà e nella carità e aperto a tutti i Fratelli, in comunione e responsabilità.  Palestra di idee, vuol essere costruttore e apertamente impegnato nella riscoperta del Vangelo, particolarmente di Cristo medico, offerto alla giovane generazione ed anche a quanti giovani non sono forse ormai più, ma conservano freschezza di spirito e tensioni giovanili. Più che di noi, vogliamo parlare di ciò che non siamo e non vogliamo essere . Più che definire (assurda impresa), intendiamo precisare.

    “OPZIONI  ‘ 70″, si colloca al centro di tutti gli slanci che vengono dalla periferia. Vuol  essere

    • punto di convergenza della chiamata  del Signore in tutti i fratelli,
    • vincolo di fratellanza,
    • perno della ricerca comunitaria di perfezione evangelica,
    • momento di verifica della fedeltà allo Spirito.

    Tra uomini, ogni comunione vera esige il rispetto più assoluto della intrinseca dignità dell’altro. Per noi quuesta dignità non è altro che la qualità di “figlio adottivo del Padre”  con la liberta dello Spirito che essa conferisce. E lo Spirito è inventivo, creatore, soffio di un perpetuo rinnovamento.

    Chi scrive e chi legge faranno bene a tenere un atteggiamento di povertà e schiettezza:

    • Povertà dello scrittore che si mette in ascolto dello Spirito e, considerandosi servo della fraternità, riversa in essa il suo carisma.
    • Povertà del lettore che accoglie ogni cosa, senza sospetti, senza nemmeno disprezzo, come una parola che il Padre gli rivolge nello Spirito, attraverso i suoi fratelli e per essi.
    • E schiettezza: piedi a terra e fronte alta , con gl’occhi spalancati sulle cose e sul Cielo.

    Giudicare, discutere, consultare, accettare o rifiutare o modificare devono essere il frutto della fraternità vissuta, non un gesto macchiato da autarchia o autocrazia. Una fraternità non è infatti una semplice agglomerazione di persone, ma esige una osmosi delle intelligenze e dei cuori.

    Noi crediamo all’obbedienza. Essa ci appare ancora una virtù. A patto che i singoli e le comunità siano interessati in un modo attivo e personale nella lettura e nell’interpretazione di questa chiamata di Dio per l’ oggi. Allora diventa più grande  la dignità dell’atto di obbedienza perché è adesione cosciente e amante a un volere divino che si sa incarnato in qualcosa di concreto, percettibile attraverso il segno degli eventi, e di cui si coglie più chiaramente la relazione col mistero della salvezza.

    C’è un domani per i Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio? Crediamo di sì. A patto che le nostre mani non taglino i ponti delle grandi strade del domani. Dice don Primo Mazzolari che “un uomo d’onore non lascia agli altri la pesante eredità dei suoi “adesso” traditi “.

    Iniziamo con speranza perché la causa ci sembra buona. Proseguiremo con gioia se sapremo di aver servito, almeno un poco, agli ideali che abbiamo dichiarato.   .

    D. Nocent

     

     

    Il clima che si respirava era quello del  ’68.  Ma anche del post Concilio Vaticano II. Mentre i voli spaziali occupavano la mente degli scienziati e delle cronache, il Papa faceva quotidianamente i conti con “l’aggiornamento” della Chiesa che sembrava avere dei costi elevatissimi. Le sue parole sono sintomatiche delle tensioni presenti nella Chiesa di allora ma illuminanti anche per il nostro tempo, con vecchie e nuove contraddizioni.

     

     

     

    INDIGNAZIONE – CARITA’ – RISPETTO

     

    Da OPZIONI ’70  – N. 5  Giugno 1970

     

    Questa premessa s’ era resa necessaria per tentar di far passare in modo accettabile sia l’articolo “vigoroso” che Fra Angelo Bertoglio aveva spedito alla redazione per la pubblicazione, che di altre, non meno sincere ma poco diplomatiche riflessioni. Da come sono andate le cose, evidentemente non è risultata convincente.

     

     

    Editoriale

     

    Quando noi affermiamo che certe posizioni di apertura sono tutt’altro che infrequenti, anzi costituiscono il patrimonio mentale ormai comune di una larghissima zona della Chiesa, ci si risponde, con sufficiente sufficienza, che il realtà si tratta di pochi gruppi del dissenso: “isoliti fanatici”, come ormai si dice in Vaticano, tentando di screditarli e metterli in tal modo fuori gioco.

     

    Quella della forma in chi scrive è una questione nevralgica. Molti sono disposti ad accettare i contenuti critici, purché siano espressi in un modo diverso. Ma non è facile distinguere il contenuto dal linguaggio e, in genere, bel giustamente, gli scrittori contestati rifiutano di ammorbidire la forma perché sembra loro di devitalizzare la sostanza. In effetti, un sentimento vivace va espresso con vivacità, un’indignazione va espressa con forza e con violenza. Se la si esprime con dolcezza la si tradisce: non è più indignazione ma puro e semplice dissenso.

     

    C’è differenza tra dissenso e indignazione ed il linguaggio deve registrarlo. Ma la realtà è che non siamo più capaci di indignazione. Forse, quando si critica un linguaggio forte. Si contesta questa legittimità di indignazione o il suo possibile convivere con la carità e con il rispetto. Ma noi non crediamo che le cose siano tra loro incompatibili, e basterebbe un richiamo al linguaggio evangelico per rendercene convinti.

     

    Certo, i nostri critici avrebbero fatto al Signore le medesime obiezioni: che si potevano dire le stesse cose in modo diverso. E invece no: il modo diverso dice cose diverse.

     

    Non si può esprimere tutta la carica di sdegno racchiusa nella formula “razza di vipere” con locuzioni più pacate: magari con “gente poco sincera”. “Gente poco sincera” non vuol dire “razza di vipere” ma assai meno. Insomma, la contestazione della forma non è mai solo della forma ma investe direttamente la sostanza; e l’incapacità di ammettere un linguaggio robusto forse deriva da un certo stile di dipendenza clericale che ci rende incapaci di robusto dissenso.

     

    *   *   *

     

    La verità non si manda a dire per procura. Di particolare interesse è la critica diretta, semplice e franca: critica che, naturalmente, è definita “irriverenza” e peggio. E dobbiamo essere davvero “cortigianizzanti” per ritenere irriverente una diversità di opinione su problemi tanto discutibili.

     

    E’ invece da queste divergenze conosciute ed espresse che nasce una coscienza ecclesiale robusta, filiale e aliena da falsi feticismi. E’ di questa coscienza che abbiamo bisogno noi e di cui più di noi ha bisogno la stessa Autorità, attorniata talvolta da un silenzio osannante che gli nasconde la verità.

     

    Quest’operazione falsificatoria è il servizio peggiore che gli si possa rendere, soprattutto se è reso dai collaboratori più prossimi.

     

    L’Autorità ha bisogno di essere aiutata a sostenuta. Ma per aiutarla non serve la pietosa bugia o l’adulatorio consenso; serve la parola franca e, all’occasione, anche il filiale dissenso.

     

    Non si vien meno al dovuto rispetto e alla necessaria disciplina solo perché si esprime un diverso parere.

    **

     

    “CHI METTE MANO ALL’ARATRO…”

     

    Di Angelo Bertoglio

     

    Una delle interpretazioni al noto testo evangelico potrebbe essere questa: chi mette mano, chi punta su un programma d’azione, lo espone, lo illustra, lo propone entusiasmando i seguaci e poi…si volta indietro, tergiversa nelle idee, cambia rotta illudendo i discepoli e abusando della obbligatorietà di sottomissione cui benevolmente si sono impegnati, costui no, non è atto…

     

    Il Regno dei Cieli esige l’impegno incondizionato di uomini dalle idee chiare, coraggiose, che non ricorrono al sopruso della contraddizione sistematica ingannando se stessi e gli altri. Sì, è vero, questo vale per ogni cristiano, perché in Paradiso o all’Inferno nessuno mai ci va da solo, ma soprattutto riguarda colui che nella comunità ha una giuridica responsabilità di severissimo rendiconto.

    Devo dire che troppe volte ho visto anche nel nostro ambiente religiosi miei fratelli con impressionante leggerezza accedere ai posti di comando quasi desiderandoli…

    E’ incredibile! C’è da dubitare che costoro abbiano coscienza del valore, della natura delle anime che i prendono l’ impegno di guidare e di governare. Perché, si noti bene, non si tratta di cavalli o di macchine per i quali vale una tecnica umana, ma di anime…che valgono quanto vale Dio, di cui sono immagine.

     

    Ebbene, senza tanti preamboli, mi sia lecito dire subito come con questo scritto io intenda entrare in aperta polemica col Padre Provinciale.

     

    Così si è espresso recentemente Mons. Camàra: “ Non parlo contro il Brasile, parlo contro la tortura. Non tradisco il Brasile, lo tradirei se tacessi”. E io dico: “Non parlo contro il Provinciale, parlo contro il suo modo di agire. Non tradisco il Provinciale, lo tradirei se tacessi”.

     

    Il vescovo ha soggiunto. “Quali che possano essere le conseguenze di ciò che dirò stasera,intendo parlarne francamente”. E io ripeto con lui: “Quali che possano essere le conseguenze di ciò che dirò ora, intendo parlarne francamente”.

     

    Mons. Elder Camàra è un ometto fragile, dal volto mobilissimo, che parla in modo convincente senza alzare la voce e quasi ipnotizzando l’uditorio. E appassionato, combattivo, sincero, ardente, commovente pur non trascendendo nel tono. Costui è un uomo di Dio che piace a me come piace a molti.

     

    Il mio Provinciale no. Cosa devo dire? Non piace a me come non piace a molti della nostra piccola comunità religiosa provinciale. Si capisce, piacere a tutti e anche solo a molti, è impresa ardua perché, ragionando con una mentalità ecclesiale, governare le anime non è mestiere, è missione sacrosanta; non occorre un’arte, ci vuole un carisma, una personalità trasparente, tersa come cristallo, che dia prova di sincerità, di lealtà, di saggezza, di sapienza, di…coerenza. E in questo il Leader innamora, attrae, seduce, trascina, s’impone, non tanto con la forza dell’autorità che indispone, spoetizza, ma disponendo con la simpatia che piace o meglio con la carità.

     

    Perché, come asserisce San Francesco di Sales, lui che ne compose anche una preghiera per ottenerla, “la carità è simpatica, è dolce, amabile”. Ed è risaputo come un tale santo si distinse proprio per questa luminosità di carattere acquisito.

     

    Affermando che Padre Pierluigi non si è cattivato la simpatia dei suoi figli in questa maniera, mi affretto tuttavia a premettere il mio più alto sentimento di sudditanza a lui, con ubbidienza e rispetto. E constatando, forse anche con rassegnato stupore, come questo atteggiamento di sudditanza esista in tutti i suoi sudditi, devo tuttavia affermare che a un tale doveroso atteggiamento non è più unita purtroppo l’antica stima e fiducia che da principio godeva.

     

    Soprattutto nel ceto giovanile Pierluigi poteva essere l’emblema dei giovani, il loro prototipo, la personificazione di essi. Furono i giovani a guardare a lui, a volere lui, l’unico che dava loro garanzia di idee giovani e su di lui puntarono i loro voti.

     

    Oggi dobbiamo dire con tristezza, quasi con una stretta al cuore e a nostra confusione di fronte a Dio: ci ha delusi! Non fu l’uomo del tempo, dell’ora presente, come credevamo, come pensavamo, come speravamo… E purtroppo l’uomo di alte responsabilità che fallisce oggi, non può sperare di rifarsi domani; è troppa la vertiginosità con cui gli uomini mutano in un progressivismo tecnologico pari a quello filosofico, e chi si ferma è realmente…perduto !

     

    E rimane travolto lui e tutta la sua compagnia se è ad un posto di responsabilità.

     

    Comunque, per ora, prima che sia ormai  troppo tardi, sperando di scongiurare almeno il peggio, non posso fare altro che ripetere ancora una volta con rassegnato scoramento, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi: pazienza! E ancora una volta, piegati ma non spezzati, sperando sempre con indomito coraggio, non volendo cessare di sognare tempi migliori sempre imminenti, volgiamo il nostro sguardo ai giovani che hanno mentalità fresche, perché solo da essi si può sperare qualcosa, non certo da chi giovane non è più.

     

    Anche il Provinciale ha commesso l’errore di quasi tutti gli anziani: non ha saputo capire, intuire, colpire giusto nel loro presente. Su questo punto, se ce lo permetteranno, quanto, quanto ci sarà da dire! Che il proibircelo sarà l’ultimo errore a consumarsi, poi basta, poi la catastrofe definitiva.

     

    La libertà di pensiero, di parola, è la caratteristica dei tempi nuovi e con questo mezzo caratteristico si dovrà poter cambiare radicalmente le vecchie strutture che sanno di muffa, di antiquato anche nella nostra Istituzione.

     

    Come ogni anno il corpo umano si rinnova biologicamente,  così anche psicologicamente l’uomo, la società, si rinnovano e quello che era dell’anno scorso nella composizione delle idee, nella problematica della vita, , della convivenza, quest’anno è già passato alla preistoria. Bisogna dunque essere capaci di camminare coi tempi, non fermarsi su un metodo acquisito cinque, dieci, vent’anni fa, altrimenti c’è da ridere!  Bisogna aggiornarsi continuamente, cambiare sempre le posizioni con agilità di spirito, agilità che in ultima analisi ci viene dal mistero pasquale. Ogni giorno ci viene proposto ed è lì che dobbiamo costantemente rifarci, In Cristo risorto ( e in coloro che sono risorti con Lui) la prima prerogativa dello  spirito è l’agilità e non la stasi d’intontimento.

     

    Sopra accennai ai mezzi coercitivi usati in Brasile che il vescovo Camàra sdegnosamente condanna. Ma, al dire di P. M: Turoldo, “non esistono solamente campi di concentramento fatti di reticolati, am ci sono anche la prigionia morale e il genocidio dello spirito” (prefazione  a “Libertà dello Spirito” di G. Vannucci).

     

    E nel suo giudizio espresso a riguardo della “Marcia di Parma”, il fratello Dionigi si esprimeva così: “sono uscito per un momento dai silenzi prudenti e dalle calcolate paure” (OPZIONI ’70 – n.2). Bravo Dennis e fortunato te che almeno per un momento hai potuto uscire dalla tortura morale a cui sono sottoposti i nostri poveri spiriti. Io p.e. che da trent’anni subisco in silenzio una tale tortura, questo sia pur anche breve sospirato momento di “libertà” non l’ho provata mai e ne ho il cervello liso a motivo dei continui ininterrotti lavaggi che ho subito e ai quali ho dovuto soggiacere passivamente, dietro l’esempio dei Santi (!?) che i comodi pseudo-maestri di una santità interessata, mi andavano insinuando fino alla ossessione spasmodica.

     

    Il troppo che ho sofferto anch’io da giovane avrò poi occasione di dirlo un’altra volta per denunciare la mentalità ottusa degli anziani che  in ogni tempo, (da secoli, da millenni) ha sempre prevalso sulle forze esplosive fella giovinezza, carica di preziosissima energia dinamica che mai loro hanno saputo sfruttare quale ricchezza donativa di Dio Provvido all’umanità.

     

    Hanno preferito usare solo  e attuare sempre il metodo di un “comodo” negativismo ispirantesi (l’abbiamo detto prima) a cervellotica santità che non vuole disturbi e fastidi. E da ciò il sistema oppressivo di giudici inappellabili a cui solo appartiene (eterni detentori) il diritto di governo assolutista rendendo nulle le nuove vite in germoglio nella fase del loro massimo rendimento, ritardandone lo sviluppo, anzi soffocandone la normale e regolare maturazione intellettiva stabilita dal Creatore a beneficio dell’umanità intera.

     

    Sembra quasi che solo le guerre siano capaci di rivoluzionare questa ottusa mentalità a carattere tradizionalista impostata unicamente sulla saggia esperienza, refrattaria, ostile al rischio.

     

    L’attempata esperienza che certo non è da disprezzarsi da nessuno, deve essere integrata dalla fresca intelligenza e dal genio dei giovani. Deve accettare il contributo costruttivo anche di chi esperto non è ma ha una maggiore apertura mentale ed è più informato e aggiornato. Altrimenti, il conflitto tra giovani e anziani è inevitabile e continueremo a perdere le migliori speranze.

     

    Ora dunque basta. E’ l’ora della rivendicazione sacrosanta delle forze nuove, delle energie fresche, delle menti aggiornate, delle anime giovanili, agili.

     

    Avanti anche a chi con ottant’anni sulle spalle ha saputo conservarsi un’anima non aggravata dalla deleteria psicosi dell’ottusità.

     

    Quello che fa tanto male anche a me è il constatare come si siano persi due anni preziosissimi, o almeno non impegnati come si doveva, in questa urgente conquista di libertà, di democratica convivenza comunitaria fondata su solide basi di carità che vuole il bene temporale (prima che Eterno) di tutti e non solamente di chi comanda. Dio di nulla è più geloso che della libertà dell’uomo.  Prerogativa dell’uomo di “essere creato a sua immagine e somiglianza” sta proprio nell’essere libero e volontario nelle sue azioni deliberatamente scelte che lo rendono responsabile, cosciente e maturo.

     

    Un’altra volta,(sempre se ci sarà permesso) torneremo a sviluppare questo tanto profanato, deforma pro e deturpato argomento della personalità del religioso e dell’ubbidienza. Per adesso lasciamolo lì.

     

    In questo avvio di libertà il Fratello Pierluigi quale nuovo Provinciale, ce ne aveva dato ampia speranza, anzi diciamo generosa promessa, quasi iaspettato trionfo. Poi…capovolgimento completo della situazione! Alludo certo alla parte giovani: quale e quanta delusione! A parte i frequenti casi singoli il cui racconto mette tanta tristezza nell’animo, ultima amara constatazione del genere è la lettera di programmazione  “Esercizi Spirituali – Vacanze 1970”: è una cosa avvilente, scoraggiante nel constatare la marcia in dietro di quei pochi passi che  faticosamente si erano fatti in avanti.

     

    Cosa devo dire io? Sì, dirò innanzitutto il mio disappunto personale per tanto errore, E dirò ancora che a questo punto mi si stringe il cuore nel dover rimpiangere la persona di Padre Mosé (nelle sue alte qualità di despota, qualcosa di buono l’aveva anche lui – Dio ce l’abbia in gloria -) che proprio qui a Solbiate  nelle parole di presentazione alla comunità religiosa dei “libri rossi” (formulario per le proposte di rinnovamento delle Costituzioni) disse, tra l’altro, proprio testuali parole di santa memoria che io, sì, mi piace dirlo, ho raccolto come suo testamento spirituale, sua ultima volontà: “Ascoltiamo i giovani (e lo ripeté quasi con insistenza), ascoltiamo i giovani, può d’arsi che abbiano ragione!”.

    Può darsi…Quindi, come sempre nella vita, i casi sono due: o non hanno ragione, come dicono (come hanno sempre detto) gli anziani ora capitanati, come sembra chiaro da un certo atteggiamento politico, dal successore di P. Mosé che, a quanto pare ha cambiato bandiera, ha deluso i giovani (non uso la parola “traditi” che non mi piace), li ha lasciati, “ha volto lo sguardo dall’aratro”; Che…se per caso, a dispetto degli anziani, l’avessero, come io ne sono profondamente convinto? Se l’avessero…quale errore spaventoso e irreparabile sarà allora quello di non averli ascoltati!

     

    E la fatale responsabilità cadrà ancora sugli anziani che da soli, senza i giovani hanno voluto assumersi il delicatissimo e difficile impegno del governo della Chiesa, del Popolo di Dio.

     

    E allora dall’alto se ne avrà l’accusa e non certo la benedizione di P. Mosé che ben ce lo disse, ce ne avvisò, ce ne premunì del pericolo, ci mise in guardia e raccomandò.

     

    E per ascoltare i giovani, certo bisogna farli parlare, o almeno “lasciarli” parlare: “Lasciate che i fanciulli vengano a me e non vogliate ad essi impedirlo” (Mt 19,14).

     

    Mi si dirà subito che i giovani oggi (premesso che si allude qui a i giovani della nostra Congregazione) possono parlare fin troppo! Io invece dico e confermo se volete, che, come non possono dire ancora nulla del tanto che vorrebbero, che hanno da dire, così rimane ancora tutto da dire; al che corrisponde ed equivale il tanto che vorrebbero fare e ancora non hanno fatto perché non possono!.

     

    Ho prova di come il Provinciale abbia loro chiuso la bocca o meglio non ha loro permesso di aprirla addirittura; che più di una volta abbia tagliato loro le gambe, quasi deprimendoli nel loro alto ideale di azione.

     

    Il peggio è che due volte si è fatto sentire da me a parlar male dei giovani: loro atteggiamento, operato, loro presa di posizione! Da me che sento di vivere solo per loro, la cui anima giovanile è la mia passione ospedaliera, il tormento del mio apostolato nella Chiesa, nell’Ordine.

     

    Ho sentito  e strasentito fino alla nausea, letto e strariletto che i giovani vanno diretti, governati, fatti studiare, giocare, pregare, mangiare, viaggiare, lavorare ecc. ecc. , ma mai che abbia avuto conferma anche una sola volta di leggere o sentir dire nell’ambiente religioso F.B.F. che il giovane va amato, mai!

    E pensare che questo è nell’ordine di Dio, questo deve essere nel programma della nostra santità. Non si può avere un’insensata rivalsa sul giovane solamente perché noi giovani non siamo più, o perché il giovane non è anziano come noi, non ha i nostri anni quasi che lui nel pieno diritto alla vita usurpi la nostra. E’ una mentalità sbagliata di persone che uomini non lo saranno mai perché mai raggiungeranno la maturità, la superiorità del pensiero.

     

    Puntiamo dunque il nostro impegno di doverosa santificazione, non solamente sulla fedeltà intransigente ad una pietà unicamente formale (Mt 7, 21), bensì e soprattutto nella conoscenza e nella scoperta inesauribile del Comandamento Nuovo di Gesù, impegno che coinvolge intelligenza e cuore in una infinità di sfumature e rami particolari che richiede l’amore del prossimo.

     

    Nel nostro caso un ramo particolare da amare sono i giovani. E amare i giovani vuol dire entrare nella loro mentalità, capirla, assimilarla, viverla.

     

    Il giovane è molto intuitivo e sensibile e percepisce immediatamente l’atmosfera di affetto che lo circonda. Trovandosi a suo agio, capirà subito di essere in un ambiente religioso bello, ove solo regna carità e amore (Deus ibi est), si guarderà bene dal lasciarlo e ripagherà amore con altrettanto amore. Si troverà bene perché qui potrà esplicare la sua personalità, trafficare i suoi preziosi talenti avuti da Dio (prestito bancario di altissimo reddito).

     

    I nostri giovani religiosi si aspettano tanto dal Padre Provinciale, onde tendono a lui non una ma quattro mani se ne avessero! In lui si attendono di trovare un vero padre che li ami, che li comprende, sempre pronto ad accoglierli a braccia aperte, a incoraggiarli nei loro entusiasmi, a compatirli nei loro errori che essi per primi sanno ammettere quando ci sono, a sostenerli nelle loro debolezze.

     

    Il giovane come è facile all’entusiasmo così è facile  allo scoramento, onde nei suoi sbagli ha bisogno di sentirsi non declassato con brutale drasticità, ma aiutato con amore a correggersi, a rialzarsi se caduto.

     

    Se un’infinità di giovani è uscito dalle nostre file è unicamente perché nessuno li ha sostenuti nelle loro crisi giovanili, molte causate dal non poter “fare”, onde vedevano le loro persone intristirsi miseramente in un andazzo di vita metodica tipicamente conventuale di sapore tutt’ora medioevale.

     

    Anziché paternamente e fraternamente intesi, si son sempre visti da tutti solo biasimati, criticati, quasi tollerati e persino disprezzati dall’arroganza dei saggi anziani.

     

    Ma consolatevi o seniori (e ora lo sono già anch’io che scrivo)!  Ne andranno via ancora, ne usciranno ancora dalle nostre file, tutti forse, fin che non ci decidiamo, fin che noi non ci rendiamo capaci di renderci “giovani coi giovani” come ad esempio Don Barra, di cui io leggo sempre le numerose rubriche per i giovani.

     

    Il peggio è che nessuno più è disposto ad entrarvi perché sanno (abbiamo già detto come il giovane è intuitivo e ora poi intelligente più che mai) che “dai frati c’è casino”, come ho sentito io qualche domenica fa dai ragazzi che ho avvicinato in un oratorio. Alludevano proprio al dissidio tra due mentalità: conservatrice e innovatrice che loro sanno esista anche nei conventi, e se ne guardano bene dal cascarci dentro.

     

    Il nostro ambiente religioso non è atto a ricevere i giovani della società di oggi, onde è impossibile che un ragazzo dall’esterno si innamori, se ne entusiasmi, è letteralmente impossibile.

     

    Portarne io qui le testimonianze, enunciarne i motivi concreti? Oppure farne le accuse, tentare una diagnosi?

     

    E’ cosa audace quasi impossibile con tanta diffidenza, permalosità, personalismi, disistima nostra interna! Non sarei creduto: “nemo propheta in domo sua”.  Ma che il profeta venga dall’esterno, se ne disilluda ognuno. La situazione peggiorerà sempre più, fino allo sfacelo fino all’annullamento forse di tutta un’istituzione vecchia, oggi che fioriscono quelle nuove con nuovi concetti costituzionali, nuovi metodi formativi, nuove strutture. L’ha detto anche Gesù: “è impossibile mettere una pezza nuova su un vestito vecchio o vino nuovo in botti vecchie”. E’ lui non sbaglia mai.

     

    Io speravo che queste cose bel le sapesse il Provinciale (che sarebbe stato già troppo triste il dovergliele far capire), e invece…

     

    Certo questa mia polemica susciterà la reazione non solo da parte sua, ama anche da parte dei suoi sostenitori che non mancheranno di gridare allo scandalo e soprattutto di chi ha contribuito con tutte le sue forze a infangare il suo bellissimo programma iniziale di coraggiosa apertura. Comunque, sono pronto a subirle tutte e  a combattere. Però mi siano fatte con lealtà e apertamente alla luce del sole e non ancora con l’antico sistema poliziesco che perdura anche nei conventi come nella Chiesa, quella degli uomini, s’intende, non quella di Dio.

     

    Del resto, noi non intendiamo litigare, scendere a dissidio, creare partiti e schierarci per la battaglia, no, ma unicamente intendiamo scendere, si noti bene: “scendere”. Quindi un po’ di umiltà anche da parte dei superiori come dei sudditi per un dialogo aperto e sincero sullo stesso piano, quale espressione di buona volontà da parte di tutti per attuare quel bene che urge l’impegno di tutti con sincerità e sacrificio.

     

    Sacrificio-rinuncia all’amor proprio che non può sopportare la critica sfavorevole perché troppo farisaicamente avido di lode e plauso. Onde, quasi indicando un’ultima tavola di salvezza, voglio scongiurare in ginocchio a mani giunte il Provinciale (e consigliare i suoi collaboratori a farlo): non chiudete più la bocca a nessuno (salvo si denoti in chi parla cattiva volontà, cattiveria di mal’intenzionati che, del resto, è subito individuabile). Che se non basta un periodico =OPZIONI ’70) se ne dia vita ad un altro, purché tutti possano dire e ridire, nel tentativo di costruire e di rimuovere.

     

    Su mille cose dette, anche se solo dieci risultassero apprezzabili, non sarebbe poco, basti pensare che se nessuno parlava, non ci sarebbero state neanche quelle dieci unità di contributo positivo.

     

    E siccome fra coloro che oggi hanno molte cose da dire sono principalmente i giovani, io insisto ancora, quasi portavoce di Padre Mosé: fate parlare i giovani, lasciate parlare i giovani e fermatevi un momento ad ascoltarli, date peso alle loro idee, soppesatele bene, vagliate minutamente quanto dicono, non scartate così, di primo acchito quanto esprimono: “PUO’ DARSI CHE ABBIANO RAGIONE”.

    .

    Angelo Bertoglio o.h.

     

    UDIENZA GENERALE DI PAOLO VI

    Mercoledì, 15 luglio 1970 P. Gabriele Russotto o.h. Postulatore Generale e storico dell’Ordine, ricevuto da Paolo VI. 

    Abbiamo parlato tante volte, in queste Udienze generali, del Concilio, sempre in termini elementari per adeguarci alla natura di questi incontri brevi e familiari, e ci accorgiamo che molto, per non dire tutto, resterebbe da dire. Avremo sempre modo, a Dio piacendo, di ritornare a questa grande scuola per trarne insegnamenti antichi e nuovi, e specialmente per avere lumi direttivi all’opera di «aggiornamento» (secondo la celebre parola del nostro venerato predecessore Papa Giovanni XXIII, nel suo discorso di apertura del Concilio ecumenico), cioè all’opera di adattamento della vita e della esposizione della dottrina della Chiesa, sempre salva l’integrità della sua essenza e della sua fede, alle esigenze della sua missione apostolica, secondo le vicende della storia e le condizioni dell’umanità, a cui tale missione si rivolge.

    Ma siamo tutti desiderosi di spostare lo sguardo dal Concilio al Post-Concilio, cioè ai risultati che da esso sono stati generati, alle conseguenze che ne sono derivate, all’accoglienza che la Chiesa ed il mondo hanno fatto agli avvenimenti e agli insegnamenti conciliari. Il Concilio, come episodio storico, è già di ieri; il nostro temperamento moderno ci porta a guardare al presente, anzi all’avvenire. Il Post-Concilio assume ora grande interesse. Quali effetti ha prodotto il Concilio? quali altri può e deve produrre? Tutti siamo convinti che cinque anni dalla conclusione del Concilio non bastano per dare su di esso e sulla sua importanza, sulla sua efficacia un giudizio esatto e definitivo; e siamo tuttavia tutti parimenti convinti che il Concilio non si può dire concluso allo scadere della sua durata, come succede di tanti avvenimenti che il tempo, passando, seppellisce e consente che solo gli studiosi delle cose morte ne conservino viva la memoria. È il Concilio un avvenimento che dura, non solo nella memoria, ma nella vita della Chiesa, e che è destinato a durare, dentro e fuori di lei, per lungo tempo ancora.

    TENSIONI, NOVITÀ, TRASFORMAZIONI

    Questo primo aspetto del Post-Concilio meriterebbe lunga considerazione, non foss’altro per determinare se l’eredità del Concilio è semplicemente una permanenza, o se è anche un processo in via di sviluppo; per stabilire cioè quali insegnamenti esso ci ha lasciati da ritenere stabili e fissi, come in genere succedeva dopo gli antichi Concili conclusi con delle definizioni dogmatiche, ancora oggi e per sempre valide nel patrimonio della fede; e quali altri esso ci ha annunciati da svolgere e da sperimentare in una successiva fecondità, come è da supporre che principalmente lo siano quelli del Vaticano secondo, qualificato piuttosto come Concilio pastorale, cioè rivolto all’azione. Esame questo importante e difficile, che non senza l’assistenza del magistero ecclesiastico può essere via via compiuto.

    Un secondo aspetto, che impegna oggi l’attenzione di tutti, è lo stato presente della Chiesa, posto a confronto con quello anteriore al Concilio; e siccome lo stato presente della Chiesa si può dire caratterizzato da tante agitazioni, tensioni, novità, trasformazioni, discussioni, eccetera, subito i pareri si dividono: chi rimpiange la supposta tranquillità di ieri, e chi gode finalmente dei mutamenti in corso; chi parla di disintegrazione della Chiesa e chi sogna il sorgere d’una nuova Chiesa; chi trova che le novità siano troppe e troppo rapide, e quasi sovversive della tradizione e dell’identità della Chiesa autentica; e chi invece accusa lento e pigro e forse reazionario lo svolgimento delle riforme già compiute o iniziate; chi vorrebbe ricostituire la Chiesa secondo la sua figura primitiva, contestando la legittimità del suo logico sviluppo storico; e chi vorrebbe invece sospingere questo sviluppo nelle forme profane della vita corrente fino a dissacrare e a secolarizzare la Chiesa, disgregandone le strutture a vantaggio d’una semplice, gratuita e inconsistente vitalità carismatica; e così via. L’ora presente è ora di tempesta e di transizione. Il Concilio non ci ha dato, per adesso, in molti settori, la tranquillità desiderata; ma piuttosto ha suscitato turbamenti e problemi, certamente non vani all’incremento del regno di Dio nella Chiesa e nelle singole anime; ma è bene ricordare: questo è un momento di prova. Chi è forte nella fede e nella carità può godere di questo cimento (Cfr. S. TH. IIª-IIæ, 123, 8).

    È NECESSARIO VIGILARE

    Non diciamo di più. Le riviste e le librerie sono inondate di pubblicazioni circa la fase feconda e critica della Chiesa nella stagione storica Post-conciliare. Occorre vigilare. Lo Spirito di scienza, di consiglio, di intelletto e di sapienza è oggi da invocare con particolare fervore. Fermenti nuovi si agitano d’intorno a noi; sono buoni, o nocivi? Tentazioni nuove e doveri nuovi balzano davanti a noi. Ripetiamo le esortazioni di San Paolo: «Sempre siate lieti. E pregate senza smettere mai. In ogni cosa rendete grazie (a Dio); perché questa è la volontà di Dio, a voi manifestata in Gesù Cristo. Non spegnete lo spirito. Le profezie non le trascurate. Tutto esaminate; ritenete ciò ch’è buono. Da ogni specie di male astenetevi» (1 Thess. 5,16-22).

    Aggiungeremo semplicemente la raccomandazione ad una triplice fedeltà.

    Fedeltà al Concilio: procuriamo di conoscere meglio, di studiare, di esplorare, di penetrare i suoi magnifici e ricchissimi insegnamenti. Forse la loro stessa abbondanza, la loro densità, la loro autorità ha scoraggiato molti dalla lettura e dalla meditazione di così alta e impegnativa dottrina. Molti, che parlano del Concilio, non ne conoscono i meravigliosi e poderosi documenti. Alcuni, a cui preme più la contestazione e il cambiamento precipitoso e sovversivo, osano insinuare che il Concilio è ormai superato; serve, essi osano pensare, solo per demolire, non per costruire. Invece chi vuol vedere nel Concilio l’opera dello Spirito Santo e degli organi responsabili della Chiesa (ricordiamo la qualificazione teologica del primo Concilio, quello di Gerusalemme: Visum est Spiritui Sancta et nobis, è parso allo Spirito Santo e a noi . . . . ) (Act. 15, 28) prenderà in mano con assiduità e riverenza il «tomo» del recente Concilio, e procurerà di farne alimento e legge per la propria anima e per la propria comunità.

    Seconda fedeltà. Fedeltà alla Chiesa. Capirla bisogna, amarla, servirla, promuoverla. Sia perché segno e perché strumento di salvezza. Sia perché oggetto dell’amore immolato di Cristo: Egli dilexit Ecclesiam et se ipsum tradidit pro ea, amò la Chiesa e diede se stesso per lei (Eph. 5, 25). E sia perché noi siamo la Chiesa, quel corpo mistico di Cristo, nel quale siamo vitalmente inseriti, e nel quale avremo noi stessi la nostra eterna fortuna. Questa fedeltà alla Chiesa, voi lo sapete, è oggi da molti tradita, discussa, interpretata a modo proprio, minimizzata; cioè né compresa nel suo profondo e autentico significato, né professata con l’ossequio e la generosità che, non per nostra mortificazione, ma per nostro esperimento e nostro onore, essa si merita.
    E finalmente: fedeltà a Cristo. Tutto è qui. Non vi ripeteremo soltanto le parole di Simone Pietro, del quale siamo miseri, ma veri successori, e sulla tomba del quale ora qui ci troviamo: «Signore, a chi andremo noi? Tu solo hai parole di vita eterna» (Io. 6, 69).
    Fedeltà a Cristo. Questo deve essere il Post-Concilio, Fratelli e Figli carissimi. Con la Nostra Apostolica Benedizione.

    SAN GIOVANNI GRANDE O.H. – Patrono di Asidonia-Jerez

    [San+Juan+Grande+3.jpg] miércoles 3 de junio de 2009

    LA DIÓCESIS DE ASIDONIA-JEREZ HA CELEBRADO EN EL DÍA DE HOY A SU PATRÓN, EL SANTO HOSPITALARIO JUAN GRANDE ROMÁN

    Una imagen suya ha recorrido esta tarde, en una solemne procesión, las calles de los barrios próximos a su Santuario en Jerez de la Frontera

     

    El día de San Juan Grande, religioso de la Orden Hospitalaria de San Juan de Dios y Patrón de Asidonia-Jerez, ha sido celebrado, a lo largo del día de hoy, en esta Diócesis que ha culminado un triduo en su honor que se ha venido celebrando desde el pasado lunes en la Santa Iglesia Catedral.

     Hoy, en el Santuario de San Juan Grande que acoge las reliquias expuestas a la veneración de los fieles, ha tenido lugar la celebración de la Eucaristía, a cargo del deán del Cabildo Catedral, monseñor José Luis Repetto Betes, y posterior procesión que, con la imagen del Santo, ha recorrido las calles y plazas de los barrios aledaños a su Santuario.

     
    Su imagen en el Corpus
    Aún resta la presencia, en la procesión del Corpus Christi de Jerez, el próximo domingo día 14 de junio, de la imagen de San Juan Grande que tiene al culto la Santa Iglesia Catedral. Esta presencia es habitual desde hace muchos años en esta solemnidad eucarística.
     
     
    martes 26 de mayo de 2009

    TRIDUO EN HONOR A SAN JUAN GRANDE, PATRÓN DE LA DIÓCESIS

     

    Tendrá lugar los días 1, 2 y 3 de junio próximo en la Santa Iglesia Catedral
    La Santa Iglesia Catedral acogerá, con motivo de la fiesta de San Juan Grande, los siguientes cultos en honor de quien es Patrón de la Diócesis de Asidonia-Jerez:
     
     
     
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    martes 3 de junio de 2008

    LOS FIELES HAN TOMADO EL SANTUARIO DE SAN JUAN GRANDE, PATRÓN DE LA DIÓCESIS, EN EL DÍA DE SU FIESTA

     

    La función en su honor ha acogido, esta tarde, la presentación de la reliquia recientemente certificada por el antropólogo Miguel Cecilio BotellaContaba la celebración con el atractivo añadido de la presentación, en el nuevo relicario realizado en los talleres de orfebrería de Olioz, en Rota, del hueso húmero que hace unos meses fuera certificado como auténtico de San Juan Grande tras un estudio científico que fue encargado a Miguel Cecilio Botella, catedrático de Antropología de la Universidad de Granada, en cuyo laboratorio se efectuaron estos trabajos y que se ha hecho presente en la función al Santo.
     
    Esta tarde, durante la homilía de Repetto en esta función al Patrón de la Diócesis, quedó subrayada la importancia del trabajo efectuado, cómo quedará expuesta en mejor modo a partir de ahora esta pieza ósea -toda vez que su relicario ocupa lugar en el retablo de mármol del Santuario- y cómo ello ha de redundar en la mayor devoción a San Juan Grande, religioso hospitalario de la segunda mitad del XVI que es ejemplo de entrega a los demás.
     

     

    El Santuario de San Juan Grande ha sido objeto, a lo largo del día de hoy, de multitud de visitas con motivo de la celebración de la fiesta de quien es Patrón de la Diócesis de Asidonia-Jerez. Con todo, ha sido por la tarde, en la función solemne oficiada por José Luis Repetto Betes, deán-presidente del Cabildo Catedral y fecundo investigador de la figura del Santo, cuando, en mayor medida, se concitó la atención de los fieles, que acudieron en masa.

     

     
     
     


    viernes 30 de mayo de 2008

    LA FUNCIÓN EN HONOR A SAN JUAN GRANDE ACOGERÁ LA PRESENTACIÓN DE UNA NUEVA RELIQUIA CERTIFICADA

     

    Esta celebración de la Eucaristía, tras triduo en la Catedral, tendrá lugar en el Santuario del Patrón diocesano el 3 de junio próximo
    La reliquia, consistente en el húmero izquierdo del cuerpo del Santo, ha sido estudiada por el profesor Miguel Cecilio Botella, catedrático de Antropología de la Universidad de Granada, adonde se llevó y fue examinada en el Laboratorio de Antropología de la Facultad de Medicina de dicha Universidad, dándose como resultado un informe positivo. En vista del mismo el Sr. Obispo de Jerez concedió con fecha 15 de Mayo de 2007 autorización para que pudiera ser expuesta a la veneración de los fieles como reliquia de santo.

    El día de su fiesta, el martes 3 de junio, tendrá lugar, aunque ya en el Santuario de San Juan Grande, la mencionada función en su honor que, a las 19,00 horas, oficiará, ante sus sagradas reliquias, D. José Luis Repetto Betes, deán-presidente del Cabildo Catedral.
     

    Ahora se le ha hecho un adecuado relicario en los Talleres Olioz, de Rota, y será presentada a los fieles al comienzo de la misa solemne del día 3. Esa reliquia la donó a los Hermanos de San Juan de Dios al comienzo de su nueva estancia en Jerez la dama Doña Carmen Romero, y procedía de la Capilla de las Reliquias de la Cartuja, de donde se sacó en 1810. La reliquia va a quedar expuesta en el retablo de mármol del Santuario.

    Triduo desde mañana en la Catedral

     

    Previamente a la celebración de la función de su día, tendrá lugar, en la Santa Iglesia Catedral y como ya habíamos dado a conocer, un triduo que se desarrollará según el siguiente programa:

     


    ·El sábado 31 de mayo, a las 19,30 horas, con homilía a cargo de D. Manuel J. Barrera Rodríguez, Vicario Parroquial del Salvador y San Dionisio.
    ·El domingo 1 de junio, a las 21,00 horas, con homilía a cargo de D. Miguel Ángel Montero Jordi, Párroco de San Juan B. de la Salle.
    ·El lunes 2 de junio, a las 20,00 horas, con homilía a cargo del P. Ezequiel Villanueva O.H.

     

    El próximo día 3 de Junio, con motivo de la festividad de San Juan Grande, Patrón de la Diócesis, quedará expuesta en el Santuario de su nombre a la veneración de los fieles una reliquia del Santo que, aparte del conjunto de sus restos preservados en la urna que preside el templo, hasta ahora se conservaba pero sin haberse certificado su autenticidad. Esta certificación es la que ha procurado el R.P. Teodoro de Juan O.H., capellán del Santuario y gran promotor de la devoción al Santo.

     

     
     
     

    miércoles 28 de mayo de 2008

    LA CATEDRAL ACOGERÁ DESDE EL PRÓXIMO SÁBADO EL ANUAL TRIDUO EN HONOR A SAN JUAN GRANDE, EL PATRÓN DIOCESANO

     

    La función solemne con que se conmemorará su fiesta tendrá Catedral, según el siguiente programa:

    ·El sábado 31 de mayo, a las 19,30 horas, con homilía a cargo de D. Manuel J. Barrera Rodríguez, Vicario Parroquial del Salvador y San Dionisio.
    ·El domingo 1 de junio, a las 21,00 horas, con homilía a cargo de D. Miguel Ángel Montero Jordi, Párroco de San Juan B. de la Salle.
    ·El lunes 2 de junio, a las 20,00 horas, con homilía a cargo del P. Ezequiel Villanueva O.H.

    Los días 1, 2 y 3 de Junio a las 20,00 horas, con la celebración de la santa misa y homilía por Monseñor José Luis Repetto, deán del Cabildo Catedral.

    INTENCIONES DEL TRIDUO :

    Día primero : Que el Santo Padre Benedicto XVI sea firmemente valorado por todos los cristianos en su defensa de la santidad del matrimonio y de la vida humana.

    Día segundo: Que en todo el mundo se humanice la hosplugar, el día 3 de junio, en su Santuario y ante sus sagradas reliquias

    El día de su fiesta, el martes 3 de junio, tendrá lugar, aunque ya en el Santuario de San Juan Grande, solemne función en su honor que, a las 19,00 horas, oficiará, ante sus sagradas reliquias, D. José Luis Repetto Betes, deán-presidente del Cabildo Catedral.

    La Diócesis de Asidonia-Jerez se prepara para celebrar los cultos que anualmente dedica a su Patrón, San Juan Grande, jerezano de adopción y carmonense de cuna de la segunda mitad del siglo XVI a quien se debe la reforma de hospitales a él encargada en la ciudad de Jerez. La santidad de su vida, entregada a los apestados y demás enfermos, le llevó a perderla infectado por aquellos de quienes todos se apartaban y a los que él convirtió en el centro de su atención. Fue canonizado en 1996 por Su Santidad el Papa Juan Pablo II, ya patronazgo sobre la Diócesis ya fue concedido incluso antes de su canonización y en su honor se celebra triduo anual, en la Santa Iglesia italidad, para que los enfermos sean tratados conforme a su condición de personas humanas.

    Día tercero: Que todos los cristianos sientan la necesidad y la obligación de difundir el evangelio para la salvación del mundo.

    El último día se dará a besar la Reliquia del Santo.

    II.- PRESENCIA EN LA PROCESIÓN EUCARÍSTICA.

    Como en años anteriores, el paso con la hermosa imagen de San Juan Grande, costeada en 1900 por suscripción popular, figurará la procesión del Santísimo Corpus Christi, escoltada por varias hermandades de la Catedral.

      

    MONSEÑOR MAZUELOS UNIÓ, EN SAN JUAN GRANDE, LA ACCIÓN DE GRACIAS POR SU ORDENACIÓN Y LA JORNADA PRO ORANTIBUS

    El nuevo obispo de Asidonia-Jerez presidió, en el Santuario del Patrón de la Diócesis, la Eucaristía con gran presencia de religiosas de diversos monasterios

    Monseñor José Mazuelos Pérez, obispo de Asidonia-Jerez ordenado en el día de ayer, ha celebrado la Eucaristía de acción de gracias este mediodía en el Santuario de San Juan Grande, Patrón diocesano. Ante una asamblea de fieles con gran presencia de religiosas de los diversos monasterios de la Diócesis así como religiosos como los pertenecientes a la Orden Hospitalaria de San Juan de Dios en cuya casa tenía lugar la misa, ha contado con la concelebración, entre otros, de José Palomas, vicario de Pastoral, de Ramón Mera, delegado diocesano para la Vida Consagrada.


    Su homilía no ha olvidado ninguno de los elementos que este domingo era menester tener en cuenta. Así, mencionó la celebración del día de la Santísima Trinidad, que hoy recoge el calendario litúrgico, para abundar en el misterio de Dios, “que no es un individuo solitario sino que vive su existencia en comunidad”. Desde ese misterio alcanzó a hablar del misterio del hombre, “del que tanto sabéis en este centro (dijo sobre las instalaciones del Hospital San Juan Grande) y bajo el ejemplo de aquél cuyas reliquias veneramos en este Santuario”.

    La realidad del misterio de Dios y del hombre, que quiso subrayar en esta intervención de su misa de acción de gracias, le condujo a lamentar el materialismo del mundo actual, que con tanta facilidad lleva a poner en solfa tantos valores como el de la vida que mencionó evidenciando sutilmente sus inquietudes al respecto tanto desde su condición de eclesiástico como de médico especialista en asuntos bioéticos. Sus palabras, sin embargo, estuvieron cargadas de esperanza y marcadas por un mensaje en el que encomendaba al Espíritu Santo.

    PER UNA CULTURA CRISTIANA – Card. Giacomo Biffi

    di Giacomo Biffi, cardinale

     

    Partendo dai molti significati della parola cultura, mons. Biffi evidenza le caratteristiche della cultura cristiana e l’intima connessione con le fede. Riconciliazione nella verità.[da una lettera del 1985]

    Premesse

    1. Arrivato imprevedutamente alla guida della Chiesa bolognese, mi avvedo che la connessione fede-cultura e la problematica che ne consegue si impongono con urgenza come oggetto necessario della mia riflessione di pastore. E al tempo stesso si impongono a chiunque voglia capire la vocazione e l’anima di questa città. La fede cristiana marca fortemente la storia di Bologna: ne sono testimonianza i mille segni religiosi che si incontrano nelle sue strade e nelle sue piazze. E non sono memorie di un passato estinto per sempre: basterebbe a convincercene lo spettacolo annuale dell’omaggio alla Madonna di san Luca e le molteplici iniziative di carità che fioriscono tra noi, senza chiasso ma con ammirevole efficacia.

    Ma questa è anche una città che respira cultura: la presenza tra le nostre mura di una grande Università, che fin dal Medioevo ha reso celebre il nostro nome nel mondo, caratterizza in questo senso tutta la nostra vita associata. Così mi è parso doveroso dedicarmi un poco a questo tema, che del resto entro le comunità crístiane attira da qualche anno molta attenzione. La mia riflessione vuole avere un’indole spiccatamente pastorale: si rivolge in primo luogo ai credenti e mira a illuminare e a rinvigorire la nostra vita ecclesiale; ma potrà suscitare qualche interesse per quanti siano persuasi che l’esatta determinazione dei concetti è premessa indispensabile per un fruttuoso dialogo tra uomini che siano, pur se con ideali diversi, liberi, onesti, riflessivi.

    2. La natura propriamente pastorale del discorso mi consiglia di limitare la mia attenzione alla questione   preliminare in un certo senso, ma decisiva per le possibili implicazioni   dell’esistenza, della possibilità, della necessità di una “cultura cristiana”. C’è, anche tra i credenti, chi rifugge dal parlare di cultura cristiana nel lodevole proposito, crederei, di non costringere i letterati, i filosofi, i pittori, i musicisti   e in genere gli uomini colti e creativi che professano di aderire al Vangelo   a tagliarsi fuori dalla variopinta complessità del mondo culturale moderno per rinchiudersi nelle angustie della provincia ecclesiastica e confessionale. Sicché si ama parlare al massimo di “cultura dei cristiani”. Per contro Giovanni Paolo II esorta ripetutamente a “non far mancare una forte, seria, operosa presenza culturale cattolica”. “La cultura cattolica   dice   non deve mancare” (1). E non è un pensiero proprio ed esclusivo del papa polacco: Paolo VI si esprimeva nell’identico modo; tanto è vero che (come rileva in uno studio accurato Enzo Giammancheri) “usa senza velatura alcuna l’espressione “cultura cristiana”, anzi “cultura cattolica”, aggiungendo sovente la precisazione che si tratta della “nostra” cultura, distinta dalle altre e idonea a qualificare in modo originale il pensiero e l’azione dei credenti. In lui non c’è dubbio in proposito”(2).

    3. Non mi pare si tratti di una questione puramente verbale. O, se si vuole, è probabilmente uno dei casi dove la diversità di linguaggio è sicuro indizio di opposte visioni sulla natura delle cose; è dunque un problema che chiede di essere seriamente considerato. E’ comunque certo che anche qui, senza una sufficiente determinazione dei concetti e dei termini, s’instaura inevitabilmente il regno dell’approssimazione, dell’equivoco, del malinteso. A questa chiarificazione il mio intervento vuol essere un piccolo contributo, offerto nella persuasione che le idee chiare e distinte sono la premessa inderogabile di ogni auspicata concordia e di ogni accresciuta vitalità ecclesiale; o almeno nella convinzione della necessità che, se proprio si deve discutere e litigare tra cristiani, l’oggetto del contendere sia identicamente compreso da tutti.

    I. I significati fondamentali di “cultura”

    Cultura” è oggi parola usatissima e quasi mitica, come in altra epoca la parola “progresso”. La si ritrova ricordata ed esaltata da tutte le parti; e da tutti è citata come indicativa di un “valore”. Ma quale sia questo valore raramente si dice.

    E’ anzi evidente che il vocabolo esprime, a seconda dei contesti e a seconda di chi se ne serve, contenuti tra loro molto diversi. Qualche volta appare cangiante di senso perfino nello stesso discorso, nella stessa pagina, nella stessa frase. In molti casi neppure si avverte l’oscillazione semantica, così che il risultato è una bella confusione.

    La ragione storica di questa incontrollata e quasi inconsapevole pluralità sta nel fatto che la parola da un paio di secoli ha assunto via via significati nuovi, senza che le accezioni già in uso siano mai cadute dalla coscienza comune.

    Decine e decine sono le definizioni di “cultura” che sono state date, ciascuna con qualche particolarità sua e qualche elemento proprio. Una loro sia pur sommaria rassegna non entra per fortuna nell’oggetto del nostro discorso “pastorale”. Ci limiteremo a indicare soltanto alcuni pochi concetti fondamentali, sufficienti a fare un po’ d’ordine e a portare il minimo di distinzione indispensabile perché non insorgano ambiguità.

    I significati di “cultura” atti a farci raggiungere i nostri intenti ci sembrano fondamentalmente tre; questa distinzione   che apparirà ed è largamente opinabile   è quella che ci sembra più funzionale ai fini della chiarificazione pastorale che ci siamo proposti. Attorno a questi tre concetti si organizza la prima parte della nostra esposizione (3).

    1 La “coltivazione dell’uomo”

    • a) Il primo significato   o,  se si vuole, il primo gruppo di significati   proviene da una immagine di origine agricola, che viene piegata a esprimere un avvenimento dello spirito: cultura è la “coltivazione dell’uomo nella sua vita interiore” (4).

    Nel mondo classico, dove questa idea nasce e si afferma, si è anche universalmente persuasi che tale coltivazione possa e debba attuarsi mediante i “valori assoluti”: coltivazione dell’uomo mediante il vero, il bene, il giusto, il bello. Solo la verità, la bontà, la giustizia, la bellezza sanno nutrire l’uomo, l’aiutano a crescere, ne fanno sbocciare tutte le virtualità.

    Questa coltivazione comprende anche la “paideia”, cioè l’educazione integrale dell’uomo nella sua prima età; ma non si esaurisce in essa: prosegue per tutto l’arco dell’esistenza. Inoltre non esclude, anzi formalmente suppone, la possibilità che l’uomo attenda alla coltivazione di se stesso (5).

    • b) Quasi inavvertitamente si passò poi a intendere per “cultura” non solo l’azione in se stessa della “coltivazione dell’uomo”, ma anche il suo risultato. La parola prese perciò a indicate il patrimonio spirituale acquisito di cui è dotata una persona.

    E, in conformità con la visione classica, tale patrimonio fu individuato nei valori acquisíti di natura intellettuale, morale ed estetica, onde lo spirito è stato arricchito dalla “coltivazione” (6). Fin verso la metà del secolo XVIII non si cono­scono altri contenuti del vocabolo. Esso, come si vede, è sempre fin qui riferito alla vita perso­nale del singolo.

    • c) Con l’esaltazione dell’idea di popolo e di nazio­ne, la parola “cultura” acquista una dimensio­ne, per così dire, “sociale”. E si comincia a parlare della cultura di un paese, di una gente, di una comunità umana.

    In questo senso, la cultura di una società è data  dai mezzi “sociali” di coltivazione dell’uomo e dai suoi risultati “sociali”; e cioè: prima di tutto dalle sue scuole, dai suoi istituti di ricer­ca, dai suoi mezzi di comunicazione e di diffu­sione delle idee; poi dalla sua produzione lette­raria, artistica, musicale, e, più ampiamente e profondamente, dal possesso “sociale” dei “valori” di verità, di giustizia, di bellezza.

    2 La “elaborazione da parte dell’uomo”

    Dalla seconda metà del secolo scorso, a partire dal linguaggio delle discipline antropologiche ed etnologiche, avviene una vera e propria rivo­luzione nel significato di “cultura”.

    L’uomo entra ancora come elemento determi­nante del concetto, ma non più come il destina­tario e il termine di un’azione, bensì come il soggetto e il principio. I valori assoluti oggetti­vi, sempre implicitamente presenti nell’antica accezione, perdono di rilevanza e sono alla fine estromessi: per avere attinenza con la “cultu­ra” intesa così basta l’origine umana.

    Il vocabolo comincia dunque a indicare tutto e comporta dunque una “scala di valori” proposta e accettata entro una determinata comunità. E poiché le “scale” spesso vengono líberamente e perfino arbitrariamente stabilite, molte e diverse possono essere le “culture” presenti in una società, ciascuna delle quali è identificabile per i valori che essa ritiene primari.

    E’ opportuno qui segnalare la radice di una grave e frequente prevaricazione. Se si identifica la “cultura” nella propria gerarchia di valori, è facile cadere nella tentazione di definire incolto, rozzo, subculturale chi si rifiuta di conformarvisi. Dove è evidente l’uso ambiguo della parola “cultura” e la riassunzione surrettizia della sua accezione classica in funzione di condanna, di squalifica o addirittura di insulto.

    Allo stesso modo, capita spesso di trovare definito con spregio come “dogmatica” o “integralista” la posizione di chi è coerente coi propri princìpi, quando questi princìpi sono diversi da quelli di chi si arroga il diritto di sentenziare. In realtà, è storicamente rilevabile che le culture dominanti si succedono mediante l’accettazione e il ripudio di “valori primari”, che senza dimostrazione vengono accolti e senza confutazione vengono abbandonati. Così, nella scena italiana di questo secolo si è potuto ammirare il prevalere via via di una cultura positivista, di una cultura idealista, di una cultura marxista, di una cultura radicale, tutte con la persuasione di esser molto “critiche” e tutte ugualmente asseverative di “certezze iniziali” ritenute indiscutibili e proposte come dogmi di fede, quasi potessero appellarsí a qualche divina rivelazione, della quale noi profani non abbiamo mai avuto notizia.

    II La giusta idea della fede

    Anche l’altro termine del binomio che ci sta interessando   la fede   postula qualche piccola analisi chiarificatrice. Qui però non si tratta di cogliere e di distinguere le diverse accezioni, come a proposito della parola “cultura”, per la quale la varietà dei significati trova nell’uso la sua piena legittimità. Qui bisogna cercare di capire che cosa sia oggettivamente la fede entro l’autentica visione cristiana. Ogni divergente concetto, che oggi sia in circolazione tra gli uomini, va giudicato per quello che è: un travisamento, un’alterazione o una mutilazione dell’idea originaria. In realtà, di solito proprio di mutilazioni si tratta.

    • Talvolta la fede è identificata nel complesso delle costumanze rituali, con l’esclusione di ogni partecipazione dello spirito.
    • Oppure è risolta nel sentimento religioso, non illuminato da alcuna plausibile razionalità.
    • Analogamente, è una mutilazione il pensare la fede come fatto meramente conoscitivo, che chiami in causa solo le facoltà intellettuali; ed è una mutilazione ritenerla il risultato di un processo solo volontaristico.

    1 Una risposta totale

    La Rivelazione ci dice che la fede è una risposta, e può essere capita soltanto se è riferita all’íntervento salvífico del Creatore nella nostra storia.

    • Credere è accoglimento del Dio che ci vuole non solo destinatari ma anche interlocutori e in qualche modo consorti;
    • è accoglimento personale di un Dio che entra nella vicenda non con la parzialità della creatura, ma con la totalità che è propria della divinità: Dio, che è tutto, vuole una risposta integrale.
    • Nella fede perciò tutto l’uomo  ragione, volontà, sentimento, mentalità, cultura, vita   si apre a Cristo, il Signore crocifisso e risorto nel quale tutta la divina dinamica della salvezza si compendia.

    2 Una risposta trasformante

    • Quando accoglie Cristo e diventa interlocutore del Dio che salva, l’uomo si trasforma integralmente.
    • Si trasfigura e si eleva la sua capacità di conoscere, dal momento che credere vuol dire in definitiva vedere Dio, l’uomo, le cose, con gli occhi di Cristo.
    • Nasce nel credente, con la speranza, una nuova capacità di tendere fiduciosamente alla pienezza di vita e di gioia.
    • Gli è dato, secondo la parola del profeta, un “cuore nuovo”, cioè un’altra e ben diversa facoltà di amare: di amare il Padre, di amare i fratelli, di amare ogni creatura.
    • Questa è la virtù teologica della carità, che ci unisce e assimila al Signore Gesù, immagine viva del Padre, archètipo di ogni uomo, somma di ogni bellezza e di ogni valore che nella molteplicità delle cose si dispiega.
    • L’uomo che crede è insomma un “uomo nuovo”, secondo la parola di Paolo: “Se qualcuno è in Cristo, è una creazione nuova”.

    3 Una risposta principio di trasformazione del mondo

    La fede, creando l’“uomo nuovo”, pone le premesse di un mondo nuovo. L’“uomo nuovo” ovviamente è principio di un comportamento nuovo e diverso in tutti i campi: nuovo si fa il suo modo di esistere, di lavorare, di soffrire, di gioire, di associarsi, di attendere alla umanizzazione della natura.

    Già nell’ordine naturale l’uomo non attua pienamente la sua umanità restando racchiuso nell’intimità della sua coscienza; perciò anche la fede, che è atto dell’uomo totale, non può restare confinata nel segreto dei cuori, ma irradia la sua novità in ogni angolo dell’universo.

    L’uomo nuovo tende per impulso intrinseco e connaturale a costruire una società nuova, una nuova storia, una nuova cultura.

    4 Una risposta ecclesiale

    Non si capirebbe adeguatamente né la fede né l’“uomo nuovo” che ne consegue, se non si ricordasse che la “novità” cristiana è certamente un evento personale, che ogni credente assimila in modo proprio, ma al tempo stesso è principio e ragione di una compaginazione che dà origine a un organismo.

    Il credente, connettendosi vitalmente con Cristo, si connette vitalmente anche coi suoi fratelli di fede.

    Cosi nasce quello che Paolo con immagine audace chiama il “corpo di Cristo”; cosi comincia a vivere e a operare nella storia il mistero della Chiesa.

    La risposta adeguata allintervento salvifico di Dio è una Chiesa, cioè una umanità nuova. Ogni interpretazione puramente individualistica del fatto cristiano lo tradisce in uno dei suoi aspetti essenziali.

    5 Una risposta contrastata

    L’iniziativa divina si imbatte da sempre nell’enigma della resistenza e del rifiuto. “E’ venuto in mezzo ai suoi, e i suoi non l’hanno accolto” (10).

    La fede convive con l’incredulità; l’uomo vecchio e l’uomo nuovo coesistono anche dentro lo stesso cuore; la “umanità nuova” non è mai tutta l’umanità; la Chiesa e il “mondo” (nel senso negativo che il termine ha negli scrittori neotestamentari il più delle volte) si fronteggiano e si combattono con alterna vicenda.

    Il credente sa che Cristo ha già vinto; ma sa anche che la piena manifestazione di questa vittoria sarà un dono escatologico. Questo non lo scoraggia né lo disarma: per essere se stesso e accogliere totalmente nella verità la salvezza di Dio, egli instancabilmente si adopera a dar vita alla nuova società, alla nuova storia, alla nuova cultura.

    III La fede che si fa cultura

    A questo punto, chi voglia accostare l’idea di fede, che molto rapidamente abbiamo voluto richiamare, con le varie nozioni di cultura presenti nell’uso corrente si avvede subito che l’interrogativo circa la possibilità e la necessità di una cultura cristiana ha evidentemente una risposta positiva, quale che sia tra i molti il significato di cultura che si prenda a considerare. E con questa conclusione il discorso sarebbe finito.

    Ma gli intenti pastorali che muovono la nostra riflessione ci spingono a ricercare la concretezza degli esempi operativi e delle proposte da offrire all’attenzione della comunità cristiana. Basterà ripercorrere passo passo la rassegna semantica che ha costituito la prima parte della nostra esposizione.

    1 La “coltivazione cristiana dell’uomo”

    La fede cristiana, oltre a donarci una “teologia antropologica”, fondata sulla rivelazione di Cristo uomo, immagine perfetta di Dio, ci regala anche una “antropologia teologica”, che ritrova nell’Uomo Dio l’archètipo di ogni reale umanità. Anzi, solo a questo splendore di verità si illuminano pienamente la nostra condizione e il nostro destino: “Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova luce il mistero dell’uomo” (11).

    Sicché è chiaro che l’autentica e perfetta “coltivazione dell’uomo” è la “coltivazione cristiana dell’uomo”. Dobbiamo tutti ricordare che, secondo la parola di Gesù, il primo e vero e unico coltivatore dell’uomo è il Padre (cfr. Gv 15, 1): ogni altra “cultura”   che non sia almeno oggettivamente e incoativamente espressione e avveramento di quella del Padre   rischia sempre di essere arbitraria e manipolante. Anche la “coltivazione cristiana” si avvarrà, come ha sapientemente intuito la conceziòne classica di cultura, del vero, del giusto, del bello. Anzi, questi valori potranno e dovranno dal credente essere ricercati e assimilati per se stessi, senza inutili sacralizzazioni, nella certezza che, quando sono autentici, sempre essi di avvicinano e ci conformano a Cristo, che è la verità, la giustizia, la misericordia, la bellezza, misteriosamente divenute figura e realtà d’uomo attingíbile e viva.

    2 Il “patrimonio spirituale cristiano”

    Nei duemila anni della nostra storia, molti contributi decisivi dati alla elevazione interiore dell’uomo e molti tra i frutti più nobili e preziosi dello spirito in tutti i campi (letteratura, arti figurative, musica, diritto, folklore ecc.) portano incancellabili in sé i segni della loro origine dalla visione cristiana.

    Questo è il nostro “tesoro di famiglia”. Anche se indubbiamente, in quanto opera dell’uomo, è registrato altresì nel patrimonio di tutta l’umanità, è pur vero che ciò che è nato dalla fede appartiene in modo eminente e più intenso a coloro che condividono la stessa concezione del mondo e la stessa esperienza di vita. Il problema per noi è quello di ridivenire consapevoli della nostra ricchezza. I nostri “grandi” devono tornare a essere veri e attuali maestri, e devono tornare a essere “nostri”. 1 nostri capolavori devono costituire per noi il nutrimento inesauribile dell’anima. La comunità cristiana deve riconquistare la coscienza degli altissimi valori che, nel corso della sua lunga storia, sono originati dal suo seno e restano perennemente vivi.

    Va poi notato, a prevenire ogni possibile equivoco e ogni tentazione di interiore grettezza, che dobbiamo apprezzare e avvalorare come alimento dell’anima ogni rilevante fatto dello spirito nel quale brilli qualche raggio di verità, di giustizia, di bellezza, dovunque appaia e comunque si manifesti.

    Nel pieno rispetto delle concezioni immanenti e delle intenzioni esplicite di tutti gli autori, anche di quelli che sono stranieri alla nostra fede, noi sappiamo e vogliamo sempre ricordare che ogni verità, ogni giustizia, ogni bellezza   in quanto oggettivi riverberi della luce di Cristo, che è la somma di tutti i valori   è sempre anche nostra, e può e deve armoniosamente confluire nell’autentica cultura cristiana.

    Nella nostra evasione dall’Egitto del “mondo”, come già fecero gli ebrei nell’ora dell’esodo, possiamo e dobbiamo portare con noi l’argento e l’oro degli egiziani

    3 I mezzi per la “coltivazione cristiana dell’uomo”

    La “coltivazione cristiana dell’uomo”, se non vuol restare soltanto un’astratta affermazione di principio, deve avere i mezzi per il raggiungimento dei propri compiti.

    Di fronte a uno Stato che sempre più estesamente occupa gli spazi di vita e si impadronisce degli strumenti di comunicazione e di socializzazione (in palese contrasto col “principio di sussidiarietà”, che è uno dei cardini di una concezione sociale che voglia fondarsi sulla libertà e sulla responsabilità della persona), questo argomento è di eccezionale gravità, e andrebbe estesamente trattato.

    Ci limitiamo ad alcune poche e semplici osservazioni.

    a) Non bisogna stancarsi di affermare il dovere dello Stato di offrire a tutti i raggruppamenti di cittadini (tra i quali c’è la comunità cristiana) la concreta possibilità di educare i figli secondo le proprie fondamentali convinzioni. Chi ha dato la vita, ha il diritto inalienabile di presiedere al suo sviluppo intellettuale e morale. Lo Stato italiano è su questo punto inadempiente da sempre, soprattutto per la sua legislazione scolastica pesantemente statalista.

    b) Allo stesso modo, in una società veramente libera che non aspiri a diventare un regime, il potere pubblico non deve tanto imporre una propria cultura, quanto aiutare e favorire in tutte le maniere le culture di tutte le libere aggregazioni.

    c) Le comunità cristiane, pur nella loro estrema povertà, devono darsi da fare per la sussistenza, la crescita, l’affermazione della loro cultura, in tutti i modi che una fantasia stimolata dalla fede è in grado di escogitare. Abbiamo nel mondo di oggi esempi eloquentissimi di quanto possa essere fecondo uno spirito vivace e forte, anche quando è tiranneggiato, umiliato e posto nelle condizioni più sfavorevoli. Valga per tutti il fenomeno stupefacente del “samizdat” russo (12).

    4 Gli “elaborati” della cristianità

    Una “cultura” nel senso, per così dire, antropologico etnologico che s’è visto   e cioè tutto il complesso degli elaborati umani   va riconosciuta a ogni raggruppamento di persone che è individuabile come tale. 1n essa trovano posto le tradizioni, le costumanze, gli istituti, le forme di lavoro e di vita, il folklore, i prodotti dell’ingegno e dell’abilità manuale, che una determinata gente riconosce come proprio.

    Esiste, intesa secondo questo significato, una “cultura cristiana”? Evidentemente la risposta a questa domanda dipende da una questione previa: esiste un popolo cristiano percepibile e identificabile? O, che è lo stesso, esiste una “cristianità”?

    Già da più di una trentina d’anni la cristianità è stata proclamata defunta. E’ un fenomeno, si è detto, di origine “costantiniana”, che ha raggiunto il suo culmine nel Medio Evo e che nel nostro secolo si è del tutto esaurito.

    Anzi, con l’affermazione della sua estinzione storica si è accompagnata spesso la proclamazione della sua illegittimità o almeno della sua inopportunità di principio. L’idea stessa di “cristianità” sarebbe oggi improponibile e la Chiesa non dovrebbe mai mirare a dare origine, mediante strutture caratteristiche, a una propria e specifica socialità che la renderebbe un corpo estraneo nel mondo; essa deve solo provocare e sostenere un impegno personale, lucidamente cosciente e del tutto libero da condizionamenti esteriori. E si è parlato di “presenza molecolare”, come della sola forma accettabile e augurabile di insediamento dei cristiani nel sociale.

    Mi sembra doveroso notare che questa concezione, che ha del vero in ciò che afferma, non è sostenibile in ciò che rifiuta. E vero che occorre formare delle forti personalità cristiane in grado di vivere totalmente immerse nella società che di fatto oggi esiste; ed è vero che vi possono essere dei cristiani che della “presenza molecolare” fanno un programma di vita, purché mantengano acutissimo il senso della propria identità di credenti e irriducibile la propria originalità di testimoni del Vangelo.) Ma non è vero che questo sia l’unico modo augurabile di presenza né che sia condannabile il tentativo di dar vita a una comunità cristiana anche sociologicamente individuabile.

    Almeno tre osservazioni   di genere diverso ma tutte cospiranti a difendere l’idea di un popolo di Dio percepibile come popolo, sia pure “sui generis”   sono da opporre ai denigratori cristiani della cristianità.

    La prima è di indole storica. L’aggregazione dei credenti secondo un modulo originale ed esteriormente identificabile di convivenza intensa e operosa è un fatto che si accompagna a tutta la storia ecclesiale fin dai primissimi tempi. La comunità di Gerusalemme, come appare dagli Atti, e le comunità paoline, come si intravvedono nelle lettere dell’Apostolo, sono senza dubbio vere e proprie “cristianità”, anche se di minoranza: in esse i discepoli di Gesù vivevano sotto molti aspetti “a parte” rispetto al resto dei loro connazionali e avevano forme associative tipiche e inconfondibili.

    Non c’è epoca nella quale la Chiesa non abbia dato origine a una qualche sorta di “comunità” tra i suoi componenti.

    C’è poi un rilievo di carattere psicologico pastorale. L’uomo, in forza della sua stessa natura, tende necessariamente a un’esistenza “sociale”. Ciò che non è socializzabile e non diventa mai socializzato, a poco a poco perde di rilievo nella coscienza della maggior parte dei singoli e alla fine si estingue.

    Ci può essere forse qualche intellettuale che si ritiene capace di una fedeltà ai suoi ideali che sia puramente individuale, interiore, invisibile.

    Ma gli uomini comuni per tener deste le loro convinzioni le devono esprimere in qualche attuazione esteriore e comunitaria, che si imponga all’attenzione anche degli altri.

    Infine c’è una ragione teologica decisiva.  La natura stessa dell’avvenimento cristiano esige che la “comunione”   che è personale, trascendente ed eterna   aspiri continuamente e instancabilmente a farsi “comunità”, cioè una realtà collettiva, contingente, storicamente determinata. L’atto di fede chiede   per intrinseco dinamismo   di investire e trasformare tutto l’uomo in tutte le sue dimensioni, personale, familiare, sociale.

    In nessun momento della sua vicenda la Chiesa può mancare di dare vita a una “cristianità”, secondo forme che mutano nei tempi e nei luoghi, ma che non possono venire meno in assoluto. Perciò il problema vero diventa quello di rinvenire la forma che meglio conviene al nostro tempo (14).

    La nostra “cristianità” potrà anche essere di minoranza, diversamente da quella di qualche secolo fa, ma non per questo deve essere meno vivace e meno fortemente caratterizzata. E non potrà mai delinearsi come un evento privo di continuità nel tempo, senza premesse e senza radici: essa sarà tanto più vitale ed “energica” quanto più sarà avvalorata e ispirata non solo dai principi eterni del Vangelo ma anche dalla continua memoria del suo passato.

    Come si vede, il rilancio di una “cultura cristíana” così intesa è condizionato dalla ravvivata consapevolezza dell’esistenza di un “popolo cristiano”, con la sua storia, le sue consuetudini,le sue feste, le sue opere, le sue multiformi manifestazioni (15).

    5 La “scala cristiana dei valori”

    L’uomo, che non viva del tutto svagato, non può evitare di interrogarsi circa i “valori”; anzi, non può non determinare, almeno nella concretezza delle sue scelte esistenziali, quali siano per lui i “valori” e come vadano gerarchizzati. Quando queste determinazioni sono condivise da tutto un raggruppamento umano che arriva a riconoscere una scala di valori comunemente accettata, sorge e a poco a poco si configura una “cultura”, secondo il significato che s’è visto sempre più largamente diffuso negli ultimi decenni.

    Ritengo che, una volta chiarito il termine secondo questa accezione, nessun credente possa contestare l’esistenza e la necessità di una “cultura cristiana”, a meno di ridurre il cristianesimo a pura esteriorità folkloristica o a fatto di coscienza, senza alcuna risonanza oltre la vita segreta dell’individuo.

    Piuttosto il discepolo di Gesù dovrà prepararsi in questo campo ai conflitti e agli scontri.

    Potrà talvolta rallegrarsi di concordanze inattese con chi non crede, nell’esaltazione di qualche valore. Ma più frequentemente dovrà registrare   senza stupore e senza panico   le più stridenti dissonanze. E’ molto difficile che convergano sulla stessa scala di valori coloro che affermano e coloro che negano un disegno divino all’origine delle cose; coloro che affermano e coloro che negano una vita eterna oltre la soglia della morte; coloro che affermano e coloro che negano l’esistenza di un mondo invisibile, di là dalla scena variopinta e labile di ciò che appare; coloro che credono e coloro che non credono nel Signore Gesù, crocifisso e risorto, Figlio unico e vero del Dio vivente, Salvatore dell’universo. Le comunità cristiane devono affrontare a occhi aperti, con serenità e con vigore di spirito, le inevitabili tensioni tra le diverse “culture” che di fatto convivono nell’ambito di una società pluralistica.

    Noi non dobbiamo e non vogliamo imporre a nessuno né con la forza né con l’astuzia la nostra “cultura”, cioè la nostra gerarchia di valori. Ma non possiamo e non vogliamo tollerare che l’imposizione, con la forza o con l’astuzia, di una “cultura” estranea ci snaturi e ci impedisca di esistere e crescere come popolo di Dio, redento dal sangue di Cristo, secondo la visione della vita che noi liberamente e razionalmente accogliamo nell’atto di fede.

    Conclusione

    Cultura” è, come s’è visto, parola dai contenuti molto diversi, tutti ugualmente presenti e attivi nel linguaggio e nella mentalità del nostro tempo. L’esame fin qui compiuto ci porta a concludere che, quale che sia tra questi il significato considerato, è da riconoscere la proprietà concettuale, la legittimità e la necessità di una “cultura cristiana”.

    In altre parole: il rapporto fede cultura non è estrinseco, legato alle circostanze storiche, variabile a seconda dei casi, ma è intrinseco, essenziale, in qualche modo trascendentale.

    La fede, restando fede, deve farsi cultura: lo deve a se stessa, alla radícalità e alla totalità del rinnovamento che essa introduce nell’uomo e quindi nell’universo.

    Essa non sopprime, non mortifica, non trascura nessuno dei valori autentici che trova al suo dispiegarsi nella storia e nel’ mondo; ma tutti li assume,  li  purufica, li esalta, li trasfigura in una “cultura” che è nuova e diversa, che sempre si rifonda e si arricchisce, mantenendo la sua tipicità e la sua irriducibilità: li assume, li purifica, li esalta, li trasfigura nella “cultura cristiana”.

    Note:

    (1) GIOVANNI PAOLO II, Ai vescovi lombardi in visita “ad limina apostolorum”, 15 gennaio 1982. Per un commento di questo documento, cfr. I. BIFFI, Cultura cristiana, Milano 1983, pp. 131 135.

    (2) E. GIAMMANCHERI, La “dimensione culturale” del Pontificato di Paolo VI, in: Paolo VI e la cultura, Brescia 1983, p. 23. Sulle stesse posizioni di Paolo VI e Giovanni Paolo Il era l’arcivescovo di Milano G. COLOMBO, Il cristiano di fronte alla cultura, Milano 1979. Si tratta dell’ultimo dei grandi discorsi programmatici pronunciati il giorno di sant’Ambrogio. Sembra invece scostarsi da questa linea il cardinal Martini, quando descrive il rapporto fede-cultura come non organico e pertanto variabile a seconda delle circostanze: C.M. MARTINI, Fede e cultura nell’insegnamento di Paolo VI, in: Paolo VI e la cultura, Brescia 1983, pp. 13 16.

    (3) Per il concetto di cultura e la sua storia, cfr. P. Rossi, Cultura, in: Enciclopedia del Novecento, 1, 1143 1157. Il Concilio Vaticano Il sembra aver presente soprattutto il primo e il secondo concetto di cultura (Gaudium et spes, 53 62).

    (4) Già Cicerone e Orazio parlavano di una “cultura animi”.

    (5) In questa visione “classica” è implicita la convinzione che l’uomo abbia bisogno di una “coltivazione” e che il modo giusto di educare non sia quello di lasciare che il bimbo cresca “come vuole”; ed è implicitamente riconosciuta anche l’esistenza di “valori oggettivi”, necessariamente coinvolti nell’opera educativa. Il limite di questa immagine “agricola” è di non esprimere a sufficienza la “non passività” di colui che è destinatario della “coltivazione”.

    (6) Va notato che qui non siamo di fronte a un sinonimo di “erudizione” in quanto il termine “cultura” vuole indicare non solo l’aggregazione di notizie sparse e reciprocamente indipendenti, ma anche   in qualche modo   la loro composizione in una sintesi organica, illuminata sui nessi e sulle cause dei diversi fatti dello spirito. Nell’uomo “colto” si suppone cioè una certa presenza dell’azione unificante dell’intelligenza; il che non è di per sé richiesto per assegnare a un uomo la qualifica di “erudito”.

    (7) L’evoluzione semantica avviene fino a questo punto tra concetti, per così dire, contigui, mediante accentuazione dell’uno o dell’altro di quegli elementi che in qualche modo sono dall’inizio tutti implicati. E dunque una variazione che resta nell’ambito di contenuti affini e connessi.

    (8) All’interno di questo concetto si danno variazioni importanti in sé e per gli influssi che hanno avuto. Così Spengler riserva il termine “cultura” alle forme di convivenza che sono arrivate alla “esistenza storica”, cioè alle civiltà, e le connette col sorgere della città. Su questo concetto costruisce la sua teoria dei cicli vitali delle civiltà e del loro inevitabile tramonto. Su questa linea si muove anche Toynbee, per il quale la civiltà è la risposta adeguata di un raggruppamento umano alla sfida dell’ambiente.

    (9) 2 Cor 5, 17.

    (10) Gv 1, 1 L

    (11) Gaudium et spes, 22. 12 Cfr. Es 12, 35.

    La conoscenza della “chiave” esatta di comprensione dell’universo concretamente esistente ci consentirà, di ogni rilevante fatto dello spirito, una lettura più compiuta e più penetrante di quanto non sia stata possibile in chi ne è stato il principio. Possiamo cogliere la “verità” delle opere di Aristotele e di Platone più di Aristotele e di Platone; possiamo percepire la bellezza trascendente dell’Antigone o delle Bucolicke più di Sofocle e di Virgilio; possiamo accedere agli ideali di giustizia e di solidarietà umana espressi nelle varie dichiarazioni costituzionali fino a una profondirà ignota agli stessi estensori.

    E in sostanza la valorizzazione della “intentio profundior” degli autori, di cui parlava già Tommaso d’Aquino.

    (12) Sul “samizdat”, cfr. j. MAL’CEV, L”altra letteratura” (1957^1976), Milano 1976.

    (13) Il Daniélou ha per primo denunciato il carattere astratto e maldestramente aristocratico delle denigrazioni della cristianità, rilevandone soprattutto l’ingenuità psicologica: “A molti cristiani l’idea stessa di cristianità appare definitivamente superata… Ma bisogna pesare le conseguenze di tale opzione. E’ troppo evidente che questo è un punto sul quale bisogna insistere: non è possibile agli uomini nel loro insieme   dico a tutti gli uomini   essere cristiani quando si trovano in un ambiente indifferente o ostile al cristianesimo. Ciò deriva da una legge molto semplice della psicologia, radicalmente misconosciuta da un certo numero di teologi contemporanei che sono degli idealisti puri. Essi ragionano come se la libertà non fosse affatto condizionata… Mi angoscia attualmente il fatto che alcuni teologi sostengano piuttosto l’idea di sbarazzarsi del popolo cristiano, perché trovano che esso rappresenti ciò che loro chiamano un “cristianesirno sociologico”, che disprezzano; e mi angoscia anche che essi mettano l’accento solo su un cristianesimo personale che non può essere che un cristianesimo di élites. Questa mi pare una concezione assolutamente unilaterale delle cose…” (J. DANIELOU, Cattolicesimo, in: Enciclopedia del Novecento’ 1 I, pp. 666 s.).

    (14) E’ possibile che nel dibattito circa la “cristianità” si introduca tal volta un equivoco, e il termine non venga sempre usato univocamente.

    Se per “cristianità” si intende la perfetta coestensione (che, ovviamente, non vuol dire coincidenza) della Chiesa con la società civile, allora è giusto dire che oggi non esiste più: a differenza di altre epoche, in cui praticamente tutti i cittadini si riconoscevano appartenenti anche all’organismo ecclesiale, oggi solo una parte si attribuisce tale appartenenza.

    Se invece il vocabolo designa la traduzione sociale ed esteriormente percepibile del mistero ecclesiale, allora la cristianità è un valore di sempre e va concettualmente difeso, anche se non in ogni epoca e in ogni luogo è un fenomeno “di maggioranza”.

    (15) sostenitori della “presenza molecolare” sono soliti citare a conforto della loro tesi il paragone evangelico, del sale (Mt 5, 131 e la Lettera a Diogneto che parla dei cristiani come “anima del mondo”. E’ chiaro da questi testi, si dice, che la comunità cristiana non può essere un’aggregazione “a parte”; piuttosto deve essere una presenza dinamica e invisibile, sciolta all’interno della società. In tutti e due i casi, però, siamo di fronte a una lettura che alla luce dei contesti rivela subito la sua parzialità e la sua origine ideologica.

    Quanto al “sale”: non si può ricordare l’immagine del “sale” del versetto 13 e passare sotto silenzio quella della “città collocata sopra un monte” del versetto 14; ma soprattutto è evidente che Gesù cita l’immagine del sale per insegnarci non come si debba essere presenti nel mondo, ma quanto sia necessario conservare la propria identità, se si vuol davvero giovare al mondo: il sale che ha perso la sua natura di sale “a null’altro serve che a essere gettato via e calpestato dagli uomini”.

    Quanto a Diogneto: è da notare che il paragone dell’anima e del corpo non va letto alla luce dell’antropologia tomista (prevalente nei Teologi del secolo ventesimo), ma entro la prospettiva platonica (propria dell’autore), che vede l’anima come una entità a sé, prigioniera del corpo e in lotta perpetua col suo carceriere (come esplicitamente ricorda il testo, VI 5). Vi si dice senza dubbio che i cristiani in ogni nazione sono in patria (e perciò non hanno una patria geograficamente identificabile, V 5); ma vi si dice anche che presso ogni popolo sono un corpo estraneo (e perciò non perdono l’identità della loro specifica aggregazione). Sono dunque una “politèia” (società) sì “paràdoxos” (insolita, strana, sorprendente), ma sempre “politèia”, inconfondibile e inassimilabile (V, 4).

    DAL CONCILIO VATICANO II IN QUA…Per non dimenticare


    (Paolo VI, Discorso ai rappresentanti della II Conferenza Internazionale dei Leader del Rinnovamento Carismatico Cattolico, 10 ottobre 1973,
    in Insegnamenti di Paolo VI, Città del Vaticano, Volume XI, 1973, 971s).


    Ci rallegriamo con voi, cari amici, del rinnovamento di vita spirituale che si manifesta oggi nella Chiesa, sotto forme differenti e in ambienti diversi [...]. In tutto questo possiamo riconoscere l’opera misteriosa e discreta dello Spirito, che è l’anima della Chiesa [...]“.

    Paolo VI, Discorso ai partecipanti al III Congresso Internazionale del Rinnovamento Carismatico Cattolico, Basilica Vaticana, Pentecoste 1975. Cfr. testo francese in Insegnamenti di Paolo VI, Città del Vaticano, Vol. XIII, 1975, 536-542).

    Cari figli e figlie, in quest’Anno Santo avete scelto la città di Roma per celebrare il vostro III Congresso Internazionale; ci avete chiesto di incontrarvi oggi e di rivolgervi alcune parole; con questo avete voluto indicare il vostro attaccamento alla Chiesa istituita da Gesù Cristo e a ciò che per voi rappresenta questa sede di Pietro. Questa preoccupazione di situarvi in modo giusto nella Chiesa è un segno autentico dell’azione dello Spirito Santo [...]. Nell’ottobre scorso dicevamo ad alcuni di voi che la Chiesa e il mondo hanno bisogno più che mai che “il prodigio di Pentecoste continui nella storia”(1). [...] Come potrebbe questo “rinnovamento spirituale” non essere una chance per la Chiesa e per il mondo? [...] Abbiamo dimenticato lo Spirito Santo? No, certo! Noi lo vogliamo, lo onoriamo, lo amiamo, lo invochiamo; e voi con la vostra devozione, il vostro fervore, voi volete vivere nello Spirito. Questo deve essere un “rinnovamento”. Deve ringiovanire il mondo, deve ridare una spiritualità, un’anima, un pensiero religioso al mondo, deve riaprire le sue labbra chiuse alla preghiera e aprire al canto, alla gioia, all’inno, alla testimonianza e sarà veramente una grande fortuna per il nostro tempo, per i nostri fratelli, che ci sia tutta una generazione di giovani che grida al mondo le glorie e le grandezze di Dio nella Pentecoste”.

    Giovanni Paolo II, Udienza ai gruppi italiani del Rinnovamento nello Spirito Santo, Aula Paolo VI, 23 novembre 1980, in Alleluja n. 6, novembre/dicembre 1980).

    Grazie, innanzi tutto, di questa gioiosa visita e, in particolare, delle preghiere che avete rivolto al Signore per me e per le responsabilità del mio servizio pastorale. Vi dirò con San Paolo che avevo “un vivo desiderio di vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale perché ne siate fortificati o, meglio, per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi ed io” (Rm 1,11-12).

    ( Stamani ho la gioia di incontrarmi con questa vostra assemblea, in cui vedo giovani, adulti, anziani, uomini e donne, solidali nella progressione della stessa fede, sorretti dall’anelito di una medesima speranza, stretti insieme dai vincoli di quella carità che “è stata riversata nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (cfr. Rm 5,5). A questa “effusione dello Spirito” noi sappiamo di essere debitori di una esperienza sempre più profonda della presenza di Cristo, grazie alla quale possiamo ogni giorno crescere nella conoscenza amorosa del Padre. Giustamente, pertanto, il vostro movimento presta particolare attenzione all’azione, misteriosa ma reale, che la terza Persona della Santissima Trinità svolge nella vita del cristiano [...]. [Cristo] ha affidato allo Spirito Santo la missione di portare a compimento la “nuova creazione”, a cui egli stesso ha dato inizio con la sua risurrezione [...]. Il Rinnovamento nello Spirito, infatti, ho ricordato nell’esortazione apostolica Catechesi tradendae, “avrà una vera fecondità nella Chiesa, non tanto nella misura in cui susciterà carismi straordinari, quanto piuttosto nella misura in cui porterà il più gran numero possibile di fedeli, sulle strade della vita quotidiana, allo sforzo umile, paziente, perseverante per conoscere meglio il mistero di Cristo e per testimoniarlo” (n. 72)”.

    (Giovanni Paolo II, Discorso in lingua inglese ai partecipanti alla IV Conferenza Internazionale dei Leader del Rinnovamento Carismatico Cattolico, Giardini Vaticani, 7 maggio 1981, in Alleluja, n. 3, maggio/giugno 1981).

    La vostra fama vi precede come quella degli amati Filippesi, che suggeri all’apostolo Paolo d’iniziare la lettera ad essi indirizzata con un sentimento a cui sono felice di fare eco: “Ringrazio il mio Dio ogni volta che io mi ricordo di voi… e perciò prego che il vostro amore si arricchisca sempre più in conoscenza e in ricchezza di esperienza perchè possiate distinguere il meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno del Signore” (Fil 1,3.9-10) [...]. Con gioia particolare abbiamo notato il modo in cui i responsabili del Rinnovamento hanno sviluppato una visione ecclesiale sempre più larga e si sono sforzati affinchè tale visione divenisse sempre più reale per tutti quelli che si affidano a loro per essere guidati. E abbiamo visto parimenti i segni della vostra generosità nel condividere i doni di Dio con gli sfortunati di questo mondo in giustizia e carità, di modo che tutti possano sperimentare la dignità inestimabile che appartiene loro in Cristo. Che questo lavoro d’amore già iniziato in voi possa essere portato a compimento con successo (cfr. 2 Cor 8,6-11) [...]. Molti Vescovi di tutto il mondo, sia individualmente che in dichiarazioni delle loro conferenze episcopali, hanno incoraggiato e dato direttive al Rinnovamento Carismatico – e a volte anche un’utile parola di prudenza – ed hanno aiutato le comunità cristiane in generale a comprendere meglio il loro posto nella Chiesa. Esercitando la loro responsabilità pastorale, i vescovi hanno reso un grande servizio a noi tutti per assicurare al Rinnovamento un modello di crescita e sviluppo pienamente aperto a tutte le ricchezze dell’amore di Dio nella sua Chiesa”.

    (Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti alla V Conferenza Internazionale dei Leader del Rinnovamento Carismatico Cattolico, Roma, 30 aprile 1984, testo in inglese in L’ Osservatore Romano, 2 maggio 1984).

    Con tutto il mio cuore, vi do il benvenuto a Roma, nella gioia di Cristo risorto. Il vostro Congresso a Roma, nel centro della Chiesa, giunge nel momento in cui essa sta ringraziando il Padre di N.S. Gesù Cristo per il sacrificio di suo Figlio e per l’effusione dello Spirito Santo che la riempie di vita nuova. Come ho detto nel mio messaggio di Pasqua, la Porta Santa dell’Anno Giubilare della Rendenzione è ora stata chiusa, ma non dobbiamo mai dimenticare che a Pasqua la porta del Sepolcro di Cristo è stata aperta per sempre e per tutti [...]. Per questa ragione io domando a voi tutti e a tutti i membri del Rinnovamento Carismatico di continuare a gridare forte al mondo insieme a me “aprite le porte al Redentore!” [...]. Voi partecipate in concreto a questa missione nella misura in cui i vostri gruppi e comunità sono radicati nelle chiese locali, diocesi e parrocchie”.

    Giovanni Paolo II, Discorso in occasione della II Udienza ai gruppi italiani delRinnovamento nello Spirito Santo, Basilica di S. Pietro, 17 novembre 1986, in Rinnovamento nello Spirito Santo, suppl. al n. 1/1987).

    La vostra presenza, carissimi fratelli e sorelle, accanto al successore di Pietro, capo visibile della Chiesa universale, le ripetute attestazioni di comunione sincera e operosa con lui e con i vescovi delle vostre chiese locali, significano che voi avete ben compreso ciò che il Vangelo insegna, ciò che lo Spirito Santo presente nei vostri cuori ispira come principio centrale della legge nuova, come regola fondamentale dell’azione e della preghiera ecclesiale, come segreto sicuro di ogni rinnovamento e di ogni progresso: essere al servizio del regno di Cristo secondo le indicazioni dello Spirito in comunione di fede, di pensiero e di disciplina con i pastori della Chiesa. Su questa strada vi auguro di perseverare e di progredire”.

    Tratto da: Leo Jozef Suenens, Ecumenismo e Rinnovamento Carismatico. Orientamenti Teologici e Pastorali, secondo “Documento di Malines”, Ed. Paoline, Roma 1978).

    [...] Il Rinnovamento è una grazia per la Chiesa di Dio a più di un titolo, ma lo è assai particolarmente a titolo ecumenico.

    Infatti, il Rinnovamento, per la sua origine stessa, già invita al ravvicinamento dei cristiani assai lontani gli uni dagli altri, dando loro come terreno di incontro privilegiato una fede comune nell’attualità e nella potenza dello Spirito Santo. Il Rinnovamento nello Spirito è una nuova accentuazione, un’insistenza sul ruolo e sulla presenza attiva e manifesta dello Spirito Santo in mezzo a noi. Nella Chiesa non si tratta di una novità, ma di una presa di coscienza accresciuta di una Presenza tanto spesso sfumata ed implicita. Tale “risveglio” ci viene, storicamente, dal Pentecostalismo classico, come pure da quello che si è convenuto di chiamare Neo-pentecostalismo. Tale riconoscimento di debiti che poniamo all’inizio di queste pagine non misconosce di quanto siamo debitori alla tradizione orientale, sempre così sensibile al ruolo dello Spirito Santo: durante il Vaticano II i Padri conciliari non hanno cessato di sottolinearlo [...]. Il Rinnovamento nello Spirito, di cui oggi siamo testimoni, si presenta come un avvenimento spirituale sostanzialmente simile nella maggior parte delle Chiese e denominazioni cristiane. Si tratta di un avvenimento spirituale idoneo a ravvicinare i cristiani [...]. A numerosi cristiani che ne fanno l’esperienza, oggi il Rinnovamento Carismatico appare come un esaudimento, tra tanti altri, di questa audace speranza ecumenica del Concilio. È permesso pensare che il Rinnovamento si pone tra gli impulsi futuri dello Spirito che il Concilio confusamente prevedeva. La storia della Chiesa è fatta di queste mozioni e imprese dello Spirito che, periodicamente, vengono a rivitalizzare la Chiesa. Il Rinnovamento si inserisce nel prolungamento della corrente di grazia che fu e rimane il Vaticano II [...].

    Il Rinnovamento Carismatico è una grazia di predilezione per la Chiesa del nostro tempo. Esso ci interpella tutti, pastori e fedeli, e ci invita ad intensificare il vigore della nostra fede e a suscitare nuovi modelli di vita cristiana, in condivisione fraterna, ad immagine del Cristianesimo della Chiesa primitiva.

    Nella crisi che stiamo attraversando, questa grazia, per molti cristiani, assume un ruolo di supplenza per nutrire la loro vita religiosa, laddove la nostra liturgia manca troppo spesso di anima e di vita, la nostra predicazione di potenza nello Spirito, la nostra passività ha bisogno di coraggio apostolico [...]“.

    (Dall’Omelia di S.E.R. il card. C.M. Martini nella celebrazione eucaristicadi apertura per la XI Convocazione Nazionale del RnS [Rimini 22 aprile 1988], in Rinnovamento nello Spirito Santo, luglio/agosto 1988).

    [...] Sorge qui la domanda: in che consiste questa maturità spirituale? Che cosa è richiesto dal cammino ormai quindicennale del Rinnovamento nello Spirito?Questo è il segreto di Dio e ve lo dirà il Signore.Ma noi possiamo chiederci ugualmente, partendo dai testi delle Scritture, quale sia il modo di santità a cui sono chiamati, oggi, anche i più semplici e umili tra noi. E io, con le stesse parole delle Scritture e con il coraggio che mi viene soltanto dalla parola di Dio, lo esprimerei sinteticamente così: la maturità spirituale è crescere nella carità con tutti i suoi frutti. Nel linguaggio giovanneo, è crescere nella coscienza di tralcio attaccato alla vite; come tralcio che è parte della vite, che cresce dalla vite, nella vite e con la vite. Guai al tralcio che o si stacca dalla vite o si blocca nella sua crescita (cfr. Gv 15,1-6)!Questo comporta due aspetti:

    • il primo, negativo, è di non bloccarsi nella crescita, di non restare al di qua del guado di Cafarnao;

    • il secondo, positivo, è di crescere con la vigna, nella vigna, dalla vigna, insieme alla vigna intera [...].

    1. Crescere anzitutto nella conoscenza e nell’amore della vigna che è lo stesso Gesù morto e risorto, nostra vita e Signore delle nostre vite.

    2. Crescere nella conoscenza, amore e stima di quella vigna che Dio stesso ha piantato e per la quale Gesù è morto, cioè la santa Chiesa visibile, unita attorno al Papa, sotto la guida dei vescovi, amando ognuno e ciascuno dei più piccoli fratelli di essa.

    3. Crescere nella conoscenza della Parola di Dio, studiata e approfondita secondo i criteri della Dei Verbum (capitoli III e VI), imparando a prendere la Scrittura come un insieme, come la rivelazione di un unico disegno di Dio sulla Chiesa e non come una semplice raccolta di parole staccate.

    4. Crescere nell’interiorità della fede e della preghiera, imparando a fare una graduale economia dei segni esteriori e sensibili a favore di una preghiera interiore, di una adorazione umile e silenziosa.

    5. Crescere nella forza evangelizzatrice che non viene dal gridare “Signore, Signore” ma, anzitutto, dal fare la volontà del Padre che è nei cieli: “Vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli” (cfr. Mt 5,16: questa è la prima evangelizzazione!).

    6. Crescere nell’attenzione al contesto sociale, culturale e politico in cui la Chiesa opera, favorendo sempre più i gesti di prossimità concreta verso i più bisognosi

    .7. Crescere nella delicatezza delle espressioni delle preghiere private e pubbliche, non in commotione Domini. Crescere cioè nella dolce sensibilità del tocco leggero e soave della preghiera e dei gesti, nella delicatezza delle espressioni corporee, nella gioia intima e profonda, pudica e rispettosa, che non si esibisce ma, piuttosto si nasconde ed effonde soltanto una minima parte del suo ricchissimo tesoro interiore. Così sarà più facile far percepire ad altri, dal tenue profumo, la ricchezza del fiore nascosto e coltivarlo con attenzione anche nel proprio cuore.

    8. Crescere nel dolore dei propri peccati; piangere per i peccati del mondo; contemplare senza sosta Cristo crocifisso; entrare nelle sue ferite e in quelle dell’umanità ferita e farsene carico come il buon Samaritano.

    Se frutto del Rinnovamento nello Spirito sarà, anzitutto, il suscitare nella Chiesa intera, fino agli strati più semplici del popolo di Dio, presso tutti i laici, la gioia della lode, la lode spontanea, gratuita, nata dalla contemplazione del Signore crocifisso e risorto, e dalla misericordia di Dio per l’umanità perduta, tale lode potrà invadere tutte le Chiese e le parrocchie della terra quanto più sarà semplice, composta Ma la gioia della manna, l’alimento che “manifestava la dolcezza di Dio verso i suoi figli” (cfr. Sap 16,21), è dunque da lasciare cadere del tutto in vista di una lode puramente spirituale? Gesù non ha condannato la manna del deserto, anzi ha moltiplicato lui stesso i pani; però ci ha insegnato, nel discorso di Cafarnao, a cercare e gustare, a partire dalla manna e al di là di essa, quel frutto dello Spirito che è “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22).

    Gesù ci insegna a capire come il vero pane del Cielo è lui. Sei tu, Signore, il pane del Cielo, sei tu che dai lo Spirito, il Pane e lo Spirito che effonde nei cuori la carità

    .A queste cose occorre anzitutto aspirare.Sono esse che hanno una irradiazione gioiosa e contagiosa.

    Gli altri carismi sono tappe intermedie, oasi nel deserto, stazioni di passaggio, aiuti per il cammino, manifestazioni per l’utilità; ma non sono un punto di arrivo, non sono la Terra Promessa, non sono lo stesso Cristo Signore, unico premio di coloro che lo cercano [...]“.

    EGLI SI E’ MOSTRATO – La Verità è un fatto nella storia – Benedetto XVI

    Benvenuto nel sito ufficiale della Compagnia dei Globuli Rossi

    INCONTRO CON IL MONDO DELLA CULTURA

    AL COLLÈGE DES BERNARDINS

    DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

     

    Parigi, venerdì 12 settembre 2008

     

     

     

    Signor Cardinale,
    Signora Ministro della Cultura,
    Signor Sindaco,
    Signor Cancelliere dell’Institut de France,
    cari amici!

     

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    Grazie, Signor Cardinale, per le Sue parole gentili. Ci troviamo in un luogo storico, edificato dai figli di san Bernardo di Clairvaux e che il Suo  grande predecessore, il compianto Cardinale Jean-Marie Lustiger, ha voluto come centro di dialogo tra la Sapienza cristiana e le correnti culturali intellettuali e artistiche dell’attuale società. Saluto in modo particolare la Signora Ministro della Cultura che rappresenta il Governo, così come il Signor Giscard d’Estaing e il Signor Chirac.

    .

    Rivolgo ugualmente il mio saluto ai Ministri presenti, ai rappresentanti dell’Unesco, al Signor Sindaco di Parigi e a tutte le altre Autorità. Non voglio dimenticare i miei colleghi dell’Institut de France, i quali conoscono la considerazione che nutro nei loro confronti. Ringrazio il Principe de Broglie per le sua cordiali parole. Ci rivedremo domani mattina. Ringrazio i delegati della comunità musulmana francese per aver accettato di partecipare a questo incontro: rivolgo loro i miei migliori auguri  per il ramadan in corso. Il mio caloroso saluto va ora naturalmente all’insieme del multiforme mondo della cultura, che voi, cari invitati, rappresentate così degnamente.

    .

     

    Vorrei parlarvi stasera delle origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea. Ho ricordato all’inizio che il luogo in cui ci troviamo è in qualche modo emblematico. È infatti legato alla cultura monastica, giacché qui hanno vissuto giovani monaci, impegnati ad introdursi in una comprensione più profonda della loro chiamata e a vivere meglio la loro missione.

    .

    È questa un’esperienza che interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo ormai passato?

    .

    Per rispondere, dobbiamo riflettere un momento sulla natura dello stesso monachesimo occidentale. Di che cosa si trattava allora? In base alla storia degli effetti del monachesimo possiamo dire che, nel grande sconvolgimento culturale prodotto dalla migrazione di popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi, i monasteri erano i luoghi in cui sopravvivevano i tesori della vecchia cultura e dove, in riferimento ad essi, veniva formata passo passo una nuova cultura.

     

    • Ma come avveniva questo?

    • Quale era la motivazione delle persone che in questi luoghi si riunivano?

    • Che intenzioni avevano?

    • Come hanno vissuto?

    .

    Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio.

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    Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile.

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    Si dice che erano orientati in modo “escatologico”. Ma ciò non è da intendere in senso cronologico, come se guardassero verso la fine del mondo o verso la propria morte, ma in un senso esistenziale: dietro le cose provvisorie cercavano il definitivo. Quaerere Deum: poiché erano cristiani, questa non era una spedizione in un deserto senza strade, una ricerca verso il buio assoluto.

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    Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva spianato una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla. Questa via era la sua Parola che, nei libri delle Sacre Scritture, era aperta davanti agli uomini.

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    La ricerca di Dio richiede quindi per intrinseca esigenza una cultura della parola o, come si esprime Jean Leclercq: nel monachesimo occidentale, escatologia e grammatica sono interiormente connesse l’una con l’altra (cfr L’amour des lettres et le desir de Dieu, p.14). Il desiderio di Dio, le désir de Dieu,  include l’amour des lettres, l’amore per la parola, il penetrare in tutte le sue dimensioni.

    .

    Poiché nella Parola biblica Dio è in cammino verso di noi e noi verso di Lui, bisogna imparare a penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi. Così, proprio a causa della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze profane che ci indicano le vie verso la lingua.

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    Poiché la ricerca di Dio esigeva la cultura della parola, fa parte del monastero la biblioteca che indica le vie verso la parola. Per lo stesso motivo ne fa parte anche la scuola, nella quale le vie vengono aperte concretamente.

     

    Benedetto chiama il monastero una dominici servitii schola. Il monastero serve alla eruditio, alla formazione e all’erudizione dell’uomo – una formazione con l’obbiettivo ultimo che l’uomo impari a servire Dio.

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    Ma questo comporta proprio anche la formazione della ragione, l’erudizione, in base alla quale l’uomo impara a percepire, in mezzo alle parole, la Parola.

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    Per avere la piena visione della cultura della parola, che appartiene all’essenza della ricerca di Dio, dobbiamo fare un altro passo.

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    La Parola che apre la via della ricerca di Dio ed è essa stessa questa via, é una Parola che riguarda la comunità. Certo, essa trafigge il cuore di ciascun singolo (cfr At 2, 37). Gregorio Magno descrive questo come una fitta improvvisa che squarcia la nostra anima sonnolenta e ci sveglia rendendoci attenti per la realtà essenziale, per Dio (cfr Leclercq, ibid., p.35).

    .

    Ma così ci rende attenti anche gli uni per gli altri. La Parola non conduce a una via solo individuale di un’immersione mistica, ma introduce nella comunione con quanti camminano nella fede. E per questo bisogna non solo riflettere sulla Parola, ma anche leggerla in modo giusto. Come nella scuola rabbinica, così anche tra i monaci il leggere stesso compiuto dal singolo è al contempo un atto corporeo. “Se, tuttavia, legere e lectio vengono usati senza un attributo esplicativo, indicano per lo più un’attività che, come il cantare e lo scrivere, comprende l’intero corpo e l’intero spirito”, dice al riguardo Jean Leclercq (ibid., p.21).

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    E ancora c’è da fare un altro passo. La Parola di Dio introduce noi stessi nel colloquio con Dio. Il Dio che parla nella Bibbia ci insegna come noi possiamo parlare con Lui. Specialmente nel Libro dei Salmi Egli ci dà le parole con cui possiamo rivolgerci a Lui, portare la nostra vita con i suoi alti e bassi nel colloquio davanti a Lui, trasformando così la vita stessa in un movimento verso di Lui.

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    Salmi contengono ripetutamente delle istruzioni anche sul come devono essere cantati ed accompagnati con strumenti musicali. Per pregare in base alla Parola di Dio il solo pronunciare non basta, esso richiede la musica.

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    Due canti della liturgia cristiana derivano da testi biblici che li pongono sulle labbra degli Angeli: il Gloria, che è cantato dagli Angeli alla nascita di Gesù, e il Sanctus, che secondo Isaia 6 è l’acclamazione dei Serafini che stanno nell’ immediata vicinanza di Dio.

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    Alla luce di ciò la Liturgia cristiana è invito a cantare insieme agli Angeli e a portare così la parola alla sua destinazione più alta. Sentiamo in questo contesto ancora una volta Jean Leclercq: “I monaci dovevano trovare delle melodie che traducevano in suoni l’adesione dell’uomo redento ai misteri che egli celebra. I pochi capitelli di Cluny, che si sono conservati fino ai nostri giorni, mostrano così i simboli cristologici dei singoli toni” (cfr ibid. p.229).

     

     

     

    In Benedetto, per la preghiera e per il canto dei monaci vale come regola determinante la parola del Salmo: Coram angelis psallam Tibi, Domine – davanti agli angeli voglio cantare a Te, Signore (cfr 138,1).

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    Qui si esprime la consapevolezza di cantare nella preghiera comunitaria in presenza di tutta la corte celeste e di essere quindi esposti al criterio supremo: di pregare e di cantare in maniera da potersi unire alla musica degli Spiriti sublimi, che erano considerati gli autori dell’armonia del cosmo, della musica delle sfere.

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    Partendo da ciò, si può capire la serietà di una meditazione di san Bernardo di Chiaravalle, che usa una parola di tradizione platonica trasmessa da Agostino per giudicare il canto brutto dei monaci, che ovviamente per lui non era affatto un piccolo incidente, in fondo secondario.

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    Egli qualifica la confusione di un canto mal eseguito come un precipitare nella “zona della dissimilitudine” – nella regio dissimilitudinis.

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    Agostino aveva preso questa parola dalla filosofia platonica per caratterizzare il suo stato interiore prima della conversione (cfr Confess. VII, 10.16): l’uomo, che è creato a somiglianza di Dio, precipita in conseguenza del suo abbandono di Dio nella “zona della dissimilitudine” – in una lontananza da Dio nella quale non Lo rispecchia più e così diventa dissimile non solo da Dio, ma anche da se stesso, dal vero essere uomo.

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    È certamente drastico se Bernardo, per qualificare i canti mal eseguiti dei monaci, usa questa parola, che indica la caduta dell’uomo lontano da se stesso. Ma dimostra anche come egli prenda la cosa sul serio. Dimostra che la cultura del canto è anche cultura dell’essere e che i monaci con il loro pregare e cantare devono corrispondere alla grandezza della Parola loro affidata, alla sua esigenza di vera bellezza.

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    Da questa esigenza intrinseca del parlare con Dio e del cantarLo con le parole donate da Lui stesso è nata la grande musica occidentale. Non si trattava di una “creatività” privata, in cui l’individuo erige un monumento a se stesso, prendendo come criterio essenzialmente la rappresentazione del proprio io.

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    Si trattava piuttosto di riconoscere attentamente con gli “orecchi del cuore” le leggi intrinseche della musica della stessa creazione, le forme essenziali della musica immesse dal Creatore nel suo mondo e nell’uomo, e trovare così la musica degna di Dio, che allora al contempo è anche veramente degna dell’uomo e fa risuonare in modo puro la sua dignità.

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    Per capire in qualche modo la cultura della parola, che nel monachesimo occidentale si è sviluppata dalla ricerca di Dio, partendo dall’interno, occorre finalmente fare almeno un breve cenno alla particolarità del Libro o dei Libri in cui questa Parola è venuta incontro ai monaci.

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    La Bibbia, vista sotto l’aspetto puramente storico o letterario, non è semplicemente un libro, ma una raccolta di testi letterari, la cui stesura si estende lungo più di un millennio e i cui singoli libri non sono facilmente riconoscibili come appartenenti ad un’unità interiore; esistono invece tensioni visibili tra di essi.

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    Ciò vale già all’interno della Bibbia di Israele, che noi cristiani chiamiamo l’Antico Testamento. Vale tanto più quando noi, come cristiani, colleghiamo il Nuovo Testamento e i suoi scritti, quasi come chiave ermeneutica, con la Bibbia di Israele, interpretandola così come via verso Cristo.

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    Nel Nuovo Testamento, con buona ragione, la Bibbia normalmente non viene qualificata come “la Scrittura”, ma come “le Scritture” che, tuttavia, nel loro insieme vengono poi considerate come l’unica Parola di Dio rivolta a noi. Ma già questo plurale rende evidente che qui la Parola di Dio ci raggiunge soltanto attraverso la parola umana, attraverso le parole umane, che cioè Dio parla a noi solo attraverso gli uomini, mediante le loro parole e la loro storia.

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    Questo, a sua volta, significa che l’aspetto divino della Parola e delle parole non è semplicemente ovvio. Detto in espressioni moderne: l’unità dei libri biblici e il carattere divino delle loro parole non sono, da un punto di vista puramente storico, afferrabili. L’elemento storico è la molteplicità e l’umanità.

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    Da qui si comprende la formulazione di un distico medioevale che, a prima vista, sembra sconcertante: “Littera gesta docet – quid credas allegoria…” (cfr Augustinus de Dacia, Rotulus pugillaris, I). La lettera mostra i fatti; ciò che devi credere lo dice l’allegoria, cioè l’interpretazione cristologica e pneumatica.

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    Possiamo esprimere tutto ciò anche in modo più semplice: la Scrittura ha bisogno dell’interpretazione, e ha bisogno della comunità in cui si è formata e in cui viene vissuta. In essa ha la sua unità e in essa si dischiude il senso che tiene unito il tutto.

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    Detto ancora in un altro modo: esistono dimensioni del significato della Parola e delle parole, che si dischiudono soltanto nella comunione vissuta di questa Parola che crea la storia. Mediante la crescente percezione delle diverse dimensioni del senso, la Parola non viene svalutata, ma appare, anzi, in tutta la sua grandezza e dignità.

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    Per questo il “Catechismo della Chiesa Cattolica” con buona ragione può dire che il cristianesimo non è semplicemente una religione del libro nel senso classico (cfr n. 108). Il cristianesimo percepisce nelle parole la Parola, il Logos stesso, che estende il suo mistero attraverso tale molteplicità e la realtà di una storia umana.

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    Questa struttura particolare della Bibbia è una sfida sempre nuova per ogni generazione. Secondo la sua natura essa esclude tutto ciò che oggi viene chiamato fondamentalismo. La Parola di Dio stesso, infatti, non è mai presente già nella semplice letteralità del testo.

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    Per raggiungerla occorre un trascendimento e un processo di comprensione, che si lascia guidare dal movimento interiore dell’insieme e perciò deve diventare anche un processo di vita. Sempre e solo nell’unità dinamica dell’insieme i molti libri formano un Libro, si rivelano nella parola e nella storia umane la Parola di Dio e l’agire di Dio nel mondo.

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    Tutta la drammaticità di questo tema viene illuminata negli scritti di san Paolo. Che cosa significhi il trascendimento della lettera e la sua comprensione unicamente a partire dall’insieme, egli l’ha espresso in modo drastico nella frase: “La lettera uccide, lo Spirito dà vita” (2 Cor 3,6).

    E ancora: “Dove c’è lo Spirito … c’è libertà” (2 Cor 3,17). La grandezza e la vastità di tale visione della Parola biblica, tuttavia, si può comprendere solo se si ascolta Paolo fino in fondo e si apprende allora che questo Spirito liberatore ha un nome e che la libertà ha quindi una misura interiore: “Il Signore è lo Spirito, e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà” (2 Cor 3,17). Lo Spirito liberatore non è semplicemente la propria idea, la visione personale di chi interpreta.

     

    Lo Spirito è Cristo, e Cristo è il Signore che ci indica la strada. Con la parola sullo Spirito e sulla libertà si schiude un vasto orizzonte, ma allo stesso tempo si pone un chiaro limite all’arbitrio e alla soggettività, un limite che obbliga in maniera inequivocabile il singolo come la comunità e crea un legame superiore a quello della lettera: il legame dell’intelletto e dell’amore.

     

    Questa tensione tra legame e libertà, che va ben oltre il problema letterario dell’interpretazione della Scrittura, ha determinato anche il pensiero e l’operare del monachesimo e ha profondamente plasmato la cultura occidentale. Essa si pone nuovamente anche alla nostra generazione come sfida di fronte ai poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e del fanatismo fondamentalista, dall’altra.

    .

    Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l’arbitrio. Mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione.

    .

    Nella considerazione sulla “scuola del servizio divino” – come Benedetto chiamava il monachesimo – abbiamo fino a questo punto rivolto la nostra attenzione solo al suo orientamento verso la parola, verso l’ “ora”. E di fatto è a partire da ciò che viene determinata la direzione dell’insieme della vita monastica.

    .

    Ma la nostra riflessione rimarrebbe incompleta, se non fissassimo il nostro sguardo almeno brevemente anche sulla seconda componente del monachesimo, quella descritta col “labora”. Nel mondo greco il lavoro fisico era considerato l’impegno dei servi. I

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    l saggio, l’uomo veramente libero si dedicava unicamente alle cose spirituali; lasciava il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a quegli uomini che non sono capaci di questa esistenza superiore nel mondo dello spirito.

    .

    Assolutamente diversa era la tradizione giudaica: tutti i grandi rabbi esercitavano allo stesso tempo anche una professione artigianale. Paolo che, come rabbi e poi come annunciatore del Vangelo ai gentili, era anche tessitore di tende e si guadagnava la vita con il lavoro delle proprie mani, non costituisce un’eccezione, ma sta nella comune tradizione del rabbinismo.

    .

    Il monachesimo ha accolto questa tradizione; il lavoro manuale è parte costitutiva del monachesimo cristiano. San Benedetto parla nella sua Regola non propriamente della scuola, anche se l’insegnamento e l’apprendimento – come abbiamo visto – in essa erano cose praticamente scontate.

    .

    Parla però esplicitamente, in un capitolo della sua Regola, del lavoro (cfr cap.48). Altrettanto fa Agostino che al lavoro dei monaci ha dedicato un libro particolare. I cristiani, che con ciò continuavano nella tradizione da tempo praticata dal giudaismo, dovevano inoltre sentirsi chiamati in causa dalla parola di Gesù nel Vangelo di Giovanni, con la quale Egli difendeva il suo operare in giorno di Sabato: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (5, 17).

    .

    Il mondo greco-romano non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione della materia. Il “costruire” il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata. Ben diverso il Dio cristiano: Egli, l’Uno, il vero e unico Dio, è anche il Creatore. Dio lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini.

    .

    In Cristo Egli entra come Persona nel lavoro faticoso della storia. “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero”. Dio stesso è il Creatore del mondo, e la creazione non è ancora finita. Dio lavora, ergázetai. Così il lavorare degli uomini doveva apparire come un’espressione particolare della loro somiglianza con Dio e l’uomo, in questo modo, ha facoltà e può partecipare all’operare di Dio nella creazione del mondo.

    .

    Del monachesimo fa parte, insieme con la cultura della parola, una cultura del lavoro, senza la quale lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili. Questo ethos dovrebbe però includere la volontà di far sì che il lavoro e la determinazione della storia da parte dell’uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e l’uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua distruzione.

    .

    Siamo partiti dall’osservazione che, nel crollo di vecchi ordini e sicurezze, l’atteggiamento di fondo dei monaci era il quaerere Deum – mettersi alla ricerca di Dio. Potremmo dire che questo è l’atteggiamento veramente filosofico: guardare oltre le cose penultime e mettersi in ricerca di quelle ultime, vere.

    .

    Chi si faceva monaco, s’incamminava su una via lunga e alta, aveva tuttavia già trovato la direzione: la Parola della Bibbia nella quale sentiva parlare Dio stesso. Ora doveva cercare di comprenderLo, per poter andare verso di Lui. Così il cammino dei monaci, pur rimanendo non misurabile nella lunghezza, si svolge ormai all’interno della Parola accolta.

    .

    Il cercare dei monaci, sotto certi aspetti, porta in se stesso già un trovare. Occorre dunque, affinché questo cercare sia reso possibile, che in precedenza esista già un primo movimento che non solo susciti la volontà di cercare, ma renda anche credibile che in questa Parola sia nascosta la via – o meglio: che in questa Parola Dio stesso si faccia incontro agli uomini e perciò gli uomini attraverso di essa possano raggiungere Dio.

    .

    Con altre parole: deve esserci l’annuncio che si rivolge all’uomo creando così in lui una convinzione che può trasformarsi in vita. Affinché si apra una via verso il cuore della Parola biblica quale Parola di Dio, questa stessa Parola deve prima essere annunciata verso l’esterno. L’espressione classica di questa necessità della fede cristiana di rendersi comunicabile agli altri è una frase della Prima Lettera di Pietro, che nella teologia medievale era considerata la ragione biblica per il lavoro dei teologi: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione (logos) della speranza che è in voi” (3, 15) (Il Logos, la ragione della speranza, deve diventare apo-logia, deve diventare risposta).

    .

    Di fatto, i cristiani della Chiesa nascente non hanno considerato il loro annuncio missionario come una propaganda, che doveva servire ad aumentare il proprio gruppo, ma come una necessità intrinseca che derivava dalla natura della loro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti, il Dio uno e vero che si era mostrato nella storia d’Israele e infine nel suo Figlio, dando con ciò la risposta che riguardava tutti e che, nel loro intimo, tutti gli uomini attendono.

    .

    L’universalità di Dio e l’universalità della ragione aperta verso di Lui costituivano per loro la motivazione e insieme il dovere dell’annuncio. Per loro la fede non apparteneva alla consuetudine culturale, che a seconda dei popoli è diversa, ma all’ambito della verità che riguarda ugualmente tutti.

    .

    Lo schema fondamentale dell’annuncio cristiano “verso l’esterno” – agli uomini che, con le loro domande, sono in ricerca – si trova nel discorso di san Paolo all’Areopago. Teniamo presente, in questo contesto, che l’Areopago non era una specie di accademia, dove gli ingegni più illustri s’incontravano per la discussione sulle cose sublimi, ma un tribunale che aveva la competenza in materia di religione e doveva opporsi all’importazione di religioni straniere.

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    È proprio questa l’accusa contro Paolo: “Sembra essere un annunziatore di divinità straniere” (At 17, 18). A ciò Paolo replica: “Ho trovato presso di voi un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio” (cfr 17, 23). Paolo non annuncia dei ignoti. Egli annuncia Colui che gli uomini ignorano, eppure conoscono: l’Ignoto-Conosciuto; Colui che cercano, di cui, in fondo, hanno conoscenza e che, tuttavia, è l’Ignoto e l’Inconoscibile. Il più profondo del pensiero e del sentimento umani sa in qualche modo che Egli deve esistere.

    .

    Che all’origine di tutte le cose deve esserci non l’irrazionalità, ma la Ragione creativa; non il cieco caso, ma la libertà. Tuttavia, malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo – come Paolo sottolinea nella Lettera ai Romani (1, 21) – questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio.

    .

    Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra carne. Verbum caro factum est (Gv 1,14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio.

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    La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad Atene, ma, pur nella differenza, tuttavia, in molte cose anche assai analoga. Le nostre città non sono più piene di are ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto. Ma come allora dietro le numerose immagini degli dèi era nascosta e presente la domanda circa il Dio ignoto, così anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui.

     

    Quaerere Deum – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi.

    .

    Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura.

     

    © Copyright 2008 – Libreria Editrice Vaticana

     

    Parigi, venerdì 12 settembre 2008

     

     

     

    Signor Cardinale,
    Signora Ministro della Cultura,
    Signor Sindaco,
    Signor Cancelliere dell’Institut de France,
    cari amici!

     

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    Grazie, Signor Cardinale, per le Sue parole gentili. Ci troviamo in un luogo storico, edificato dai figli di san Bernardo di Clairvaux e che il Suo  grande predecessore, il compianto Cardinale Jean-Marie Lustiger, ha voluto come centro di dialogo tra la Sapienza cristiana e le correnti culturali intellettuali e artistiche dell’attuale società. Saluto in modo particolare la Signora Ministro della Cultura che rappresenta il Governo, così come il Signor Giscard d’Estaing e il Signor Chirac.

    .

    Rivolgo ugualmente il mio saluto ai Ministri presenti, ai rappresentanti dell’Unesco, al Signor Sindaco di Parigi e a tutte le altre Autorità. Non voglio dimenticare i miei colleghi dell’Institut de France, i quali conoscono la considerazione che nutro nei loro confronti. Ringrazio il Principe de Broglie per le sua cordiali parole. Ci rivedremo domani mattina. Ringrazio i delegati della comunità musulmana francese per aver accettato di partecipare a questo incontro: rivolgo loro i miei migliori auguri  per il ramadan in corso. Il mio caloroso saluto va ora naturalmente all’insieme del multiforme mondo della cultura, che voi, cari invitati, rappresentate così degnamente.

    .

     

    Vorrei parlarvi stasera delle origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea. Ho ricordato all’inizio che il luogo in cui ci troviamo è in qualche modo emblematico. È infatti legato alla cultura monastica, giacché qui hanno vissuto giovani monaci, impegnati ad introdursi in una comprensione più profonda della loro chiamata e a vivere meglio la loro missione.

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    È questa un’esperienza che interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo ormai passato?

    .

    Per rispondere, dobbiamo riflettere un momento sulla natura dello stesso monachesimo occidentale. Di che cosa si trattava allora? In base alla storia degli effetti del monachesimo possiamo dire che, nel grande sconvolgimento culturale prodotto dalla migrazione di popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi, i monasteri erano i luoghi in cui sopravvivevano i tesori della vecchia cultura e dove, in riferimento ad essi, veniva formata passo passo una nuova cultura.

     

    • Ma come avveniva questo?

    • Quale era la motivazione delle persone che in questi luoghi si riunivano?

    • Che intenzioni avevano?

    • Come hanno vissuto?

    .

    Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio.

    .

    Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile.

    .

    Si dice che erano orientati in modo “escatologico”. Ma ciò non è da intendere in senso cronologico, come se guardassero verso la fine del mondo o verso la propria morte, ma in un senso esistenziale: dietro le cose provvisorie cercavano il definitivo. Quaerere Deum: poiché erano cristiani, questa non era una spedizione in un deserto senza strade, una ricerca verso il buio assoluto.

    .

    Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva spianato una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla. Questa via era la sua Parola che, nei libri delle Sacre Scritture, era aperta davanti agli uomini.

    .

     

    La ricerca di Dio richiede quindi per intrinseca esigenza una cultura della parola o, come si esprime Jean Leclercq: nel monachesimo occidentale, escatologia e grammatica sono interiormente connesse l’una con l’altra (cfr L’amour des lettres et le desir de Dieu, p.14). Il desiderio di Dio, le désir de Dieu,  include l’amour des lettres, l’amore per la parola, il penetrare in tutte le sue dimensioni.

    .

    Poiché nella Parola biblica Dio è in cammino verso di noi e noi verso di Lui, bisogna imparare a penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi. Così, proprio a causa della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze profane che ci indicano le vie verso la lingua.

    .

    Poiché la ricerca di Dio esigeva la cultura della parola, fa parte del monastero la biblioteca che indica le vie verso la parola. Per lo stesso motivo ne fa parte anche la scuola, nella quale le vie vengono aperte concretamente.

     

    Benedetto chiama il monastero una dominici servitii schola. Il monastero serve alla eruditio, alla formazione e all’erudizione dell’uomo – una formazione con l’obbiettivo ultimo che l’uomo impari a servire Dio.

    .

    Ma questo comporta proprio anche la formazione della ragione, l’erudizione, in base alla quale l’uomo impara a percepire, in mezzo alle parole, la Parola.

    .

    Per avere la piena visione della cultura della parola, che appartiene all’essenza della ricerca di Dio, dobbiamo fare un altro passo.

    .

    La Parola che apre la via della ricerca di Dio ed è essa stessa questa via, é una Parola che riguarda la comunità. Certo, essa trafigge il cuore di ciascun singolo (cfr At 2, 37). Gregorio Magno descrive questo come una fitta improvvisa che squarcia la nostra anima sonnolenta e ci sveglia rendendoci attenti per la realtà essenziale, per Dio (cfr Leclercq, ibid., p.35).

    .

    Ma così ci rende attenti anche gli uni per gli altri. La Parola non conduce a una via solo individuale di un’immersione mistica, ma introduce nella comunione con quanti camminano nella fede. E per questo bisogna non solo riflettere sulla Parola, ma anche leggerla in modo giusto. Come nella scuola rabbinica, così anche tra i monaci il leggere stesso compiuto dal singolo è al contempo un atto corporeo. “Se, tuttavia, legere e lectio vengono usati senza un attributo esplicativo, indicano per lo più un’attività che, come il cantare e lo scrivere, comprende l’intero corpo e l’intero spirito”, dice al riguardo Jean Leclercq (ibid., p.21).

    .

    E ancora c’è da fare un altro passo. La Parola di Dio introduce noi stessi nel colloquio con Dio. Il Dio che parla nella Bibbia ci insegna come noi possiamo parlare con Lui. Specialmente nel Libro dei Salmi Egli ci dà le parole con cui possiamo rivolgerci a Lui, portare la nostra vita con i suoi alti e bassi nel colloquio davanti a Lui, trasformando così la vita stessa in un movimento verso di Lui.

    .

    Salmi contengono ripetutamente delle istruzioni anche sul come devono essere cantati ed accompagnati con strumenti musicali. Per pregare in base alla Parola di Dio il solo pronunciare non basta, esso richiede la musica.

    .

    Due canti della liturgia cristiana derivano da testi biblici che li pongono sulle labbra degli Angeli: il Gloria, che è cantato dagli Angeli alla nascita di Gesù, e il Sanctus, che secondo Isaia 6 è l’acclamazione dei Serafini che stanno nell’ immediata vicinanza di Dio.

    .

    Alla luce di ciò la Liturgia cristiana è invito a cantare insieme agli Angeli e a portare così la parola alla sua destinazione più alta. Sentiamo in questo contesto ancora una volta Jean Leclercq: “I monaci dovevano trovare delle melodie che traducevano in suoni l’adesione dell’uomo redento ai misteri che egli celebra. I pochi capitelli di Cluny, che si sono conservati fino ai nostri giorni, mostrano così i simboli cristologici dei singoli toni” (cfr ibid. p.229).

     

     

     

    In Benedetto, per la preghiera e per il canto dei monaci vale come regola determinante la parola del Salmo: Coram angelis psallam Tibi, Domine – davanti agli angeli voglio cantare a Te, Signore (cfr 138,1).

    .

    Qui si esprime la consapevolezza di cantare nella preghiera comunitaria in presenza di tutta la corte celeste e di essere quindi esposti al criterio supremo: di pregare e di cantare in maniera da potersi unire alla musica degli Spiriti sublimi, che erano considerati gli autori dell’armonia del cosmo, della musica delle sfere.

    .

    Partendo da ciò, si può capire la serietà di una meditazione di san Bernardo di Chiaravalle, che usa una parola di tradizione platonica trasmessa da Agostino per giudicare il canto brutto dei monaci, che ovviamente per lui non era affatto un piccolo incidente, in fondo secondario.

    .

    Egli qualifica la confusione di un canto mal eseguito come un precipitare nella “zona della dissimilitudine” – nella regio dissimilitudinis.

    .

    Agostino aveva preso questa parola dalla filosofia platonica per caratterizzare il suo stato interiore prima della conversione (cfr Confess. VII, 10.16): l’uomo, che è creato a somiglianza di Dio, precipita in conseguenza del suo abbandono di Dio nella “zona della dissimilitudine” – in una lontananza da Dio nella quale non Lo rispecchia più e così diventa dissimile non solo da Dio, ma anche da se stesso, dal vero essere uomo.

    .

    È certamente drastico se Bernardo, per qualificare i canti mal eseguiti dei monaci, usa questa parola, che indica la caduta dell’uomo lontano da se stesso. Ma dimostra anche come egli prenda la cosa sul serio. Dimostra che la cultura del canto è anche cultura dell’essere e che i monaci con il loro pregare e cantare devono corrispondere alla grandezza della Parola loro affidata, alla sua esigenza di vera bellezza.

    .

    Da questa esigenza intrinseca del parlare con Dio e del cantarLo con le parole donate da Lui stesso è nata la grande musica occidentale. Non si trattava di una “creatività” privata, in cui l’individuo erige un monumento a se stesso, prendendo come criterio essenzialmente la rappresentazione del proprio io.

    .

    Si trattava piuttosto di riconoscere attentamente con gli “orecchi del cuore” le leggi intrinseche della musica della stessa creazione, le forme essenziali della musica immesse dal Creatore nel suo mondo e nell’uomo, e trovare così la musica degna di Dio, che allora al contempo è anche veramente degna dell’uomo e fa risuonare in modo puro la sua dignità.

    .

    Per capire in qualche modo la cultura della parola, che nel monachesimo occidentale si è sviluppata dalla ricerca di Dio, partendo dall’interno, occorre finalmente fare almeno un breve cenno alla particolarità del Libro o dei Libri in cui questa Parola è venuta incontro ai monaci.

    .

    La Bibbia, vista sotto l’aspetto puramente storico o letterario, non è semplicemente un libro, ma una raccolta di testi letterari, la cui stesura si estende lungo più di un millennio e i cui singoli libri non sono facilmente riconoscibili come appartenenti ad un’unità interiore; esistono invece tensioni visibili tra di essi.

    .

    Ciò vale già all’interno della Bibbia di Israele, che noi cristiani chiamiamo l’Antico Testamento. Vale tanto più quando noi, come cristiani, colleghiamo il Nuovo Testamento e i suoi scritti, quasi come chiave ermeneutica, con la Bibbia di Israele, interpretandola così come via verso Cristo.

    .

    Nel Nuovo Testamento, con buona ragione, la Bibbia normalmente non viene qualificata come “la Scrittura”, ma come “le Scritture” che, tuttavia, nel loro insieme vengono poi considerate come l’unica Parola di Dio rivolta a noi. Ma già questo plurale rende evidente che qui la Parola di Dio ci raggiunge soltanto attraverso la parola umana, attraverso le parole umane, che cioè Dio parla a noi solo attraverso gli uomini, mediante le loro parole e la loro storia.

    .

    Questo, a sua volta, significa che l’aspetto divino della Parola e delle parole non è semplicemente ovvio. Detto in espressioni moderne: l’unità dei libri biblici e il carattere divino delle loro parole non sono, da un punto di vista puramente storico, afferrabili. L’elemento storico è la molteplicità e l’umanità.

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    Da qui si comprende la formulazione di un distico medioevale che, a prima vista, sembra sconcertante: “Littera gesta docet – quid credas allegoria…” (cfr Augustinus de Dacia, Rotulus pugillaris, I). La lettera mostra i fatti; ciò che devi credere lo dice l’allegoria, cioè l’interpretazione cristologica e pneumatica.

    .

    Possiamo esprimere tutto ciò anche in modo più semplice: la Scrittura ha bisogno dell’interpretazione, e ha bisogno della comunità in cui si è formata e in cui viene vissuta. In essa ha la sua unità e in essa si dischiude il senso che tiene unito il tutto.

    .

    Detto ancora in un altro modo: esistono dimensioni del significato della Parola e delle parole, che si dischiudono soltanto nella comunione vissuta di questa Parola che crea la storia. Mediante la crescente percezione delle diverse dimensioni del senso, la Parola non viene svalutata, ma appare, anzi, in tutta la sua grandezza e dignità.

    .

    Per questo il “Catechismo della Chiesa Cattolica” con buona ragione può dire che il cristianesimo non è semplicemente una religione del libro nel senso classico (cfr n. 108). Il cristianesimo percepisce nelle parole la Parola, il Logos stesso, che estende il suo mistero attraverso tale molteplicità e la realtà di una storia umana.

    .

    Questa struttura particolare della Bibbia è una sfida sempre nuova per ogni generazione. Secondo la sua natura essa esclude tutto ciò che oggi viene chiamato fondamentalismo. La Parola di Dio stesso, infatti, non è mai presente già nella semplice letteralità del testo.

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    Per raggiungerla occorre un trascendimento e un processo di comprensione, che si lascia guidare dal movimento interiore dell’insieme e perciò deve diventare anche un processo di vita. Sempre e solo nell’unità dinamica dell’insieme i molti libri formano un Libro, si rivelano nella parola e nella storia umane la Parola di Dio e l’agire di Dio nel mondo.

    .

    Tutta la drammaticità di questo tema viene illuminata negli scritti di san Paolo. Che cosa significhi il trascendimento della lettera e la sua comprensione unicamente a partire dall’insieme, egli l’ha espresso in modo drastico nella frase: “La lettera uccide, lo Spirito dà vita” (2 Cor 3,6).

    E ancora: “Dove c’è lo Spirito … c’è libertà” (2 Cor 3,17). La grandezza e la vastità di tale visione della Parola biblica, tuttavia, si può comprendere solo se si ascolta Paolo fino in fondo e si apprende allora che questo Spirito liberatore ha un nome e che la libertà ha quindi una misura interiore: “Il Signore è lo Spirito, e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà” (2 Cor 3,17). Lo Spirito liberatore non è semplicemente la propria idea, la visione personale di chi interpreta.

     

    Lo Spirito è Cristo, e Cristo è il Signore che ci indica la strada. Con la parola sullo Spirito e sulla libertà si schiude un vasto orizzonte, ma allo stesso tempo si pone un chiaro limite all’arbitrio e alla soggettività, un limite che obbliga in maniera inequivocabile il singolo come la comunità e crea un legame superiore a quello della lettera: il legame dell’intelletto e dell’amore.

     

    Questa tensione tra legame e libertà, che va ben oltre il problema letterario dell’interpretazione della Scrittura, ha determinato anche il pensiero e l’operare del monachesimo e ha profondamente plasmato la cultura occidentale. Essa si pone nuovamente anche alla nostra generazione come sfida di fronte ai poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e del fanatismo fondamentalista, dall’altra.

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    Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l’arbitrio. Mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione.

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    Nella considerazione sulla “scuola del servizio divino” – come Benedetto chiamava il monachesimo – abbiamo fino a questo punto rivolto la nostra attenzione solo al suo orientamento verso la parola, verso l’ “ora”. E di fatto è a partire da ciò che viene determinata la direzione dell’insieme della vita monastica.

    .

    Ma la nostra riflessione rimarrebbe incompleta, se non fissassimo il nostro sguardo almeno brevemente anche sulla seconda componente del monachesimo, quella descritta col “labora”. Nel mondo greco il lavoro fisico era considerato l’impegno dei servi. I

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    l saggio, l’uomo veramente libero si dedicava unicamente alle cose spirituali; lasciava il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a quegli uomini che non sono capaci di questa esistenza superiore nel mondo dello spirito.

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    Assolutamente diversa era la tradizione giudaica: tutti i grandi rabbi esercitavano allo stesso tempo anche una professione artigianale. Paolo che, come rabbi e poi come annunciatore del Vangelo ai gentili, era anche tessitore di tende e si guadagnava la vita con il lavoro delle proprie mani, non costituisce un’eccezione, ma sta nella comune tradizione del rabbinismo.

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    Il monachesimo ha accolto questa tradizione; il lavoro manuale è parte costitutiva del monachesimo cristiano. San Benedetto parla nella sua Regola non propriamente della scuola, anche se l’insegnamento e l’apprendimento – come abbiamo visto – in essa erano cose praticamente scontate.

    .

    Parla però esplicitamente, in un capitolo della sua Regola, del lavoro (cfr cap.48). Altrettanto fa Agostino che al lavoro dei monaci ha dedicato un libro particolare. I cristiani, che con ciò continuavano nella tradizione da tempo praticata dal giudaismo, dovevano inoltre sentirsi chiamati in causa dalla parola di Gesù nel Vangelo di Giovanni, con la quale Egli difendeva il suo operare in giorno di Sabato: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (5, 17).

    .

    Il mondo greco-romano non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione della materia. Il “costruire” il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata. Ben diverso il Dio cristiano: Egli, l’Uno, il vero e unico Dio, è anche il Creatore. Dio lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini.

    .

    In Cristo Egli entra come Persona nel lavoro faticoso della storia. “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero”. Dio stesso è il Creatore del mondo, e la creazione non è ancora finita. Dio lavora, ergázetai. Così il lavorare degli uomini doveva apparire come un’espressione particolare della loro somiglianza con Dio e l’uomo, in questo modo, ha facoltà e può partecipare all’operare di Dio nella creazione del mondo.

    .

    Del monachesimo fa parte, insieme con la cultura della parola, una cultura del lavoro, senza la quale lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili. Questo ethos dovrebbe però includere la volontà di far sì che il lavoro e la determinazione della storia da parte dell’uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e l’uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua distruzione.

    .

    Siamo partiti dall’osservazione che, nel crollo di vecchi ordini e sicurezze, l’atteggiamento di fondo dei monaci era il quaerere Deum – mettersi alla ricerca di Dio. Potremmo dire che questo è l’atteggiamento veramente filosofico: guardare oltre le cose penultime e mettersi in ricerca di quelle ultime, vere.

    .

    Chi si faceva monaco, s’incamminava su una via lunga e alta, aveva tuttavia già trovato la direzione: la Parola della Bibbia nella quale sentiva parlare Dio stesso. Ora doveva cercare di comprenderLo, per poter andare verso di Lui. Così il cammino dei monaci, pur rimanendo non misurabile nella lunghezza, si svolge ormai all’interno della Parola accolta.

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    Il cercare dei monaci, sotto certi aspetti, porta in se stesso già un trovare. Occorre dunque, affinché questo cercare sia reso possibile, che in precedenza esista già un primo movimento che non solo susciti la volontà di cercare, ma renda anche credibile che in questa Parola sia nascosta la via – o meglio: che in questa Parola Dio stesso si faccia incontro agli uomini e perciò gli uomini attraverso di essa possano raggiungere Dio.

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    Con altre parole: deve esserci l’annuncio che si rivolge all’uomo creando così in lui una convinzione che può trasformarsi in vita. Affinché si apra una via verso il cuore della Parola biblica quale Parola di Dio, questa stessa Parola deve prima essere annunciata verso l’esterno. L’espressione classica di questa necessità della fede cristiana di rendersi comunicabile agli altri è una frase della Prima Lettera di Pietro, che nella teologia medievale era considerata la ragione biblica per il lavoro dei teologi: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione (logos) della speranza che è in voi” (3, 15) (Il Logos, la ragione della speranza, deve diventare apo-logia, deve diventare risposta).

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    Di fatto, i cristiani della Chiesa nascente non hanno considerato il loro annuncio missionario come una propaganda, che doveva servire ad aumentare il proprio gruppo, ma come una necessità intrinseca che derivava dalla natura della loro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti, il Dio uno e vero che si era mostrato nella storia d’Israele e infine nel suo Figlio, dando con ciò la risposta che riguardava tutti e che, nel loro intimo, tutti gli uomini attendono.

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    L’universalità di Dio e l’universalità della ragione aperta verso di Lui costituivano per loro la motivazione e insieme il dovere dell’annuncio. Per loro la fede non apparteneva alla consuetudine culturale, che a seconda dei popoli è diversa, ma all’ambito della verità che riguarda ugualmente tutti.

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    Lo schema fondamentale dell’annuncio cristiano “verso l’esterno” – agli uomini che, con le loro domande, sono in ricerca – si trova nel discorso di san Paolo all’Areopago. Teniamo presente, in questo contesto, che l’Areopago non era una specie di accademia, dove gli ingegni più illustri s’incontravano per la discussione sulle cose sublimi, ma un tribunale che aveva la competenza in materia di religione e doveva opporsi all’importazione di religioni straniere.

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    È proprio questa l’accusa contro Paolo: “Sembra essere un annunziatore di divinità straniere” (At 17, 18). A ciò Paolo replica: “Ho trovato presso di voi un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio” (cfr 17, 23). Paolo non annuncia dei ignoti. Egli annuncia Colui che gli uomini ignorano, eppure conoscono: l’Ignoto-Conosciuto; Colui che cercano, di cui, in fondo, hanno conoscenza e che, tuttavia, è l’Ignoto e l’Inconoscibile. Il più profondo del pensiero e del sentimento umani sa in qualche modo che Egli deve esistere.

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    Che all’origine di tutte le cose deve esserci non l’irrazionalità, ma la Ragione creativa; non il cieco caso, ma la libertà. Tuttavia, malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo – come Paolo sottolinea nella Lettera ai Romani (1, 21) – questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio.

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    Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra carne. Verbum caro factum est (Gv 1,14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio.

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    La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad Atene, ma, pur nella differenza, tuttavia, in molte cose anche assai analoga. Le nostre città non sono più piene di are ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto. Ma come allora dietro le numerose immagini degli dèi era nascosta e presente la domanda circa il Dio ignoto, così anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui.

     

    Quaerere Deum – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi.

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    Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura.

     

    © Copyright 2008 – Libreria Editrice Vaticana

     

     

     

     

    L’OSPITALITA’ AMOROSA E PREMUROSA DI SAN GIOVANNI DI DIO – + Gianfranco Ravasi

     

     Il primo ospedale di San Giovanni d Dio

    L’ospitalità amorosa e premurosa 

    di San Giovanni di Dio

      

    Gianfranco Ravasi

     

    ravasi-gianfranco-primo-piano-2019687-150x150Cesare Lombroso (1835-1909), psichiatra veronese, inventore dell’antropologia criminale e di estrazione certamente non religiosa, aveva scritto che San Giovanni di Dio, il fondatore dei Fatebenefratelli era stato “il creatore dell’ospedale moderno”, anzi, il maggior “riformatore per quanto concerneva il trattamento dei malati”. Questo riconoscimento partiva dall’attenzione che il santo –in un’epoca ancora lontana dall’assistenza ai miseri e agli ultimi (eravamo, infatti, nel ‘500)– aveva riservato non solo alle anime (“Vale più un’anima di tutti i tesori del mondo”, era solito affermare) ma anche ai corpi sofferenti tant’è vero che nel IV centenario di fondazione dell’Ordine dei Fatebenefratelli il papa Pio XI dirà di lui: “Con l’occhio acuto della fede egli penetrò sino in fondo al mistero che si nasconde negli infermi, nei deboli e negli afflitti; e consolandoli, di giorno e di notte, con la presenza, con le parole, coi medicamenti, era convito di prestare quei pietosi uffici alle membra dolenti del Redentore”.

     

    Noi in questi due ultimi anni abbiamo dedicato la nostra rubrica a un unico tema, quello del corpo, descritto nel suo significato completo di realtà fisica e di segno dell’interiorità. L’abbiamo fatto alla luce della Bibbia che è una religione della storia e dell’Incarnazione, consapevole che questa nostra carne ha avuto in sé anche la presenza del Figlio di Dio.

     

    Vogliamo ora concludere questo nostro itinerario puntando su un aspetto particolare ma significativo e altrettanto realistico, quello dell’ospitalità. Non

    dimentichiamo, infatti, che la parola “ospedale” deriva appunto da “ospitare” e che il nome ufficiale dei Fatebenefratelli è “Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio”.

    Non per nulla il santo fondatore iniziò la sua missione ospitando nella notte, a Granada, nell’atrio di un palazzo signorile i miserabili che egli incrociava per le strade. Ora, è noto che in Oriente l’ospitalità è una realtà sacra e intangibile: chi, entrando nella tua casa, chiede di essere ospitato, diventa un membro della famiglia. Si era, così, codificata una norma per l’accoglienza e per il rispetto dell’ospite, anche se straniero.

     

    La Bibbia offre al riguardo una testimonianza significativa che è ancor oggi valida, in tempi di sospetti e di paure, anche legittime, ma di illegittimi razzismi, xenofobie, prevaricazioni. Già nel Decalogo, quando si parla del riposo sabbatico, si ricorda che ad esso ha diritto anche “il forestiero che dimora presso di te”. Anzi, egli potrà essere ammesso –se ha il cuore aperto e sincero – anche al culto nel tempio, “casa di preghiera per tutti i popoli” (Isaia 56, 6-7). I profeti, infatti, vedranno confluire verso Sion una processione di popoli, attratti dalla parola del Signore, così da diventare tutti fratelli, pronti a “non alzare più la spada contro un altro popolo” (Isaia 2, 2-5).

     

    Il profeta Sofonia rappresenterà tutti i popoli riuniti a pregare Dio in perfetta parità: “Io darò ai popoli un labbro puro perché invochino il nome del Signore e lo servano tutti spalla a spalla” (3, 9). Ancora Isaia, riflettendo una sorprendente apertura che si faceva strada in mezzo a un certo integralismo ebraico chiuso a riccio, allora diffuso, scriveva: “Non dica lo straniero che ha aderito al Signore: certo, il Signore mi escluderà dal suo popolo!” (56,3). Dio, infatti, accoglie tutti coloro che, direttamente o implicitamente, lo onorano con la loro vita retta e con la coscienza pura. Ma è non solo un’accoglienza religiosa quella che la Bibbia presenta già nell’Antico Testamento.

     

    Significativo è il fatto che, nella società, unica dev’essere la legislazione per l’ebreo e per lo straniero: “Vi sarà una sola legge per il nativo e per lo straniero che è residente in mezzo a voi” (Esodo 12, 49). Anche lo straniero che è entrato nella nostra terra e che non commette crimini ha diritto al rispetto, alla tutela e all’amore:

     

    “Quando un forestiero dimorerà presso di voi nel vostro paese, non dovete fargli torto. Il forestiero dimorante tra voi lo tratterete come colui che è nato tra voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto” (Levitico 19, 33-34). Anzi, lui pure avrà diritto alla protezione della suprema “cassazione” divina perché “il Signore protegge lo straniero”, così come tutela l’orfano e la vedova, ossia le creature più deboli e indifese nelle società (vedi il Salmo 146, 9).

     

    Naturalmente l’ospitalità amorosa e premurosa è esaltata anche nel Nuovo Testamento, essendo un corollario necessario di quell’amore destinato ad estendersi ormai persino ai nemici.

     

     

    La Lettera agli Ebrei ammonisce: “Perseverate nell’amore fraterno e non dimenticate l’ospitalità: alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo” (13, 1-2). Curiosa è la parabola del buon Samaritano che ha al centro proprio un escluso, un “diverso” (come erano considerati i Samaritani da parte degli Ebrei): eppure è lui che diventa un maestro e un modello di carità e di ospitalità. E Gesù, nel grande affresco del giudizio finale, centrerà proprio sull’accoglienza degli ultimi, dei bisognosi e degli emarginati il criterio di accoglienza nel regno di Dio: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno…

     

    Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi” (Matteo 25, 34-36).

     

    Ciò che si fa a uno dei miseri, anche senza averne consapevolezza, lo si fa a Cristo stesso. Lui che è venuto per eliminare tutti i muri che dividono gli uomini tra di loro, come aveva ricordato San Paolo: “Cristo è la nostra pace, lui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia…, per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo… Così voi non siete più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e familiari di Dio” (Efesini 2, 14.16.19). E continuava: “Non c’è distinzione tra giudeo e greco, dato che egli è il lo invocano… Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna, perché tutti voi siete uno in Cristo”.

    Da FATEBENEFRATELLI OTTOBRE/DICEMBRE 2006

    FERDINANDO MICHELINI E IL CASTELLO DI MONGUZZO

     

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    Il Complesso del castello di Monguzzo, uno dei più antichi ed importanti della brianza sorge sopra un colle isolato (Mons Acutus) sopra a Monguzzo, a pochi chilometri da Erba Incino, scendendo alla stazione di Merone, ttraversando la ferrovia e la strada Valassina.

     

    Eretto attorno al 920 D.C. , passato dapprima in possesso di vari casati Nobiliari e Reggenti , ed usato dapprima come fortezza, prigione ed infine abitazione, dal 1946 il Castello fù donato per lascito alla Provincia Lombardo Veneta dell’Ordine Ospedaliero S.Giovanni di Dio che, secondo il volere della sua testatrice (l’ultima proprietaria Leonilde Trussardi), ha adibito a Centro Studi Ospedalieri e luogo di Congressi e Convegni di carattere scientifico, sanitario e religioso.

     

     

    LA STORIA 

     

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    LA COSTRUZIONE

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    Le fondamenta del castello di Monguzzo, paese non lontano da Erba, secondo alcuni storici, furono gettate probabilmente intorno all’anno 900.

    Per far fronte alle invasioni barbariche, il re Berengario dispose la costruzione di appositi fortilizi sulle alture, per potersi difendere: fra questi anche Monguzzo, che inizialmente non era che una semplice rocca.

    Nel 920 al castello furono assegnate le terre che scendevano verso il lago e nello stesso anno Berengario concesse in privilegio, tra le altre, la corte di Calpuno (di cui facevano parte Monguzzo ed il castello) ai Canonici di San Giovanni in Monza.

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    I VISCONTI

     

    Intorno al 1250, essendo stati revocati i cosiddetti “privilegi”, anche il feudo di Monguzzo passò dai canonici di Monza alla Camera Ducale.

    I Visconti, impadronitisi del Ducato di Milano, in segno di riconoscenza per i servizi prestati, donarono alla famiglia veronese Dal Verme varie terre (tra cui Monguzzo). Il possesso venne confermato anche dagli Sforza.

    Alla morte di Taddeo Dal Verme, avvelenato dalla seconda moglie Chiara Sforza, figlia del Duca Galeazzo Maria e nipote di Ludovico il Moro, Monguzzo, con tutte le proprietà dei Dal Verme, tornò al Duca di Milano.

    Ed è a Giovanni Bentivoglio, signore di Bologna, che il 27 marzo 1487, “quale stipendio a lui dovuto da ogni retro”, fu destinato il feudo di Monguzzo.

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    IL MENEGHINO

     

     

    Nel 1527, però, il castello passò nelle mani del ben noto avventuriero Gian Giacomo Medici, detto il “Medeghino”, che già con la frode aveva occupato la roccaforte di Musso nel 1523, divenendo signore di un vastissimo territorio comprendente le Valli intorno al lago di Como, e divenne una vera roccaforte.

    Ma per il funzionamento del castello ed il mantenimento e le paghe dei soldati il Medeghino ricorse ad ogni mezzo: tasse, razzie, taglie, sequestri, esazioni, imposti con la forza ai conventi, ai proprietari, ai comuni. Ed a chi non pagava era riservata la prigione. Per scacciarlo, si dovette combattere sotto le mura del castello. Il primo tentativo fu compiuto dal conte Ludovico Belgioioso – mandato dal Leyva, capitano generale delle truppe spagnole residenti nel ducato – che, dopo vari assalti risultati infruttuosi, abbandonò l’impresa.

    Tra il 1530 ed il 1531 il castello fu assalito dalle truppe spagnole e sforzesche, condotte dal capitano Alessandro Gonzaga e dal Commissario ducale Battista Carcano, e dal Bentivoglio.

     

    Il Medeghino, però, aveva abbandonato il castello e vi aveva messo a difesa l’eccellente capitano Pellizzone, che si oppose strenuamente, ma, per la scarsità di uomini, la mancanza di viveri e di munizioni, alla fine dovette cedere e nottetempo abbandonare il castello con i suoi soldati.

     

    Per gli abitanti della zona non cessarono, tuttavia, i soprusi e le angherie: le soldatesche spagnole non erano da meno di quelle del Medici. Fu, comunque, questo il periodo di maggior notorietà del castello di Monguzzo.

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    GLI ANNI SUCCESSIVI

     

    Il castello ritornò di proprietà dei Bentivoglio, i quali iniziarono a venderne i possedimenti a varie famiglie. Risulta, tuttavia, da un documento del 29 dicembre 1596 che feudatario del castello di Monguzzo è il marchese Gabriele Ferrante Novati (a cui fu ceduto nel 1564 da Ermes Bentivoglio): i Bentivoglio spariscono ormai di scena.

    In questo periodo il castello è ancora ben fortificato. Ma il Governo spagnolo tolse la proprietà ai Novati, ed i possedimenti di Monguzzo passarono alla famiglia Rosales che, sebbene fosse stata loro ceduta la proprietà fin dal 1664, per le lunghe controversie sia con i precedenti proprietari sia con il fisco, potè entrare in possesso del castello solo nel 1751.

    Il castello riprese importanza durante questo periodo a motivo delle riunioni che qui tenevano i signori della Brianza aderenti alla Carboneria, ed in particolare i mazziniani.

    Il castello, unitamente ai beni del paese, vennero, poi, acquistati dal conte Sebastiano Mondolfo, “noto per la sua carità ed ingegno”, ed è ad una sua erede, la Nobildonna Enrichetta Lodigiani, che gli stessi risultano appartenere nel 1880.

    Il castello o, meglio, quello che era rimasto del castello, fu acquistato nei primi decenni del 1900 dagli eredi del Mondolfo dal senese Cav. Ferruccio Benocci che si adoperò molto per restaurare sia il complesso del castello che l’ampio parco.

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    I FATEBENEFRATELLI

     

    Lasciato disabitato per un certo periodo, dopo la sua morte, esso fu, poi, dalla moglie Signora Leonilde Trussardi donato alla Provincia Lombardo-Veneta dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, Fatebenefratelli, perchè fosse adibito a Centro Studi Ospedalieri e per manifestazioni di carattere ospedaliero e religioso.

    Nel 1970 i Fatebenefratelli affidarono all’arch. Fernando Michelini il compito di provvedere alla sistemazione ed al restauro del castello e delle sue pertinenze, in modo da renderlo adeguato allo scopo prefisso dal lascito. I lavori durarono poco più di due anni e nel 1972, alla morte della Sig.ra Trussardi, l’opera di ripristino e di abbellimento era interamente conclusa.  Il castello, il castelletto e la pusterla come sono attualmente sono il risultato di tali lavori.

    Da allora nel castello ed anche nel parco, oltre ai Capitoli Provinciali dell’Ordine, sono stati ospitati numerosi eventi di carattere culturale (convegni, congressi, corsi di aggiornamento, manifestazioni varie), religioso (esercizi spirituali, giornate di preghiera…) e sociale (incontri per giovani, anziani… organizzati da enti locali).

     

     

    Domenica 7 settembre 1997 per la prima volta è stata anche sperimentata, con grande successo e gradimento, su iniziativa del Comune di Monguzzo, una giornata di apertura al pubblico, che ha visto una partecipazione di persone notevolmente superiore al previsto. Tale manifestazione, organizzata dalla Pro Loco, si è poi ripetuta annualmente.

     

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    IL QUADRO

     

     

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    IL PITTORE: Giovanni Moroni Battista

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    Nato ad Albino presso Bergamo , morì a Bergamo il 5 feb-braio 1578.
    “Inviato giovanissimo nella bottega del Moretto a Brescia, trasse elementi determinanti per la sua formazione, tutta riconducibile al Savoldo, al Moretto, e al Romanino” .

    La grande fama del Moroni sta nel ritratto in cui riuscì sommo. Pochi artisti sono arrivati a ripro-durre i caratteri fisionomici con tanta verosimiglianza e tanta vitalità. I ritratti del Moroni sembrano persone di conoscenza delle quali si potrebbe definire la posizione sociale, il genere di vita, il modo di pensare e di sentire. Tiziano stesso induceva i go-vernatori veneziani residenti a Bergamo a non mancare di farsi ritrarre dal Moroni.

    Questi fece molti ritratti di figura intera dietro l’esempio del Moretto, sebbene in quel tempo ciò non si usasse se non rarissimamente e per grandi personaggi.

    Ricordiamo i ritratti di Bernardo Spina e di Pace Rivola Spina , quello di Isotta Brembati ; a Firenze, agli Uffizi, il ritratto del conte Secco Suardo (1563); a Milano, quello di un cavaliere (1554); a Londra, alla National Gallery una dama seduta e due gentiluomini in piedi, a Vienna (lo Scultore), a Londra (il Sarto), a Dublino (Vedovo con due bambini).

     

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    IL QUADRO

     

    Il quadro raffigurerebbe – ma non è certo – Gian Giacomo Medici, il “Medeghino”, ritratto a mezza figura. Il Medeghino (o un noto personaggio o signore di quel periodo) è un uomo cui può essere attribuita una età tra i 50 ed i 60 anni.

    Ha barba e baffi: la barba sulle guance è ancora rossiccia, mentre quella sul mento ed i baffi hanno cominciato ad imbianchire, segno dell’avanzamento dell’età.

    I capelli un po’ ondulati, invece, mantengono il loro colorito rossiccio. La fronte è spaziosa ed è già un po’ stempiata. Il naso è un po’ adunco, ma ben proporzionato.

    Quello che caratterizza il personaggio e lo definisce sono gli occhi. Paragonati a quelli di un uccello rapace può sinteticamente rendere l’idea di come siano e chi sia l’uomo. Sono occhi vivaci, penetranti, furbeschi, ma non direi che facciano intravedere un uomo crudele, violento e sanguinario.

    Questo ritratto non è certo noto come quei tanti altri che sono esposti in musei oppure sono stati esposti in occasione di mostre. Ma questo non vuol dire che non sia significativo. Esso, infatti, rispetta appieno le caratteristiche ritrattistiche proprie del Moroni, dipinto com’è “con verosimiglianza fisionomica, grande vitalità e corposa consapevolezza della vita individuale” .

    Il quadro è custodito nel museo fatebenefratelli non essendo più osservabile presso il castello ne rappresenta sempre la parte più tangibile della sua storia.

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    IL SOGGETTO: Giacomo Medici

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    Nato nel 1497, discendente della famiglia dei Medici Nosigia di Milano, detto il Medeghino, morì l’8 novembre 1556.

    Iniziò la sua carriera come pirata sul lago di Como, poi al servizio di Carlo V° come generale, combattè per Cosimo I° Medici occupando Siena. Sposò Marzia Orsini, figlia di Luigi Conte di Nola e vedova dal 1537 di Livio Attilio di Bartolommeo d’Alviano.

    Gian Giacomo Medici occupava paesi, invadeva le valli, percorreva da padrone il lago di Como ed il ramo del lago di Lecco, imponeva tasse, spaventava famiglie e persone, rubava quello che gli era necessario.
    A Milano il ducato era stato ridato nelle mani di Francesco Sforza II°, mediante i patti della Pace di Bologna del 23 dicembre 1529 e il Duca si trovò a dover affrontare anche la questione del lago di Como.

     

    I successi di Gian Giacomo si mutarono presto in una serie di disastri: la morte del fratello, Gabriele; la perdita in battaglie di parecchi amici fidati; la progressiva mancanza di soldi; la resistenza delle famiglie potenti del lago; la privazione di nuove armi e munizioni.Gian Giacomo trattò per ottenere una soluzione non svantaggiosa e per liberare i fratelli Giovanni Angelo e Giovanni Battista, che si trovavano ostaggi nel castello di Milano.

    Il fiero Gian Giacomo si arrese e il duca Francesco Sforza II° investì Gian Giacomo come marchese di Melegnano.

    Giovan Battista Moroni

    Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.

    « Tuttavia quel Moron, quel Bergamasco
    per esser gran pittor bravo e valente,
    El vogio nominar seguramente
    che de bona nomea l’ha pieno el tasco;

    Ghè dei ritrat, ma in particolar
    quel d’un sarto sì belo, e sì ben fato
    che ‘l parla più de qual si sa Avocato,
    l’ha in man la forfe, e vu ‘l vede’ a tagiar

    O in pitura Pitor, che carne impasta
    o Bergamasco pien d’alto giudizio
    più di così ti non puol far l’offitio:
    Ti è Batista Moron, tanto me basta.

    Marco Boschini, La carta del navegar pitoresco, Venezia, 1660 »

    Il Sarto

    Il Moroni, formatosi presso il Moretto, da cui riprende l’intonazione severamente Già Carlo Ridolfi, ne Le maraviglie dell’arte, del 1648, definiva “eccellenti” e “naturali” i personaggi ritratti dal Moroni, volendo indicare lo scrupolo dell’esatta riproduzione dell’effigiato, senza concessioni ad abbellimenti e piaggerie, come del resto il cardinale Paleotti, nel suo Discorso intorno alle immagini sacre e profone del 1582 aveva prescritto, scrivendo che

    “…si dovrà curare che la faccia od altra parte del corpo non fosse fatta più bella o più grave da quella che la natura in quell’età ha conceduto, anzi, se vi fossero anco difetti, o naturali o accidentali che molto la deformassero, né questi s’avriano a tralasciare…”.

    Era questa la determinazione assunta dal Concilio di Trento, che accoglieva, una volta tanto, la scelta nordica e protestante del naturalismo, opposta alla tradizione celebrativa del ritratto italiano.

    Il Moroni resterà sempre fedele a questa sua convinta adesione naturalistica, non limitandosi alla caratterizzazione individuale ma ricercando una verità umana più profonda, fino a trasmettere la verità morale e sociale del personaggio rappresentato. Nel ritratto della poetessa aristocratica Isotta Brembati, per esempio, tra i primi del pittore, dove si sono rilevati influssi dei nordici Franz Pourbus e Anthonis Mor, alla ricchezza dell’abito e dei gioielli si unisce la fermezza dello sguardo che non è interpretabile soltanto come alterigia di un elevato stato sociale ma anche come certezza di un consapevole valore intellettuale.

    Impavidum ferient ruinae, “le sventure mi colpiranno impavido” è scritto nel Ritratto di Michel de L’Hōpitdevozionale nei dipinti di soggetto religioso, è famoso soprattutto per la sua attività di ritrattista, con dipinti che possono essere definiti «ritratti in azione», presentando personaggi nell’attimo in cui stanno compiendo un gesto, in modo da evitare l’aridà fissità del ritratto ufficiale.

     

    Biografia

    Sono scarse le notizie sulla sua vita: nasce da Francesco di Moretto, capomastro e a volte anche progettista, attivo tra Bergamo e Brescia, e da Maddalena Brigati, in una famiglia collaterale a quella, di mercanti e possidenti, che darà poi origine alla dinastia dei conti Moroni di Bergamo. Non è nota l’esatta data della sua nascita: un documento del giugno 1549, citandolo come titolare di una procura da parte del padre – per cui doveva aver compiuto già venticinque anni – e tenendo conto della sua attività di pittore indipendente, iniziata verso il 1547, la farebbe risalire intorno al 1522.

    La sua formazione artistica inizia, verso la metà degli anni Trenta, nella bottega bresciana del Moretto, frequentata ancora nel 1543, come testimonia un suo disegno preparatorio alla pala morettiana della Madonna e i santi Gerolamo, Francesco e Antonio nella chiesa di San Clemente di Brescia. Un documento del 1549 cita una collaborazione tra il Moretto e l’ormai emancipato allievo che operava già a Trento verso il 1547, durante il Concilio, a contatto con la corte del Principe vescovo Cristoforo Madruzzo; è anche a Orzivecchi e nella sua Albino, per affrescare Palazzo Spini.

    È operoso a Bergamo per tutti gli anni Cinquanta, che segnano la maggior fortuna dell’artista, come attestano i numerosi ritratti di esponenti dei circoli aristocratici, intellettuali e politici, spagnoleggianti e neofeudali, della città.

    Dagli anni Sessanta la fortuna del Moroni declina di colpo per un decennio, sia per la caduta in disgrazia della più potente, insieme con quella dei Grumello, famiglia bergamasca, gli Albani – allontanata dalla città a seguito di vicende criminose – sia per le nuove tendenze, in materia di arte sacra, della locale Curia, la cui ostilità gli preclude l’accesso alle committenze della nobiltà cittadina, subito adeguatasi al nuovo clima culturale; pur essendo il Moroni il pittore più valido di tutta la provincia, a Bergamo le committenze importanti vengono infatti riservate a modesti pittori, oggi pressoché dimenticati, come un Gerolamo Colleoni o un Troilo Lupi, e così Moroni deve limitarsi a ritrarre personaggi della provincia bergamasca di mediocre condizione sociale, come un Mario Benvenuti, capitano di milizie mercenarie, Simone Moroni, Bernardo Spini, un Sarto, del mercante albinese Paolo Vidoni Cedrelli o di un agricoltore di Albino suo vicino di casa, e a eseguire pale d’altare per parrocchiali di piccoli borghi, percependo compensi ridotti, spesso dilazionati e a volte persino in natura. Tuttavia sembra essersi ben adattato alla nuova condizione, che dovette essere comunque abbastanza redditizia se poté acquistare terreni, essere membro dell’albinese Fraternita della Misericordia e ottenere l’incarico di Console di Albino nel 1571.

    Ma il Moroni ottiene un’improvvisa rivalutazione a Bergamo, ai primi anni Settanta, grazie al ritorno, da cardinale, del suo vecchio mecenate Gian Gerolamo Albani, che l’artista ritrae in uno dei suoi migliori dipinti.

    Negli Atti della visita pastorale del cardinale Carlo Borromeo, avvenuta nel 1575, è attestato l’apprezzamento delle sue tele da parte del più influente propagandista della Controriforma come è attestato altresì il mutamento degli indirizzi curiali nella commissione delle pale d’altare, affidate ad artisti, come il Cavagna, lo Zucco e poi Enea Salmeggia, che si ponevano coscientemente sulle tracce del Nostro, il quale tuttavia ebbe poco tempo di godere del ritrovato interesse per la sua pittura, essendo venuto a mancare pochi anni dopo.

     

    I ritratti

       

    Ritratto di Giovanni Pietro Maffeis, Vienna, Kunsthistorisches Museum

    al del 1553, per indicare l’integrità del personaggio, ripreso in una posa ferma e molle insieme, quasi a sottolineare la rigorosa duttilità del diplomatico francese. Il dipinto mostra il recupero dei modelli italiani, tanto nell’impostazione che richiama l’Avogadro del Moretto, del 1526, quanto per il naturalismo meno pungente, più adeguato allo spirito dell’aristocrazia lomdarda. Un’aristocrazia, quella ritratta dal Moroni, provinciale e da poco giunta al potere che ha perciò bisogno di giustificarsi e di acquisire autorevolezza, se non attraverso inesistenti glorie di antenati, almeno da una dignità culturale e morale che si costruisce e si cautela anche con i richiami, attraverso sfondi in rovina ed espliciti sentenze letterarie, con l’inesorabile procedere del tempo che, come esalta il successo e il privilegio, egualmente lo può dissolvere. Tali riferimenti non possono essere pertanto essere interpretati soltanto come un accoglimento delle esigenze borromee dell’austerità della rappresentazione pittorica.

    Ma accanto alle figure aristocratiche compaiono nella ritrattistica moroniana i borghesi, letterati, mercanti e artigiani; questi ultimi, come il famoso Sarto della londinese National Gallery, databile intorno al 1565, sono l’esempio della serietà morale del Moroni, “un quadro come Il sarto è un fatto importante non solo nella storia dell’arte, ma in quella della società italiana: il bravo artigiano, che si è fatta una situazione civile, è ritratto nell’atto di tagliare la stoffa sul bancone e l’espressione del gesto e del volto è seria e pensierosa come quella del gentiluomo che legge le sue lettere o del letterato che interrompe per un momento la lettura e riflette. Essere per sé ciò che si è per gli altri, conoscersi e darsi a conoscere: questo è il principio dell’etica borghese di cui il Moroni è l’interprete nei suoi ritratti lucidi, veritieri e onesti” (Argan).

     

    La pittura sacra

    Devoto in adorazione della Madonna e del Bambino, Washington, National Gallery

    Se, in particolare nelle giovanili opere sacre, il Moroni si vale dei modelli del maestro Moretto, la sostanza della sua pittura religiosa mostra la sua attenzione ai primi dibattiti nel Concilio di Trento, ancora volti alla ricerca di un canone comune di cattolici e protestanti dell’immagine religiosa. Così si giustificano le pale di Orzivecchi e di Trento e il Redemptor Mundi dell’Accademia Carrara. Ma del tutto originali sono la Coppia in adorazione davanti alla Madonna col Bambino e San Michele di Richmond o il Devoto in contemplazione del Battesimo di Cristo dove sono stati rilevati riferimenti agli insegnamenti di Ignazio di Loyola, noti a Bergamo dal 1551 – “la composizione consisterà nel vedere, con la vista dell’immaginazione, il luogo fisico dov’è quel che voglio contemplare”.

    Nell’”esilio” ad Albino negli anni Sessanta, se si accentuano le notazioni veristiche e l’atteggiamento devozionale che doveva essere o ritenere particolarmente caro ai semplici abitanti delle valli bergamasche, si volge tanto all’oratoria sacra gradita dal Borromeo quanto alle tipologie della sacra rappresentazione, inventando infine “un modulo catechistico e didascalico di pala sacra quale si affermerà solo con Ludovico Carracci: che è l’esatto contrario del preteso prevalere della ragion pigra e rivela una partecipazione vigile e sensibile – da intellettuale – a un dibattito non ancora pienamente formato” (Rossi, 1991).

    Non dunque una semplicità di costruzione dell’immagine che si risolva in arcaismo bigotto, tanto che lo splendido Crocefisso con i santi Bernardino e Francesco della chiesa di San Giuliano ad Albino, “iconam pulchram” per Carlo Borromeo, – i due santi sono inginocchiati ai piedi del Crocefisso, in un paesaggio scuro e boscoso, carico di nubi, ma il perizoma di Cristo si accende improvvisamente d’arancione e svolazza nell’aria ferma, con un effetto d’estraniamento – resta pienamente naturalistico per essere meglio fruibile dalle esigenze della devozione.

    Nella Madonna in gloria e le sante Barbara e Caterina nell’altare maggiore della chiesa di Santa Barbara a Bondo di Albino, riprende lo schema piramidale del Moretto, con la Madonna che si richiama alla Madonna Sistina di Raffaello, ma le sante sono vestite d’abiti moderni, per mostrare l’attualità del messaggio cristiano, e Barbara guarda verso l’osservatore a far da tramite con l’oggetto devozionale.

    Nella Deposizione di Cristo, del 1566, commissionata dall’Ordine degli Zoccolanti per la chiesa di Santa Maria delle Grazie a Gandino, si vuole vedere una messa in scena da sacra rappresentazione, ove la rigidità del corpo di Cristo simulerebbe le statue lignee da processione. “Si dirà che qui la Controriforma sillaba parole di catechismo… Gli è che a sillabarle risulta la gente, la più povera gente e l’orazione che ne esce, giusto come il dolore, attinge nella sua umiliata, marmorea fissità, la grandezza di una fede neobiblica…” (Testori, 1978)

    Resta il problema di come il Moroni, residente ad Albino negli anni Sessanta, sia stato così puntuale e consapevole dell’orientamento verso la rappresentazione dell’immagine di devozione, dato che le procedure normative, in materia artistica, del Concilio di Trento, concluso nel 1564, procedono dal 1573: si pensa a una “frequentazione di poeti moralisti come Publio Fontana ed Ercole Tassi o di prelati ortodossi come Basilio e Gian Grisostomo Zanchi, o infine di preti albinesi colti e di antica frequentazione romana come Simone Moroni…resta il fatto che per tutti gli anni Sessanta, le sue idee de pictura sacra – devozionale, didascalica, oratoria – non furono affatto condivise dalla Curia di Bergamo, che ne accetterà i moduli solo dopo il decisivo intervento di san Carlo Borromeo nel 1575. Solo allora, negli ultimi tre anni di vita, il Moroni potrà vedere le sue opere accolte con onore nel capoluogo…e si direbbe, visto il carattere tutt’altro che innovativo degli esiti ultimi, che il nuovo clima…gli risultasse estraneo: e questo è il suo singolare destino di pittore sacro, a mezzo tra la rimeditazione realistica di Caravaggio e l’eloquenza oratoria di Ludovico Carracci, tra natura e norma” (Rossi, 1991)

    È infatti un fallimento, non essendo nelle sue corde la magniloquenza drammatica, l’ultima opera, lasciata incompiuta e ultimata dopo la sua morte da Giovan Francesco Terzi nel 1580, il Giudizio Universale della parrocchiale di Gorlago, ispirato al capolavoro di Michelangelo ma concepita secondo le Instructiones del cardinal Borromeo.

     

    Antologia critica

    “La pittura grigia del Moroni, i suoi fondi segati dalla diagonale dell’ombra, la sua secchezza pur sempre dipinta, i suoi bianchi tra gessosi e cinerei, sono tutt’altro che in contrasto col Caravaggio, massime coi suoi esordi. La Maddalena Doria siede nello stesso ambiente, ridotto ma traslucido e schietto, su cui già fondavano parecchi dei ritratti femminili del Moroni. D’altronde, anche nelle sue composizioni sacre – lasciando stare i molti casi in cui si limitò a plagiare il Moretto – ebbe il Moroni talvolta di mira una semplicità che non è soltanto arcaismo o impoverimento bigotto. Brani eccellenti e nuovi sono nella Cena ultima di Romano; nella pala di Parre, il San Paolo, in quello stupendo profilo perduto, va, oltre il Moretto, verso il Caravaggio…” (Longhi, 1929)

    Il maestro di scuola, Washington, National Gallery

    “Come nel periodo romantico avvenne che un artista, per la via del ritratto lasciasse a poco a poco le lindure accademiche, ogni giorno rinnovandosi all’osservazione continua di uomini e cose, così nel furoreggiar manieristico il Moroni, osservando e penetrando i suoi svariati clienti del castello, della piazza e del monastero, lasciò le trame abusate del Moretto, i giochi coloristici e i cangiantismi dei manieristi, per guardare con occhi limpidi la verità della vita” (Venturi, 1929)

    “La rappresentazione religiosa …è nel Moroni caratterizzata dalla più assoluta assenza di problematicità: è…un’enunciazione tematica della massima semplicità e ortodossia. Il termine realismo religioso a proposito del Moroni non è stato usato, ma esso si presenta con immediatezza alla mente…l’assenza stessa della tensione problmatica, che per contro nella pittura religiosa del tempo costituisce l’essenza del manierismo, fornisce queste opere di uno speciale carattere” (Spina, 1966)

    “Non c’è dubbio che nei confronti del Buonvicino e degli altri maestri della generazione precedente interessati al fenomeno liministico, la qualità e la funzione della luce sono nel Moroni notevolmente diverse, nel senso che essa è ormai un’entità di cui lo sguardo del pittore, con un rigore intellettuale e selettivo che si esplica anche nell’indagine della realtà, scopre la presenza, ponendola in evidenza nel contesto. Tali risultati rappresentano un passaggio obbligato che si approssima stringentemente…alla visione del Caravaggio” (Gregori, 1979)

    Il Savoldo “…studiò degli scorci che, quasi come le coeve anamorfosi (anche se ottenute per via empirica e con una pratica che è all’opposto dell’artificio manieristico) richiedono…uno sforzo di lettura ma che alla fine son ben decifrabili…indica la ricerca di un nuovo metodo trasgressivo di rappresentazione scorciata sulla base di un’indagine diretta ed empirica, quale si addiceva all’approccio al naturale dipingendo senza disegno” (Gregori, 1991)

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    ORDO VIRGINUM – NEL MONDO SENZA CONVENTO

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    ORDO VIRGINUM – NEL MONDO SENZA CONVENTO

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    PRESENTAZIONE

    1. Sviluppo storico

    1.1. dal nuovo testamento ai padri della chiesa

    Il Nuovo Testamento dice una parola nuova sulla verginità, che non era presente nell’Antico Patto: la scelta di vita di Gesù e il suo invito a essere “eunuchi per il regno”, l’esempio di Maria e gli scritti di Paolo, che mettono in risalto il significato escatologico e sponsale della verginità, spinsero donne e uomini a sceglierla come condizione stabile di vita.

    Nelle prime comunità cristiane, fin dai tempi apostolici emerge chiaramente che la verginità è un modo di vivere l’adesione totale a Cristo. Il mondo pagano conosceva forme di castità temporanea legate all’esercizio sacerdotale e al servizio delle vestali, ma l’impegno di asceti e vergini cristiani, che dava forma alla scelta di fede nel Signore crocifisso e risorto, presentava degli elementi di assoluta novità.

    Fra i carismi esistenti nella prima comunità cristiana, la verginità consacrata si confronta in modo specifico con il matrimonio. Si sa che la liturgia del matrimonio cristianizzava degli usi antichi e consisteva essenzialmente nella velatio della sposa, che era accompagnata da una preghiera di benedizione nel corso dell’eucarestia. Velatio, benedizione, eucarestia sono i tratti liturgici che ritroviamo al suo nascere (IV secolo) anche nella Liturgia della Consacrazione delle vergini. L’identica struttura liturgica delle due velatio indica che matrimonio e verginità consacrata sono due momenti dell’unico mistero di Cristo Sposo della Chiesa. Nei secoli i due rituali hanno reciprocamente attinto segni e tradizioni che mettevamo meglio in risalto il loro comune carattere nuziale.

    Nei primi secoli le vergini cristiane sono solite rimanere in famiglia, anche perché nella società romana le donne vivono sotto la tutela del padre o, se sposate, del marito.

    1.2. dall’epoca patristica al concilio di trento

    Nel passaggio dall’epoca patristica all’epoca medievale, la virgo sacra assume la fisionomia di una sanctimonialis: il monastero prende il posto della casa paterna, all’autorità del vescovo si aggiunge quella della superiora, al servizio ecclesiale, svolto in mezzo alla comunità, subentra il servizio monastico, attuato in regime di separazione dalla vita ordinaria dei fedeli, alla sequela Christi vissuta senza particolari strutture si sostituisce una forma di sequela minutamente programmata, nella vita comune.

    è il momento della grande espansione della vita monastica. Vengono redatte le regole che saranno assunte anche nei secoli successivi come riferimenti di intere famiglie religiose monastiche e di singole esperienze di consacrazione. Si sviluppa in seno al monastero la lettura della vita monastica femminile come una perenne liturgia nuziale: mediante la parola, la preghiera salmica, la liturgia eucaristica, l’anno liturgico, la monacavive la sua relazione nuziale con il Cristo sposo.

    Col sorgere nella Chiesa di numerosi movimenti spirituali come ritorno alla vita evangelica (semplicità, fraternità, itineranza), la verginità consacrata trova nuovi spazi e nuovi modi per esprimersi. Nei movimenti evangelici le vergini, pur rimanendo laiche, riescono a darsi un compito specifico nella comunità locale: vestono semplicemente, sono povere, si mantengono con il proprio lavoro, abitano nelle proprie case o, costituendosi spontaneamente in piccoli gruppi, vivono in modeste abitazioni, pregano con gli altri fedeli nelle chiese pubbliche e spinte dall’amore di Dio si dedicano alle opere di misericordia, in particolare al servizio degli infermi.

    Le donne vergini che scelgono comunque di vivere fuori dal monastero, siano esse laiche o religiose-mendicanti, non ricevono la consacrazione verginale: le prime perché è ormai interrotto da secoli il rapporto con il vescovo, le seconde perché rappresentano una rottura con la vita monastica tradizionale, nel cui seno si era conservata la consecratio virginum. Spesso sono inserite nell’ambito spirituale degli ordini mendicanti i quali però, nel tempo, indirizzano l’espressione femminile del loro movimento solo verso una vita claustrale.

    Dal periodo tardo-medievale fino alle soglie del Concilio Vaticano II l’attenzione si sposta sul rapporto matrimonio e verginità. L’esegesi tradizionale rilevava la superiorità oggettiva della verginità rispetto al matrimonio, in risposta ad un’errata esaltazione, non evangelica, di quest’ultimo. Così il Concilio di Trento e così l’enciclica Sacra Virginitatis (1954) di Pio XII. Quest’ultima ha in più il pregio di mettere in luce l’inopportunità di una contrapposizione tra i due stati di vita e il significato teologico cristiano delle due vocazioni.

    Per quanto riguarda la consacrazione delle vergini, il rito viene puntualmente riportato nei Pontificali, ma di fatto, cade in disuso. Così quando la vita religiosa femminile si organizza in forme che non prevedono la clausura, essa generalmente non conosce e non utilizza questo rito.

     

     
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    1.3. Il XX secolo e il Concilio Vaticano II

    Agli inizi del XX secolo la vita consacrata femminile trova nuove modalità di espressione, favorite da una pluralità di fattori: il rifiorire degli studi patristici, l’estendersi del movimento liturgico, l’attenzione all’apostolato dei laici, il nuovo modo di porsi della donna nella società e nella Chiesa. Donne laiche chiamate a consacrare la loro verginità per il Regno formulano il proposito di castità nelle mani del confessore e, a volte, si inseriscono in pie associazioni che sostituiscono l’appartenenza ad una famiglia religiosa. Dopo la Prima Guerra Mondiale, in Francia, Belgio e Svizzera, alcuni vescovi sono favorevoli a ripristinare l’uso della consecratio virginum anche per donne che non abbracciano la vita monastica e procedono ad alcune consacrazioni, sulle quali viene mantenuto un prudente riserbo. La Santa Sede, interpellata su questo ripristino dell’antica tradizione, nel 1927 nega ai vescovi la facoltà di consacrare vergini laiche.

    Si dovrà attendere il Concilio Vaticano II perché questa spinta laicale, sostenuta da una rinnovata ecclesiologia, permetta che la consecratio virginum torni ad essere celebrata anche per donne che, non scegliendo la vita monastica, rimangono inserite nel tessuto della comunità cristiana locale.

    L’immagine della Chiesa come Popolo di Dio (LG 9), è il terreno da cui scaturiscono nuove spinte ecclesiali e da cui si sviluppa la teologia riguardante la Chiesa particolare. Alla luce di questo nuovo contesto ecclesiale anche la verginità consacrata trova un terreno in cui rileggere la propria esperienza secolare per aprirsi a nuove prospettive.

    Alcuni documenti del Concilio presentano in particolare l’esperienza della vita consacrata e ne fanno emergere un rinnovato volto.

    Il Concilio promuove anche un rinnovamento dei riti con i quali viene abbracciata la vita consacrata. Così la costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium, al n. 80, dispone la revisione del rito della consecratio virginum. In attuazione di tale disposizione, nel periodo postconciliare viene redatto il nuovo ordo consecrationis virginum, promulgato il 31 maggio 1970 con l’approvazione di Paolo VI.

    1.4. dalla promulgazione del rito ai nostri giorni

    A partire dagli anni Settanta in Italia alcune donne vengono consacrate con il rito della consecratio virginum in lingua latina; la versione italiana viene pubblicata nel settembre del 1980. Sono sempre più numerose le consacrazioni celebrate alla presenza dei fedeli le quali gradualmente sostituiscono quelle svolte in modo riservato. Il cammino di discernimento e di formazione viene condotto in genere in forma individuale, con la guida di un direttore spirituale. Non ci sono molti legami tra le consacrate e ancor meno tra l’ordo virginum delle diverse diocesi.

    Il nuovo Codice di Diritto Canonico ha dedicato il can. 604 a questa forma di vita già presente nelle Chiese, favorendone una più ampia conoscenza. Verso la fine degli anni Ottanta aumentano le donne che fanno richiesta di accedere a questa consacrazione provenienti da un numero crescente di diocesi. Le consacrazioni vengono celebrate con maggiore coinvolgimento e preparazione delle comunità locali e risulta così più facile cogliere alcune caratteristiche di questa vocazione: la volontà di vivere il carisma evangelico della verginità, in una vita vissuta secondo il Vangelo nelle condizioni di tutti i cristiani, con una chiara appartenenza alla Chiesa locale.

    In questo periodo diverse sono le pubblicazioni relative all’ordo virginum; numerosi articoli, studi, commenti al rito vengono stilati da parte di esperti e di consacrate. Un bollettino informativo, Sponsa Christi, redatto dalle consacrate di Vicenza, circola fra le diocesi e permette una prima conoscenza tra persone a vario titolo interessate.

    Dal 1988, inoltre, prendono avvio i convegni nazionali che permettono il confronto e l’approfondimento degli aspetti qualificanti questa consacrazione. Il convegno del 1990 a Roma, in occasione del ventennale di promulgazione del rito, segna una tappa significativa perché permette di far ulteriormente conoscere l’esistenza di questa vocazione alla realtà ecclesiale italiana e ai suoi pastori. In questi anni vi è anche la pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica che dedica alcuni numeri all’ordo virginum e lo svolgimento del Sinodo sulla vita consacrata, durante il quale i Padri sinodali hanno considerato anche questa forma di consacrazione.

    Giovanni Paolo II ha incontrato le vergini consacrate di ventidue nazioni riunitesi in convegno a Roma in occasione del XXV anniversario di promulgazione del Rito e ha espresso la gioia della Chiesa per la rinascita dell’ordo virginum nell’esortazione apostolica postinodale Vita Consecrata.

    Secondo i dati elaborati nel 2001 sono circa 350 le donne coinvolte a vari livelli nell’ordo virginum in Italia, di cui circa il 60% al nord, il 25% al centro e il 15% al sud-isole. Fra queste circa 200 hanno ricevuto la consecratio virginum . Le rimanenti sono in un cammino di formazione o di discernimento in merito a questa forma di vita. Sono 75 le diocesi italiane coinvolte in questa vocazione e 52 le diocesi in cui vi sono vergini già consacrate.

    2. La vergine consacrata

    2.1. Donna consacrata

    La vergine consacrata vive il suo essere donna e porta a compimento la vocazione cristiana con l’accoglienza della propria vocazione particolare.

    Nel percorso della sua maturazione umana e spirituale, la consacrazione nell’ordo virginum le offre una modalità per vivere in pienezza la sua umanità.

    In questa modalità di vita sviluppa l’originalità personale come dono per sé e per gli altri; coglie che la sua vita è un essere in relazione con se stessa, con gli altri, con Dio, nella Chiesa, in un determinato contesto sociale e culturale; si scopre generata dalle relazioni e capace di accogliere l’altro e attivare le sue potenzialità; consapevole che la crescita dell’identità personale e vocazionale è progressiva, costruisce e assume una propria progettualità, imparando a scegliere significati e valori che diano senso alla vita; esprime le sue capacità vivendo responsabilmente impegni e doti personali; fa esperienza della maturazione della propria affettività e dell’unificazione della propria vita.

    2.2. Nel disegno salvifico della trinità

    La “nuova unzione spirituale” (RCV 29) che la vergine consacrata riceve nel rito di consacrazione delle vergini è radicata nella consacrazione battesimale.

    Con la celebrazione della consecratio ella sperimenta un nuovo modo di partecipare alla vita trinitaria in cui già il battesimo l’aveva inserita.

    Dio Padre la chiama per un disegno di amore (RCV 34), per unirla più intimamente a sé (RCV 29) e la sostiene di giorno in giorno nella fedeltà (RCV 53).

    Il Figlio Gesù Cristo con la sua Parola e nei sacramenti fa della sua vita un’esperienza sponsale (RCV 56).

    Lo Spirito Santo la rende segno della sponsalità della Chiesa e le dà la forza per tradurla in una vita autentica (RCV 29).

    2.3. Nel mistero sponsale di Cristo e della Chiesa

    L’intuizione originaria che sta alla base della forma di vita propria dell’ordo virginum è il particolare rapporto tra l’amore con cui la persona si sente amata da Dio e l’amore con cui Dio, in Cristo, ama la Chiesa (Ef 5,25.32).

    All’interno di questa intuizione la vergine matura una scelta di dedizione al Signore, che si esprime nel proposito di verginità, vissuto nell’ordinario contesto della comunità cristiana e della società civile, e che viene poi confermata nella celebrazione della consecratio virginum, mediante la quale è costituita segno della nuzialità della Chiesa.

    È unicamente alla luce di questo mistero nuziale, in cui tutti i cristiani sono inseriti per il battesimo, che la vergine è chiamata sponsa Christi.

    In tale mistero scopre il senso della sua vocazione: accogliere e rispondere all’amore di Dio guardando a come Cristo ha amato la Chiesa e facendo risplendere in ogni gesto la dedizione della Chiesa verso Cristo.

    Per imparare a corrispondere all’amore di Cristo la Chiesa guarda a Maria, colei che in sé ha dato spazio e forma all’alleanza nuziale tra Dio e l’umanità diventando madre di Cristo e di coloro che, nello Spirito, rinascono alla vita di grazia. Così anche la vergine consacrata scopre in Maria il modo con cui vivere nella fede e nell’amore esclusivo per il Signore.

    Questa forma di vita mette in evidenza il radicamento e la comunione nella Chiesa particolare come elementi costitutivi di una continua crescita vocazionale e di una autentica esperienza ecclesiale.

    È nella realtà concreta della Chiesa che la vergine cerca lo Sposo, il senso della propria vita, il suo compimento. L’incontro con lui si fa reale in quella porzione di Chiesa dove vive, da cui è nutrita e a cui si dedica. Si riconosce inserita nella storia, nella tradizione viva, nella spiritualità della sua Chiesa, lasciandosi interpellare dalle esigenze e scelte pastorali. In essa ascolta la Parola, celebra i sacramenti, offre la sua preghiera, condivide le gioie e le fatiche dei fratelli, specialmente dei poveri, annuncia il Vangelo, promuove l’unità dei cristiani, vive la comunione nel dialogo di fede con le diverse vocazioni (cfr. RCV).

    Il rapporto personale con il vescovo è una delle modalità con cui la vergine consacrata concretizza il legame con la Chiesa e un’espressione della cura che la Chiesa manifesta per questa vocazione; ciò che il vescovo è nei confronti della Chiesa particolare lo è nei confronti della vergine consacrata: segno di Cristo Sposo e Pastore, principio e fondamento dell’unità nella Chiesa particolare e garante della comunione nella Chiesa universale.

    Attenta ai suggerimenti dello Spirito, la vergine consacrata impara a riconoscere e attualizza le modalità personali con cui partecipare alla missione della Chiesa nel mondo: per questo all’interno dell’ordo virginum si esprime una molteplicità di carismi e ministeri, segno della ricchezza e varietà dei doni con cui lo Spirito arricchisce la Chiesa.

    Sperimenta l’amore tenero ed esclusivo di Cristo attraverso la vicinanza dei fratelli: donandosi a loro, scopre la grandezza dell’amore che il Padre mediante il Figlio riversa sull’umanità e da lui impara ad essere figlia, generata alla fede; sorella, accanto al cammino delle donne e degli uomini del suo tempo; madre, nel dono senza riserve.

    Con l’ascolto della Parola, la riconciliazione, l’eucaristia, gli spazi di silenzio e la preghiera personale, cresce nella dimensione contemplativa e impara a leggere la realtà nel progetto di Dio.

    Celebrando la Liturgia delle Ore si unisce alla preghiera di Cristo nella lode al Padre e nell’intercessione per la salvezza del mondo.

    La liturgia educa la vergine consacrata a vivere costantemente immersa nella vita trinitaria e in una dimensione escatologica, nella ricerca del Regno di Dio, per la gloria del Padre.

    La consacrazione verginale fa crescere in lei un atteggiamento di fiducia nei confronti del mondo, dell’umanità e uno stile di ascolto della storia e delle problematiche umane congiungendola, per consuetudini di lavoro e di vita, ad ogni uomo e donna per cui si fa compagna di viaggio, strumento di comunione e testimone di amore. Anche quando nel corso della sua esistenza attraversa la sofferenza, la malattia, l’inattività, sperimenta e testimonia l’unione con il Signore. Partecipa all’opera creativa di Dio attraverso il lavoro che le permette di provvedere al proprio sostentamento e di aprirsi alla condivisione dei beni.

    Con la sua vita desidera dare voce all’invocazione dello Spirito e della Chiesa: “Maranathà, Vieni Signore Gesù” (Ap 22,20), tenendo viva un’attesa vigilante e profetica.

    Agli uomini e alle donne del proprio tempo la vergine consacrata richiama il desiderio di Dio e svela una modalità con cui Dio oggi si fa presente nella storia dell’uomo offrendogli nuove e continue opportunità per accogliere l’offerta di vita che lo salva.

    3. l’accoglienza nella chiesa particolare

    3.1. Un ordo ecclesiale

    L’ordo virginum è formato dalle donne che nella loro Chiesa particolare hanno ricevuto il dono della medesima consacrazione.

    La celebrazione della consecratio virginum — anche se viene compiuta per una sola persona — rende presente nella diocesi questa realtà, che pertanto non necessita di un atto formale di istituzione o dell’emanazione di norme diocesane relative prima della celebrazione del rito.

    Per la singola consacrata l’appartenenza all’ordo assume il significato di una profonda comunione, innanzitutto con le consacrate della propria diocesi e poi con quelle di altre diocesi, in un continuo e dinamico confronto sull’identità, la missione e la formazione.

    3.2. Il rapporto con il Vescovo

    La sollecitudine pastorale nei confronti delle vergini consacrate e di coloro che aspirano a ricevere la consecratio virginum è parte del ministero ordinario del vescovo diocesano. Come pastore di una determinata porzione del popolo di Dio, infatti, egli è chiamato a favorire in essa il riconoscimento e l’esplicitarsi di tutti i carismi e le vocazioni (cfr can. 385).

    L’accoglienza di questa vocazione all’interno della Chiesa particolare impegna il vescovo a far crescere la realtà dell’ordo virginum nel contesto della diocesi e a formulare, con le persone coinvolte, alcune indicazioni per il cammino formativo.

    Ammettendo una donna alla consecratio virginum, egli la presenta alla comunità come segno della Chiesa Sposa di Cristo.

    In tutte le fasi del cammino il rapporto con il vescovo è un elemento qualificante di questa forma di vita consacrata.

    È importante che la vergine consacrata e il vescovo curino di mantenere nel tempo uno spazio di incontro e di confronto nel quale ciascuna venga accompagnata dal ministero del vescovo a far proprio uno stile di vita che manifesti in modo personale il dono ricevuto.

    3.3. L’ammissione alla consacrazione

    L’ammissione alla consacrazione presuppone la verifica delle condizioni richieste dalle Premesse a RCV: che la donna non sia mai stata sposata, che non abbia mai vissuto pubblicamente in uno stato contrario alla castità, che secondo un giudizio prudenziale si possa ritenerla capace di perseverare tutta la vita nel proposito di verginità (Premesse 5).

    Per la verifica di questi presupposti, il vescovo chiederà e terrà conto di pareri di persone che ne hanno seguito e condiviso la formazione umana, spirituale, teologica e l’esperienza ecclesiale.

    Secondo la prassi della Chiesa, per garantire la libertà della persona nell’ambito della manifestazione della coscienza, non è consentito al vescovo richiedere il parere del direttore/trice spirituale. Tale parere, comunicato direttamente all’interessata, sarà da lei riferito al vescovo nel dialogo condotto in vista dell’ammissione alla consacrazione.

    3.4. Celebrare con la comunità diocesana

    In sintonia con il vescovo e i suoi collaboratori, la candidata aiuterà la comunità diocesana (Premesse CEI 2) e specialmente la comunità da cui proviene, a comprendere il significato di questa vocazione e a partecipare attivamente alla celebrazione.

    Per rendere più esplicito il simbolismo sponsale del rito è importante che la celebrazione si svolga con particolare solennità di tempo e di luogo, secondo le indicazioni dei Praenotanda: “La celebrazione del rito (…) si apra a tutta la Chiesa particolare (…) perciò sia preferibilmente compiuta nella chiesa cattedrale o nelle comunità parrocchiali con la partecipazione dei fedeli” (Premesse CEI n. 2, pag. 13); “È opportuno che la consacrazione delle vergini sia fatta nell’ottava di Pasqua, nelle solennità e tra queste soprattutto in quelle in cui si celebrano i misteri dell’Incarnazione del Signore, nelle domeniche, nelle feste della beata Vergine Maria o delle sante vergini” (Premesse al rito n. 11, pag. 64).

    È buona norma prevedere le modalità con cui documentare la consacrazione in un registro conservato presso la curia diocesana e rilasciarne certificazione all’interessata.

    3.5. La figura del delegato del vescovo

    Per meglio seguire l’esperienza dell’ordo virginum il vescovo diocesano può nominare un proprio delegato.

    Nel dialogo con le vergini consacrate e le persone in formazione egli rappresenta il vescovo e si fa garante del costante contatto con lui, favorendo l’ecclesialità e la diocesanità dell’ordo e del cammino di ognuna in esso.

    Svolge il suo servizio orientando l’elaborazione dei cammini formativi personali, anche attraverso la promozione di momenti comuni.

    Aiuta e sviluppa la valorizzazione dei doni particolari e la comunione di tutte in ciò che è proprio dell’ordo virginum, favorendo l’accoglienza delle diversità e incoraggiando il senso di corresponsabilità.

    Si preoccupa di conoscere personalmente le consacrande e le consacrate, ne segue il cammino senza istituire una relazione di direzione o accompagnamento spirituale.

    Aiuta il vescovo ad assumere le necessarie informazioni in vista del discernimento per l’ammissione alla consacrazione.

    3.6. Modalità di vita

    Nell’impostare la propria vita, la vergine consacrata è animata dal desiderio di rispondere alla chiamata ricevuta con pienezza e verità, accogliendo la propria situazione lavorativa, familiare, ecclesiale come dono di Dio, luogo di santificazione e incontro con i fratelli. Questo la porta a discernere la modalità di vita a lei possibile e favorevole: vivere da sola, in famiglia, con altre vergini consacrate o in altre condizioni. Tali modalità di vita possono cambiare nel corso del tempo secondo il variare delle circostanze e delle esigenze.

    Nell’ambito dell’ordo virginum, più consacrate possono anche costituire, come prevede il can. 604 § 2, delle associazioni e chiedere l’approvazione dei rispettivi statuti.

    Nello stilare lo statuto di un’associazione di vergini consacrate, è necessario curare che questo si componga armonicamente con le indicazioni diocesane relative all’ordo virginum.

    La presenza di forme associative non può precludere la scelta di modalità di vita non associate da parte di altre vergini consacrate all’interno della stessa diocesi.

    L’eventuale uscita di una vergine consacrata dall’associazione non comporta di per sé il venir meno della sua appartenenza all’ordo virginum.

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    4. LINEE FORMATIVE

    4.1. indicazioni generali

    Col termine formazione intendiamo un percorso dinamico orientato alla graduale comprensione e assunzione di uno stile di vita proprio della vocazione ricevuta e accolta.

    Tale percorso è responsabilità inalienabile d’ogni chiamato, il quale, aprendosi all’azione dello Spirito Santo, assume in prima persona il dinamismo della crescita vocazionale.

    La formazione alla verginità consacrata vissuta nel mondo esige una formazione specifica, che aiuti la donna consacrata, e chi si sente orientata a questa forma di vita, a crescere nella capacità di unificare identità vocazionale e missione facendo interagire la dinamica della chiamata, il progredire dell’esperienza umana e cristiana, le tappe evolutive della personalità, le trasformazioni socio-culturali ed ecclesiali.

    È una formazione progressiva, responsabile e permanente perché la risposta alla chiamata di Dio è sempre storica e mai precostituita.

    Presuppone gli elementi di base dell’esperienza cristiana e su di essi si sviluppa facendo dell’ordinarietà della vita l’occasione continua di un percorso formativo.

    Richiede che ciascuna donna consacrata e in cammino verso la consacrazione valuti modi, tempi e mezzi per una formazione umana e cristiana.

    Il cammino personale può essere utilmente sostenuto da un cammino comunitario con le altre donne che vivono la medesima vocazione.

    Tale condivisione apre ad un approfondimento progressivo e dinamico di ciò che è comune e di ciò che è espressione personale della vocazione, e diviene risorsa cui attingere continuamente, per la propria crescita e per il cammino di santità cui tutta la Chiesa è chiamata.

    I momenti di formazione condivisi contribuiscono a chiarire gli obiettivi personali e quelli comuni; offrono mezzi per il loro raggiungimento; aiutano a dare una priorità agli elementi formativi secondo la tappa di vita che si sta svolgendo.

    L’autenticità di una vita sponsale e verginale viene rivelata e sorretta da una costante attitudine al discernimento, inteso come capacità di leggere la propria vocazione alla luce dello Spirito.

    La formazione curerà particolarmente tale aspetto che sostiene la vergine consacrata nel cammino e nella verifica della propria crescita di donna cristiana, progressivamente capace di uno sguardo sapienziale e profetico sulla storia.

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    4.2. itinerario formativo

    4.2.1. criteri

    La natura della chiamata alla verginità consacrata nel mondo e l’importanza che ha il cammino formativo nell’aiutare a viverla nelle normali condizioni di vita, richiedono un itinerario formativo centrato sulla persona che dinamicamente si lascia plasmare dalla vita nello Spirito.

    È necessario prevedere cammini formativi secondo un principio di gradualità e di adattamento di obiettivi, contenuti, mezzi, tempi che incontrino la vita delle consacrande/consacrate, elaborati con loro, anche “suggeriti” dal loro vissuto.

    È utile l’adozione di metodi di progettazione che inducano le singole persone a crescere nella libertà, a saper pensare e agire con senso di iniziativa e con responsabilità, a sviluppare creatività e gratuità.

    In ogni momento formativo è importante considerare che la persona cresce e matura in tutte le sue dimensioni con l’evolversi della vocazione perciò l’itinerario si fa attento alle tappe e ai ritmi del procedere personale.

    Uno spazio significativo di crescita e di attuazione va accordato al discernimento personale ed ecclesiale.

    La comunità cristiana e l’ordinario ambiente di vita diventano l’ambito nel quale la vergine consacrata verifica nel quotidiano, attraverso l’interazione con i fratelli, l’evolversi della situazione propria e della Chiesa in cui è inserita e la sua risposta libera e creativa.

    L’esercizio del discernimento personale ed ecclesiale aiuta a verificare in quale misura e modalità ciascuna coglie e traduce la specificità di questa vocazione, nella crescita dell’amore a Cristo, nell’oggi del mondo e della Chiesa.

    All’interno del discernimento ecclesiale, che si attua attraverso le diverse modalità e competenze, ogni tappa del cammino formativo comporta anche il discernimento da parte del vescovo diocesano che così esercita il suo specifico ministero pastorale.

    In particolare, nell’ambito del discernimento ecclesiale, deve essere prestata una peculiare attenzione al discernimento iniziale e all’ammissione alla consacrazione.

    In tali contesti l’esercizio del discernimento comprende specificamente una valutazione relativa alla presenza di un rapporto di direzione spirituale e di adeguate caratteristiche di maturità umana, spirituale, ecclesiale, capacità di servizio, preparazione culturale e teologica.

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    4.2.2. fasi di maturazione

    Nel cammino formativo di ciascuna possiamo individuare alcune fasi o periodi: ricerca vocazionale (accostamento), esplicita formazione alla verginità consacrata secondo il RCV in vista della consacrazione (formazione specifica), formazione successiva alla consacrazione (formazione permanente).

    Nella fase di accostamento la formazione è indirizzata innanzitutto a favorire la comprensione e la verifica del proprio cammino umano, battesimale e vocazionale.

    Si deve porre attenzione al riconoscimento della chiamata alla verginità e ad una prima conoscenza della vita di consacrazione secondo la forma propria dell’ordo virginum.

    Nel periodo di formazione specifica in vista della consacrazione, la donna che desidera vivere nella verginità consacrata vissuta nel mondo, tenderà ad assumere una fisionomia vocazionale propria, un’impostazione della vita in base alla scelta operata, a coltivare il dialogo con la Chiesa e con il mondo.

    La formazione permanente, coincide con l’impegno costante della donna consacrata a curare la qualità della sua risposta al dono ricevuto celebrando l’amore fedele di Dio attraverso le diverse relazioni e il vissuto quotidiano.

    5.2.3 contenuti

    Nel rispondere alle fasi personali di crescita e nel progettare i diversi periodi formativi, la vergine consacrata e in formazione, e quanti con lei condividono la cura del cammino formativo, presteranno attenzione:

    • alla maturazione umana femminile e alla crescita cristiana, attraverso relazioni, esperienze, contenuti che favoriscano sia la consapevolezza delle caratteristiche personali, sia la cura della vita spirituale radicata in Cristo;

    • al consolidamento dell’equilibrio affettivo che renda la vergine consacrata sempre più capace di relazioni libere, armoniose, mature e collaborative, che si arricchiscano delle reciproche differenze cogliendo l’alterità come dono per la crescita reciproca e come riflesso dell’amore trinitario;

    • a coltivare in sé la maturazione della scelta della verginità nell’accoglienza della propria corporeità e della propria sessualità;

    • alla necessità di lasciarsi costantemente plasmare dallo Spirito per crescere in una relazione sponsale con Cristo che diviene incontro con gli altri sempre più vero, trasparente e oblativo;

    • a crescere in una vita di preghiera personale ed ecclesiale, nell’ascolto della Parola di Dio e in un’assidua vita sacramentale;

    • a maturare la dimensione ecclesiale nella realtà concreta della comunità cristiana di appartenenza, in linea con gli orientamenti pastorali diocesani e della Chiesa italiana, comprendendo il valore del rapporto con il vescovo e della partecipazione alla vita ecclesiale in uno stile di comunione che valorizzi tutti i carismi e tutte le vocazioni;

    • a far crescere la consapevolezza che ogni situazione ed esperienza quotidiana offre l’occasione di partecipare alla costruzione del Regno, di cogliere il primato di Dio e di sperimentare la sua prossimità colma di tenerezza e di misericordia;

    • ad approfondire una adeguata formazione che le permetta di interpretare le domande e le attese del suo tempo e di nutrire costantemente la sua vita di fede e di testimonianza;

    • a concretizzare le modalità con cui vivere la propria vocazione in un progetto di vita personale, aderente alla vita e flessibile, che la apre a nuove prospettive, la sostiene nella fedeltà a Cristo e ai fratelli, la sollecita a una vita spirituale più intensa; il progetto di vita viene periodicamente confrontato e verificato con il direttore spirituale e il vescovo.

       

    CHIESA LOCALE

     

    TRA MINISTERI E VITA CONSACRATA

     

    Luigi Conti

    (Da “Orientamenti Pastorali”, 7-8 2002)

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    E’ noto che la Costituzione Sacrosantum Concilium raffigura la liturgia come «il culmine ver­so cui tende I’ azione della Chiesa e. insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù» (10). Nella liturgia pertantola Chiesa incessantemente ritrova la sua identitàche si può compendiare in alcune categorie teologico – pastorali.

    La Chiesa convocazione (diaconale) dei redenti

    Innanzi tutto la Chiesa è costituita come comunità battesimale: una convocazione di santificati – «sepolti insieme a lui nella morte» e abilitati a«camminare in una vita nuova»perché attratti e avvinti dal­la sua risurrezione; una convocazione dunque di redenti affrancati dalla schiavitù del peccato, «morti al peccato ma viventi per Dio in Cristo Gesù» (cf. Rm 6,4-11).

    In secondo luogo la liturgia rivela alla Chiesa la sua identità di comunità eucaristica. Il Memoriale eucaristico, secondo la tradizione paolina e sinottica da una parte e quella giovannea dall’altra, esprime e realizza una duplice me­moria: cultuale e diaconale. «Al discepolo di Gesù vengono richiesti due generi di memoria: l’uno mediante un’azione liturgica, l’altro mediante un comportamento di ser­vizio» L’unica diaconia di Cristo significata e realizzata nell’Eucaristia ha bisogno, per essere com­piuta, della convergenza di due ti­pi di «memoria»: la diaconia cultuale e la diaconia esistenziale.. L’una è memoria eucaristica propriamente detta: «fate questo in memoria di me», l’altra è memoria di servizio: «Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,15).

    La liturgia, in particolare l’Eucaristia, rivela ancora alla Chiesa il suo volto di comunità nuziale. La Chiesa è la Sposa che risponde con il suo «sì»della fede alla parola dello Sposo;  attende nella speranza la sua venuta secondo la promessa; si lascia sedurre dall’amo­re di agape dello Sposo che la costituisce come comunità d’amore.

    Nella liturgia, infine, la Chiesa si autocomprende simultaneamente come comunità «locale»e «cat­tolica». «La vita liturgica della dio­cesi si svolge attorno al vescovo, grande sacerdote del suo gregge, perché da lui deriva e dipende in certo modo la vita dei suoi fedeli inCristo» (SC 41).

    Bisogna perciò che tutti diano «la più grande importanza alla vi­ta liturgica della diocesi intorno al vescovo, principalmente nella chie­sa cattedrale; convinti che la prin­cipale manifestazione della Chiesa si ha nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo dì Dio nelle medesime celebrazioni litur­giche, soprattutto alla medesima Eucaristia, alla medesima preghie­ra, al medesimo altare cui presie­de il vescovo circondato dal suo presbiterio e dai suoi ministri» (SC 41). Per analogia e per estensione, an­che le parrocchie sotto la guida di un pastore che fa le veci del ve­scovo, «rappresentano in certo mo­do la Chiesa visibile stabilita su tut­ta la terra» (SC 42).Simultaneamente la Chiesa particolare «dovendo ripro­durre alla perfezione l’immagine della Chiesa universale, abbia la piena coscienza di essere inviata anche a coloro che non credono in Cristo» (AG 20).

    Si intravede dietro questi brevi cenni quella preziosa descrizione della Chiesa contenuta nel Pontifi­cale Romano. Nelle Premesse al Rito dell’Istituzione dei ministeri si di­ce che nei grandi documenti del Vaticano II «si configura una Chiesa tutta ministeriale che sotto l’azio­ne incessante dello Spirito nasce dalla Parola, si edifica nella cele­brazione dell’Eucaristia e, attenta ai segni dei tempi, si protende al­l’evangelizzazione del mondo me­diante l’annunzio missionario del Vangelo e la testimonianza della carità. Tutta la Chiesa, seguendo il suo Signore – che non è venuto per essere servito, ma per servire – è posta in atteggiamento di servizio. Ciascun ministero… deve essere apprezzato nel suo valore intrinse­co e non solo per motivi di sup­plenza, in quanto scarseggiano le vocazioni ai ministeri ordinati o per ragioni contingenti in adeguamen­to a mode passeggere o a costumi del tempo».

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    La Chiesa manifestazione della diaconia di Cristo

    Tutta la Chiesa, dunque, è po­sta in atteggiamento di servizio non solo nei ministeri ordinati e istitui­ti ma in ogni forma di ministeria­lità che manifesta la diaconia di Cristo. Questo «atteggiamento di servizio». pertanto, non indica in­nanzi tutto una ministerialità funzionale o strategica alla «plantatio Ecclesiae»bensì la vita nello Spi­rito di ogni discepolo in risposta al­la vocazione, battesimale innanzi tutto, ma anche specifica. Lo afferma con forza la Costituzione sul­la Chiesa quando parla della «uni­versale vocazione alla santità» e, dopo le affermazioni di principio, delinea i tratti di una sorta di mo­derna «iconostasi» oltrepassando la categoria dei «canonizzati». Il «multiforme esercizio dell’unica santità» (LG 41) ci fa contemplare l’icona del santo vescovo, del santo pre­sbitero, del santo diacono, dei san­ti seminaristi e dei santi apostoli laici chiamati dal vescovo a un ser­vizio totale al Vangelo.

    Non meno affascinanti sono le icone dei san­ti coniugi e genitori, delle sante ve­dove e nubili. di tutti coloro che operano nel mondo del lavoro e delle professioni e, in modo spe­ciale, dei santi poveri, deboli, ma­lati e perseguitati per la giustizia. Questa «perla» del concilio, con intuizione profetica. invitava tutta la Chiesa a percorrere nuove vie di spiritualità, oltre quelle tradizio­nalmente riconosciute al clero e ai religiosi/e (a questi la Lumen gen­tium dedica l’intero capitolo VI). Oggi quell’intuizione sta trovando nuovi testimoni in quei credenti che rimangono nella condizione di vita in cui sono per vocazione, ri­cavando proprio dentro di essa i mezzi per la santificazione e fa­cendo in essa e di essa lo strumento per la testimonianza di quella «ca­rità con la quale Dio ha amato il mondo».

    In questo contesto e in forza del­la universale chiamata alla santità, la Chiesa ha fatto emergere il cari­sma della verginità anche nel mon­do. insieme alla santità del matri­monio cristiano, come «segno» della nuzialità tra Cristo e la Chie­sa stessa.

    Simultaneamente, mentre si va affermando l’ecclesiologia di Co­munione, la ricerca teologica cer­ca nuove vie di ministerialità an­che a partire dal ripristino del dia­conato come stato permanente di vita.In proposito il Catechismo della Chiesa Cattolica (1588) af­ferma: «Quanto ai diaconi, la gra­zia sacramentale dà loro la forza necessaria per servire il popolo di Dio nella “diaconia” della Liturgia, della Parola e della carità, in co­munione con il vescovo e il suo pre­sbiterio (LG 29)».

    Questa catego­ria della comunione conduce a ri­concepire i rapporti all’interno del­l’Ordine sacro. I tre gradi del sa­cramento non si configurano prevalentemente come cammino dal basso verso l’alto bensì, nella lo­gica della complementarietà, si fa strada una configurazione «a trian­golo». Si tratta di gradi dell’unico ministero differenti e complemen­tari.

    Secondo Lumen gentium

    • l’episcopato è «pienezza del sacramento dell’Ordine»;

    • presbitera­to e diaconato sono due ministeri distinti: due modalità differenti e convergenti («le braccia» del ve­scovo) per condividere quella pie­nezza e contribuire a realizzarla nella prassi della Chiesa.

    • L’epi­scopato sarebbe la sommità dell’angolo: presbiterato e diaconato i due lati che interagiscono con il vertice.

    • Il terzo lato rimane aperto: è l’intero popolo di Dio con la sua ministerialità diffusa.

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    In una concezione «ministeria­le» della Chiesa comunione «ogni ministero è per l’edificazione del corpo del Signore e perciò ha rife­rimento essenziale alla Parola e all’Eucaristia fulcro di tutta la vita ecclesiale ed espressione suprema della carità di Cristo, che si pro­lunga nel sacramento dei fratelli, specialmente nei piccoli, nei pove­ri e negli infermi, nei quali Cristo è accolto e servito.

    Ne consegue che l’opera del ministro non si rinchiu­de entro l’ambito puramente ritua­le, ma si pone dinamicamente al servizio di una comunità che evan­gelizza e si curva come il buon sa­maritano su tutte le ferite e le sof­ferenze umane. Questa nuova espressione della diaconia eccle­siale non vuole assolutamente clericalizzare il laicato, ma immette­re nel circolo della Chiesa e del mondo la multiforme ricchezza che lo Spirito suscita nel nostro tempo per rispondere alle varie emergen­ze storiche e ambientali» (Premesse al Rito Istituzione dei ministeri).

    Biso­gna dunque fare ogni sforzo affin­ché il tessuto vivo della Chiesa sia intrecciato, nella logica della com­plementarietà, dalle innumerevoli diaconie che lo Spirito suscita. Non sembri esagerato affermare che laddove si presenta un bisogno lo Spirito ha già destato il carisma cor­rispondente. Sta alla Chiesa locale e, specificamente alla diaconia mi­nisteriale, discernere, confermare, accompagnare i diversi carismi e farli convergere verso l’unità.

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    La Chiesa locale è tutta ministeriale

    La diffusa ministerialità gene­rata dallo Spirito mediante voca­zioni, carismi, servizi, doni e mi­nisteri si colloca, infatti, per la teo­logia battesimale e del sacramento dell’Ordine, in una Chiesa partico­lare «nella quale è presente e ope­ra la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica» (CD 11).

    L’ecclesiologia di comunione dice che sono molteplici i sogget­ti chiamati a costruire la Chiesa particolare.

    «Pur essendo, le diver­se categorie (di battezzati), mani­festazione dell’unico mistero di Cristo,

    • i laici hanno come caratteristica peculiare, anche se non esclusiva, la secolarità;

    • i pastori la ministerialità;

    • i consacrati la spe­ciale conformità a Cristo vergine, povero, obbediente» (Vita Consecrata 11).

    Il compito di questo insieme di soggetti non è tuttavia solo quello di impiantare, corredare e abbellire la Chiesa ben­sì di rendere ogni Chiesa locale ca­pace di edificare il regno di Dio. Per questo, tral’altro, «la vita con­sacrata, presente fin dagli inizi, non potrà mai mancare alla Chiesa, co­me un suo elemento irrinunciabile e qualificante» (VC 29) in ordine all’edi­ficazione del Regno.

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    La vita consacrata nel tessuto della Chiesa locale

    La vita consacrata, come voca­zione alla santità, pertanto, non può non fare riferimento alla vita e al­la santità della Chiesa o, più preci­samente, delle diverse e concrete Chiese particolari nelle quali si col­loca. La vita consacrata è dono e carisma, per l’utilità comune nella Chiesa particolare, già in se stessa e per se stessa! Non è anzitutto un mezzo per questa o quella opera di apostolato. Pertanto è incessante­mente rimandata al suo fondamen­to: la spiritualità battesimale come innesto permanente nell’albero del­la Chiesa locale.

    Nella condivisione del Battesi­mo dentro a un concreto popolo di Dio, accanto e nella complemen­tarietà con altri stati di vita, i con­sacrati conoscono il significato e la modalità della loro presenza. L’esortazione Vita consecrata at­tribuisce loro una sorta di «magi­stero spirituale» che li colloca co­me «guide esperte di vita spiritua­le» (VC 55).

    È proprio questa categoria pastorale del magistero spirituale che sembra definire il rapporto tra i consacrati/e e il tessuto della Chiesa particolare sia davanti ai credenti che ai non credenti. sia da­vanti ai ministri costituiti nel sa­cramento dell’Ordine che davanti ai laici, alle famiglie cristiane e a quelle in difficoltà.

    Naturalmente i consacrati/e nella vita monastica i religiosi/e e i membri degli istitu­ti secolari eserciteranno questo «magistero» vivendo e testimo­niando appieno il carisma secondo le sue particolari caratteristiche. In questa linea «è riconosciuta ai sin­goli istituti una giusta autonomia, grazie alla quale essi possono va­lersi di una propria disciplina e conservare integro il loro patrimo­nio spirituale e apostolico.

    E’ com­pito degli ordinari dei luoghi con­servare e tutelare tale autonomia». Non solo. «Ai vescovi è chiesto di accogliere e stimare i carismi del­la vita consacrata, dando loro spa­zio nei progetti della pastorale diocesana» (VC 48). La testimonianza tipica di vita evangelica delle famiglie re­ligiose fa appello, inoltre, non tan­to ai singoli membri ma alla loro comunità: sono le comunità religiose i soggetti che interloquisco­no con il tessuto della Chiesa par­ticolare.

    E’ alle comunità di vita consacrata che la Chiesa affida una profezia: di «fàr crescere la spiri­tualità della comunione prima di tutto al proprio interno e poi nella stessa comunità ecclesiale e oltre i suoi confini, aprendo o riapren­do costantemente il dialogo della carità» (VC 51).

    Va ancora sottolineato che non sono le opere a dare significato al­la vita religiosa, ma è la qualità di vita evangelica (la sequela Christi) che caratterizza la comunità con­sacrata, a offrire significato ed ef­ficacia al servizio di apostolato.

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    Verso una riconversione pastorale

    La pastorale «ordinaria» delle parrocchie tendenzialmente carat­terizza l’azione della diocesi. Da tempo i vescovi sottolineano l’ur­genza di una riconversione pasto­rale. Se i confini della parrocchia sono il punto di arresto (e non il punto di partenza) della missione, le comunità parrocchiali e con es­se la diocesi vanno verso l’implo­sione. Una Chiesa tutta ministeria­le esprime, invece, la comunione di molte vocazioni per una missione oltre i confini: è una Chiesa «estroversa».

    Un atteggiamento «introverso» delle Chiese trova riscontro e for­se alimenta certe forme di «esen­zione» dei religiosi/e: quasi chiese nella Chiesa. Invece che palleg­giarsi le responsabilità è necessa­rio accogliersi reciprocamente fa­cendo leva sulla dimensione carismatica della Chiesa per purifica­re l’istituzione: tutte le vocazioni nascono come carisma prima an­cora di istituzionalizzarsi in questo o quel ministero, anche la vocazione del vescovo. E il carisma non si spegne… se non si spegne lo Spi­rito (cf  1 Ts 5,19).

    Bisogna che le Chiese locali siano meno «parrocchialiste» e va­dano oltre la pastorale ordinaria. I diversi mondi: la società civile, la scuola, la sanità, il lavoro, l’am­biente, i servizi sociali, le istitu­zioni culturali ecc.., esigono che le Chiese si spingano «fuori le mu­ra».

    Lì si trovano già religiosi/e, istituti secolari e laici che forse in parrocchia vanno solo a Messa. Ma svolgono un’azione apostolica che difficilmente si coniuga con una pa­storale ordinaria un po’ miope.

    An­che i religiosi/e che dopo il conci­lio hanno rivisitato le costituzioni e riflettuto a lungo sul carisma del fondatore devono coraggiosamen­te «perdersi» dentro le vicende del­le Chiese particolari. Non è para­dossale che molti fondatori erano vescovi e preti diocesani?

    I sacer­doti religiosi poi non sono con­dannati a un’appartenenza schizo­frenica tra Istituto e presbiterio dio­cesano: partono, sì, da un orizzon­teuniversale ma sono innestati in una concreta Chiesa locale e in un determinato territorio. Anche qui la logica non è quella del condizio­namento reciproco bensì della complementarietà, dello scambio dei doni.

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    La diocesanità dell’Ordo virginum

    Il concilio Vaticano II, rivisi­tando l’universo della vita consa­crata come carisma permanente nella Chiesa e davanti al mondo, ha sentito l’esigenza di sottoporre «a revisione il rito di consacrazione delle vergini, che si trova nel pon­tificale romano» (SC 80). Così il carisma della verginità nel mondo «ha ri­trovato nel nuovo rito della consa­crazione delle vergini la sua espres­sione più antica e solenne» (Premesse al RCV, 1) po­tremmo dire «apostolica»: autenti­camente apostolica non in quanto comporti una specifica «opera di apostolato» bensì perché si ricon­duce all’insegnamento degli apo­stoli.

    Le Premesse al Rito si spin­gono fino ad affermare che «Così il dono della verginità profetica ed escatologica acquista il valore di un ministeroal servizio del popo­lo di Dio e inserisce le persone consacrate nel cuore della Chiesa e del mondo» (Premesse, 2). Nella tradizione della Chiesa ogni dono o carisma, affi­dato in modo permanente, assume il volto di ministero. Nel caso della verginità consacrata questo mi­nistero, consegnato e vissuto me­diante una pubblica consacrazione, è profezia in una dimensione esca­tologica. Per questo si spiega l’e­spressione «nel cuore della Chiesa e del mondo».

    Nella Chiesa locale la vergine consacrata rappresenta «l’esistenza cristiana come unione sponsale fra il Cristo e la Chiesa, che è fondamento sia della vergi­nità consacrata che del sacramen­to del matrimonio» (Premesse 1) cioè delle due vocazioni possibili nelle quali è raffigurato l’amore di Cristo.

    L’amo­re verginale è «richiamo alla tran­sitorietà delle realtà terrestri e an­ticipazione dei beni futuri» (Premesse, 1) den­tro le vicende del mondo. Così la vergine consacrata è icona della Chiesa locale «presente nel mondo e tuttavia pellegrina» (Premesse 1).

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    Tornando all’immagine di Chiesa tutta ministeriale potremmo affermare che la vergine consa­crata ne è icona perché nella sequela Christi Sponsi, sotto l’azione incessante del­lo Spirito che la consacra,

    -  nasce dall’ascolto della Parola di voca­zione,

    -  si edifica nutrendosi dell’Eu­caristia e, attenta ai segni dei tempi nella concretezza della Chiesa par­ticolare e della comunità umana a cui appartiene,

    -  si protende verso il mondo con «il Vangelo della verginità»

    -  «al fine di amare più ardentemente il Cristo e servire con più libera de­dizione i fratelli» (Premesse).

    Questo volto ecclesiale della vergine consacrata è speculare al­la Chiesa particolare cui appartie­ne. Si devono poter riscontrare nel «volto» di una vergine consacrata i tratti del volto della sua Chiesa locale e viceversa.

    Ministro «necessario» del rito di consacrazione è il vescovo. Non solo. E’ chiamato anche, in prima persona, a operare un discernimen­to, a disporre l’accompagnamento formativo e, simultaneamente, a ca­techizzare la Chiesa particolare cir­ca il valore del carisma della verginità.

    Anche il piano pastorale dio­cesano deve contenere «una speci­fica proposta della verginità consa­crata, soprattutto nel suo aspetto positivo di ministero indispensabile alla vita e al progresso spiritua­le della Chiesa» Premesse 2).

    Il Pontificale Romano indica, come luogo della consacrazione. «preferibilmente» la chiesa catte­drale, dove converge tutta la comunità diocesana e, come tempo liturgico, l’ottava di Pasqua, le so­lennità e le domeniche che richia­mano il battesimo e la riunione di un’assemblea eucaristica.

    La con­sacrazione verginale si colloca den­tro la consacrazione battesimale È da questa che la vergine consacra­ta ricava la sua appartenenza alla Chiesa particolare. Partecipe della identità e missione della Chiesa, la vergine assume, mediante la con­sacrazione, una specifica funzione sacerdotale, profetica e regale connotata dal suo carisma.

    Oltre alla preghiera di consa­crazione proclamata dal vescovo anche i riti esplicativi come la con­segna (del velo e) dell’anello e del libro della Liturgia delle ore, sim­bolicamente e realmente, rappre­sentano un legame sponsale vissu­to nella Chiesa locale. Il ricordo della consacrazione, inserito nella preghiera eucaristica, riconduce a uno stile di esistenza eucaristica non solo la vergine consacrata ma anche l’assemblea che la circonda. Il riferimento al mistero pasquale sostiene la vergine consacrata in una serie di consegne che il vesco­vo dà nell’omelia: «Amate tutti e prediligete i poveri; soccorreteli se­condo le vostre forze; curate gli in­ fermi, insegnate agli ignoranti, pro­teggete i fanciulli, aiutate i vecchi, consolate le vedove e gli afflitti».

    Ma la consegna più affascinante nel contesto della Chiesa locale è que­sta: «Abbiate una particolare sol­lecitudine nella preghiera per gli sposi». E’ infatti nel dialogo tra ver­ginità consacrata e castità coniu­gale che si manifesta la relaziona­lità della vocazione della vergine nel mondo: «L’amore [infatti] ab­braccia anche il corpo umano e il corpo è reso partecipe dell’amore spirituale. La rivelazione cristiana conosce due modi specifici di rea­lizzare la vocazione della persona umana, nella sua interezza, all’a­more: il matrimonio e la verginità. Sia l’una che l’altra, nella loro for­ma propria, sono una concretizza­zione della verità più profonda del­l’uomo, del suo essere creato ad immagine di Dio» (Familiaris Consortio, 11).

    La vergine consacrata non solo è vincolata a fare offerta a Cristo e ai fratelli del suo carisma, giacché nessun cari­sma vive per se stesso, ma è anche intrinsecamente chiamata ad acco­gliere il carisma degli altri. Nessun carisma. infatti, rimane integro se si chiude allo scambio dei doni; ri­schia, al di fuori della spiritualità di comunione, almeno di depaupe­rarsi.

    Le vergini consacrate nel mon­do, pur costituendo un Ordo che ri­sale ai tempi apostolici, non do­vrebbero incorrere nel rischio di chiudersi in forme di spiritualità divaricanti rispetto alla spiritualità diocesana quasi appartenendo a una «diversa» comunità. La loro mini­sterialità non viene esercitata co­munitariamente. Il mandato confe­rito loro dalla Chiesa non è basato su Costituzioni, Regole o Statuti, che richiederebbero un supporto collettivo. Esso combacia con la consacrazione liturgica mediante la quale «la vergine è costituita per­sona consacrata» dal vescovo dio­cesano per essere nella Chiesa di appartenenza «segno trascendente dell’amore della Chiesa verso Cri­sto, immagine escatologica della Sposa celeste e della vita futura» (CCC 923).

    Certo, «per mantenere più fe­delmente il loro proposito possono anche associarsi» (CJC 604).Ma questo non significa costituirsi in associazioni private o pubbliche giuridicamen­te intese. Le vergini appartengo­no già a un Ordo. L’atto di asso­ciarsi, pertanto. è finalizzato ad «aiutarsi reciprocamente nello svolgere quel servizio alla Chiesa che è confacente al loro stato» (CJC 604).

    Le consacrazioni «povere» e le Chiese particolari

    Giovanni Paolo II invita i cre­denti, all’alba di questo millennio, a «fare della Chiesa la casa e la scuola delta comunione» (NMI 43)e af­ferma che «questa prospettiva di comunione è strettamente legata al­la capacità della comunità cristia­na di fare spazio a tutti i doni del­lo Spirito» (NMI 46).

    Se diamo uno sguardo alle Chiese locali, dalla loro stessa pe­riferia possiamo individuare segni di speranza. La crisi delle vocazioni presbiterali e religiose ha determi­nato talora un «accanimento tera­peutico – vocazionale» sbilanciato solo su alcune vocazioni e, per giunta, sul versante della preoccu­pazione. Dal versante della spe­ranza, ma quella vera, quella che «non delude perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5), si intravede il volto diaconale di una Chiesa mi­nisteriale. A fronte di vuoti vistosi nei seminari e nei noviziati si fan­no avanti vocazioni «povere»: sta prendendo forma, nelle Chiese lo­cali seppure in modo disomogeneo, la promettente realtà del diacona­to come stato permanente di vita; sono in decisa crescita le vocazio­ni alla vita monastica e avanza con parresia, con la franchezza dei pic­coli, l’Ordine delle vergini nel mondo. Vocazioni «povere» si, ma dal volto diaconale.

    Non accadeva proprio questo al tempo degli apostoli?

     

    ORDO VIRGINUM: DONO PER L’OGGI

     

    Prospettive di sviluppo e di riflessione

    RENZO BONETTI

    (Da “Orientamenti Pastorali”, 7-8 2002)

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    Una vocazione femminile singolare

    Una sorpresa dello Spirito San­to. Non trovo espressione miglio­re per definire come percepisco og­gi l’Ordo virginurn dopo una vici­nanza ventennale accanto ad esso; dapprima seguendo alcune giova­ni donne nella diocesi di Verona; successivamente mediante la pre­senza ai primi convegni: attual­mente, da cinque anni, in qualità di delegato del segretario generale della Conferenza episcopale italia­na, per l’Ordo Virginum in Italia.

    Il desiderio di tante giovani don­ne di consacrarsi al Signore. oggi, in un contesto in cui anche la vita cristiana vive una fase di cambia­mento e, a volte, di incertezza, mi riempie di sincero stupore, anche perché scelgono di farlo in una for­ma di vita che non corrisponde al­le modalità usuali.

    Tale vocazione scardina un po’ i parametri con i quali siamo soliti identificare una vita di consacra­zione: non è legata a specifiche ne­cessità o servizi, non è sostenuta da qualche forma di mediazione co­munitaria o carismatica, non ha molte garanzie strutturali: lascia un ampio spazio connotabile perso­nalmente e nello stesso tempo im­pegna la donna che la intraprende ad un continuo e franco confronto con se stessa e con la sua scelta, che deve imparare a condurre con cre­scente consapevolezza e autenticità.

    Non c’è un compito o una fun­zione per identificare la vergine consacrata ma il «far memoria», il ricordare che l’essenziale nella Chiesa è l’amore del Cristo per cia­scuno e per tutti, un amore fedele e personale, che la Scrittura e la tra­dizione della Chiesa hanno tradot­to con l’immagine dello «Sposo».

    Una peculiarità di questa forma di vita è il suo essere presente in situazioni ecclesiali molto diverse: dal nord al sud, al centro, il suo nascere non è legato a una storia ecclesiale specifica o a circostanze eccezionali; non è neppure un elemento discriminante la qualità del cammino ecclesiale compiuto da una Chiesa locale rispetto ad altre in situazioni di maggior fatica e dif­ficoltà; è semplicemente un dono di Dio fatto in questo tempo a una Chiesa concreta.

    I vescovi italiani stanno pren­dendo molto sul serio questi segni dello Spirito Santo e molti dì essi manifestano un atteggiamento di vero ascolto delle persone che chiedono di avvicinarsi a questa vocazione, di interesse per i docu­menti e le pubblicazioni relative al­1’Ordo virginum e al suo significato, fino ad avviare un vero e pro­prio itinerario di maturazione del clero e della comunità cristiana per condurla a recepire la celebrazio­ne della consacrazione che avvie­ne in cattedrale come un dono del Signore a quella porzione del suo popolo. Per aiutare le singole Chie­se nell’avvio e nella cura di questa vocazione, la Commissione episcopale per il clero e la vita consa­crata sta predisponendo una nota pastorale indirizzata ai vescovi.

    Vivere la comunione ecclesiale nell’Ordo virginum

    La peculiarità dell’inserimento nella Chiesa particolare distingue l‘Ordo virginum da altre forme di vita consacrata. La singola vergine consacrata appartiene alla comu­nità diocesana mediante il riferi­mento immediato al ministero del vescovo: viene consacrata nella chiesa cattedrale in una celebra­zione pubblica e solenne; con la ce­lebrazione della consacrazione è ri­conosciuta e costituita, nell’oriz­zonte della sponsalità di cui è se­gno, «tessitrice» della vita della Chiesa nelle trame dell’ordinarietà.

    In virtù di tutto questo la sua vi­ta non può prescindere dalle rela­zioni, dalla comunione, dalla con­divisione. E’ una coscienza che nel­l’Ordo virginum sta crescendo e si stanno sviluppando tra le consa­crate atteggiamenti e stili di rela­zione nei quali è possibile leggere questa nuova consapevolezza.

    Mi riferisco innanzi tutto alla crescente capacità dimostrata da molte di esse di mettersi a disposi­zione per approfondire, studiare e darsi quegli strumenti utili a inter­pretare la loro stessa realtà, per aiu­tare altre donne a intraprendere un cammino serio, per favorire la ri­flessione su un appropriato itine­rario di formazione e un significa­tivo itinerario spirituale.

    Negli spostamenti che compio in tutta Italia per l’Ufficio della fa­miglia, osservo con interesse che esiste una rete di donne consacrate che si aiutano, si tengono informa­te, si sollecitano, si consigliano te­sti, studi, percorsi di approfondi­mento per dare consistenza ai con­tenuti della loro vita. Noto con gioia che si dimostrano capaci di metter­si insieme e di organizzarsi; e spes­so scopro che molte lo fanno con semplicità e in modo spontaneo, senza superiorità e senza imporsi, con naturalezza e magnanimità.

    Sperimentare una grande di­sponibilità a condividere le risorse è per l’Ordo virginum il dono più prezioso in questo momento iniziale della sua storia: lo Spirito Santo, mentre fa nascere nuove vocazioni, si preoccupa che possano avere una strada davanti a se su­scitando anche vergini consacrate «adulte» nella vocazione e nelle re­lazioni, capaci di giocarsi per ma­nifestare la bellezza con la quale il Signore l’ha voluta e la vuole far rinascere nella Chiesa di oggi.

    La tensione verso una progres­siva maturità di vita ecclesiale è un elemento basilare in questa forma di consacrazione: rispondere alla propria vocazione non è adoperar­si in determinate attività e ruoli per sentirsi «a posto» o magari «ecce­zionali», ma è sentire cum Ecclesia, allenare il cuore a percepire il bene della Chiesa tutta come il pro­prio bene, e sviluppare il senso del­l’appartenenza a una Chiesa parti­colare al punto da cogliere che es­sa non è in contraddizione con l’ap­partenenza alla Chiesa universale. Non è possibile perciò condurre la propria vita di vergini consacrate ignorando l’Ordo virginum pre­sente nelle altre diocesi.

    La maturazione del senso del­l’appartenenza alla Chiesa partico­lare è importante tanto quanto l’elemento personale. Il discernimen­to ecclesiale e la formazione non dovrebbero sorvolare superficial­mente su questo aspetto. Vivere in una Chiesa particolare non è vive­re questo inserimento con partico­larismo, così da chiudersi nella pro­pria porzione di Chiesa e disinte­ressarsi di ciò che viene fatto nel­le altre diocesi. Spendersi per es­sere un dono anche per l’Ordo vir­ginum di altre Chiese locali, ri­spettandone l’autonomia, la libertà. la compiutezza, è un aspetto indi­spensabile nel cammino di cresci­ta personale ed ecclesiale.

    Una concretizzazione esplicita di tale maturazione è diventata nel tempo l’esperienza del collega­mento. vissuto sia nei contatti so­pra descritti che. in particolare. nel­lo stile di cooperazione favorito da quel piccolo numero di consacrate — il gruppo per il collegamento, per intenderci — che si occupano, di fat­to, dell’organizzazione pratica di alcune attività ormai consuete.

    Vi sono attualmente sei vergini consacrate provenienti da varie par­ti d’Italia che si mettono insieme per offrire questo servizio: servizio che è solo servizio, che non confe­risce alcuna autorità, che va fatto «in punta di piedi» proprio perché vuole essere a sostegno dello svi­luppo dell’Ordo virginum nelle va­rie diocesi. E’ un’attività semplice nei suoi intenti che richiede però di essere curata con sensibilità ed efficienza, disponibilità di tempo, la­voro, relazione, in quanto coinvol­ge un significativo numero di per­sone e di diocesi attorno ad attività che richiedono continua riqualificazione, per rispondere alla molte­plicità di richieste, aspettative, bi­sogni del momento presente.

    La finalità che è sottesa all’e­sperienza del collegamento, inteso sia come gruppo di lavoro per l’at­tuazione delle iniziative nazionali che come comune capacità di col­tivare conoscenza e confronto, è molto precisa: far sì che la comu­nione che ivescovi vivono tra lo­ro per esprimere l’appartenenza al­la Chiesa universale, abbia anche una ricaduta nella comunione tra le espressioni diocesane dell’Ordo virginum: ciò è necessario soprattutto nella fase fondativa che l’Ordo virginun sta attraversando.

    Le modalità con cui si attua il collegamento sono apertamente riconosciute dalle vergini consacrate e in formazione, che si sentono per­sonalmente coinvolte nel sostener­e. Esse. partecipando agli incontri nazionali, esprimono direttamente il gruppo di lavoro per il collega­mento, che eleggono ogni tre anni, e verificano e orientano annual­mente il percorso da sviluppare.

    Il gruppo per il collegamento è considerato dalla Segreteria gene­rale della Conferenza episcopale italiana un interlocutore significa­tivo e autorevole, sia attraverso la mia presenza che attraverso il dia­logo attivato con mons. Conti, ve­scovo di Macerata, in qualità di membro della Commissione epi­scopale per il clero e la vita consa­crata incaricato dell’Ordo virginurn.

    L’esperienza del collegamento rappresenta, per le vergini consa­crate che sanno cogliere le provo­cazioni, un richiamo costante a una delle derive principali cui sono esposte: se non coltivano un atteg­giamento di apertura e confronto rischiano di vivere solo per se stes­se e fare della Chiesa una realtà in­visibile, criptica. «carsica» nella quale il rapporto con la concretez­za della comunità cristiana rimane puramente intenzionale.

    La vergine consacrata deve esprimere visibilmente il suo col­legamento con la Chiesa locale e il suo vescovo e. allo stesso modo, con il vescovo e tramite il suo mi­nistero, deve imparare a tradurre in gesti concreti di comunione il le­game con le Chiese sorelle.

    Formarsi in una storia che si evolve

    Proprio perché l’Ordo virginum è una realtà giovane, nella riflessio­ne e nella prassi va data priorità al­la formazione. Attualmente l’aspet­to più considerato è la formazione in vista della consacrazione, ma, sul lungo periodo, la formazione per­manente deve trovare propri spazi e consistenza, per essere in grado di sostenere un cammino di matura­zione personale e vocazionale che non può mai ritenersi definitivo. Nella progettazione di un percorso formativo vi sono alcuni aspetti sui quali è utile soffermarci.

    Una consacrazione ricevuta a ti­tolo personale mette in risalto quanto sia necessario che il cammino formativo accolga la singola donna nella sua unicità. Anche in un itinerario condiviso con altre vergini consacrate, ci sono aspetti che vanno progettati in riferimen­to al cammino personale, sia me­diante il direttore spirituale che at­traverso il vescovo o il delegato.

    La singolarità di ciascuna è una ricchezza da non perdere perché so­no le vergini consacrate, che si met­tono insieme nella loro singolarità, che formano un ordo.

    L’Ordo virginum non è un gruppo, non è una struttura o un’ap­partenenza aggregativa. E’ l’insieme di singole persone in grado di crescere nella medesima vocazio­ne: è una modalità di condivisione mediante la quale ciascuna è chia­mata a dire e dare il meglio di sé; è il volto di «quel le» vergini con­sacrate, in «quel» momento, in «quella» Chiesa.

    Il volto dell’Ordo virginum non può essere fossilizzato in uno sche­ma definitivo e nessuna vergine consacrata può guardare ad esso fermandosi al «come eravamo», perché ogni donna che inizia il cammino formativo e di discerni­mento è una novità che stimola un cambiamento e un equilibrio nuo­vo, sia dal punto di vista delle re­lazioni sia rispetto alla sensibilità con cui vive la vocazione.

    Si apre a questo punto tutta una riflessione sulle potenzialità e sul­le difficoltà legate alla capacità di condividere, maturare nelle rela­zioni, vivere con gioia la diversità e il rapporto tra generazioni; è un aspetto formativo che offre un pun­to di vista interessante per osser­vare il cammino di maturazione personale e dell’ordo.

    L’Ordo virginum in una dioce­si — e in Italia — è consapevole di avere una storia, ma non può fer­marsi alla storia che ha: in questo tipo di vita consacrata l’esperien­za traccia un prezioso percorso, la­scia un’eredità, ma non detta leg­ge: si pone a servizio del nuovo che nasce, ma prima di tutto gli con­sente di nascere, sia che porti nuo­ve esigenze formative sia che pon­ga nuovi interrogativi.

    L’Ordo virginum non è una strut­tura che, consolidandosi nel tempo, crea delle «rotaie» sulle quali le nuove vergini consacrate trovano un percorso già pronto; ogni persona che si coinvolge in questa vocazio­ne è chiamata a dare un volto parti­colare all’ordo intero; il carisma è della persona e non dell’«istituto» dell’ordo, cioè della singola o del gruppo che ha iniziato l’esperienza in diocesi o in Italia: il carisma non appartiene all’ordo ma è la vergine consacrata che appartiene all’Ordo virginurn con icarismi che gli sono stati donati.

    Ecco perché è indispensabile che al percorso personale si ac­compagni un itinerario formativo comune, che interagisca con quel­lo individuale e offra a ciascuna la condivisione di un ideale, il con­fronto con se stessa, il sostegno nel­le difficoltà, l’arricchimento delle reciproche diversità, l’impulso a crescere nella propria identità e a coltivare autentiche relazioni.

    Nelle diocesi italiane l’Ordo virginum presenta una notevole varietà di. situazioni: vi sono diocesi in cui è presente una singola consacrata o un piccolo gruppo, e diocesi con un numero di presenze più consisten­te: in alcune diocesi è il vescovo a seguire personalmente l’itinerario formativo, in altre agisce mediante un sacerdote delegato.

    Progettare la formazione signi­fica cercare con saggezza la mo­dalità con cui prendersi cura di que­sta realtà ricca e preziosa. Ma per far ciò è indispensabile chiedersi il senso della sua presenza nella Chiesa e nel mondo di oggi. Se non capiamo che la vergine consacrata è destinata a nutrire l’anima della Chiesa nel suo essere per il mon­do, non saremo in grado di offrire a queste donne delle possibilità di formazione serie, personali e im­pegnative, affinché siano quei do­ni che lo Spirito ha voluto fare al­la Chiesa e al mondo. Non possia­mo formare delle vergini consa­crate funzionali alle esigenze in­traecclesiali a sostegno delle più svariate iniziative, perché questa vocazione non è stata data per manifestare un carisma particolare ma per nutrire l’essenziale della Chie­sa, per mettere in risalto che esse­re «sposa» significa riferirsi solo a Cristo ed essere mandata nel mon­do a testimoniare il suo amore. Un cammino formativo adeguato in­veste su quest’identità e cerca di tradurla in visihilità.

    Prospettive e fragilità

    Nel breve tratto di strada che l’Ordo virginum ha compiuto si in­travedono sia alcune sue tipiche fragilità, che non sono ancora pa­trimonio della riflessione comune ma alle quali va dato ascolto e sol­lecitudine.

    Se l’Ordo virginum non è ben co­nosciuto rischia di essere un nome aggiunto al lungo elenco delle tante forme di consacrazione, diventando per la Chiesa particolare un ulterio­re carisma da gestire: in questo mo­do esso non è più in grado di dire al­la Chiesa il senso della sua presen­za e diventa «innocuo» e sterile.

    La Chiesa particolare che acco­glie la presenza dell’Ordo virginum deve interrogarsi sulla diversità che esso manifesta rispetto ad altre mo­dalità di consacrazione: ciò non si­gnifica che l‘Ordo virginum va te­nuto a distanza dalla vita consacra­ta, ma aiuta a riconoscere che la con­sacrazione verginale vissuta da una persona singola, è un dono anche per le altre forme di vita consacrata.

    Il vescovo è il riferimento del­la vergine consacrata in quanto pa­store della porzione di Chiesa in cui sono inserite. Nel rapporto con lui essa non cerca un privilegio che la elevi al di sopra degli altri fratelli e sorelle battezzati, ma desi­dera vivere, in un rapporto non for­male, ciò che è un riferimento per tutti i cristiani: infatti, il vescovo nella Chiesa particolare è prima­riamente il padre, il segno del Cri­sto che dà la vita per far crescere isuoi figli. Lo stesso delegato non può assorbirne in sé le funzioni ma rimanda e conduce al suo ministe­ro. Concretamente tale rapporto comporta un maturo dialogo reci­proco in un’autentica vita eccle­siale, e comprende la conoscenza delle lettere pastorali, dell’orienta­mento impresso alla vita pastorale, delle priorità con cui il vescovo in­tende connotare la vita diocesana. Essere vicine a lui non significa creare o crearsi una «nicchia» ma «portargli» quella parte del popo­lo di Dio che a volte lui non può raggiungere e viceversa.

    Un rischio reale che corre que­sta vocazione è quello di essere spinta a una maturazione frettolosa o secondo schemi formativi già col­laudati ma che non le corrispondo­no: la specificità dell’identità del­l’Ordo virginum si deve riflettere anche nel momento formativo che non è semplice formazione a una consacrazione ma a una modalità specifica di vita consacrata.

    Quando un Ordo virginum vede crescere il numero dei suoi membri è opportuno che promuo­va momenti formativi che lo aiutino a sviluppare uno stare insieme nuovo e sereno, per evitare la confusione con forme istituzionali o aggregative, e prevenire la diffi­denza verso le iniziative comuni e lefughe in solitaria.

    L’individualismo esasperato è l’altro grande pericolo in cui può imbattersi tale vocazione e può na­scondersi anche dietro a modi di vita altruistici e impegnati. La ver­gine consacrata vive una consacra­zione personale ma ciò non signi­fica che ogni fissazione o limite della singola costituisca il suo «carisma», così come ricevere la con­sacrazione non è il r

    iconoscimen­to delle proprie particolarità.

    Una testimonianza femminile

    Nel contesto di vita attuale ritengo molto eloquente la presenza della vergine consacrata proprio co­me donna. La sua scelta di vita è si­gnificativa nel dibattito odierno che parla di riconoscimento del grande apporto che la donna può dare in tutti i campi del lavoro umano; es­sa può spronare anche gli ambien­ti ecclesiali a non dimenticare lo specifico della femminilità, e ad accoglòiere e valorizzare la diversità e la complementarietà tra l’uomo e la donna.

    Ovunque si trova a vivere, la­vorare, studiare, parlare, servire, pregare, con il suo modo di essere testimonia la nuzialità della sua esi­stenza donata.

    La testimonia quando è capace dì abbracciare Cristo nella sua to­talità, donna grande, che esprime e canta lelodi dello Sposo, allargan­do il cuore a ogni figlio fino a sen­tirsi «corpo» della Chiesa. Quando canta la gioia della sua femminilità e della sua donazione, abitando il tempo e le situazioni che le sono proprie. Quando accetta di pren­dersi a cuore la fedeltà alla propria crescita, l’accettazione della pro­pria storia e dei cambiamenti lega­ti alla vita.

    Se l’Ordo virginum consentisse a molte donne di diventare sempre più se stesse, di essere belle, com­piute avrebbe già posto un segno importante nella cultura attuale e nella vita della Chiesa.

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    Avvocato e sposa di Cristo

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    Sabato sera, davanti ad un Duomo gremito di fedeli, tra cui tantissimi giovani, e davanti al vescovo Giuseppe Orlandoni, Antonella Pianelli, 33 anni, avvocato, è entrata nell’Ordo Virginum.

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    Una scelta certamente originale e sofferta.

     Antonella meditava su questo passo da 12 anni. “Anche prima avevo un’idea simile, mi chiedevo se fossi pazza o se era questa la mia strada. Nel ‘93 ho conosciuto l’Ordo Virginis, e tra alti e bassi, sabato sera, ho fatto il passo definitivo“.

     Si è trattato quasi di un matrimonio, con tanto di anello. La sponsalità è una delle caratteristiche principali della consacrazione delle vergini. Antonella, con la sua vita è diventata per tutti un’esempio dell’amore che unisce Gesù alla sua Chiesa.
    Anche le coppie che si sposano sono un’esempio dell’amore tra Dio e la Chiesa, ma nel caso di Antonella questo diventa più evidente ed immediato agli occhi di tutti.

    L’altra importante caratteristica dell’Ordo Virginis è la Diocesanità. Antonella non ha superiori o regole come i frati e le sore. Per lei l’unico riferimento sarà il vescovo diocesano, che sabato sera le ha consegnato il libro della liturgia delle ore. La preghiera è una parte importantissima nella vita delle vergini dell’Ordo.

    La cerimonia di consacrazione di sabato è stata solenne e pubblica. Pubblica per la volontà di essere un segno dell’amore di Dio per gli uomini, solenne per accogliere la grazia che Dio concede in queste occasioni.

    Antonella vive sola, ma non è una scelta definitiva, in futuro potrebbe tornare a vivere con i genitori o ospitare altre ragazze che scelgano di entrare nell’Ordo Virginis.

    Il suo lavoro da avvocato è stata una scelta. E’ un lavoro che porta via molto tempo, che espone a dei richi, ma è dalle scelte che si fanno sul lavoro che lo si può rendere un modo per cooperare con Dio alla costruzione di un mondo migliore. 

     

    La chiesa addobbata Antonella durante la consacrazione Il vescovo Orlandoni le porge l'anello Antonella Pianelliclicca sull’immagine

      

    La chiesa addobbata, Antonella durante la consacrazione, il vescovo Orlandoni le porge l’anello.

    Omelia nella Consacrazione nell’Ordo Virginum di Antonella Pianelli

    Cattedrale di Senigallia, 9 aprile 2005

    E’ una grande gioia quella che sperimentiamo stasera. Grande gioia per te, carissima Antonella, che consacri la tua vita a Dio, celebrando le tue nozze con il Signore. Grande gioia per questa Diocesi, perché tu sei la prima figlia della Chiesa di Senigallia che si consacra nell’Ordo Virginum di questa stessa Chiesa. La gioia che oggi colma il tuo e nostro cuore ha una sua precisa sorgente: è Gesù Cristo stesso, colui al quale doni la tua vita. All’origine della consacrazione c’è in effetti un incontro personale, intimo, coinvolgente con lo stesso Signore.

    Abbiamo sentito nel Vangelo (Lc 24,13-35) lo stupendo racconto dei discepoli di Emmaus. Fuggiti da Gerusalemme, camminavano col volto triste, scoraggiati e delusi per la morte di Gesù. E’ la tristezza che anche oggi molti sperimentano. E’ la tristezza di chi è incapace di dare un senso alla vita e alla morte; è la tristezza di chi è privo di libertà dalle cose materiali e da se stesso; è la tristezza di chi è rinchiuso nella propria solitudine, pigrizia, autosufficienza; è la tristezza che deriva dalla paura per il domani.

    I discepoli di Emmaus hanno potuto vincere la tristezza perché hanno incontrato il Risorto, il quale ha riscaldato il loro cuore spiegando le Scritture e si è fatto riconoscere in quel gesto dello spezzare il pane che inequivocabilmente richiamava quello dell’ultima cena.

    Resisi conto che Gesù era veramente risorto e dunque vivo, da questo incontro con lui tutta la loro vita cambia, si illumina, acquista un nuovo senso: rinasce la speranza, rinunciano alla fuga, tornano indietro con l’animo di chi sa di avere una missione da compiere, quella di condividere con gli altri la gioia di avere trovato il Signore.

    Anche gli altri discepoli e apostoli hanno incontrato il Signore risorto: lo hanno riconosciuto vivo e da questa esperienza tutta la loro vita si è trasformata. Abbiamo sentito nella prima lettura (At 2,14.22-33) con quanta forza e convinzione Pietro proclama la risurrezione di Gesù: “Quel Gesù che voi avete inchiodato sulla croce e lo avete ucciso, Dio lo ha risuscitato… Noi ne siamo testimoni”. Afferrati dalla luce e dall’amore del Signore risorto, gli apostoli dedicano ora tutta la loro vita a Lui. Non si risparmiano. Non hanno paura di niente e di nessuno. Tutta la loro vita ora è per lui.

    Credo che anche nel caso di Antonella si possa dire la stessa cosa. Ha avuto la fortuna di incontrare il Signore. Lo ha percepito come vivo. Lo ha incontrato nella fede che le ha trasmesso questa madre chiesa; lo ha incontrato nella parola di Dio e nei sacramenti, soprattutto nell’eucaristia dove c’è la presenza reale del Signore crocifisso e risorto; lo ha incontrato anche nei fratelli e nelle sorelle con cui ha condiviso la sua esperienza di fede e di servizio ecclesiale. Ha incontrato il Signore, è rimasta affascinata e sedotta dal suo amore, si è sentita chiamare a diventare sua sposa: ecco oggi la risposta, che concretizza il rapporto nuziale attraverso la consacrazione nell’Ordo Virginum.

    Nella sua lunga storia, la Chiesa ha riconosciuto diverse forme e luoghi di vivere la verginità cristiana. Questa dell’Ordo Virginum è la più recente, ma anche la più antica. Era già nota all’epoca del Vescovo Ambrogio a Milano. A caratterizzare questa forma antica e nuova di consacrazione sono alcune note distintive

    • a) anzitutto la nota della la sponsalità: la vergine consacrata è segno eloquente del rapporto nuziale che esiste tra Cristo e la Chiesa. Nel caso della consacrazione l’amore per il Signore non passa, come nel matrimonio, attraverso la mediazione di un’altra persona; ma si esprime direttamente e immediatamente al Signore stesso. Peraltro va sottolineato che queste nozze spirituali tra la vergine cristiana e il Signore non rendono sterile l’unione: se la vergine non ha un coniuge umano né figli naturali, è chiamata però ad una grande maternità e fecondità spirituale: aiuterà efficacemente la Chiesa a generare sempre nuovi figli alla fede.

    • b) in secondo luogo la nota distintiva della diocesanità: la vergine consacrata si sente figlia della chiesa locale, parte della sua storia e della sua vita; si mette al servizio della chiesa locale (Diocesi, parrocchia), avendo come punto di riferimento il vescovo, pastore, padre e maestro della stessa chiesa locale;

    • c) una terza caratteristica è la laicità: la vergine cristiana entrando nell’Ordo Virginum non si estranea dal mondo né dai problemi che la gente incontra nella vita quotidiana. La vergine consacrata vive e cammina con il popolo e la comunità a cui appartiene; svolge il suo normale lavoro o professione da cui trae i mezzi del proprio sostentamento; dà la sua testimonianza negli ambienti dove normalmente spende la sua vita.

    Cara Antonella, la consacrazione della verginità al Signore ti rende partecipe in maniera propria e peculiare della missione di Cristo e ti pone al servizio della Chiesa e del mondo. Proprio la verginità ti abilita e ti impegna ad un amore più intenso, orante e contemplativo verso il Signore Gesù e allo stesso tempo a un amore più generoso e operoso verso la Chiesa.

    Come Vescovo, sono certo di trovare in te una collaboratrice della mia gioia e del mio impegno nell’annunciare il Vangelo e nel comunicare la fede oggi nella nostra Diocesi.

    Mentre ringrazio dal profondo del cuore i tuoi genitori che ti hanno donato la vita, auspico che il tuo esempio possa suscitare tante altre vocazioni alla vita consacrata: con la tua testimonianza sii di aiuto a tante ragazze che cercano la felicità e si pongono il problema del senso della vita perché possano scoprire la bellezza e la gioia di una esistenza consacrata al servizio del Signore e dei fratelli

    Conclusione

    Il nostro caro e indimenticabile Papa Giovanni Paolo II, che ieri abbiamo affidato alla terra in attesa della risurrezione finale, in tutto il suo pontificato ha invitato a non avere paura: “Non abbiate paura, aprite le porte a Cristo!”. Cara Antonella, queste parole valgono anche per te: non avere paura di quello che può essere il domani, delle difficoltà che potrai incontrare, di quello che può succedere nel mondo. L’anello che tra qualche istante ti consegno e che porterai al dito come segno nuziale della tua consacrazione, ti ricordi che sei legata inidissolubilmente allo sposo divino: non sarai mai sola, mai egli ti abbandonerà. Riceverai tra poco anche il libro della Liturgia delle Ore: è la preghiera della Chiesa che si eleva per la Chiesa stessa e per il mondo; fa’ che risuoni continuamente nel tuo cuore, traendo da essa forza e luce per il tuo cammino.

    La Madonna della Speranza, patrona della nostra Chiesa di Senigallia, ti accompagni e ti sostenga in questa tua nuova vita. Ti aiuti a tenere fisso il tuo sguardo sul volto di colui che essa stessa ha generato. Ti aiuti ad essere ancora di più innamorata, sposa gioiosa del suo Figlio Gesù, ma non per questo meno sorella e madre di quanti incontrerai nel cammino di ogni giorno. Noi tutti ti siamo vicini con il nostro affetto e la nostra preghiera.

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    Signore, manda il Tuo Spirito

      

    sopra questa COMPAGNIA…a Tua disposizione.

     

    Le foto della consacrazone di Antonella Pianelli

    CHIESA DE – Gli amici della Parrocchia di San Giovanni Battista di Weil Im Schönbuch (Germania)

    Posted on Gennaio 15th, 2009 di Angelo

      

     http://www.chiesa.de/

     

    GLI AMICI DELLA PRIMA ORA   

    CHE NON ABBIAMO MAI DIMENTICATO.   

    CI LEGA L’ESSERE    

    CHIESA-COMUNIONE.   

    UN‘ADOZIONE RECIPROCA   

    PER PORTARE GLI UNI I PESI  

    DEGLI ALTRI   

    NEL SILENZIO DEL CUORE   

    DI DIO 

     

     

     

      

     

    • Siamo una Comunitá Cattolica italiana e apparteniamo alla Parrocchia di San Giovanni Battista di Weil Im Schönbuch.  

     

    • Un paese in Germania nella provincia di Böblingen di circa 8000 abitanti di cui la maggioranza é evangelica.

     

    • Siamo una Comunitá attiva e abbiamo a cura i bisogni della Comunitá. Per esempio: visita malati, aiuti per i poveri vicini e lontani, etc.

     

    • Tra di noi laici abbiamo Ministri Straordinari per distribuire l’Eucarestia o portarla agli ammalati e responsabili della Liturgia della Parola nel caso la domenica non fosse disponibile un sacerdote.

     

    • Il nostro parroco é Monsignor Carlo Edelmann un vero uomo di Dio, con lui ci sforziamo di costruire il regno di Dio attorno a noi.

     

    • Tra le tante attivitá con i nostri amici tedeschi, abbiamo anche dei momenti italiani tutti per noi. Per esempio: una volta al mese Santa Messa in lingua italiana, incontri Biblici, un bel coro di 25 persone per le nostre Messe, feste, gite, e tante altre belle cose.

     

    • Il 30 Novembre e’ nato il giovane coro.  

     

     

     

    Don Carolo, Don Emeka e la comunità

     

    Se non ora, quando?   

    ADESSO-DNAoh    -   Litterae comunionis      ANNO I            -  2006           -     N. 1  

     


    Di buon mattino andremo alle vigne, vedremo se mette gemme la vite, se sbocciano fiori, se  fioriscono i melograni (Cantico dei Cantici  7,1).


     “La compagnia autentica è quella che nasce quando uno incontra  un altro che ha visto qualche cosa di giusto, di bello e di vero, e glielo dice, e siccome anche lui desidera il giusto, il bello e il vero, si mette insieme.”     Luigi Giussani 

     

    La prima lettera a Salvatore Cocco, l’animatore della comunità che allora era senza sacerdote.

     Carissimo Salvatore, 

                                      pace a te ed ai fratelli nella fede, a cominciare dal presbitero che presiede l’Eucaristia,  il Monsignore don Carlo. 

    E’ STATO MOTIVO DI GRANDE GIOIA RICEVERE LA TUA ULTIMA  NELLA QUALE MI DICI CHE  HAI INIZIATO L’INCONTRO BIBLICO ALLA PREPARAZIONE DELLA QUARESIMA E COME TEMA HAI PRESO LA COMPAGNIA DEI GLOBULI ROSSI. 

    Sia benedetto il Signore che si serve di persone insignificanti e indegne per dilatare il Suo Regno !  

    Dopo la tua ultima, mi sento doppiamente legato alla vostra comunità. Immaginavo solo alcune delle difficoltà che mi hai espresse: il tempo, il lavoro…Invece la vostra è una Chiesa in stato di missione. 

    Come vedi, questa lettera porta anche un’intestazione: pensata per una piccola rivista, un organo cartaceo di collegamento, mi sono accorto che poteva venir buona proprio in questo momento in cui non disponiamo di nulla. Volendo, si può fotocopiare e far circolare nella Comunità. Anche tu potrai servirti della stessa per comunicare nella fede. Ogni lettera, classificata con un numero progressivo, la conserverò nel server ma anche in un raccoglitore.  

    Sul titolo avrò modo di spiegarti tante cose un’altra volta. 

    Apprezzo ed ammiro la tua dedizione per il servizio diaconale che svolgi con  dedizione, senza essere diacono “ordinato”.

    Sono andato a leggermi il vostro “DIACONIA” ed ho trovato delle osservazioni di cui farò certamente tesoro anch’io. Non sto qui a citare perché è tutto molto interessante. Ma  c’è un punto molto bello che si può estendere in altri campi: 

    ”Tutti coloro che vengono in chiesa desiderano pregare; ma in mezzo all’assemblea vi sono alcuni fedeli che sono «segno» della preghiera. Essere «segno» di preghiera significa che bisogna collaborare a creare l’ambiente, a vivere la relazione con Dio, a sentire il gusto della preghiera.”  

    Essere nella Comunità segno di qualcosa… vuol dire partecipare i carismi: 

    • segno dell’hospitalitas  è avere a cuore i sofferenti,
    • segno dell’amore di coppia…
    • segno della condivisione…
    • segno…

     Mi avete dato uno spunto di riflessione. 

    Dovete sapere che nella nostra Compagnia  abbiamo un Diacono Permanente, ordinato 25 anni fa, sposato, padre di quattro figli, di cui uno sacerdote “fidei donum” in Perù: è don Vittorio Morini. 

    Quando riuscirai ad inserirti attivamente sul nostro sito, alla voce “DIACONATO PERMANENTE”, troverai degli spunti per promuovere questa riscoperta vocazione che può essere per celibi e coniugati e che va sviluppata nella Chiesa locale.  Ti chiedo: perché non ci fai un pensierino anche tu? Parlo senza sapere nulla di te. Non hai mai pensato di diventare diacono? Il nostro VITTORIO mi ha dato proprio in questi giorni una bella testimonianza che è riportata nel sito. Lui spiega molto bene il significato del suo diaconato ordinato. Vai a curiosare, forse Dio ti sta chiamando e non sapendo a chi dirlo, manda proprio me a stuzzicarti. 

    E veniamo alla tua richiesta con tanto di scuse. 

    Mi hai chiesto un sacerdote. Da una quindicina di giorni sto cercando tre sacerdoti per gli Ospedali Civili di Trieste che fanno anche parrocchia. L’hanno chiesto a me  che è l’equivalente di chiedere un prestito a uno squattrinato. Adesso arrivi tu con la medesima richiesta. Mi domando:  cosa ci sta chiedendo il Signore con queste provocazioni?  Non so cosa fare, ma ti prendo il parola e mi mobiliterò. 

    Quanto ci vuole da Milano?  Treno, aereo o basta il cavallo? (Dammi indicazioni precise per il treno). Quanti italiani siete nella zona? 

    Ho visto che hai pubblicato sul Vostro sito il Link della Compagnia. Forse lo hai copiato dalla mia e-mail e non riesce a collegarsi. Dovrai andarlo a pescare direttamente nel sito. Come? Devi cominciare con l’entrare nel gruppo inserendo la mail, come viene richiesto dal sistema. E’ un po’ complicato ma alla fine si riesce. Anche perché così sarai in grado di ricevere in tempi reali comunicazioni  e articoli, ed anche scriverci le tue esperienze.  Una volta trovato l’accesso,  potrai ricopiare il logo che si trova in zona FOTO. Attinto da lì, dovrebbe permettere si aprirlo direttamente. 

    La tua ultima ho pensato di pubblicarla  e farò circolare anche le vostre  foto che trovo su www.CHIESA.de. Spero tu non abbia niente in contrario. 

    Adesso ne ho aperto uno, come ho già scritto, per la preghiera dei sofferenti  a San Riccardo Pampuri. Chi lo conosce non lo lascia più. La parrocchia di TRIVOLZIO, suo paese natale e dove c’è la sua urna, improvvisamente si e trasformata in un piccolo santuario internazionale. Non parliamo dei giovani italiani, a cominciare da Comunione e Liberazione. Se Dio vorrà, noi pensiamo un giorno di fissare come punto geografico di riferimento della Compagnia proprio questo paesino sperduto nelle campagne del Pavese.

     SAN RICCARDO INTERCESSORE http://compagniadeiglobulirossi.splinder.com/

    SAN RICCARDO BIOGRAFIA               http://sanriccardopampuri.splinder.com/

      

    Il giorno 8 Marzo, dopodomani, non è solo la festa della donna ma anche di San Giovanni di Dio di cui noi molto umilmente ci sentiamo l’ultima espressione  del suo carisma che alla fine del secolo è emerso con forza attraverso i nuovi santi canonizzati: San Giovanni Grande, San Benedetto Menni, San Riccardo Pampuri, i 72 santi martiri di Spagna. Abbiamo una Compagnia di santi dietro le spalle che fa paura… 

    In questo giorno, mentre la comunità se ne starà al lavoro, ignara di tutto, ti invito a rappresentarla, deponendo un cero davanti al SS. Sacramento come segno di condivisione della fiamma  della carità che nel santo di Granata era così viva, come dice la liturgia, che le fiamme dell’incendio scoppiato nell’ospedale Regio non lo lambirono nemmeno, mentre metteva in salvo i malati. 

    I Malati! Metteteli al primo posto della pastorale e fiorirà la Chiesa locale. Prima di pretendere la gente in chiesa, provate a portare con discrezione la Chiesa della misericordia e della consolazione nelle case, facendovi com-passionevoli ma  anche cirenei della gioia. 

    In questi giorni ho maturato un concetto: bisogna sostituire la parola malati con sofferenti. 

    Cosa cambia?

    • Innanzitutto si supera il concetto di malattia fisica, organica e si abbraccia anche  la sofferenza psichica, emozionale e spirituale.
    • Secondariamente, si supera l’idea che il malato sia una persona bloccata, impotente, al quale dobbiamo solo dei servizi e delle attenzioni.
    • No: andiamo alla scuola del sofferente e mettiamolo in condizione di “fare” e di “insegnare” anche da un letto o da una poltrona.
    • Persona attiva, utile alla Comunità. Nei modi che gli appartengono: pregare, edificare con l’esempio, mandare a dire  alla Comunità, fargli toccare concretamente che è nelle preghiere ma anche nei pensieri della Comunità,    
    • registrate la loro voce da far sentire negli incontri e le vostre voci da far udire nelle case; 
    • fatvi dire la loro  esperienza di sofferente,
    •  fateli partecipi dei progetti che ha la Chiesa locale…
    • fateli sentire  protagonisti e non comprimari…
    • Solo in questo modo sarà più facile dire: offrite la vostra sofferenza perché non siete soli e noi siamo a condividerla, a intercedere per voi, perché la volontà di Dio si compia. 

    Cose difficili, lo so!  Ma bisogna allargare il cuore ed anche provare a dilatare la mente e la fantasia. I cirenei della gioia sono donne e uomini che hanno fantasia! 

    Ai ragazzi piace tanto intervistare con il registratore. Mandateli a registrare sul luogo, a raccogliere le lettere dei sofferenti, dei familiari. Anche coloro che non vengono i chiesa a ragazzi così disarmanti, aprono la porta. 

    Poche predichemolto impararemai noiosi come le mosche! 

    All’offertorio, che i ragazzi portino sull’altare le lettere ed i messaggi raccolti e si trovi il modo  di fare un piccolo fuocherello su un braciere, aggiungendovi dell’incenso. Questo fumo salirà come “soave odore” a Dio gradito…e farà bene al cuore dell’Assemblea. E’ educativo per i giovani che scoppiano di salute.

    Non finirei di parlare con te ma non posso abusare della tua pazienza. Pertanto ti lascio con un caloroso a presto!

    Se mi mandi l’indirizzo preciso ti farò avere delle immagini e delle biografie di San Riccardo.

    Dimmi se faccio bene a scrivere sulla vostra pagina degli ospiti. C’è qualcuno che legge ? 

    Ti abbraccio. E buon San Giovanni di Dio, l’8 Marzo.  

    Ti raccomando il cero!

    Angelo

      

    E’ IN CORSO LA NOVENA

    AL SANTO DELLA COM- PASSIONE AUDACE 

    Al giovane LOUIS BAUTISTA , San GIOVANNI DI DIO così scriveva

    “Mi sembra che andiate come barca senza remo… 

    • Sarà bene che andiate a lacerare le vostre carni
    • e a soffrire vita dura,
    • fame e sete
    • e ignominie
    • e stanchezze
    • e angustie
    • e affanni
    • e contrarietà…” 

     BUONA QUARESIMA! 

    Weil Im Schönbuch FESTIVAL – http://www.chiesa.de/

    Posted on Gennaio 15th, 2009 di Angelo 

    Text – 5° Festival Musicale
    11.10.2008
     

     http://www.chiesa.de/ 

    Weil Im Schönbuch FESTIVAL

     

     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     

     

    4° Festival della Canzone 2007

    Nadia con il brano : STEY
    Giulia con il brano : NINNA NANNA
    AnnaMaria con il brano: EPPURE SENTIRE
    Sara con il brano : LA MIA BANDA SUONA IL ROCK
    Jennifer con il brano : NON MOLLARE MAI
    Lorena con il brano : VIENI CON ME
    Daisy con il brano : LUCE
    Vanessa con il brano : GOCCIE DI MEMORIA
    Miriam con il brano : VIVIMI
    Anna con il brano : UNA CANZONR D’AMORE

    La vincitrice della 4° edizione del Festival della canzone Italiana é: Nadia con il brano STEY.

    Il secondo e terzo posto lo hanno raggiunto Giulia con il brano NINNA NANNA e Sara con il brano LA MIA BANDA SUONA IL ROCK

     

     

    IN NOME DEL DIO PROFITTO – Enrico Chiavacci

    Posted on Febbraio 15th, 2009 di Angelo

    In nome del dio profitto

     

    Enrico Chiavacci

    (Tratto da “Jesus” 11/99)

     

    Il Concilio, con la teologia della Gaudium et spes, ha fatto uscire la Chiesa da quattro secoli di visione privatistica della salvezza (la salvezza eterna di ogni singola anima) e dal conseguente orientamento restrittivo dell’ecclesiologia e della teologia.

    Vi è una salvezza, un traguardo escatologico per la famiglia umana e la sua storia (Gaudium et spes, n. 45). Indirizzare e accompagnare la famiglia umana verso tale traguardo è preciso compito della Chiesa: compito non esclusivo (lo Spirito soffia dove vuole), ma ineludibile, in quanto continuazione dell’opera salvifica di Cristo.

    Non vi sono due storie: quella della salvezza e quella dell’umanità. “La storia è storia di salvezza“, è il lento e doloroso cammino della famiglia umana verso la pienezza del Regno, verso la sua trasformazione in “famiglia di Dio” (Gaudium et spes, n. 40). E il traguardo è la Pace, la città di Dio in cui «tutti si servono vicendevolmente nella carità» (Agostino, De civitate Dei, XIV,28). Si tratta dunque di un cammino verso una logica globale di convivenza della famiglia umana intera, una logica che rispecchi l’Assoluto della vita trinitaria. Come il Figlio dell’Uomo è venuto per servire e non per essere servito, così nessun essere umano «plene seipsum invenire non posse nisi per sincerum sui ipsius donum (non può pienamente realizzarsi, se non attraverso un dono sincero di sé)» (Gaudium et spes, n. 24).

    Così il “sociale” – la complessa rete di strutture in cui si deve configurare la vita di relazione di ogni singolo – diviene campo di impegno e di prima-ria responsabilità morale per ogni cristiano (come per ogni uomo di buona volontà). La lotta per fare del mondo un «luogo di autentica fraternità» (Gaudium et spes, n. 37) durerà quanto dura la storia, e in essa il cristiano è inevitabilmente inserito: «in questa lotta inserito» (ivi).

    Così l’economia, e l’inserimento del cristiano nello studio e nell’attività economica divengono inevitabilmente riflessione teologica ed etica. Per comprendere dunque la nostra chiamata occorre capire che cosa sia oggi “economia” su un doppio versante: quello delle strutture essenziali entro cui ogni attività economica (produzione, distribuzione, finanza) si svolge; quello delle condizioni di vita della famiglia umana, generate o mantenute dalle dette strutture. È chiaro che l’interesse teologico primario è per il secondo versante, ma quello che in esso avviene è determinato primariamente dal versante strutturale. Uno studio serio della situazione in cui versa la famiglia umana deve perciò partire dallo studio delle strutture fondamentali della vita economica sul pianeta Terra. Qui posso solo accennare ad alcuni elementi essenziali.

    Nessuna forma di vita economica, anche primitiva, può pensarsi senza un supporto strutturale, sia a livello di villaggio sia di Stato sovrano. Ma oggi vi è un unico sistema di strutture che governa la vita economica dell’intera famiglia umana. Questa “globalizzazione” è per il cristiano qualcosa di auspicabile: ormai lo sguardo del cristiano si deve estendere alla famiglia umana considerata come un unico corpo sociale. La stessa idea tradizionale di “bene comune” deve intendersi come bene comune della famiglia umana.

    Ma è dal tipo di strutture della globalizzazione che dipende il perseguimento di tale bene comune: la domanda è se le attuali strutture consentano il miglioramento della qualità della vita di ogni essere umano ovunque sulla terra (cfr. Gaudium et spes, n. 77), per l’oggi e anche per il domani della storia umana (è qui la gravità del problema ecologico).

     

    Oggi le strutture tradizionali dell’economia – produzione e distribuzione (mercato) – sono irreversibilmente globali. Oggi si produce per componenti: sia le 4-5 parti di una videocassetta sia le 172.000 parti di un Airbus possono essere prodotte ciascuna in un luogo diverso della Terra, assemblate in un altro, commercializzate in un altro ancora. In molti casi si produce dove si ha il minor costo del lavoro (circa 30 dollari l’ora in Germania, 20 negli altri Paesi industrializzati, da 0,5 a 2 nei Paesi più poveri). In altri casi si produce dove esiste manodopera altamente specializzata. In altri casi ancora alcune componenti sono prodotte solo da pochissimi centri specializzati (una nuova molecola per le bioingegnerie o un motore per grandi aerei di linea solo General Electrics, Pritt & Whitney, Rolls Roice possono produrli).

    Lo stesso avviene per il commercio e la distribuzione: si compra e si vende dove conviene. Qualsiasi operatore può comprare all’ingrosso a Hong Kong e vendere a Milano, per distribuire poi al dettaglio in Usa o in Thailandia. Nessun Governo, pur potente che sia, può realmente governare produzione e mercato, se non con pochi strumenti (dazi, incentivi o disincentivi) deboli e destinati a sparire.

    Tutto ciò è oggi possibile per l’avvento di nuove tecnologie. Due in particolare:

    • la rivoluzione del silicio, e cioè elettronica e informatica, che consente trasmissione di dati, ordinativi, trasferimenti di denaro eccetera;
    • una radicale trasformazione dei sistemi di trasporto merci, con navi che possono contenere 8.000 containers e con treni merci per lunghe distanze (Usa, Australia, Sudafrica, Russia) che trasportano 10/20 mila tonnellate (in Europa il limite è di norma 2 mila). In tal modo l’incidenza del costo del trasporto per unità di prodotto è irrisoria.

    Queste due realtà tecniche sono irreversibili, e sono molto recenti (non più di vent’anni), e così spiazzano tutte le teorie e le logiche economiche attualmente disponibili.

    Ma dopo la rivoluzione del silicio si hanno due fenomeni altrettanto nuovi. Il primo fenomeno è l’inserimento massivo nella produzione del momento di ricerca e sviluppo (”R&D”: research and development). I nuovi treni veloci europei hanno richiesto 10-12 anni dalla prima ideazione alla produzione di serie; nuovi aerei militari sono già in progetto da anni e saranno pronti verso il 2010.

    Ciò richiede un enorme incremento del capitale necessario, e perciò una sempre maggiore concentrazione del capitale disponibile sulla faccia della Terra e della sua gestione, al di sopra delle teste di qualsiasi Governo o Stato.

    Il secondo fenomeno: oggi non esiste più il capitalista-padrone. Tutto il denaro, comunque raccolto ovunque nel mondo, è gestito da società finanziarie, che a loro volta sono controllate da finanziarie di ordine superiore. In tal modo il mondo della finanza è completamente separato dal mondo della produzione. Una finanziaria trae profitto esclusivamente dal movimento del capitale (finanziario), e così il capitale si muove freneticamente da un capo all’altro della Terra, in tempo reale e non controllabile da nessun Governo, sempre e solo in cerca del massimo profitto finanziario.

    Se, cosa, per chi e come si produca non ha alcun interesse per i veri manovratori del capitale mondiale. Molte migliaia di miliardi di dollari si spostano ogni 24 ore, e sempre in cerca di massimizzazione del profitto privato, da cui è, per principio, esclusa ogni preoccupazione per il bene comune, per i reali bisogni dell’uomo.

    Le condizioni di vita della famiglia umana si desumono agevolmente dalla tabella che pubblichiamo sopra. In sintesi i Paesi ricchi hanno un Pnl pro capite (Prodotto nazionale lordo: la somma di tutte le ricchezze comunque prodotte in un Paese, espressa in dollari e divisa per il numero degli abitanti, valore sommariamente indicativo della ricchezza disponibile; la sua distribuzione dipende in parte dai singoli governi, ma sempre entro il limite del Pnl) di 20/30 mila dollari.

    In America latina il Pnl si colloca fra 1.000 e 4.000 dollari, e cioè a un decimo dei Paesi ricchi: ma l’America latina gode di un’iniqua distribuzione delle ricchezze che non ha eguali nel mondo. In Brasile vi sono circa 30 milioni di ricchi e 130 milioni di poveri. In Africa, escluso il Sudafrica, il Pnl oscilla fra 100 e 700 dollari, ma nell’Africa subsahariana difficilmente supera i 200: siamo perciò a un centesimo della ricchezza disponibile da noi. In Asia, salvo le note eccezioni, il Pnl oscilla fra 260 dollari (Cambogia) e 500 dollari (Cina). India e Cina messe insieme – oltre un terzo dell’umanità – hanno una media di un dollaro e mezzo al giorno per abitante, ivi comprese le spese pubbliche di ogni genere.

    Due importanti indicatori della qualità umana della vita sono l’attesa media di vita e la mortalità infantile: qui si rispecchia la disponibilità di cibo, di acqua potabile, di assistenza sanitaria, di educazione di base, e la presenza di violenze e drammi sociali inevitabilmente connessi alla miseria. Per Paesi ricchi l’attesa media di vita è 75/80 anni; in America latina è di 55/65 anni (salvo Cuba che è su livelli europei); nell’Africa subsahariana raramente arriva a 50 anni; nell’immensa Asia povera è fra 55 e 70 anni. La mortalità infantile, calcolata sui morti nel primo anno di vita su mille nati vivi, nei Paesi ricchi è di circa il 6/7 per mille (media Unione europea 5,6, Usa 8). In America latina oscilla fra 20 e 65 (salvo Cuba che è a livelli europei e migliori di quelli Usa); nell’Africa subsahariana è generalmente sopra a 100; in Asia oscilla fra 35 e 100.

    Si tratta di un quadro spaventoso di una famiglia umana spaccata in due, in cui meno di un quinto assorbe più di quattro quinti delle risorse disponibili. Deve esser ben chiaro che ogni area di miseria ha caratteristiche diverse, e che ogni Governo ha una parte di responsabilità. Ma deve esser soprattutto ben chiaro che si tratta di una realtà strutturale, stabile, causata o mantenuta dalle strutture economiche globali che ho descritto. Ci siamo commossi vedendo i bambini nei campi di raccolta per un terremoto o per una guerra. Ma non riflettiamo che quelle condizioni miserabili derivano da fatti ben precisi, sono congiunturali e transitorie. E sono molto migliori delle condizioni di normalità in cui la maggior parte dei bambini del mondo vive e vivrà senza speranze e senza prospettive. Non esiste agenzia o progetto con sufficiente autorità per cambiare la tragedia che incombe sulla famiglia umana: chi potrebbe non ha nessun interesse a farlo, e chi vorrebbe non ha potere per farlo.

    Dietro a tutto questo vi è la logica di massimizzazione del profitto finanziario privato che va perseguito a ogni costo, e naturalmente al costo della qualità della vita della grande maggioranza degli esseri umani. Non si investe per soddisfare bisogni essenziali dell’uomo: investire per i poveri della Terra non dà tanto profitto quanto investire per i non-bisogni dei ricchi. Grandi corporations medicali rifiutano di investire in ricerca per le urgenze sanitarie dei poveri (malaria, tubercolosi, Aids), dichiarando esplicitamente che la ricerca non darebbe sufficiente ritorno finanziario (The Economist 14.8.99: Helping the world’s poorest). Meglio investire in armi, droga, alte tecnologie. Non si investe per creare occupazione, ma disoccupazione: con nuove macchine si riducono i costi del lavoro. Di norma nelle grandi Borse la notizia dell’aumento dell’occupazione crea crolli di azioni. Ogni cautela ecologica incide inevitabilmente sui profitti, e non offre sufficiente rapporto costi/benefici in tempi brevi. La tragedia della famiglia umana si andrà sempre più approfondendo. Solo da pochi anni alcuni liberisti più illuminati insistono su sanità e educazione per i poveri, ma la maggior parte degli economisti e la totalità degli operatori economici non ci pensano neppure.

    Gravi sono le colpe della teologia cristiana, cattolica e protestante (soprattutto riformata nordamericana). Colpe della teologia sistematica, che si è occupata solo della salvezza delle singole anime dimenticando totalmente il cammino dell’umanità verso la pienezza del Regno.

    Colpe della teologia morale che si è fermata, a partire dal Catechismo Romano dopo il Concilio di Trento, al tema del “non rubare“: il vero tema della morale economica nel Vangelo è invece quello del significato che i beni terreni hanno nell’orizzonte di fede del cristiano.

    Invece si è annunciato che le ricchezze, una volta legittimamente acquistate, sono strumento di esercizio della libertà personale col solo limite di fare ogni tanto qualche elemosina. Ma per i Padri e per Tommaso chi non dà del suo al bisognoso commette ingiustizia: è tanto ladro chi non soccorre il povero quanto chi ruba i beni altrui.

    Ancora oggi vi sono scuole di pensiero cattolico che sostengono essere il liberismo capitalistico attuale la miglior forma di attuazione del Vangelo, in quanto garante del personalismo e della libertà. E anche documenti pontifici parlano di capitalismo selvaggio: è una visione vecchia, da “padrone delle ferriere”.

    Oggi, nella situazione sopra illustrata, il capitalismo è inesorabilmente “selvaggio: nessuna idea di bene comunque può governarlo. La dottrina, anch’essa vecchia di oltre un secolo, della “mano invisibile” del libero mercato è solo un paravento morale che copre una iniquità sostanziale: il libero mercato di dimensioni planetarie fra aree povere e aree ricche serve solo a arricchire i ricchi e impoverire i poveri.

    Se il povero vuole anche solo sopravvivere deve sottostare alle condizioni imposte dai ricchi: ed è appunto questa, fino ad oggi, la politica costante del Fondo monetario internazionale. Ma molti poveri, come nell’Africa subsahariana, hanno urgenti bisogni che non possono neppure “diventare domanda sul mercato”: semplicemente non hanno soldi per stare sul mercato.

    Occorre dunque ripensare nelle sue radici l’annuncio morale cristiano sulla storia e sull’economia: il Concilio ha indicato con chiarezza la via, ma finora sembra che pochi se ne siano accorti o siano disposti a seguirla senza compromessi.

    La logica della massimizzazione del profitto, quali che siano i costi umani che essa esige, unita allo pseudo-dogma del liberismo economico, sta ormai prevalendo a tutti i livelli. Dal livello finanziario è entrata al livello aziendale, al livello di proposta di politica economica per i governi, a livello personale.

    Ormai “l’avere di più perché è di più“, e non come possibile strumento per soddisfare ragionevoli bisogni nostri e altrui, sta diventando la regola suprema dei comportamenti privati.

    Negli Usa è diventata una vera ossessione generalizzata: con l’avvento di Internet è ormai possibile per il privato operare direttamente e in tempo reale sul mercato finanziario, e molti passano le giornate a muovere denaro al computer per cercare di arricchirsi rapidamente. Non solo la ricchezza, ma l’arricchimento costante come fine a sé stesso è diventato il nuovo idolo, il nuovo ideale di vita nei Paesi ricchi.

    • La teologia morale cattolica dell’ultimo secolo non ha saputo, o voluto, dir niente al riguardo;
    • quella protestante americana, legata all’idea dell’arricchimento come segno di predestinazione, ha favorito tale tendenza.

    Per molti americani Wasp (White, anglo saxon protestant) se uno è povero lo è per propria colpa: circa 40 milioni di cittadini statunitensi poveri non godono di alcun diritto all’assistenza sanitaria. Si mira a ridurre al minimo le tasse per la salute per poter aumentare quelle per armamenti.

    In questo modo il liberismo economico sta divenendo liberismo sociale: nessuna preoccupazione per il bene comune della comunità “Stato” – per non parlare della comunità “famiglia umana” – è ormai proponibile; lo “Stato sociale” è ormai irriso da molta stampa Usa come «old style».

    E molti cattolici si adeguano, col ridicolo pretesto della paura del comunismo. Ma nel Vangelo la ricchezza materiale “non è vera ricchezza, non è ricchezza” per noi seguaci del Signore (cfr. Luca 16).

    La ricchezza vera è Dio e l’avvento del suo Regno. Cercare prima il Regno di Dio e la sua giustizia è cercare la crescita di una convivenza umana di fraternità, di condivisione, di pace.

    Se la teologia non saprà leggere l’economia come vero luogo teologico, luogo in cui dobbiamo cercare – studiando con passione, piangendo e pregando – quale sia il progetto e la chiamata di Dio per noi qui oggi, la Chiesa avrà tradito la sua missione.

    Enrico Chiavacci

     

     

    Nota: Enrico Chiavacci, parroco di Firenze, è docente di teologia morale presso la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale di Firenze. I suoi contributi cercano legami tra la morale fondamentale e la morale sociale e dichiarano il suo impegno, in particolare, sui temi della pace e sui diritti dell’uomo.

    P. ALEX ZANOTELLI COMMENTA IL VANGELO DI LUCA

    Posted on Febbraio 12th, 2009 di Angelo

    p. Alex Zanotelli commenta il Vangelo

    di Luca

    PRIMA PARTE

    p. Alex Zanotelli commenta il Vangelo di Luca

     

    Guardala Prima Parte 

    NADiRinforma: il 4 novembre 2008 presso il Cinema Perla (Bo) p. Alex Zanotelli (Missionario comboniano) commenta il Vangelo di Luca, Giovanni Mazzanti (Economista, Università di Bologna) introduce la lettura. La manifestazione è stata promossa dal Centro Sudi G.Donati in collaborazione con, Giovani Impegno Missionario, Editrice Missionaria Italiana,Ass. Medica N.A.Di.R., Facoltà di Scienze della Formazione con il contributo dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna

    Procuratevi amici con la disonesta ricchezza,perché quando essa verrà a mancare vi accolgano nelle dimore eterne. (Luca 16, 9)

    Visita il sito: www.centrostudidonati.org

    SECONDA PARTE

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    Procuratevi amici con la disonesta ricchezza,perché quando essa verrà a mancare vi accolgano nelle dimore eterne. (Luca 16, 9)
    Guarda la Seconda Parte

    Visita il sito: www.centrostudidonati.org

    AFORISMI – PENSIERI – INVOCAZIONI di C.M. Martini Arcivescovo

    Posted on Gennaio 4th, 2009 di Angelo

    1. Ostentare ricchezza, potere, sicurezza, salute, attivismo, sono tutti espedienti per esorcizzare l’angoscia del tempo che ci sfugge dalle mani.
    2. Con i vostri tanti gesti di bontà, di amore, di ascolto, mi avete costruito come persona e quindi, arrivando alla fine della mia vita, sento che a voi devo moltissimo.
    3. “Il tempo è denaro”, dice un proverbio e bisogna darsi da fare perché fruttifichi al massimo! Il proverbio latino corrispondente è il carpe diem: afferra l’attimo fuggente! “Quant’è bella giovinezza / che si fugge tuttavia / Chi vuol essere lieto sia: / di doman non c’è certezza”. Insomma, se il tempo fugge, inseguiamolo senza tregua, per averne il più possibile a nostro vantaggio. Se ci incalza, affrontiamolo con foga, in modo da ricavarne tutte le soddisfazioni possibili prima di esserne sconfitti. Se ci svuota di energie, preveniamolo con astuzia, stipandolo di bene e di benessere senza perdere neppure un istante. Sono tanti i modi di riempire il tempo per illudersi di possederlo.
    4. Ora forse vi chiederete che cosa mi appresto a fare dopo aver compiuto i 75 anni e aver esercitato il ministero di vescovo per ventidue anni e sette mesi, che è quasi identicamente il tempo in cui servì questa Ch la carità.
    5. Che cosa è il cuore nuovo, da cui nasce la pace? I testi biblici ci possono aiutare a farci un’idea concreta del cuore nuovo. Nel Vangelo di Luca si dice che “Maria serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore”. A sua volta, Paolo scrive nella Lettera ai Galati: “E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!”
    6. Signore, tu sei la mia verità, sei la verità dell’uomo.
    7. Signore, tu sei la mia vita, senza di te il vivere non è vivere.
    8. Signore, abbiamo costruito sulla
    9. iesa il mio grande predecessore Sant’Ambrogio, alla cui ombra vorrei collocarmi come ultimo dei suoi discepoli. Ciò che mi preparo a fare vorrei esprimerlo con due parole: una che indica novità e un’altra che indica continuità.
    10. La televisione ha chiarito che il mio prossimo non ha confini. Anche nel Vangelo il prossimo della parabola del Samaritano supera i confini, però la televisione ce l’ha reso presente.
    11. Mi pare di poter dire come Paolo, all’inizio della lettera ai Filippesi, che “vi porto nel cuore” e che “Dio mi è testimone del profondo affetto che ho per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù”. Anzi il testo greco di questa lettera permette di tradurre non solo “vi porto nel cuore” ma anche reciprocamente “voi avete nel cuore me, voi che siete tutti partecipi della grazia che mi è stata concessa”.
    12. Desideriamo essere con Gesù e questo nostro desiderio lo esprimiamo ad occhi chiusi, alla cieca, mettendoci in tutto nelle sue mani.
    13. Mi sono riappacificato col pensiero di dover morire quando ho compreso che senza la morte non arriveremmo mai a fare un atto di piena fiducia in Dio. Di fatto in ogni scelta impegnativa noi abbiamo sempre delle uscite di sicurezza. Invece la morte ci obbliga a fidarci totalmente di Dio.
    14. Se potessimo dilatare a dismisura il nostro tempo, se potessimo avere, come talora ci capita di desiderare, una giornata di quarantotto ore invece di ventiquattro, la nostra inquietudine si placherebbe? Certo, riusciremo a fare molte più cose, almeno lo pensiamo. E’ pero questo ciò di cui abbiamo bisogno? Non credo. L’ansia che ci prende al pensiero dello scorrere del tempo non dipende dal numero delle ore che abbiamo a disposizione.
    15. La parola “Non ho tempo” la diciamo e l’ascoltiamo così spesso che ci pare come un condensato dell’esperienza comune. Noi abbiamo un’acuta percezione della sproposizione tra il tempo che abbiamo e le sempre più numerose opportunità a nostra disposizione, e insieme le molteplici scadenze, urgenze, attese che ci incalzano. Il frutto maturo della vita cristiana è
    16. sabbia senza di te, ma con te costruiremo sulla roccia.
    17. La carità ci fa sentire corpo di Cristo e sue membra.
    18. Infondi in noi, Signore, la pienezza della carità.
    19. Apri i miei occhi, o Signore, perché io sappia vedere i segni della tua salvezza in mezzo a noi.
    20. Occorre rendersi conto che la preghiera contemplativa è indissociabile dall’esistenza cristiana autentica.
    21. Maria, parlaci tu perché noi non sappiamo parlare di te: parla dunque tu a noi.
    22. L’antichità classica considerava la Pace semplicemente come una tregua tra due guerre.
    23. La preghiera è riconoscimento della nostra fragilità e confessione della nostra incapacità.
    24. Per vedere con chiarezza la realtà della vita occorre salire in alto.
    25. L’uomo è un essere in cammino e bisognoso di significato.
    26. Noi ti lodiamo e ti benediciamo. Signore, per il tuo amore ricco di misericordia.
    27. La condivisione è un simbolo umano ed è pure un simbolo eucaristico.
    28. Grazie, Signore, perché tu metti nel mio cuore la gioia di lodarti.
    29. La storia di ogni uomo può essere colta sotto l’immagine del cammino.
    30. Signore, non ti chiediamo di capire, vorremmo invece saper amare di più.
    31. Camminare sotto la verità di Dio è la risposta a tutti gli interrogativi della vita.
    32. Tu, o Signore, sei il mio pane, e senza di te non posso vivere.
    33. La preghiera è frutto dell’umiltà; è dono dello Spirito; è gioia del cuore.
    34. Donaci, o Signore di conoscere la tua presenza di Padre nel nascondimento della nostra esistenza.
    35. Ogni uomo è fatto per lodare Dio.
    36. Liberami, Signore, chiarisci in me tutto ciò che mi oppone agli altri.
    37. La preghiera è un dono che Dio ci offre nella sua Parola.
    38. Se io voglio ottenere tutto e subito e mi stanco, non ho dato fiducia.
    39. A pregare si impara pregando.
    40. Occorre avere l’umiltà di imparare a pregare, senza fidarci troppo degli impulsi spontanei.
    41. Dobbiamo entrare nella preghiera come poveri non come possidenti.
    42. La capacità di vivere il silenzio interiore connota il vero credente.
    43. Signore Gesù, hai messo dentro di noi tanti desideri, e li hai messi perché ci hai fatto per te.
      Donaci, o Signore di conoscere le vie della pace.