SUL BENEDICTUS [Terapia contro il sordomutismo] Pino Stancari s.j.

Posted on Dicembre 15th, 2008 di Angelo

  

SUL BENEDICTUS

  

di Pino Stancari

 

Zaccaria, suo padre, fu pieno di Spirito Santo, e profetò dicendo: 

  • Benedetto il Signore Dio d’Israele,
    perché ha visitato e redento il suo popolo,
  • e ha suscitato per noi una salvezza potente
    nella casa di Davide, suo servo,
  • come aveva promesso
    per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo:
  • salvezza dai nostri nemici,
    e dalle mani di quanti ci odiano.
  • Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri
    e si è ricordato della sua santa alleanza,
  • del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre,
    di concederci, liberati dalle mani dei nemici,
    di servirlo senza timore, 75in santità e giustizia
    al suo cospetto, per tutti i nostri giorni.
  • E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo
    perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade,
  • per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza
    nella remissione dei suoi peccati,
  • grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio,
    per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge
  • per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre
    e nell’ombra della morte
  • e dirigere i nostri passi sulla via della pace”.

  

Il fanciullo cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele. (Luca 1,67 -80) 

 

la profezia per eccellenza

Il Benedictus (Lc 1,67-79) è sempre presente nella preghiera quotidiana della chiesa: il popolo cristiano tutti i giorni, all’alba di un giorno nuovo, saluta il sole che sorge cantando come Zaccaria. Il Testo evangelico afferma che «Zaccaria, suo padre, fu pieno di Spirito Santo, e profetò dicendo..» Non dice: cantò, dice: profetò. Non è un verbo usato a caso da Luca. Profetò dicendo… Nella tradizione benedettina, che è poi la tradizione ispiratrice di tutta la storia della preghiera e della ricerca spirituale nella vita cristiana del mondo occidentale, quando si dice “profezia”, si intende il cantico di Zaccaria, Il Benedictus, dalla prima parola che in latino apre il canto. Il Benedictus, è la profezia per antonomasia, è la profezia per eccellenza.

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la crisi del sacerdozio

 

E’ importante ricordare il contesto dell’episodio in cui si colloca il cantico: siamo giunti all’ottavo giorno della nascita del bambino e si tratta di circonciderlo e di imporgli il nome. C’è un problema per quanto riguarda il nome da assegnare al bambino, i parenti vorrebbero chiamarlo Zaccaria, il nome della famiglia, mentre la madre insiste: si deve chiamare Giovanni. Nessuno si capacita di questa sua determinazione. Interrogano Zaccaria, il padre, e lo interrogano passando attraverso quella distanza segnata dallo stato di mutismo e di sordità in cui Zaccaria si trova. Zaccaria è muto, e deve essere anche sordo, se è vero che gli domandavano con cenni come voleva che si chiamasse il figlio. Zaccaria per rispondere scrive: Giovanni è il suo nome. Tutti furono meravigliati: «In quel medesimo istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio».

 

Il cantico riportato successivamente è l’ingrandimento di questo versetto, esso affiora sulla bocca di Zaccaria nel momento in cui lo stato di mutismo e di sordità, di cui è prigioniero, viene rimosso. Non è più muto e non è più nemmeno sordo. Non è più distante dagli altri e dall’ambiente che lo circonda. Non è più prigioniero di quell’ incomunicabilità in cui si è trovato relegato. Zaccaria canta, o meglio, Zaccaria sta profetando.

 

Il cantico segna il passaggio dal silenzio profondo in cui Zaccaria si trovava ad una nuova capacità di relazioni con gli altri, con l’ambiente, con il mondo, con la storia umana. Questa nuova relazione che rimuove lo stato antecedente di mutismo e sordità, dipende certamente dalla relazione con il Signore. Che cosa è successo? Ma chiediamoci prima ancora: come mai Zaccaria è muto?

 

Dopo il prologo del suo vangelo Luca ci informa che «al tempo di Erode, re della Giudea, c’era un sacerdote chiamato Zaccaria, della classe di Abìa, e aveva in moglie una discendente di Aronne chiamata Elisabetta. Erano giusti davanti a Dio, osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore. Ma non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni».

 

Questa è la situazione: Zaccaria è sacerdote, sposato con Elisabetta, non ci sono figli. Sterilità di ordine biologico. Altri casi del genere sono segnalati nella storia della salvezza, non è una novità. Ma questa sterilità ha delle caratteristiche del tutto singolari: Zaccaria viene messo in scena nel racconto evangelico nel momento in cui svolge una funzione pubblica. Zaccaria è sacerdote, Zaccaria svolge un ministero che ha un significato strutturale nella vita e nella storia del popolo, nella relazione tra Dio e il suo popolo, relazione sintetizzata nella dinamica dell’alleanza. E’ per un motivo di amore che Dio ha scelto il suo popolo e ha donato la legge, per ottenere dal suo popolo la risposta secondo il suo gradimento: da Dio al popolo il dono della legge, dal popolo a Dio la risposta del culto, la risposta con cui le creature umane possono accostarsi a colui che è il Santo. Ed è in questo incontro con il Santo che è possibile prendere contatto con la sorgente della vita, dall’incontro con il Santo scaturiscono, infatti, tutte le benedizioni.

 

Il sacerdozio è quella struttura di mediazione che garantisce il buon funzionamento del culto. Il popolo è in grado di presentare a Dio l’offerta che Dio gradisce, attraverso il ministero sacerdotale; è attraverso la presenza, il gesto, la parola, il servizio del sacerdote che dal Santo viene riversata sul popolo la benedizione di cui tutti hanno bisogno per vivere.

 

Sono due movimenti fondamentali che caratterizzano il funzionamento del sacerdozio. Il primo è un movimento ascensionale: il sacerdote avanza, sale, porge l’offerta. Se non ci fosse il sacerdote non sapremmo come procedere, non sapremmo quale itinerario seguire, come presentarci. E’ necessaria la presenza del sacerdote che svolge un ruolo imprescindibile nel contesto dell’alleanza: attraverso di lui l’offerta viene presentata fino a prendere contatto con il Santo. 

Il secondo movimento è discendente. C’è un movimento ascensionale, o offertoriale e c’è un movimento benedicente. Il sacerdote ritorna al popolo e impartisce la benedizione. E’ in quanto esiste questa struttura di mediazione, che consente il contatto tra il popolo e il Dio vivente, che l’alleanza realizza i frutti che erano stati programmati fin dall’inizio. Per questo Dio ha fatto alleanza con il suo popolo, per coinvolgerlo in una relazione di vita. Questo dinamismo è realizzato in pienezza tramite la funzione del sacerdote, che avanza e ritorna, che offre e benedice, che ascende e discende. Se il sacerdozio non funziona, tutto il meccanismo salta per aria, o comunque è inutile: è sterile. Qui è in questione non semplicemente la sterilità biologica di una coppia, una storia privata, qui è in questione la sterilità dell’alleanza che è sintesi di tutta la storia della salvezza, per come Dio si è rivelato al suo popolo.

Zaccaria viene colto nel momento in cui sta compiendo un atto ufficiale, l’atto più prestigioso che possa mai possa essere compiuto da un sacerdote.

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Quel giorno «Zaccaria officiava davanti al Signore nel turno della sua classe». I sacerdoti non sono sempre in funzione. Entrano in funzione due volte in una settimana, nel corso dell’anno. Sono 24 classi, composte da alcune centinaia di sacerdoti, che si avvicendano di settimana in settimana. E’ un lavoro piuttosto massacrante quello che svolgono, oltre alle altre cose da fare, come la famiglia, i loro interessi ecc. Ogni classe entra in funzione per una settimana. Sono 24 classi, 48 settimane in un anno lunare, nel corso dell’anno 2 settimane, e ogni giorno viene sorteggiato il sacerdote che entrerà nel Santo, ne varcherà la soglia, il primo velo, e offrirà l’incenso alla sera di quel giorno. Un unico sacerdote compie questo gesto. Viene sorteggiato appositamente. Può darsi che ci siano sacerdoti che nel corso della loro vita una volta hanno compiuto questo gesto.

  

E’ un momento solennissimo, di forte commozione, il popolo è in attesa, poi vengono i momenti di partecipazione corale.. Ecco: il sacerdote entra nel santuario, varca il primo velo. Questo avviene ogni giorno. Il sommo sacerdote, lui solo, una volta all’anno entra nel Santo dei Santi, varca il secondo velo per la festa della grande espiazione, il Kippur, ma quotidianamente un sacerdote varca il primo velo ed entra nel santuario. Lì c’è la lampada a 7 braccia, la Menerà, lì c’è l’altare dei profumi, là il tavolo su cui vengono esposti i pani e sull’altare dei profumi viene bruciato l’incenso. Questo è il gesto che Zaccaria sta compiendo. Non è casuale che sia messo in scena all’inizio del vangelo secondo Luca proprio in questo in questo frangente, nell’atto di compiere un gesto così solenne dal punto di vista liturgico, che fa del sacerdote il centro della relazione tra il popolo e Dio.

  

Quando il sacerdote esce dal santuario, proclama la grande benedizione. Il testo della benedizione sacerdotale è nel libro dei Numeri al cap. 6, il Signore ha spiegato queste cose a Mosè, e Mosè le ha insegnate a sua volta ad Aronne, che è il capostipite di tutti i sacerdoti:

«Voi benedirete così gli Israeliti; direte loro:

Ti benedica il Signore e ti protegga.

Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio.

Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace».

 

Questa è la formula della benedizione. Per 3 volte viene proclamato il nome del Signore sul popolo. Non si sa bene se in epoca antica il nome del Signore fosse pronunciato. Certo dall’epoca rabbinica in poi il nome del Signore non viene più pronunciato. «Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò». La benedizione è descritta in questa maniera: è il nome del Signore che cala, che si posa, che prende contatto con la presenza del popolo:

«Ti benedica il Signore e ti protegga.

Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio.

Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace».

 

Questo testo torna nella nostra preghiera liturgica, e ritorna anche nella devozione cristiana nel corso dei secoli, basti pensare a san Francesco di Assisi.

Il sacerdote esce. Quando Zaccaria esce dopo avere compiuto il gesto della offerta del profumo d’incenso bruciato sull’altare, è muto. Questo vuol dire che non può benedire. Il mutismo e la sordità di Zaccaria mettono in evidenza una situazione sconvolgente: se la benedizione non viene pronunciata sul popolo, l’alleanza non funziona più, la relazione fra Dio e il suo popolo deve arrestarsi dinanzi a una contraddizione, c’è un ostacolo, c’è una barriera invalicabile, c’è una distanza incolmabile: sterilità.

 

In questione non è semplicemente la sterilità di Zaccaria o di sua moglie; è una coppia di gran brava gente, credenti impegnati nelle cose di Dio, che invecchiano senza figli. Il punto è che sterile è il funzionamento del sacerdozio nell’ambito di una storia che è stata predisposta proprio per rendere fluente e intenso un rapporto di amore, di vita tra Dio e il suo popolo. Ebbene il sacerdozio non funziona…. E perché non funziona? Perché Zaccaria è muto. Appena Zaccaria ritrova l’uso della parola benedice Dio, gli è rimasta la benedizione bloccata in bocca. E non è un guaio semplicemente suo, è un problema del popolo in quanto tale, di una storia che sembra sfumare nella intimità più tragica; una storia inutile, una fatica inconcludente.

 

Zaccaria è muto. Mentre si trova nel santuario per offrire il profumo, incontra l’angelo Gabriele che gli annuncia la nascita del figlio. Non si tratta semplicemente dell’annuncio che deve dare consolazione ad un povero anziano che oramai si era messo l’animo in pace, e forse stava scivolando sempre più tristemente nella disperazione.. L’annuncio dell’angelo a Zaccaria riguarda il senso della relazione tra Dio e il suo popolo, riguarda l’impostazione di tutta la storia della salvezza, riguarda il funzionamento dell’alleanza. A questo riguardo Zaccaria è in ritardo; in un certo senso, il fatto che l’angelo gli annunci che nascerà a lui e a sua moglie un figlio, non sembra scomporlo più di tanto. E l’angelo insiste: vedi che io ti parlo di queste cose non per manifestare un segno di benevolenza a tuo riguardo, ma proprio perché è in questione il tuo sacerdozio. Tu ora sei muto. Zaccaria è muto, è il sacerdozio che non si può più esprimere come strumento di benedizione. Zaccaria esce fuori dal santuario, il popolo sta in attesa, si meraviglia, è sconcertato per il suo indugiare nel tempio. Uscito, il sacerdote non può parlare loro. Nel racconto è messo in risalto questo particolare: non poteva benedire, allora capirono che era successo qualcosa di strano. Se ne vanno quatti quatti, con la coda tra le gambe, perché non c’è la benedizione.

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l’annuncio della salvezza

 

Zaccaria torna a casa con tutti i giorni del suo servizio e dopo quei giorni Elisabetta concepì. Anche qui una stranezza. Noi diremmo: dovrebbe fare salti di gioia, dovrebbe telefonare a tutte le amiche e le parenti, anche più lontane, tutto il mondo dovrebbe conoscere questa novità straordinaria che ha consolato la sua vita. E invece non è così: concepì e si tenne nascosta per cinque mesi. Elisabetta dice: qui è in questione la mia vergogna tra gli uomini. Strano. Noi sappiamo che la situazione si sblocca nel momento in cui l’angelo Gabriele si presenta a Maria nella casa di Nazaret e le dice: vedi, tu sei madre e tua cugina ha concepito ed è giunta al sesto mese. Maria fa la visita a sua cugina. La situazione si sblocca così, ma per 5 mesi, siamo giunti al sesto, Elisabetta si è tenuta nascosta, perché deve fare i conti con la sua vergogna. Fosse soltanto la soddisfazione di mettere al mondo un uomo, dovrebbe gongolare, lei e, accanto a lei, suo marito, il quale è addirittura muto e sordo, quasi una specie di larva umana, accantonata in un angolo della casa, che non serve più niente e non solo come sacerdote. Il fatto è che ha senso mettere al mondo un uomo solo nella prospettiva dell’alleanza; ha senso mettere al mondo un uomo solo nella storia della salvezza, una storia di amore. Al di fuori da questa prospettiva, mettere al mondo un uomo è una vergogna prolungata, diffusa, di vergogna in vergogna. Perché mettere al mondo un uomo quando la vergogna domina la scena della storia umana?

 

La situazione si sblocca quando Elisabetta riceve la visita di Maria, e il bambino che Elisabetta porta in grembo sussulta, si agita, le trasmette un impulso di gioia che subito Elisabetta sa interpretare. Da parte sua si rende conto che Maria è madre, nessuno l’ha informata: tu sei madre. Tra madri si intendono nella prospettiva di una maternità che non è semplicemente la soddisfazione di mettere al mondo una creatura, ma è generata per quella storia di amore che Dio ha voluto e realizzato. Siamo madri in obbedienza ad un bisogno di fecondità che è per la vita, non per la vergogna; che è per la salvezza, e non per il fallimento. Tu sei madre del Signore, dice Elisabetta, il bambino che porto in grembo ha esultato di gioia, benedetta tu fra le donne. Maria, che è stata visitata dall’angelo, da Dio, porta in grembo il figlio che ha concepito, visita sua cugina Elisabetta.

 

La scena evangelica è icona rappresentativa di quel disegno che si compie nel corso di tutta la storia della salvezza fina alla pienezza dei tempi: è la visita di Dio che entra nella storia umana per portare a compimento la sua intenzione di amore. E’ questa visita di Dio che diventa evangelo, che diventa quel particolare modo di entrare nella casa di Elisabetta, quel particolare modo di salutare, di cantare con cui lei stessa, Maria, madre del Signore, si esprimerà nel Magnificat.

 

L’evangelo rompe la sterilità. Fosse semplicemente un problema di ordine fisiologico, si potrebbe ancora affrontare e risolvere, ma non è così. L’evangelo rompe, apre, l’evangelo interviene con l’urgenza della visita che porta in sé la misteriosa potenza, tutta la travolgente dolcezza del Dio vivente. Maria nella casa di Elisabetta e di Zaccaria, è giunta nella montagna di Giuda, saluta.

 

Arriviamo così al Benedictus, Elisabetta esce dallo stato di vergogna in cui era nascosta. Ancora 3 mesi di gravidanza, poi il parto: nasce. E nasce non semplicemente il figlio, nasce il figlio redento, nasce il figlio che appartiene a quella novità che Dio ha introdotto nella storia umana, visitando le sue creature per la salvezza. Questo figlio che nasce è profeta, cioè colui che prende posizione in rapporto alla visita, si accorge del fatto che Dio è presente, che Dio è operante, e si atteggia di conseguenza. Sarà col suo vissuto, sarà con le parole i gesti di cui è capace, sarà anche assumendosi delle responsabilità, ma queste sono tutte specificazioni ulteriori. Profeta nella sua forma primigenia è ogni uomo che scopre di essere chiamato da Dio, di essere coinvolto in una relazione, di essere destinatario di una visita e spettatore di una visita che riguarda la storia umana. Magari il profeta queste cose non le sa dire, non sa come spiegarle, ma ci è calato dentro con tutta la sua vita.

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la visitazione

 

Nella nostra tradizione devozionale il mistero cui siamo dinanzi si intitola: visitazione. E’ una visita. E’ un latinismo usato non casualmente, proprio perché si vuole dare al significato di quella visita un’intensità teologica: non è una visita qualunque, non è un segno di benevolenza, non è la disponibilità di una donna servizievole, come Maria, che, informata della gravidanza della cugina, la soccorre. Tutte queste sono considerazioni di contorno, ammennicoli dolciastri che servono alla predicazione più onesta. Non è una visita, è una “visitazione”, proprio perché quella visita ha un significato più cogente, più intenso, ha un significato teologico: è la visita di Dio che rende benedetta la fecondità della donna che genera un uomo, perché genera un profeta. Non genera più un uomo, ma un profeta. Genera un uomo coinvolto in quella novità di cui Dio è l’autore, un uomo salvato, un uomo redento, un uomo messo in grado di reagire, di corrispondere, di accogliere la visita e di adeguarsi ad essa.

 

Elisabetta già lo dice nel momento in cui accoglie il saluto di Maria: il bambino che porto in grembo si è agitato. Fino a quel momento sembra che il bambino sia rimasto tranquillo e pacifico, avvolto nel suo nascondimento e nella sua invisibilità nel grembo di sua madre, madre assai problematica, come si è visto. Adesso il bambino si è scatenato. Ed è questo scatenarsi della gioia nel grembo di Elisabetta che le dà motivo di reinterpretare totalmente la sua maternità, e, di riflesso, la maternità di Maria: a che debbo che la Madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo.

 

Facciamo un passo indietro: l’angelo aveva detto a Zaccaria: sarà profeta fin dal grembo di sua madre. Già eravamo orientati in questa direzione. Il testo rievoca quanto già si diceva nell’AT a proposito di altre grandi figure profetiche, come Geremia o il deutero Isaia: profeta fin dal grembo di sua madre.

 

Il bambino è nato, la circoncisione 8 giorni dopo, e Zaccaria è interpellato: si chiama Giovanni. Così l’angelo lo aveva presentato al padre: nascerà il figlio, si chiamerà Giovanni, si chiamerà profeta fin dal grembo di sua madre. Zaccaria non si rendeva conto, scalpitava, sprofondato in quello stato di mutismo che lo aveva isolato in maniera sempre più amara. Adesso il figlio è nato: si chiama Giovanni. Zaccaria ritrova l’uso della parola. E’ finito il tempo del grande silenzio, è finita la notte, il tempo del buio. La tradizione orante della chiesa, come si è detto, colloca il Benedictus ogni mattina, all’alba.

 

Siamo veramente usciti fuori dal tunnel, innanzi a noi la luce che sorge, alla quale non ci si può più sottrarre. Ormai il tempo del silenzio, della vergogna, della solitudine, il tempo della storia umana come successione di fallimenti senza risultati è finito.

 

L’evangelo fa di ogni bambino che nasce da grembo di donna un profeta, un uomo chiamato ad accogliere la visita di Dio. Zaccaria, ritrovato l’uso della parola, pieno di Spirito Santo profetò dicendo… Non è tornato indietro, non è semplicemente tornato nei suoi panni prima di quel disastro, di quella malattia, di quell’ictus che gli ha tolto l’uso della parola in modo così inopinato e sconveniente, tra l’altro impedendogli di esercitare il ministero sacerdotale.

 

Adesso ha trovato l’uso della parola, ha acquisito dignità di profeta. Questa profezia che adesso contrassegna Zaccaria viene messa in risalto in rapporto a quella che sarà la profezia di Giovanni. Un bambino, per ora, appena nato. E’ una novità profetica quella che segna la vita di Zaccaria, da cui dipende il suo stesso sacerdozio e da cui dipende ogni altra vocazione nel popolo di Dio, e nella storia dell’umanità. Non c’è vocazione che non sia segnata da questa stretta profetica.

 

Ogni chiamata degna di Dio fa di un uomo nella sua particolare condizione, nella sua particolare situazione, nel suo momento, nel suo luogo, nelle sue responsabilità, un profeta.

 

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il cantico: passato e futuro

 

Il cantico si può dividere in due parti: la prima parte (vv. 68-75) è caratterizzata dall’uso di verbi al passato; la seconda parte (vv. 76-79) è caratterizzata dall’uso di verbi al futuro. C’è un perno tra la prima e la seconda parte:

«E tu bambino sarai chiamato profeta dell’Altissimo».

 

Il cantico è incorniciato all’interno di un doppio uso del verbo episkeptomai, che vuol dire visitare: “Benedetto il Signore, Dio d’Israele, perché ha visitato..”, al passato, all’inizio; “verrà a visitarci”, al futuro. E’ la cornice che inquadra tutto il cantico: è la visita. Ci ha visitati, ci visiterà. E’ il senso della storia umana, dal passato all’avvenire, ogni memoria e ogni aspettativa. Tutto prende senso in quanto diventa interpretazione di una storia ormai visitata da Dio, che recupera, visitandolo, il nostro passato e già imposta il nostro avvenire. La memoria ci riconduce a Lui, visitatore nostro, episkopos; la nostra spinta verso l’avvenire ci conduce fino ad incontrarlo come colui che viene a visitarci. Non c’è altra storia. L’evangelo fa di noi dei profeti e Zaccaria sta profetando.

 

Ritorniamo indietro. Prima parte del cantico, tre brevi strofe. Prima strofa: vv. 68-69:

«Benedetto il Signore Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo, e ha suscitato per noi una salvezza potente nella casa di Davide, suo servo».

 

Questo è il motivo per cui benediciamo il Signore, perché ha visitato. E’ una visita operosa, efficace: ha redento il suo popolo, ha suscitato per noi una salvezza potente. Il termine soterìa, salvezza, ritorna altre 2 volte nel cantico nel v. 71 e nel v. 77. La visita di Dio determina questo effetto nella storia degli uomini: si chiama salvezza. Quando Dio ci ha visitati, questo è stato il risultato che abbiamo potuto cogliere e di cui siamo stati destinatari. Salvezza è un termine che qualche volta per noi diventa un poco vago, astratto. Salvezza è il termine che serve ad indicare la situazione in cui si trova qualcuno che era stretto in un angolo, in uno spazio circoscritto, in un ambiente un po’ soffocante, ed ecco gli si fa largo d’intorno, gli si aprono delle strade, si spalanca l’orizzonte..; una barca e un bastimento in secca e poi ecco di nuovo galleggia e può intraprendere le rotte più impegnative. Salvezza. Per coloro che erano intrappolati dentro situazioni di ristrettezza, di avvilimento, di schiacciamento, di soffocamento, adesso uno spazio nuovo.

 

il cantico: i nostri nemici

 

Seconda strofa: vv. 70-71. Questa seconda strofa precisa che l’effetto dalla visita di Dio, ossia la salvezza, è quanto già era stato promesso fin dall’epoca più antica; promesse che adesso siamo in grado di ricordare, rievocare, di ricostruire, promesse di cui forse ci eravamo dimenticati, che forse avevamo addirittura trascurato, forse addirittura considerato come degli imbrogli, per cui le avevamo messe da parte. Ed invece quelle promesse vanno rievocate perché si sono compiute.

«Come aveva promesso per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo: salvezza dai nostri nemici, e dalle mani di quanti ci odiano».

 

Tutti quanti ci odiano: questa è una citazione del Salmo 106, il cantico è un intarsio di citazioni anticotestamentarie. La salvezza è criterio che ci consente di reinterpretare tutta la storia del passato, è la storia impostata a partire da delle promesse che adesso si sono compiute: salvezza dai nostri nemici.

I “nemici” compaiono qui nel cantico. I “nemici” compaiono in lungo e in largo nel libro dei Salmi. Li incontriamo tanto spesso e qualche volta ci sentiamo un po’ imbarazzati. Possibile che ci siano tanti nemici e che sbucano in tutti gli angoli e ce li troviamo sempre tra i piedi? Vorremmo insomma affrontare il cammino della vita cristiana, almeno il cammino della preghiera in modo un po’ più pacifico, un po’ più disinvolto, un po’ più amichevole e senza inimicizie. E lì, invece, nemici da tutte le parti. Per “nemici” bisogna intendere situazioni di fatto dalle quali noi comunque non possiamo prescindere, ossia i limiti della nostra condizione umana che comunque ci contengono, ci stringono: limiti di ordine fisico, psichico, emotivo; limiti nel tempo e nello spazio; limiti nelle relazioni, in cui certamente sono implicati anche gli altri, relazioni di tipo familiare, sociale, politiche. Limiti, insufficienze, slittamenti, regressioni, contraddizioni: i nostri “nemici”. Io sussisto nel tempo e nello spazio, ma il tempo e lo spazio che mi definiscono e mi delimitano. La storia a cui appartengo, la lingua che parlo, la cultura di cui sono impregnato: tutti limiti. Ebbene, quando si parla della salvezza dai nostri “nemici”, vuol dire che non sono più i miei limiti che mi definiscono. I limiti ci sono, certo, ma io non sono più prigioniero dei miei limiti: salvezza.

 

Terza strofa: vv. 72-75.

«Egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre».

Tutto questo già lo sappiamo, è la storia della salvezza già impostata fin dall’inizio, mediante il dono delle promesse: Abramo, i Patriarchi, e poi ecco lui si è ricordato, lui ha portato a compimento. Il giuramento, la promessa «di concederci, liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni».

 

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il cantico: liberàti dalla paura della morte

 

Qui Zaccaria sta considerando il nemico per eccellenza: quel limite che contiene tutti i limiti, che li sintetizza tutti, che li attrae a sé, li sottolinea, li esalta, in modo definitivo, quel limite è la morte. Non soltanto la morte come scadenza ultima che sta dinanzi a noi, ma la morte in quanto anticipata dalla nostra paura di morire. La nostra paura di morire fa di noi dei prigionieri, degli ambulanti che sono preda dei nemici e del nemico che incalza e domina la scena della nostra cosiddetta vita: abbiamo paura di morire. Lo dice san Paolo in 1Cor 15: è l’ultima nemica, la morte. E’ la nemica estrema, è la nemica che ricapitola tutte le altre forme di inimicizia, è il limite per eccellenza: la mia morte. Ed è un limite anticipato nella paura di morire che diventa condizionamento intrinseco di quelle che pure sono le manifestazioni vitali della mia esistenza. Ma già è come se l’ombra della morte mi intrappolasse.

 

Ecco qui esplicitato il contenuto di quella salvezza che è effetto della visita: la liberazione dalla morte, liberazione dalla paura di morire, il giuramento «di concederci, liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza paura (aphobos, è un avverbio), in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni». Noi non siamo più trattenuti dalla paura, siamo ormai sottratti alle grinfie della morte, che sta dinanzi a noi, ma già incalza dall’interno il procedere dei nostri giorni. Noi siamo liberati dalla paura per servirlo, e qui il verbo ha un significato liturgico nella traduzione in greco dell’AT.

 

E’ interessante che questo verbo compaia adesso sulla bocca di Zaccaria, che è un esperto a riguardo di queste cose. Noi siamo messi in grado di avvicinarci a Lui, di superare le distanze: in santità e giustizia, al suo cospetto per tutti i nostri giorni. Siccome siamo liberati dalla paura, possiamo farci avanti. Questo è il gesto che è prerogativa del sacerdote: si fa avanti.

 

Questo gesto viene prospettato da Zaccaria a tutti coloro che sono stati salvati in seguito alla visita di Dio. Siamo stati liberati dalla paura di morire e siamo messi nella condizione di comparire dinanzi alla presenza del Santo e del Vivente per servirlo. Questa nostra esistenza umana, limitatissima con tutte le contraddizioni che porta in se stessa, con tutti i compromessi da cui non veniamo mai fuori interamente, questa nostra esistenza umana è liberata e noi ne possiamo fare un’offerta gradita al vivente, al Santo, per servirlo senza più paura, in santità e giustizia, al suo cospetto per tutti i nostri giorni. Questo è il tema tipico della teologia sacerdotale: comparire davanti alla sua presenza, al suo cospetto, varcare il velo per comparire là dove il Santo ci attende. Ed è Lui stesso che ci viene incontro, ed è lui stesso che irrompe con tutta la ricchezza gratuita della sua benedizione.

E qui il perno centrale:

«E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo».

 

Zaccaria si sofferma a considerare il bambino che è nato da otto giorni. E’ Giovanni Battista, sarà il profeta per antonomasia. E’ interessante questa identificazione tra il bambino e il profeta: i bambini sono profeti, sono i primi a reagire, a percepire le cose nuove, a intuire che una visita è in corso. Ed è anche vero che se non ci sono tanti bambini in circolazione, questo inevitabilmente vuol dire che ci sono pochi profeti. Viceversa il profeta è sempre bambino. E’ nella sua apertura di cuore pronto ad accogliere la visita. Giovanni Battista viene descritto in questo modo.

vv.76-77: «E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati».

 

Adesso i verbi sono al futuro. Chi è il profeta? Profeta è colui che va incontro al Signore. Non è precursore nel senso che lo precede, che gli fa strada, ma nel senso che gli va incontro. Il profeta è colui che trascina dietro di sé un popolo di peccatori, in questo senso è veramente consolatore per antonomasia; è colui che spinge, che si prende cura di testimoniare a tutto un popolo come la strada sia aperta per andare incontro al Signore. Non c’è motivo per restare a distanza, per temere l’incontro. Il suo compito è “dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati». Il profeta è nel popolo per testimoniare che la strada è aperta in vista di quell’incontro che realizza la remissione dei peccati.

 

 

il cantico: per viscera misericordiae

 

Seconda strofa: vv. 78-79: «grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte e dirigere i nostri passi sulla via della pace».

L’ultima parola del cantico è il termine pace, che è anche l’ultima parola della benedizione sacerdotale in Numeri 6. E’ come se Zaccaria, avendo ritrovato l’uso della parola, avesse veramente ritrovato il gusto della sapienza e della benedizione sacerdotale: cantando così e profetando così, sta realizzando in pienezza il suo ministero sacerdotale.

 

La prima strofa ci presentava il profeta come colui che trascina dietro a sé un popolo di peccatori, perché la remissione dei peccati è già realizzata e nessuno può tenersi in disparte, tenersi indietro, rifiutare l’incontro. E adesso dice: per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre. Espressione interessante. In greco dice: dia splankna eleous, la traduzione in latino alla lettera diceva: per viscera misericordiae, attraverso viscere di misericordia. Per cui egli verrà a visitarci dall’alto come un sole che sorge. Attenzione a questo “dall’alto”: è dall’alto, ma anche dal profondo, dal di fuori, ma anche dal di dentro. Che vuol dire dall’alto? Da destra, da sinistra? Dal passato, e dall’avvenire, viene a visitarci, come sole che sorge. Perché? Perché il profeta sta spiegando al popolo che il cammino nel quale siamo impegnati è l’attraversamento di un grembo, il grembo della misericordia di Dio. Non è soltanto un incontro che si prospetta dinanzi a noi peccatori che possiamo farci avanti perché c’è colui che viene e che ci ha rimessi i peccati.

 

Noi ci guardiamo attorno, guardiamo al passato e guardiamo all’avvenire, guardiamo fuori e guardiamo dentro di noi, guardiamo ai lontani e guardiamo ai vicini, guardiamo a quelli che fanno parte di noi, guardiamo a noi stessi e in tutte le direzioni, dovunque guardiamo il nostro sguardo, comunque ci muoviamo, in qualunque direzione ci smarriamo e precipitiamo, noi cadiamo nel grembo della misericordia. Noi stiamo attraversando il grembo. Anzi, se abbiamo l’impressione di essere ancora la buio è perché non siamo ancora nati; se urtiamo contro una barriera, è la parete del grembo; e se stiamo inciampando, è perché stiamo ruzzolando come il piccolo Giovanni nel grembo di sua madre. E la madre non ha alcun dubbio: quel razzolamento del bambino nel suo grembo è espressione di una gioia profetica.

 

Noi stiamo attraversando le viscere della misericordia, ci stiamo dentro: terreno sotto i miei piedi, soffitto sopra di me. Il cielo, l’abisso più profondo. Da dove venga e dove va, fuori e dentro, noi stiamo percorrendo l’itinerario della creatura che viene alla luce e il grembo che già ci avvolge, ci contiene, che già ci fa vivere e che già preme su di noi per farci nascere, è il grembo della misericordia, il mistero del Dio vivente. Così verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre. In questo sta il significato della uscita dalle tenebre, dall’ombra della morte per dirigere i nostri passi sulla via della pace. E’ la luce del giorno che sorge per non tramontare mai più ed è quella luce che sorge per spiegarci come le tenebre erano già in modo straordinariamente fecondo e pacificante rivelazione della misericordia eterna del Dio vivente.

 

Santuario della Visitazione 

Sul muro posto di fronte a questa facciata sono esposte due versioni del Magnificat

 

in lingua ebraica

  

 e in lingua italiana

 

Monastero francescano di S. Giovanni Battista.
Sul muro posto di fronte a questa facciata sono collocate le versioni
nelle varie lingue del Cantico di Zaccaria, il Benedictus (Luca 1,57-80).

 

IMMAGINI di Claudio Elidoro

http://digilander.libero.it/elidoro/terrasanta/ainkarem_2.html

E’ autorizzato il libero uso di queste immagini per fini non commerciali.
Nel caso di utilizzo è comunque gradita la segnalazione della provenienza.

 

 

LA STRADA, NON UNA STRADA… – Dal Papa e dai Vescovi il senso di COMUNIONE E LIBERAZIONE nel ventennale di fondazione.

Posted on Gennaio 19th, 2009 di Angelo | 

 

01/03/2002

giovanni-paolo-ii-incontra-i-movimenti-ecclesiali

 

 


Milano, 22 febbraio 2002

giussani-don-luigiCarissimi amici,

la lettera che il Santo Padre mi ha inviato in occasione del XX anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità è il gesto più decisivo della nostra storia.

Nella gratitudine per questo segno di grande paternità di Giovanni Paolo II siamo autorevolmente aiutati a riconoscere la linea unica che la nostra storia ha seguito. «Il movimento – ci ha scritto il Santo Padre – ha voluto e vuole indicare non una strada, ma la strada per arrivare alla soluzione di questo dramma esistenziale» dell’uomo che non smette mai di cercare.

«La strada… è Cristo. Egli è la Via, la Verità e la Vita, che raggiunge la persona nella quotidianità della sua esistenza».

Per questo adesso si apre per noi un nuovo inizio: dimostrare, ridimostrare l’evidenza della verità di quello che seguendo la Tradizione della Chiesa ci siamo sempre detti. Come ci ha scritto ancora il Santo Padre: «Il cristianesimo, prima di essere un insieme di dottrine o una regola per la salvezza, è l’“avvenimento” di un incontro».

Che lavoro imponente emerge da questa lettera! Siamo ancora daccapo, sempre! È una cosa nuova che deve accadere, un passo estremamente grave della nostra storia.
È un momento di responsabilità le cui movenze si palesano nel tempo, come urgenza di radicare nella nostra esistenza il giudizio dello Spirito, cui ciascuno può concorrere ordinatamente, obbediente, oppure cui può resistere come pretesa di una propria carnalità, che diventa impossibilità a difendere la serenità o a combattere contro l’apparente distruzione di ciò che accade. Tutto dipende da una obbedienza serena, e quindi costruttiva, della nostra fatica. Questa fatica è originariamente un sacrificio che segue Cristo, la Sua morte e la Sua resurrezione. Seguire Cristo, amare in tutto Cristo: è ciò che deve essere riconosciuto come la caratteristica principale del nostro cammino.

Per questo occorre domandare una chiarezza grande di fronte alla nostra responsabilità. Il singolo, infatti, è responsabile di tutta la Fraternità in cui è immerso, qualunque sia la sua condizione attuale, di salute o di malattia, di letizia o di prova. È una riflessione su questo che ci aiuta a cogliere il valore decisivo del nostro cammino, soprattutto nel lavoro della Scuola di comunità, attraverso cui ciascuno di noi abbia una ragione avveduta del miracolo della sua adesione. Ad ognuno Dio affida il suggerimento di essere un’avanguardia per la missione.

L’esempio più grande in questo senso ci è dato da coloro tra noi cui sono affidate le responsabilità più gravi; anche in campo civile, perché la novità che investe la nostra storia sia esplicitata in loro nella dedizione al proprio servizio. E questa novità non è giudicata innanzitutto dal comportamento morale del singolo, ma dal tipo di responsabilità che ciascuno avverte nel suo servizio dentro la comunità stessa in cui Dio lo chiama. In questo senso il responsabile ricerchi nella sua azione di prestare un servizio di carità, perché accettare la volontà di Dio è un fatto che deriva dal riconoscimento del Suo scopo ultimo per l’incremento della vita di tutta la comunità e della Chiesa. La carità di chi è responsabile è innanzitutto l’aiuto offerto a tutti nel loro compito verso il Mistero. Questa è la ragione di merito per ogni uomo che vuole essere fratello dell’altro uomo.

Per questo la lettera del Papa termina rilanciandoci nella missione: la forza della missione diventa forza del martirio (testimonianza). Intraprendiamo il futuro liberamente, anche se gli altri fossero portati a non accettare quello che siamo.
Preghiamo la Madonna per le nostre miserie e per quelle del mondo. Nell’avventura di ogni giorno è il permanere in una noncuranza rispetto alla fedeltà di Dio alla nostra storia: questo è il peccato più grosso. La Madonna ci urge a collaborare alla grandezza del piano di Dio di salvezza per tutti i fratelli uomini.

Innestandomi con cuore pieno di adesione e di forza, sento di essere al mio posto con voi tutti.

don Luigi Giussani

giussani

  

Lettera del Papa a don Giussani per l’anniversario della Fraternità di CL

 Al Reverendo Monsignore LUIGI GIUSSANI,
Fondatore del Movimento “Comunione e Liberazione” 

giussani-e-giovanni-paolo-ii1. Con intensa partecipazione mi unisco alla gioia della Fraternità di “Comunione e Liberazione”, nel 20° anniversario del suo riconoscimento da parte del Pontificio Consiglio per i Laici come Associazione di fedeli di diritto pontificio. Già nel 1954, Ella, carissimo Mons. Giussani, aveva dato origine a Milano al movimento “Comunione e Liberazione”, che era andato poi diffondendosi in altre parti d’Italia e, in seguito, anche in altri Paesi del mondo. Di questo movimento la Fraternità costituisce il frutto maturo.

Nella felice ricorrenza ventennale, mi è particolarmente gradito ripercorrere i passi significativi dell’itinerario ecclesiale del movimento, per ringraziare Dio di ciò che Egli ha operato attraverso l’iniziativa Sua, Reverendo Monsignore, e quella di quanti a Lei si sono uniti nel corso degli anni. E’ motivo di conforto ricordare le vicende attraverso le quali l’azione di Dio si è manifestata e riconoscere insieme la grandezza della sua misericordia.

2. Riandando con la memoria alla vita e alle opere della Fraternità e del movimento, il primo aspetto che colpisce è l’impegno posto nel mettersi in ascolto dei bisogni dell’uomo di oggi. L’uomo non smette mai di cercare: quando è segnato dal dramma della violenza, della solitudine e dell’insignificanza, come quando vive nella serenità e nella gioia, egli continua a cercare. L’unica risposta che può appagarlo acquietando questa sua ricerca gli viene dall’incontro con Colui che è alla sorgente del suo essere e del suo operare.

Il movimento, pertanto, ha voluto e vuole indicare non una strada, ma la strada per arrivare alla soluzione di questo dramma esistenziale. La strada, quante volte Ella lo ha affermato, è Cristo. Egli è la Via, la Verità e la Vita, che raggiunge la persona nella quotidianità della sua esistenza. La scoperta di questa strada avviene normalmente grazie alla mediazione di altri esseri umani. Segnati mediante il dono della fede dall’incontro con il Redentore, i credenti sono chiamati a diventare eco dell’avvenimento di Cristo, a diventare essi stessi «avvenimento».

Il cristianesimo, prima di essere un insieme di dottrine o una regola per la salvezza, è pertanto l’«avvenimento» di un incontro. E’ questa l’intuizione e l’esperienza che Ella ha trasmesso in questi anni a tante persone che hanno aderito al movimento. Comunione e Liberazione, più che ad offrire cose nuove, mira a far riscoprire la Tradizione e la storia della Chiesa, per riesprimerla in modi capaci di parlare e di interpellare gli uomini del nostro tempo. Nel Messaggio ai partecipanti al Congresso mondiale dei movimenti ecclesiali e nuove comunità, il 27 maggio 1998, ho scritto che l’originalità del carisma di ogni movimento “non pretende, né lo potrebbe, di aggiungere alcunché alla ricchezza del depositum fidei, custodito dalla Chiesa con appassionata fedeltà” (n. 4). Tale originalità, tuttavia, “costituisce un sostegno potente, un richiamo suggestivo e convincente a vivere appieno, con intelligenza e creatività, l’esperienza cristiana. Sta in ciò il presupposto per trovare risposte adeguate alle sfide e alle urgenze dei tempi e delle circostanze storiche sempre diverse” (ibid).

3. Occorre ritornare a Cristo, Verbo di Dio incarnato per la salvezza dell’umanità. Gesù di Nazaret, che ha vissuto l’esperienza umana come nessun altro avrebbe potuto, si pone quale traguardo di ogni aspirazione umana. Solo in Lui l’uomo può giungere a conoscere pienamente se stesso.

La fede appare in tal modo come un’autentica avventura della conoscenza, non essendo un discorso astratto, né un vago sentimento religioso, ma un incontro personale con Cristo, che dà nuovo senso alla vita. L’opera educativa che, nell’ambito delle vostre attività e comunità, tanti genitori e insegnanti hanno cercato di svolgere, è consistita proprio nell’accompagnare fratelli, figli, amici, a scoprire dentro gli affetti, il lavoro, le più differenti vocazioni, la voce che porta ciascuno all’incontro definitivo con il Verbo fatto carne. Soltanto nel Figlio unigenito del Padre l’uomo può trovare piena e definitiva risposta alle sue attese intime e fondamentali.

Questo dialogo permanente con Cristo, alimentato dalla preghiera personale e liturgica, è stimolo per un’attiva presenza sociale, come testimonia la storia del movimento e della Fraternità di Comunione e Liberazione. La vostra è, in effetti, storia anche di opere di cultura, di carità, di formazione e, nel rispetto della distinzione tra le finalità della società civile e della Chiesa, è storia anche di impegno nel campo politico, un ambito per sua natura ricco di contrapposizioni, in cui arduo risulta talora servire fedelmente la causa del bene comune.

4. In questi vent’anni la Chiesa ha visto sorgere e svilupparsi al suo interno tanti altri movimenti, comunità, associazioni. La forza dello Spirito di Cristo non smette mai di superare, quasi di rompere, gli schemi e le forme sedimentate della vita precedente, per urgere a inedite modalità espressive. Questa urgenza è il segno della vivace missione della Chiesa, in cui il volto di Cristo si delinea attraverso i tratti dei volti degli uomini di ogni tempo e luogo della storia. Come non stupirsi dinanzi a questi prodigi dello Spirito Santo? Egli compie meraviglie e all’alba di un nuovo millennio spinge i credenti a prendere il largo verso frontiere sempre più avanzate nella costruzione del Regno.
Anni fa, in occasione del trentennale della nascita di Comunione e Liberazione, ebbi a dirvi: ” Andate in tutto il mondo a portare la verità, la bellezza e la pace, che si incontrano in Cristo Redentore” (Roma, 29 settembre 1984, n. 4). All’inizio del terzo millennio dell’era cristiana, con forza e gratitudine vi affido di nuovo lo stesso mandato. Vi esorto a cooperare con costante consapevolezza alla missione delle diocesi e delle parrocchie, dilatandone coraggiosamente l’azione missionaria sino agli estremi confini del mondo.

Il Signore vi accompagni e fecondi i vostri sforzi. Maria, Vergine fedele e Stella della nuova evangelizzazione, sia il vostro sostegno e vi guidi sul sentiero di una sempre più audace fedeltà al Vangelo.

Con tali sentimenti, volentieri imparto a Lei, Mons. Giussani, ai suoi collaboratori e a tutti i membri della Fraternità come pure agli aderenti al movimento una speciale Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 11 Febbraio 2002, festa della Beata Vergine Maria di Lourdes.

 

Tradizione presente

Anche se può sembrare banale, penso che sia utile una comparazione tra la lettera inviata dal Santo Padre per il ventesimo anniversario del vostro “riconoscimento” e gli analoghi documenti degli ultimi anni. Anzi si può già sottolineare che venti anni non è un traguardo gratulatorio abituale nella Santa Sede (25 e 50 è la norma). Nel contenuto vi è un’analisi profonda; una motivazione di positività dettagliata e calda; un’approvazione non generica della genesi e dei contenuti.

Né può sottovalutarsi la sottolineata messa in evidenza, nel preambolo, della iniziale attività promossa da don Luigi a far tempo dal 1954.

Nel testo sottolineo in particolare l’accenno all’inserimento di Cl nella tradizione che è qualcosa di molto diverso da una brillante novità di formule e di intenti. Forse proprio questa essenzialità e questo aggancio alle radici più antiche e più genuine della Chiesa cattolica costituiscono il titolo di onore e di cristiana gloria del movimento.

È un documento che fa molto meditare e che arreca al mondo CL grande gioia spirituale.

Grazie per avermelo fatto conoscere.

Giulio Andreotti

 

Assimilarci a Cristo

Carissimo don Giussani,
ti scrivo due righe per congratularmi con te per la bellissima lettera che ti ha indirizzato il Santo Padre a motivo del XX anniversario del riconoscimento dello Statuto di Comunione e Liberazione.

Penso che dietro a questa lettera ci sono tanti anni di sofferenza e combattimento contro il comune nemico. Calunnie, incomprensioni, amici che tradiscono… ma ecco il nostro vero vanto: “assimilarci a Cristo Crocefisso”.

Ancora sento vivo nel mio animo la volta che abbiamo mangiato insieme con il gruppo più fidato dei tuoi collaboratori a Milano. Sono rimasto impressionato dalla tua bontà, umiltà e amore verso di me, che non lo merito. Spero di poter tornare a Milano per vederti di nuovo e consolarci in Cristo a vicenda.

Prega la Santa Vergine perché interceda per me che sono un peccatore.

Kiko Argüello, fondatore del movimento dei Neocatecumenali

 

La strada

Nel messaggio inviato a monsignor Giussani per i vent’anni del riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e Liberazione, il passaggio-chiave mi sembra il riconoscimento dell’impegno posto da Cl nel mettersi in ascolto dei bisogni dell’uomo oggi. Giussani ha capito che l’uomo (nel dolore come nella gioia) non smette mai di cercare. Ma non cade nel relativismo di certa teologia, e arriva a una conclusione che lo pone in comunione con Karol Wojtyla: l’unica risposta che può appagare l’uomo in questa ricerca gli viene dall’incontro con Cristo. Per questo Cl, riconosce il Pontefice, vuole indicare non una strada qualunque, ma proprio quella strada che ambisce ad arrivare alla soluzione del dramma esistenziale dell’uomo in perenne ricerca. La fede per Giussani non è infatti un discorso astratto e nemmeno un vago sentimento religioso. Il Papa apprezza di Giussani soprattutto una cosa: invece di offrire cose “nuove” e “alla moda”, punta a far dialogare la tradizione e la storia della Chiesa con gli uomini del nostro tempo. Il Vangelo va predicato in modo da parlare e interpellare l’umanità, ma non va stravolto con letture politicizzate come quella offerta dalla teologia della liberazione.

Pierluigi Battista editorialista de La Stampa

 

Sguardo aperto

Immagino la gioia che può avere procurato un messaggio così limpido, forte e amorevole. Non mi permetto di commentarlo. Posso forse dire una parola come uno che, in vent’anni, ha incontrato spesso quelli dell’incontro. Mi è parso sempre sorprendente che chi viveva un avvenimento in ultima analisi così esclusivo, avesse tuttavia uno sguardo aperto all’altro e fosse anzi disposto a pensare che chi cerca in qualche modo ha già trovato. Una fede palesemente poco incline a compromessi con il linguaggio comune, poco disposta a farsi veicolare dall’etica corrente e condivisa, eppure sorridente al mondo. Nelle opere che Comunione e Liberazione ha generato in campo sociale e politico risuona l’eco di questo nucleo spirituale. Chi ha orecchi per sentire la sente e non si meraviglia che questa eco spesso si ritrovi in luoghi e con interlocutori apparentemente disparati e inusuali; il fatto è (questo è anche l’augurio!) che chi ha trovato continua tuttavia a cercare ed è capace ogni giorno, dialogando, di stupirsi e di stupire.

Pierluigi Bersani responsabile delle Politiche economiche dei Ds

 

In missione

«L’uomo non smette mai di cercare: quando è segnato dal dramma della violenza, della solitudine e dell’insignificanza, come quando vive nella serenità e nella gioia, egli continua a cercare. L’unica risposta che può appagarlo, acquietando questa sua ricerca, gli viene dall’incontro con Colui che è alla sorgente del suo essere e del suo operare».

Permettetemi di iniziare da questa frase, che ben descrive l’ansia del cristiano chiamato a cercare non una strada ma la strada, l’avvenimento che ha stravolto il mondo, ribaltando la logica del potere, del denaro, per privilegiare il povero, i puri di spirito, gli ultimi. È una ricerca che, per il credente, non deve conoscere sosta. In questa chiave penso vada letta l’esperienza di don Giussani: una continua ricerca, con i giovani e per i giovani.

Il messaggio del Santo Padre alla Fraternità di Comunione e Liberazione è un invito a proseguire questo impegno e questo cammino; a essere, con la Chiesa e per la Chiesa, in missione vicino all’uomo di oggi, là dove vive e lavora. Andate per il mondo, dice ancora il Papa, cooperate con costante consapevolezza alla missione delle diocesi e delle parrocchie, dilatandone coraggiosamente l’azione missionaria sino agli estremi confini del mondo.

Questo è il terreno anche di una collaborazione tra le varie espressioni presenti nella Chiesa: comunità, movimenti, associazioni, che qui possono trovare un rinnovato stimolo anche per il dialogo tra loro. Credo che in questi anni il desiderio di comunione anche tra le diverse aggregazioni della Chiesa sia cresciuto; sia cresciuta la stima reciproca; siano cresciute la volontà e l’esigenza di conoscersi e di camminare insieme, nel rispetto delle proprie diversità.

È un motivo di fiducia, all’inizio di questo millennio; è una responsabilità nuova che ci sollecita con forza.

Paola Bignardi presidentessa di Azione Cattolica

 

I miei amici

Per me l’incontro con Cl è stato subito un incontro tra adulti. Ed è stato subito un incontro con una persona di una tal forza che non si fatica a dichiararlo un “avvenimento”. Questa persona fu Giovanni Testori. Ma speciale e quasi destinale fu il secondo incontro che “dovetti” vivere, quello con don Giussani da cui Testori subito mi portò. Dall’incontro con don Giussani fui certo di aver perso molto incontrando il movimento soltanto nella mia età adulta. Ma, si sa, l’importante è gioire quando si incontra il proprio destino, senza recriminare. L’amicizia, ecco, l’amicizia che si affranca nella Compagnia. La Compagnia che te la ricorda sempre l’amicizia. E i miei amici di Fraternità furono e sono: Emanuele Banterle e Gianmaria Bandera e il nipote di Testori… Frangi e Cesana e Vittadini e Intiglietta e Bonacina con le loro mogli e i loro figli e figlie e… Cristo.

Franco Branciaroli, attore

 

Suggestivo e convincente

Ho conosciuto personalmente nel corso di questi anni diversi aderenti al movimento di Comunione e Liberazione e ho potuto riconoscere il volto di Cristo attraverso le mille facce di giovani entusiasmanti che hanno animato il Meeting di Rimini e le Giornate Mondiali della Gioventù.

Ho potuto così verificare la profonda verità delle parole del Santo Padre quando afferma che l’originalità del movimento «costituisce un sostegno potente, un richiamo suggestivo e convincente a vivere appieno con intelligenza e creatività l’esperienza cristiana».

Agli auguri migliori per questo bellissimo anniversario aggiungo la considerazione che la stima e l’affetto reciproci sono segno dell’unità in Cristo e un evidente dono dello Spirito Santo.

Giuseppe Corigliano, direttore dell’Ufficio Informazioni della Prelatura dell’Opus Dei in Roma

 

L’avventura della conoscenza

Ciò che colpisce nella lettera del Papa a don Giussani è il richiamo all’ascolto dei bisogni dell’uomo d’oggi. Il fondatore di Comunione e Liberazione è stato ed è uno straordinario cercatore, per strade impervie, a volte impossibili. Ha illuminato il cammino di chi ha ricevuto il dono della fede, ma ha reso meno oscuro, con il suo esempio di vita e la sua parola, il cammino, incerto e sofferto, di molti laici, tra i quali il sottoscritto. Mi rammarico di non aver partecipato a quegli incontri di Gs, di averli guardati persino con sospetto se non irritazione. Ma ho la fortuna di aver rivisto molti di quei mattinieri e silenziosi partecipanti e di aver ricevuto in dono da loro affetto, consigli e cure. Grazie don Giussani, anche da chi non appartiene al suo gregge. Bisogna saper ascoltare, ma anche comunicare quello che si impara e si prova. Altrimenti l’avventura della conoscenza darà magari molti brividi intellettuali, ma pochi frutti sprituali e sociali.

Ferruccio De Bortoli, direttore del Corriere della Sera

 

Divina disinvoltura

Monsignor Giussani può essere particolarmente soddisfatto per la speciale benedizione apostolica impartita da Giovanni Paolo II alla Fraternità da lui iniziata nel ’54. Non solo per motivi che si spiegano da sé. Anche per un’altra ragione. Il Papa riconosce al carisma particolare di Comunione e Liberazione una capacità di nutrire la «vivace missione della Chiesa» perfino nell’ambito controverso della politica, «in cui arduo risulta talora servire fedelmente la causa del bene comune».

Oggi si parla molto di società civile, concetto che sta tra l’economia, la sociologia e la storia. Se una cosa è riuscita a monsignor Luigi Giussani, è proprio questa: irrompere con una certezza di fede avventurosa, l’incontro personale con Cristo, concepito come avvenimento e non come generica inclinazione a credere, in quei pezzi di mondo secolare in cui la sua Fraternità ha lasciato un segno del proprio operare. Con coraggio, con sprezzo del pericolo, con quella che a me laico e miscredente è sempre parsa una divina disinvoltura, una ispirata capacità di stare nelle contraddizioni del mondo.
Giuliano Ferrara, direttore de Il Foglio

 

Incontro esistenziale

Il pontificato di Giovanni Paolo II è uno dei più grandi nella storia della Chiesa. Per molti aspetti l’opera di don Giussani ne è la prefigurazione. Il messaggio del pontificato del Santo Padre, e certamente tutta la sua vita, è stato un pellegrinaggio verso l’incontro con Cristo, la Vera Presenza, il vero Dio, il vero uomo, il centro reale dell’umana esistenza. Come dice, con gratitudine, lo stesso Santo Padre, il movimento di Comunione e Liberazione indirizza tutti verso un incontro esistenziale con Cristo, contenuto e sostanza della nostra vita. Il movimento ha dato concretezza al messaggio di papa Leone XIII sulla dignità del lavoro, il quale partecipa intimamente dell’opera redentrice di Cristo, perché nostro Signore faceva l’opera del Padre sia quando faticava nella falegnameria di san Giuseppe, sia quando chiamò i suoi discepoli affinché lo seguissero.

David Forte, professore di Legge alla Cleveland State University

 

Carica dirompente

Vent’anni di “ufficialità”, fino a che punto hanno segnato Comunione e Liberazione? È difficile rispondere, se non altro perché a festeggiarli – per la gioia di tutti noi – è ancora lo stesso Papa da cui nel 1982 venne il riconoscimento alla Fraternità ciellina. Si tratta, in effetti, di un Pontefice capace da sempre di esprimere il primato della fede rispetto alla stessa dimensione istituzionale della Chiesa.

Ecco, un uomo come Karol Wojtyla non poteva certo provare timore di fronte all’eccentricità, alla carica dirompente di un movimento talvolta visto con sospetto dalla gerarchia ecclesiastica. Vi ha accompagnati nell’età adulta, forse ha vinto una certa diffusa tentazione all’autosufficienza, fornendo della Chiesa una visione al tempo stesso tradizionalista e capace di lasciarsi destabilizzare da un riferimento a Cristo implicante una continua ricerca delle proprie radici, e un severo riconoscimento delle proprie mancanze.

La speciale sintonia tra Giovanni Paolo II e il movimento fondato da don Luigi Giussani attende ora la verifica di una stagione nuova, le incognite di una seconda fase. Ma in fondo la lettera, che avete ricevuto dal vecchio Papa sotto la guida del quale siete cresciuti, contiene al suo interno l’indicazione: rimanete giovani, aperti agli interrogativi dell’oggi. Non è facile, ma lì si trova il senso dello stare insieme.

Gad Lerner, giornalista de La7

 

L’avvenimento per eccellenza

Come rappresentante di un’altra realtà ecclesiale carismatica, plaudo alla gioia di monsignor Giussani nel 20° anniversario del riconoscimento della Fraternità di Comunione e Liberazione. So, infatti, cosa significa per un fondatore una parola del Santo Padre, di questo Santo Padre Giovanni Paolo II, che passerà alla storia anche per aver compreso, sostenuto, benedetto e approvato i nuovi movimenti ecclesiali e le nuove comunità. Nello stesso tempo lodo Dio per il carisma di cui è stato dotato monsignor Giussani e, per lui, quanti figli e figlie lo seguono nel mondo. È esso un dono sublime, tutto concentrato, mi sembra, nell’avvenimento per eccellenza da lui per primo sperimentato: l’incontro personale con Gesù, sorgente di vita spirituale intensa e di tanta meravigliosa vita, di tante opere concrete. Lode allo Spirito Santo che non smette di far bella la Chiesa preparandola, di secolo in secolo, ad affrontare le sfide ricorrenti e a darle vittoria.

Chiara Lubich, fondatrice del movimento dei Focolari

 

Fratelli della Fraternità

Partecipiamo con sentimenti di fraterna amicizia alla gioia della Fraternità di Comunione e Liberazione per la ricorrenza del ventesimo anniversario del riconoscimento pontificio, resa ancora più significativa dalla splendida lettera del Santo Padre Giovanni Paolo II, inviata a monsignor Luigi Giussani.

«L’uomo non smette mai di cercare». Questa affermazione del Santo Padre ci rinnova nella mente le conversazioni serali con il nostro fondatore e padre nella Fede, don Didimo Mantiero.La sua strada era la strada della Verità e passava attraverso la carità della sua persona.

Quando don Didimo morì, rimanemmo fedeli al suo carisma, ma trovammo in monsignor Giussani, nella sua intuizione dell’“incontro”, nella sua umiltà, nel segno della mendicanza, nei suoi libri, nei suoi discepoli, l’aiuto di un rinnovato vigore di meditazione culturale nella Fede.

La Dieci, il Comune dei Giovani, la Scuola di Cultura Cattolica sono figli del carisma di don Didimo, ma don Giussani è anche nostro. E noi siamo fratelli della Fraternità, perché camminiamo con lo stesso Cristo, quello del primo capitolo di san Giovanni.

Sergio Martinelli e Giovanni Scalco, movimento de la “Dieci”

 

Compagnia e compassione

Con viva ammirazione, anch’io mi unisco alla vostra gioia nel ventesimo anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e Liberazione. Ho letto con attenzione il messaggio augurale inviatovi dal Santo Padre Giovanni Paolo II e il suo pressante invito a coltivare, con ogni sforzo, l’esperienza personale e comunitaria d’incontro con Gesù vivo. In un tempo che attende sovente segni di redenzione – incapace di fare memoria dell’“avvenimento” di Cristo nel tempo, “macchiato” dall’infedeltà all’eterna presenza di Cristo nella storia c’è un’umanità che attende di essere “lavata” e “rigenerata” dalla Sua compassione, di essere immersa nel mistero della Sua presenza operante, che sola dà speranza. Abbiamo bisogno di seminare, creativamente, la compassione di Gesù: solo chi compatisce, sa comprendere l’uomo e la storia! «Comprendere l’uomo», significa essere capaci – e il prezzo è quello del morire – di “abbracciarlo” a partire da ciò che “non è ancora”, alla maniera di Gesù, il compassionevole. Possa la Fraternità di Comunione e Liberazione godere dell’intimità con il cuore di Gesù, per sentire e risentire le ragioni dell’amore insoddisfatto che è nel cuore di chi si fa nostro prossimo. Voglia lo Spirito Santo Paraclito effondere su di voi la “consolazione divina”, perché possiate aiutare il mondo a vincere ogni deriva di solitudine che attenta alla compagnia del nostro Signore Gesù. Auguri vivissimi.
Salvatore Martinez, coordinatore nazionale del Rinnovamento nello Spirito Santo

Gratuità

La lettera di Giovanni Paolo II a monsignor Luigi Giussani è un gesto di grande affetto, tanto personale, verso una realtà rilevante nella Chiesa del nostro tempo. È il punto d’arrivo di un cammino intrapreso da Giovanni Paolo II, quando, sino dall’inizio del suo pontificato, volle incontrare in maniera personale i cristiani sulle vie nuove che percorrevano: «La forza dello Spirito di Cristo – ha scritto a don Giussani – non smette mai di superare, quasi di rompere, gli schemi e le forme sedimentate della vita precedente, per urgere a inedite modalità espressive». Con questo spirito il Papa ha incontrato Comunione e Liberazione e ha seguito la sua storia. Giovanni Paolo II ha subito colto l’intuizione centrale di don Giussani: «Il cristianesimo, prima di essere un insieme di dottrine o una regola per la salvezza, è pertanto l’“avvenimento” di un incontro». Alla Vigilia della Pentecoste 1998, il Papa ha parlato della maturità dei movimenti e delle nuove comunità. Questa maturità si esprime nella responsabilità verso la missione della Chiesa e nella capacità di rappresentare, pur nella diversità, uno spazio di amore fondato sul dono, in una società che ha smarrito il senso della gratuità. Anche il dono di questo messaggio del Papa a Comunione e Liberazione, rappresenta una bella occasione per unirmi ai suoi sentimenti e inviare i migliori auguri a don Giussani che ha tanto camminato «sul sentiero di una sempre più audace fedeltà al Vangelo».

Andrea Riccardi, iniziatore della Comunità di Sant’Egidio.

 

La rotta più sicura

Se Gesù dice, Io sono la Via, la Verità e la Vita, che insegnamento vuol impartirci? La Via è pratica religiosa antica, il Tao e il Buddha ce la additano. Ma la Verità? Viviamo in tempi in cui, penso all’Italia soprattutto ma non solo, la Verità sembra ridotta a una forma differente della Menzogna. Il cinismo e il sarcasmo correnti sembrano suggerire questa lettura del reale: la vostra sola identità sia la parte, l’interesse, il guadagno breve dell’oggi. Il Bene è indicato come una forma diversa, e inferiore, del Male. Gli Angeli Maledetti di Milton calcolano l’audience, con soddisfazione. Il premio Nobel Elie Wiesel, sopravvissuto ad Auschwitz, postula: alla lunga il Bene trionfa sul Male perché il Male è radicato sulla menzogna e la menzogna deve, di necessità, di logica, cedere davanti alla verità. Questa è, nella colorata cecità dell’oggi, la rotta più sicura, quella a cui, con determinazione, affidiamo il nostro passaggio precario di Vita e verso la Vita. E di questo mi pare, nella sua accorta sofferenza, parli papa Wojtyla nell’epistola a don Giussani.
Gianni Riotta, condirettore de La Stampa

 

Un incontro per la vita

Quando mi avete chiesto di scrivere alcune note di commento alla splendida lettera del Papa a don Giussani, ho provato emozione e paura. Mi è sembrato così difficile commentare un testo profondo e autorevole senza dire banalità. Ho avuto paura del giudizio su di me dei lettori di Tracce, che so essere molto più “grandi” di me nella fede. Poi, ho pensato che io mi fido delle persone e della storia del movimento, che ho incontrato da piccola (quasi trent’anni fa!) e che mi sono state vicine anche quando avevo deciso di allontanarmene. Avevo creduto di riuscire ad approfondire l’esperienza umana della vita, o dello studio e del lavoro, attraverso l’uso dell’etica e dell’intelligenza. Solo poco tempo fa, grazie agli amici incontrati nel movimento, ho riscoperto «la fede come un’autentica avventura della conoscenza… che dà nuovo senso alla vita» (e riprendo qui un passaggio della lettera). Non ero riuscita da sola a vivere questa dimensione. Inoltre penso che il Papa abbia fatto emergere questo carisma profondo, questa originalità che Comunione e Liberazione porta con sé. Grazie, anche da parte mia, per tutto questo, e per avermi accolta.
Marina Salamon, imprenditrice .

 

Nuovo Israele

È davvero meraviglioso! Sono poche le organizzazioni cattoliche, con cui io sia venuto in contatto, che mantengono, con tanta sincera chiarezza, il rigore della fede cattolica e, al tempo stesso, comprendono il moto intuitivo dello Spirito e le libertà dell’io, che sono implicite in questo cammino di unificazione con Dio, che voi chiamate Cristo. In un’epoca in cui l’io è essenziale – e spesso è eccessivamente accentuato in contrasto con l’eccessivo collettivismo del passato – Comunione e Liberazione rappresenta una voce autentica del cattolicesimo, da cui ogni religione può trarre insegnamento, particolarmente incisiva e significativa per la gioventù di oggi, vale a dire per il futuro. I miei omaggi a tutti voi e a monsignor Giussani. Voi per me siete il nuovo Israele, anche se a molti questa frase può suonare sgradevole. Con grande amore fraterno

Michael Shevack, rabbino di New York

 

Un metodo

Chi se lo sarebbe mai aspettato? Addirittura al tramonto del secolo di Prometeo l’intellighenzia cristiana si trova restaurata, restituita a se stessa in modo così semplice, così splendido! La lettera di riconoscimento del Papa al mezzo secolo di lavoro di monsignor Giussani ci fa vedere, più che l’accordo, l’incontro, l’avvenimento dell’incontro di due degli uomini più intelligenti dei nostri tempi, insieme al centro dello stesso prodigio: la restituzione delle facoltà di pensiero all’uomo comune… Più che mai, qui si avvera l’impronta del Santo Spirito, annunciata da Isaia! Perché mi sembra ovvio che la novità del genio di Giussani sta nel dono da lui fatto a tutti di un “metodo” per capire, cioè, per «vivere appieno, con intelligenza e creatività, l’esperienza cristiana» nelle stesse parole del Pontefice. E ha ragione il Santo Padre: don Giussani, uomo di cultura, ha trovato la chiave, la via, il modo di fare scoprire a ognuno che la pienezza della sua intelligenza è inseparabile dall’esperienza della fede vissuta. Lo sapevamo già da sant’Agostino, ma adesso abbiamo tutti quanti i mezzi per provarlo in ogni momento, in ogni operazione del pensiero impegnato: crediamo per capire… Il metodo di Descartes, spostando verso l’uomo l’asse dell’universo intelligibile, ha messo tre secoli per condurlo dall’orgoglio intellettuale alla disperazione, dalla nausea sartriana al nulla esistenziale… Scommetto che fra tre generazioni il metodo di don Giussani avrà spazzato via tutta quell’amarezza… Per aspettare Godot bisogna “diventare” Vladimir o Estragon; invece, per ritrovare Cristo basta seguire le tracce di don Gius… Alleluia!

Bruno Tolentino, poeta brasiliano

 

Frutto maturo

Una lettera di quasi due pagine, alla quale per di più il Papa ha annesso una tale importanza da farla recapitare personalmente a monsignor Giussani attraverso un suo diretto collaboratore, non è cosa di tutti i giorni. Non possiamo quindi fare a meno di vedere in questo gesto una corrispondenza eccezionale a un servizio ecclesiale altrettanto eccezionale.
Quanto al contenuto del messaggio, è motivo di gioia e di soddisfazione per ogni fedele cristiano constatare che il Papa parla di «frutto maturo» dopo vent’anni di vita di un movimento che, «in ascolto dei bisogni dell’uomo d’oggi» percorre e indica non “una” strada ma “la” strada; l’unica strada possibile: lo stupore gioioso davanti all’avvenimento dell’incontro personale con Cristo. E last but not least, per dirla all’inglese, credo valga la pena sottolineare particolarmente l’esortazione che il Papa rivolge al movimento nella parte finale del messaggio, a «cooperare con costante consapevolezza alla missione delle diocesi e delle parrocchie».

Miguel Ángel Velasco, direttore di Alfa y Omega, supplemento settimanale del quotidiano ABC (Spagna) 

Dalle omelie ad alcune messe celebrate per il ventennale della Fraternità

 

CARLO MARIA MARTINI, Arcivescovo di Milano

carlo-maria-martini-il-pastore-della-chiesa-ambrosiana-150x150Anzitutto mi unisco anch’io, come il Santo Padre nel suo messaggio di ieri a monsignor Giussani, mi unisco «alla gioia della Fraternità di Comunione e Liberazione nel XX del suo riconoscimento da parte del Pontificio Consiglio per i Laici» e insieme col Papa ringrazio – cito ancora dalla sua lettera – «Dio di ciò che Egli ha operato attraverso l’“iniziativa” di don Giussani e di quanti si sono uniti a lui nel corso degli anni», e conclude il Papa: «È bello e giusto riconoscere insieme la grandezza della misericordia di Dio!». È bello e giusto riconoscerlo qui insieme in tanti, tantissimi come siete voi questa sera, con tanti sacerdoti, con tanti fedeli. È bello riconoscerlo insieme nell’adorazione, nel canto, nel silenzio, nella contemplazione del Mistero di Dio.

(…) Questo è lo scopo di tutte le aggregazioni intermedie nell’unico Corpo del Signore: inserire vitalmente e profondamente ciascuno nell’unico popolo di Dio, e la qualità di questa inserzione è metro e misura di ogni aggregazione nella Chiesa.

(…) Questo diventa ancora più bello quando tutta una comunità, come la vostra grande Fraternità, si pone in ascolto della parola e si rende obbediente a essa. Allora è motivo di grande gioia ed è un grande aiuto il pensiero di essere noi tutti, voi tutti legati a Gesù e quindi legati fra noi e tra voi con legami più forti di quelli di sangue. Mi sarete fratello e madre.

(…) Questo vostro traguardo ventennale, per il quale rendiamo grazie a Dio, vi invita a guardare dunque ancora di più al di là di voi stessi, a guardare verso la Chiesa intera, in vista della quale vi sono stati dati questi doni di cui siamo giustamente grati a Dio. La celebrazione dei vent’anni è un’occasione per crescere nella maturità, per farsi cioè carico sempre di più non solo dello sviluppo delle opere da voi iniziate, ma per prendersi a cuore la Chiesa intera e le sue necessità.

Al termine della Messa, prima della benedizione finale

Vorrei esprimere ancora una volta la mia vivissima gratitudine per avermi invitato a presiedere questa celebrazione. L’ho fatto con tanta gioia e pensando con tanto amore a ciascuno di voi. Vi ringrazio vivamente per gli auguri che mi avete fatto per il mio 75° compleanno, che è una data significativa per tanti motivi, anche perché mi fa intravedere un poco quel sogno di Gerusalemme, finalmente in pace, al quale penso da tanto tempo. In ogni caso vorrei dire che sono molto vicino a ciascuno di voi.

Comprendo bene lo sforzo, il cammino, la fatica e la gioia di tutti voi preti, laici, soprattutto le famiglie e tutti coloro che servono il Regno di Dio. Vi voglio molto bene, molto più di quanto forse non immaginiate, perché vi sento profondamente nel mio cuore e nel cuore di Cristo. Desidero davvero che si attui per voi l’ideale di piena e perfetta santità e di presenza profonda nel cuore della Chiesa che si augura anche don Giussani con queste parole molto commoventi con le quali ci ha raggiunto in questo momento. Chiedo dunque al Signore di benedire di cuore ciascuno di voi e tutta la nostra Chiesa.

Giacomo Biffi, Arcivescovo di Bologna

Un inno di riconoscenza si eleva al Signore – e diventa in voi un canto di pura esultanza – per una “storia”: una storia che vi è stata donata e, attuandosi nella vostra quotidiana vicenda, si è fatta in voi principio di originale identità e di caratteristica appartenenza. Certo, è un’identità che non è altra cosa dall’identità cristiana, che radicalmente avete ricevuto nel Battesimo, ma nel movimento è divenuta in voi più marcata, più precisa, più incontestabile. Certo, è un’appartenenza che non è altra cosa dall’appartenenza alla santa Chiesa cattolica (rinsaldata ogni volta che partecipate al sacrificio del “Corpo dato” e del “Sangue versato”), ma ha ricevuto una consapevolezza nuova, più concretamente operosa, più feconda di bene.

La vostra storia parte da lontano; addirittura dagli anni dell’adolescenza di don Luigi Giussani.

(…) Anche per me è ragione di personale compiacimento il rievocare nella mia Cattedrale una storia che nella realtà delle cose ha avuto inizio in quel seminario di Venegono, il cui magistero di fede, di vita, di amore alla verità è stato anche per me determinante, e resta indimenticabile. L’amicizia che fin da quegli anni mi lega a don Giussani spiega e giustifica la mia odierna emozione e la letizia dell’ora che sto vivendo con voi. Il mio primo auspicio è che non vi stanchiate mai di fare appassionata memoria del Signore Gesù, nel quale ogni scintilla di umanità, ogni fremito, ogni aspirazione, ogni istante dell’esistere acquista senso e valore.

(…) In troppi ambienti della cristianità oggi il nome di Cristo è divenuto un’etichetta estrinseca e la sua menzione una scusa per parlare d’altro. Nella vostra Fraternità non sia mai così.

(…) Il mio secondo auspicio è che dalla comunione ecclesiale, concepita non come una mera denominazione ideologica ma come una realtà coinvolgente e saziante, abbiate a desumere ogni ispirazione e ogni regola di comportamento. Il Signore vi aiuti a saper cogliere – con gli occhi radioscopici della fede – la bellezza incantevole della Sposa del Re, al di là di tutte le chiacchiere teologiche e di tutti i travisamenti mondani. E sappiate sempre guardare a ogni uomo che incontrerete – anche il più lontano e diverso – come a un’icona viva di Cristo, che attende di essere liberata dalle scorie e restaurata nella sua somiglianza al divino Archetipo, dalla vostra invincibile capacità di amare.

Ennio Antonelli, Arcivescovo di Firenze

Siamo qui a lodare e ringraziare il Signore per il dono che ha fatto a tutta la Chiesa e, in particolare, anche alla nostra Chiesa fiorentina. Vorrei meditare con voi un tema che è centralissimo nell’esperienza di Comunione e Liberazione: il tema della presenza di Cristo. «La fede – sottolinea con forza don Giussani – è riconoscere l’avvenimento di una presenza. Dio reso presenza che continua nella storia, dentro la presenza di una comunione, di gente che si riconosce unita nel suo nome».

(…) Ora, è attraverso la Chiesa che Cristo continua a farsi presente nella storia. La Chiesa è il suo corpo, il suo prolungamento vivo, comunitario e, in certo modo, visibile, in virtù dello Spirito Santo.

(…) Il Signore Gesù mediante il suo Spirito guida e vivifica sempre la sua Chiesa «con diversi doni gerarchici e carismatici», conferendole due dimensioni, gerarchica e carismatica, ambedue “coessenziali” e “complementari” (Giovanni Paolo II, Pentecoste ’98). Voi siete di Comunione e Liberazione, e siete qui stasera, perché siete stati raggiunti dal Signore attraverso un carisma, il carisma donato a don Giussani. Siete stati investiti da una potenza generatrice di vita, che ha acceso in voi entusiasmo e passione per Cristo e per l’uomo.

Il Signore vi ha attirato in una bellissima esperienza educativa fino alla maturità della vostra fede e della vostra umanità. Vi ha resi suoi testimoni coraggiosi per portare la sua presenza in ogni ambiente e uomini liberi e responsabili, solidali, creativi e operosi per far crescere la società civile. La Fraternità di Comunione e Liberazione è “il vertice e il cuore” del movimento. Ne è l’attuazione più piena e sicura. Offre agli adulti, educati e cresciuti nel movimento, un aiuto per crescere ancora nella vita cristiana verso la santità, «perché ognuno cammini di fronte a Cristo», come si esprime don Giussani.

Nella Fraternità la preghiera, l’obbedienza e il contributo alle necessità comuni sono esperienza, particolarmente intensa e concreta, di carità reciproca e di fede nella presenza del Signore «dove due o tre sono riuniti nel suo nome». È l’esperienza della Fraternità e di tutto il movimento di Comunione e Liberazione che stasera ci porta a rinnovare la nostra commossa meraviglia e gratitudine per il Mistero “fatto uomo” nel grembo di Maria e reso presente nella Chiesa. «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore».

Dionigi Tettamanzi, Arcivescovo di Genova

Vogliamo rendere grazie a Dio perché noi siamo stati chiamati a vivere la vita cristiana con il carisma e la pedagogia propri del movimento di don Giussani.

(…) Cristo non è semplice nome, non è personaggio del passato: è quanto di più concreto, di più reale e vitale esiste; è Persona viva in possesso di una “singolarità” unica e irriducibile.

(…) Su di lui soltanto si fonda e si alimenta quella “identità cristiana”, che è uno dei doni più preziosi che ci è stato dato con il Battesimo e una delle sottolineature più forti e qualificanti di don Giussani, vorrei dire della scuola teologica del seminario milanese di Venegono, dove il giovane prete ha insegnato e dove io stesso ho avuto la grazia di studiare e di insegnare Teologia per tanti anni (tra parentesi dico: non ho mai avuto don Giussani come docente; solo lo vedevo passare nei corridoi con passo deciso o uscire dall’aula scolastica quasi sempre proseguendo la lezione, immancabilmente pronto ad asserire, discutere e spiegare con ardore i più diversi problemi a partire e in riferimento alla “pretesa cristiana”).

Ora il riferimento a Cristo non è conoscenza astratta, anche se paludata di scienza storica: è “conoscenza” nel ricchissimo contenuto che riceve dalla Bibbia, e dunque è comunione di amore e di affidamento pieno e di dipendenza liberante; è esperienza umana e ragionevole che investe e requisisce la totalità della persona e la sua relazionalità, e quindi tutta la trama dei rapporti quotidiani nel tessuto sociale; è stupore ed esultanza spirituale che non riescono mai a spegnersi nel sentirsi immensamente amati e salvati, e insieme consegnati a una missione nella Chiesa e nella società.

(…) Il vostro carisma e la vostra pedagogia sono un bene ecclesiale: un bene vostro, certo, ma anche di tutta la Chiesa. Dovete allora nel profondo offrirlo anche agli altri. Così come, nell’economia ecclesiale della reciprocità, dovete stimare e accogliere gli altri carismi, che provengono dell’unico e medesimo Spirito e che sono alla base delle varie aggregazioni ecclesiali.

(…) Sì, per amore della Chiesa, per l’innamoramento che ci lega a Cristo. Riascoltiamo una parola di don Giussani, che prendo dal libro All’origine della pretesa cristiana: «Riconoscere e seguire Cristo (fede) genera un atteggiamento esistenziale caratteristico per cui l’uomo è un camminatore eretto e infaticabile verso una meta non ancora raggiunta, certo del futuro perché tutto poggia sulla Sua presenza (speranza); nell’abbandono e nell’adesione a Gesù Cristo fiorisce un’affezione nuova a tutto (carità), che genera un’esperienza di pace, l’esperienza fondamentale dell’uomo in cammino».

Severino Poletto, Arcivescovo di Torino

Impossibilitato a partecipare alla messa (che è stata celebrata dal vicario generale della diocesi di Torino, monsignor Mino Lanzetti), il cardinale ha inviato questa lettera:

La vostra è un’associazione ecclesiale di cui mi piace evidenziare, in felice sintonia con il nostro Piano Pastorale diocesano, «l’impegno missionario come educazione al senso della cattolicità della Chiesa e come scelta vocazionale» (art. 4 dello Statuto), tenuto conto del dichiarato impegno a essere «strumenti di ausilio e di completamento nella vita diocesana e parrocchiale, in comunione col Vescovo e in dialogo e collaborazione con altre associazioni e movimenti ecclesiali» (ivi).

I Vescovi italiani, negli Orientamenti pastorali per questo decennio, hanno voluto significativamente intitolare il cammino delle comunità cristiane “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia” e anch’io, nella mia Lettera pastorale “Costruire insieme” ho intenzionalmente messo alla base di ogni nostra riflessione e attività il fatto che «dov’è c’è la Chiesa, ivi è la missione», per attuare quella rinnovata «prima evangelizzazione» nella quale ognuno ha un suo dono da portare.

La vostra celebrazione (…) sia occasione di più generoso e intenso slancio missionario fondato sulla preghiera e su una santità autenticamente “moderna”, capace cioè di consacrare l’ordinario svolgersi della vita, usando tutti i mezzi che il nostro tempo mette a disposizione dei credenti per ricomporre l’ordine dei valori primari. 

Carlo Caffarra, Arcivescovo di Ferrara-Comacchio

«Voi siete il sale della terra; voi siete la luce del mondo». Ciò che colpisce immediatamente in questa “definizione” che il Signore dà del suo discepolo è che questi è mandato alla «terra-mondo»: a tutta l’umanità, a tutta la realtà. Non sale di una regione della terra; non luce di una parte del mondo. Nessuno e nulla è estraneo al sale della parola di Cristo di cui il discepolo è testimone.

(…) Questa consapevolezza di portare il carico dell’umanità intera della propria persona e di ogni persona è possibile solo se il cristiano custodisce intatta la propria identità.

(…) La scelta di Cristo genera nell’uomo una nuova identità e una consapevolezza nuova sorgente di giudizio e di opere vere. (…) Quando la fede non genera cultura, un modo cioè specifico di porsi dentro all’esistenza, è già luce posta sotto il moggio.

(…) Questa celebrazione eucaristica vuole essere ringraziamento al Padre per il dono fatto alla Chiesa del carisma di Comunione e Liberazione. Ringraziamento che è per me fonte particolare di emozione e di gioia per l’amicizia profonda che mi lega al suo fondatore. Carissimi, penso che in questa occasione il Signore non poteva farci dono di una parola più adeguata per una profonda comprensione del vostro carisma. Esso infatti si qualifica come presenza dentro alla vita umana di un avvenimento: l’avvenimento di un incontro con Cristo, che afferma e realizza la persona umana secondo tutte le sue capacità, contro tutti i poteri che hanno cercato di diminuirne la misura. Siete luce, siete sale perché testimoniate che questo avvenimento è accaduto, accade, e quindi è possibile. Siate fedeli al dono che vi è stato fatto, dentro alla Chiesa umilmente sempre stupiti della bellezza della Sposa di Cristo.

Alessandro Maggiolini, Vescovo di Como

Credo che la Chiesa da voi aspetti soprattutto due cose. La prima è che abbiate a richiamare il fatto che il cristianesimo non è semplicemente una dottrina, non è semplicemente una morale, ma coincide con il Signore Gesù, Verbo Incarnato morto e risorto,

(…) questo vuol dire che non si dà nulla al di fuori del Signore Gesù, cioè dovessimo togliere, scardinare Cristo dal piano di salvezza, non tornerebbero nemmeno le tabelline, non tornerebbe nemmeno la tavola pitagorica, in fondo non ci sarebbe nulla; questo vuol dire che non c’è lembo di bellezza che non sia in Cristo. La seconda cosa: vi chiedo di ricordare alla Chiesa di oggi che questo deve diventare concretezza nella vita di ciascuno, nella famiglia, nella comunità,

(…) la Chiesa è spazio in cui il Signore Gesù vibra, pulsa, è centro di attrazione, è centro di irradiazione. Qualche volta lo dico, e mi perdonate se torno sui concetti: se uno è innamorato o se uno ha il mal di denti non riesce a occultarlo, in fondo lo si vede. Ecco, quando dovessimo parlare di Cristo alla lontana e non dovessimo renderlo visibile attraverso dei volti umani, attraverso dei gesti umani, faremmo del vaniloquio religioso e ancor più del vaniloquio missionario, terribile. Guardate che ormai vi si osserva come il domani della Chiesa, anche nelle diocesi in cui inizialmente avete incontrato delle difficoltà.

Antonio María Rouco Varela, Arcivescovo di Madrid

Il ventennale del riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e Liberazione è una data nella quale il Signore ci invita a rendere grazie per questo avvenimento, che ha significato per la Fraternità la sua entrata visibile e universale nella Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. La Chiesa visibile in tutto il mondo ha accolto e posto in evidenza il valore ecclesiale della Fraternità di Cl attraverso il gesto di Giovanni Paolo II. È la garanzia che vivete nella Chiesa.

(…) Nulla vi è di più cattolico di quanti si dispongono a vivere il cammino della propria vita come cammino verso la santità. Appartenere alla Chiesa significa (…) essere la luce, essere il sale della terra. Ciò non accade in virtù di alcun potere, di alcuna sapienza di uomini, di alcuna forza che nasca dall’uomo che si crede capace di dominare il mondo e se stesso, e a volte perfino tentato di impadronirsi di Dio o di fabbricarlo, modellarlo, ridurlo a una propria idea o esperienza; mentre è nella Chiesa che riceve il Verbo fatto carne, lo annuncia con tremore – come fa Paolo – e con la forza dello Spirito Santo, con la Grazia, i doni e i carismi dello Spirito Santo, il cui fine ultimo è l’annuncio della sapienza di Dio.

(…) Avete compiuto il cammino della vostra vita cristiana attraverso la Fraternità di Comunione e Liberazione perché siete consapevoli che in questo modo vivete la vostra vocazione di membri e figli della Chiesa, o per usare un termine di san Paolo, di membra del Corpo di Cristo; perché siete consapevoli che il Signore vi chiede che lo facciate in questo modo, affinché nelle vostre vite, attraverso le vostre vite, si manifesti la luce, la Chiesa sia vista come una città sopra il monte, le buone opere brillino fra gli uomini e nella società, la più vicina e la più lontana.

Ancora, siete consapevoli che in questo modo voi siete fedeli alla Grazia e al dono dello Spirito Santo, ciascuno personalmente e insieme nella vostra comunione, secondo la forma e la modalità con cui la Chiesa vi ha riconosciuto e con la quale, seguendo la traccia del fondatore e iniziatore di Cl, monsignor Luigi Giussani, lo avete imitato. E non per un caso, ma perché la storia, le circostanze della storia del mondo e della Chiesa lo chiedevano.

Javier Martínez Fernández , Vescovo di Córdoba

L’aspetto forse più illuminante per me dell’incontro con Comunione e Liberazione è stato il comprendere, attraverso quanti erano stati educati da monsignor Giussani, che il disegno di Dio coincide con la pienezza della vita umana; che quello che Dio desidera per gli uomini non è qualcosa di “accanto” alla vita: Dio desidera che l’uomo sia pienamente se stesso, che raggiunga la pienezza per la quale è stato creato. Il disegno di Dio, e così la Sua opera, e l’opera della Chiesa, è che gli uomini vivano. La gloria di Dio è la felicità dell’uomo. Crescere in questa certezza mi ha molto aiutato a comprendere meglio la vita e la morale cristiana, e la missione della Chiesa. Sì, la vita cristiana coincide con la vita umana nella sua verità.

(…) Il fatto è che non possiamo realizzare questo da noi stessi. Solo quando l’uomo si incontra con l’amore infinito di Dio, rivelato in Cristo e reso per noi tangibile nella comunione della Chiesa, scopre che quello è ciò che ha desiderato tutta la vita, che quello è ciò che fa sì che la vita abbia un senso. Cristo non è venuto perché noi compiamo determinati gesti di culto, o per imporre determinate regole alla nostra vita; Cristo è venuto perché (…) ciascuno possa riconoscere che la vita ha un significato positivo. Questo è forse l’aspetto più decisivo che ho compreso e vissuto nel condividere questa esperienza ecclesiale. Se Cristo è venuto “perché l’uomo viva”, il centro della Chiesa, che prosegue nella storia l’incarnazione di Cristo, sta al suo confine, là dove essa si incontra con il mondo.

(…) Perché lì sta accadendo la redenzione; Cristo è venuto perché questo accada, e la Chiesa, la Scrittura, i Sacramenti, esistono solo perché questo accada.

(…) Quindi la missione della Chiesa avviene nei luoghi di lavoro, nelle singole abitazioni, con i vicini, in negozio, al bar, o a una festa di compleanno. Lì è dove il cristiano può far vedere Cristo, e il suo significato per la vita, nell’unico modo in cui Cristo può essere mostrato, attraverso la testimonianza di uomini e donne che, vivendo gli stessi problemi e le stesse fragilità di tutti gli altri uomini, vivono la vita con gratitudine e speranza.

È Lui che prende una cosa che è niente e la salva – Rose Busingye

 Don Giussani e Rose Busingye

A quattro anni dalla morte di don Luigi Giussani

 (15 ottobre 1922 – 22 febbraio 2005)

 

 di Rose Busingye
 

      La prima volta che ho visto di persona don Giussani era l’estate del 1990. Ero salita fino a Corvara, ero entrata nell’albergo, e lì c’era un uomo che stava pregando. Era lui, ma io non lo conoscevo ancora. Siamo entrati insieme nello stesso ascensore. Lui si è girato e mi ha detto: ma tu sei Rose! Ci siamo abbracciati forte e a lungo, e l’ascensore continuava a aprirsi e a chiudersi e nessuno spingeva il bottone per partire.

      A quel tempo avevo letto un articolo su 30Giorni in cui don Giussani parlava dei Memores Domini. Diceva che Cristo poteva abbracciare tutti i momenti e tutti gli aspetti della vita. Allora – avevo pensato io – anche il mio niente, la mia incapacità, Gesù poteva prenderla e abbracciarla così come era, se voleva. Mi avevano avvertito che per entrare nei Memores Domini avrei dovuto fare dieci anni di noviziato.

«Gesù mio, ma quanto tempo ci vuole per stare con Te», pensavo. Quando don Gius mi ha detto che sarei potuta entrare subito, ho avuto paura. «Ma sai quanti anni ho? Non so neanche cosa siano questi Memores», gli ho detto.

«Ma tu vuoi bene a Gesù?», mi ha chiesto Giussani. «Beh, quello sì», ho risposto io. «E vuoi dare la vita?». «Eh, la vita… Io non ho niente di importante nella vita da dare a Gesù», ho risposto io, «ma se Lui vuole, voglio che Lui si prenda questo niente».

A quel punto Giussani si è alzato, quasi gridando: «Questa cosa qui, vai fuori e dilla a tutti, a tutti! Perché tutti pensano di avere qualcosa di importante da dare a Gesù, e così per tutta la vita è come se aspettassero la ricompensa. E invece è Lui che prende una cosa che è niente, e la salva».

      Così era don Gius. Io non bevo vino, e lui, ogni volta: «Bevi il vino, senti come è buono! Ma lo sai come lo fanno, il vino?». Ti spiegava tutto sulle viti, la vendemmia, le botti, le cantine, e ti trovavi a bere il vino… Era così bello mangiare così, che mangiavi e bevevi anche le cose mai assaggiate.

      Don Gius ti faceva gustare tutto. E non ti parlava di Dio. Non c’era bisogno di parlare di Dio. Diceva sempre che un bambino non fa fatica a descrivere come è il papà: sa come fa le boccacce, come fa i muscoli… Anzi, nemmeno lo descrive. Semplicemente, uno vede il bambino e dice: è proprio figlio di suo padre! Ha un modo di fare che assomiglia a suo padre. Giussani diceva che noi non siamo immersi in Cristo, e per questo moltiplichiamo parole su Cristo, fino alla noia. Invece chi è immerso in Cristo è cambiato. Uno vede come tocca le cose, come mangia, come beve, e pensa: ma come mangia! Avrei voglia di mangiare come lui. Di fare le cose come le fa lui.

      Una volta sono andata da lui e mi ha detto una cosa sulla Madonna. Che è grazie alla Madonna che capiamo di più come opera l’umanità di Cristo, che guardava magari un mendicante, o una prostituta, e chiedeva che il suo destino si compisse. La Madonna ha fatto quello che Dio le aveva chiesto. E basta. Non è andata in giro a far prediche. Noi non avremmo fatto così. Se a uno di noi fosse capitato ciò che è capitato a lei, figùrati, saremmo andati in giro sventolando la bandiera, a dire a tutti: l’angelo di Dio è venuto a parlarmi! Don Gius mi ha detto: «Guarda, se davvero ci tieni che le persone si salvino, fai un passo indietro e chiedi che accada. Perché alla fine puoi solo chiedere a chi può salvare te, se vuole, che salvi anche chi ti sta a cuore».

      Comunque, quando incontravi don Giussani, la prima cosa di cui ti accorgevi era che era bello stare con lui. Anche se non capivi niente, questo lo capivi: ci saresti tornato volentieri, domani, e anche dopodomani. Quando lo portavano a fare il riposino, lui ripeteva: «Non andar via, aspettami, ci rivediamo dopo». Io e lui non ci siamo mai salutati. Finiva sempre così: ci vediamo dopo. Una volta mi ha telefonato. «Non vieni in Italia?». «Gius, sto qua, a Kampala, non ho in mente di venire». E lui: «Dai, vieni! Vieni!». Io prendo l’aereo, e passo tutto il viaggio a chiedermi: chissà cosa deve dirmi. Arrivo lì, saluti, e lui: «Niente, volevo vederti… ».

      Per le mie amiche del Meeting Point, è come un padre. Hanno chiamato i loro figli Luigi, non sanno che significa quel nome. Non lo fanno perché è amico mio: quello che è mio è loro, perciò don Gius è diventato il loro grande amico. La sua faccia, adesso, la metterebbero su tutti gli alberi dell’Africa.

      Mi manca la sua fisicità. Però adesso vede di cosa abbiamo bisogno, prima ancora che noi ce ne accorgiamo.

LA FANTASIA DELLO SPIRITO E LA LIBERTA’ DEL CRISTIANO – Renato Farina intervista Mons. Giussani

Posted on Gennaio 13th, 2009 di Angelo | Edit

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La fantasia dello Spirito e la libertà del cristiano   

L’Esortazione apostolica post-sinodale “Christifideles laici”

 

Commento di mons. Luigi Giussani.

 

Intervista a cura di Renato Farina

 

«È una cosa grande un movimento. Anche per noi è difficile capire cosa ci è stato dato».

Don GiussaniMonsignor Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione, è ogni volta stupito quando deve por mente a quella faccenda assolutamente straordinaria che è un dono di Dio, uno di quei luoghi «dove il mistero si comunica, la potenza di Cristo si trasmette nella fragilità e nella debolezza estrema».

Nel suo piccolo studio di Milano stringe un libretto. È l’«Esortazione apostolica post-sinodale». Una brutta espressione per dire il testo di Giovanni Paolo II che offre alla Chiesa i frutti maturati nel Sinodo dei vescovi sui laici. Si intitola Christifideles laici, i fedeli laici.

Don Giussani, lei definì il Sinodo una “festa dello Spirito». Che cosa ritrova oggi in queste pagine di quell’avvenimento che suscitò in lei un entusiasmo così pieno?

Ritrovo tutto ciò che motivò il mio entusiasmo. Il messaggio cioè che la centralità di Cristo fluisce nel mondo attraverso la Chiesa e le sue istituzioni, e queste traggono vita grazie al dono dello Spirito ai singoli fedeli, dono che fiorisce normalmente in amicizie: raggruppamenti, associazioni e movimenti.

Questo è dunque per lei il cuore del documento: «la centralità di Cristo che fluisce». Di solito nel guardare questo testo il tragitto è diverso: l’ottica è rivendicazionista.

Una posizione rivendicazionista è resa impossibile da questa Esortazione apostolica. Essa valorizza tutti gli aspetti e le esigenze di una vita che voglia essere cristiana. Corrisponde troppo, per lasciar spazio alle rivendicazioni. Non ritaglia uno spazio per questo o quell’altro movimento. Ma situa i movimenti al centro stesso della vita della Chiesa. Li fa coincidere con il vivo impeto della Chiesa in cui opera lo Spirito di Cristo per la salvezza degli uomini.

E questo «vivo impeto» come lo descriverebbe?

Il documento segna – a mio avviso – l’alfa e l’omega della questione. L’alfa è il dono dello Spirito, e del Mistero di Cristo e della Chiesa attraverso il Battesimo. Qui sgorga la pienezza della personalità nella sua interezza, nella sua irriducibilità. Ed essa è per l’unico scopo: la missione, l’omega. Che conoscano te, solo vero Dio, e colui che hai mandato, Cristo. Questo dinamismo è illuminato da un passo del testo papale: «L’impegno di una presenza nella società umana che, alla luce della dottrina sociale della Chiesa, si ponga a servizio della dignità integrale dell’uomo» (n. 30). È uno dei «criteri di ecclesialità».

Per che cosa esiste un movimento se non per giungere fino a questo punto? Per corrispondere così in modo integrale e sovrabbondante alle esigenze della personalità umana.

Il suo discorso sembra così strano. Sempre più gli uomini d’oggi vedono la Chiesa come istituzione più o meno in crisi che tutela certi principi morali. Non il tramite di una risposta al problema umano. Come riguadagnare questa coscienza?

Non c’è nessun’altra via che aiutare il chiamato, ogni Christifideles, a riprendere coscienza di ciò che è il cristiano: vale a dire un protagonista nuovo nella storia. Un uomo che vede, progetta e si dedica per amore. E lo fa per l’obbedienza a una realtà presente, in cui è un’altra vita, quella di Cristo, a cui il cristiano tutto offre ed in cui tutto è destinato a ricapitolarsi. E questa ricapitolazione incomincia a manifestarsi nella via del fedele che a questa coscienza è stato richiamato. Siccome per il cristiano la solitudine è impossibile, questa ripresa di coscienza più facilmente sarà aiutata dal crescere di un’organicità sociale, innanzi tutto ecclesiale.

Un’«organicità sociale». A causa di questo palesarsi sociale del cristianesimo si accentuano le ostilità. Perché?

È proprio così. Quando la comunità ecclesiale si pone come corpo organico, luogo dove Egli è qui, dove Lui è presente, Lui, il Dio diventato uomo, l’Avvenimento assolutamente sproporzionato a tutti i progetti umani.

Quando accade questo, l’ostilità è l’ultima espressione della pretesa autonoma che ha l’uomo. Ed accade nonostante che questo Avvenimento illumini e valorizzi ogni progetto. È l’orgoglio, dunque. Ma può anche essere l’esito di una grande malinconia, la tristezza di un’umanità che non ha incontrato la presenza del Maestro.

 Forse a volte anche là dove le istituzioni esistono proprio in suo nome. Anche là molti non l’hanno trovato. L’ostilità è la reazione di gente abbandonata. È come un gregge senza pastore. Quando il Papa dice «la condizione è che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali» (n. 34), credo che parli di questo. Incontrando la Chiesa deve essere possibile fare l’incontro con Cristo.

Se la risposta è il «rifarsi del tessuto cristiano», come ripararlo?

Con una disponibilità totale al Vangelo. Quella che fece dire a Gesù: «La tua fede, ti ha salvato». Un’invocazione appassionata e una disponibilità totale, continuamente rinnovata al dono dello Spirito di Cristo. Perché è Grazia, non può trattarsi di progetti fatti dall’uomo. È un’immaginazione cui solo lo Spirito dà origine e forma.

Il Papa sottolinea la necessità di rievangelizzare e demolisce un certo delicato ottimismo diffuso anche ecclesiasticamente sulla salute spirituale dell’Occidente. Il Papa dice: da noi si vive «come se Dio non esistesse».

La posizione del Papa non mi pare negativa dinanzi ad una certa ripresa di sensibilità per i valori spirituali. Ma non vuole che sia illusoria. Non c’è nessuna scaltrezza di progettualità dettata da buona volontà che possa compiere il bene così come l’uomo ne sente il bisogno, perché esso ha una dimensione infinita. Solo lo Spirito lo può.

Due anni fa in un’intervista a “30 Giorni”, parlò di un potere «più radicalmente ostile» al cristianesimo che non               l’ «impero romano dei primi secoli». Questo ha meritato a lei le critiche della “Voce repubblicana”. Ridirebbe oggi il medesimo giudizio?

Sì. Lo riconfermo con la volontà di corrispondere umilmente alla passione con cui il Papa continua a ripetere questa valutazione. Del resto il tipo di mentalità che propagano i mass media e i contenuti sistematici dell’educazione scolastica non possono che indurmi a confermare quel giudizio. Si arriva fino a tali culmini di permissività, si giunge fino a giustificare il delitto aperto e conclamato, compreso l’aborto.

Non è un giudizio cattivo sul mondo, ma di allarme appassionato perché il mondo sia felice in modo più sicuro. C’è amarezza in me. Vorrebbe essere quella che era negli occhi di Cristo quando, nel vangelo di Marco, dal lago vide la folla ed «ebbe compassione di loro».

L’aspetto più acuto di quest’amarezza è quando si vedono persone – che hanno avuto dalla vita la facilità di poter accostare il contenuto cristiano, di poterlo studiare, viverci anche egregiamente dal punto di vista economico – ergersi a confondere ulteriormente, con presunzione ribelle di stampo illuministico, il gregge dei fedeli. Penso alla contestazione dei teologi del Nord Europa.

Questo documento papale è destinato a togliere spazio alla confusione.

Certo. E una delle parti più chiare credo sia quella sui «criteri di ecclesialità».

Vorrei sottolineare la prospettiva dei carismi concepiti come sorgente di vita dell’istituzione (parrocchie, diocesi) e dall’altra parte l’esuberanza che i doni dello Spirito sempre portano, e la gioia creativa che sempre innestano, sentite nella prospettiva del sacrificio e di una cordiale dipendenza dai vescovi.

Sì, i vescovi: «principio visibile e fondamento della unità della Chiesa», come il documento cita dalla Lumen Gentium. È qui centrato il mistero del dono di sé che il Padre fa attraverso lo Spirito di Cristo all’uomo, come fonte di gioia, di creatività, di luce; e di sacrificio, di obbedienza.

Oggi i rapporti tra istituzioni e movimenti come sono?

Per la lineare e persuasiva insistenza dei documenti del Magistero vedo che in molte Chiese si sta camminando con una serenità senza paragoni con anni trascorsi.

È un po’ paradossale che lei dica questo, dopo che negli ultimi mesi c’è stato un battage su presunte difficoltà tra l’episcopato italiano e il suo movimento.

Chi ha sensibilità al gioco politico e conosce i suoi mezzi di propaganda può spiegare molte cose.

A proposito: si parla molto del dovere dei laici cristiani di impegnarsi in politica. Nonostante il subbuglio di quest’ultimo anno, non si sente di frenare gli adulti di CL in questo campo?

Mi sento soltanto di richiamarli continuamente al fatto che lo scopo della vita è la santità; che impegnarsi con gli altri è un aspetto della santità; e che l’alveo della concezione deve sempre guardare e riferirsi al Magistero.

Come vanno i rapporti con gli altri movimenti ed associazioni?

L’apertura a una conoscenza e a una collaborazione diventa sempre più, come dire?, ovvia.

Nella vita di CL lei sta accentuando l’importanza dei segni di carità come strumento per comunicare Cristo. È un riflusso rispetto all’impegno politico?

La carità è il contenuto di ogni autentico impegno politico. Che cos’è la politica se non l’aiuto alla condivisione e alla soddisfazione degli umani bisogni? L’azione di carità è un atto politico, nel senso nobile del termine. Non ci sono per nulla affatto due classi di impegno: uno caritativo l’altro politico. È stato papa Montini, mi pare, a parlare della «politica come forma suprema di carità».

Da molte parti, anche sui giornali ecclesiali, si fa rilevare la compresenza di due anime nel movimento di CL. Un’anima milanese ed una romana.

Dico, con convinzione ammirata, che tra noi gli uni sono edificazione degli altri. È un’emulazione grande nella missione. La Compagnia delle opere è a Milano, e ad essa appartengono anche tutte le grandi opere che ci sono a Roma. Viviamo, per grazia di Dio, come una cosa sola.

Come desidera che il movimento di CL intenda e faccia suo questo documento del Papa?


Intervista a cura di RENATO FARINA


© Il Sabato, 11/2/1989

Luigi Giussani, Renato Farina 11-02-1989 (Su SensoReligioso.it dal 23-06-2005) Il Sabato, 11/2/1989

SAN JOSEMARIA ESCRIVA’ – Govanni Paolo II

Posted on Gennaio 28th, 2009 di Angelo |

LITTERAE DECRETALES


Beato Iosephmariae Escrivá Sanctorum honores decernunturIOANNES PAULUS PP II
Servus Servorum Dei 

ad perpetuam rei memoriam

Domine, ut videam! (cf Lc 18, 41), Domina, ut sit!, Omnes cum Petro ad Iesum per Mariam!, Regnare Christum volumus! (cf 1 Cor 15, 25), Deo omnis gloria! (cf Canone Romano, dossologia).

In queste giaculatorie si potrebbe racchiudere l’itinerario biografico del Beato Josemaría Escrivá. Le prime due prese a recitarle appena sedicenne, quando cominciò a sperimentare i presagi della chiamata del Signore. Esse esprimevano il desiderio più profondo del suo cuore: vedere quello che Dio gli chiedeva, per cercare di vivere sempre in amoroso compimento della Sua volontà. La terza compare con frequenza negli scritti di quando era ancora agli esordi del sacerdozio e mostra come l’ardente zelo per le anime confluisse in lui con una ferma volontà di fedeltà alla Chiesa ed una profonda devozione alla Madonna. Regnare Christum volumus!: queste parole riassumono il suo costante anelito di pastore: diffondere fra tutti gli uomini e le donne la chiamata a partecipare, in Cristo, alla dignità dei figli di Dio. Figli, che vivono solo per servirLo: Deo omnis gloria!.

E tutto questo, nel contesto delle normali occupazioni della giornata. Egli potrebbe a ragione essere definito come “il santo della vita ordinaria”. Infatti, la sua vita e il suo messaggio hanno insegnato a una inmensa moltitudine di fedeli — soprattutto laici immersi nelle più svariate professioni — a trasformare in preghiera, in servizio al prossimo, in via di santità, le attività più comuni.

Il Beato Josemaría Escrivá de Balaguer nacque a Barbastro (Spagna) il 9 gennaio 1902. Divenne sacerdote il 28 marzo 1925. Il 2 ottobre 1928 il Signore gli fece vedere la missione alla quale lo aveva destinato e, quel giorno, egli fondò l’Opus Dei. Si apriva così nella Chiesa un nuovo cammino mirante a diffondere fra gli uomini e le donne — senza distinzione di razza, di ceto o di cultura — la consapevolezza della vocazione universale alla pienezza della carità e all’apostolato, ciascuno nel posto che occupa nel mondo. Nelle circostanze della vita ordinaria, infatti, si trova il luogo nel quale il Signore ci chiama e la materia in cui si articola la nostra risposta d’amore. Nel messaggio di Josemaría Escrivá, dunque, il lavoro, compiuto con il sostegno vivificante della grazia, rivela una fecondità inedita: esso diventa strumento per innalzare la Croce al vertice di tutte le attività umane, mezzo per trasformare il mondo dal di dentro secondo lo Spirito di Cristo e riconciliarlo con Dio.

L’opera svolta da Josemaría Escrivá in favore dei sacerdoti, tanto personalmente come attraverso la Società Sacerdotale della Santa Croce, cui dette vita il 14 febbraio 1943, fa di lui un fulgido esempio di zelo per la santità e la fraternità del clero.

Nel 1946 si trasferì a Roma. Qui, sospinto da un infaticabile anelito apostolico, si adoperò per estendere il messaggio cristiano nei cinque continenti, sempre in piena adesione al Romano Pontefice ed al servizio delle Chiese locali. A lui si deve la nascita di una vasta gamma di iniziative di promozione umana, dotate di ampia proiezione sociale e di forte impronta evangelizzatrice.

Da Roma il Beato Josemaría intraprese numerosi viaggi, che lo portarono a percorrere l’Europa e l’America in un’instancabile catechesi. La sua fama di santità attirava ovunque moltitudini di anime ad ascoltarlo.

Il 26 giugno 1975, a mezzogiorno, a Roma, un attacco cardiaco troncò la sua esistenza terrena. Il suo corpo è custodito nella chiesa prelatizia dell’Opus Dei, intitolata a Santa Maria della Pace, ed è meta di raccoglimento e di preghiera per fedeli provenienti da tutto il mondo.

Dopo la morte, la sua fama di santità non ha fatto che incrementarsi. All’intercessione del Beato Josemaría vengono attribuite molte guarigioni scientificamente inspiegabili e centinaia di migliaia di altri favori spirituali e materiali.

Il 17 maggio 1992 Noi stessi celebrammo la solenne beatificazione del Fondatore dell’Opus Dei in Piazza San Pietro.

Da allora si è progressivamente esteso il numero dei favori attribuito dai fedeli all’intercessione del Beato Josemaría Escrivá; fra queste grazie, gli Attori della Causa hanno scelto una sanazione asserita miracolosa e l’hanno presentata allo studio della Sede Apostolica allo scopo di consentire così che il Beato venisse annoverato nel numero dei Santi.

Nel 1994 su detta sanazione fu istruito un processo presso la Curia Arcivescovile di Badajoz; in seguito vennero espletate con esito positivo le rituali procedure presso la Congregazione delle Cause dei Santi ed il 20 dicembre 2001 fu promulgato alla Nostra presenza il relativo decreto super miro. Quindi, ricevuti i pareri favorevoli dei Padri Cardinali e Vescovi da Noi convocati in Concistoro il 26 febbraio 2002, stabilimmo che il rito della Canonizzazione avesse luogo il 6 ottobre successivo.

Pertanto, oggi, in Piazza San Pietro, nel corso della Santa Messa, di fronte ad un’immensa folla di fedeli, abbiamo pronunciato la seguente formula: In onore della Santissima Trinità, per l’esaltazione della fede cattolica e l’incremento della vita cristiana, con l’autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei Santi Apostoli Pietro e Paolo e Nostra, dopo aver lungamente riflettuto, invocato più volte l’aiuto divino e ascoltato il parere di molti Nostri Fratelli nell’Episcopato, dichiariamo e definiamo Santo il Beato Josemaría Escrivá de Balaguer e lo iscriviamo nell’Albo dei Santi e stabiliamo che in tutta la Chiesa egli sia devotamente onorato tra i Santi. Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. E ciò che abbiamo dichiarato vogliamo che abbia validità ora ed in futuro, senza alcuna deroga o eccezione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 6 ottobre 2002, ventiquattresimo anno del Nostro Pontificato.

Giovanni Paolo

 

Omelia del Papa Giovanni Paolo II

nel giorno della beatificazione, 17 maggio 1992

Vídeo “I giorni della Beatificazione”

 

 

1. “È necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio” (At 14, 22). 

Ai due discepoli, lungo la strada per Emmaus, Gesù disse: “Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24, 26).

La prima lettura, inoltre, ci ha fatto ascoltare gli Apostoli – Paolo e Barnaba – che “rianimano ed esortano i discepoli a restare saldi nella fede” (cfr At 14,22). Essi annunziano la stessa verità di cui aveva parlato Cristo sulla strada verso Emmaus; una verità confermata dalla sua vita e dalla sua morte: “È necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio”.

I discepoli di Cristo crocefisso e risorto – attraverso il succedersi delle generazioni nel corso dei secoli sceglie la stessa via che Egli aveva loro indicato. “Vi ho dato infatti l’esempio” (Gv 13, 15).

2. Oggi ci è offerta l’occasione di fissare ancora una volta il nostro sguardo su questa via salvifica – la via verso la santità – soffermandoci sulle figure di due persone, che d’ora in poi chiameremo “beate”: Josemaría Escrivá de Balaguer, sacerdote, fondatore dell’Opus Dei, e Giuseppina Bakhita, Figlia della Carità, canossiana.

La Chiesa desidera servire e professare tutta la verità su Cristo, desidera essere dispensatrice di tutto il mistero del suo Redentore. Se la via verso il Regno di Dio passa attraverso molte tribolazioni, allora alla sua fine si trova anche la partecipazione alla gloria – quella gloria che Cristo ci ha rivelato nella sua Risurrezione.

La misura di tale gloria è data dalla Nuova Gerusalemme, annunziata dalle parole ispirate dell’Apocalisse di Giovanni: “Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno il suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro” (Ap 21,3).

“Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21,5) – dice il Signore glorioso. La strada verso quella definitiva “novità” di ogni cosa passa, qui sulla terra, attraverso il “comandamento nuovo”: “che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato” (Gv 13,34).

Tale comandamento fu al centro della vita di due esemplari figli della Chiesa che oggi, nella letizia pasquale, sono proclamati beati.

3. Josemaría Escrivá de Balaguer, nato in seno a una famiglia profondamente cristiana, già nell’adolescenza percepì la chiamata di Dio a una vita di maggior donazione. Pochi anni dopo essere stato ordinato sacerdote diede inizio alla missione fondazionale alla quale avrebbe dedicato 47 anni di amorosa e infaticabile sollecitudine in favore dei sacerdoti e dei laici di quella che oggi è la Prelatura dell’Opus Dei.

La vita spirituale e apostolica del nuovo beato si fondava sul sapersi, tramite la fede, figlio Dio in Cristo. Di questa fede si alimentavano il suo amore per il Signore, il suo zelo evangelizzatore, la sua allegria costante, anche nelle grandi prove e difficoltà che dovette superare. “Avere la croce è trovare la felicità, la gioia”, ci dice in una delle sue Meditazioni; “avere la Croce è identificarsi con Cristo, è essere Cristo e, per questo, essere figlio di Dio”.

Con soprannaturale intuizione, il beato Josemaría predicò instancabilmente la chiamata universale alla santità e all’apostolato. Cristo convoca tutti a santificarsi nella realtà della vita quotidiana; pertanto, il lavoro è anche mezzo di santificazione personale e di apostolato quando è vissuto in unione con Cristo, perché il Figlio di Dio, incarnandosi, in certo modo si e unito a tutta la realtà dell’uomo e a tutta la creazione (cfr Dominum et vivificantem, n. 50). In una società nella quale la brama sfrenata del possesso di cose materiali le trasforma in idoli e in motivi di allontanamento da Dio, il nuovo beato ci ricorda che queste stesse realtà, creature di Dio e dell’ingegno umano, se si usano rettamente per la gloria del Creatore e per il servizio dei fratelli, possono essere via per l’incontro degli uomini con Cristo. “Tutte le cose della terra”, insegnava, “anche le attività terrene e temporali degli uomini, devono essere portate a Dio” (Lettera, 19.III. 1954).

“Benedirò il tuo nome per sempre, Dio mio, mio Re”. Questa acclamazione che abbiamo ripetuto nel Salmo responsoriale è come il compendio della vita spirituale del beato Josemaría. Il suo grande amore per Cristo, dal quale si sente affascinato, lo porta a consacrarsi per sempre a Lui e a partecipare al mistero della sua passione e risurrezione. Al tempo stesso, il suo amore filiale per la Vergine Maria lo spinge a imitarne le virtù. “Benedirò il tuo nome per sempre”: ecco l’inno che spontaneamente si sprigionava dalla sua anima, e che lo spingeva a offrire a Dio tutto ciò che era suo e tutto ciò che lo circondava. Ed effettivamente la sua vita si riveste di umanesimo cristiano col sigillo inconfondibile della bontà, la mansuetudine del cuore, la sofferenza nascosta con cui Dio purifica e santifica i suoi eletti.

4. L’attualità e l’importanza di questo messaggio spirituale, profondamente radicato nel Vangelo, sono evidenti, come mostra pure la fecondità con cui Dio ha benedetto la vita e l’opera di Josemaría Escrivá. La sua terra natale, la Spagna, si onora di questo suo figlio, sacerdote esemplare, che seppe aprire nuovi orizzonti apostolici all’azione missionaria ed evangelizzatrice. Che questa gioiosa celebrazione sia occasione propizia per animare tutti i membri della Prelatura dell’Opus Dei a una maggiore donazione nella risposta alla chiamata alla santificazione e a una più generosa partecipazione nella vita ecclesiale, essendo sempre testimoni di genuini valori evangelici; e che ciò si traduca in un ardente dinamismo apostolico, particolarmente attento ai più poveri e bisognosi.

5. Anche nella Beata Giuseppina Bakhita troviamo una testimone eminente dell’amore paterno di Dio ed un segno luminoso della perenne attualità delle Beatitudini. Nata in Sudan, nel 1869, rapita da negrieri quando era ancora bambina, e venduta più volte sui mercati africani, conobbe le atrocità di una schiavitù che lasciò nel suo corpo i segni profondi della crudeltà umana. Nonostante queste esperienze di dolore, la sua innocenza rimase integra, ricca di speranza. “Da schiava non mi sono mai disperata”, diceva, “perché sentivo dentro di me una forza misteriosa che mi sosteneva”. Il nome di Bakhita – come l’avevano chiamata i suoi rapitori – significa Fortunata e tale infatti diventò, grazie al Dio di ogni consolazione, che sempre la teneva per mano e le camminava accanto.

Giunta a Venezia, per le vie misteriose della Divina Provvidenza, Bakhita ben presto si apriva alla grazia. Il battesimo e, dopo alcuni anni, la professione religiosa tra le Suore Canossiane, che l’avevano accolta ed istruita, furono le conseguenze logiche della scoperta del tesoro evangelico, per il quale sacrificò tutto, anche il suo ritorno, da libera, nella terra natale. Come Maddalena di Canossa, anch’ella voleva vivere per Dio solo, e con eroica costanza si avviò umile e fiduciosa per la strada della fedeltà all’amore più grande. La sua fede era salda, limpida, ardente. “Sapeste che grande gioia è conoscere Dio”, soleva ripetere.

6. La nuova Beata trascorse 51 anni di vita religiosa canossiana, lasciandosi guidare dall’obbedienza in un impegno quotidiano, umile e nascosto, ma ricco di genuina carità e di preghiera. Gli abitanti di Schio, ove risedette per quasi tutto il tempo, ben presto scoprirono nella loro “Madre Moretta” – così la chiamavano – un’umanità ricca nel dono, una forza interiore non comune che trascinava. La sua vita si consumò in una incessante preghiera dal respiro missionario, in una fedeltà umile ed eroica alla carità, che le consentì di vivere la libertà dei figli di Dio e di promuoverla attorno a sé.

Nel nostro tempo, in cui la corsa sfrenata al potere, al denaro, al godimento causa tanta sfiducia, violenza e solitudine, Suor Bakhita ci viene ridonata dal Signore come sorella universale, perché ci riveli il segreto della felicità più vera: le Beatitudini.

Il suo è un messaggio di bontà eroica a immagine della bontà del Padre celeste. Ella ci ha lasciato una testimonianza di riconciliazione e di perdono evangelici, che recherà sicuramente conforto ai cristiani della sua patria, il Sudan, cosi duramente provati da un conflitto che dura da molti anni e che ha provocato tante vittime. La loro fedeltà e la loro speranza sono motivo di fierezza e di azione di grazie per tutta la Chiesa. In questo momento di grandi tribolazioni, Suor Bakhita li precede sulla via dell’imitazione di Cristo, dell’approfondimento della vita cristiana e dell’incrollabile attaccamento alla Chiesa. Nello stesso tempo desidero, ancora una volta rivolgere un accorato appello ai responsabili delle sorti del Sudan, affinché diano realizzazione agli asseriti ideali di pace e di concordia; affinché il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo – e in primo luogo del diritto alla libertà religiosa – sia a tutti garantito, senza discriminazioni etniche o religiose.

Preoccupa grandemente la situazione delle centinaia di migliaia di profughi dalle regioni meridionali, che la guerra ha costretto ad abbandonare casa e lavoro; recentemente sono stati obbligati a lasciare anche i campi dove avevano trovato una qualche forma di assistenza e sono stati trasportati in luoghi desertici ed è stato perfino impedito il libero passaggio ai convogli di soccorsi delle agenzie internazionali. La loro situazione è tragica e non può lasciarci insensibili.

Raccomando vivamente agli Enti internazionali di assistenza di volere continuare ad inviare il loro provvido, necessario e urgente aiuto.

Mentre saluto la delegazione della Chiesa del Sudan, presente a questa celebrazione, rivolgo un affettuoso pensiero, accompagnato dalla preghiera, a tutta la Chiesa in quel Paese: ai Vescovi, al Clero diocesano e Missionario, ai laici impegnati nella pastorale, ed anche ai catechisti, collaboratori generosi e necessari per la propagazione della Verità, della Parola e dell’Amore di Dio. Le popolazioni del Sudan sono sempre presenti nel mio cuore e nelle mie preghiere: le affido all’intercessione della nuova Beata Giuseppina Bakhita.

7. “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 34-35). Con queste parole di Gesù si conclude il vangelo della Messa di oggi. In questa frase evangelica troviamo la sintesi di ogni santità; della santità che ha raggiunto, per strade diverse ma convergenti nella stessa ed unica mèta, Josemaría Escrivá de Balaguer e Giuseppina Bakhita. Essi hanno amato Dio con tutta la forza del loro cuore ed hanno dato prova di una carità spinta fino all’eroismo mediante le opere di servizio agli uomini, loro fratelli. Perciò la Chiesa li eleva oggi agli onori degli altari e li presenta come esempi nell’imitazione di Cristo, che ci ha amato e ha donato sé stesso per ognuno di noi (cfr Gal 2, 20).

8. “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui” (Gv 13,31): il mistero pasquale della gloria. Attraverso il Figlio dell’uomo questa gloria si estende a tutto il visibile e l’invisibile:”Ti lodino, Signore, tutte le tue opere e ti benedicano i tuoi fedeli. Dicano la gloria del tuo regno” (Sal 145/144, 10-11). Ecco il Figlio dell’uomo: “Non bisognava che… sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”. Ecco coloro che di generazione in generazione hanno seguito Cristo: “Attraverso molte tribolazioni, essi sono entrati nel regno di Dio”.

“Il tuo regno è regno di tutti i secoli” (Sal 145/144, 13).

Amen.

   
Preghiera

 

San Josemaría Escrivá

Fondatore dell’Opus Dei

PREGHIERA

O Dio, che per mediazione di Maria Santissima concedesti a San Josemaría, sacerdote, innumerevoli grazie, scegliendolo come strumento fedelissimo per fondare l’Opus Dei, cammino di santificazione nel lavoro professionale e nell’adempimento dei doveri ordinari del cristiano, fa’ che anch’io sappia trasformare tutti i momenti e le circostanze della mia vita in occasioni per amarti e per servire con gioia e semplicità la Chiesa, il Romano Pontefice e tutte le anime, illuminando i cammini della terra con la fiamma della fede e dell’amore. Concedimi, per intercessione di San Josemaría, la grazia che ti chiedo:… (si chieda). Amen.

Padre nostro, Ave Maria, Gloria.

San Josemaría è il mio intercessore preferito

Pierluigi Bartolomei è soprannumerario e ha cinque figli. Racconta come ha conosciuto l’Opera e descrive il suo lavoro all’Elis come Preside della Scuola Professionale, a contatto con ragazzi spesso con situazioni difficili. Pierluigi ha raccolto le loro storie in un libro “I ragazzi di Via Sandri” edito nei mesi scorsi dall’editrice Ares.

 

 

Discorso rivolto da Giovanni Paolo II

ai partecipanti alla canonizzazione di

Josemaría Escrivá


PIAZZA SAN PIETRO, LUNEDì 7 OTTOBRE 2002

 

 

Al termine della messa di ringraziamento per la canonizzazione del fondatore dell’Opus Dei, il Papa Giovanni Paolo II concesse un’udienza agli intervenuti. Pubblichiamo di seguito il testo del discorso del Romano Pontefice.  

Carissimi Fratelli e Sorelle!

1. Con gioia vi rivolgo il mio cordiale saluto, all’indomani della canonizzazione del beato Josemaría Escrivá de Balaguer. Ringrazio S.E. Mons. Javier Echevarría, Prelato dell’Opus Dei, per le parole con cui si è fatto interprete di tutti i presenti. Saluto con affetto i numerosi Cardinali, Vescovi e sacerdoti che hanno voluto prendere parte a questa celebrazione.

Questo festoso incontro unisce una grande varietà di fedeli, provenienti da tanti Paesi e appartenenti ai più diversi ambiti sociali e culturali: sacerdoti e laici, uomini e donne, giovani e anziani, intellettuali e lavoratori manuali. E’ questo un segno dello zelo apostolico che ardeva nell’anima di San Josemaría.

2. Nel Fondatore dell’Opus Dei spicca l’amore per la volontà di Dio. Esiste un criterio sicuro di santità: la fedeltà nel compiere la volontà divina fino alle ultime conseguenze. Su ciascuno di noi il Signore ha un progetto, ad ognuno affida una missione sulla terra. Il santo non riesce neppure a concepire se stesso al di fuori del disegno di Dio: vive soltanto per realizzarlo.

San Josemaría fu scelto dal Signore per annunciare la chiamata universale alla santità e per indicare che la vita di tutti i giorni, le attività comuni, sono cammino di santificazione. Si potrebbe dire che egli fu il santo dell’ordinario. Era infatti convinto che, per chi vive in un’ottica di fede, tutto offre occasione di un incontro con Dio, tutto diviene stimolo alla preghiera. Vista così, la vita quotidiana rivela una grandezza insospettata. La santità si pone davvero alla portata di tutti.

3. Escrivá de Balaguer fu un santo di grande umanità. Tutti coloro che lo frequentarono, di qualsiasi cultura o condizione sociale, lo sentirono come un padre, completamente dedito al servizio degli altri, poiché era convinto che ogni anima è un tesoro meraviglioso; in effetti, ogni uomo vale tutto il Sangue di Cristo. Questo atteggiamento di servizio è evidente nella sua dedizione al ministero sacerdotale e nella magnanimità con cui diede impulso a tante opere di evangelizzazione e di promozione umana a favore dei più poveri.

Il Signore gli fece comprendere profondamente il dono della nostra filiazione divina. Egli insegnò a contemplare il volto tenero di un Padre nel Dio che ci parla attraverso le più diverse vicissitudini della vita. Un Padre che ci ama, che ci segue passo a passo e ci protegge, ci comprende e attende da ognuno di noi la risposta dell’amore. La considerazione di questa presenza paterna, che lo accompagna ovunque, dà al cristiano una fiducia incrollabile; in ogni momento deve confidare nel Padre celeste. Non si sente mai solo e non ha paura. Nella Croce – quando si presenta – non vede un castigo, bensì una missione affidata dal Signore stesso. Il cristiano è necessariamente ottimista, poiché sa che è figlio di Dio in Cristo.

4. San Josemaría era profondamente convinto che la vita cristiana richieda una missione e un apostolato: siamo nel mondo per salvarlo con Cristo. Amò il mondo appassionatamente, con “amore redentore” (cfr Catechismo della Chiesa cattolica, n. 604). Proprio per questo motivo i suoi insegnamenti hanno aiutato così tanti fedeli a scoprire la forza redentrice della fede, la sua capacità di trasformare la terra. Questo messaggio ha implicazioni numerose e feconde per la missione evangelizzatrice della Chiesa. Promuove la cristianizzazione del mondo “dall’interno”, mostrando che può non esserci contrasto fra la legge divina e le esigenze di un autentico progresso umano. Questo sacerdote santo pensava che Cristo dovesse essere l’apice di tutta l’attività umana (cfr Gv 12, 32).

Il suo messaggio esorta i cristiani ad agire nei luoghi in cui si plasma il futuro della società. Dalla presenza attiva del laicato in tutte le professioni e presso le frontiere più avanzate dello sviluppo può derivare soltanto un contributo positivo al rafforzamento di quell’armonia fra fede e cultura che è una delle necessità più importanti del nostro tempo.

5. San Josemaría Escrivá ha speso la sua vita al servizio della Chiesa. Nei suoi scritti, i sacerdoti, i laici che seguono le vie più diverse, i religiosi e le religiose trovano una fonte stimolante d’ispirazione. Cari Fratelli e Sorelle, imitandolo con apertura di mente e di cuore, nella disponibilità a servire le Chiese locali, voi contribuite a dare forza alla “spiritualità di comunione” che la Lettera Apostolica Novo Millennio ineunte indica come uno degli obiettivi più importanti per il nostro tempo (cfr nn. 42-45).

Sono lieto di concludere con un appello alla festa liturgica odierna della Beata Vergine Maria del Rosario. San Josemaría scrisse un bell’opuscolo intitolato Il Santo Rosario, che s’ispira all’infanzia spirituale, disposizione d’animo propria di coloro che vogliono giungere a un totale abbandono alla volontà divina. Di tutto cuore, affido alla protezione materna di Maria tutti voi, come pure le vostre famiglie, il vostro apostolato, ringraziandovi per la vostra presenza e benedicendovi con affetto.

6. Ringrazio ancora una volta tutti i presenti, specialmente quelli venuti da lontano. Vi invito, carissimi Fratelli e Sorelle, a recare dappertutto una chiara testimonianza di fede, secondo l’esempio e l’insegnamento del vostro santo Fondatore. Vi accompagno con la mia preghiera e di cuore benedico voi, le vostre famiglie e le vostre attività.

 

L’HOSPITALITAS DI DON CARLO GNOCCHI

Posted on Marzo 13th, 2009 di Angelo | Edit

 

 

  

  

  

  

  

  

  

   

 

Sogno dopo la guerra di potermi dedicare per sempre ad un’opera di Carità, quale che sia, o meglio quale Dio me la vorrà indicare. Desidero e prego dal Signore una sola cosa: servire per tutta la vita i suoi poveri.Ecco la mia ”carriera”. Purtroppo non so se di questa grande grazia sono degno, perché si tratta di un privilegio…

 

don Carlo Gnocchi
(Lettera dal fronte russo, inverno 1942)

 

 

 

 

  

  

  

  

  

  

   

 

Nella misteriosa economia del Cristianesimo, il dolore degli innocenti è dunque permesso perchè siano manifeste le opere di Dio e quelle degli uomini: l’amoroso e inesausto travaglio della scienza; le opere multiformi dell’umana solidarietà; i prodigi della carità soprannaturale…

 

don Carlo Gnocchi (Pedagogia del dolore innocente, 1956)

 

 

  

  

  

  

  

  

   

 

La cura degli ammalati, le arti della medicina, la carità verso i sofferenti, la lotta contro tutte le cause dell’umana sofferenza sono una vera e continua redenzione materiale, che fa parte della redenzione totale di Cristo e di essa ha tutto l’impegno e la dignità.

 

don Carlo Gnocchi
(Pedagogia del dolore innocente, 1956)

 

 

 

 

 

  

  

  

  

  

  

  

 

La lotta e la vittoria contro il dolore è una seconda generazione, non meno grande e dolorosa della prima, e chi riesce a ridonare a un bimbo la sanità, l’integrità, la serenità della vita non è meno padre di colui che, alla vita stessa, lo ha chiamato per la prima volta

 

 

don Carlo Gnocchi
(Pedagogia del dolore innocente, 1956)

  

  

  

  

 

 

 

 

  

 

Bisogna rifare l’uomo, e, per farlo, bisogna restituirgli anche la dignità, la dolcezza e la varietà del vivere, quel rispetto della personalità individuale e quella possibilità di esplicare completamente il potenziale della propria ricchezza personale…

 

don Carlo Gnocchi

(Restaurazione della persona umana, 1946)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il primo dovere della società verso i giovani minorati è quello della reintegrazione delle capacità fisiche, se possibile, e nella misura in cui essa è possibile. Per essi l’unica medicina e la più sicura salvezza sta nel lavoro, nella cultura e nella professione, nel dar loro uno scopo ed un mezzo di vita e nel farne elementi normali della società”.

 

don Carlo Gnocchi
(Roma, 1955)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non è anche la scienza un dono dell’amore infinito? La scienza, coniugata con la carità, deve impegnarsi nella lotta per la vita. E la riabilitazione, la medicina curativa, l’assistenza, l’accoglienza, la ricerca e la difesa della vita assumono un senso nuovo…

 

don Carlo Gnocchi
(testimonianza di mons. Aldo Del Monte)
 

 

Il mondo non è mai stato così uno come oggi; ma per ora, soltanto di una unità corticale ed esteriore, causata dal progresso tecnico. È compito del progresso spirituale quello di dare al mondo anche l’unità interiore: l’idea universale nella quale tutti possono trovarsi fratelli.

don Carlo Gnocchi
(Restaurazione della persona umana, 1946)

Biografia di don Carlo Gnocchi

 

L’infanzia

Carlo Gnocchi, terzogenito di Enrico Gnocchi, marmista, e Clementina Pasta, sarta, nasce a San Colombano al Lambro, presso Lodi, il 25 ottobre 1902. Rimasto orfano del padre all’età di cinque anni, si trasferisce a Milano con la madre e i due fratelli, Mario e Andrea, che di lì a poco moriranno di tubercolosi. Seminarista alla scuola del cardinale Andrea Ferrari, nel 1925 viene ordinato sacerdote dall’Arcivescovo di Milano, Eugenio Tosi. Celebrerà la sua prima Messa il 6 giugno a Montesiro, il paesino della Brianza dove viveva la zia, dove tornava spesso nei periodi di vacanza e dove, fin da piccolo, aveva trascorso lunghi periodi di convalescenza, lui di salute così cagionevole (per saperne di più)

Assistente ed educatore
Il primo impegno apostolico del giovane don Carlo è quello di assistente d’oratorio: prima a Cernusco sul Naviglio, poi, dopo solo un anno, nella popolosa parrocchia di San Pietro in Sala, a Milano.

Raccoglie stima, consensi e affetto tra la gente tanto che la fama delle sue doti di ottimo educatore giunge fino in Arcivescovado: nel 1936 il Cardinale Ildefonso Schuster lo nomina direttore spirituale di una delle scuole più prestigiose di Milano: l’Istituto Gonzaga dei Fratelli delle Scuole Cristiane.

In questo periodo studia intensamente e scrive brevi saggi di pedagogia. (per saperne di più)

 

 

La guerra
Sul finire degli anni Trenta, sempre il Cardinale Schuster gli affida l’incarico dell’assistenza spirituale degli universitari della Seconda Legione di Milano, comprendente in buona parte studenti dell’Università Cattolica e molti ex allievi del Gonzaga.

Nel 1940 l’Italia entra in guerra e molti giovani studenti vengono chiamati al fronte. Don Carlo, coerente alla tensione educativa che lo vuole sempre presente con i suoi giovani anche nel pericolo, si arruola come cappellano volontario nel battaglione “Val Tagliamento” degli alpini, destinazione il fronte greco albanese. (per saperne di più)

La campagna di Russia
Terminata la campagna nei Balcani, dopo un breve intervallo a Milano, nel ‘42 don Carlo riparte per il fronte, questa volta in Russia, con gli alpini della Tridentina. Nel gennaio del ‘43 inizia la drammatica ritirata del contingente italiano: don Carlo, caduto stremato ai margini della pista dove passava la fiumana dei soldati, viene miracolosamente raccolto su una slitta e salvato. È proprio in questa tragica esperienza che, assistendo gli alpini feriti e morenti e raccogliendone le ultime volontà, matura in lui l’idea di realizzare una grande opera di carità che troverà compimento, dopo la guerra, nella Fondazione Pro Juventute.


Ritornato in Italia nel 1943, don Carlo inizia il suo pietoso pellegrinaggio, attraverso le vallate alpine, alla ricerca dei familiari dei caduti per dare loro un conforto morale e materiale.
In questo stesso periodo aiuta molti partigiani e politici a fuggire in Svizzera, rischiando in prima persona la vita: lui stesso viene arrestato dalle SS con la grave accusa di spionaggio e di attività contro il regime. (per saperne di più)

Gli orfani e i mutilatini
A partire dal 1945 comincia a prendere forma concreta quel progetto di aiuto ai sofferenti appena abbozzato negli anni della guerra: viene nominato direttore dell’Istituto Grandi Invalidi di Arosio e accoglie i primi orfani di guerra e i bambini mutilati. Inizia così l’opera che lo porterà a guadagnare sul campo il titolo più meritorio di “padre dei mutilatini”.
Ben presto la struttura di Arosio si rivelerà insufficiente ad accogliere i piccoli ospiti le cui richieste di ammissione arrivano da tutta Italia; ma, quando la necessità si fa impellente, ecco intervenire la Provvidenza. Nel 1947, gli viene concessa in affitto, a una cifra simbolica, una grande casa a Cassano Magnago, nel varesotto. (per saperne di più)

La Pro Infanzia Mutilata
Nel 1949 l’Opera di don Gnocchi ottiene un primo riconoscimento ufficiale: la “Federazione Pro Infanzia Mutilata”, da lui fondata l’anno prima per meglio coordinare gli interventi assistenziali nei confronti delle piccole vittime della guerra, viene riconosciuta ufficialmente con Decreto del Presidente della Repubblica.
Nello stesso anno, il Capo del Governo, Alcide De Gasperi, promuove don Carlo consulente della Presidenza del Consiglio per il problema dei mutilatini di guerra. Da questo momento uno dopo l’altro, aprono nuovi collegi: Parma (1949), Pessano (1949), Torino (1950), Inverigo (1950), Roma (1950), Salerno (1950), Pozzolatico (1951).
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La Fondazione Pro Juventute
Nel 1951 la Federazione Pro Infanzia Mutilata viene sciolta e tutti i beni e le attività vengono attribuiti al nuovo soggetto giuridico creato da don Gnocchi: la Fondazione Pro Juventute, riconosciuta con Decreto del Presidente della Repubblica l’11 febbraio 1952.
Nel 1955 don Carlo lancia la sua ultima grande sfida: si tratta di costruire un moderno Centro che costituisca la sintesi della sua metodologia riabilitativa. Nel settembre dello stesso anno, alla presenza del Capo dello Stato, Giovanni Gronchi, viene posata la prima pietra della nuova struttura, nei pressi dello stadio di San Siro, a Milano.


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La Pro Infanzia Mutilata
Il 12 ottobre 1948 nasce ufficialmente l’opera che don Carlo aveva in cuore e in testa fin dal ritorno dalla Russia. Opera che viene riconosciuta giuridicamente il 26 marzo seguente, con il nome di Federazione Pro Infanzia Mutilata.


Don Carlo guarda con speranza a quella porzione dell’umana società che rappresenta l’avvenire e proprio perché consapevole della sua difficoltà presente la considera la porzione degna dei più attenti riguardi. Promuovere la crescita umana di questi “emarginati” è un grande progetto ed egli vi lavora indefessamente, perché quei ragazzi diventino persone complete ed autonome.


Le difficoltà sono molte, ma don Carlo non si arrende e chiede a chiunque collaborazione e impegno. La realizzazione delle sue idee è possibile grazie all’aiuto dei religiosi, delle suore di diverse Congregazioni: si tratta dei pezzi di un grande mosaico che si muovono silenziosamente intorno a lui e che provvedono a mandare avanti le Case. La stessa solidarietà gli giunge dai laici, che egli invita e sensibilizza come cristiani a servire il prossimo sfortunato, dandogli tutto l’amore possibile, collaborando con dedizione, contribuendo per il buon funzionamento della struttura organizzativa, con animo generoso, schietto, retto e costante.


Ecco l’elenco dei primi collaboratori, quelli più stretti: “All’origine nasce un Comitato fondatore, composto da fratel Gioviniano dei Fratelli delle Scuole Cristiane, tesoriere del Collegio Gonzaga; dall’avvocato Tommaro; dal commendator Hollian, un industriale ebreo-polacco che aveva interessi economici in Argentina; dal dottor Bodini, che lavora per Hollian e il commendator Ugo Previstali, genitore di un alunno del Gonzaga. Bodini, ex prefetto di Trieste, gerarca fascista che aveva fatto la guerra in Etiopia ed era stato nascosto dai Fratelli delle Scuole Cristiane, è l’amministratore del Gonzaga.


Tecnico accorto, darà un prezioso aiuto all’opera in quanto dovrà cercare finanziamenti per la nascente struttura affidata alla presidenza di fratel Giustiniano. E quando questi si ammala di tubercolosi, alla sua morte gli succede nella carica lo stesso don Gnocchi, che accorpando i diversi istituti per mutilati crea la Pro Infanzia Mutilata. Un solido sostegno economico giunge a don Gnocchi dalle famiglie Pirelli, Falck, Uccelli, Guenzani, Puricelli-Guerra, Meda, Bertolini, Borletti, Cicogna e Bassetti”.


Sembra quasi la trama di un film un po’ thriller: l’ebreo-polacco ricco e cosmopolita, l’ex gerarca fascista ravveduto, i fratelli delle scuole cattoliche, gli industriali e i nobili… E invece è quello che don Gnocchi si trova intorno, sono le persone che ha vicino. Con loro comincia, come con un gruppo di amici.

L’addio a un “santo”
Don Carlo, minato da una malattia incurabile, non riuscirà a vedere completata l’opera nella quale aveva investito le maggiori energie: il 28 febbraio 1956, la morte lo raggiungerà prematuramente presso la Columbus, una clinica di Milano dove era da tempo ricoverato per una grave forma di tumore.


I funerali furono grandiosi per partecipazione e commozione: quattro alpini a sorreggere la bara, altri a portare sulle spalle i piccoli mutilatini in lacrime.
Poi la commozione degli amici e conoscenti, centomila persone a gremire il Duomo e la piazza e l’intera città di Milano listata a lutto. Così il 1° marzo ’56 l’arcivescovo Montini – poi Papa Paolo VI – celebrava i funerali di don Carlo.
Tutti i testimoni ricordano che correva per la cattedrale una specie di parola d’ordine: “Era un santo, è morto un santo”. Durante il rito, fu portato al microfono un bambino.
Disse: “Prima ti dicevo: ciao don Carlo. Adesso ti dico: ciao, san Carlo”. Ci fu un’ovazione.

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La Fondazione Pro Juventute
Nel 1952 la Pro Infanzia Mutilata cambiò volto per poter ampliare i propri orizzonti operativi. A don Carlo i mutilatini non bastavano più: scopre altre e nuove emergenze, come quella dei poliomielitici che aveva toccato anche il cuore del cardinale Montini e trovato ascolto nella stessa Chiesa.


Per fare qualcosa anche per loro decide di modificare lo statuto dell’opera: dall’11 febbraio ‘52 i Collegi si chiamano Centri medico-sociali e la nuova denominazione complessiva è quella di Pro Juventute, riconosciuta dal ministero degli Interni (non esisteva in quegli anni il ministero della Sanità) Ente morale non ospedaliero.


L’ultimo seme gettato da don Carlo è il Centro-pilota di Milano: l’11 settembre 1955 viene posta la prima pietra alla presenza del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Il Centro sorgerà su un’area di 18 mila metri quadrati in via Capecelatro, una strada della zona San Siro parallela a quella che oggi si chiama via don Gnocchi, e sarà finalizzato a ospitare 300 bambini poliomielitici.


Con questo nuovo Centro don Carlo vuole dimostrare a tutti che è possibile rendere concretamente operativo il progetto di recupero dei giovani disabili non solo dal punto di vista fisico, ma anche culturale, morale e spirituale. È ormai chiaro che don Gnocchi aveva in mente un progetto complessivo, globale, di recupero della persona umana, per la quale parlava non a caso di “restaurazione”.


Un progetto che non aveva eguali nell’Italia di quegli anni, nemmeno tra le iniziative cattoliche dirette all’assistenza dei disabili e dei malati, o all’accoglienza degli orfani. Iniziative certamente di carità, ma che inevitabilmente erano meno attente all’aspetto umano e spirituale degli assistiti. E sicuramente non consideravano la fondamentale importanza del rigore scientifico nel loro lavoro: scientificità che don Gnocchi aveva invece benissimo presente e sulla quale puntava. (ascolta la voce di don Carlo)

L’ultimo dono
L’ultimo suo gesto profetico è la donazione delle cornee a due ragazzi non vedenti – Silvio Colagrande e Amabile Battistello – quando in Italia il trapianto di organi non era ancora disciplinato da apposite leggi. Il doppio intervento, eseguito dal prof. Cesare Galeazzi, riuscì perfettamente. La generosità di don Carlo anche in punto di morte e l’enorme impatto che il trapianto ebbe sull’opinione pubblica impressero un’accelerazione decisiva al dibattito. Tant’è che nel giro di poche settimane venne varata una legge ad hoc.
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La causa di beatificazione
Trent’anni dopo la sua morte, il cardinale Carlo Maria Martini istituirà il Processo di Beatificazione. La fase diocesana, avviata nell’87, si è conclusa nel ’91. Il Processo è ora in fase di svolgimento alla Congregazione delle Cause dei Santi, a Roma.
Il 20 dicembre 2002 il Papa lo ha dichiarato venerabile.


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La causa di beatificazione

A trent’anni dalla morte di don Carlo Gnocchi (28 febbraio 1956), Fratel Leone Luigi Morelli è stato nominato Postulatore della Causa di canonizzazione.
La causa dispone di un unico “Processo sulla vita, virtù e fama di santità”, celebrato nella Diocesi di Milano dal 6 maggio 1987 al 23 febbraio 1991, nell’arco di 199 sessioni per la deposizione di 178 testi e la raccolta di una copiosa documentazione.
Tale materiale istruttorio, distribuito nei quindici volumi della copia pubblica (per un totale di 4.321 pagine) è stato poi presentato alla Congregazione per le Cause dei Santi, allo scopo di verificare la validità procedurale del Processo.
Con il decreto sulla validità, rilasciato il 26 ottobre 1993 dalla Congregazione, ha preso avvio lo studio per la preparazione della “Positio”.


La “Positio” è il volume che raccoglie tutte le testimonianze e tutti i documenti contenuti nella copia pubblica e si divide in due parti: il “Summarium”, che riporta tutti gli interrogatori e le testimonianze, e la “Informatio”, che mette in risalto come il candidato alla santità abbia osservato in grado eroico le virtù teologali, cardinali e le altre virtù, sia verso Dio che verso il prossimo.


Un relatore assegnato dalla Congregazione ha poi il compito di preparare una presentazione a tutto il volume che verrà esaminato dalla Commissione dei Teologi per un ulteriore giudizio. Una volta acquisito il positivo giudizio della Commissione dei Teologi, deve essere giudicato e approvato da una Commissione di Cardinali: solo dopo questi pareri, la Congregazione per le Cause dei Santi prepara il decreto sull’eroicità delle virtù che viene letto dinnanzi al Papa. Con la lettura di tale decreto, al Servo di Dio viene dato il titolo di venerabile.


  • Il 20 dicembre 2002 il Papa ha dichiarato don Gnocchi venerabile, riconoscendone l’eroicità delle virtù.
  • Nel 2003, alla morte di Fratel Morelli, nuovo postulatore della causa è stato nominato Fratel Rodolfo Cosimo Meoli.
  • Per la beatificazione, la Chiesa richiede una Grazia che, attraverso un processo, deve essere riconosciuta miracolosa.
  • Tra i mesi di ottobre e dicembre del 2004, a Milano si è svolta la sessione straordinaria del processo di beatificazione di don Gnocchi per l’analisi di un presunto evento miracoloso.
  • Il carteggio è ora all’analisi della Congregazione per le Cause dei Santi, in Vaticano.

Un altro miracolo viene invece chiesto per la Canonizzazione.


Chi ricevesse favori per l’intercessione del Servo di Dio don Carlo Gnocchi è pregato di darne urgente comunicazione alla Fondazione Don Carlo Gnocchi.

La “Petitio” dei Vescovi lombardi

 

 

I Vescovi lombardi e l’Arcivescovo di Salerno hanno rivolto una richiesta al Papa, nella primavera del ‘98, per accelerare il processo di beatificazione di don Carlo Gnocchi. Ecco uno stralcio della supplica firmata dai Vescovi della Conferenza Episcopale Lombarda e da monsignor Pierro.


Beatissimo Padre,


noi, Vescovi della Regione Ecclesiale di Lombardia, ci rivolgiamo a Lei, dopo aver appreso che il Rev.mo Padre Ambrogio Eszer, O.P., Relatore Generale presso la Congregazione delle Cause dei Santi, lo scorso 9 novembre 1997 ha approvato la “Positio super vita et virtutibus et fama sanctitatis” del Servo di Dio don Carlo Gnocchi, sacerdote della diocesi ambrosiana e fondatore della Federazione Pro Infanzia Mutilata, divenuta ora la Fondazione Pro Juventute, istituto che si dedica alla riabilitazione e alla integrazione sociale dei portatori di diverse forme di handicap, dei piccoli soprattutto, sulla scia del suo fondatore, persuaso che “sanare il dolore non è soltanto un’opera di filantropia, ma è un’opera che appartiene strettamente alla redenzione di Cristo”.(…)

Don Carlo Gnocchi può essere di esempio e di stimolo, alla nostra e alle prossime generazioni, del primato della carità, del dono di sé, senza risparmio di energie e neppure della propria vita, neppure del proprio corpo, perché l’amore di Cristo tutto lo pervadeva. (…)


Un prete che, nel mezzo delle macerie fisiche e spirituali lasciate dalla seconda guerra mondiale, non temeva di proclamare che “ogni restaurazione della persona umana, che non voglia essere parziale, effimera o dannosa, come quelle finora attuate dalla civiltà, non può essere che la restaurazione della persona di Cristo in ogni uomo”.


Un prete che, raccogliendo il lamento morente dei giovani soldati, che aveva voluto accompagnare nel fango delle trincee e nel gelo delle steppe della Russia, contemplava: “I suoi occhi erano colmi di dolore e di pietà, come di bimbo che si addormenta a poco a poco. Non altrimenti dovette guardare Gesù dall’alto della sua croce”.


Un prete che, di fronte a questo muto dolore, che avrebbe rivisto poi negli occhi di tanti fanciulli innocenti, dilaniati da un residuato bellico, rifletteva quanto fosse urgente “riscoprire i segni caratteristici del Cristo sotto la maschera essenziale e profonda di ogni uomo percosso e denudato dal dolore”. (…)


Per tutti questi motivi, sinteticamente qui esposti, vorremo pregarLa, Beatissimo Padre, di intercedere perché la Positio, finalmente presentata, sia sollecitamente proposta al votum dei Reverendissimi Consultori Teologi e degli Eminentissimi Cardinali, così da affrettare – per quanto sarà possibile – il momento in cui le nostre comunità potranno venerare il Servo di Dio don Carlo Gnocchi, sacerdote ambrosiano, quale Beato della Chiesa e affidare alla sua intercessione le loro preghiere e i loro desideri.

Preghiera per la canonizzazione di don Gnocchi

Signore Iddio,
che sei glorificato nei Tuoi Santi,
concedi che possa risplendere nella Tua Chiesa
la luce eroica delle virtù del Tuo Servo
don Carlo Gnocchi,


il quale, sulle orme di Cristo Maestro e Sacerdote,
Ti ha amato e servito nei “piccoli”,
nel servizio educativo e pastorale,
nella dedizione al “dolore innocente”
degli orfani, dei mutilatini, dei vulnerati
nel corpo e nello spirito.


Per i suoi meriti e per la Sua intercessione
concedi la grazia (…)
che con fiducia Ti chiediamo.
Per Cristo nostro signore.

DON DIVO BARSOTTI E’ MORTO IERI – Fratel Carlo

Posted on Gennaio 6th, 2009 di Angelo |

Io ricordo solo un uomo che mi ha fatto sentire amato

Don Divo Barsotti è morto ieri. Molti ricordano il mistico, il teologo, il poeta, il predicatore.

Io ricordo solo un uomo che mi ha fatto sentire amato, profondamente e sempre amato…..e mi ha aperto le porte alla comprensione dell’Amore, dell’Unico Amore.

Quando penso a lui, lo penso sorridente.

Sorrideva sempre.

Sorrideva quando pregava e quando chiudeva gli occhi e andava oltre la preghiera.

Sorrideva quando a tavola ci tirava le mele da “parare” al volo ( era il suo gioco, e il nostro), sorrideva anche quando, piangendo, parlava di Lui, dell’unico grande Amore della sua vita. O quando sollevava un poco l’Ostia verso un ipotetico alto e lontano che per lui fu sempre vicino e presente.

 

Era autunno quando lo conobbi. Autunno dentro e fuori di me. Sconfitto da tante guerre perdute mi aggiravo dove nessuno passeggia, in una periferia che non ha il sapore di nulla, meditando sul posto dell’amore nella vita dell’uomo.

C’era un portone aperto, non grande ma aperto, luminoso, come un vortice ( e il ricordo si fa presenza e dolore di oggi e gioia di ieri) e lui, già  vecchio ma non troppo, parlava mentre pochi nel silenzio totale lo ascoltavano. Entrai e non so perchè. E trovai posto e lui mi vide e sorrise di più, come la farfalla che vede lontano un fiore. Ma continuò, continuò non so per quanto, e non so con quali parole, ma erano parole come rivestite di magia che medicavano e sanavano.

Era un pò chino, non dritto, occhiali fondi come vecchie bottiglie di tanto tempo fa, la talare nera dei preti, il suo sorriso, le mani lontane da lui che disegnavano tracciati musicali nell’aria. Era l’omelia di una messa e lui parlava d’amore.

Insieme al suo sorriso ricordo l’amore. L’amore era il soggetto di tutto. Mai tacque dell’amore. E non importa di cosa si parlasse, perchè qualunque argomento da meditare o da insegnare o da discutere, qualunque cosa, tutto rientrava nel grande canto d’amore che le sue labbra cantavano sempre.

Quando la Messa finì non andai via.

Non sapevo chi era ma seppi subito chi io non ero mai stato; fui come sbalzato davanti a un’immagine di me a me ignota finora. E le mie gambe tremavano a lasciare quella cappellina così “normale”, così ordinaria, trasformata dalla sua parola in un fascio di rose profumate.

Fu lui che si affacciò piano dall’uscio della sagrestia. Non si era ancora tolto tutti i paramenti.

Ma non parlò.

Sorrise.

E mi sembrò che piangesse.

Mi sembrò che l’amore aveva altre parole per me e le avrebbe pronunciate lui. Ma come, ma quando non sapevo ancora.

E andai.

E tutto fu come una pagina di Vangelo. E non fu così tutto di lui?

“Chi è lei?” -  gli dissi.

E lui mi disse il suo nome a me sconosciuto. “Come ti chiami” – aggiunse?

E gli dissi il mio nome. “Vieni con me” – mi disse. E non seppi chiedergli dove. Ma sapevo che sarei andato.

E andai.

E tutta la mia vita cambiò (perchè non riesco a trattenere il pianto?? e lo conobbi, e vissi con lui, e pregai con lui, e ascoltai ogni giorno per mesi e mesi la sua parola, ogni giorno, generosa, lieta, pura. Capii da lui che “la Parola non torna indietro senza aver compiuto ciò per cui è stata mandata”….mai udii nei miei cinquanta anni una parola così “bella”, perchè di bellezza si parla. E non era una parola elegante, farcita….ma era “bella”, come le mani della mamma che ci accarezzano senza rumore.

E parlai con lui….gli consegnai tutti i miei bagagli più pesanti…piansi mentre le mie mani stringevano le sue e le sue labbra sorridevano a trasumanare il pianto in serena letizia.

E mi sentii capito come nessuno mai prima e mai più (com’è triste ora una vita senza di lui!).

E viaggiai con lui “senza portare nulla”.. solo orecchie e cuore.

E mangiai con lui, e lavai i piatti nella sua cucina con Serafino il dolce e Silvano il mite…mentre si sceglieva per me un nome nuovo e si leggevano i Padri. Voleva chiamarmi Barsanufio (e seppi poi che ci aveva già  provato e ancora ci provò…chissà  se poi ci riuscì mai! Barsanufio…il recluso per amore!).

E lo spiai tante volte nelle notti di preghiera prima dell’alba…sentivo i suoi passi di pezza verso l’Amato e in silenzio….lo seguivo e mi abbeveravo a una Fonte sconosciuta, da lui misteriosamente riesumata ogni notte e ogni giorno.

E vidi crescere la Comunità attorno a lui, padre commosso e mai ingrato, stupito come Abramo per la scelta di Dio nella sua vita.

 

C’è un ricordo più forte di ogni altro ricordo…così forte che mai riuscii a liberarmene; anche quando lui mi accompagnò alla porta per l’ultima volta e mi indicò la “direzione” del mio cammino e mi disse: “Non devo trattenerti qui con me. Altrove il Signore ha fissato per te la dimora. E non tornare per almeno un anno. Mi mancherai”.

E qualcosa tra il sorriso e il pianto di nuovo incontrò i miei occhi.

E capii che lacrime e sorrisi, gioia e pianto non erano differenti per lui. Che la gioia era solo l’altra faccia del dolore. Che tutto era sempre e solo “segno della Presenza”, come soleva dire.

E andai.

“Un giorno, qualche mese prima della mia partenza….seduto…le sue omelie-meditazioni per noi suoi figli…..parlava del paradiso: “Dio è il nostro paradiso”….in Lui si compie e converge ogni gioia. Solo Lui è gioia, pace, ricchezza per l’anima e per il corpo – e piangeva.

Mi fissò a lungo….come se io solo fossi lì e poi mi chiese: “Ma Dio che è tuo paradiso, ha per Sè stesso un paradiso? Perchè niente è più di Dio” -  e mi guardava come una mamma che ha dietro la schiena nascosto un regalo meraviglioso.

“Qual’è il paradiso di Dio?……

“Tu” – e piangendo puntava l’indice verso di me – “Tu sei il paradiso di Dio…in te culmina il suo amore….Lui ti ha creato per amarti….e in questo amore, per te piccolo e peccatore, Dio ha scelto di vivere il suo paradiso”.

Mi consegnò questo dono che porto sempre con me. Io…sono il paradiso di Dio.

Grazie………Padre mio!

Ora te ne sei andato. E hai già  incontrato l’Amato.

Chissà se Dio, accogliendoti, ti avrà  detto: “Benvenuto….mio paradiso!”

 

fratel Carlo

ALLA SCUOLA DELL’AMORE – Divo Barsotti

 Posted on Novembre 16th, 2008 di Angelo |

  

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Divo Barsotti mistico del ’900

 

ALLA SCUOLA DELL’AMORE

Libro donato ai naviganti dalla Comunità dei figli di Dio

 

http://www.figlididio.it/com/index.htm

 

 Avvertenza

Queste meditazioni sono state dettate da don Divo Barsotti alle suore della Visitazione di Quinto al Mare (GE). Trascritte direttamente dal registratore, non sono state rivedute dall’Autore. Il lettore intuirà senza dubbio il calore appassionato con cui le meditazioni sono state pronunciate, anche se fatalmente la parola scritta non riesce e riprodurlo

 visitazione 2

1.

IL MISTERO DELLA VISITAZIONE

 

Una visita personale

 

È un mistero dolcissimo. È il mistero della carità di Maria che va da sua cugina Elisabetta, per assisterla negli ultimi mesi della sua gravidanza. Mistero della carità di Maria, che è un continuo venire ad ogni anima, per assistere ogni anima nel suo cammino verso Dio.

Come Nostro Signore, anche Maria Santissima nei suoi misteri vive una missione, che non termina se non con la fine del tempo. Non solo la grazia di quella carità che porta la Regina del cielo dalla cugina Elisabetta si fa presente oggi nella Chiesa per ogni anima, ma, di più, si fa presente la visita stessa della Vergine ad ogni anima.

Nella sua vita terrena la Vergine, come noi, era condizionata dal tempo e dallo spazio; non poteva nel medesimo tempo andare da Elisabetta e rimanere con Giuseppe o andare al Tempio di Gerusalemme, vivere cioè in molteplici luoghi, come molteplice invece poteva essere il desiderio dell’anima sua di soccorrere tutti coloro che potevano avere bisogno di lei. Così anche Gesù. Non appare nel Vangelo che nella sua vita mortale abbia voluto usare del dono di una bilocazione, ad esempio: anche lui se era a Betlemme non era a Nazaret, se era a Gerusalemme non era in Samaria. Condizionata come noi, Maria non poteva vivere che in un solo luogo, non poteva vivere che un solo atto di amore.

Non così dopo la sua glorificazione. Come il Cristo dopo la sua risurrezione gloriosa si fa presente ad ogni anima, si unisce a ciascuno di noi e vive in ognuno di noi “Dimorate in me ed io in voi”, dice Gesù, così la Vergine; ella è là dove ama, ella è dunque in un continuo visitare ciascuno di noi, nella sua carità. Non è soltanto una presenza di ricordo, non è soltanto una presenza spirituale come potrebbe essere la presenza, in noi, del nostro affetto e del nostro amore per tutti coloro che amiamo. Non è così, è una presenza reale; la Vergine non è più condizionata né dal tempo né dallo spazio. Ella vive soltanto la pienezza di un amore, che rende possibile alla sua natura di donna glorificata di vivere con ciascuno di coloro che ama, di vivere venendo a ciascuno che ama. Perché la visita di Maria Santissima, non più legata ai luoghi, ma legata alle anime, viene a ciascuna anima che particolarmente è disposta ad accoglierla.

 

Una fede che apre gli occhi e il cuore

 

È vero che ella viene, ma è anche vero che noi dobbiamo aprirle le porte, e si aprono le porte della nostra anima alla Vergine, nella misura di una nostra fede semplice, pura, viva.

Crediamo davvero che Maria Santissima è qui con noi? Crediamo davvero che Maria Santissima vuole venire, e ci chiede di aprire la porta del cuore perché possa vivere con noi questi giorni, possa aiutarci a rispondere a Dio, anzi più ancora: aiutarci ad ascoltare la sua parola? È la visita di Maria santissima a santa Elisabetta che portò a Giovanni Battista Gesù; è la visita di Maria santissima a santa Elisabetta che portò anche ad Elisabetta Gesù, perché anche Elisabetta sentì che con la Vergine veniva a lei anche il Figlio di Dio.

La prima cosa dunque che si impone entrando in questo Ritiro è che nella fede noi prendiamo coscienza di questo mistero.

Certo: dobbiamo essere buoni, dobbiamo essere santi, ma è secondario tutto questo, è molto secondario. Primario nel cristianesimo è l’atto di fede che accoglie un Dio che si comunica in Cristo ad ogni uomo. E Cristo viene a noi, mediante la maternità verginale di Maria. Primario è vivere il mistero; è nel vivere il mistero di questa presenza che noi saremo anche buoni e santi. La santità sarà una conseguenza naturale di un incontro reale con la Vergine pura, con il suo Figlio divino.

S’impone dunque per prima cosa una fede vera, umile, semplice e pura che ci apra gli occhi e faccia esclamare anche a noi quello che Elisabetta esclamò: «A che debbo che la Madre di Dio, la Madre del mio Signore venga a me?».

La Vergine viene! La visita di Maria Santissima a noi non è meno vera dell’incontro che ella ha vissuto con Melania Calvat e con Massimino sul monte della Salette o con Bernardetta alla grotta di Massabielle. Non è meno vera, anche se i nostri occhi non la vedono. E noi non la vediamo, non perché lei voglia rimanere invisibile, ma perché i nostri occhi non possono captare la sua luce. Siamo come le civette, diceva san Giovanni della Croce, che ci vedono di notte e di giorno non possono vedere; perché la luce della divina Presenza, la luce della gloria di Dio, la luce della Presenza del Cristo, la luce anche della gloria della Vergine, sono tali che i nostri occhi rimangono come accecati, non vedono più. Noi non possiamo vedere per eccesso di luce, ma ella è qui, ella viene, porta a ciascuno Gesù.

Come saranno belli questi giorni di ritiro se noi li vivremo con lei, se li vivremo con lui! Non vi sembra? Non si tratta di viverli soltanto insieme tra noi; si tratta di vivere qualche cosa di più grande, qualche cosa di immensamente più bello: la nostra comunione con la Vergine pura. Non si tratta di imparare da lei come si vive, il modello si può avere anche attraverso la lettura o la meditazione di quello che ella ha vissuto, e voi lo conoscete. Ma è più bello vivere nella presenza pura di chi si ama piuttosto che ricevere e leggere una cartolina che ci viene da lontano. Ella è qui! Dobbiamo saperlo, ella è qui!

Non c’è luogo dove ella non sia, se in ogni luogo vi è un’anima che ella ama. Finché era sulla terra, condizionata dalla sua natura umana, non poteva essere nello stesso tempo ad Ain-Karem dove era Elisabetta, e a Nazaret dove era Giuseppe, non poteva essere nello stesso tempo a Betlemme e a Gerusalemme; ma ora è là dove ama, ed ella ama ogni suo figlio. Potete voi dubitare che Maria Santissima vi ami? Voi potete dubitare di amarla, ma non che ella vi ami; e forse neppure dubitate di amarla, e allora voi pensate che se lei vi ama di più di quanto voi l’amate, voglia stare lontano da voi?

Ella è con voi! Noi dobbiamo vivere questa presenza materna della Vergine. Se ella è mediatrice di ogni grazia, è perché da lei abbiamo ricevuto Gesù, e in ogni istante è dalle sue mani verginali e dal suo Cuore di Madre, che noi dobbiamo accogliere il Cristo.

 

La realtà del mistero

 

In questi giorni dobbiamo dunque vivere la realtà di questo mistero. Non si tratta di meditare su qualche virtù, si tratta piuttosto di percepire nella fede una presenza: presenza della Vergine, presenza del Cristo, presenza dello Spirito di Dio. Perché è mediante lo Spirito Santo che noi possiamo vivere la presenza stessa della Vergine e del Cristo. Infatti è mediante lo Spirito che noi siamo introdotti nel Regno di Dio. Dice il Vangelo che lo Spirito Santo è come un vento che non sai né donde venga, né dove vada. Ma noi sappiamo che lo Spirito viene da Dio e a Dio conduce. E allora ecco che lo Spirito Santo che viene da Dio vi porta a Dio, o piuttosto vi porta nella realtà di questo mondo divino che è Cristo Signore e la Vergine Santa. Perché non è più vero che la Vergine fa parte di questo mondo, non è più vero che Gesù fa parte di questo mondo; siamo noi ed è questo mondo che deve entrare in questo «nuovo mondo» che è il Cuore del Cristo, in questo <<nuovo mondo» che è il Cuore di Maria.

Vivere la realtà di questo mistero vuol dire vivere già in Paradiso. E voi vivete già da lungo tempo in Paradiso; infatti, la vita religiosa nella teologia cattolica è stata sempre ritenuta come una anticipazione della vita del cielo. Dicono che voi vivete in clausura, ma non è vero, perché una monaca che vive totalmente per Iddio vive la libertà pura di un’anima che spazia nell’immensità divina. Non è forse vero che il vostro luogo è l’immensità di Dio? Siete davvero chiuse? Sono chiusi quelli che vanno al mare e non vivono altro che la loro piccola vita. Ma la vostra anima, quale respiro non ha! Vivete in Dio e Dio è l’immenso, vivete nel Cristo e Cristo è l’Amore!

È lo Spirito Santo che vi ha condotto a vivere in questo «mondo nuovo» che è il Seno del Padre, il Cuore del Cristo e di Maria.

Ecco, durante questo ritiro non vivrete qualche cosa di nuovo in senso assoluto, ma cercherete di vivere con una consapevolezza nuova, quella che è la vostra vita di ogni giorno: vivere in Dio, vivere per Dio, vivere di Dio; e vivere per Dio, in Dio, di Dio vuol dire vivere in Cristo, per la mediazione della Maternità di Maria, e vivere in Dio, per Dio e di Dio vuol dire abbandonarsi alla potenza dello Spirito, perché lo Spirito operi in voi quello che ha operato un giorno nel seno della Vergine. E lo Spirito in Maria ha operato l’Incarnazione del Verbo! Per l’azione dello Spirito Santo deve prolungarsi in noi questo mistero, in tal modo che viva in noi Cristo, viva solo Cristo, e vivendo in noi Cristo e solo Cristo, vivremo di Dio, in Dio e per Dio come ha vissuto il Verbo incarnato nella natura umana, assunta.

 

Esperienza di comunione

 

Ecco, mie care Sorelle, quello che mi sembra debba essere questo incontro reale con Dio, per la mediazione della Vergine pura: una esperienza più intima e dolce di questa comunione di vita che, mediante la mediazione di Maria, la Madre, noi vivremo col Cristo, una comunione reale con lui, anzi con lui una sola vita. E in questa comunione anche la nostra comunione con Dio, perché il Cristo è, sì, uomo, ma l’umanità del Cristo è la via che ci conduce a Dio, ed egli è anche Dio, come dice Agostino: Via e Vita.

Per entrare in questo mistero dunque si impone prima di tutto la fede! Se noi non crediamo, tutto quello che abbiamo detto diviene soltanto parole, che possono essere belle, ma che lasciano il tempo che trovano. E d’altra parte non è la fede che realizza questo mistero, ma è la fede che ci rende partecipi di questo mistero. Perciò quanto più pura e grande sarà la fede nella presenza del Cristo, nella presenza della Vergine, tanto più grande sarà l’esperienza di questa realtà nella quale Dio ci introduce.

Noi dobbiamo, in una fede pura, credere veramente che la Vergine è qui; ma noi lo dobbiamo vivere realmente questo incontro con lei, dobbiamo sentirla, riconoscerla come mamma, perché noi siamo tutti suoi figli, dobbiamo sentirei abbracciati da questa tenerezza di amore, dobbiamo sentirci invasi dalla dolcezza della sua carità.

Si diceva all’inizio di questa introduzione che Maria Santissima è continuamente in visita verso ciascuno di noi. La visita a santa Elisabetta l’ha fatta una volta sola, ma a ciascuno di voi Maria santissima è venuta in visita innumerevoli volte nella sua vita e anche stasera. Apriamo gli occhi della fede per vederne il volto, per ascoltarne la parola. Sia lei in questi giorni a parlarvi, e sarà lei che vi disporrà sempre di più non solo ad accogliere Cristo, ma ad accoglierlo in modo tale da divenire una sola cosa con lui, un solo corpo con lui, perché siete le sue spose.

Che ella vi insegni anche come ci si abbandona allo Spirito, perché soltanto nell’abbandono allo Spirito Santo si compie il mistero di questo prolungamento dell’Incarnazione che è la vita cristiana, di questo prolungamento di Incarnazione divina, che è il mistero stesso della Chiesa e della santità di ciascuno.

 

Una triplice presenza

 

Questa realtà del mistero implica una triplice presenza: presenza della Vergine, per la presenza della Vergine la presenza dello Spirito cui vi abbandonate, e per l’abbandono allo Spirito Santo la presenza stessa del Cristo, che vi prende e vi possiede come uno sposo la sposa, perché diveniate con lui un solo corpo, perché possiate vivere con lui una medesima vita, e possiate dire con l’apostolo Paolo: «Vivo io, ma non sono più io che vivo, il Cristo vive in me».

Non è questo già il Paradiso? Sì, il Paradiso non è nulla di più; noi viviamo questo nella fede, lo vivremo domani nella visione, quando i nostri occhi saranno capaci di vedere quello che oggi noi crediamo. Ma la realtà rimane la stessa, è comunione dolcissima con la Vergine pura, è abbandono totale di noi allo Spirito di Dio, è amore infinito del Cristo, che ci assume per divenire con noi un solo corpo vivo: questo è il Paradiso! Allora noi lo vedremo Dio, lo vedremo con gli occhi stessi del Verbo, perché divenuti una sola cosa con lui; una sarà la vita del Cristo con l’anima, una la lode del Cristo e dell’anima al Padre celeste. Lo facciamo già qui, perché ogni tempo per l’anima veramente fedele si apre nell’eternità di Dio, ogni luogo per l’anima veramente fedele si apre alla divina immensità. Ogni tempo e ogni luogo è per noi il segno e il sacramento che fa presente la realtà di questo mirabile mistero, il mistero di un amore infinito che si comunica al mondo, del Cristo e dello Spirito di Dio.

Ma questo mistero di comunione divina, di comunicazione divina, indubbiamente esige la presenza della Vergine, perché è la Vergine che ha creduto e deve insegnare anche a noi come si crede. Ricordate quello che dice Elisabetta alla Vergine, proprio quando la Vergine va a visitarla? «Beata tu che hai creduto, perché si compiranno in te tutte le cose che ti ha detto il Signore». Se dunque dobbiamo vivere questa comunione con Dio e con lo Spirito, noi vivremo questa comunione se parteciperemo alla fede stessa della Vergine, che ha creduto alla parola dell’Angelo. Che anche voi, possiate credere come Maria. Ecco perché Maria si fa presente, per donarvi e per parteciparvi qualche cosa della sua fede, e per vivere della medesima unione di amore. Fede, ma fede pura, fede semplice; ed è la fede che anche renderà possibile a voi, nella comunione della vostra anima con Cristo, di vivere l’amore stesso di Maria, la purezza di Maria, la semplicità di Maria, l’umiltà della Vergine pura.

 

I frutti di questa presenza

 

Si diceva all’inizio che le virtù sono secondarie; non perché siano meno importanti, ma perché vengono in seconda luogo, sono il frutto soltanto di una vita di amore e di fede. Prima dobbiamo vivere la realtà del mistero: nella misura in cui vivremo la realtà del mistero noi parteciperemo di quelle virtù che hanno distinto la vita della Vergine; allora vivremo la sua semplicità, e vivendo la semplicità sparisce la molteplicità di tutte le cose. Non è la stessa cosa essere in portineria o essere sacre stana? Non è la stessa cosa vivere in una cella piuttosto che in un’altra? Non è la stessa cosa essere la superiora o essere l’ultima della casa? È la stessa cosa perché l’amore di Dio rende tutto uguale.

Se si vive la comunione con Dio, c’è poca differenza tra essere Papa o essere spazzino. Che aggiunge essere Papa a quello che sono, se Dio vive in me? Ogni missione che io ricevo nella Chiesa, ogni grandezza umana, piuttosto che aggiungermi mi toglie qualcosa, perché mi dà l’impressione che quella sia la vera grandezza, mentre la vera grandezza è questa fede per accogliere il dono di Dio, questa semplicità dell’anima che vive l’unica cosa necessaria, la divina Presenza.

Ma si vivrà con la Vergine anche la sua purezza, e tutta l’anima nostra sarà data a lui solo; non soltanto una verginità fisica, ma una verginità anche spirituale che rifiuta ogni pensiero, ricordo e affetto che non sia per lui; tutto l’essere nostro si consuma in un atto di amore che ci unisce al nostro Sposo divino. E non solo la purezza, non solo la semplicità, ma anche l’umiltà; infatti, vivendo nella luce divina, avviene quello che avviene quando a mezzogiorno si vogliono guardare le stelle, e non si vedono più. E così io nella luce di Dio non mi vedo più, ho perso me stesso, non sono più nulla: egli solo è, lui solo l’Amato!

Non è questa la vera umiltà, l’oblio di noi stessi fino in fondo, fino a non saper più nulla di noi, nascosti, anzi cancellati dalla luce divina? Come dovremmo vivere le virtù di Maria! Vivremo le virtù di Maria se vivremo la nostra unione con Cristo, se vivremo il nostro abbandono allo Spirito, se impareremo dalla Vergine come si crede e come si ama.

Tutto qui; è tutto qui, ed è il Paradiso! Che il Signore ce lo faccia vivere oggi, e domani, e sempre; sia la nostra vita un crescere di questa luce, e sia la nostra vita un crescere della nostra fede, per accogliere sempre più la Vergine che viene, lo Spirito che ci investe, il Cristo che ci afferra e ci possiede. Sia questo il nostro cammino nella vita presente.

 

2.

LA MATERNITÀ DI MARIA E LA NOSTRA MATERNITÀ

 

(Omelia nella Messa in onore di Nostra Signora della Guardia Prima Lettura: Sir 24,1 – 2.5 – 7.12 – 16; Vangelo: Le 1,39 – 47)

 

Ci piace stamane meditare la prima lettura. Perché questa lettura è stata assegnata a una festa della Vergine? Il Siracide non parla forse della sapienza di Dio? Non è applicabile letteralmente il testo soprattutto al Verbo di Dio? Certo, ma il Verbo di Dio in quanto si incarna getta le sue radici in un terreno propizio, in una città che egli sceglie. Ora nella officiatura della Madonna noi vediamo che la Santa Chiesa sempre applica a Maria i salmi della santa città di Gerusalemme, della terra di Israele.

 

Essa è la terra da cui Dio ha tratto il nuovo Adamo, Gesù; essa è la santa città in cui dimorano i figli di Dio, secondo il salmo sulle fondamenta di Sion. Dunque giustamente la liturgia della Chiesa applica il testo anche alla Vergine, oltre che al Verbo Incarnato, perché il Verbo si incarna in lei, perché la Sapienza divina in lei prende carne e sangue per farsi presente nel mondo.

 

Dunque possiamo dire che la prima lettura praticamente ci parla della maternità di Maria, di quella maternità per la quale il Verbo di Dio, come si è detto, trasse da lei la carne e il sangue, dimorò nel suo seno, pose le radici e nell’anima sua germinò.

 

 

La nostra maternità

 

Questo testo, se si applica direttamente alla Vergine, indirettamente si applica ad ogni anima. Se Maria santissima è la Madre di Dio, questo non toglie che ciascuna anima sia partecipe di una divina maternità. È uno dei temi fondamentali della spiritualità cristiana, questa partecipazione alla maternità di Maria. In noi tutti il Cristo deve nascere, in noi tutti deve crescere e da noi tutti deve essere in qualche modo partorito e donato al mondo; e noi tutti dobbiamo imparare dalla lettura che abbiamo ascoltato stamane quello che importa questa maternità divina.

Che cosa dobbiamo vivere, perché possiamo partecipare a questo mistero? Certo, prima di tutto si impone la scelta di Dio. È Dio che sceglie, è Dio che elegge; fin dall’eternità ha eletto la Vergine pura per essere concepito nel suo seno e nascere da lei, ma l’elezione di ciascuno di noi non è meno vera della elezione di Maria. Certo, l’elezione di Maria è singolarissima, ma ciò non toglie che Dio ami anche noi, che abbia scelto anche noi fin dall’eternità. Una vocazione divina ci ha fatto suoi figli fin dalla nascita, e una volta battezzati, e una volta fatti figli di Dio, crescendo abbiamo ascoltato la sua Parola che ci invitava a una particolarissima unione con lui, ci invitava a vivere più intensamente la nostra vocazione cristiana chiamandoci alla divina intimità.

 

L’ascolto della Parola

 

È ben questo che inizia una divina maternità: l’ascolto della Parola. Perché che cosa è la Parola di Dio, secondo il Vangelo? «Semen est Verbum Dei», la Parola di Dio è «seme» che deve essere concepito nel cuore dell’uomo. La Parola di Dio non è vana, ma è il seme in cui si contiene la vita, e che attende soltanto di essere seminato in un terreno fertile e buono, perché possa attecchire, germinare e nascere.

Che cosa dice la Sacra Scrittura della vita spirituale della Vergine? San Luca lo ripete due volte: ella accoglie la Parola e la va meditando nell’intimo del suo spirito. Anche voi avete accolto la Parola di Dio. Avete ascoltato Dio che vi chiamava, avete ascoltato la Parola nel vostro cuore, avete risposto a questa Parola di Dio. Perché possiate, come Maria, essere partecipi a una divina maternità, si impone per voi di fare quello che ha fatto la Vergine: ascoltare la Parola, accogliere la Parola nel cuore, custodirla gelosamente nell’intimo. È la Parola stessa che in sé è efficace di vita, non siete voi a dare la vita alla Parola di Dio, ma siete voi che potete impedire questa vita così come un terreno non fertile, come un terreno non lavorato, come un terreno sassoso, come un terreno in cui germinano innumerevoli altri semi, che possono impedire il germinare, l’attecchire, il crescere di questa Parola in voi.

S’impone dunque, prima di tutto, che la vostra anima rimanga sgombra di ogni altra parola, si offra a Dio in purezza di amore, e si offra a Dio senza altro desiderio, altra volontà che quella di offrirsi alla efficacia di questa divina Parola. Allora la Parola di Dio in voi prenderà carne e si prolungherà in voi l’incarnazione del Verbo, non nel senso che si rinnovi l’Incarnazione – il mistero dell’Incarnazione è uno solo -, ma questo mistero coinvolgerà anche la vostra anima, così come coinvolge la vostra anima il mistero della divina maternità.

Il Cristo non sarà più soltanto il Figlio di Maria, sarà il figlio di tutta la terra, sarà il figlio di ogni anima che avrà accolto in sé la Parola. Mie care Sorelle, la grandezza della donna, la perfezione della donna è di essere sposa e madre. Voi non avete rinunciato né all’unione nuziale, né alla maternità; sarebbe una mutilazione della grandezza e della dignità della donna, e nemmeno Dio può chiedere tale mutilazione; può chiedere invece soprattutto un espandersi, un dilatarsi di questa stessa grandezza. Questa grandezza e questa dignità in voi non sarà una maternità umana, sarà l’unione nuziale con il Verbo, perché da voi nasca il Verbo medesimo, come vostro figlio.

 

Spose e madri

 

Voi dovete essere spose e madri: spose del Verbo, e madri del Cristo. Dovete essere madri, non solo nei riguardi di Gesù, Figlio di Dio, ma nei riguardi anche della Chiesa intera, perché il Cristo non è soltanto Gesù Figlio di Maria, è tutto il mistico corpo che egli unisce a sé, nell’unione di tutti i figli di Dio.

Non so se avete notato che nella Liturgia la Chiesa contempla il suo mistero non tanto negli apostoli o nei pastori della Chiesa, quanto nelle vergini e martiri nei primi secoli. È tipo della Chiesa intera la Vergine santa, è tipo delle Chiese locali, molto spesso, una beata o una santa: Lucia per Siracusa, Agata per Catania, Agnese per Roma, Blandina per Lione. Comunque è certo che la Chiesa si riconosce soprattutto nell’anima sposa e nell’anima madre, madre per una sua missione di maternità, nei confronti dei figli di Dio. Perché è vero che il Pastore della Chiesa deve guidare il gregge ai pascoli eterni, ma è vero che vi è una missione più segreta, e non per questo meno efficace, della donna che è madre.

La madre sta in casa, ma è lei che dona la vita; la madre non vive una vita pubblica come il Pastore di una Diocesi, ma è lei che ottiene e dona la vita ai suoi figli. Ed è per questo che in ogni Diocesi come è importante l’Episcopio così è importante il Monastero. Nella Curia Vescovile e nell’Episcopio sta il Pastore che guida, nel Monastero sta l’anima verginale, che non solo ottiene per sé che il Cristo viva nell’anima sua, ma ottiene per tutta quanta la Chiesa una fecondità che da lei soltanto può derivare, da lei in quanto è la Sposa del Cristo, da lei in quanto nell’unione col Cristo deve generare i figli di Dio.

Voi celebrate oggi la festa di Maria. La celebrate non solo perché è la vostra Madre, ma perché è il modello della vostra medesima vita, perché dovete contemplare in lei il vostro stesso mistero, perché noi tutti siamo partecipi della grazia cui ella è stata chiamata. Certo, in lei questa grazia è piena, in lei questa è la grazia di una maternità che si estende a tutta la Chiesa: ella è Madre di tutta la Chiesa.

Ma anche voi dovete essere in qualche modo partecipi di questa divina maternità. Pensate a Teresa di Gesù Bambino; è vissuta nel monastero, nascosta agli occhi degli uomini, è vissuta pochi anni e la sua pura maternità si estende a tutte le Missioni. Pensate alle vostre Sante; esse esercitano su tutta la Chiesa una missione di grazia per la quale, in qualche misura, la vita delle anime dipende dalla loro preghiera e dalla loro carità.

Come dunque vivere questa maternità divina? Si tratta di sgombrare il terreno perché la vostra anima accolga soltanto la Parola di Dio. Non avete bisogno di altre parole, solo la Parola di Dio viva in voi. Questa Parola ha tale potere da trarre a sé tutta la vostra vita, tutto l’essere vostro; ha bisogno, per nutrirsi e vivere in voi, di tutto quello che siete, di ogni vostro pensiero, di ogni vostro affetto, di ogni vostro sentimento. Non vi può essere sentimento, pensiero, non vi può essere affetto di cui egli non voglia nutrirsi: tutto dovete riservare a lui. Ecco l’esigenza viva di una divina maternità, che vi fa in qualche misura partecipi del privilegio stesso della Vergine pura: riservare a Dio tutta la vostra forza, riservare a Dio ogni vostro amore, ogni vostro pensiero. Tutto quello che sottraete a Dio, lo sottraete all’amore! Tutto quello che sottraete a Dio vi fa in qualche misura colpevoli di adulterio, rende impossibile in voi una divina maternità.

 

I santi sono necessari

 

Il Verbo di Dio, una volta asceso al cielo, si è reso invisibile al mondo; una volta asceso al cielo non opera più nella sua umanità, nella storia del mondo, e tuttavia il mondo ha necessità di vederlo, ha necessità di essere in qualche modo raggiunto dalla sua azione, dalla sua morte. Egli può essere reso visibile, egli può ancora operare attraverso di voi se in voi egli vivrà.

Ecco la necessità dei Santi. Il Santo non dice se stesso, dice Gesù; non è altro che una immagine vera del Cristo, non è altro che una presenza viva di Cristo Signore. Presenza viva, in cui egli si rende visibile al mondo, presenza viva in cui egli è operante ancora nella storia degli uomini. Se voi non dite Gesù, voi avete mancato alla vostra vocazione divina. Se voi non dite Gesù, voi non avete adempiuto quello che il Signore si aspettava da voi. Se attraverso la vostra vita non vivrà il Cristo, per le anime che a voi si avvicinano, voi non avrete vissuto fino in fondo quello che Dio vi chiedeva, perché Dio chiede a voi quello che ha chiesto a Maria: «Ecco, concepirai nel tuo seno, e darai al mondo un Figlio, e lo chiamerai Gesù».

Questa medesima parola è stata rivolta oggi a voi, e che cosa aspetta da voi il Signore se non il puro abbandono della Vergine all’azione della Spirito, perché in voi si compia la divina volontà? Fiat, ecco l’unica parola dell’anima: «Si faccia di me … ». La parola di Maria è un verbo al passivo, non dice: «Farò» … Che cosa possiamo fare noi nei confronti di quella vocazione divina a cui Dio ci ha chiamato? Troppo grande è quello che Dio ci chiede. L’unica cosa è il puro abbandono all’onnipotenza dello Spirito di Dio, perché in voi si prolunghi il mistero di questa Incarnazione divina, e voi siate oggi nel mondo sacramento vivo di Cristo, presenza vera e viva di Cristo Signore, perché questo è il mistero di una divina maternità.

Come il mistero della paternità di Dio: il Padre genera il Verbo, lo genera nel suo seno; così il Verbo divino è concepito e si incarna in voi, ma non viene partorito come qualcosa di distinto da voi, diviso da voi, voi dovete essere lui. Ascolto della divina Parola, umile custodia di questa Parola divina nel cuore, abbandono di noi stessi alla forza di questa Parola, tutto qui. Dio non ci chiede altro.

La vita cristiana, come vedete, è una cosa ben semplice; difficile perché noi siamo dispersi, difficile perché noi siamo superficiali, difficile sì, ma non complicata; è un atto di amore che sempre più ci stacca da noi stessi per donarci a lui, per essere posseduti da lui, perché egli possa fare di noi secondo la sua volontà, come dice la Vergine all’Angelo: si faccia di me secondo la tua volontà, secondo la forza della tua Parola, secondo la onnipotenza della tua Parola, secondo l’universalità di questa Parola.

 

Abbandonarci alla potenza di Dio

 

Quale misura può avere in noi la Parola di Dio se non la misura della nostra fede? In sé la Parola di Dio ha l’immensità stessa di Dio, ha l’onnipotenza stessa di Dio, ma siamo noi a dare una misura a questa Parola secondo la nostra fede. Ecco perché Elisabetta può dire alla Vergine: «Beata, tu che hai creduto, perché si compirà in te tutto quello che ti ha detto il Signore». E voi, mie care Sorelle, avete fede? Sì certo, una qualche fede l’avete; ma avete una fede grande, come è grande il dono che Dio vuole fare di sé alla vostra anima? Nessuno di noi ce l’ha! Perché? Perché il dono di Dio supera sempre la possibilità umana di aprirsi ad accoglierlo. Dio è l’infinito, Dio è l’immenso, e la creatura non potrà mai aprirsi tanto da accogliere l’immensità divina, così come essa è.

Tuttavia se non possiamo dilatarci nella misura di Dio, possiamo però crescere ogni giorno più nella fede. Ed ecco quello che si impone nella vita spirituale; il progresso dell’anima nella vita spirituale è il progresso della fede, come dice san Paolo nella Lettera ai Romani: «Ex fide in fidem». Tutto qui è il progresso, da una fede imperfetta a una fede più perfetta, ogni giorno più perfetta.

Voi tutte forse avete rinunziato ad essere sante come Margherita Maria, ad essere sante come Giovanna Francesca Frémyot di Chantal, ad essere sante come Francesco di Sales. Se avete rinunziato, non va bene, non potete rinunziare a nessuna santità. Forse non sarete sante come san Francesco, ma quello che si impone è che voi, cominciando il vostro cammino verso Dio, non poniate una misura al vostro crescere in lui. Voi dovete andare oltre, oltre ogni santo, oltre ogni coro degli Angeli, dovete salire fino al Trono dell’Altissimo, dovete divenire veramente le Spose del Verbo, dovete divenire veramente come la Madre; e della Madre di Dio è detto che è esaltata al di sopra del coro degli Angeli. Il nostro cammino tende a trascendere ogni limite, ogni misura. Forse poi, come ho detto prima, non raggiungeremo neppure la santità di quelli che oggi veneriamo quaggiù sulla terra, ma questo non è di per sé un motivo per rinunciare fin da oggi ad essere santi, come i più grandi santi della Chiesa, ad essere santi anche più dei santi canonizzati.

Non possiamo rinunziarvi, farà Dio. Se abbiamo questa fede, non è per presunzione e orgoglio, non è per ambizione umana, ma perché sentiamo nel cuore l’esigenza di un Dio che ci impedisce di dare una misura del suo crescere in noi. Non è per noi che vogliamo la santità, è per lui che vuole vivere in noi, perché nella misura in cui poniamo una misura alla nostra santità, in qualche modo contristiamo lo Spirito di Dio, soffochiamo lo Spirito di Dio in noi, lo costringiamo nelle nostre misure umane, lui che è l’infinito.

La Vergine, ecco il modello della vita dell’anima consacrata che sta in ascolto di Dio; che custodisce in un raccoglimento profondo la Parola che ha ascoltato e che si abbandona totalmente a questa Parola. È difficile l’ascolto perché la nostra anima troppo spesso è in ascolto di altre parole; non vogliamo ascoltare soltanto il Signore. Ma se difficile è l’ascolto, più difficile è custodire nel cuore questa Parola. Ci sembra di impoverire la nostra vita nel custodire soltanto quella Parola che abbiamo ascoltato.

Anche Eva, anche Adamo in un primo tempo ascoltarono la Parola di Dio, ma poi Eva ascoltò anche la parola del serpente. E noi dobbiamo mantenerci aperti soltanto alla divina Parola, per custodire questa sola Parola. Difficilissimo però, più difficile di qualsiasi altra cosa è questo abbandono puro nelle mani di Dio; un abbandono che esige una fede assoluta; una fede assoluta nei momenti di stanchezza, una fede assoluta nei momenti di aridità, una fede assoluta nelle tenebre, nella desolazione dello spirito, nel vuoto interiore, un abbandono totale alla onnipotenza divina. Credere sempre all’amore, credere anche quando tutto ci sembra vuoto, anche quando tutto ci sembra irreale, abbandonarci all’amore di Dio, non dubitare mai di Dio.

Spesso noi adattiamo Dio alla nostra anima, piuttosto che adattare la nostra anima a Dio, spesso noi adattiamo Dio, costringiamo Dio negli stretti confini della nostra piccola anima, della nostra piccola volontà, dei nostri desideri, ambizioni anche; ma tutte le ambizioni dell’uomo sono nulla, in paragone di quello che Dio vuole fare di un’anima che in lui si abbandona.

Certo, si paga la grandezza a cui egli ci chiama, come l’ha pagata la Vergine. Esaltata sopra tutti i cori degli Angeli, ella ha vissuto sulla terra una vita di nascondimento, di povertà, di martirio. Certo si paga, ma la vita di povertà, di nascondimento, di martirio non ha impedito alla Vergine di credere e di abbandonarsi totalmente all’amore. Così anche voi, se vivete una vita povera e umile, se vivete anche una vita di desolazione interiore, di aridità e di vuoto, tutto questo non vi impedisce di abbandonarvi, con un abbandono totale, a un amore che rimane onnipotente, che rimane infinito ed ha per termine voi, perché ciascuno di noi è amato da Dio, come se fosse unico per il suo amore infinito.

Abbandonatevi a Dio, di questo abbandono umile e pieno; non dubitate di Dio, ma tanto più cresca in voi la fede nell’amore divino quanto più Dio vi sottopone alle prove perché la vostra fede sia pura.

 

Le consolazioni di Dio

 

È facile credere quando Dio ci dà le sue consolazioni, ma questa fede che è facile, è una fede impura, perché noi crediamo che l’amore di Dio abbia un suo corrispettivo, una sua prova, una sua misura nelle consolazioni che egli ci dà. Quanto è più bello che Dio ci privi di ogni consolazione, perché allora la nostra fede può maggiormente adattarsi a Dio di quando egli ci dà le consolazioni. Quasi fatalmente noi adattiamo Dio alle consolazioni che riceviamo, e lo rendiamo abbastanza meschino, infatti, le consolazioni che Dio può darci su questa terra sono un nulla, paragonate alla gloria che egli ci riserva nel cielo. E proprio perché sono nulla non solo le tribolazioni, ma anche le gioie, dobbiamo saper rinunciare a queste consolazioni; chiederle soltanto nella misura nella quale ci sono necessarie per la povertà della nostra anima, convinti che è infinitamente più grande il peso di gloria che ci attende domani.

Viviamo questo mistero di una divina maternità come l’ha vissuto Maria, nell’umiltà, nella semplicità di una vita nascosta; viviamo la grandezza di questo mistero anche nella tribolazione di una vita che forse non conosce le gioie che hanno conosciuto altre anime. Facciamo credito a Dio anche nei momenti più duri della nostra esistenza; facciamo credito a Dio, egli ci ama. Non dubitiamo del suo amore, non dubitiamo della sua presenza, non dubitiamo della vocazione che egli ci ha dato alla santità. Lasciamoci possedere da lui, perché in noi viva lui solo. «In te ho posto le mie radici», dice la Sapienza nel libro del Siracide, come abbiamo ascoltato stamane.

Che in noi davvero getti le sue radici profonde, e nessuno possa più svellere questo albero della divina Sapienza che di noi si nutre, per vivere in noi. E non si tratta soltanto di un crescere del Cristo in noi; la Sapienza ha posto la sua dimora nella Santa Città, ognuna di voi è anche la santa città. San Pier Damiani dice che la Chiesa è una in tutti, ma è anche tutta in ciascuno. Perché voi, che dovete partecipare alla maternità di Maria, non dovete in qualche modo essere responsabili di questa Diocesi, di questa città, che Dio vi ha affidato? Ognuna di voi è la città, come Maria è la Città nella quale tutti nascono; ognuna dirà: sono nata in essa, ricordate il Salmo? Che tutte le anime possano dire di essere nate in voi, di ricevere la vita per la vostra preghiera, per il vostro sacrificio, per la vostra umiltà.

 

Responsabilità

 

È ben grande la vostra responsabilità davanti al Signore, grande come la dignità a cui Dio vi ha chiamate.

Non importa se il mondo non vi conosce. È così di fatto che Dio opera, così non altrimenti; solo quando il Cristo apparirà; apparirà anche la vostra grandezza, solo allora. Ora d6\!de vivere questa grandezza nel sacrificio, nella semplicità,e nell’umiltà, nel nascondimento più fondo, come Maria. Chi la conobbe fin tanto che visse quaggiù sulla terra? Ma ella è creazione nuova, che in sé tutti ci aduna perché tutti siamo nel suo seno, perché tutti siamo nel suo cuore.

E così tutti devono ricevere da voi la vita, che è Cristo Signore. Viviamo la partecipazione al mistero della Vergine; a questo ci chiama la nostra vita consacrata.

 

3.

IL SEGRETO DELLA SANTITA’

 

Si è detto che l’atto supremo della Vergine per divenire Madre di Dio è stato il suo abbandono allo Spirito divino; è in questo abbandono il segreto di ogni santità, perché santo è e rimane Dio solo, Dio che viene nel cuore dell’uomo, se l’uomo lo lascia vivere in sé.

Allora noi dobbiamo comprendere come il segreto della santità importi prima di tutto la presenza dello Spirito, e poi l’abbandono alla sua azione. Come si vive perché vi è in noi un primo principio semplice che ci dona la vita, l’anima, così possiamo vivere una vita soprannaturale se lo Spirito di Dio anima la nostra anima, la vivifica, ed è principio primo delle nostre operazioni soprannaturali.

Secondo il Concilio di Trento lo Spirito Santo è la causa «quasi» formale della nostra vita soprannaturale. È una espressione estremamente ardita, e la si comprende solo se noi ci ricordiamo che l’anima è considerata, dalla teologia e dalla filosofia scolastica, la forma del corpo, cioè il principio vitale che dona la vita all’uomo.

Se dunque lo Spirito Santo è la causa «quasi formale della nostra vita soprannaturale, ne viene che il principio primo delle nostre operazioni soprannaturali è lo Spirito Santo; e perché non sembri un cadere nell’eresia del panteismo, il Concilio di Trento non dice: «la causa formale», ma: la «causa quasi formale»: infatti le operazioni soprannaturali sono insieme dell’uomo e dello Spirito Santo.

San Paolo nella Lettera ai Galati (4,6) scrive: «Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del Figlio suo che grida Abbà, Padre!». Invece nella Lettera ai Romani (8,15) dice: «Avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!». Chi è che grida? È l’uomo o è lo Spirito Santo? È lo Spirito Santo, ma è anche l’uomo. Pur essendo lo Spirito Santo il principio delle nostre operazioni soprannaturali, esse sono anche nostre. Il soggetto sembra essere duplice, e ciò dice quanto lo Spirito Santo è intimo alla vita del cristiano. Sant’Agostino afferma che lo Spirito Santo è quasi l’anima della nostra anima.

 

Docilità allo Spirito Santo

 

Se dunque il segreto della santità è nell’abbandono all’azione dello Spirito, ne viene che tanto più saremo santi quanto più lasceremo che lo Spirito Santo viva in noi. Secondo l’autore principale della mistica della Compagnia di Gesù, Luigi Lallemant, la legge della santità è una sola: la docilità all’azione dello Spirito. Tanto questo è vero che san Giovanni della Croce poteva dire della Vergine: «In nostra Donna non vi fu operazione che non fosse di Spirito Santo». Queste parole fanno paura, perché in ogni ora che viviamo compiamo migliaia di atti fra esterni e interni. Pensare che nessun atto, in tutta la sua vita, non fu che di Spirito Santo, vuol dire che veramente Maria santissima viveva in Dio; la sua vita era in una pura e assoluta dipendenza dall’azione dello Spirito Santo, anche per ogni movimento intimo della sua immaginazione, del suo sentimento, della sua volontà, della sua intelligenza; in tutto viveva questa dipendenza assoluta dallo Spirito di Dio.

Dicevo che queste parole ci fanno anche paura, perché noi viviamo una vita così dispersa, così superficiale …

A me sembra più che straordinario il fatto che santa Gemma Galgani potesse dire che il suo peccato più grande era stato quello di dimenticarsi per un minuto di Dio, mentre aiutava il figlio dell’avvocato Giannini a fare un compito di matematica. Io penso che anche per voi, che pure vivete in monastero, passi qualche volta qualche minuto senza che vi sia il pensiero attuale di Dio. Se non altro la cuoca quando ‘attende al soffritto, perché non bruci, oppure una che sta alla ruota e deve ascoltare una persona che le parla di là … Ma non si tratta di stare un minuto senza pensare a Dio, si tratta invece di non vivere nessun atto interno ed esterno, se non in dipendenza dello Spirito di Dio.

Dobbiamo allora capire come è che questo Spirito vive in noi, e in che modo possiamo vivere la nostra dipendenza da lui. Prima di tutto, come è che lo Spirito vive in noi? Qui la teologia ha due soluzioni. Una soluzione, fino a poco tempo fa, la più comune, insegnava che tutta la Santissima Trinità vive in noi, ma senza che la distinzione delle Persone importasse un particolare rapporto dell’anima con ogni Persona divina. Tutto quello che si attribuisce al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo è per appropriazione, diceva la teologia fino poco tempo fa, comunemente. Oggi si preferisce dire che la Santissima Trinità abita in noi per il dono ipostatico dello Spirito Santo (non si tratta dei doni dello Spirito Santo: essi sono una conseguenza e un frutto del dono di lui stesso alla nostra anima).

 

L’inabitazione divina

 

Il mistero della Trinità noi possiamo concepirlo sia in un circolo chiuso, sia in una linea discendente. Quale è la concezione più vera? Anche qui i teologi possono essere di diversa opinione. Secondo la concezione teologica dell’Occidente, specialmente quella che deriva da sant’Agostino, il mistero della Trinità è concepibile, tanto per capirei, in un circolo chiuso. TI Padre genera il Figlio, il Padre e il Figlio come da unico principio spirano lo Spirito Santo, che è la loro unità. Secondo la concezione greca, e anche quella di san Basilio e di altri Padri dell’Oriente, che è stata riconosciuta ortodossa dalla Chiesa cattolica nel Concilio di Firenze, la Santissima Trinità può pensarsi in linea discendente. Dal Padre il Figlio, dal Padre per il Figlio lo Spirito Santo; è nello Spirito Santo che Dio si comunica al mondo. Non è che Dio debba donarsi; lo Spirito Santo viene chiamato dono -lo dice anche l’inno «Veni, Creator» -, non in quanto egli necessariamente debba donarsi; il dono è sempre gratuito, ma lo Spirito Santo è dono in quanto è donato. Se Dio si vuole donare, è nello Spirito Santo che si dona.

Naturalmente però, donandosi lo Spirito Santo, non possono non venire a noi anche il Padre e il Figlio, perché le Persone divine sono inseparabili fra loro; ma il dono è nel dono dello Spirito, è nello Spirito Santo che Dio si dona alle anime. Nel dono dello Spirito tutta la Santissima Trinità inabita, dimora nel cuore dell’uomo. Ricevere il dono dello Spirito vuol dire che noi ne diventiamo in qualche modo i possessori. Lo Spirito Santo diviene in qualche misura la nostra proprietà, noi possiamo usarne, ed egli può usare di noi. È proprio di qui che deriva la vita soprannaturale, per il fatto cioè che lo Spirito Santo, donandosi all’uomo, diviene in noi una capacità nuova di vita e di operazione.

 

Come arrivare a Dio

 

Con le potenze puramente naturali dell’intelligenza, della volontà, del sentimento, possiamo vivere una vita umana, ma né la nostra intelligenza può conoscere Dio, né la nostra volontà può veramente amarlo così da unirsi a lui, perché Dio è inaccessibile. Come è possibile per una creatura umana, e anche per gli angeli, superare l’infinita distanza che separa la creatura dal Creatore? Dio è inaccessibile, non possiamo mai arrivare a lui, né con la conoscenza né con l’amore. Dice il Concilio Vaticano che noi possiamo arrivare a conoscere che Dio è, cioè l’esistenza di Dio, ma non che cosa Dio sia, la natura di Dio. Se Dio non si rivela, noi possiamo capire che c’è un primo principio, un primo motore, una prima causa di questo mondo, ma non lo conosciamo: la conoscenza di Dio è conoscenza di fede, l’amore di Dio è dono della carità.

Le virtù teologali sono tali proprio perché non soltanto hanno per oggetto Dio, ma in qualche modo hanno come soggetto Dio. Nella fede è Dio che ci comunica la conoscenza che egli ha di se stesso, nella carità è Dio che vive nei nostri cuori. L’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani dice che la carità di Dio è stata diffusa nei nostri cuori per lo Spirito Santo che ci fu dato: senza lo Spirito Santo dunque in noi non vi è la carità. Vi può essere la filantropia, vi può essere una benevolenza verso i poveri, vi può essere anche un certo desiderio inefficace di Dio, ma non l’amore di Dio, che a lui ci unisce.

Le virtù teologali suppongono lo Spirito Santo, che agisce in noi. Dio si è donato a noi nel suo Spirito, e con questo dono le nostre potenze spirituali hanno una nuova capacità, la capacità di raggiungere Dio, di unirsi a Lui, di conoscerlo, di amarlo, di vivere per lui.

Tutta la vita del cristiano è animata da questo divino Spirito, affinché le sue operazioni possano accostare Dio, raggiungere Dio, unirlo a Dio. Dobbiamo dunque prima di tutto comprendere che senza l’azione dello Spirito noi siamo totalmente avulsi a Dio, separati da lui, non solo in forza del peccato, ma in forza del fatto che siamo creature, e fra la creatura e il Creatore l’abisso è infinito. Rendiamoci conto che nemmeno gli astronauti riescono a raggiungere gli estremi confini della creazione, perché la vastità della creazione è sconfinata; chi potrebbe mai abbracciarla, chi potrebbe mai raggiungere il fine della creazione? Che presunzione stupida e assurda che la creatura possa raggiungere Dio per sé! È nello Spirito di Dio che questo è possibile.

Allora prima di tutto dobbiamo comprendere la necessità di questa presenza dello Spirito in noi. Vi è una differenza qualitativa infinita tra chi possiede la grazia e chi non la possiede, perché chi possiede la grazia possiede Dio, e Dio è infinito. Che cosa sono tutte le grandezze del mondo nei confronti di una piccola suora che vive in unione con Dio? Può aggiungere qualche cosa l’essere Presidente della Repubblica Italiana? Sono sciocchezze tutte le grandezze umane, sono pure sciocchezze nei confronti di questa grandezza: Dio è in me, egli vive in me e io vivo in lui!

Si tratta di crederlo davvero, questo, per viverlo: Dio vive in noi! E la presenza di Dio in noi imprime nelle nostre potenze spirituali una capacità nuova, la capacità della fede, la capacità dell’amore, la capacità della pura speranza, le virtù teologali.

Si parlava stamane della semplicità, ieri della purezza, si può parlare dell’umiltà, tutte queste virtù morali non sono che espressioni delle virtù teologali, perché in fondo non si vive la fede se non si vive l’umiltà, non si vive l’amore di Dio se non si vive la purezza del cuore; sono frutto ed espressioni della nostra vita teologale, della nostra unione con Dio.

 

Capire il dono di Dio

 

La prima cosa dunque che dobbiamo cercare di comprendere è questo magnifico dono che Dio ci ha fatto di se stesso. Se Dio è in noi, e noi siamo in lui, siamo già in Paradiso. Importa poco che siamo nella luce o nelle tenebre, non cambia nulla essenzialmente. Siamo gli stessi sia che viviamo nella fede e sia che viviamo nella visione, perché Dio è con noi e noi siamo con lui.

Sì, siamo già in Paradiso; se ancora non possiamo vivere pienamente la luce di questa visione, non per questo il nostro stato è diverso. Siamo compagni degli angeli, siamo amici dei santi, viviamo con loro. La vita spirituale altro non è che una anticipazione nella fede della vita beata, perché la vita beata è il possesso di Dio e noi già lo possediamo: abbiamo ricevuto il dono dello Spirito. Se crediamo realmente che Dio si è donato a noi nel suo Spirito, già possediamo il cielo, nulla di meno, e quello che importa è questo, che ora possediamo Dio, proprio perché venga trasformata tutta la nostra natura, perché nella vita presente tutte le nostre operazioni divengano operazioni divine.

Il Battesimo ci dona il dono dello Spirito e col dono dello Spirito avviene che noi siamo fatti figli di Dio, riceviamo come una nuova natura, una partecipazione, dice san Pietro, alla natura divina; ma per vivere secondo questa natura divina che abbiamo ricevuto, ci vorrà tutta la vita, se basta. Per i santi è sufficiente questa vita, la maggior parte dei cristiani devono passare attraverso il Purgatorio …

Chi di noi può dire di vivere pienamente come Dio, la vita stessa di Dio? Lo Spirito Santo che vive in noi può agire in noi solo se cresciamo in Dio. Bisogna crescere, come il bambino deve crescere per camminare, deve crescere per andare a scuola, deve crescere per arrivare ad essere professore d’Università. Ugualmente per la nostra vita soprannaturale abbiamo bisogno di tutta la vita per crescere in tal modo che l’azione dello Spirito Santo operi nelle nostre potenze. Fin tanto che le nostre potenze non sono capaci di accogliere l’azione dello Spirito, lo Spirito è in noi, ma noi non viviamo la vita divina. Lo Spirito Santo vive anche in un piccolo bambino, ma il bambino non è capace di vivere secondo la sua azione; lo Spirito Santo trova in lui delle potenze inadatte alla vita divina. Bisogna crescere, e nella misura in cui cresciamo lo Spirito agisce.

Quanto più l’anima nostra cresce non solo nella vita umana sul piano della intelligenza, ma sul piano della volontà, cioè delle virtù morali, tanto più acquista malleabilità e docilità all’azione dello Spirito. Per questo il cammino per giungere alla santità non è soltanto la docilità allo Spirito Santo. Lallemant diceva che, sì, la legge della santità è la docilità allo Spirito Santo, ma per essere docili allo Spirito Santo bisogna purificare il nostro cuore.

 

La purificazione del cuore

 

C’è dunque la necessità non soltanto di crescere nell’età per essere docili allo Spirito, ma anche di crescere nella virtù, che implica la liberazione da tutti i pesi, una libertà da tutti i legami. Nella misura in cui l’anima si purifica diviene capace di essere docile a Dio.

Allora il cammino dell’anima verso la santità prima di tutto esige una purificazione del cuore, una purificazione delle nostre potenze, sia del sentimento, sia dell’intelligenza, sia della volontà. Nella misura in cui purificheremo le nostre potenze, esse diverranno atte ad essere spinte, portate e sollevate dallo Spirito di Dio. È la purezza totale dell’essere che dobbiamo raggiungere, se vogliamo diventare docili allo Spirito. Fintanto che non avremo acquistato questa purezza potremo vivere una certa attenzione allo Spirito, una certa docilità, ma ci muoveremo faticosamente, con grande stanchezza e con grande fatica.

Il più grande maestro della spiritualità antica, Cassiano, diceva che la purità del cuore si identifica con l’agàpe, la carità; cioè, saremo portati dallo Spirito nella misura in cui saremo purificati; perché la vita cristiana è faticosa all’inizio, ma via via che si procede diviene sempre più facile, e al termine è un purissimo volo: «Qui Spiritu Dei aguntur, ii sunt filii Dei» (Rm 8,14): sono figli di Dio quelli che sono guidati dallo Spirito Santo. È questo che dobbiamo vivere!

Ma come facciamo a riconoscere l’azione dello Spirito, per abbandonarci a lui? Questo è un problema grave per la vita spirituale, perché possiamo abbandonarci anche allo spirito del male, potremmo abbandonarci anche allo spirito naturale, al nostro spirito, piuttosto che allo Spirito Santo. Come facciamo a riconoscere lo Spirito Santo? Mediante la purificazione del cuore. Nella misura in cui non ci saremo purificati, possiamo sempre sbagliarci sull’origine di quelle mozioni che proviamo interiormente; crediamo di rispondere a Dio, di abbandonarci a Dio e invece ci abbandoniamo alla nostra natura. Non è sempre lo Spirito Santo che ci chiama a mortificarci, per esempio: può essere che sia proprio lo spirito del male che ci impone di mortificarci, per poi stancarci in questo cammino e farci rinunziare a tutti i nostri propositi per vivere la nostra vita, perché è troppo pesante quello che abbiamo intrapreso. È un problema molto grave questo, è una questione importante da affrontare, se vogliamo tendere verso il Signore.

 

I nostri peccati

 

La prima condizione necessaria per essere ben certi dell’azione dello Spirito, è che la nostra anima raggiunga una certa purezza interiore. Prima di tutto la purezza abituale dal peccato, non solo dal peccato grave, ma anche dai peccati veniali pienamente deliberati. Quello che ostacola enormemente l’azione di Dio non sono le nostre mancanze, egli sa che siamo delle povere creature, ma l’amore che abbiamo alle nostre mancanze. Diceva santa Bernardetta che a Dio non dispiacciono i nostri peccati, purché non li amiamo.

Come possono non dispiacere a nostro Signore i nostri peccati? Perché quello che dispiace a Dio è il peccato, sia pure leggero, quando è amato, quando l’anima antepone la sua volontà alla volontà del Signore. Le mancanze di pura fragilità forse il Signore le permetterà nella nostra vita fino alla morte, ed è una grande provvidenza” è una grande bontà che egli permetta le nostre mancanze, altrimenti alzeremmo subito la cresta. E invece no, ci sentiamo così poveri, così meschini anche dopo tanti anni di vita religiosa; ci fa molto bene, perché dobbiamo sapere che Santo unicamente è il Signore. Però se queste mancanze non sono volute, se non sono amate, se sono puri atti di fragilità, atti primo-primi della nostra natura, tutto questo non impedisce il nostro cammino verso il Signore. L’ostacolo fondamentale alla docilità allo Spirito Santo, all’azione dello Spirito Santo in noi, è una volontà che si rifiuta, e non dico nelle cose gravi, ma anche nelle cose leggere.

Il peccato veniale deliberato, pienamente deliberato, pienamente cosciente, questo è l’ostacolo formidabile a un avanzamento nella vita spirituale. Non vi dico che perdete la grazia, vi dico però che non avanzate fin tanto che non c’è in voi quello che san Francesco di Sales chiamava «la santità del cuore». La santità della condotta potete averla forse dieci giorni prima di morire, perché è soltanto l’espressione esterna di quello che Dio opera nell’intimo. Spesso la scorza esterna rimane un po’ rozza. Ma è bellissimo questo, è meravigliosa l’azione di Dio che lascia proprio la scorza e lavora nell’intimo; così si vive soltanto per lui e non per le consorelle, per farci da loro venerare. Lasciate pure che le Sorelle vi vedano imperfette; l’importante è che Dio lavori nella vostra anima e trasformi il vostro cuore.

È dunque questa la prima cosa che dovete vivere, la santità del cuore; questo donarvi a Dio pienamente, questa purezza di un’anima che non vuole consentire a nulla che si opponga alla volontà divina. Se possedete questa purezza, e la dovete possedere, allora si renderà in voi sensibile l’azione dello Spirito Santo.

 

Con Dio c’è tutto

 

La cosa più importante è che Dio si dona all’anima; una cosa meravigliosa! Si può desiderare di più? Diceva la beata Maria dell’Incarnazione: è ben avara quell’anima che non si contenta di Dio. Che cosa mi rimane da desiderare se Dio è tutto per me? Ricordate la preghiera di san Giovanni della Croce: miei sono i cieli, mia è la terra, mia è la Madre di Dio, miei gli angeli e i santi. .. perché Gesù è tutto mio e tutto per me, e prima di Gesù è lo Spirito Santo che mi è stato donato, Dio stesso. Non posso desiderare più nulla, non posso volere più nulla, già posseggo ogni cosa. La mia gioia è già immensa anche se vivo nella pena; è certo una gioia tutta dello spirito, perché rimane la sofferenza fisica, può rimanere anche l’angoscia interiore sul piano psicologico, ma lo spirito, almeno il vertice dello spirito, già è toccato dalla luce indefettibile di Dio: Dio è mio, è tutto per me!

Vivere questa consapevolezza, e poi capire che Dio si è dato a noi per fare di noi, del nostro corpo, del nostro essere, lo strumento delle sue operazioni. Il <<Veni, Creator» dice che lo Spirito Santo è il dito della destra dell’Altissimo: «Dextrae Dei tu digitus». Ebbene, l’uomo è come un’arpa. Avete mai sentito suonare l’arpa da sé? Bisogna che ci passi un dito, allora emette un suono meraviglioso; ognuno di noi è questa arpa su cui passa il dito di Dio. Lo Spirito Santo ci è donato perché attraverso di noi si elevi a Dio un canto di lode, un canto di amore. Il dono dello Spirito ci è dato per trasformare tutta la nostra vita in un canto di pura lode al Signore, come la vita degli angeli, come la vita dei santi. Ma perché tutto questo avvenga bisogna accordare l’arpa, bisogna acquistare la purezza di cuore.

Prima di tutto bisogna crescere, crescere anche umanamente, e non solo sul piano fisico del corpo ma sul piano morale delle virtù, liberarci dunque da tutti i vizi, purificarci da tutto quello che è impedimento e ostacolo a Dio: l’impurità del cuore, la deviazione dell’intelligenza, la deviazione della volontà; tutto deve sciogliersi, dobbiamo liberarci da ogni legame che ci impedisca di correre, di essere portati via dallo Spirito.

La purità di cuore: il cammino dell’anima per raggiungere Dio è questa purificazione. Questa è attiva, certo, ma in ordine a una passività. La nostra attività nell’esercizio delle virtù è soltanto una preparazione perché poi Dio intervenga e prenda il timone della nostra nave e ci porti. L’esercizio della nostra attività è dunque in ordine a questa purificazione, purificazione dei sentimenti, purificazione della volontà, purificazione dell’intelligenza, purificazione di tutte le nostre potenze interne; della memoria, per non vivere che la pura presenza di Dio, perché Dio non è nel passato e non è nel futuro, egli è il presente, egli è l’eterno presente.

 

Sulle ali dello Spirito

 

Per quanto riguarda l’intelligenza, bisogna che sia totalmente illuminata da Dio. Avete mai visto le stelle di giorno? Le sapete contare di giorno? Così la presenza di Dio, la luce divina, deve cancellare ogni altro pensiero: Dio solo!

E come la vostra intelligenza non deve conoscere che Dio, così la vostra volontà non deve amare che lui.

Raggiunta questa purezza, interviene lo Spirito e ci porta e ci solleva. È necessario che sia lo Spirito a sollevarci, perché per giungere al cielo bisogna volare, essere portati via dallo Spirito, che conosce una sola dimora, il Seno del Padre, in modo da ascendere al di sopra di tutti i cieli, nell’ascensione stessa del Cristo, come Maria. E si noti bene, Gesù ascende ed è attivo, è lui che ascende, invece Maria santissima non ascende, è assunta. Anch’io devo essere assunto, debbo essere portato via, devo essere totalmente abbandonato all’azione dello Spirito, perché lo Spirito mi porti con sé: «Qui Spiritu Dei aguntur ii sunt Filii Dei!».

Bisogna volare come tanti aquilotti portati sulle ali dell’Aquila Reale, che è lo Spirito Santo. È quello che cantiamo con Mosè nelle lodi del sabato della seconda settimana della Liturgia delle Ore: «Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali» (Dt 32,11).

Attente a stare ferme, perché se vi movete e volete guardare in basso, abbandonate le ali dell’aquila e precipitate giù nel fondo. Per camminare bene, per volare bene voi lo sapete quale è la legge fondamentale: quella di stare fermi; tanto più si vola quanto più si sta fermi, in Dio però, in Dio. Sono le ali dell’Aquila divina che ci sollevano a Dio, fermi in Dio; questa è la prima legge che si impone all’anima che veramente vuole ascendere fino al cielo.

Che il Signore ci doni questa purificazione del cuore, e poi questo rimanere fermi in Dio, questo abbandonarci a Dio e non riprenderci più, perché Dio ci sollevi a sé. Mi sembra che sia questa la prima condizione per vivere la nostra risposta al Signore.

 

4.

L’AZIONE DELLO SPIRITO SANTO IN NOI

 

Il discernimento degli spiriti

 

Se vogliamo capire come Dio agisce in noi, per riconoscere la sua azione, dobbiamo ricordare che lo Spirito di Dio è Creatore. Con questa parola si intende dire che l’azione dello Spirito Santo in noi ha i caratteri di una creazione, che si dilata e cresce. Quali sono i caratteri propri dell’azione dello Spirito Santo, come possiamo riconoscerli, e sapere se veramente siamo condotti dallo Spirito di Dio?

La dottrina che risponde a questa domanda è antica quanto il cristianesimo, anzi più del cristianesimo, perché si trova già negli scritti di Qumran e nel Vangelo. Dopo il Vangelo, uno degli scritti fondamentali della prima letteratura cristiana è «Il Pastore» di Erma, scritto nel 140; poi la troviamo in sant’Agostino e in tanti altri Padri della Chiesa, fino a san Bernardino da Siena, all’Imitazione di Cristo, a sant’Ignazio di Loyola e altri santi: È la «discretio spirituum», il discernimento degli spiriti.

Un grande scrittore di spiritualità cristiana del quinto secolo, Diadoco di Foticea, in un libro di cento capitoli sulla perfezione spirituale ci aiuta a capire quando e come lo Spirito Santo agisce in noi. È importantissimo, perché noi possiamo essere condotti dallo spirito del maligno anziché dallo Spirito di Dio.

Come conoscere dunque l’azione dello Spirito Santo in noi? Rispondo: lo Spirito è Creatore, l’azione dello Spirito di Dio in noi è un’azione che continua la creazione dell’uomo. Questa continuità di creazione importa una fedeltà. Noi dobbiamo dubitare delle anime instabili, delle anime che oggi vogliono essere contemplative e vivere soltanto nell’estasi, e domani vogliono invece vivere un servizio al prossimo che non le lasci più in riposo. Evidentemente qui non vi è lo Spirito di Dio.

Lo Spirito di Dio esige continuità, cioè la fedeltà ai suoi impulsi, che portano l’anima in una data direzione.

Nella vita spirituale non si può pretendere di giungere a nessuna mèta se andiamo vagando qua e là, diretti ora da una parte ora dall’altra, se ora vogliamo una cosa e ora un’altra. Per questo, in tante Congregazioni religiose è legge che non si prenda mai una persona che venga da un’altra Congregazione, da un altro Istituto. Ci possono essere casi eccezionali, lo si è visto anche nella storia della santità cristiana: persone che appartenevano a un certo Istituto e poi Dio le ha portate a fondare altre Congregazioni. Ma anche in questo caso conservano lo stesso spirito; è indubbio, per esempio, che la beata Anna Michelotti, cresciuta alla spiritualità salesiana, l’ha mantenuta nella fondazione della sua Congregazione di vita attiva. È indubbio che Luisa Margherita Claret de la Touche ha conservato la spiritualità salesiana, anche se ha fondato Betania. Dio può anche volere che escano da una Congregazione delle anime, ma per una particolare missione, che non potrebbe essere vissuta rimanendo nello stesso Istituto.

Ma la vita è una sola, e anche se voi siete venute fuori dalla vostra famiglia, non vi hanno cambiato il sangue; voi rimanete figlie di una certa famiglia con un certo tipo sanguigno, perché l’uomo non può cambiare sostanzialmente; e se non cambia sostanzialmente sul piano biologico per quanto riguarda la vita fisica, non può cambiare nemmeno spiritualmente per quanto riguarda la vita spirituale. La spiritualità è una sola. Non si può essere Carmelitana e poi diventare Salesiana, altrimenti non è né Salesiana né Carmelitana. Lo spirito è uno, quando veramente lo si possiede.

 

Unità e fedeltà

 

Vivere in dipendenza dallo Spirito Santo vuol dire perciò mantenere la propria fisionomia. Evidentemente la vita implica una continuità, una fedeltà, e vi sono delle famiglie di anime che hanno particolari caratteri. Non è detto che i santi, pur essendo tutti perfetti nella carità, si somiglino; al contrario, quanto più divieni santo, tanto più hai caratteri propri. I bambini più o meno si somigliano tutti; fanno capricci, giocano … È crescendo che le diversità si manifestano, ma queste diversità di carattere implicano una continuità nel cammino. Fin da bambino si vedono le predisposizioni; così avviene anche nella vita spirituale. La continuità!

Voi avete ricevuto una vocazione, che probabilmente affonda nella vostra puerizia, nella vostra infanzia. Certo non vivete oggi quello che vivevate trent’anni fa, se avete vissuto siete cresciute; è mai possibile arrestare la vita? Così anche nella vita spirituale, certamente se si vive si cresce; ma il crescere non vuol dire che diveniamo diversi: cresciamo in una certa direzione, perché fin da giovani avevamo una certa vocazione, non carmelitana, non benedettina; una vocazione che poi si è chiarita, per esempio alla spiritualità salesiana, che vi ha realizzate sul piano cristiano.

Continuità nel cammino, fedeltà alla stessa vocazione. Non saremo mai santi se non saremo fedeli alla prima vocazione che ci ha dato Dio, perché Dio non cambia, siamo noi che cambiamo; ma il cambiamento nostro vuol dire sottrarci alla mano di Dio. Quello che Dio ha voluto per noi fin dall’eternità, quello rimane: egli ci ha chiamati con un nome fin dall’eternità, e soltanto realizzando quel nome noi saremo santi, non altrimenti, in nessun modo. Il cammino nostro verso Dio è uno, ed è la realizzazione di quella Parola, di quel nome con cui ci ha chiamati quando ci ha creati. La nostra vocazione è la creazione medesima, che poi si compie nel tempo; ecco perché dicevo che la creazione dell’uomo è un atto continuo che dura per tutta la vita.

Fedeltà, ecco la prima esigenza dello Spirito di Dio. Siamo sicuri che non è lo Spirito di Dio che ci chiama se oggi vogliamo essere un’anima di austere mortificazioni e ci mettiamo addosso chili di ferro tra cilici, corde e catenelle, e domani vogliamo essere un’anima di fuoco predicando a tutto il popolo cristiano, e il terzo giorno vogliamo essere un’anima contemplativa che vive soltanto nelle nuvole; così non viviamo né la vita contemplativa, né la mortificazione, né l’apostolato, ma soltanto la nostra volontà, anche se questa volontà si esprime in una vita di mortificazione, o in una vita di apostolato, perché non abbiamo cercato che noi stessi, non siamo stati in ascolto di Dio.

Non c’è un essere più santi qui, un essere più santi là; la carità può assumere tutte le forme, può seguire tutte le vie, ma una cosa sola si impone all’anima che vuole avere carità: il dono totale di sé e l’abbandono totale di sé all’azione dello Spirito Santo, che porta un’anima per una via e l’altra anima per un’altra via. Non possiamo essere gelosi degli altri o invidiosi di un’altra anima che Dio chiama per un’altra strada; sarebbe un amare noi stessi, il nostro pensiero, la nostra volontà, non Dio.

La fedeltà è la prima cosa che si impone; senza la fedeltà non c’è continuità di un cammino, e senza la continuità di un cammino non c’è nemmeno un progresso.

È evidente che la strada rimane unica e si deve proseguire per quella, perché l’instabilità non viene da Dio; da Dio viene la fedeltà, non l’instabilità. Ecco il primo carattere in cui si riconosce l’azione dello Spirito Santo, se il nostro cammino è continuo; certo, siamo cresciuti, ma rimaniamo gli stessi. Come nella vita naturale si cresce, ma si rimane gli stessi, così anche nella vita spirituale: si cresce, ma sempre mantenendo lo stesso spirito; cresce in noi il possesso che lo Spirito ha di noi stessi, ma nella continuità e nella fedeltà allo stesso ideale.

 

Gioia e pace

 

Ma non si tratta soltanto di fedeltà; il crescere implica anche la dilatazione dell’anima: crescere vuol dire dilatarsi, vuol dire divenire più grandi, più grandi nel nostro spirito, più grandi nel nostro amore … e la dilatazione implica la gioia. Il freddo, diceva san Serafino di Sarov, è il segno del demonio; e san Francesco di Sales: un santo triste è un tristo santo, e san Francesco di Assisi: la tristezza è il male di Babilonia. Ecco perché il carattere proprio dell’azione dello Spirito è la dilatazione dell’anima nella gioia, una gioia pura, una gioia spirituale, se volete, ma una gioia vera, l’anima si dilata nella libertà, si sente più sciolta, più libera via via che cammina verso Dio. Non è appesantita, affaticata, non si sente prigioniera, non si sente legata; nella misura in cui risponde a Dio acquista un senso di libertà e di gioia, si dilata nell’amore.

Rispondere allo Spirito vuol dire conoscere sempre più questo crescere di vita, questo crescere di gioia, questo crescere di libertà interiore. È il secondo carattere della vita divina in noi.

Il terzo carattere è la pace: l’anima sente la pace, l’anima ha l’ansia di una perfezione sempre maggiore, tuttavia nel suo intimo vive una pace, una serenità mirabile, perché ha trovato il suo riposo, il suo fondamento: «Deus meus firmamentum meum», mio Dio fermezza mia, mia roccia su cui io ho fondato la mia vita; si sente non sospesa nel vuoto, ma sorretta dalle mani di Dio.

Avete presente quello che dice Gesù al termine del sermone della montagna. «A chi paragonerò l’uomo che compie quelle cose che vi ho detto? A un uomo che costruisce la casa sulla roccia; vennero venti e venne la tempesta e la casa non si scosse. A chi paragonerò colui che non obbedisce a queste parole? A chi costruisce sulla rena; vennero i venti e vennero le piogge e fu grande la sua rovina» (cf Mt 7,24 – 27).

Il terzo carattere dell’azione dello Spirito è precisamente il sentire che quanto più tu rispondi, tanto più la tua anima trova la pace, trova la sua stabilità, la sua fermezza, la sua sicurezza interiore; non oscilla più, ma rimane ferma, immutabile come immutabile è Dio. Sono questi i caratteri propri dell’azione dello Spirito in un’anima in quanto è creatura.

Ma questi caratteri possono anche essere i caratteri dell’orgoglio; la testardaggine può apparire come la fedeltà a un ideale, una certa facilità nella gioia può essere anche segno di leggerezza e di superficialità. E allora come riconoscere l’azione dello Spirito? Vi è un particolare segno più grande e più sicuro ancora di quelli che vi ho dato, perché dopo che l’uomo ha peccato la creazione stessa diviene ambigua. Non è il fatto del crescere nella creazione che ci assicura una vita spirituale e la santità, perché il crescere, dal momento che abbiamo deviato con il peccato dalla via che ci conduce a Dio, può portarci anche più lontani da Dio.

 

I segni dell’azione dello Spirito

 

Quale è dunque il segno più sicuro dell’azione dello Spirito? Certo, Dio è creatore, ma soprattutto è salvatore, dopo che l’uomo ha peccato; egli ci redime e ci salva, eliminando l’ambiguità del peccato, risanando la nostra natura.

E il nostro Redentore è Gesù. Per sant’Ignazio di Loyola il carattere più proprio dell’azione dello Spirito è il «sentire cum Ecclesia», sentire con la Chiesa, il vivere dei sentimenti stessi della Chiesa, inserirsi sempre più profondamente nella Chiesa. È il carattere specifico di un apostolo che lavora per la Chiesa nel ministero. Per un’anima contemplativa il medesimo carattere si concentra nell’amore per Cristo: non amare nulla al di sopra di Cristo, non amare che Cristo, non volere che lui.

È l’insegnamento che vi dà proprio la storia del vostro Ordine. Non avete tra le vostre Sorelle santa Margherita Maria Alacoque? Non ha insegnato lei quanto Gesù ci ha amato e come noi dobbiamo riamarlo? Non è precisamente questo l’insegnamento fondamentale anche del vostro Padre e Fondatore, il Dottore dell’Amore? L’amore per Cristo! Ecco quello che distingue l’azione dello Spirito; l’azione dello Spirito è quella di operare l’incarnazione del Verbo, lo dice anche il Credo: «Per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine».

Se dunque la nostra vita spirituale non può essere altro che una identificazione progressiva col Cristo, lo Spirito Santo non può vivere in noi che in quanto ci unisce a Gesù, in quanto ci porta a Gesù, in quanto rende sempre più esclusivo in noi l’amore per Cristo Signore. Ed è questo il carattere proprio dell’azione dello Spirito, da questo noi riconosciamo se siamo animati dallo Spirito del Signore, da questo noi riconosciamo se le ispirazioni che riceviamo, le mozioni interiori che riceve il nostro spirito, vengono dallo Spirito Santo, o dipendono dallo spirito naturale, o dipendono dallo spirito maligno.

Prima di tutto verifichiamo se queste mozioni implicano un crescere della nostra vita spirituale nella fedeltà, nella gioia e nella pace; e poi se questo crescere nella fedeltà, nella gioia e nella pace ci unisce sempre più a Cristo Signore, ci fa identificare sempre più a lui, e rende sempre più viva in noi la passione per Cristo e per la sua Chiesa. Questa in poche parole è la dottrina del discernimento degli spiriti.

La vita spirituale è prima di tutto rapporto di amore, e il rapporto di amore come suppone l’amante suppone l’amato: si può amare se non c’è uno da amare? Se dunque tutta la vita cristiana è amore, l’amore suppone la presenza dell’amato, del Cristo. Tutta la vostra vita implica di per sé la presenza di lui; senza questa presenza noi andiamo vagando qua e là, possiamo vivere le virtù, ma solo come esercizio di etica naturale, come esercizio di morale. No, la vita cristiana non è esercizio di moralità, è un rapporto di amore, e le virtù che esercitiamo sono espressione di questo amore per lui. Ma non sì può amarlo se lui non c’è. Perciò è necessario per noi che il Cristo sia reale, divenga sempre più reale e sempre più vivo.

 

Cristo nostra vita

 

Vivere il Cristo, sentire la realtà del Signore, vivere questa realtà, questa presenza, questa concreta realtà di un Dio che ci ama e che noi vogliamo riamare, ecco quello a cui ci porta lo Spirito Santo. Per lo Spirito Santo il Figlio di Dio si è fatto uomo e gli uomini lo hanno veduto, lo hanno toccato, lo hanno ascoltato. Lo dice san Giovanni nella sua prima Lettera: « … quello che i nostri occhi hanno veduto, quello che i nostri orecchi hanno udito, quello che le nostre mani hanno toccato, il Verbo di Dio, questo noi annunciamo». Ed è questo che voi dite al mondo; non dite che siete buone, che siete umili, che siete modeste … tutto questo verrà da sé, ma voi dite al mondo: io ho conosciuto Gesù, io lo ho amato, Gesù, la mia vita non è che lui!

Gesù è più reale di voi stesse, Gesù è veramente la vita e la realtà unica; vivere con lui, vivere di lui, ecco ciò a cui vi porta lo Spirito. È soltanto lo Spirito che vi dà gli occhi per vederlo; se lo Spirito Santo non vive in voi, il Signore rimane nascosto, segreto, rimane invisibile; se lo Spirito Santo non vi apre le orecchie voi non ascoltate la sua Parola. Ma se vivete in dipendenza dallo Spirito di Dio, voi avete nuovi occhi per contemplare una nuova realtà, e la realtà è il Signore che vi ama, voi avete nuovi orecchi per ascoltare, e ascoltate una Parola che vi chiama, il Signore; voi avete, sì, un nuovo gusto: «gustate e vedete quanto è buono il Signore», per gustare la dolcezza di Dio. Voi conoscete un profumo che vi inebria e vi porta via: è il passaggio del Signore! Non è così? Al mondo di quaggiù, ecco, è subentrato per voi un mondo nuovo. Come è piena la vostra vita della sua Parola, come è dolce l’ascoltare la voce di Colui che vi ama ed è con voi. La voce, noi l’ascoltiamo … Tutta la nostra vita è piena di una voce dolcissima, di una Parola che continuamente risuona ai nostri orecchi e chiama per nome.

La nostra vita spirituale è veramente questo aprirsi dei sensi spirituali a una presenza reale, la presenza reale del Cristo. Sì, è vero, lo Spirito Santo è fedeltà, è gioia, è pace, ma è soprattutto questa presenza del Cristo, che si fa sempre più viva, più reale per noi; questa presenza del Cristo al quale lo Spirito Santo ci unisce sempre più intimamente, ora come un maestro col discepolo, poi come un amico, poi come un fratello, poi come uno sposo per divenire con lui un solo corpo, per vivere con lui una medesima vita.

 

Cristo nostro amore

 

Questa è la vita dello Spirito, questa unione ineffabile col Cristo, questa realtà di una presenza sua, questa nostra identificazione sempre più piena con Cristo Signore. Noi siamo portati dallo Spirito del Signore se veramente Gesù diviene sempre più vivo e reale per noi; e questa è la vita del cielo: una bellezza, una gioia, una purezza di amore che ci trasporta fuor di noi stessi; è come un’estasi continua la vita dello Spirito in noi, perché di fatto lo Spirito ci trasporta fuor di noi stessi in lui, ci fa vivere in Cristo.

Questa è l’azione dello Spirito, un aprirsi dei sensi spirituali, una esperienza totalmente nuova, che è l’esperienza di Dio, ma di un Dio fatto carne per me, non di un Dio nei suoi attributi essenziali, che potrebbe essere soltanto una contemplazione filosofica dell’Essere; un Dio che è tutto amore e mi ha scelto per sé, un Dio che è tutto amore e mi dona se stesso, un Dio che è tutto amore e mi unisce a sé, perché io viva con lui una medesima vita.

È ben altra la gioia che ci dona lo Spirito dalla gioia che nasce soltanto dalla superficialità di un’anima che non riesce nemmeno ad essere turbata, è ben diversa la fedeltà di un’anima a Cristo dalla fedeltà di un’anima a se stessa per testardaggine o per orgoglio; è ben altra la pace di un’anima che si sente amata da Dio, che riposa nelle braccia di Dio, dalla pace di un’anima che non si lascia turbare da nulla perché è come insensibile a tutto.

Altra è la pace di Dio, altra è la gioia di Dio, altra è la fedeltà di Dio: è la fedeltà, è la gioia, è la pace dell’amore, di un amore che non soltanto a noi si dona, ma in sé ci trasforma. E come Dio è veramente l’Amore che ci ama, così noi diventiamo l’amore che ama; trasformati da lui noi diventiamo amore, come Egli è l’Amore!

San Paolo ce lo ha detto: la carità di Dio, l’amore cioè, è diffuso nei nostri cuori per lo Spirito Santo che ci fu dato (cf Rm 5,5). Si tratta di vivere questo, e lo vivremo scartando tutto quello che dal Cristo ci allontana, tutto quello che ci impedisce di vederlo. Spesso siamo distratti non tanto dalle cose umane, quanto da noi stessi: ci guardiamo troppo allo specchio. Ma diceva già il libro delle Odi di Salomone, scritto nel primo secolo dell’èra cristiana, che il nostro specchio è Gesù! Se ci guardiamo in lui immediatamente vediamo che cosa ci manca; ma questo non ci impedirà di volgerci a lui, di guardare soprattutto a lui, di vederci in lui, in tal modo che ci dimentichiamo di noi stessi, per imparare come in lui dobbiamo trasformarci.

Spesso l’anima non fa che girare intorno a se stessa, invece di vedere Gesù. Se crediamo davvero abbandoniamo a lui i nostri peccati, abbandoniamo a lui le nostre miserie; egli le ha prese tutte: vuole da noi quello che siamo, e siamo soltanto miseria e povertà; ma egli ci dona se stesso, che è l’Infinito!

Guardiamo il Signore. Egli sia il nostro mondo. Dimentichiamo noi stessi, le nostre virtù come i nostri peccati; impariamo a vivere fuor di noi stessi la visione pura del suo Volto divino.

Dobbiamo far sì che lo Spirito Santo, trasportandoci fuori di noi stessi, ci faccia vivere in Cristo, in Cristo puramente, in Cristo soltanto, e tutto il nostro mondo per noi sia Gesù. Dovremmo arrivare a vivere quello che dice santa Teresa di Gesù: «Vivo in tale oblio di me stessa, che non ricordo nemmeno di esistere».

Impariamo dalla Vergine, viviamo in tale oblio di noi stessi, così rapiti dall’amore del Cristo da non vedere più che il Signore, da non amare più che lui. Questa deve essere in noi l’opera dello Spirito Santo.

 

5.

I DONI DELLO SPIRITO SANTO

 

Abbiamo detto che l’azione dello Spirito Santo si manifesta a noi, ed è garantita dal fatto che lo Spirito Santo è creatore, perciò dilata la nostra anima, dona alla nostra anima di seguire un cammino di fedeltà, dona alla nostra anima la pace.

Ma la garanzia più perfetta è il fatto che l’azione dello Spirito Santo ci porta a Gesù, ci fa conoscere il Cristo, ci fa amare Gesù, ci mette in rapporto sempre più vivo e reale con Cristo Signore, fino a una nostra identificazione con lui. Tutto questo è vero, ma in che modo lo Spirito Santo opera in noi?

L’azione dello Spirito investe le nostre potenze e fa sì che esse, l’intelligenza, la memoria, la volontà e il sentimento, divengano organi di una vita divina.

 

L’azione dello Spirito

 

Vi è un’azione della grazia ordinaria che santifica il nostro agire umano. Il nostro agire non supera il modo proprio della nostra natura, ma lo Spirito Santo, risanando la nostra natura, fa sì che le nostre operazioni, pur essendo pienamente umane anche nel loro modo, siano conformi alla volontà di Dio e perciò siano anche azioni di grazia. Ma in questo caso non è l’azione dello Spirito di Dio, è la grazia ordinaria che fa tutto questo; invece l’azione dello Spirito tende di per sé a rendere le nostre operazioni quasi divine, come dice san Tommaso d’Aquino: chi è animato dallo Spirito di Dio agisce «ultra humanum modum», in modo sovrumano, più alto, superiore alle possibilità proprie dell’uomo ordinario.

Le nostre potenze sono tante; lo Spirito di Dio agisce in esse attraverso quelli che si chiamano i doni dello Spirito Santo. Per capire la differenza che esiste tra il dono dello Spirito e i doni dello Spirito Santo possiamo proporre un esempio, di per sé comune, ma molto efficace per comprendere.

Il Deuteronomio dice che Dio è fuoco, «Deus ignis consumens est» (Dt 4,24). Dice la prima lettera di Giovanni che Dio è luce, «Deus lux est» (l Gv 1,5). Lo Spirito Santo che vive in noi è come fuoco e luce.

Il fuoco che cosa fa? Riscalda. E che cosa fa la luce? Illumina. Essere illuminati ed essere riscaldati sono gli effetti del fuoco e della luce. Il riscaldamento non è il fuoco, essere illuminati non è la luce; si subisce la luce, non siamo la luce, o se volete, siamo come la luce riflessa. Altra è la luce del sole, altra è la luce della luna; la luna non ha luce propria, ma illuminata dal sole rifrange questa luce, riflette questa luce anche sulla terra.

Così è l’anima; l’anima non è lo Spirito Santo, lo Spirito Santo non è l’anima anche se egli è la «quasi forma», la causa quasi formale della nostra vita spirituale; però non si confonde mai con l’anima nostra, altrimenti si cadrebbe nel panteismo. Lo Spirito Santo rimane lo Spirito Santo e noi rimaniamo noi, però lo Spirito Santo che vive in noi è come un fuoco che ci riscalda, è come una luce che ci illumina e in qualche modo ci trasforma in luce.

Questa azione mediante la quale le nostre operazioni divengono quasi divine, certo superiori al modo umano di agire, non è operata direttamente dallo Spirito Santo, ma dai suoi doni: cioè lo Spirito Santo agisce sulle nostre potenze trasformandole nel loro potere, nella loro capacità.

Noi siamo uomini perché abbiamo l’intelligenza, ma il cristiano normale vive una fede che è adesione a verità che egli non comprende; e vi aderisce perché la Chiesa lo insegna, vi aderisce perché la rivelazione ce le ha comunicate. Ma con i doni dello Spirito Santo l’intelligenza acquista un certo potere di penetrare la verità, ha come una intuizione semplice di questa verità. Certo, il mistero rimane per sé incomprensibile, e tuttavia diviene come traslucido; non si vede ancora chiaramente Dio, non si vede ancora immediatamente Dio, tuttavia in qualche modo egli traspare come attraverso un velo che appena appena nasconde, ma anche rivela.

 

Il dono dell’Intelletto

 

Come agisce lo Spirito Santo nella nostra intelligenza per penetrare i misteri di Dio e dare a noi una conoscenza più viva dei divini misteri? Col dono dell’Intelletto. L’intelligenza da sola non avrebbe questa capacità, ma con il dono dello Spirito Santo ecco che l’intelligenza di un’umile suora diviene capace di penetrare i misteri divini più di quanto non possa l’intelligenza umana da sola, ed ecco che una povera suora può conoscere Dio meglio di un teologo. Lo vedete in santa Caterina da Siena, che è stata dichiarata Dottore della Chiesa e non sapeva scrivere; ottenne questo per un miracolo dello Spirito Santo, come pure santa Teresa di Gesù.

In generale i Dottori della Chiesa non sono i più grandi sapienti; ci sono anche delle intelligenze solari come sant’Agostino e san Tommaso, ma spesso i Dottori della Chiesa non erano grandissime intelligenze sul piano umano. Quanti teologi erano più sapienti anche di san Francesco di Sales, ma in tutto il ‘600 lui solo è Dottore della Chiesa. Dio dava alla sua anima un sicuro intuito della verità. mentre gli altri vagavano nelle tenebre, e attraverso tanti ragionamenti cercavano di interpretare i misteri divini, di penetrarli, egli con intuito felicissimo e sicuro andava diritto alla verità cristiana; era quasi come una visione, un intuito semplice, reso possibile per l’azione di Dio dal dono dello Spirito Santo. Egli era vescovo, era laureato, aveva studiato a Padova, ma quanti altri erano poveri e umili, anche povere e umili suore, e hanno avuto una conoscenza di Dio più grande di quella che potevano avere i teologi.

In Italia i più grandi mistici sono tre donne, e la prima delle mistiche è una sposa, infermiera all’Ospedale di Pammatone, Caterina da Genova (1447 – 1510). È certamente la più grande mistica che ha avuto l’Italia e non ha studiato teologia, non è vissuta nemmeno in un chiostro, ma è di una sublimità senza pari. La sua intelligenza ha il volo rapido di un’aquila, penetra gli abissi di Dio in un modo che ci lascia veramente sbalorditi. Anche oggi i testi che riporta il Marabotto, nella sua vita, ci lasciano senza fiato, sono di una sublimità senza confronti.

È lo Spirito Santo che agisce sull’uomo in modo che l’intelligenza acquisti un potere di penetrare i misteri, e la penetrazione diviene così semplice che sembra quasi naturale. Nei teologi e nei filosofi il pensiero è contorto e faticoso; quanto più grande è il mistero e più sublime la dottrina, tanto più si muovono con lentezza, con grande circospezione e con fatica, la fatica del ragionamento. Pensate invece a san Tommaso; egli parla delle cose più alte con una tale semplicità e naturalezza che lo capirebbero i bambini. Il suo linguaggio è trasparente come l’acqua pura di una fonte. Questa connaturalità con l’Essere divino nasce dal fatto che la sua anima era presa come strumento docile dall’azione dello Spirito, per penetrare il mistero; è il dono dell’Intelletto, ma non è solo questo dono.

 

Il dono della Sapienza

 

L’intelligenza è anche a servizio dell’amore e vi è un dono che riguarda proprio questo aspetto dell’intelligenza e trasforma tutta la nostra vita in un gusto di Dio; è il dono della Sapienza. Dio per molti è come il nulla; credono in lui, ma egli rimane come estraneo alla loro vita profonda; invece per il dono della Sapienza, particolarmente necessario alla contemplazione, l’anima nostra gode di Dio, lo gusta, lo assapora, è come inebriata da lui, qualche volta si distende nella sua pace; il gusto di Dio può essere dolcezza e pace, può essere gioia; pace e gioia nello Spirito Santo, secondo san Paolo, è il regno di Dio. Tutto questo è il dono della Sapienza.

Come l’uomo gode di un giorno sereno, come gusta dei cibi prelibati, così l’anima si inebria di questa luce che la inonda, si sente come sciogliere da questa pace divina che la penetra tutta. Diceva il santo Curato d’Ars che il cuore dei santi è liquido, non c’è più in esso nessuna durezza; si discioglie la dolcezza di Dio nell’ anima in tal modo che l’anima tutta ne rimane come conquistata, posseduta e disciolta. Quanto spesso l’anima prova questo gusto di Dio in sé, non solo nella pace, ma in una sovrumana dolcezza, non solo nella dolcezza, ma in qualche cosa che sembra sciogliere tutta la sua purezza interiore, non ha più nessuna rigidità, diviene malleabile come la cera liquida. È il dono della Sapienza, il sapore di Dio!

Perché l’anima può vivere una vita di mortificazione? Voi credete alle mortificazioni? lo non ci credo! Quando la mortificazione è veramente tale, Dio non la vuole; il Signore non soltanto vuole, ma ti fa vivere la mortificazione quando ti separa dalle cose, ti rende intollerabili i beni, i piaceri di questo mondo, perché egli subentra in te e ti dona una soavità, una pace e una dolcezza che il mondo ignora.

Non si tratta di rinuncia, Dio non vuole la rinuncia, egli vuole che si scelga lui!

Nella vita spirituale Dio non vuole chi pensa alla rinunzia, perché chi pensa troppo a soffrire, vuol dire che non ama. Che mortificazione si può sentire se si ama? Le mortificazioni non ci sono, c’è soltanto una scelta di Dio, al di sopra di tutto. Che cosa ve ne fate del mondo? Il mondo per voi è sparito all’orizzonte, Dio è il vostro mondo … Dio è la vostra gioia! … Ed ecco il «Donum Sapientiae»!

Senza questo dono della Sapienza voi sentireste ancora il rimpianto di quello che avete lasciato, il rimpianto della vostra libertà, di non avere la vostra famiglia, il rimpianto della ricchezza e di non poter disporre dei vostri beni. Come è possibile senza il Donum Sapientiae vivere la povertà, la castità e l’obbedienza come vita di amore? È evidente che i voti religiosi non si vivono senza una partecipazione a questo Donum Sapientiae, che sostituisce ai beni del mondo il Bene infinito di Dio. Chi veramente ha scelto Dio non sente la rinuncia, perché è come avesse rinunciato a dieci lire per avere qualche miliardo.

Così è per l’anima che ha scelto il Signore. Se veramente sceglie Dio, l’anima non trova nessuna mortificazione, ma gode del Bene che ha scelto, gode del Bene che ha ricevuto, Dio stesso; la vita dell’anima religiosa è una vita di pace e di gioia. Agli occhi degli altri può sembrare rinuncia, mortificazione, ma per lei sarebbe mortificazione piuttosto il possedere le cose di quaggiù, come impedimento al possesso di Dio.

Ricordate san Francesco di Assisi? Una volta fu invitato a pranzo dal cardinale Ugolino; accettò, ma prima volle andare a questuare qualche tozzo di pane secco, che poi portò alla mensa del cardinale dicendo: «Questa è l’imbandigione di Dio!». Non so se il cardinale fosse contento dei tozzi di pane secco, ma per san Francesco erano migliori di tutti i manicaretti che il cardinale gli aveva preparato. Poi Francesco deve dormire nel palazzo del cardinale; la mattina si alza e getta via il guanciale dicendo: «Questo guanciale è pieno del demonio»! Egli poteva . dormire solo posando il capo sulla dura pietra, e il guanciale troppo soffice era per lui la mortificazione più grande. Per lui era veramente riposo il fare a meno di tutto, per lui la vera mortificazione erano i beni di questo mondo. Ed è così anche per voi!

Se voi foste necessitate a lasciare il Monastero non provereste pena? Per le persone del mondo sarebbe una gioia, finalmente siamo libere – direbbero – possiamo andare al cinema, possiamo andare a spasso, e per voi sarebbe la maggiore mortificazione; nessuna mortificazione più grande potreste ricevere dallo Stato che la chiusura dei vostri Monasteri; eppure tante volte Dio lo ha permesso. Effettivamente, attraverso la rinuncia, voi non vivete che il possesso di Dio e nel possesso di Dio l’anima vostra gode di una pace che le cose umane non potrebbero dare, gode di una gioia che tutti i beni del mondo non potrebbero sostituire; è la gioia di Dio e l’intimità col Signore: Donum Sapientiae!

 

Il dono della Scienza

 

Ma voi dovete anche apprezzare le cose, perché o le cose e le creature vi portano a Dio, o sono un impedimento nel vostro cammino verso il Signore. Ora è vero che la vostra vita si è fatta povera di cose umane, però anche voi vi dovete vestire, dovete vivere in una casa, dovete usare delle cose umane, perché vivete ancora una vita terrena, e questa implica di per sé l’uso delle creature. Chi è che dona a voi la capacità di usare delle creature in tal modo da non essere ostacolate nel vostro cammino verso il Signore? Come provvede per voi lo Spirito Santo in tal modo che le cose umane che dovete usare non siano un impedimento alla vita divina? Ecco il dono della Scienza! Scienza vuol dire conoscere, renderei conto, aver coscienza di come le cose possono essere, per voi, mezzo di santificazione e non impedimento alla vita spirituale.

Come è necessario questo dono! Certo è minore del dono della Sapienza e del dono dell’Intelletto, e tuttavia è di una importanza eccezionale, specialmente quando si tratta dell’uso dei beni presenti, il vestito, la casa, la vita comune. Come è importante e come è necessario che l’anima si attenga veramente al carisma del Fondatore con la più grande fedeltà e il più grande amore!

Siate fedeli al vostro carisma! lo amo che voi abbiate conservato la vostra veste, amo che abbiate conservato le vostre tradizioni; è un grande pericolo abbandonare tradizioni e costumi, anche usanze, senza un discernimento che viene da Dio. Non crediate di poter fare con leggerezza certe cose; la leggerezza si paga, e in poco tempo tutto si disgrega e si disfà. Quale discernimento ci vuole; tante volte per leggerezza, per mania di novità si distrugge, e quando si è distrutta la vita religiosa di una Congregazione, ci vuole un miracolo più grande della fondazione stessa per farla rifiorire.

Rendiamoci conto che è necessario il massimo dono di discernimento, che deriva proprio dal «Donum Scientiae», per saper usare i beni terreni, le cose, le creature, perché tutte le creature per sé hanno una ambiguità: possono portare a Dio e possono strappare da Dio, possono allontanarci da lui; non sono mai indifferenti nemmeno il bere, nemmeno il mangiare, nemmeno l’atteggiamento del corpo. È importantissimo che i Benedettini rimangano fermi anche in un certo modo di celebrare l’Ufficio divino, e che voi siate ugualmente ferme nella fedeltà alle vostre usanze.

Ma poi non bastano questi doni, che intervengono nella vita contemplativa, sia per quanto riguarda la conoscenza diretta di Dio, sia per quanto riguarda il gusto di Dio, sia per quanto riguarda l’uso dei beni creati, in ordine alla vostra santificazione.

 

Il dono della Fortezza

 

Vi sono i doni dello Spirito che intervengono nella vita attiva, e notate bene che la vita attiva non è una vita diversa dalla vostra. Noi troppo spesso contrapponiamo la vita attiva alla vita contemplati va; in realtà la vita cristiana implica sempre una dimensione contemplativa e una dimensione attiva. La dimensione attiva è l’esercizio delle virtù, non è il ministero, il ministero è apostolato, non è vita attiva; la vita attiva è l’esercizio delle virtù.

Nell’esercizio delle virtù abbiamo bisogno dell’aiuto della Fortezza, e ce ne vuole per mantenerci fedeli a Dio, ce ne vuole per vincere ogni tentazione, ce ne vuole per compiere opere grandi nel nome del Signore. Dio ci chiede sempre la virtù della magnanimità, e la magnanimità importa, di per sé, l’impegno dell’anima a cose grandi. Non si tratta come per san Francesco Saverio di andare a predicare il Vangelo in tutte le parti del mondo, ma Dio può esigere da voi, per queste opere grandi, l’esercizio di una virtù eroica, di una virtù che supera dunque l’umano, e voi non avreste certamente la forza di compierla se lo Spirito Santo non vi desse questa forza.

Vi è una forza naturale che basta per una vita ordinaria, ma per vivere una vita eroica occorre la fortezza di Dio; fortezza per aggredire cose grandi, fortezza per sopportare cose grandi, fortezza per sopportare tentazioni, persecuzioni, desolazioni di spirito, incomprensioni.

Voi dovete sopportare il peso del vuoto, il peso del peccato profondo; quanto più sarete sante, tanto più Dio vi assocerà alla sua Passione, perché quanto più sarete sante tanto più dovrete vivere lo stesso mistero del Cristo, l’Agnello che porta sopra di sé il peccato del mondo. E tutto questo importa persecuzioni, desolazioni di spirito, incomprensioni, prove interiori e prove esteriori, difficoltà, tentazioni di ogni genere. Ma siete delle povere donne, siete delle umili donne, potete portare sulle vostre spalle il peso del mondo?

Come facciamo a portare il peso del mondo, il peso del peccato umano attraverso le sofferenze a cui Dio ci sottopone? Egli infatti non può dispensarci dal vivere una partecipazione alla sua Passione. Ecco qui come deve intervenire il dono della Fortezza, di una fortezza che ci rende capaci di sopportare questo enorme peso del peccato del mondo, non commettendo noi il peccato, ma sopportandone il castigo; il castigo è la Passione del Cristo, il castigo è la desolazione di spirito, il castigo è la tentazione, le difficoltà, le prove, le persecuzioni, le incomprensioni; il sentirsi abbandonati da Dio e dagli uomini, vivere come sospesi nel nulla.

Come è possibile vivere tutto questo? È terribile anche pensarlo! Ma Dio vive in te, per dare a te la forza di accettare e di superare ogni prova nell’umiltà, nella semplicità, nell’amore. È necessario per noi questo dono della Fortezza! Nostro Signore è stato forte nell’aggredire il male, ma è stato ancora più forte nel sopportarlo sopra di sé; l’eroismo più alto del Cristo si manifesta nella sua Passione dolorosa, quando egli, abbandonato dal Padre, abbandonato dai discepoli, ha vissuto l’agonia di sentirsi il peccatore vivente, dinanzi agli occhi di Dio.

 

Il dono della Pietà

 

Ci vuole ancora il dono della Pietà. Vivere la vita cristiana vuol dire vivere il nostro rapporto con Dio; ma se Dio è fuoco, come possiamo gettarci in lui? Viene lo sgomento! Anche nell’Antico Testamento c’era lo sgomento quando Dio voleva apparire, perché nessuno può vederlo e vivere. La visione di Dio brucia l’anima; come è possibile accostarci a lui? Da questo incendio di fuoco noi ci difendiamo, facciamo come Adamo che si nascose perché Dio non lo trovasse. Anche noi ci nascondiamo, ci nascondiamo nelle nostre virtù, poniamo le nostre virtù davanti a Dio, perché Dio non si accosti troppo, e diciamo: «Guarda, noi ti diamo questo, ma lasciaci un po’ in pace!». Dio invece non ci lascia in pace, le esigenze di Dio crescono nella misura in cui cresce l’amore.

Come possiamo dunque vivere questo rapporto? Ecco il dono della Pietà; la pietà è il rapporto dei figli coi genitori, un rapporto di semplicità, un rapporto di abbandono: Dio, pur essendo fuoco, è il mio Padre celeste! Gesù ci insegna come si esprime il dono della Pietà. Quando pregate dite: «Padre!». Ma non dice Padre, Padre è una parola troppo alta, troppo solenne; dice «Abbà» che in ebraico significa «Papà»; è il linguaggio più semplice del bambino, che riposa nelle braccia di Dio.

Il dono della Pietà ci fa sentire a nostro agio nel parlare con Dio. Sappiamo che Dio è l’Infinito, sappiamo che Dio è l’Immenso, e tuttavia in questa immensità ci immergiamo, lo guardiamo e sorridiamo beati come un bambino nelle braccia della mamma. Avete visto come sorride un piccolo tra le braccia della sua mamma? Così anche l’anima nelle braccia di Dio. La serenità, la semplicità di un rapporto filiale col Padre, ecco quello che ci insegna il «Donum Pietatis», e come è necessario! Viste le esigenze di Dio, visto quello che Dio ci chiede nelle sue azioni interiori, quanto è necessario che noi possiamo vivere con lui la semplicità del bambino, che nelle sue braccia riposa.

 

Il dono del Timore di Dio e del Consiglio

 

Ma anche il dono del Timore di Dio è necessario, il senso della riverenza per la grandezza di Dio, il senso dello stupore; il timore filiale, intendiamoci, non il timore che ‘dà luce e allontana, ma il timore che ci fa sentire la sua grandezza e dà a noi il senso dell’adorazione senza fine. E poi il dono del Consiglio; questo è necessario soprattutto per la Madre. Saper vedere che cosa è giusto, che cosa è meglio per ogni anima, per sapere indirizzare le anime, guidarle nella via del Signore; saper essere forte con una, dolce con l’altra, saper dare a tutte il nutrimento necessario, ed è diverso per ciascuna: non si può dare a tutte il medesimo cibo! Con alcune ci vorrebbe la sferza, con le altre ci vogliono le carezze, con l’una basta un sorriso e con l’altra ci vuole un rimprovero. E come saperlo? Noi non lo indoviniamo; diamo un sorriso e lo si prende subito come una complicità alla debolezza, diamo un rimprovero e l’anima si chiude, si irrigidisce e magari diventa amara con noi. Il dono del Consiglio, come è necessario! Ma è necessario soprattutto a chi guida le anime, a chi ha la responsabilità nei confronti degli altri.

Di quanti doni abbiamo bisogno, di tutti i doni dello Spirito Santo! Ma quanti sono i doni dello Spirito Santo? Ne ho richiamati sette, ma non sono sette; sette è un numero di plenitudine, vuol dire che sono settantamila volte sette, sono tanti quante sono le potenze dell’anima che devono essere portate a Dio, guidate e sorrette da lui. Noi siamo come un’arpa che riposa in un angolo, ma ci passa il dito dello Spirito Santo e ne trae melodie dolcissime, ne trae un canto di amore sempre più puro e più alto verso Dio.

Lasciate che le vostre corde siano sempre intonate, in modo che passando il dito dello Spirito attraverso le vostre potenze, la vostra intelligenza lo veda, lo comprenda, lo conosca, la vostra volontà lo ami e aderisca a lui, e la vostra anima conosca le cose in modo tale da usarne nel suo cammino verso il Signore. Viva la vostra anima in tale consonanza con lo Spirito, così che divenga forte nelle imprese divine, forte nel sopportare ogni tribolazione, dolcissima nel riposare in Dio, nell’abbandonarsi alla sua Paternità, intimamente presa dallo stupore della sua grandezza, nell’adorazione, e viva poi anche in questa capacità di guidare, di portare gli altri verso il Signore.

Che la nostra vita sia tutta illuminata, tutta trasfigurata, tutta penetrata dai doni divini, in modo che sia veramente una vita «ultra humanum modum», una vita sovrumana, perché è la vita di Dio in noi.

 

6.

LA REALTÀ DEL NOSTRO PECCATO

 

(Omelia nella Messa del Martirio di San Giovanni Battista Prima lettura: Ger 1,17 – 19; Vangelo: Me 6,17 – 28)

 

Nei primi secoli della Chiesa san Giovanni Battista era venerato più di qualsiasi altro santo; nella Liturgia condivideva con la Vergine un posto di privilegio che anche oggi mantiene. Nell’Avvento alcune domeniche celebrano proprio il mistero di Giovanni, come colui che in qualche modo riassume in sé tutto l’Antico Testamento, e con l’Antico Testamento la preparazione compiuta dal Signore, dallo Spirito di Dio alla nascita del Cristo.

C’è poi nell’anno liturgico un fatto singolare. Al solstizio d’inverno, in cui viene celebrato il Natale del Signore, 25 dicembre, corrisponde il solstizio d’estate in cui viene celebrata la nascita di san Giovanni Battista; all’equinozio della primavera, verso cui si celebra la morte e risurrezione del Cristo, risponde l’equinozio dell’autunno, verso cui vengono celebrati il martirio e la morte di san Giovanni Battista. È un fatto singolare, che ci dice l’importanza che ha avuto nella vita della Chiesa e nel pensiero dei Padri la missione e la figura di Giovanni il Battista.

 

Uno che non conosciamo

 

I cristiani hanno oggi una devozione a Giovanni il Battista paragonabile a quella dei nostri Padri? Non sembra, e tuttavia ci insegna Origene, e lo ripete anche sant’Ambrogio, che la missione di Giovanni Battista continua sino alla seconda venuta del Cristo. Quello che egli disse alle folle che si accalcavano lungo le rive del Giordano per ascoltarlo, lo ripete anche oggi a noi: <<Vi è in mezzo a voi uno che voi non conoscete!» (Gv 1,26).

Chi di noi può dire veramente di avere una conoscenza viva, reale di Gesù salvatore? Eppure egli è in mezzo a noi, egli vive con noi. La sua ascensione gloriosa non l’ha allontanato dagli uomini, anzi ha reso possibile la sua presenza a ciascuno di noi. Ma noi molto spesso non sappiamo vivere fino in fondo l’esperienza di questa presenza, che dovrebbe essere per noi tutta la vita. Abbiamo bisogno continuamente che il mistero di Giovanni ce la ricordi, la faccia presente a noi e al nostro spirito, sì che noi viviamo non tanto in questo mondo, non tanto in rapporto con gli uomini, non tanto in tutte le occupazioni della nostra giornata, ma in questa presenza del Cristo, che è veramente il nostro mondo e la nostra vita di cristiani.

 

L’uomo è bugiardo?

 

Ma il mistero di Giovanni Battista non è soltanto inteso a dare a noi il senso della presenza del Cristo; questo mistero ci insegna una cosa ugualmente importante. Dice il Salmi sta che ogni uomo è bugiardo: «Omnis homo mendax», e Nostro Signore a coloro che l’ascoltano, specialmente ai farisei e agli scribi, dice: «Ipocriti!». Il linguaggio di Gesù sembra duro e qualche volta anche ingiusto. L’ebraismo ha reagito e si è difeso contro le parole di Gesù, specialmente contro il cap. 24 del Vangelo di Matteo. In realtà il linguaggio di Nostro Signore sembra di una durezza terribile contro i farisei, i migliori israeliti di allora, perché indubbiamente erano quelli che volevano vivere di più secondo la legge di Dio; e se Nostro Signore condanna questi uomini che meglio rappresentavano la fedeltà alla legge divina, che cosa doveva dire degli altri?

In un altro testo del Vangelo, parlando alla folla, Gesù dice: «Se voi che siete cattivi, date buone cose ai vostri figlioli» … (Mt 7, Il). Il male dunque contamina tutti gli uomini; Gesù non eccettua nessuno, e in realtà l’unica persona che poteva essere salvata da quella condanna era sua Madre, concepita Immacolata da Dio. Gli altri sono tutti cattivi e i farisei sono ipocriti!

Meritiamo anche noi questa condanna del Signore? Siamo consapevoli di quello che siamo davvero davanti al Signore? Ecco una domanda che dobbiamo farei, e dobbiamo farcela con serenità, ma con verità. Meritiamo anche noi le parole del Salmo: «Ogni uomo è bugiardo»?

Teresa di Gesù una volta chiese al Signore che le manifestasse l’intimo suo; era santa, e tuttavia ebbe tanto spavento di sé che pregò il Signore di nasconderle la propria anima, perché non ne avrebbe sopportato la visione, tanto era per lei sconcertante e penosa. Dio solo veramente sa quello che siamo. Noi nel nostro orgoglio, sia pure inconsapevole, ci andiamo più o meno rivestendo delle penne del pavone, come il corvo della favola di Esopo che non voleva apparire così nero e perciò si rivestiva delle penne del pavone. Così anche noi, non riusciamo a vedere chiaramente il fondo della nostra anima. Lallemant, che è il più grande autore mistico della Compagnia di Gesù, dice che la purificazione del cuore è una cosa temuta, difficile e penosa; è come lavare il pozzo da ogni immondezza: in principio l’acqua che si tira su è abbastanza chiara, poi via via che si procede viene sempre più torbida e nel fondo è soltanto melma.

Così anche l’uomo; non dico che in noi ci sia la coscienza del nostro peccato, tanto meno che ci sia la libera volontà di peccare; ma nel fondo della nostra anima siamo anche noi putredine e morte! Ci vorrebbe forse la psicanalisi per far riconoscere all’uomo il fondo tenebroso dell’essere suo. Noi cerchiamo quasi normalmente di coprirlo, di non vederlo, perché non sopporteremmo la consapevolezza di essere così pieni – diceva Nostro Signore ai farisei – di putredine come i sepolcri imbiancati.

 

Fermenti di male

 

Ora non dico che tutto questo sia peccaminoso; non è peccaminoso, perché il peccato suppone la coscienza del male e la volontà di compierlo e noi di solito non abbiamo né questa coscienza né questa volontà. Tuttavia per raggiungere la purezza del cuore di cui si parlava ieri bisogna scavare nel fondo melmoso della nostra natura e trarre alla luce tutto quello che fermenta nel subconscio dell’anima nostra. Quanto di cattiveria, di ambizioni segrete, di gelosie e di sensualità, quanto di male fermenta nel più profondo di noi stessi! Non sarà peccato, ma dice quanto noi siamo vicini al male, quanto il male ancora può compromettere la nostra risposta al Signore.

Acquistare la purezza del cristallo è impresa impossibile all’uomo; non per nulla una volta che abbiamo lavorato anni e anni per la purificazione del nostro cuore, si impone la purificazione passiva, e voi sapete quanto le purificazioni passive sono dolorose e lunghe e terribili per l’anima che le vive. Pensate ai santi che le hanno dovute subire; santi che avevano già raggiunto l’unione piena, magari l’estasi, e che poi sono dovuti passare per anni e anni nella desolazione più intima, nelle tenebre più fonde. Caterina da Siena, Carlo da Sezze, anche pochi mesi prima della loro morte hanno provato la violenza di tentazioni terribili. La loro natura, pur dopo l’esercizio eroico delle virtù, era ancora suscettibile di provare i morsi della sensualità e dell’orgoglio.

Noi crediamo di essere già santi, ma dopo magari venti anni di vita religiosa se cerchiamo di togliere il coperchio che chiude e nasconde il fondo della nostra natura, ci accorgiamo che da quel fondo ancora salgono miasmi di violenza, di orgoglio, di sensualità; non volontà di peccato, ma istinto del male nel più fondo di noi, come nell’inferno dantesco vi è cerbero, un cane con tre teste che abbaia e pretende affamato il suo cibo.

Chi potrà purificarci totalmente così da essere pura verità nella luce di Dio? San Giovanni Battista è colui che ci insegna come dobbiamo essere testimoni della verità, non di una verità estranea, ma di quello che siamo, e noi siamo ciechi e mendaci, e noi siamo menzogna; menzogna perché se apparentemente siamo e vogliamo essere con Dio, in realtà nel fondo della nostra natura ancora qualcosa ci impedisce di essere pura luce, liberi da ogni sentimento segreto di orgoglio, di amor proprio, di gelosia. Non ci illudiamo, perfino nei Monasteri possono pullulare sentimenti di invidia, di gelosia, possono nascere lotte segrete di partiti, e anime che sembrano sante sono di tormento per altre Sorelle.

Ho conosciuto in un monastero un’anima che per trent’anni è stata rifiutata dalle sue Consorelle con un’acredine certamente non volontaria, non pienamente cosciente, e tuttavia reale. Lo vediamo anche nella vita dei Santi. Pensate a santa Teresa di Gesù Bambino. Pensate a santa Teresa di Avila; proprio nell’imminenza della morte, viene allontanata dal Monastero dove era Priora una sua nipote, per motivi di eredità, ed ella dovette morire non in Monastero, ma nella casa della Duchessa di Alba. Pensate alla morte di san Giovanni della Croce a Ubeda, dove era superiore padre Francesco Crisostomo. Costui era stato ammonito da Giovanni perché parlava con troppa vanità e cercava soltanto di farsi bello attraverso i suoi discorsi, anziché esercitare le sue doti per una maggiore efficacia di salvezza. Padre Francesco Crisostomo non perdona a Giovanni che è quasi moribondo; lo rimprovera e gli fa mancare tutto. È terribile a quale cattiveria si possa giungere pretendendo di agire in nome di Dio, mentre si agisce in nome del proprio orgoglio, della propria invidia, della propria gelosia, dei sentimenti più bassi che albergano tante volte anche nelle anime che si credono più degne e sante. Non dico che tutto questo sia colpevole, e posso anche pensare che il padre Francesco Crisostomo, che tanto ha umiliato Giovanni della Croce proprio nell’imminenza della morte, non abbia commesso peccato, ma certamente dimostrava di coltivare ancora sentimenti di amor proprio mal repressi.

 

Purificazione continua

 

Chi di noi può dire di essere totalmente puro dinanzi al Signore? Noi cerchiamo troppo presto di crederci santi! Il cammino della santità è infinito, soltanto lo Spirito Santo può sollevarci fino a sé, ma in noi quanta miseria ancora e quanta povertà; povertà tanto più grande quanto meno la conosciamo, miseria tanto più profonda quanto più ci rimane nascosta, perché nel nostro orgoglio istintivo non sopportiamo di conoscerei quali siamo.

Intendiamoci, riconosco che di quello che siamo nel profondo non siamo responsabili, però è vero che la santità implica la purezza anche di quello che nel subconscio si muove e fermenta di cattiveria, di imperfezione, perché una sola imperfezione, se coltivata, può portare a conseguenze molto gravi.

Dobbiamo essere anime piene di amore, piene di carità! Ma l’amore e la carità costano la morte di noi stessi, perché esigono l’anteporre gli altri a noi, l’essere veramente morti a ogni ricerca di sé. Non è facile essere veri, non è facile vivere la limpidezza e la purezza dell’amore, perché la purezza dell’amore esige la morte a noi stessi, la morte dell’amor proprio, e san Francesco di Sales diceva che questa avviene tre giorni dopo la nostra morte fisica.

Sentiamo di essere ancora contaminati dalla ricerca di noi stessi? Sentiamo ancora di essere in qualche modo legati alle nostre imperfezioni, sia pure inconsciamente? Non dico che tutto questo sia peccato, tuttavia può essere un velo che ci nasconde il volto di Dio, un velo che impedisce alla grazia divina di penetrarci, di illuminarci e di trasformarci in sé. Per essere divinizzati, dobbiamo diventare come il cristallo che non ha macchia, e tutto penetrato dalla luce diviene come un sole nel sole. I vetri delle finestre colpiti dal sole morente divengono luminosi come il sole lontano che in essi si riflette. Così è l’anima: se diviene come un cristallo puro, tutta si illumina di Dio. Ma sono poche le anime così illuminate da Dio da essere come un sole nel sole! Come è difficile che l’anima giunga a questa purezza!

 

Dio solo

 

San Giovanni Battista è testimone della verità; anche noi possiamo essere testimoni di questa verità divina. La verità divina dice che noi siamo menzogna, che Dio solo è la luce: «Deus lux est», e manifestare la luce di Dio vuol dire scomparire noi stessi: fin tanto che noi siamo, noi impediamo a Dio di essere. Lo dicevano i Santi: se io sono, Dio non è, se Dio è, io non sono! Perché Dio sia in noi, perché Dio sia Dio in noi, bisogna che noi siamo totalmente morti a noi stessi, a ogni amor proprio, a ogni vanità, a ogni orgoglio, a ogni sentimento di noi stessi; bisogna ridurci al nulla, perché il nulla da cui la Parola di Dio ci ha fatto emergere possa accogliere la luce infinita di Dio.

Questo è l’insegnamento di oggi: san Giovanni il Battista rende testimonianza alla verità, cioè rende testimonianza che Dio solo è; la creatura è menzogna, è peccato, e se vuole rendere testimonianza di Dio, bisogna che scompaia nella luce come il cristallo. Quando il cristallo è ben pulito. da ogni sua macchia, non si vede. Così deve avvenire in noi. Per raggiungere questa purezza bisogna abbandonarci alla potenza di Dio che distrugga il male in noi. La nostra santità è una risurrezione dalla morte, e prima bisogna che l’azione di Dio ci consumi, perché risorga l’anima pura che riflette la luce di Dio.

La santità è partecipazione alla risurrezione del Cristo, ma non si può risorgere se prima non siamo morti. Se la santità è risurrezione, la prima cosa che si impone per noi è morire, morire a noi stessi, a ogni nostro volere, a ogni nostro sentimento, a ogni nostro pensiero; che non vi sia in noi un nostro pensiero, un nostro sentimento, una nostra volontà, e in noi non viva più che la luce infinita di Dio.

Tutto questo non è facile, anzi è impossibile; ma, ha detto il Signore, ciò che è impossibile all’uomo è possibile a Dio, anche lasciarci consumare dal fuoco dello Spirito per divenire una pura fiamma. Quando il fuoco si apprende a un legno verde, questo subito comincia a sfrigolare, diventa brutto perché diventa nero; fintanto che il fuoco non si apprende al legno, il legno rimane bello verde, ancora vivo; ma quando è bruciato dal fuoco comincia a sfrigolare e diventa brutto.

Così anche l’anima lavorata da Dio; all’inizio sembra divenire più brutta, perché Dio fa emergere tutto quello che dal fondo dell’essere viene di più brutto e di cattivo. Emerge, e noi siamo spaventati, emerge, e noi che non ci conoscevamo abbiamo paura di noi stessi, cerchiamo di coprire, ma Dio scopre di nuovo queste brutture fintanto che, consumate dal fuoco, esse scompaiono e non rimane più che la fiamma, una fiamma senza fumo.

Dobbiamo rendere testimonianza alla verità, e la verità implica precisamente questo: Dio solo è! Tu non devi rendere testimonianza che dell’essere di Dio, non di te stesso; fintanto che rendi testimonianza di te, tu sei un velo che nasconde l’Essere divino, che nasconde l’Essere assoluto di Dio. Non si può unire l’Infinito alla creatura! Quanto fa l’infinito più uno? Infinito! Nulla si aggiunge all’Infinito, e a Dio la creatura non si può aggiungere. Dire che anche la creatura è Dio, che la creazione è Dio, è già una bestemmia, perché solo Dio è l’Infinito; così diceva san Giovanni della Croce: Dio e la creazione è Dio, non perché la creazione sia Dio, intendiamoci bene, ma perché la creazione non aggiunge nulla a Dio. La creazione è in Dio, è per Dio, è da Dio, in sé e per sé non è, perciò non si può aggiungere a Dio: Dio e la creazione è Dio, Dio solo.

 

Tutto in Dio

 

La creazione è per attestare Colui che è l’Unico. «Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo». Questa è la professione di fede che fa Israele tutti i giorni, e anche Nostro Signore per tutta la sua vita tre volte al giorno ha proclamato questa unità di Dio. Dio solo è, tu non sei che per attestarlo. Anzi nel mondo più puro, quando avremo la visione di Dio, non conosceremo più noi stessi, non ricorderemo più noi stessi e non potremo mai più riflettere su noi stessi.

Nell’atto stesso che noi togliamo il nostro sguardo a Dio precipitiamo nell’inferno. La vita del cielo deve essere rapita nella visione dell’Unico. Egli soia è! È certo che noi vedremo anche noi stessi, ma in lui e solo in lui. Vedremo gli altri, solo in lui; non si moltiplica la visione di Dio con la visione degli altri, non si moltiplica l’amore di Dio con l’amore di noi stessi: l’amore di Dio è unico ed è totale!

Ricordiamo anche il precetto dell’amore di Dio: amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore con tutta la tua anima, con tutte le tue forze. Se si ama Dio di questo amore totale, come si può amare il prossimo? Si ama il prossimo col fegato o coi piedi? È solo nell’amore di Dio che può essere amato anche il prossimo; non è un altro amore, se tu devi amare Dio con tutto te stesso: Dio solo! Ecco la grande parola dei Santi. Che questa sia la parola e il programma della nostra vita: Dio solo! E Dio solo vuol dire: io non sono più, io non voglio che la mia morte, io non voglio che sparire; è l’umiltà profonda dell’essere, che permette a Dio di essere Dio.

Ecco la vita dei santi, l’umiltà di chi nella luce divina sparisce, per lasciare a Dio tutto il suo posto: ecco la verità! Fintanto che non lasci a Dio di essere Dio, cioè l’Unico, tu sei menzogna; per questo noi tutti siamo menzogna: «Omnis homo mendax»!

Ma come facciamo a vivere in tal modo che il nostro vivere sia un continuo morire? Come facciamo a vivere in tal modo che la nostra vita sia il venir meno di noi a noi stessi, perché risplenda ai nostri occhi solo la luce di Dio? Noi non potremo mai riuscirci se lo Spirito Santo che è fuoco non ci consuma e non ci distrugge, perché in noi risplenda, sola, la luce di Dio. Per questo dobbiamo e possiamo passare attraverso il fuoco del Purgatorio, o quaggiù sulla terra o dopo la morte. È l’insegnamento che ha dato la santa più grande di Genova, santa Caterina Fieschi; è questo fuoco che deve consumarci, bruciarci fino in fondo e ridurci in cenere, perché anche la cenere deve sparire: deve rimanere Dio solo. Tu sei soltanto occhio che lo contempla, null’altro: Egli è!

Fin tanto che tutto questo non avviene, noi siamo un velo che nasconde il Signore, non lo manifesta così come egli è. Egli è l’Unico; rendere testimonianza di questa verità, ecco il compito del cristiano. Non è una missione facile, che sia possibile all’uomo. Dio solo deve rendere testimonianza di se stesso in noi, ed è egli stesso che rende tale testimonianza nella misura che egli brucia in noi tutto quello che è proprio della nostra natura, perché in noi sussista unico lui, che è l’Immenso, lui che è purissima Luce, lui che è l’Amore perfetto.

Che dunque lo Spirito Santo ci prenda e ci strappi a noi stessi, perché da noi stessi non sapremmo mai gettarci nel fuoco per essere bruciati e consumati; che egli stesso lo faccia, non guardando ai nostri lamenti, non guardando alla nostra, non dico ribellione, ma alla nostra paura, al nostro sgomento; che egli ci prenda e ci distrugga, perché in noi rimanga lui solo, viva lui solo.

Questa deve essere la preghiera che noi facciamo oggi al Signore: Signore, noi siamo menzogna, noi non siamo che un velo che ti nasconde, strappa questo velo, brucia questo velo, e rimani tu solo: che l’essere nostro sia soltanto per attestare la tua verità, per attestare la tua luce.

 

7.

L’UMILTÀ, FONDAMENTO DELLA VITA CRISTIANA

 

Lo Spirito Santo, che agisce in noi mediante i suoi doni, ci dà una esperienza di Dio e vive in noi comunicando alla nostra intelligenza la fede, alla nostra volontà l’amore. Ma può l’anima vivere la fede e la carità se non incarna queste virtù teologali anche nell’esercizio di un comportamento umano, che implica per sé l’esercizio delle virtù morali?

Spesso noi pensiamo che le virtù morali e le virtù teologali siano indipendenti. Ma le virtù teologali, che implicano per noi una partecipazione alla vita divina, non solo suppongono, ma realizzano in noi anche l’esercizio delle virtù morali, nelle quali queste virtù teologali si incarnano. Non si vive la fede senza l’umiltà, non si vive la carità senza l’umiltà.

La prima virtù morale che si impone all’anima, se vive la sua conoscenza di Dio e il suo amore per Dio, è l’umiltà. L’umiltà è richiesta per tre motivi fondamentali: il primo perché siamo creature, l’altro perché siamo peccatori, il terzo perché dobbiamo essere amore. Il primo e il secondo motivo sono propri della creatura come tale e per giunta della creatura umana che ha peccato, il terzo motivo si ritrova anche in Dio: per questo dirà san Francesco nelle Lodi all’Altissimo: «Tu es humilitas», Tu sei umiltà! Egli riconosce questo attributo a Dio medesimo, e vede anzi in questo attributo dell’umiltà di Dio la rivelazione suprema di lui come amore.

 

La nostra realtà di creature

 

Noi dobbiamo vivere un cammino di fede, di speranza e di carità; tanto più vivremo la fede, la speranza e la carità quanto più incarneremo queste virtù in una umiltà vera. Il cammino dell’anima verso Dio non è un cammino di ascesa; la vita spirituale non è salire, perché per quanto si riesca a salire si resta egualmente ancora molto lontani dal cielo; non si raggiunge Dio che volando, ed è lo Spirito Santo che ci solleva.

Tanto lo Spirito Santo ci innalza a Dio quanto noi discendiamo nel fondo del nostro nulla; pertanto l’opera nostra è discendere, l’opera di Dio è assumerci. Riguardo a Nostro Signore si parla di ascensione perché è lui che ascende, della Vergine invece si dice che è assunta, viene portata, perciò anche lei può essere assunta da Dio, ma non può volare fino al cielo, neppure lei.

Tutta la vita cristiana è discendere, discendere e discendere; è quello che diceva sant’Agostino: fondamento della vita cristiana, per quanto riguarda le virtù morali, è l’umiltà e il crescere nella vita cristiana è crescere nell’umiltà. La perfezione della vita cristiana, secondo sant’Agostino, è la perfezione dell’umiltà, in quanto l’umiltà è l’incarnazione della fede e dell’amore; non si ha né fede né amore che in quanto cresce in noi questa virtù.

La fede è legata all’umiltà perché tanto più conosci Dio quanto più conosci il tuo nulla; la luce di Dio manifesta quello che sei, una creatura che in sé e per sé non è, e tutta dipende da Dio. Non conosci Dio in se stesso, lo conosci per quello che egli è per te; Dio in se stesso non lo conosce nemmeno la Vergine, non lo conosce nemmeno Gesù nella sua natura umana. Egli rimane puro mistero, non solo quaggiù nella vita presente, ma anche domani in quella futura.

Egli è trascendenza infinita. Nessuna creatura potrà mai conoscere fino in fondo Dio in se medesimo, lo conosce in quanto Dio si rivela; ma la rivelazione che Dio fa di se stesso all’anima implica il rapporto che Dio stabilisce con l’anima stessa, e questo rapporto è la creazione.

Ora se conosci Dio in quanto è Creatore, in quanto è colui dal quale dipende l’essere tuo e la tua vita, evidentemente la conoscenza di Dio implica il sentimento di una dipendenza assoluta da lui, e implica anche la conoscenza viva del proprio nulla originario, della totale fragilità dell’essere creato. Conoscete Dio e, nel momento medesimo che conoscete Dio, voi sperimentate di essere come sospesi nel vuoto. È da Dio soltanto che dipende l’essere vostro, è in Dio soltanto il fondamento dell’essere: senza Dio noi precipiteremmo nel nulla, perché siamo nulla.

 

La conoscenza di sé

 

La conoscenza di Dio è inseparabile dalla conoscenza di noi stessi; la conoscenza di Dio è conoscenza dell’Essere assoluto, e la conoscenza della creatura è la conoscenza di chi non è se non quello che Dio vuole e da Dio dipende e in Dio ha il suo fondamento. È difficile vivere l’esperienza del nostro nulla! Anzi è impossibile! Ecco perché è stato detto: «Ogni uomo è mendace».

Il primo effetto del peccato originale è il sentimento e la presunzione di una nostra certa autonomia, di una certa autosufficienza. L’uomo dopo il peccato non riesce più a vivere la sua dipendenza assoluta dall’Essere divino. Il peccato ci ha chiusi a Dio, e non siamo più coscienti della nostra dipendenza assoluta da lui nel pensiero, nell’agire, nell’amare, in tutto quello che siamo e in tutto quello che viviamo. Se poi crediamo in questa dipendenza e la riconosciamo, non riusciamo per questo a viverla. È estremamente difficile e quasi impossibile liberarci dal sentimento di una qualche autosufficienza e affermazione di sé; vivere – come diceva santa Teresa di Gesù – un oblio tale di noi stessi da non sapere più nemmeno di esistere è impossibile se Dio non dona all’anima questa grazia. Ci vuole veramente una fede grande, soprattutto ci vuole una vita di contemplazione molto alta; allora – come diceva Rosmini – quanto più Dio entra in un’anima, tanto più l’anima perde la coscienza di sé e ha coscienza soltanto di Dio.

Se Dio deve essere tutto in te, tu devi essere nulla, devi sentirti nulla e vivere nel tuo nulla. Ma l’oblio totale di sé si raggiunge soltanto negli ultimi vertici della contemplazione divina, così da non sapere più nulla di noi stessi, così da non conoscerei più, perché il peccato ci ha chiusi e ha reso impossibile a noi sia la conoscenza di Dio come Dio, sia la conoscenza della creatura come creatura.

Soltanto la Vergine possiede questa umiltà, la Vergine che è creatura come noi, ma non ha peccato; ella può vivere questa conoscenza di Dio come l’Essere assoluto e per questo non conosce se stessa, per questo non sa più nulla di sé, non vede che lui e non opera più, ma lascia che Dio operi in lei: «Si faccia di me secondo la tua Parola», dice, e si abbandona totalmente allo Spirito così che tutto quello che in lei avviene è Dio che lo compie. Nessun atto c’è in Nostra Donna – diceva san Giovanni della Croce – che non sia di Spirito Santo.

L’umiltà che dipende dal nostro essere di creature rimane al di là delle nostre possibilità di uomini peccatori, ma vi è l’altro motivo di essere umili; non solo siamo creature e come creature dovremmo riconoscere il nostro nulla, ma siamo peggio che nulla, perché siamo peccatori. Non soltanto Dio ci ha fatto dal nulla e perciò il nulla è il fondamento del nostro essere, ma noi ci siamo opposti a Dio, abbiamo dunque un motivo maggiore di umiltà che se fossimo semplici creature. È la situazione in cui ci ha messo il peccato: da una parte dovremmo essere più umili, dall’altra non riusciamo ad essere umili nemmeno come la Vergine. Dovremmo essere più umili della Vergine perché siamo anche peccatori, e invece la Vergine santa sarà sempre più umile di noi perché realizza nel modo più perfetto il suo stato di creatura dinanzi a Dio.

 

Rapporto di amore

 

Questo per quanto riguarda la conoscenza, ma vi è un terzo motivo di umiltà e questo motivo si ritrova anche in Dio. L’umiltà è l’atto dell’anima, è la virtù dell’anima che si ordina totalmente, nell’amore, all’amato e pertanto dimentica sé per colui che ama. Questa umiltà è propria anche di Dio, di Dio in se medesimo e di Dio incarnato. Di Dio in se medesimo: Dio sussiste nelle Persone del Padre del Figlio e dello Spirito Santo; ora il Padre in sé e per sé non è, è tutto per il Figlio e del Figlio; è pura relazione di amore, non è in sé, non è per sé, è nel Figlio e per il Figlio che egli genera, infatti è soltanto Padre. Nostro padre è anche marito della nostra mamma, poi ha lavorato con altri ed è anche amico di tanti altri; il Padre celeste non è che il Padre, non è che Padre. Nessuno di noi si esaurisce in un solo rapporto, abbiamo innumerevoli rapporti, e non soltanto rapporti con gli uomini, ma anche rapporti con le cose. Invece la Persona del Padre è puro, essenziale e unico rapporto col Figlio Unigenito, non è che rapporto col Figlio; non ha rapporto con noi, per sé il Padre ha rapporto soltanto col Figlio, non con noi. Lo avrà con noi se noi siamo una cosa sola col Figlio.

Ecco la necessità dell’incarnazione del Verbo; senza !’incarnazione del Verbo, Dio ci sarebbe rimasto sconosciuto: è dogma di fede. Le Persone divine non hanno rapporto con la creazione, non hanno rapporto con le creature, perché ogni Persona divina è rapporto soltanto con l’altra Persona correlativa. Il Padre col Figlio, il Figlio col Padre. Ma quando il Figlio si fa uomo, una fanciulla può dire a questo Dio: «Tu sei mio Figlio»; nasce un rapporto, quello della filiazione del Figlio Unigenito con una donna che è Maria, che diviene sua madre, ed egli non è più soltanto il Figlio del Padre, ma anche il Figlio di Maria. E se è il Figlio di Maria, egli diviene mio fratello, perché diviene uomo.

È stata l’incarnazione del Verbo a rendere possibile questo rapporto. Per questo io accetto con san Francesco di Sales che l’incarnazione del Verbo è voluta da Dio in modo assoluto, non in dipendenza dal peccato di Adamo, perché non vi è fondamento alla vita religiosa, alla vita spirituale, alla vita di grazia che nella incarnazione del Verbo, altrimenti Dio rimane sconosciuto, inaccessibile. Dio rimane trascendenza pura, e l’uomo non ha nessun rapporto con Dio e Dio non ha nessun rapporto con l’uomo, perché Dio è rapporto soltanto con se stesso, Padre, Figlio e Spirito Santo.

Se Dio è rapporto con la Madre, la Madre non diventa la quarta persona della SS. Trinità. I rapporti in Dio rimangono tre, Padre, Figlio e Spirito Santo, ma la Madre nella misura che è cristiana e si fa santa, vivrà l’unione col Cristo, sarà un solo corpo col Cristo e allora il Padre entra in rapporto con lei, perché lei è una col Cristo; quello che Dio ha congiunto l’uomo non separi, dice Gesù.

Lo Spirito Santo ha unito per sempre ciascuno di noi a Cristo; nella misura in cui la nostra unione a Cristo è viva e reale, anche il Padre ci conosce perché conosce il Figlio suo e noi siamo una sola cosa col Figlio, un solo corpo, un solo spirito con lui. Ma è soltanto per l’Incarnazione che noi entriamo nella vita divina, altrimenti non c’è possibilità alcuna.

 

L’umiltà in Dio

 

Se dunque le Persone divine sono puro rapporto di amore, ecco che l’umiltà è in Dio stesso. Il Padre in sé e per sé non è, è tutto per il Figlio e nel Figlio, il Figlio in sé e per sé non è, è tutto per il Padre e nel Padre. Meditate il IV Vangelo; Gesù dice: la mia volontà non è mia, la mia dottrina non è mia … sempre il Padre! Egli si eclissa nella luce della presenza del Padre; è il Figlio di Dio, ma per lui solo è il Padre, egli non vive per sé: non è che la lode infinita del Padre celeste.

Così è anche il Padre; il Padre non trova riposo che nel Figlio: «Tu sei il mio Figlio, in te ho posto la mia compiacenza». È questa l’umiltà di Dio: ogni Persona divina non vive che per l’altra Persona, in sé e per sé è come non fosse. Puro amore, ogni Persona divina si ordina totalmente all’altra Persona correlativa.

Se questo è l’Amore di Dio, questo è il motivo anche dell’umiltà nell’uomo. Tanto più noi saremo umili quanto più sapremo amare; se sappiamo amare anteponiamo gli altri a noi stessi e prima di tutto anteponiamo Dio a noi e ad ogni cosa creata. Non facciamo servire Dio alla nostra gloria e nemmeno alla nostra beatitudine. Non voglio che Dio, non voglio che la sua luce, voglio che egli sia! Che cosa vuole l’anima che veramente ama? Vuole l’amato, non vuole se stessa. Se l’anima vuole la sua beatitudine, se pensa solo al Paradiso non ama di amore puro, il suo è amore di concupiscenza, è amore di speranza. È vero che anche questo amore è una virtù, ma non è amore puro. L’amore puro è non volere nulla per sé, ma volere che Dio sia Dio. Proprio questo amore puro fa sì che se anche un’anima fosse nella desolazione più intima, vivrebbe ugualmente in Paradiso, perché non vive la sua desolazione, ma la gioia di sapere che Dio è la gioia, che a Dio non manca nulla, egli rimane beato; siccome l’anima ama Dio, e non ama se stessa, trova in Dio la sua beatitudine.

Amare Dio vuol dire anteporre l’amato a noi stessi; se vogliamo solo il Paradiso non sappiamo amare, vogliamo che Dio serva alla nostra gioia, facciamo servire Dio a noi stessi, non serviamo noi a Dio. Anche cercare la santità può essere cosa impura, se si cerca solo noi stessi. Invece non vogliamo che Dio! Non importa se sono nella tribolazione: egli è! La mia felicità è piena, perché la sua felicità è infinita; la mia felicità non è che la sua, non è la mia, non è qualcosa che mi appartiene, ma è sapere che egli è beato!

E allora quando ci sentiamo tristi, quando ci sentiamo poveri e miseri ricordiamoci: la nostra povertà non ha tolto nulla alla grandezza di Dio, la nostra povertà non ha tolto nulla alla sua beatitudine infinita. L’amore è umiltà. Non ti importa di te, egli è ed è l’Immenso, egli è ed è l’Infinito, egli è ed è la Santità per essenza, egli è ed è la Beatitudine eterna. Chi veramente vive di amore non può vivere che di gioia, perché la sua gioia è in Colui che ama.

L’umiltà dunque è anche per questo terzo motivo frutto dell’amore, e questo motivo è anche in Dio. In Dio per se stesso, e poi in Dio quando si fa uomo, e Dio che si fa uomo è tutto per gli uomini; assume sopra di sé il peccato degli uomini, vuole la beatitudine dell’uomo, vuole la salvezza dell’uomo e non pensa a sé, non pensa a salvare se stesso, non pensa a difendere se stesso. Si dà totalmente per tutti, non solo per i buoni, non solo per i suoi amici, ma per coloro che lo tradiscono, per coloro che lo rinnegano, per coloro che lo crocifiggono, per coloro che lo odiano, per tutti dà la sua vita e il suo amore. E che cosa è la vita del Cristo? «Humiliavit semetipsum factus oboediens usque ad mortem»; è l’umiltà fino alla morte, l’umiltà fino ad essere cancellato, distrutto per amore degli uomini e per amore del Padre.

Abbiamo visto dunque come l’umiltà importa tre motivi, ora dobbiamo vedere come realmente si vive l’umiltà.

 

Umiltà nell’intelligenza

 

L’umiltà si deve vivere prima di tutto nell’intelligenza. L’umiltà implica il riconoscimento del nostro nulla e del nostro peccato, perciò è una virtù che prima di tutto impegna la conoscenza di sé. Uno dei fondamenti della vita spirituale è la conoscenza di Dio e la conoscenza di noi stessi: il duplice abisso. Questa umiltà è già difficile perché noi non riusciamo mai a conoscere fino in fondo il nostro nulla; crediamo sempre di avere qualcosa, di essere qualcuno, mentre non siamo nulla indipendentemente da Dio. Per questo, allora, non soltanto siamo nulla, ma non possiamo nemmeno pretendere qualcosa. Che diritti abbiamo nei confronti di Dio? Tutto è grazia. Anche se ci bastonano, tutto è grazia. È già troppo anche essere bastonati, perché è sempre un sentire qualche cosa, è dunque avere una coscienza di essere vivi. Nemmeno questa ci appartiene, indipendentemente da Dio siamo nulla, il nulla; e nulla possiamo senza Dio.

Come siamo stati fatti emergere dal nulla dalla Parola onnipotente di Dio, così non possiamo agire se Dio non interviene, non passiamo mai dalla potenza all’atto senza il suo aiuto. Sempre dipendiamo da lui. Certo egli ci muove liberamente, non come le cose attraverso una legge di necessità, ma è sempre Dio che interviene; ci sentiamo come sospesi nel nulla, e dobbiamo vivere questa dipendenza assoluta da Dio, nell’essere e nell’agire.

Chi vive l’umiltà si sente come sospeso nel vuoto, vive la sua dipendenza assoluta non dalla necessità, ma dalla volontà libera di un Dio che ti ama. Tu non puoi accampare qualche diritto, è soltanto la libertà dell’amore che ti dona l’essere e la vita. Non solo nella vita presente, ma anche nella vita futura, non solo per i santi, ma anche per i dannati. È questa una delle pene del dannato. Il dannato vuol rifiutare Dio, vuol stabilire una propria grandezza e autonomia e non può; per tutta l’eternità dovrà dipendere da Dio, perché rimane una creatura. Senza l’atto divino che lo sospende sull’abisso del nulla, anche il dannato precipiterebbe nel nulla. È Dio stesso che lo fa sussistere, che fa sì che l’essere suo eternamente rimanga.

La dipendenza da Dio è totale, sia per il paradiso e sia per l’inferno, sia per la vita presente e sia per la vita futura; è totale. La creatura in sé e per sé non è; dobbiamo vivere questo, ma poi dobbiamo vivere anche la conoscenza del nostro peccato.

Noi non ci rendiamo nemmeno conto, non dico del nostro peccato attuale, ma delle conseguenze del peccato originale che ha creato in noi un abisso, una possibilità di peccato, una vicinanza col male, del quale noi dovremmo sentire orrore. Credete di essere lontane dai peccati gravi più di un assassino? Non è forse tutta misericordia di Dio il fatto che egli vi ha preservate fin dalla nascita? Vi ha fatte nascere in un ambiente più sano, vi ha sviluppate, vi ha dato le grazie per educarvi e formarvi. Che cosa vi differenzia dagli assassini, dalle prostitute? La differenza è soltanto la misericordia di Dio. In noi vi è tutta la possibilità di peccato.

 

Se non facciamo il male …

 

Non possiamo pretendere nulla come merito nostro, perché in noi vi è tutta la possibilità di male che vi è negli altri; se gli altri sono assassini, se gli altri sono prostitute, io stesso potrei essere come loro, io, non c’è differenza. Se non lo sono è perché Dio misericordiosamente mi ha preservato; mi ha preservato attraverso grazie innumerevoli, che mi hanno portato avanti fin dalla nascita: i genitori, l’ambiente nel quale sono vissuto, le grazie innumerevoli che mi hanno protetto e mi hanno difeso.

Sapete voi se, vivendo in situazioni in cui sono vissute altre, non sareste precipitate più in basso ancora di quanto sono precipitate esse? Quale il merito vostro, quale? Siete peggiori delle prostitute se credete al vostro merito e non credete alla misericordia di Dio, che vi ha preservate dal cadere in quegli abissi. Perciò un peccatore sente di dovere tutto a Dio, invece molto spesso le anime pie credono che sia merito loro anche quel poco di bene che possono compiere e non si rendono conto che in noi vi è ogni possibilità di peccato; ogni possibilità, ma possibilità reale, non lontana.

Un’anima veramente santa ha sempre questo senso di sgomento e di orrore di sé, perché sente che veramente nulla può impedire all’anima di precipitare in tutti gli abissi, se la mano misericordiosa di Dio non la preserva. Ecco perché, dice l’Imitazione di Cristo, anche i cedri del Libano possono cadere, e invece tante volte le anime più deboli e fragili conquistano il cielo, a condizione che abbiano l’umiltà.

Chi non ha l’umiltà, anche se è grande, anche se è un vescovo, anche se è papa, anche se ha raggiunto una certa santità, può precipitare negli abissi. Un’anima debole, incapace di qualunque cosa, se veramente si affida a Dio, se veramente nell’umiltà si abbandona alla grazia, quest’anima è preservata. Lo dice anche santa Teresa di Gesù Bambino: avrebbe potuto commettere tutti i peccati, sarebbe potuta divenire una grande peccatrice, e si meravigliava e godeva nello stupore di sentirsi oggetto della misericordia infinita di Dio che l’aveva preservata da ogni peccato fin dai tre anni: tutto un dono di grazia. Per quanto riguarda la nostra vita di grazia, in noi non vi è nessuna possibilità; la possibilità è in Dio che ci ama!

Come dobbiamo sentire che sono le mani di Dio che ci sollevano a lui, solo quelle mani! Certo vi è anche una corrispondenza, ma questa nostra corrispondenza – diceva sant’Agostino – è dono di Dio, perché dipende da una grazia efficace, che egli ci dona; siamo un prodigio di misericordia soltanto. Se guardo me, non vedo più che Dio, Dio solo che mi ha prevenuto fin dall’infanzia, Dio solo che mi ha pensato fin dall’eternità, Dio solo che momento per momento mi ha tenuto per mano, mi ha sollevato sulle sue braccia, mi ha preservato, mi ha difeso, mi ha protetto. Nulla in me che non sia dono suo, che non sia un dono di amore.

 

Umiltà nella volontà

 

Ma non basta, non soltanto debbo essere umile per questa conoscenza del mio stato di creatura e del mio stato di peccatore. La virtù non è soltanto esercizio di intelligenza, deve essere esercizio di volontà, perché la virtù implica precisamente anche l’esercizio della volontà. La conoscenza, fin tanto che è conoscenza pura, è sì inizio di virtù, ma non è ancora virtù completa: la virtù completa implica l’impegno della volontà. Allora, cosa vuol dire essere umili per quanto riguarda il nostro stato di creatura? Accettare di essere nulla, e siccome Dio ti mette alla prova, accettare le prove della vita che implicano per te la rinuncia alle tue ambizioni, alle tue vanità, al tuo amor proprio e al tuo orgoglio.

Che bello essere messe da parte come una scopa logora, che non riesce più nemmeno a spazzare. Trovate gioia nell’essere dimenticate, nell’essere messe da parte? Trovate la vostra gioia in ciò? Questa è l’umiltà: accettare serenamente quello che siete, cioè nulla. Trovate gioia nell’essere bastonate come san. Francesco? Egli afferma che qui è perfetta letizia. Trovate grande gioia se gli altri ingiustamente vi accusano? Se gli altri non solo vi mettono da parte, ma vi calunniano? Non è mica tanto facile; ma l’umiltà è questa!

Che cosa pretendi tu, che cosa vuol? Tutto quello che viene a te è sempre un dono; in fondo gli altri mai potranno toglierti quello che Dio ha fatto di te, di essere creatura; se anche ti ammazzano tu non muori, tu rimani immortale; con tutto quello che gli altri fanno, non possono aggiungere nulla, né togliere nulla di quello che sei: un povero nulla che dipende da Dio.

Accettare le umiliazioni, trovare il nostro riposo nelle umiliazioni … Un’anima veramente umile ne è affamata, ma questo non è facile. Siamo impastati di orgoglio, di amor proprio, ed è sempre difficile per l’anima non cercare di nascondersi allo sguardo di Dio, per credere in qualche proprio valore e perciò per sentire in qualche modo l’ingiustizia se non siamo trattati secondo il concetto che abbiamo di noi stessi. Ci sembra ingiusto che ci manchi qualche cosa, qualche cosa che ci è dovuto, per esempio la comprensione della compagna, di una Sorella, la comprensione della Superiora. Ci sembra un’ingiustizia se ci manca il riconoscimento di quello che abbiamo fatto. Ingiustizia! E dove sono i nostri meriti? I nostri diritti?

Certo, nei confronti delle creature possiamo avere dei diritti, ma noi dobbiamo vivere davanti a Dio. Quali sono i nostri diritti nei confronti di Dio? La stessa vita che hai, la stessa esistenza che possiedi non è un suo dono? Puro dono, al quale non hai alcun diritto? Perché Dio ha voluto che tu non fossi un’altra creatura? Tu senti che è libera la scelta divina, io potevo benissimo non essere, egli mi ha voluto; e la volontà di Dio non ha altra ragione che se stessa: io sono un suo dono! Nessun diritto io posso accampare nei riguardi di Dio, io ho semplicemente il dovere di riconoscere che tutto mi è stato dato per nulla.

Persino il dannato, se il dannato potesse avere sentimenti giusti, dovrebbe lodare Dio, perché in fondo Dio gli conserva l’essere, e la conservazione dell’essere è sempre un bene, Dio non lo annienta.

Se dunque vogliamo essere umili, non dobbiamo soltanto riconoscere quello che siamo, ma accettare che gli altri usino con noi secondo quello che siamo davanti a Dio. Non siamo! Un monaco, secondo il testo di uno scrittore russo, viene tormentato dal demonio; il demonio lo batte e lo strazia e il monaco grida: «Più ancora, più ancora; merito ancora di più!».

Siete anche voi così affamate di umiliazioni e di sofferenze da poter dire al Signore: merito ancora di più umiliazione e martirio? Noi non chiediamo il di più perché conosciamo la nostra debolezza e non sapremmo riceverlo e accettarlo. Ma dobbiamo almeno saper accettare quello che Dio, indipendentemente da noi, vuole e permette a nostro favore; le incomprensioni, le difficoltà, le malattie e le prove interiori.

Tutto è grazia per un’anima umile, perché mai riceve quello che le è dovuto; quello che ci è dovuto, se abbiamo peccato, è soltanto l’inferno. lo, da parte mia, ci rinuncio e non voglio quello che mi è dovuto; voglio invece quello che egli nel suo amore infinito mi dona, liberamente, misericordiosamente, senza mio merito alcuno, perché voglio essere amato, e l’amore è libertà. Mi è dovuto soltanto l’inferno e ci rinuncio ben volentieri, perché il Signore mi ama con amore infinito e perfettamente gratuito. lo voglio essere amato di questo amore che è pura misericordia e voglio sapere che tutto è puro dono di amore, quello che mi riguarda. Anche se vengo messo da parte, anche se vengo ritenuto per nulla, anche se gli uomini mi dimenticano, non sanno più nulla di me, è già una grande cosa che Dio mi ama. Io lo so!

 

Volere l’umiliazione

 

Ma non basta accettare, vi è un grado più alto, il terzo grado dell’umiltà, ed è così difficile che preferirei non toccarlo nemmeno: è di voler essere umiliati. Ho detto prima che è meglio non chiedere, perché non abbiamo una tale umiltà da vivere poi le umiliazioni che abbiamo chieste nella gioia. Se desideriamo il terzo grado dell’umiltà che è volere con tutta l’anima, con tutto il desiderio le umiliazioni, noi dobbiamo vivere, nelle umiliazioni, la gioia; è un po’ difficile, lasciamolo ai santi! Per ora accontentiamoci del secondo grado di umiltà, di accettare serenamente e con gioia le umiliazioni alle quali Dio stesso ci sottopone o permette; credo che sia sufficiente.

L’umiltà! Dunque, la prima cosa e il primo grado è la conoscenza di noi stessi, una conoscenza vera, una conoscenza senza infingimenti; non nascondiamoci per non vederci e non essere veduti da Dio, ma mettiamoci alla luce divina per conoscere quello che siamo: un nulla come creatura e una creatura che potrebbe cadere in tutti i peccati, se Dio non la preservasse con la sua misericordia.

Poi il secondo grado di umiltà: accettazione. Tutti noi ci sentiamo più o meno umiliati, perché da una parte Dio ci crea come suoi figli, ci vuole suoi figli, perciò ci eleva a una dignità infinita, ci dona dei desideri immensi; ma d’altra parte le nostre possibilità sono tanto -misere e scarse. Inoltre le condizioni della nostra vita spesso sono talmente povere e meschine che ci sentiamo da ogni parte condizionati, ci sentiamo sempre mortificati nel nostro agire e nel nostro vivere. Ebbene, accettare, trovare in queste situazioni il nostro riposo. Non il riposo nella gioia che il Signore ci dona, nella esaltazione interiore che ci dà qualche volta, quando ci fa sentire che egli ci è vicino e che è con noi, ma acconsentire e trovare il nostro riposo nel silenzio di Dio, nella aridità, nel vuoto interiore. Se ci lamentiamo, che umiltà è la nostra? Come facciamo a lamentarci? Che cosa meritiamo? Il Signore non tratta con noi secondo giustizia? Dobbiamo dunque godere che il Signore sia giusto con noi e ci tratti così come dobbiamo essere trattati, che. ei faccia sentire il nostro nulla, ci faccia sperimentare la nostra impotenza e la nostra povertà; dobbiamo consentire a Dio che ci tratti così come siamo.

Il trovare la propria gioia in tutto quello che non meritiamo è metterei in un cammino pericoloso, perché sembra che quello che non meritiamo ei sia dovuto. Se invece Dio ce lo toglie, è in questo che dobbiamo godere, perché Dio ci tratta secondo giustizia. Che il Signore non ei guardi mai più, per esempio … Non è facile, ma dovremmo trovare in questo la nostra gioia, nel consentire a Dio di trattarci secondo giustizia.

E poi finalmente chiedere a Dio – ma aspettate a farlo! – che egli ei faccia trovare la gioia solo nelle nostre umiliazioni, e quanto più saremo umiliati tanto più sia pura la nostra gioia; noi dovremmo desiderare di scomparire, perché Dio solo sia. Che Dio sia Dio e io non sia più! Trovare la nostra gioia proprio in questo nostro morire a noi stessi e agli altri, perché non viva che lui: questo è il cammino dell’umiltà che noi dobbiamo vivere.

Che il Signore ci doni una fede così viva, un amore così grande da poter realizzare questo cammino. Perché l’umiltà, oltre che frutto della fede, è anche frutto dell’amore. Se l’umiltà è frutto dell’amore, allora diviene eroica, diviene riposo dell’anima, allora davvero l’anima può desiderare le umiliazioni, può scegliere le umiliazioni, perché vuole che solo l’Amato sia, che Dio sia Dio: questa diviene la preghiera dell’anima.

Per dirlo in altre parole, l’umiltà diviene più facile se, oltre ad essere il frutto della fede, diviene frutto di un amore per il quale noi ci mettiamo da parte, perché divenga tutta la nostra vita Colui che noi amiamo. Impariamo ad amare così da scomparire a noi stessi e perderei nella luce di Colui che abbiamo scelto e che infinitamente ci ama.

 

8.

IL NOSTRO RAPPORTO CON DIO

 

Gli attributi di Dio sono propri della natura divina e come la natura divina è posseduta egualmente in proprio, in modo perfetto, da ogni Persona divina, così non sono questi che manifestano, che rivelano l’intima vita di Dio; ma la vita di Dio è essenzialmente il rapporto delle Persone divine fra loro. In questo rapporto delle Persone divine Dio vive nella infinita beatitudine, nell’infinito ed eterno amore.

La vita di Dio è dunque la Santissima Trinità, le Persone divine in rapporto vicendevole tra loro, ma Dio non è in rapporto che con se stesso; l’uomo non c’entra, la creatura non c’entra: la creatura rimane a infinita distanza da Dio, Dio è a infinita distanza dalla creatura. Eppure dice il prefazio della IV Preghiera eucaristica che Dio ha creato il mondo «per effondere il suo amore su tutte le creature e allietarle con gli splendori della sua luce». La creazione è un traboccamento della vita divina al di fuori di sé.

 

Dio e la creatura

 

Come realizza D!o questo suo piano di amore? Come entrerà Dio in rapporto con la creatura e la creatura con lui? Ho già detto che san Francesco di Sales, a differenza di altri teologi, ha accettato pienamente la concezione della scuola francescana, che cioè il Verbo di Dio si sarebbe comunque incarnato, perché l’incarnazione del Verbo rimane il fondamento di ogni vita soprannaturale. Non solo l’uomo, ma anche gli angeli possono entrare in rapporto con Dio solo mediante il Verbo incarnato, perché l’angelo come l’uomo, l’angelo come una pietra, l’angelo come un bruco e come tutte le creature sono a infinita distanza da Dio: non c’è differenza.

Se Dio fosse a una distanza grandissima, ma non infinita, dalla creatura, evidentemente questa grandissima distanza implicherebbe la possibilità di essere più o meno vicino a lui; ma se Dio è a infinita distanza, un bruco o l’angelo più alto che sia nel cielo sono a uguale distanza da Dio; l’infinito non si divide, !’infinito rimane infinito. L’unica differenza che c’è tra l’angelo, l’uomo e la bestia, tra l’angelo, l’uomo e una pietra è questa che l’angelo e l’uomo hanno una potenza obbedienziale – insegna la teologia – per la quale Dio può comunicare con loro; l’uomo ha delle potenze spirituali per le quali può entrare in un certo rapporto con Dio, se Dio lo vuole; la pietra non ce l’ha, e perciò la pietra non può essere elevata all’ordine soprannaturale, l’uomo sì.

Ma come farà Dio a elevare all’ordine soprannaturale le creature in tal modo che la creatura, uomo o angelo, possa entrare in rapporto con Dio e Dio con essa? Mediante l’Incarnazione del Verbo. Quello che avviene quando il Verbo di Dio si incarna, si fa uomo, è cosa mirabile, è cosa di una grandezza che supera ogni nostra immaginazione. Avviene che una umile donna può dire a Dio, all’Infinito: «Tu sei mio Figlio», e avviene che questo Dio, che è l’Infinito e l’Eterno, dal momento che ha voluto essere suo figlio, deve dire a questa Donna: «Tu sei mia Madre!». Questo fatto è più grande della creazione; la creazione è voluta in ordine a questo mistero, per il quale il Verbo di Dio, che è pura, totale, infinita ed eterna relazione di amore al Padre e soltanto al Padre, diviene relazione, rapporto di amore a una Donna, rapporto di amore anche con noi perché se egli si è fatto uomo diviene un nostro fratello; anche con gli angeli, perché anche l’angelo è una creatura, come egli si fa creatura.

Sapete quale è stato il peccato dell’angelo? Voi potete pensare che l’angelo vada direttamente contro Dio, nella sua natura divina? Se l’angelo sa chi è Dio, se l’angelo è cosciente della grandezza e della trascendenza divina, sarebbe la creatura più stupida se pretendesse di offenderlo, e, d’altra parte, anche se pretendesse di offenderlo, potete pensare che l’offesa dell’angelo raggiunga Dio?

Il peccato dell’angelo dunque è quello di cui parla la Genesi. A questo proposito le tradizioni giudaica, islamica e cristiana ci insegnano la medesima cosa. Dio, fin dall’eternità – dice san Francesco di Sales – volle elevare la creazione all’ordine soprannaturale attraverso l’Incarnazione del Verbo. Di conseguenza l’angelo doveva dipendere dal Verbo incarnato per la sua vita soprannaturale; egli vivrà la vita di grazia se accetterà di subordinarsi al Verbo incarnato. «Al Verbo incarnato? – dice l’angelo-. lo devo piegarmi davanti a un uomo? È vero che questa natura umana è assunta dal Verbo, ma è una natura umana. lo non accetto» – racconta in un libro famoso il più grande mistico dell’Islam. L’angelo non accetta che Dio si umili così e rifiuta l’adorazione del Cristo. Ecco il peccato dell’angelo: cerca di distruggere il disegno di Dio, facendo cadere l’uomo nel peccato; quell’uomo che egli avrebbe assunto, l’angelo lo rende schiavo del male.

 

Il fondamento dell’ordine soprannaturale

 

L’angelo crede così di impedire a Dio il disegno dell’incarnazione del Verbo, e invece Dio, che aveva voluto l’incarnazione del Verbo indipendentemente dal peccato dell’uomo, ora la vuole in una carne passibile, perché il Verbo divino incarnato, morendo sulla Croce, possa redimere anche il peccato dell’uomo. Allora tutto il fondamento dell’ordine soprannaturale, sia per gli angeli che per l’uomo, è Cristo Gesù; sì, è Cristo Gesù, e noi durante la Messa diciamo: «Per quem laudant Angeli, adorant Dominationes, tremunt Potestates»: per lui, il Cristo, ti lodano le Potenze, ti adorano i Serafini, ti cantano i Cherubini, ti lodano tutte le Schiere celesti. Per mezzo del Cristo, perché senza Cristo anche gli angeli sono a infinita distanza da Dio, non potrebbero mai accedere al mistero di Dio.

Voi capite dunque l’importanza che ha l’Incarnazione del Verbo; è primordiale, è il fondamento di tutto. Togliete questa pietra e tutto l’edificio crolla. Questa è la pietra angolare – come dice il profeta Isaia – su cui Dio ha costruito l’edificio della grazia, l’edificio soprannaturale della vita divina per gli uomini e per gli angeli.

Ecco il grande mistero: per l’Incarnazione del Verbo il Figlio di Dio, che è pura ed eterna relazione di amore al Padre, diviene relazione – nella sua natura umana agli uomini e agli angeli, ed essi possono entrare in rapporto con Dio.

Che cosa è la vita soprannaturale? Sono le virtù? Niente affatto! Le virtù appartengono di per sé alla natura umana; gli uomini che non credono sono forse tutti disonesti? Non si può dire questo; la morale appartiene agli uomini, anche un uomo che non crede deve essere onesto, non deve rubare, non deve ammazzare.

La morale è di tutti, le virtù morali non appartengono al cristiano come tale; il cristiano deve esercitare le virtù, ma non consiste in questo la sua vita cristiana. La vita cristiana consiste nella «sequela Christi», nel rapporto che Gesù stabilisce con te, ed egli ha stabilito un rapporto con te perché ha assunto i tuoi peccati, si è fatto uno con te rispondendo per te al Padre; egli si è fatto uno con te!

Anche per sposarsi bisogna che ci sia il consenso dell’uno e dell’altra, è chiaro che l’unione si stabilisce in un rapporto reciproco; il Cristo ha stabilito un rapporto con te, perché è morto per te sulla Croce, ma egli vuole che anche tu stabilisca un rapporto con lui. Ora un rapporto di amore è sempre libero e tu devi stabilire questo rapporto.

Che cosa è la vita cristiana? È un rapporto col Cristo, è «sequela Christi»! Origene insegna che la vita cristiana è essenzialmente questo rapporto, ma questo rapporto può essere più o meno grande, più o meno intimo. Gesù guarisce dalla lebbra dieci Samaritani; nove di questi, una volta guariti, se ne vanno per la loro strada e non entrano più in rapporto col Cristo, uno solo torna con gratitudine, con lui nasce un rapporto vero, un rapporto continuo di grazie e Gesù gli dice: «La tua fede ti ha salvato!». Queste parole di Gesù non vogliono dire che gli altri nove ritorneranno lebbrosi, perché le grazie di Dio sono senza pentimento, ma averli guariti dalla lebbra non vuol dire averli salvati. La salvezza sta nel rapporto di quell’unico guarito che è grato al Signore; la salvezza consiste in questo rapporto di gratitudine, che egli stabilisce col Cristo.

Quale è il rapporto che si stabilisce tra la creatura e Cristo, tra l’uomo e Cristo, e tende di per sé ad essere sempre più profondo? Nel Vangelo si afferma che il discepolo non rimane come era prima; noi, seguendo il Maestro, diveniamo perfetti come il Maestro. Dice Gesù nel Vangelo: «Allora il discepolo è perfetto quando diviene come il Maestro».

Ora questo divenire più perfetti, questo crescere nel discepolato come si manifesta? Alla fine del Vangelo Gesù dice ai discepoli: «lo non vi chiamo più servi, ma amici!». TI discepolo non è amico, il maestro in principio non è amico degli scolari, ma col tempo può divenire un amico, stabilire una uguaglianza. Ricordate quello che dice Gesù a Maria Maddalena quando le appare dopo la risurrezione: <<Va e annunzia ai miei fratelli», «Dic fratribus meis … »; ecco una uguaglianza, i fratelli sono tutti sul piano di una eguaglianza, il discepolato ci rende pian piano uguali a Cristo, dice Origene.

 

Matrimonio spirituale

 

Ma vi è un rapporto esclusivo e totale a cui tende tutta la vita cristiana ed è l’unione nuziale. Ecco perché il termine ultimo della vita cristiana si dice il matrimonio spirituale. Con questa parola si intende un rapporto che prende totalmente la vita, che non esclude più nulla; una sposa deve conservarsi tutta per il suo sposo.

Stamane nella Comunione avete ricevuto il Corpo, il Sangue, l’Anima e la Divinità di Cristo Signore, egli non ha escluso nulla; ma se l’Eucaristia ci chiama a vivere l’unione nuziale perché Cristo si dona tutto, il matrimonio spirituale non viene consumato fin tanto che l’anima stessa non si dona totalmente a Gesù. Ed è in questo dono reciproco della creatura al Cristo e di Cristo alla creatura che si consuma la nostra vita soprannaturale, la nostra vita di grazia.

Noi dobbiamo vivere la nostra vita spirituale come un rapporto totale di amore a Cristo Signore, ed è in questo rapporto totale di amore a Cristo Signore che noi diveniamo un solo corpo con lui, diveniamo un solo spirito con lui, come dice la Preghiera eucaristica II!. E divenendo con lui un solo spirito e un solo corpo, noi viviamo la sua medesima vita: <<Vivo ego, iam non ego, vivit vero in me Christus» (Gal 2,20). Il Padre vive forse una vita diversa dal Figlio? Il Figlio vive una vita diversa dal Padre? Una è la sapienza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, una è la santità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, una è la vita del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; le Persone sono distinte, ma la vita è una sola; una sola la natura, una sola la beatitudine, una sola la potenza, una sola la sapienza e uno solo l’amore.

Così nel rapporto dell’uomo col Cristo; non si vive il rapporto del Padre col Figlio e del Figlio col Padre, ma si vive un rapporto nuziale, per il quale una diviene la vita del Cristo e la vita dell’anima, una diviene la santità del Cristo e la santità dell’anima. La Vergine ha vissuto pienamente questa unione nuziale. Ecco la grandezza di Maria; nessun santo si può dire che possegga tutta la santità di Gesù-Capo, la Vergine sì.

 

L’esempio di Maria

 

C’è una triplice grazia in Cristo Signore: la «Grazia Increata»; perché egli è Dio, e questa appartiene a lui in proprio e non può appartenere a nessun altro che a lui; poi c’è la «Gratia Unionis», la Grazia dell’unione ipostatica, e anche questa appartiene soltanto al Verbo Incarnato; ma c’è la «Gratia Capitis», la Grazia che appartiene a Gesù in quanto Capo della Chiesa. Questa Grazia fluisce tutta in Maria, nulla riserva per sé; quello che è proprio di Gesù è proprio di Maria. Come una è la Sapienza del Padre e la Sapienza del Figlio, una è la santità di Gesù una la santità di Maria. Se Maria santissima non possedesse tutta questa Gratia Capitis del Cristo, il Cristo avrebbe fallito, perché nella sua natura divina egli è il Figlio di Dio, puro rapporto al Padre, e nella natura umana egli è in rapporto con l’uomo e si chiama Gesù.

Il nome della Seconda Persona della Santissima Trinità è un nome di relazione, è puro rapporto di Figlio; anche nella natura umana il suo nome è un nome di relazione, perché Gesù vuol dire Salvatore. Se egli non si dona tutto e non vi è una creatura che lo riceva vuol dire che non vive l’Alleanza, vuol dire che Dio ha fallito. La Vergine santa è quella che accoglie tutta la grazia del Cristo. Dice san Girolamo: «Totius gratiae quae in Christo est, plenitudo venit in Mariam, quamquam aliter», «tutta la pienezza della grazia. che è nel Cristo venne in Maria, quantunque in modo diverso»: in Gesù come principio e sorgente, come fonte, in Maria come un lago che accoglie tutte le acque del Cristo.

È Maria il fulcro della santità nella Chiesa, è Maria la causa esemplare di ogni santità, perché Maria ha vissuto nel modo più perfetto non solo il rapporto con Cristo, come madre, dando a lui la sua carne e il suo sangue, ma ha vissuto anche il rapporto nuziale per il quale ha ricevuto tutta la grazia del Cristo; nel contemplare la Vergine noi contempliamo anche la causa esemplare di ogni santità creata, e tanto più saremo santi quanto più vivremo questo rapporto esclusivo col Cristo.

Ora notate bene, il Cristo non ci nega nulla, il Cristo non serba nulla per sé; anche stamani egli ci ha dato Corpo, Sangue, Anima e Divinità; in che consisterà la nostra santità se non nel rispondere al Cristo dando a lui tutto quello che siamo, tutto quello che abbiamo? Non un pensiero nostro, non un affetto nostro, non un sentimento, non un membro del nostro corpo, non una potenza della nostra anima, non un momento del nostro tempo, nulla che non sia dono di noi stessi a Cristo Signore. E in questo che si misura la santità dell’anima, in questo dono di amore.

Così come egli nella natura umana è dono di sé ad ogni uomo, «dilexit me et tradidit semetipsum pro me» (Gal 2,20), così la vita dell’anima non può essere altro che dono di sé a Dio, in Cristo Signore.

La vita cristiana dunque è questo rapporto; un rapporto vicendevole, che deve divenire ogni giorno più intimo e deve, col termine, consumare totalmente tutto I’uomo in questo atto di amore. Ed è precisamente divenendo una sola cosa col Cristo, un solo Cristo, un solo corpo con lui e un solo spirito con lui, vivendo questa unità col Cristo che noi vivremo la sua stessa santità, vivremo un rapporto col Padre, ed entriamo così, in qualche misura, nella vita intima di Dio. Non si moltiplicano le Persone divine, ma noi siamo una sola cosa col Cristo, viviamo in qualche modo una sola vita col Cristo; il Padre non può dividere dal Figlio suo l’anima sposa, e l’anima sposa vive allora una certa partecipazione al mistero di questa unità ineffabile, che dall’eternità e per l’eternità unisce il Figlio al Padre e il Padre al Figlio. Ecco perché la preghiera ultima del cristiano rimane la Parola stessa del Figlio: «Abbà, Padre!» ed è questo anche il mistero della preghiera cristiana.

 

Il mistero della preghiera cristiana

 

Il mistero della preghiera cristiana termina precisamente in una nostra partecipazione al rapporto del Figlio Unigenito con il Padre celeste. Ma prima di arrivare a questo, la preghiera dell’uomo è il grido del malato, del morto che implora la salvezza di Cristo; è il grido dell’anima che sente la propria rovina, che avverte la propria morte, che sente di precipitare nel vuoto, che implora una mano che la sollevi: «De profundis clamavi. .. ». Alla preghiera dell’uomo risponde l’amore di Dio: egli porge la mano per sollevarti a sé, egli ti salva; è lui che ti salva dal naufragio, è lui che ti salva dalla morte, è lui che ti salva dalla dannazione; è lui, Cristo Signore!

Prima di tutto la nostra preghiera sarà un rivolgersi al medico delle nostre anime, un rivolgersi al Cristo in quanto è nostro Salvatore. Nella consapevolezza che noi non viviamo che la morte, che noi non viviamo che la nostra rovina, la nostra vita diviene una supplica, una implorazione e una invocazione incessante a Nostro Signore. Ma quando noi viviamo un rapporto più intimo con Gesù, allora la nostra preghiera non sarà più un grido: «De profundis clamavi … », ma sarà la parola dell’amico all’amico. Ricordate quello che dice la Sacra Scrittura a proposito di Mosè? Parlava a Dio come un amico suole parlare con un altro amico; ed è questa la nostra preghiera quando viviamo un rapporto più intimo con Gesù; egli diviene il nostro amico, il fratello col quale viviamo. Si può vivere con lui non solo in chiesa in adorazione, ma sempre: egli è con noi, e noi siamo con lui!

La nostra parola diviene una parola umile e serena, una parola che implica una intimità dolcissima e casta. E poi, non abbiamo più bisogno nemmeno di parlare; quando l’amore è incandescente, l’unione si esprime nel puro silenzio dell’amore. Ma non basta! Uniti al Cristo, tutta la nostra vita non è più che una aspirazione sola al Padre celeste, e allora, proprio allora il Cristo ci solleva con sé nella sua ascensione gloriosa fino nel seno di Dio. È questo il cammino dell’anima nella vita spirituale, è il cammino della preghiera.

La preghiera è un rapporto, pregare vuol dire rivolgersi a qualcuno; è vivere questo rapporto, un rapporto che diviene sempre più grande, più intimo e più vero, così da trasformarci in Colui che preghiamo, così da divenire una sola cosa col Cristo. E divenuti una sola cosa col Cristo, diveniamo un rapporto solo di amore al Padre; e come il Padre genera il Figlio e il Figlio eternamente ritorna nel Padre, così il Padre celeste genera in noi il Figlio suo, perché il Figlio suo ci conduca con sé, ci trasporti con sé, ci sollevi con sé, per l’azione dello Spirito Santo, nel seno del Padre.

La vera dimora dell’anima sposa è il seno di Dio. È in questo seno che noi dobbiamo rimanere, è in questo seno che noi dobbiamo trovare la nostra dimora eterna, per vivere la stessa vita di Dio. La vita cristiana è questo rapporto di amore.

Questo è il cammino dell’anima nella preghiera. Ci sarebbe molto di più da dire, ma è importante notare come la preghiera sia un grande mistero, possibile soltanto in forza dell’Incarnazione del Verbo. Per l’Incarnazione del Verbo questa preghiera ci unisce sempre più al Verbo incarnato, ci unisce siffattamente al Verbo da farci una sola cosa con lui, parola della Parola. Così diveniamo – come dicevamo prima – puro rapporto al Padre e tutta la nostra vita innalza una sola parola, come dice san Paolo: «Abbà, Padre!».

 

«Padre … »

 

Per questo la preghiera cristiana inizia così; è più vera certamente la formula tramandata dal V angelo di Luca che non quella tramandata dal Vangelo di Matteo. Matteo ce la esprime in una forma liturgica più composta, forse più perfetta, ma non intimamente più vera, più semplice e viva. In Luca la preghiera si esprime così: «Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo Regno, dacci oggi il nostro pane quotidiano … ». La differenza più notevole e importante è l’invocazione iniziale: Padre! «Padre nostro» lo dicevano anche gli Ebrei, distintivo del cristiano è invece la semplice invocazione: Abbà! Il rapporto ora è del Padre con ciascuno di noi, perché ciascuno di noi è divenuto una sola cosa col Cristo: Abbà! È il tendere di tutto l’essere a Dio, il perdersi nell’abisso divino.

Che l’anima nostra viva questa preghiera, che l’anima nostra realizzi veramente questo rapporto di amore. Che cosa implica per noi questo rapporto e che cosa impedisce a noi di viverlo? Si è detto prima: all’inizio noi siamo dei malati, siamo dei feriti, viviamo chiusi in noi stessi. Il rapporto è amore; invece noi per il peccato ci siamo chiusi in noi stessi.

Vivere un rapporto col Cristo implica prima di tutto l’umiltà di riconoscere che noi viviamo la morte, e poi uno strapparci a noi stessi per volgerci a Dio, strapparci al nostro egoismo per aprirci all’amore; il rapporto è sempre atto di amore. Così il cammino della preghiera è anche il cammino dell’amore, di un amore che tende poi a trasformarci in Colui che è l’Amore perfetto. S’impone dunque prima di tutto che noi ci apriamo a lui, che viene verso di noi.

Ricordate la parabola delle dieci vergini? «Ecco, lo Sposo viene, andategli incontro!». Il più grande mistico della Chiesa, che non è inferiore a san Giovanni della Croce, il beato Ruysbroek, ha un libro fondamentale: «L’ornamento delle nozze spirituali», che è il commento a queste parole: «Ecco lo sposo viene, uscitegli incontro». Uscire da noi stessi, dai nostri modi, per andare incontro a Cristo; egli viene, egli viene a noi e noi dobbiamo andare incontro a lui: questa è la vita! Andare incontro a lui, uscire da noi stessi, dai nostri modi umani, poi anche dalle nostre virtù morali, e poi anche dal nostro spirito, è veramente un’estasi totale dell’essere per vivere in Dio, per vivere in Cristo, e in Cristo poi per vivere in Dio. Questo è il cammino dell’anima.

Non possiamo vivere in noi stessi; la vita di Dio è un’estasi eterna in una pace infinita, perché la pace è l’unità dell’essere, l’unità della natura, ma l’estasi è il rapporto delle persone.

L’Inno latino delle Lodi del lunedì dice: «In Patre totus filius et totus in Verbo Pater»: il Figlio è tutto nel Padre e il Padre è tutto nel Figlio. Questo vuol dire che tanto l’una Persona che l’Altra vivono all’infuori di sé, vivono nell’altra Persona che amano, che è amata. Tutta la vita di ogni Persona divina è questa estasi eterna di amore.

Anche l’anima, se vive veramente la vita di grazia, non può vivere che l’amore, ma vivendo l’amore vive un’estasi, vive un uscire totalmente da se stessa per vivere nell’amato, e l’amato è Cristo e poi l’amato in Cristo sarà il Padre celeste.

 

Dimorare in Cristo

 

L’apertura dell’anima che vuole vivere l’unione nuziale è un aprirsi totale, è un uscire totale da sé per non vivere più che in Cristo Signore. Se qualcuno vi chiede dove dimorate, non potete dire nella vostra cella perché la vostra dimora, per ora che non vivete ancora nel seno del Padre, è il Tabernacolo; ciascuna di voi dimora lì! E sapete dove dimora il Cristo? Dimora in voi! lo non posso trovare il Cristo che in ciascuna di voi; non posso trovare nessuna di voi, se veramente lo amate, che in lui: «In Patre totus Filius et totus in Verbo Pater!». Se siete ancora in voi stesse non amate!

Dimorare in Cristo! Non è forse questa la formula che più di frequente appare nelle Lettere di san Paolo? San Paolo dice 264 volte: «In Christo Jesu»! Questa espressione significa precisamente la legge fondamentale della vita cristiana: essere in lui, non in noi, ma in lui, così come egli è in noi. Nell’ultima Cena Gesù dice: «Manete in me et ego in vobis!», «rimanete in me ed io in voi»: la nostra dimora è il Cuore di Cristo, e dimora non vuol dire che ci si sta e poi si esce, vuol dire rimanerci; questa è la nostra casa, questa è la nostra cella, nella quale noi dobbiamo rimanere chiusi: «Rimanete in me e io in voi», ma se noi rimaniamo nel Cristo, egli rimane in noi, e allora non abbiamo da cercare Cristo al di fuori.

Se vivete con Dio, se siete il tempio vivente nel quale egli dimora, non siete già in Paradiso? Che cosa cerchi al di fuori di te – diceva il beato Suso – se tu porti nel tuo intimo il Regno stesso dei cieli? È molto più bello di questa chiesa il tempio che siete voi, e Dio è più in voi che in questa chiesa, perché è in questa chiesa per essere in voi, si fa presente nell’Eucaristia soltanto per comunicarsi. Perché si fa presente sotto le specie del pane se non per essere mangiato? Egli vuole vivere in voi!

Come Figlio di Dio ha la sua dimora nel seno del Padre, come Verbo incarnato egli vive in ciascuno di noi, perché è rapporto con ciascuno di noi, e perciò la sua gioia, come dice il Siracide, è lo stare coi figli dell’uomo. Ma dice di più: «Intra vos», dentro di voi, questa è la dimora del Cristo!

Che il Signore ci doni di vivere questa nostra vita religiosa che ci impegna precisamente all’unione nuziale col Cristo. Tutti dobbiamo raggiungere questa unione nuziale o nella vita presente o nella vita futura. Ma per un’anima religiosa, specialmente poi per un’anima claustrale, è d’obbligo anticipare la vita celeste già nella vita terrena. Ora è qui che dovete vivere questa unione ineffabile, ora è qui che dovete realizzare questa perfetta unità dell’amore con Cristo vostro Sposo, che vi ha scelte per sempre.

 

9.

GESÙ CRISTO E LO SPIRITO SANTO NELLA NOSTRA VITA

 

Vogliamo considerare ora la funzione, se così si può dire, dello Spirito Santo e del Cristo nella nostra vita. La parola «funzione» è impropria, perché sembra implicare che la Persona divina dello Spirito Santo e la Persona divina del Cristo siano a servizio dell’uomo, tuttavia serve a indicare che, nella libertà infinita del suo amore, Dio ha voluto ordinarsi all’uomo e ha fatto dell’uomo, in qualche modo, il suo fine, come Dio è il fine dell’uomo.

 

Dio tra noi

 

Ho detto: in qualche modo Dio ha fatto dell’uomo il suo fine, perché l’amato è sempre il fine dell’amante; l’amante tende ad amarlo e si ordina a lui, e Dio si è ordinato all’uomo. Si è ordinato all’uomo nello Spirito Santo perché, come si è detto all’inizio, lo Spirito Santo nella concezione trinitaria propria della teologia orientale è quella Persona divina mediante la quale Dio trabocca nella creazione; l’amore si effonde nella creazione dal Padre per il Figlio nello Spirito Santo: così Dio si dona a noi. Il dono di Dio nello Spirito rimane dono, cioè non avviene una unione ipostatica fra lo Spirito Santo e la creatura; piuttosto lo Spirito Santo donandosi unisce la creatura al Verbo di Dio. Così che al processo di discesa di Dio verso l’uomo risponde il processo di ascensione che dall’uomo risale verso Dio: dal Padre per il Figlio nello Spirito Santo Dio si comunica al mondo, nello Spirito Santo per il Figlio, il mondo, l’uomo e gli angeli salgono a Dio.

La vita cristiana è insieme questo movimento di discesa di Dio e di ascesa dell’uomo verso Dio. Dio discende fino alla nostra povertà, discende fino alla nostra umiltà, ma la discesa di Dio verso l’uomo provoca e determina l’ascesa dell’uomo verso Dio: «Descendit de caelis, ascendit ad caelum», colui che discende è il Figlio di Dio, colui che ascende è l’uomo Gesù, ma con l’uomo Gesù non è soltanto il Verbo incarnato, è tutta quanta la creazione che egli, avendo redento con la sua morte di Croce, solleva con sé fino al trono del Padre.

Noi dobbiamo contemplare il mistero di questa discesa di Dio. Abbiamo parlato nella meditazione precedente della umiltà di Dio. Abbiamo accennato all’umiltà di Dio come si esprime nelle Persone divine: per essa ogni Persona divina non vive per sé, ma è e vive nell’altra Persona correlativa. Ma questa è l’umiltà di Dio in se stesso. Più grande mistero ci sembra ancora l’umiltà di Dio nei riguardi dell’uomo; davvero il processo per il quale Dio si comunica al mondo è un processo con cui egli discende, e discende fino all’abisso più fondo.

Dio ha amato l’uomo e ha voluto assumere la natura umana. L’angelo è stato invidioso, perché voleva impedire a Dio l’umiliazione di assumere la natura dell’uomo, l’ultima tra le creature spirituali.

 

Ha scelto l’uomo

 

Perché Dio ha scelto noi, perché ha voluto scegliere l’uomo assumendone la natura? Non sarebbe stato già un miracolo di amore infinito se avesse assunto la natura dell’angelo, traboccando dalla solitudine infinita della trascendenza divina nella creazione? Egli invece ha scelto l’uomo!

Chi è stato in Terra Santa ha ancora maggior motivo di contemplare l’umiltà di Dio. Pensare che egli era non diverso da quei bambini poveri che vagano anche oggi per le strade di Nazaret e di Betlemme. Che umiltà di Dio! Proprio perché egli ha voluto assumere tutta la creazione ha . dovuto scendere nell’abisso più fondo. Se Dio avesse scelto l’angelo, avrebbe sollevato l’angelo a sé; ma la creazione fisica sarebbe stata abbandonata alla sua perdizione.

È mediante l’Incarnazione del Verbo che Dio ha assunto non solo la natura spirituale, ma anche la natura fisica dell’uomo e tutto ha trascinato in alto con sé. E dopo aver assunto questa natura egli, nella morte di croce, assume anche tutto il peccato del mondo e unisce così gli estremi, il peccato con la santità stessa di Dio. Non solo la natura creata è assunta, ma anche il peccato del mondo, perché egli si è fatto solidale con tutti i peccatori.

Così Gesù Cristo è l’Unità, l’unità che unisce gli estremi, il peccato e la santità infinita di Dio. Egli non ha peccato, ma si costituisce davanti al Volto del Padre come il peccatore pubblico, universale, assumendo il castigo di tutta la malvagità umana e affondando così nell’abisso più fondo non solo della creazione, ma dello stesso peccato, per sollevare tutto a Dio.

 

L’opera dello Spirito Santo

 

La contemplazione dell’umiltà di Dio che si incarna e che muore sulla Croce per l’uomo ci dice anche dove deve giungere ora l’ascensione dell’uomo nel seno del Padre. Chi compirà tutto questo? È per opera dello Spirito che il Verbo si incarna ed è per lo Spirito – come dice la Lettera agli Ebrei – che il Figlio di Dio incarnato si offre al Padre in sacrificio di espiazione, di propiziazione e di lode. È per lo Spirito Santo che Dio discende fino a noi, ed è per lo Spirito Santo che l’umanità viene assunta nella gloria e nella santità del Padre, sicché tutta la vita cristiana è sempre in dipendenza dello Spirito, non solo quando l’anima ne è cosciente, ma anche quando non ne è pienamente consapevole.

Non dobbiamo pensare che la vita ascetica sia l’azione dell’uomo; tutta la vita cristiana, in quanto è positivamente in cammino verso Dio, dipende sempre dallo Spirito Santo; soltanto nei primi gradi della vita spirituale l’uomo ha la percezione di essere lui ad agire. In realtà ogni azione di grazia suppone sempre l’iniziativa dello Spirito Santo, che muove l’anima a rispondere a Dio e a impegnare le proprie potenze.

Nella misura in cui sarà docile allo Spirito divino l’anima pian piano diventerà cosciente della sua passività, della sua docilità nei confronti di Dio, ma l’iniziativa è sempre di Dio.

Noi dobbiamo sapere, anche questo con profonda umiltà, che tutto nella vita spirituale è dono di Dio, anche la nostra corrispondenza alla grazia, anche l’impegno della nostra volontà nell’esercizio della virtù, anche la purificazione del cuore e più ancora la stessa conoscenza del nostro peccato; tutto dipende da Dio, tutto dipende dallo Spirito Santo che ci illumina, e ci rafforza, dallo Spirito Santo che ci stimola e ci spinge nel cammino della perfezione.

Se la docilità suppone una certa purificazione interiore, è perché suppone la coscienza che noi abbiamo dell’azione dello Spirito che ci porta. Ma anche se non abbiamo coscienza di questa azione, di fatto nulla l’uomo può operare se non in dipendenza della grazia divina. È dogma di fede che persino il desiderio di credere è dono di Dio; non solo la fede per la quale egli si comunica all’uomo nella sua rivelazione, ma il desiderio stesso è dono della sua grazia. Nulla vi è in noi di positivo che non sia dono dello Spirito di Dio! Dunque siamo, e dobbiamo riconoscerlo e dobbiamo viverlo, un dono totale della grazia divina; tutto quello che siamo, tutto quello che abbiamo, tutto abbiamo ricevuto da Dio, per tutto dobbiamo rendere grazie al Signore.

Diceva padre Faber che l’eternità non basterebbe per ringraziare Dio di tutto quello che abbiamo ricevuto soltanto in un giorno, soltanto al momento stesso della nostra nascita, e la gratitudine è il primo dovere che si impone all’anima, se veramente vive nella realtà il suo rapporto con Dio.

Non per nulla la preghiera cristiana ha il suq compimento nell’Eucaristia: l’Eucaristia è rendimento di grazie, ringraziamento al Signore per quello che siamo, ringraziamento per quello che non siamo, ringraziamento per quello che abbiamo, per tutto.

Nulla precede l’atto dell’amore col quale Dio ci ha voluti fin dall’eternità, e nel tempo – ora – ci sostiene, ci stimola, ci dà la vita, ci conduce e ci porta con sé. Questa nostra dipendenza va vissuta umilmente, serenamente; essa non è meno vera anche quando noi non la percepiamo, anche quando ci sembra di essere soli, anche quando ci sembra di essere abbandonati; viviamo questa dipendenza da Dio nella fede!

 

La nostra dipendenza dallo Spirito Santo

 

Ecco il primo dovere che si impone all’anima se vuole vivere veramente la vita cristiana; la vita cristiana c è in dipendenza dallo Spirito Santo, e sarà tanto più piena e vera, quanto più questa dipendenza sarà vissuta realmente; non dico sentita, può darsi che non la sentiamo, ma vissuta, vissuta nella fede. E che cosa vuol dire vivere questa dipendenza da Dio nella fede? vuol dire percepire che non siamo mai soli, percepire che un Altro ha l’iniziativa sempre in tutto quello che noi facciamo e viviamo, in tutti i nostri pensieri, in tutte le nostre volizioni e desideri. In tutto quello che noi viviamo, vivere questa dipendenza dall’Altro, che rimane il Dio Creatore, e sentirci animati da un Altro, posseduti da un Altro, sempre.

Nella misura in cui non ci sottraiamo alla sua azione, sentiamo che veramente è in noi Colui che opera e il volere e l’agire, non solo l’agire ma anche il voler agire: tutto in noi dipende da Dio. Quale umiltà profonda deve possedere l’anima che ne è persuasa!

Ma non basta l’umiltà; l’umiltà è soltanto la condizione a una fede che ci mantiene in un rapporto reale con Dio. Noi viviamo un rapporto costante con le cose, con la luce quando al mattino ci alziamo, col cibo che ci è necessario per vivere, con le persone con le quali ci troviamo, ma dobbiamo vivere anche la nostra dipendenza dallo Spirito di Dio.

Per l’Antico Testamento vivere in rapporto con Dio voleva dire morire. Come è possibile che l’anima viva un rapporto col fuoco, con questo fuoco inestinguibile che è lo Spirito? Come è possibile che l’anima viva con questa realtà immensa che è Dio? Non riduciamo Dio alla nostra misura; siamo noi che dobbiamo proporzionarci a Dio e allora apriamo la nostra anima a questo contatto con la divinità. Vivendo pure una vita umile e povera, una vita nascosta, noi ci rendiamo conto che in ogni nostro atto viviamo una vita più grande dell’universo; tutta la storia del mondo è nulla in paragone di un atto di fede.

lo vorrei richiamarvi precisamente a questo, perché molto spesso possiamo fare delle belle meditazioni che risultano soltanto parole vuote; si fanno anche lezioni di teologia, ma non si vive un rapporto più reale con Dio. Rendiamoci conto, le parole di un bimbo che si rivolge a Dio valgono più del cammino di un cosmonauta che raggiunge la luna. L’atto di un’anima che si unisce a Dio, o almeno si apre ad accogliere Dio, vale più di tutta l’avventura dell’uomo quaggiù sulla terra.

 

Grandezza della vita cristiana

 

Che cosa è mai tutta la storia, che cosa è mai tutta la vita dell’universo, in confronto di un Dio che tu ricevi, che tu accogli nel cuore? Ci rendiamo conto della grandezza della vita cristiana? La vita cristiana è la misura stessa di Dio, perché non si vive una vita cristiana che in quanto ci si apre allo Spirito Santo, e lo Spirito Santo è l’immensità stessa dell’amore, e lo Spirito Santo è l’onnipotenza stessa dell’amore.

Noi ci crediamo, ci crediamo davvero? Come è possibile allora che tante volte ci chiudiamo nell’esperienza della nostra povertà, della nostra solitudine, quando ci sembra che la nostra vita sia inutile e vuota? Viviamo la grandezza di questa vita cristiana che è rapporto con Dio!

Dice la teologia che l’atto dell’uomo che pecca ha un carattere quasi di infinità, non in se stesso, ma in quanto tocca Dio; ma se nel peccato l’uomo compie un atto che ha qualche cosa dell’infinità stessa di Dio, quanto maggiormente la nostra vita cristiana ha questo carattere di infinità. Voi credete che Dio abiti nel cuore dell ‘uomo? Lo credete davvero? E allora come fate a non pensare che tutta la Chiesa è in ciascuno di noi, come fate a non pensare che tutto l’universo è ugualmente in ciascuno di noi? Ciascuno di noi è più grande di tutta la creazione se accoglie Dio; la vita di ogni anima è più grande di tutta la storia del mondo, se è un rapporto con lui.

Come dovremmo vivere la grandezza della vita cristiana che ha la proporzione stessa di Dio, se è rapporto con Dio! E notate bene che lo Spirito Santo donandosi a noi ci unisce a Cristo Gesù, e fa sì che veramente in qualche modo Dio si incarni ancora, o piuttosto prolunghi questo mistero della incarnazione, in quanto ci assume nell’unità del suo Corpo. È il mistero di una nostra partecipazione alla Maternità divina, di una nostra partecipazione all’unione nuziale di Maria col Verbo Incarnato.

È dunque un entrare anche più profondamente in unione con una Persona divina, con la Persona del Verbo. Lo Spirito Santo si dona a noi e noi l’accogliamo, noi possiamo assecondare la sua azione; ma attraverso questa docilità un mistero immenso si compie, il mistero da cui dipende tutta la vita spirituale e dice tutta la grandezza di questa medesima vita: l’Incarnazione, Dio che si fa uomo in noi, Dio che vive ancora questa sua unità con l’uomo, in ciascuno di noi, perché ciascuno di noi vive la vita del Cristo e Cristo vive la nostra medesima vita: «Vivo ego iam non ego, vivit vero in me Christus».

Se nel processo di discesa dal Padre per il Figlio nello Spirito Santo Dio si comunica al mondo, è nello Spirito Santo che noi ora siamo uniti col Cristo e la nostra vita è Gesù: «Mihi vivere Christus est», dice san Paolo, la nostra vita è Cristo Signore! Ci rendiamo conto che cosa vogliono dire queste parole? Il Cristo è l’unità del tempo e dell’eternità, è l’unità di un corpo con l’immensità divina. Se noi viviamo il mistero cristiano, ogni luogo dove siamo è il segno della divina immensità, nella quale noi ci perdiamo; se noi viviamo il mistero della Incarnazione divina, ogni istante della nostra vita è inseparabile dall’eternità stessa di Dio. È quello che diceva suor Elisabetta della Trinità: vivere il presente, l’attimo presente, perché Dio che è l’eternità non ha passato e non ha futuro; l’attimo che vivi ha tutta la dimensione dell’eternità stessa di Dio.

 

La vita in Cristo

 

Viviamo noi questo? O viviamo ancora in un tempo che è slegato; che non è unito all’eternità di Dio? Ma se viviamo un tempo che non è unito all’eternità di Dio, non viviamo l’Incarnazione; se viviamo in un luogo che non è un segno dell’immensità divina non viviamo l’Incarnazione. Se voi vivete «qui», e questo «qui» non è un segno della divina immensità, voi non siete unite a Cristo, perché il Cristo è Colui che ha unito in sé il tempo e l’eternità, la natura umana e la natura di Dio: tempo ed eternità sono una sola cosa!

Di qui deriva quello che sempre io dico e insegno anche agli studenti di teologia, che cioè la storia per i cristiani non esiste; esiste una storia soggettiva, che implica per noi un inserimento sempre più reale nel mistero dell’Incarnazione divina. Ma se il Cristo, se il Verbo di Dio si è fatto uomo veramente nell’Incarnazione del Verbo, il tempo ha raggiunto il suo limite, oltre l’eternità non si va, non si può andare oltre il Cristo, se si andasse oltre il Cristo si andrebbe nel vuoto, dal momento che il Cristo è il Figlio di Dio ed è l’eternità.

Il Cristo è la giovinezza del mondo, e questo vuol dire che io vivo nel tempo, sì, ma non vivo realmente come cristiano se non vivo oggi, il giorno stesso di Dio, la presenza pura nel Cristo, la presenza pura e assoluta del Verbo di Dio. Credete forse che la mia Messa valga meno della Messa del Papa? Credete che la Messa che oggi io celebro sia più grande della Messa celebrata mille anni fa da un qualsiasi sacerdote? No, certo! È l’atto del Cristo, e questo atto rimane, atto terminale di tutta la storia, atto in cui tutta la storia si riassume.

Se dunque pensate che la Messa sia stata celebrata in quest’ora e sia racchiusa nell’ora, voi vi sbagliate, perché la Messa è la memoria, è l’atto salvifico che si fa per me presente. lo devo vivere questa presenza al di là di ogni tempo. Sì, vivo quest’ora, ma quest’ora si identifica per me con l’atto stesso del Figlio di Dio, un atto che è in superabile, un atto che tutti i tempi non potranno mai superare. Se i tempi potessero superare l’atto del Cristo, allora il Cristo si allontanerebbe sempre più da noi, allora saremmo ben infelici noi che viviamo dopo duemila anni dalla sua morte.

Ma egli rimane e sono io che vivendo nel tempo devo sempre più inserirmi in questa pura Presenza. Ecco l’Incarnazione! A questo ci chiama lo Spirito Santo. Non si vive nel tempo, si vive nell’eternità stessa di Dio; non si vive nello spazio, ma attraverso ogni spazio noi viviamo la divina immensità. Sareste delle prigioniere volontarie se il Monastero fosse la vostra dimora; il Monastero è per voi la condizione, il segno della divina immensità, come le specie del pane sono il segno della presenza reale del Cristo. Se il Cristo si identificasse con le specie sarebbe un Cristo ben povero; ma le specie sono soltanto il segno di una Presenza, che infinitamente trascende il segno. Così il segno del Monastero, questo luogo nel quale voi siete, è il segno dell’immensità della presenza pura del Cristo, nel quale voi dovete vivere. Così il segno del tempo: l’anima che vive un giorno solo, se vive veramente di Dio, può vivere una vita molto più grande di un’altra che vive nella vanità, che vive soltanto nel tempo, perché il tempo passa e passando non è.

Dov’è il giorno di ieri? Dov’è? Il tempo passa e non è, ma rimane la presenza pura del Cristo e tu devi vivere attraverso ogni tempo questa presenza, che è l’eternità stessa di Dio comunicata al mondo: ecco l’Incarnazione. Vivere mediante lo Spirito Santo vuol dire vivere la Presenza, questa Presenza pura di Colui che facendosi uomo non cessa di essere Dio, e fa sì che l’uomo, ora, in lui partecipi alla vita divina.

 

Cristo in tutte le cose

 

Questo dovete vivere, mie care Sorelle. Vi sentite voi chiuse? Sentite il rimpianto di un tempo che è fuggito? L’ansia e il timore di un avvenire del quale non disponete? Non c’è futuro, non c’è passato, c’è lui! Tutta la realtà di quel mondo nuovo nel quale noi siamo stati introdotti è Gesù. Non dice forse san Paolo, nella Lettera ai Colossesi (1,13), che egli ci ha trasferiti nel Regno del Figlio suo? E il Regno del Figlio suo è Dio medesimo, come dice Origene, lui stesso, la Presenza!

Fate sì, mie care Sorelle, che ogni cosa sia segno di questa Presenza. Non solo le specie del pane, ma la Consorella; le Consorelle non sono forse un segno del Cristo? Avete una Consorella, avete con voi Gesù! Ma gli animali stessi che trovate nell’orto; ricordate san Francesco, vedeva un bruco, un verme e si metteva in ginocchio: «Ego sum vermis et non homo!». Anche il verme era per lui un segno della Presenza. Vedeva un agnello e gli ricordava: «Ecce Agnus Dei!», l’agnello gli faceva presente Gesù. Ogni cosa per noi deve dire: Gesù!

D’altra parte non è questo l’insegnamento che ci dà il IV Vangelo? Egli è la luce, egli è il giorno, egli è la strada, egli è il buon pastore, egli è la vite, egli è il pane, egli è tutto … tutte le cose non sono che segno di lui. Non è più la molteplicità delle cose, tutta la creazione in lui si riunisce, in lui si riassume. Egli è il mondo nuovo nel quale noi siamo stati introdotti mediante la redenzione.

Una volta che Dio ebbe creato Adamo lo introdusse nell’Eden, nel giardino delle delizie; e noi redenti dalla morte di Cristo siamo introdotti in questo nuovo Paradiso di Dio, che è il Corpo di Cristo, che è il suo Cuore; noi viviamo nel Cuore di Gesù, come si diceva nella meditazione precedente. Sentiamo davvero di essere nel Cuore di Cristo? Sentiamo davvero di vivere la vita del Cristo e non la nostra piccola vita? Sappiamo uscire da noi stessi per vivere in lui la sua medesima vita? Quale vita? La vita cristiana è partecipazione a un atto solo, all’atto della morte e della risurrezione del Cristo. Che cosa è la vita cristiana, che cosa è la vita del mondo? Quanto più il mondo vivrà tanto più vivrà la sua morte e la sua risurrezione. Quale è l’atto ultimo della storia del mondo se non la partecipazione precisamente alla sua morte di croce? La fine del mondo è la partecipazione di tutta la creazione all’atto suo di morte; ma anche la risurrezione dei corpi, la risurrezione della carne, ultimo termine di tutta la vita e di tutto l’universo, è la partecipazione alla sua risurrezione. Non crediate che la risurrezione futura sia più grande della sua risurrezione, no, è un entrare di tutta l’umanità nel suo atto di risurrezione e di gloria.

Egli trascende tutto, egli è davvero la creazione nella quale noi ci introduciamo. Non è il Cristo che fa parte della creazione, ma è la creazione tutta intera che deve far parte di lui, è tutto il tempo che deve precipitare nel suo atto di morte e di risurrezione. Questo ci insegna il mistero eucaristico. Noi sappiamo che il mistero eucaristico è il mistero della Presenza reale. Che Presenza è quella del Cristo nella Eucaristia? Che realtà è quella del Cristo nella Eucaristia?

 

La presenza di Dio

 

Intanto una cosa bisogna notare: non è la presenza che è propria delle cose quaggiù, perché le cose quaggiù non sono totalmente presenti a me, né io sono totalmente presente a loro. Chi di voi mi conosce, perché possiate dire che io vi sono presente? È una presenza molto limitata, imperfettissima; mi conoscete per nome, avete visto il mio volto. Vi posso dire di più: non solo io non sono presente a voi, né voi siete presenti a me, ma nemmeno io sono presente a me stesso, non so nemmeno che cosa sono: io sono presente soltanto a Dio. Non Dio è presente a me, ma io sono presente a Dio, egli mi conosce!

Il vivere permette di entrare in questa Presenza di Dio, ed è questa l’Eucaristia. Nell’Eucaristia il Cristo è la Presenza ultima e definitiva, mentre quaggiù non si vive la presenza; non solo le cose sono al di fuori di noi, sempre, ma anche il nostro spirito è al di fuori di noi, non abbiamo la perfetta coscienza di quello che siamo. Ogni istante, ogni giorno viviamo una parte di noi stessi, ma non possiamo possederci pienamente: egli è la Presenza!

Questo vuol dire che egli non è più nel tempo, perché se vivesse nel tempo non vivrebbe la Presenza. Il tempo è soltanto un essere stirato tra un passato che non è più e un avvenire che non è ancora. Dove è il presente? Quando ho già parlato, se ne è andato, non è vero? L’attimo stesso lo posso dividere in due, passato e futuro, non esiste il presente: egli è la Presenza! Al di fuori del tempo egli è l’immutabilità stessa dell’amore di Dio; egli è la Presenza non solo perché è al di fuori del tempo, ma anche perché è al di fuori dello spazio, perché anche lo spazio divide, e Dio non è una Presenza locale.

Il segno sì è lì, le specie sono lì, ma Gesù non è lì, dice san Tommaso; se fosse lì, quanti Gesù ci sarebbero? E invece Gesù è uno solo. Le specie sono il segno di una Presenza che trascende ogni tempo come ogni luogo; una Presenza pura; noi dobbiamo entrare in essa.

Ecco che cosa vuol dire vivere la vita cristiana, attraverso ogni luogo e attraverso ogni tempo, entrare in questa Presenza immutabile e immensa del Cristo. Le cose che sono reali non consistono, non sono stabili; la realtà nostra è una realtà che scorre fra le mani, è e non è; passa la figura di questo mondo, ha detto san Paolo.

Egli è la Presenza reale, la realtà definitiva dell’estasi, la realtà del corpo glorioso del Cristo che eternamente rimane, non è più soggetto alla morte: egli sta, e in lui noi rimaniamo nella realtà di Dio. È in lui che noi siamo salvati, in noi stessi non viviamo che il nostro morire, in lui viviamo l’eternità stessa di Dio. Lo dice san Paolo nella Lettera ai Colossesi (1,17): «Omnia in ipso constant», tutte le cose, tutte le creature trovano la loro consistenza in lui, come il loro fondamento.

Senza il Cristo siamo come sulle sabbie mobili; così è il vivere del mondo, si vive nelle sabbia mobili e si affonda sempre più come nel nulla. Egli invece è il fondamento sopra il quale io riposo e rimango: «Omnia in Christo stant», trovo in lui la mia consistenza eterna, in lui sono salvato. Né i tempi né gli spazi possono più annullarmi: io sono in Cristo!

Dobbiamo veramente abbandonarci allo Spirito Santo perché egli compia questo grande mistero per il quale noi, assunti dal Cristo, non viviamo più che la sua morte e la sua risurrezione gloriosa. Una volta mi diceva uno che ora è in Processo di beatificazione: io non so perché si scrive la vita dei santi; non è necessario, la vita dei santi è la vita del Cristo, basta il Vangelo. Il Vangelo è la vita di ciascuno di noi, noi dobbiamo riconoscerci lì, più che in noi stessi, perché siamo più nel Cristo che in noi medesimi; in noi medesimi viviamo la morte, in lui viviamo la vita!

 

10.

L’AMORE CRISTIANO

 

(Omelia nella Messa in onore di san Francesco di Sales Prima lettura: 1 Gv 4,7 – 16; Vangelo: Mt 5,13 – 19)

Nell’Epistola san Giovanni ci dice che dobbiamo amarci gli uni gli altri: «Chi ama è generato da Dio … chi non ama non ha conosciuto Dio», poi aggiunge: «In questo noi abbiamo conosciuto l’amore, non siamo stati noi ad amare Dio, ma Dio ci ha amati e ha dato il suo Figlio per noi».

Come si fa ad amare se di fatto noi conosciamo che l’amore è soltanto di Dio? Come facciamo ad amare se dobbiamo riconoscere che non siamo noi ad amare, ma è Dio che ci ha amato?

Il primo insegnamento, il primo paradosso nasce proprio di qui. Tutta la vita cristiana si riassume nel comandamento dell’amore, e il comandamento dell’amore è al di sopra delle possibilità dell’uomo, perché non è l’uomo che ama: deve essere l’uomo ad amare e non è l’uomo che ama.

 

Amore che si dona

 

Questo insegnamento non è così difficile, anche se è paradossale; non è semplice, è profondo, ma non è difficile a capirsi. San Giovanni ci vuole insegnare che noi possiamo amare soltanto se Dio ama in noi. E di qui viene il fatto che nel Nuovo Testamento non si parla molto del nostro amore per Dio, ma si parla soprattutto dell’amore nostro per il prossimo. La creatura umana, infatti, tende inevitabilmente a Dio come a suprema bellezza, come a bene infinito, come a sua beatitudine; pertanto l’amore dell’uomo è sempre una ricerca di sé, è un amore che ha origine – come diceva Platone – nella nostra indigenza. Noi troviamo in Dio soltanto la nostra perfezione e la nostra felicità e l’amore per Dio nasce sempre e prima di tutto come «amar concupiscibilis», come un amore di desiderio, che a Dio ci spinge.

Infatti,parlando dell’amore di Dio, l’Antico Testamento lo esprime in questa sete che l’anima ha del Signore, in questo desiderio, in questa tensione di tutto l’essere a lui, perché in lui soltanto trova la sua pace. Ma non è questo l’amore vero; è amore, certo, ma è «amar concupiscibilis», e non è su di esso che insiste il Nuovo Testamento.

Il Nuovo Testamento insiste sull’amore che è la vita di Dio, che è l’Essere stesso di Dio, un amore che non è amore di desiderio, è piuttosto dono di sé; un amore che non è più un volere trarre a noi, ma un amore che si dona.

Ora se il nostro amore deve essere un amore che si dona, noi riconosciamo che è stato Dio il primo a manifestarlo e a viverlo, quando ha dato il suo Figlio alla morte per la nostra salvezza. Ma allora comprendiamo come è più facile riconoscere questo amore, che è l’amore stesso di Dio, nel nostro amore del prossimo, piuttosto che nel nostro amore per Dio.

È vero, possiamo amare Dio anche di un amore puro, ma è più difficile capirlo; è più facile invece capire come l’amore vero, l’amore cristiano, l’amore che è una nostra partecipazione alla vita divina, sia vissuto nell’amore del prossimo, perché l’amore del prossimo in noi può avere gli stessi caratteri dell’amore di Dio verso di noi.

Non per nulla san Paolo nella Lettera ai Corinzi (c. 13) dice che nel cristiano il carattere dell’amore del prossimo ha gli stessi caratteri dell’agàpe divina, cioè è un amore preveniente, è un amore gratuito, è un amore totale, è un amore universale.

È un amore dunque prima di tutto gratuito, perché non è attirato dall’oggetto, ma crea l’oggetto. È amore preveniente, perché non è una risposta all’altro, ma previene l’altro, è atto originario. È amore totale, perché impegna tutto l’essere, ed esige il dono di tutto l’essere all’altro che si ama. È un amore universale, perché essendo gratuito e preveniente e non determinato dall’oggetto, si estende su di tutti. Tutto crea, tutto si dona.

L’amore del prossimo ha gli stessi caratteri dell’amore divino, è un semplice atto perché è Dio stesso che ama attraverso di noi. Ecco perché san Giovanni parla tanto di questo amore vicendevole, di questo amore che noi dobbiamo portare ai fratelli. Nell’amore ai fratelli san Giovanni riconosce il segno di una presenza di Dio nel cuore dell’uomo, perché quando si amano i fratelli non siamo noi che amiamo, ma noi diventiamo lo strumento dell’amore stesso di Dio.

In questo dunque l’amore del prossimo è veramente un amore che rivela la presenza di Dio nel cuore dell’uomo, la presenza di Dio nel cuore del mondo, perché non ha la sua origine, non ha il suo principio in noi, ma in Dio stesso.

 

Amore che previene

 

Se noi dobbiamo amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze, come potremo amare il prossimo? Se l’amore di Dio totalmente ci consuma e deve consumare tutto l’essere nostro, che cosa ci rimane per poter amare il prossimo? L’amore del prossimo è già il segno di una nostra salvezza, è già il segno che Dio vive in noi. Noi amiamo Dio con tutto l’essere nostro perché tendiamo a lui come al nostro fine, ma una volta che Dio vive in noi come amore, il nostro amore non è più soltanto un «amar concupiscibilis» verso Dio, ma verso i fratelli ha gli stessi caratteri dell’amore divino. Prima di tutto dunque è un amore preveniente, cioè è un amore che non è una risposta. Non si amano gli altri perché sono buoni, o perché sono intelligenti, non si amano gli altri perché sono belli, o per il loro valore; dirò di più, non si amano gli altri perché sono peccatori, o perché sono nemici, non si amano per tutto questo.

Un grande filosofo anticristiano del secolo passato, Nietzsche, si chiedeva che cosa fosse questo amore del prossimo dei cristiani e lo paragonava all’atteggiamento non degli uomini, ma dei cani. Se dai un calcio a un cane lui ti viene a leccare i piedi; così, tu vieni bastonato da qualcuno, e tu lo ami; ma dagli un calcio anche tu – diceva Nietzsche -, allora manifesti di essere un uomo. Qual è la risposta che il cristiano dà a Nietzsche? Il nostro amore non è né una risposta all’odio dei nemici né una risposta all’amore degli amici, ma è come l’amore di Dio, precede sia l’odio che l’amore.

Può essere che l’uomo non ami, che il cristiano non ami? Impossibile, perché se è cristiano vive in lui Dio e se Dio vive in lui, Dio, che è amore, lo fa strumento di questa carità. lo amo, amo perché amo, come diceva san Bernardo dell’amore di Dio, amo senza ragione, non c’è altra ragione all’amore che il medesimo amore.

È difficile capire tutto questo. Molto spesso il nostro amore è una risposta, una risposta ai valori dell’altro: si amano gli altri perché sono buoni; oppure il nostro amore è una risposta che implica una vittoria su noi stessi, sul nostro egoismo: si amano anche coloro che ci hanno disprezzati, anche coloro che ci hanno odiati. Certo è bene fare così, intendiamoci, ma non è ancora questo l’amore cristiano. L’amore cristiano è come l’amore di Dio. In questo abbiamo conosciuto l’amore, che Dio ci ha amati per primo, prima che noi lo amassimo, prima che lo conoscessimo; ci ha amati quando noi eravamo lontani da lui, ci ha amati semplicemente. Egli è l’amore! Così il cristiano ama, non può che amare, la sua essenza è l’amore! Dio è amore, e se Dio è amore non può esservi altro atto di Dio che quello di amare.

 

Accettare l’amore

 

Tante volte anche i cristiani si chiedono se sia possibile che Dio ci mandi all’inferno, se egli è amore. Dio non ci manda all ‘inferno. Dio non condanna nessuno, Dio rimane amore; soltanto, sei tu che vuol andare all’inferno, sei tu che rifiuti l’amore, sei tu che non accetti di essere amato. All’inferno ci vanno soltanto coloro che ci vogliono andare: Dio rimane amore! Se per un istante solo il demonio si aprisse ad accogliere l’amore di Dio, l’inferno sparirebbe. È il demonio che si fissa per sempre nel suo atto di rifiuto e di odio nei confronti di Dio, ed è per questo che egli si chiude da se stesso nel volere la condanna e l’inferno.

Così è anche per l’uomo. Se l’uomo potesse cambiare la sua volontà, e accettare di essere amato, l’inferno sparirebbe; ma con la morte non possiamo cambiare più, in quell’atto in cui la morte ci trova noi rimaniamo eternamente. Se la morte ci fissa per sempre in un atto di rifiuto alla grazia, in un atto di rifiuto a Dio, in quest’atto noi rimaniamo; ma in questo caso siamo noi stessi che ci chiudiamo nell’inferno, non è Dio che ci condanna.

Le parole del Vangelo sono antropomorfiche; non dobbiamo pensare che Dio abbia alla destra gli eletti, alla sinistra i dannati e dica agli uni: <<Venite benedetti dal Padre mio nel Regno» e agli altri: «Andate maledetti nel fuoco eterno … ». Sono rappresentazioni, queste, per farci capire che l’inferno è reale ed esiste, che è eterno, ma non vogliono significare una condanna positiva di Dio. «Non sono io che vi giudico, non sono io che vi condanno – ha detto Gesù – è la Parola che vi ho detto che vi condanna» (cf Gv 12,47 ss). Questo perché se Dio ama, ma tu rifiuti l’amore, tu non puoi essere amato; Dio ama e Dio non è che amore, ma tu non puoi ricevere l’amore che in quanto lo accogli.

L’amore è libero non solo in colui che ama, ma anche in colui che è amato. lo posso anche rifiutare di essere amato da Dio, ed è questa la possibilità dell’uomo, la tragedia dell’uomo: l’uomo può rifiutare l’amore di Dio. Ma se l’uomo può rifiutare l’amore di Dio, Dio non cessa di essere l’Amore. Dio è amore!

Ora se Dio è amore, anche il cristiano è amore. Una volta che Dio ha amato l’uomo e l’uomo ha accettato l’amore di Dio, l’amore di Dio vive in lui. Come faccio io a essere amato, se questo amore di Dio non vive in me? Dal momento che egli mi ama e io accetto di essere amato, l’amore di Dio diviene il contenuto della mia vita: io stesso sono trasformato in amore, e la misura che dice come io veramente ho accettato di essere amato è la mia trasformazione nel medesimo amore. Uno che è amato possiede l’amore; se io accetto di essere amato da Dio, io stesso mi trasformo in amore, divengo amore, come Dio è amore. E trasformato in amore come Dio è amore, la mia vita diviene amore.

Facciano gli altri quello che vogliono di me, io non potrò che amare, amare gli altri, amare sempre, amare con tutto me stesso, amare senza misura, come mi ha amato Dio. La mia natura è l’amore, il mio atto è morire per tutti, è essere disposto a vivere il dono di tutto me stesso a ciascuno, senza differenza.

 

Amore senza discriminazioni

 

Secondo san Massimo il Confessore non ci deve essere differenza tra amare un povero o un ricco, tra amare un peccatore o un santo, tra amare il Papa o uno spazzino; non ci può essere differenza perché l’atto dell’amore deve consumare tutto il mio essere. È evidente che il modo di amare è diverso, perché diverso è il bisogno di ciascuno e l’amore corrisponde al bisogno, sempre col dono di tutto me stesso, ma secondo il bisogno. Il bisogno del povero è che gli dia da mangiare, a chi è ricco è inutile che porti da mangiare, lo amerò in un altro modo, lo amerò con amore di pietà. Il modo di amare è diverso, ma l’amore rimane uguale.

E qual è questo amore uguale per tutti? È la disponibilità di tutto l’essere a donarsi a ciascuno senza differenza. Certo questo dono è sollecitato dalle persone che incontro, dal momento che io vivo nel tempo e vivo nei luoghi. Devo vivere la mia disponibilità a ciascuno, però non posso donarmi attualmente se non alle persone che mi sono vicine, alle persone che mi conoscono, alle persone che in qualche modo entrano in rapporto con me e con le quali io entro in rapporto. Ma rimane vero che il mio amore per tutti è preveniente come l’amore di Dio, non è sollecitato dagli altri, ma gli altri lo rendono reale.

Come Dio è amore, così la Chiesa è amore, dice sant’Ignazio di Antiochia nella sua Lettera agli Efesini. Come Dio è amore, «Deus charitas est», la Chiesa è amore, ma anche il cristiano è amore, ed è amore nella misura che è trasformato in Dio.

Se noi vogliamo sapere a che punto siamo giunti nel nostro cammino di santità dobbiamo vedere fino a che punto siamo trasformati in amore, come Dio è amore. E questa trasformazione in amore si manifesta soprattutto nell’amore del prossimo, che non è un amore di risposta, perché io posso amare e debbo amare ugualmente sia il buono che il cattivo, sia chi mi ama sia chi mi disprezza, sia il ricco che il povero. Se faccio una scelta, non è più amore preveniente.

Ecco perché io cattolico non posso accettare la definizione di Chiesa come «Chiesa dei poveri»; la Chiesa è la Chiesa di tutti,. la Chiesa è amore per tutti. Prenderà questo amore il ricco come il povero, e d’altra parte molto spesso il ricco è più bisognoso di amore del povero, perché è più lontano da Dio. Sono sbagliate queste parole che implicano una scelta nella Chiesa, una scelta nel cristiano; io non posso scegliere, perché ho scelto già tutto, come diceva santa Teresa di Gesù Bambino. Chi ama ha scelto ogni cosa; non puoi amare più uno dell’altro, e se ami più uno dell’altro, tu non ami dell’amore di Dio.

Gesù nel V angelo dice che il nostro amore deve essere come l’amore del Padre che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti; piove sull’uno come sull’altro; se tu ti ripari perché non vuol ricevere la pioggia, non la ricevi, ma la pioggia scende su tutti. Così è l’amore di Dio, così è l’amore del cristiano. Se fai differenza non sei più cristiano, perché Dio non fa differenza, sono gli uomini che fanno differenza.

Non crediate che Dio ami di più un santo che un peccatore; egli non può amare un santo più che un peccatore, la verità è che il santo si apre ad accogliere l’amore di Dio e riceve questo amore, il peccatore invece non crede a questo amore e lo rifiuta.

 

Santità è credere nell’Amore

 

E anche noi non siamo santi perché non crediamo abbastanza all’amore di Dio; santo è soltanto Dio, noi non siamo santi: «Tu solus Sanctus», tu solo sei santo! La santità nostra è la presenza di Dio nel cuore dell’uomo, ma Dio si fa presente nel cuore dell’uomo nella misura che l’uomo crede e si apre ad accogliere l’amore di Dio. Dio che è infinito non ha modo di misurare; Dio è infinitamente semplice, non può amare più o meno, egli ama sempre infinitamente: sono gli uomini che pongono una misura al suo amore. Se Dio amasse più o meno, non sarebbe più Dio!

Perché Maria santissima è più santa di noi ed è più santa di tutti gli altri santi? Lo dice santa Elisabetta: «Beata tu che hai creduto!». La fede di Maria santissima nell’amore di Dio è tanta quanto è grande l’amore che Dio le porta; ed essendo l’amore di Dio infinito, tutto ella lo accoglie in sé; la fede di Maria misura il dono che Dio le fa. Anche la nostra fede misura il dono che Dio ci fa, ed ecco perché in fondo la santità di un’anima, secondo san Paolo, si misura dalla fede, e tanto più cresce la santità quanto più cresce la fede.

Quale fede? La fede nella vita: «Et nos cognovimus et credidimus charitati», dice il testo che abbiamo ascoltato. Noi abbiamo conosciuto e abbiamo creduto all’amore. Ma se l’amore di Dio è preveniente ed è gratuito ed è amore infinito, anche il nostro amore, se Dio vive in noi, deve avere gli stessi caratteri.

 

11.

LA CARITÀ NELLA VITA COMUNITARIA

 

Non crediate di poter amare dell’amore di cui parla Giovanni, dell’amore di cui parla il Vangelo; quello è l’amore di Dio e Dio è Amore. E voi potete amare soltanto nella misura in cui Dio vive in voi; in tale misura voi sarete l’amore, cioè amerete tutto, amerete tutti e non vivrete che questo amore, questa volontà di donarvi, senza limite, senza stanchezze, senza delusioni, senza che possiate mai porre una fine al vostro amore, perché quanto più amate tanto più sentirete il bisogno di amare, di donare amore, e sarà sempre poco quello che date, dal momento che l’amore vi spinge, non a donare soltanto tutte voi stesse fino alla morte, ma a donare Dio medesimo. Anche la morte sembra non porre un limite al dono che l’uomo deve fare di sé.

 

L’amore nella comunità

 

È questo amore che voi dovete vivere già in comunità, è questo amore che voi dovete vivere nella Chiesa, è questo amore che dovete vivere nella creazione. Prima di tutto nella comunità, perché il bene della comunità è proprio questo. Vivete in comunità, ma voi non avete scelto le persone con le quali ora vivete. Se foste state voi a scegliere avreste scelto per vostre Sorelle le persone che vi piacevano di più, che vi erano più simpatiche, le persone più buone, e invece vi trovate insieme a persone che tante volte esigono la vostra pazienza, persone che saranno anche buone, ma che vi sono sinceramente antipatiche, persone che non hanno doti di intelligenza particolari, né forse bellezza fisica né giovinezza; vi trovate a vivere con persone anziane forse un po’ brontolone … Non è una meraviglia tutto questo? È Dio che vi costringe ad amare a suo modo, non a modo vostro, ma a suo modo. A modo nostro noi ameremmo precisamente in quanto sollecitati dall’altro, dalla bellezza; dalla bontà, dalla giovinezza dell’altro e invece qui siete entrate a occhi chiusi.

E dopo aver vissuto qui dentro per mesi e anni, allora si comincia a conoscersi davvero e si impara davvero ad amarci, ad amarci come vuole Dio, di un amore che implica la pazienza, che implica l’umiltà, che implica il sacrificio di sé, quotidiano, sereno, senza stanchezze; questo è l’amore! Un amore preveniente e gratuito, perché non siamo noi che abbiamo scelto quelli che dobbiamo amare, e siamo impegnati ad amare non secondo quello che vogliamo, ma secondo quello che gli altri ci chiedono e quello che gli altri accettano da noi. Questo è l’amore!

Ecco la comunità! La comunità è precisamente il distintivo del cristianesimo. Dice Giovanni: l’amore è vicendevole, e l’amore vicendevole è quello che crea la comunità; l’amore che si dona, ma che non ha risposta, non crea comunità. È amore cristiano, ma non crea comunità. La comunità è creata dall’amore vicendevole; questo amore vicendevole è anche un amore cristiano, perché è un amore che non suppone la mia scelta, ma un amore che io debbo a coloro che Dio mette vicino a me, che Dio vuole che vivano con me la mia medesima vita, anche se io avrei scelto molto diversamente.

 

Amore perseverante

 

La comunità poi esige non solo un amore libero, un amore gratuito, ma anche un amore continuo. lo non posso mai mettere tra parentesi le persone con le quali debbo vivere. È facile amare quando ci si dona ai poveri, ma poi si chiude la porta; ora essi stanno di là e io sto di qua, e posso difendermi nei loro confronti. Voi non potete difendervi, siete sempre insieme, dovete stare sempre insieme. Non potete mai chiudere la porta e dire: tu sta’ di là e io sto di qua! Le vostre Sorelle fanno parte della vostra vita; la comunità è il vivere totalmente il dono di voi stesse senza più potervi sottrarre a questo atto di amore.

L’amore che si vive in comunità è un amore totale anche perché è di tutta la vita. Quando entrate nel Monastero fate una scelta che determina tutta la vita; e quindi implica un amore fino alla morte. È veramente un morire scegliere quello che non conosci, l’essere introdotti in una comunità che diviene per te il luogo dove devi esercitare l’amore fino alla morte.

La comunità non limita il vostro amore, perché l’amore è universale, ma vi insegna come si ama, perché soltanto nella comunità si impara l’amore del prossimo. Ecco perché in fondo l’amore cristiano crea sempre la comunità, ma la comunità religiosa, in cui si vive sempre insieme la medesima vita, in cui non ci si può sottrarre al rapporto con gli altri. Questa è la vera scuola dell’amore e proprio per questo san Francesco di Sales ha voluto che vi distinguesse l’amore, la dolcezza, l’umiltà del rapporto fra voi.

La vita religiosa cristiana prima di tutto è ordinata a creare la comunità dell’amore. lo credo che san Francesco di Sales abbia visto più chiaramente anche di santa Teresa, perché ha messo in maggiore evidenza il tratto evangelico della carità come fine supremo della comunità religiosa. Non ha voluto la vita eremitica o la vita contemplativa; la vita contemplativa viene in seguito, prima di tutto ha voluto la comunità dell’amore. La comunità dell’amore trascende qualsiasi altro fine nella vita religiosa, così come è contemplata da san Francesco di Sales, perché la comunità dell’amore è quella che dice di più la presenza di Dio nel cuore dell’uomo.

Voi siete il segno e il sacramento di una presenza di Dio, dovete esserlo, ma lo sarete se la vostra vita religiosa crea la comunità; essa non è creata dalla legge e approvata dal Papa, ma dalla vostra vita religiosa in quanto è impegno di amore umile, casto, di un amore paziente, di In amore che è dolcezza, è mitezza; è l’amore di Dio che i esprime e rende testimonianza di sé, nella vostra medesima vita.

 

Amore universale

 

Ma se la comunità religiosa è la scuola dell’amore, non deve essere limite all’amore cristiano, nemmeno al vostro more. Voi siete nella comunità religiosa per vivere un amore più vasto, un amore che crei la comunità della Chiesa, che si espanda tanto quanto si espande l’amore di Dio. È infatti l’amore di Dio che vive in voi, e voi dovete imparare ad amare nella comunità religiosa, per poi espandere questo amore su tutta la Chiesa, su tutta l’umanità. A circoli concentrici, perché evidentemente non siamo come Dio e amore anche in noi si espande in circoli concentrici, secondo che gli altri ci sono più o meno vicini; non perché lontani il nostro amore non debba giungere, ma perché condizionati come siamo dal tempo e dallo spazio, il nostro amore concretamente non può raggiungere gli altri che passando attraverso i vicini.

Per dirlo in altre parole: Gesù ha salvato tutti gli uomini, l’amore del Cristo ha raggiunto veramente tutti gli uomini, anche quelli che erano già morti, anche quelli che sarebbero vissuti poi nei secoli futuri. Però concretamente, durante la sua vita mortale, egli non ha conosciuto che quelli che ha incontrato, egli non ha amato se non quelli a cui il suo amore poteva giungere, in forza del condizionamento della sua natura umana.

Anche per noi l’amore verso il prossimo prima di tutto si deve esprimere nella comunità, perché Dio ha messo vicino a noi delle anime e queste possono essere più facilmente raggiunte dal nostro amore. Gesù non conosceva gli uomini che vivevano a Roma, fin tanto che è vissuto quaggiù sulla terra. Però, una volta liberato dai condizionamenti propri della natura umana, cioè con la risurrezione, il suo amore, che potenzialmente già abbracciava tutte le cose, ora si espande, trabocca e raggiunge gli estremi confini, non solo sul piano dello spazio, ma sul piano anche del tempo, e non vi è più creatura che non sia raggiunta da questo amore.

Anche durante la nostra vita è così. Pensate a santa Teresa del Bambino Gesù, più condizionata di così. .. viveva in un chiostro ed è vissuta poco, perché era ammalata ed è morta a 24 anni. E tuttavia dopo la morte diviene patrona di tutte le missioni. Durante la sua vita non fece che piccole cose, per esempio portava in refettorio quella suora bisbetica, vecchia … Faceva molto di più il beato Luigi Orione, che viveva nel mondo, andava in piroscafo, è stato in America, ha girato tanto e ha avvicinato tante anime. Lei soltanto le anime del chiostro!

Ma quella vita che sembra povera agli occhi umani, e apparentemente era povera, perché condizionata dalla sua vocazione carmelitana che la chiudeva in un chiostro, una volta liberata dai condizionamenti del tempo e dello spazio con la morte, ecco che manifesta la sua potenzialità nell’estendersi per tutta la Chiesa.

Così i santi. Invece gli uomini che vivono nel tempo, soltanto nel tempo, muoiono e muoiono davvero, spariscono; la loro vita che sembrava grande durante l’esistenza terrena, appare estremamente povera e nulla con la loro morte, perché Dio non viveva in loro.

Se io vivo soltanto la mia vita umana, la morte è la morte, cioè non vivo più; sono, sì, immortale, ma per vivere soltanto la morte. Invece se in me vive Dio, anche se questa vita di Dio non si esprime, per il condizionamento della mia natura, nella sua potenza, nella sua efficacia, nella sua universalità mentre io vivo, basta che si rompa il velo, che si rompano i legami che mi tengono avvinto ai condizionamenti di questa natura perché tale amore si espanda, secondo l’efficacia e la grandezza della presenza di Dio in me. Ecco la vita dei santi, i quali vivono più dopo la morte che durante la vita.

Così può avvenire per voi; può avvenire che una di voi viva veramente la vita divina, questo amore di Dio, e tuttavia le altre non percepiscano che una vita povera e insulsa. Ma se Dio è in voi, basta l’amore, e la vostra vita diverrà una sorgente efficace di rinnovamento per tutto l’Ordine, o almeno del Monastero.

I condizionamenti della nostra natura però non tolgono nulla ai caratteri propri dell’amore del prossimo, così come vengono definiti da san Paolo e vengono anche descritti da san Giovanni: amore, dicevo prima, preveniente e gratuito, amore totale, amore universale.

 

Amore senza misura

 

L’amore è universale perché non può conoscere per sé nessun limite, il limite lo conosce nei condizionamenti della propria natura, ma per sé non ha limite alcuno; se poni all’amore una misura, l’amore si spegne. Non puoi porre un limite all’amore; se tu dici: voglio amare fino a questo punto e non più, tu non ami. L’amore di per sé tende a bruciarti, a consumarti totalmente. Dare una misura all’amore è non amare; la misura viene nell’uomo e la vediamo anche nel Cristo, ed è la propria morte. Ma fin tanto che non sei morto per amore, non puoi dire di aver amato abbastanza.

Ecco perché la legge dell’amore, proprio in san Giovanni, esige il dono della vita: «Et nos debemus pro fratribus animam ponere», anche noi dobbiamo morire per i nostri fratelli, non c’è altro limite. Morire a noi stessi; non si tratta di essere ammazzati, ma è un morire continuo a noi stessi, al nostro gusto, alle nostre preferenze. È morire a noi stessi, alla nostra volontà, per compiere quello che sappiamo favorevole per gli altri: dobbiamo essere un dono di amore per tutti. Non vogliamo più nulla per noi, vogliamo soltanto poterci donare sempre di più, senza limite alcuno: questo è l’amore!

Come vedete, l’amore del prossimo non è una cosa facile, è un amore teologale. Si può sbagliare anche nel predicare questa virtù facendo discorsi che possono essere anche belli, ma che propongono soltanto beneficenza, assistenza, cose che appartengono in fondo all’ordine umano. Indubbiamente l’amore di Dio implica anche la beneficenza e l’assistenza, ma dobbiamo capire che l’amore del prossimo non è soltanto l’atto di una benevolenza umana, non è soltanto l’espressione di un cuore buono che si apre compassionevole alle miserie altrui, ma è l’amore stesso di Dio che vive nel cuore dell’uomo.

Dio solo è l’amore e Dio solo, vivendo nel cuore dell’uomo, ama i fratelli attraverso l’uomo. Per questo l’amore del prossimo è amore teologale, perché il soggetto di questo amore è Dio, cioè è Dio che ama attraverso di te. Dio che ama attraverso te e fa della tua natura lo strumento del suo amore.

 

Nel cuore di Cristo

 

Che cosa è stata l’umanità del Cristo, una volta che il Verbo divino ha assunto questa nostra natura? San Tommaso d’Aquino dice che la natura umana del Cristo è «instrumentum coniunctum Divinitati», è lo strumento del quale usa la Divinità che ha assunto questa natura; la Divinità vive attraverso questa natura umana. E proprio perché è la Divinità che vive attraverso questa natura, dicono i santi, che questa natura non ha retto alla potenza di tale amore e ha dovuto morire.

La natura umana non poteva rispondere pienamente alla potenza dell’amore divino che, attraverso di essa, voleva riversarsi nel mondo, e ha spezzato lo strumento di questo amore. È come un oceano che preme su una fragile difesa, per poter traboccare meglio. Un oceano che trabocca; questo è stato l’amore di Dio attraverso il Cuore di Cristo. Se anche noi siamo chiamati a morire per i nostri fratelli, non è perché la morte sia un fatto gratuito, è perché non potremo vivere veramente l’amore di Dio, o piuttosto Dio non potrebbe vivere attraverso di noi il suo amore se non spezzasse lo strumento umano, che è la nostra natura. Ecco perché i santi hanno dato al mondo questa testimonianza veramente meravigliosa, di un amore che parla, che fa lo stupore del mondo; è Dio che vive, è Dio che trabocca attraverso l’uomo, nel cuore dell’umanità.

Questo è l’amore del prossimo. Noi dobbiamo viverlo, ma prima di tutto lo vivrete se realizzerete la comunità dell’amore, che è il sacramento di una Presenza divina nel cuore del mondo. Sappiate amarvi, amarvi fino in fondo, amarvi sempre, amarvi senza stanchezze, amarvi senza misura, amarvi di un amore umile e casto, di un amore paziente e dolcissimo, di un amore che è mitezza ed è sacrificio di sé fino alla morte.

 

12.

REALIZZARE LA PAROLA

 

Alla parola segue il silenzio e il silenzio è più grande della parola, finché si ascolta, si accoglie il messaggio; ma quando il messaggio è ricevuto, deve operare, deve realizzare quanto conteneva. Ora per voi comincia il momento più bello. lo vado via e rimane il Signore; ma non rimane soltanto per parlarvi, rimane per trasformarvi in sé. I giorni che vengono sono più importanti dei giorni passati, perché nei giorni che avete passato c’è stato l’annuncio dell’Angelo, ma è soltanto dopo che l’Angelo è partito e la Vergine si è abbandonata alla potenza della Parola, ch’ella è divenuta Madre di Dio.

Ora dobbiamo attendere il compimento di quello che il Signore ha promesso. Le parole che il Signore vi ha dette non possono essere altro che una promessa, volevo dire un comando; ma non possiamo compiere la volontà di Dio se Dio stesso non la compie in noi. È infatti così che si esprime la preghiera che Gesù ci ha insegnato: «Sia fatta la tua volontà»; non dice: «Facciamo la tua volontà», ma: «Si faccia». È Dio solo che può compiere quello che egli ci chiede.

Comunque la cosa importante è il compimento, e il compimento è l’avvenire. Se Dio parla, la sua Parola deve realizzarsi nella vita di chi ascolta, deve incarnarsi nelle opere, deve farsi carne in noi.

Sta a voi, ora, realizzare quello che il Signore vi ha detto. Sono cose grandi, ma non sono più grandi di quelle che ha detto l’Arcangelo alla Vergine Maria; potranno operarsi in voi, come si sono operate in lei le parole dell’Angelo, a condizione che vi abbandoniate con fede assoluta a questa stessa Parola. Non crediate che questa Parola sia soltanto dottrina, o sia soltanto un comando che voi dovete realizzare; è promessa di Dio, ed egli stesso la realizzerà nella misura in cui voi crederete al suo amore, nella misura in cui vi abbandonerete alla sua forza.

Troppo spesso l’anima trasforma la Parola di Dio in una parola di insegnamento, o di poesia, ma in questo modo noi tradiamo il messaggio divino. Dio non parla soltanto per insegnare una dottrina o per fare della poesia, Dio parla perché vuole che la sua Parola si compia. «Egli parla e tutto è fatto», dice il salmo (32,9). Disse: «Sia fatta la luce». E la luce fu.

 

Nell’umiltà …

 

Che quello che è stato detto si realizzi in voi, si realizzi pienamente nella vostra umiltà; l’umiltà è il segno della grandezza. Non sarà mai così povera e umile la vostra vita quanto è umile e povero il segno che fa presente Gesù nell’Eucaristia. La povertà della vostra vita, l’umiltà della vostra vita non impedisce a Dio di operare cose grandi attraverso di voi.

Del resto lo vediamo. I santi che sono stati canonizzati in questi ultimi tempi sono stati tutti povera gente. Il Papa vorrebbe anche canonizzare delle persone importanti, ma non riesce, e non perché manchino i santi fra i grandi uomini, ma Dio non concede che facciano dei miracoli, perché è giusto che venga esaltata l’umiltà, che proprio l’umiltà sia il segno, per la massima parte di noi cristiani, di una divina presenza.

Così nemmeno la vostra povera vita può impedire a Dio di fare in voi cose grandi. Ma ricordate che Dio compie opere grandi a condizione di una umiltà vera, dell’accettazione serena del proprio nulla, nell’abbandono di una fede pura e semplice in Dio, così come ha vissuto la Vergine.

N on sono io che vi prometto che quello che vi ho detto si adempirà in voi, è Dio stesso che ve lo promette, perché non vi avrebbe parlato se queste parole non fossero una sua promessa; ma tali promesse si mantengono a condizione di questa umiltà e di questa fede che voi dovete a Dio. L’umiltà come segno di una Presenza; Dio non ha bisogno di grandezze umane. Vi dicevo che sono stati santi anche grandi uomini, e tuttavia Nostro Signore sembra prediligere gli umili, le anime più nascoste; si canonizzano, si fanno beate persone che nella loro vita non hanno avuto alcuna funzione di rilievo e alle quali nessuno dava importanza.

Anche Maria ha vissuto così durante la sua vita, nessuno si è accorto di lei, eppure non era la Madre di Dio? Non era la tutta santa? Allo stesso modo la vostra umile vita non impedirà a Dio di compiere in voi i prodigi della sua santità, se voi credete al suo amore. Ci credete veramente? Pensate davvero che quello che vi è stato detto è una promessa a voi rivolta da Dio? Se sono soltanto belle parole ci lasciano quello che siamo, ma se le riconosciamo come promessa divina, allora si impone per noi di abbandonarci in una fede pura e assoluta alla potenza di questa stessa Parola, perché Dio compia in noi quello che ci ha detto.

La differenza tra la Parola di Dio e la parola dell’uomo consiste precisamente in questo: la parola dell’uomo dichiara quello che è, ma non cambia nulla. Invece Dio non può dipendere dalle cose, quello che dice si compie: la Parola di Dio è creativa. Quando disse: «Sia fatta la luce», la luce non c’era e, detta la Parola, ecco la luce è apparsa sulla terra: quello che Dio dice si compie!

 

… e nella fede

 

La Parola di Dio per sé è efficace, ma esige una condizione, la fede. San Matteo nel suo Vangelo (13,58) dice che Gesù non poté fare miracoli a Nazaret perché non credevano in lui. Non è la fede che compie i miracoli, ma la fede in qualche modo scioglie l’onnipotenza divina, perché la misura del dono di Dio dipende dalla fede con la quale noi ci apriamo ad accogliere questo medesimo dono. Qui il dono è l’efficacia della parola; tanto la Parola di Dio opererà in voi, quanto voi saprete credere all’onnipotenza di questa Parola.

Abbandonatevi a Dio, lasciate che Dio vi possegga e operi in voi. Non mettete ostacoli alla potenza di questa Parola con la pochezza della vostra fede.

Noi non vogliamo che la Parola di Dio ci condanni, come dice Gesù nel IV Vangelo: «Non sono io che vi condanno e che vi giudico; la Parola che vi ho detta, questa è che vi giudica» (cf Gv 12,48). No, non vogliamo che la Parola di Dio ci giudichi, ma la Parola di Dio ci giudica nella misura in cui rimane parola. Se invece si adempie in noi e si incarna in noi, allora noi possiamo dire con Maria Santissima: «Cose grandi ha fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome».

È necessario che cose grandi faccia il Signore in noi, non solo per noi ma per tutta la Chiesa, non solo per la Chiesa ma per la sua medesima gloria, perché egli ci ha voluto come strumento della sua gloria e il nostro nome sarà sempre quello che dice san Paolo nella Lettera agli Efesini: noi siamo creati «in laudem gloriae gratiae suae» (1,6), in lode della sua grazia, in lode della gloria della sua grazia.

Ecco, mie care Sorelle, che cosa è stato questo breve periodo; è stato l’annuncio dell’Angelo per l’anima vostra, l’annuncio dell’Angelo che vi ha portato una Parola di Dio, detta personalmente a ciascuna. E questa parola dell’Angelo attende da voi le stesse disposizioni, lo stesso abbandono della Vergine pura.

Ogni qualvolta voi direte l’Angelus ricordatevi che Maria santissima è modello per voi di un’anima che si abbandona alla Parola divina, perché la Parola di Dio si incarni nel suo seno. L’Angelus non è una preghiera qualunque, è il mistero della vita spirituale di un’anima. L’annuncio di Dio che chiama l’anima a una grande dignità, la fede dell’anima che a questa parola si abbandona, il compimento della Parola divina nell’Incarnazione del Verbo: «L’Angelo del Signore portò l’annuncio a Maria … ecco la serva del Signore, si faccia di me secondo la tua parola … e la Parola di Dio si fece carne ed abitò tra noi».

Queste parole non riguardano solo la Vergine, riguardano ciascuna di voi. Avete ascoltato davvero le parole che vi sono state dette in questi giorni come Parole di Dio? Avete avuto fede, come la Vergine, in questa Parola che vi chiamava a grandi cose? E allora anche voi assisterete a quel miracolo a cui assisté la Vergine quando partorì il suo Figlio e «lo adorò beata», come dice il Manzoni. Anche noi saremo stupiti di quello che Dio compirà attraverso noi, perché Dio compirà in noi opere meravigliose, opere grandi, opere degne di Dio.

È mai possibile che tutto questo sia per noi? Sì, è possibile perché, se è Dio che parla, Dio anche compirà; dobbiamo crederlo! La vostra povertà, la vostra impotenza è la condizione perché Dio operi. Dio è il Creatore, Dio opera dal nulla. Se foste persone importanti Dio non saprebbe che farsene, ma siccome siete nulla, siccome siete povere e umili, proprio per questo Dio può operare in voi secondo la potenza della sua grazia.

Ringraziate Dio di essere nulla, così lascerete a Dio di essere tutto in voi. Ecco l’ultima parola ch’io vi dico. E ora conviene far silenzio a me e a voi; in atto di puro abbandono rinnoviamo la nostra consacrazione al Signore, perché strappandoci a noi stessi egli ci possegga e ci trasformi in sé. In umiltà, ma in un perfetto dono di tutti noi stessi a Dio rinnoviamo la nostra consacrazione al Signore, egli ci prenda e ci possegga; ci strappi davvero alle nostre radici, perché diveniamo una cosa sua, come fu sua quella carne e fu suo quel sangue che trasse dal seno della Vergine pura.

 

 

INDICE

 

Avvertenza                                                                                                   pag      1

 

1. Il mistero della Visitazione                                                                        »          2

Una visita personale, 2 – Una fede che apre gli occhi e il cuore, 2 – La realtà del mistero, 3 – Esperienza di comunione, 4 – Una triplice presenza, 4 – I frutti di questa presenza, 5.

2. La maternità di Maria e la nostra maternità                                             »          5

La nostra maternità, 6 – L’ascolto della Parola, 6 – Spose e madri, 7 – I santi sono necessari, 7 – Abbandonarci alla potenza di Dio, 8 – Le consolazioni di Dio, 9 – Responsabilità, 10.

3. Il segreto della santità                                                                                           10»

Docilità allo Spirito Santo, 10 – L’inabitazione divina, 11 – Come arrivare a Dio, 11 – Capire il dono di Dio, 12 – La purificazione del cuore, 13 – I nostri peccati, 14 – Con Dio c’è tutto, 14 – Sulle ali dello Spirito, 15.

4. L’azione dello Spirito Santo in noi                                                             »          15

Il discernimento degli spiriti, 15 – Unità e fedeltà, 16 – Gioia e pace, 17 – I segni dell’azione dello Spirito, 18 – Cristo nostra vita, 18 – Cristo nostro amore, 19.

5.         I doni dello Spirito Santo                                                                               20

L’azione dello Spirito, 20 – Il dono dell’Intelletto, 21 – Il dono della Sapienza, 21 – Il dono della Scienza, 22 – Il dono della Fortezza, 23 – Il dono della Pietà, 24 – Il dono del Timor di Dio e del Consiglio, 24.

6.         La realtà del nostro peccato                                                                         25

Uno che non consociamo, 25 – L’uomo è bugiardo? 26 – Fermenti di male, 26 – Purificazione continua, 27 – Dio solo, 28 – Tutto in Dio, 28.

7.         L’umiltà, fondamento della vita cristiana                                                      29

La nostra realtà di creature, 30 – La conoscenza di sé, 30 – Rapporto di amore, 31 – L’umiltà in Dio, 32 – Umiltà nell’intelligenza, 33 – Se non facciamo il male … , 33 – Umiltà nella volontà, 34 – Volere l’umiliazione, 35.

8.         Il nostro rapporto con Dio                                                                             36

Dio e la creatura, 36 – Il fondamento dell’ordine soprannaturale, 37 – Matrimonio spirituale, 38 – L’esempio di Maria, 39 – Il mistero della preghiera cristiana, 39 – «Padre … », 40 – Dimorare in Cristo, 41.

9.         Gesù Cristo e lo Spirito Santo nella nostra vita                                            42

Dio tra noi, 42 – Ha scelto l’uomo, 42 – L’opera dello Spirito Santo, 43 – La nostra dipendenza dallo Spirito Santo, 43 – Grandezza della vita cristiana, 44 – La vita in Cristo, 45 – Cristo in tutte le cose, 46 – La presenza di Dio, 46.

10. L’amore cristiano                                                                                                47

Amore che si dona, 47 – Amore che previene, 48 – Accettare l’amore, 49 – Amore senza discriminazione, 50 – Santità è credere nell’Amore, 50.

11. La carità nella vita comunitaria                                                                          51

L’amore nella comunità, 51 – Amore perseverante, 51 – Amore universale, 52 – Amore senza misura, 53 – Nel Cuore del Cristo, 54.

12.       Realizzare la Parola                                                                                     54

Nell’umiltà …, 55 – … e nella fede, 55.

CHIARA LUBICH

Posted on Gennaio 28th, 2009 di Angelo | Edit

Benedetto XVI rende grazie a Dio

per Chiara Lubich


Lettera del Papa in occasione del funerale della fondatrice dei Focolarini


ROMA, martedì, 18 marzo 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la lettera che Benedetto XVI ha inviato al Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, in occasione del funerale di Chiara Lubich, fondatrice del movimento dei Focolari, celebrato nel pomeriggio di martedì 18 marzo, nella Basilica di San Paolo fuori le Mura.



* * *


Al Signor Cardinale
Tarcisio Bertone
Segretario di Stato

Prendo parte spiritualmente alla solenne liturgia con cui la comunità cristiana accompagna Chiara Lubich nel suo commiato da questa terra per entrare nel seno del Padre celeste. Rinnovo con affetto i sentimenti del mio vivo cordoglio ai responsabili e all’intera Opera di Maria – Movimento dei Focolari, come pure a quanti hanno collaborato con questa generosa testimone di Cristo, che si è spesa senza riserve per la diffusione del messaggio evangelico in ogni ambito della società contemporanea, sempre attenta ai “segni dei tempi”.

Tanti sono i motivi per rendere grazie al Signore del dono fatto alla Chiesa in questa donna di intrepida fede, mite messaggera di speranza e di pace, fondatrice di una vasta famiglia spirituale che abbraccia campi molteplici di evangelizzazione. Vorrei soprattutto ringraziare Iddio per il servizio che Chiara ha reso alla Chiesa: un servizio silenzioso e incisivo, in sintonia sempre con il magistero della Chiesa: “I Papi – diceva – ci hanno sempre compreso”. Questo perché Chiara e l’Opera di Maria hanno cercato di rispondere sempre con docile fedeltà ad ogni loro appello e desiderio.

L’ininterrotto legame con i miei venerati Predecessori, dal Servo di Dio Pio XII al Beato Giovanni XXIII, ai Servi di Dio Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II ne è concreta testimonianza. Guida sicura da cui farsi orientare era per lei il pensiero del Papa. Anzi, guardando le iniziative che ha suscitato, si potrebbe addirittura affermare che aveva quasi la profetica capacità di intuirlo e di attuarlo in anticipo. La sua eredità passa ora alla sua famiglia spirituale: la Vergine Maria, modello costante di riferimento per Chiara, aiuti ogni focolarino e focolarina a proseguire sullo stesso cammino contribuendo a far sì che, come ebbe a scrivere l’amato Giovanni Paolo II all’indomani del Grande Giubileo dell’Anno 2000, la Chiesa sia sempre più casa e scuola di comunione.

Il Dio della speranza accolga l’anima di questa nostra sorella, conforti e sostenga l’impegno di quanti ne raccolgono il testamento spirituale. Assicuro per questo un particolare ricordo nella preghiera, mentre invio a tutti i presenti al sacro rito la Benedizione Apostolica. 

 

Dal Vaticano, 18 Marzo 2008

Benedictus PP XVI

Omelia del Cardinale Bertone

per le esequie di Chiara Lubich

ROMA, martedì, 18 marzo 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’omelia pronunciata dal Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, in occasione delle esequie funebri di Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, celebrate questo martedì sera nella Basilica di San Paolo fuori le Mura.

 

 

* * *

Eminenze Reverendissime,

Eccellenze Reverendissime,

illustri Autorità,

cari membri del Movimento dei Focolari,

cari fratelli e sorelle,

La prima Lettura ha riproposto alla nostra meditazione il noto passaggio del Libro di Giobbe. Il giusto, duramente provato, proclama, anzi quasi grida: “Io so che il mio redentore è vivo…io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno non da straniero”. Mentre porgiamo l’ultimo saluto a Chiara Lubich, le parole del santo Giobbe evocano in noi il ricordo dell’ardente desiderio dell’incontro con Cristo che ha segnato l’intera sua esistenza, ed ancor più intensamente gli ultimi mesi e giorni provati dall’aggravarsi del male che l’ha spogliata di ogni energia fisica, in una graduale ascesa del Calvario culminata nel dolce ritorno nel seno del Padre.

Chiara ha percorso la tappa finale del pellegrinaggio terreno accompagnata dalla preghiera e dall’affetto dei suoi che le si sono stretti in un grande ed ininterrotto abbraccio. Flebile ma deciso è stato, nel cuore della notte, l’ultimo “sì” al mistico sposo della sua anima, Gesù ”abbandonato – risorto”. Ora tutto è veramente compiuto: il sogno degli inizi si è fatto verità, l’anelito appassionato è appagato. Chiara incontra Colui che ha amato senza vedere e, piena di gioia, può esclamare: “Sì, il mio redentore è vivo!”

La notizia della sua morte ha suscitato una vasta eco di cordoglio in ogni ambiente, tra migliaia di uomini e donne dei cinque continenti, credenti e non, potenti e poveri della terra. Benedetto XVI, che ha subito fatto pervenire la sua confortatrice benedizione, adesso per mio tramite rinnova l’assicurazione della sua partecipazione al grande dolore della sua famiglia spirituale.

Esponenti di altre Chiese cristiane e di diverse religioni si sono uniti al coro di ammirata stima e di profonda partecipazione. Anche i mass media hanno posto in luce il lavoro da lei svolto nel diffondere l’amore evangelico tra persone di cultura, fede e formazione diverse. In effetti – lo possiamo ben dire – la vita di Chiara Lubich è un canto all’amore di Dio, a Dio che è Amore.

“Chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui”. Quante volte Chiara ha meditato queste parole e quante volte le ha riprese nei suoi scritti, ad esempio nelle “parole di vita” a cui hanno attinto centinaia di migliaia di persone per la loro formazione spirituale! Non c’è altra via per conoscere Dio e per dare senso e valore all’umana esistenza. Solo l’Amore, l’Amore divino ci rende capaci di “generare” amore, di amare persino i nemici. Questa è la novità cristiana, qui sta tutto il Vangelo.

Ma come vivere l’Amore? Dopo l’Ultima Cena, nel commosso congedo dagli Apostoli, – lo abbiamo riascoltato poco fa – Gesù prega “perché tutti siano una sola cosa”. E’ dunque la preghiera di Cristo a sorreggere il cammino dei suoi amici di ogni epoca. E’ il suo Spirito a suscitare nella Chiesa testimoni di Vangelo vivo; è ancora Lui, il Dio vivente, a guidarci nelle ore della tristezza e del dubbio, della difficoltà e del dolore. Chi si affida a Lui nulla teme, né la fatica della traversata di mari tempestosi, né gli ostacoli e le avversità di ogni genere. Chi costruisce la sua casa su Cristo, costruisce sulla roccia dell’Amore che tutto sopporta, tutto supera, tutto vince.

Il secolo XX è costellato di astri lucenti di questo amore divino. Non dovrà pertanto essere ricordato solo per le meravigliose conquiste conseguite nel campo della tecnica e della scienza e per il progresso economico che però non ha eliminato, anzi talora ha persino accentuato l’ingiusta ripartizione delle risorse e dei beni tra i popoli; non passerà alla storia solo per gli sforzi dispiegati per costruire la pace che purtroppo non hanno impedito crimini orrendi contro l’umanità e conflitti e guerre che non smettono di insanguinare vaste regioni della terra. Il secolo scorso, pur carico di non poche contraddizioni, è il secolo in cui Dio ha suscitato innumerevoli ed eroici uomini e donne che, mentre lenivano le piaghe dei malati e dei sofferenti e condividevano la sorte dei piccoli, dei poveri e degli ultimi, dispensavano il pane della carità che sana i cuori, apre le menti alla verità, restituisce fiducia e slancio a vite spezzate dalla violenza, dall’ingiustizia, del peccato. Alcuni di questi pionieri della carità la Chiesa li addita già come santi e beati: don Guanella, don Orione, don Calabria, Madre Teresa di Calcutta ed altri ancora.

E’ stato anche il secolo dove sono nati nuovi Movimenti ecclesiali, e Chiara Lubich trova posto in questa costellazione con un carisma che le è del tutto proprio e che ne contraddistingue la fisionomia e l’azione apostolica. La fondatrice del Movimento dei Focolari, con stile silenzioso ed umile, non crea istituzioni di assistenza e di promozione umana, ma si dedica ad accendere il fuoco dell’amore di Dio nei cuori. Suscita persone che siano esse stesse amore, che vivano il carisma dell’unità e della comunione con Dio e con il prossimo; persone che diffondano “l’amore – unità” facendo di se stessi, delle loro case, del loro lavoro un “focolare” dove ardendo l’amore diventa contagioso e incendia quanto sta accanto. Missione questa possibile a tutti perché il Vangelo è alla portata di ognuno: Vescovi e sacerdoti, ragazzi, giovani e adulti, consacrati e laici, sposi, famiglie e comunità, tutti chiamati a vivere l’ideale dell’unità: “Che tutti siano uno!”. Nell’ ultima intervista da lei rilasciata ed apparsa proprio nei giorni della sua agonia, Chiara afferma che “è la meraviglia dell’amore scambievole la linfa vitale del Corpo mistico di Cristo”.

Il Movimento dei Focolari si impegna così a vivere alla lettera il Vangelo, “la più potente ed efficace rivoluzione sociale” e da esso prendono avvio i movimenti “Famiglie nuove” e “Umanità nuova”, la casa editrice Città Nuova, la cittadella di Loppiano e altre cittadelle di testimonianza nei diversi continenti, e diramazioni laicali come, ad esempio, i “Volontari di Dio”. Nel clima di rinnovamento suscitato dal pontificato del beato Giovanni XXIII e dal Concilio Vaticano II trovò fertile terreno la sua coraggiosa apertura ecumenica e la ricerca del dialogo con le religioni. Negli anni della contestazione giovanile, il movimento GEN catalizzò migliaia e migliaia di giovani affascinandoli all’ideale dell’amore evangelico, allargando poi il proprio raggio di azione con “Giovani per un mondo unito”. La proposta del Vangelo senza sconti Chiara la volle fare anche ai bambini, ai ragazzi per i quali fu fondato il movimento “Ragazzi per l’unità”. In Brasile, per andare incontro alle condizioni di quanti vivevano nelle periferie delle metropoli lanciò il progetto di un “economia di comunione nella libertà”, prospettando una nuova teoria e prassi economica basata sulla fraternità, per uno sviluppo sostenibile a vantaggio di tutti. Volesse il Signore che tanti studiosi e operatori economici assumessero l’economia di comunione come una risorsa seria per programmare un nuovo ordine mondiale condiviso! Ed ancora quanti altri incontri con rappresentanti di diverse religioni, con esponenti politici e del mondo della cultura!

Mariapoli, città di Maria, volle chiamare così gli incontri e le proposte di una società rinnovata dall’amore evangelico. Perché città di Maria? Perché per Chiara la Madonna è “la preziosissima chiave per entrare nel Vangelo”. E forse, proprio per questo, è stata capace di evidenziare nella Chiesa, in maniera efficace e costruttiva, il suo “profilo mariano”. A Maria decise di affidare la sua opera dandole appunto il suo nome: Opera di Maria. L’Opera allora, afferma Chiara, “rimarrà sulla terra come altra Maria: tutto Vangelo, nient’altro che Vangelo e, poiché Vangelo, non morirà”. E come non immaginare che sia proprio la Vergine Santa ad accompagnare Chiara nel suo approdo nell’eternità?

Cari fratelli e sorelle, proseguiamo la celebrazione eucaristica, portando all’altare il nostro grazie al Signore per la testimonianza che ci lascia questa sorella in Cristo, per le sue intuizioni profetiche che hanno preceduto e preparato i grandi mutamenti della storia e gli eventi straordinari che ha vissuto la Chiesa nel secolo XX°. Il nostro grazie si unisce a quello di Chiara. Considerando i tanti doni e le tante grazie ricevute, Chiara diceva che quando si sarebbe presentata davanti a Dio e il Signore le avrebbe chiesto il suo nome, avrebbe risposto semplicemente: “Il mio nome è GRAZIE. Grazie, Signore, per tutto e per sempre”.

A noi, specialmente ai suoi figli spirituali, tocca il compito di proseguire la missione da lei iniziata. Dal Cielo, dove amiamo pensare che sia accolta da Gesù suo sposo, continuerà a camminare con noi e ad aiutarci. Quest’oggi, mentre la salutiamo con affetto, riascoltiamo dalla sua stessa voce queste parole che tante volte amava ripetere: “Vorrei che l’Opera di Maria, alla fine dei tempi, quando, compatta, sarà in attesa di apparire davanti a Gesù abbandonato-risorto, possa ripetergli – facendo sue le parole che sempre mi commuovono del teologo belga Jacques Leclercq : “… il tuo giorno, mio Dio, io verrò verso di Te… Verrò verso di Te, mio Dio (…) e con il mio sogno più folle: portarti il mondo fra le braccia”. Questo è il sogno di Chiara, questo sia anche il nostro anelito incessante: “Padre, che tutti siano una cosa sola, perché il mondo creda”. Amen!

 


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ARTURO PAOLI L’AMICO DEI POVERI – Acattoli – Masina

Posted on Gennaio 6th, 2009 di Angelo | Edit

Arturo Paoli amico dei poveri

 

Racconto di un’intervista pubblica al prete di Lucca che è vissuto cinquant’anni in America Latina

arturo-paoli 3Arturo Paoli, ribelle ai potenti e pazzo d’amore per i poveri, ha 93 anni ed è un sordo tranquillo. Prete di Lucca e “piccolo fratello”, protagonista della resistenza al fascismo e salvatore di ebrei, per mezzo secolo in America Latina e da laggiù autore di 46 libri e libretti, non sopporta l’apparecchio acustico: “Se lo metto sento gli altri, ma quando parlo io vado in confusione”. Preferisce fare brutte figure ma parlare chiaro. Ha fatto sempre così – Arturo l’indomabile – nella sua biblica longevità. Non si è mai curato della propria immagine, tutto teso ad ascoltare “la voce dello Spirito Santo” e a parlare ai fratelli come quella voce gli detta dentro, mostrandosi “pieno di gioia” e di “coraggio”, senza trovare strana – parole sue – la “sensazione di abbondanza e di accavallamento” che ha chi l’ascolta. Così più che mai ha parlato venerdì 12 maggio nella chiesa di San Giovanni in Lucca, dove l’arcivescovo Italo Castellani mi aveva chiamato per fargli un’intervista pubblica.
E’ stata una splendida avventura, quell’intervista. Il mestiere di giornalista mi ha portato a fare domande a ogni sorta di persone, in pubblico e in privato, al telefono, per radio e per e-mail. Ma non avevo mai intervistato un sordo. Tu gli chiedi come si trova a Lucca, ora che è tornato in patria e lui ti parla del “popolo schiacciato” di Foz de Iguaçù, nel Sud del Brasile, dove ha vissuto gli ultimi vent’anni e dove ha lasciato il cuore. C’è stato da ridere e da piangere, con un momento di panico all’inizio. Ma alla fine ci intendevamo benissimo.
Prima di incontrarci gli avevo mandato 12 domande scritte. Su sua richiesta ne abbiamo tolte quattro prima che venissero aperti i microfoni e ne è venuto un bell’intreccio. Io facevo una domanda e lui capiva quella sbagliata. Allora gli dicevo: “Arturo, la domanda è la seconda!” Mi guardava ridendo, come un bambino stupito d’essere entrato di corsa in una porta sbagliata e partiva per un’altra risposta a caso. Allora gli facevo “due” con le dita e finalmente imbroccava quella giusta. In tre casi ho dovuto prendergli il foglio dalle mani e mostrargli col dito: “Arturo, siamo qui!”
Altro che un’intervista, è stato un vero teatro! La chiesa era piena, nessuno s’è annoiato, un poco si rideva e molto ardevano i cuori nei petti.

Arturo, tu sei stato in America Latina anche a nome nostro, per tanti anni. Che ci dici ora che sei tornato?
Dico che bisogna rifare concreto il messaggio di Gesù, com’era sulla sua bocca. Il nostro mondo, che viene dalla cultura greca, ha reso astratto il cristianesimo. Vivendo tra i poveri ho imparato che il nostro compito è di continuare la missione di Gesù, che è venuto a mostrarci l’amore del Padre e a insegnarci ad amare. E’ venuto ad amorizzare il mondo, come diceva Teilhard de Chardin: amoriser le monde. Ecco, noi dovremmo offrirci al Signore come strumenti perché il mondo possa camminare verso l’Amore, che è Dio“.

Non hai mai avuto la terra ferma sotto i piedi e sei sempre vissuto come un nomade. Ma ora che hai riportato la tua tenda a Lucca, che dici della tua gente?
E’ un popolo buono ma sta troppo bene. I lucchesi sono un po’ seduti, bisogna scuoterli“.

La teologia della liberazione, Arturo?
Domani sarà l’unica praticabile. Anche tra quei teologi ci sono stati degli errori, che sono stati segnalati. Ma come teologia, non è stata propriamente condannata. Non poteva esserlo, perché è un modo di andare verso l’amore“.

Che dici del silenzio di Dio? L’impressione di non sentirne più la voce ha qualcosa a che fare con la difficoltà che abbiamo ad ascoltare i sofferenti?
Silenzio di Dio? Ma io direi silenzio dell’uomo! Apatia dell’uomo!” Qui il sordo gridava come se i sordi fossimo noi.
In fondo alla chiesa era in vendita l’ultimo dei 46 libri e il buon Arturo – finito l’avventuroso dialogo – ne firmava le copie, come si usa. E’ intitolato Vivo sotto la tenda. Lettere ad Adele Toscano (a cura di Pier Giorgio Camaiani e Paola Paterni, editore San Paolo, pp. 542, euro 24). In mezzo al volume ci sono belle foto. Una lo ritrae curvo e ridente, che partecipa alla concelebrazione nella Basilica di San Pietro, in Vaticano, per la beatificazione di Charles de Foucauld, il 13 novembre scorso.

Ho preso spunto da quella foto per domandargli della sua vocazione a farsi “piccolo fratello di Charles de Foucauld”, da dove venisse e che cosa comportasse.
Ha risposto che quella vocazione gli si era presentata come “scelta dell’ultimo posto”, che “non è solo umiltà e cioè desiderio di farsi piccoli”, ma anche “decisione di abitare nel luogo dove si incontrano gli ultimi“.

E’ stato Charles de Foucauld a portarti ai poveri, o eri già dalla loro parte quando ti sei incontrato con lui?
La scelta dei poveri e degli ultimi è nata nella guerra, quando la fame era un fatto ordinario anche qui a Lucca e c’era tanta gente sfollata che bisognava aiutare a trovare qualcosa da mangiare, o a sfuggire ai rastrellamenti“.

Che cosa ti portò a ospitare in seminario degli ebrei, procurando loro documenti falsi e cibo, tanto da meritare il titolo – che ti fu dato nel 1999 – di “giusto tra le nazioni”?
All’origine ci fu la decisione dell’arcivescovo di allora, Antonio Torrini, che diede quella disposizione a noi preti. Fu un atto di grande coraggio, che gli dobbiamo riconoscere“.

Sei stato cinquant’anni in America Latina. E’ cambiato qualcosa da quando ci andasti a oggi, nel dramma di quei popoli?
Domanda dolorosa. Direi che c’è stato piuttosto un regresso dal punto di vista materiale, ma un progresso nella coscienza della propria dignità. Sono sorte le comunità di base. Le parole più belle che ho sentito da uno dei miei poveri sono forse queste: Arturo, tu ci hai insegnato ad alzare la testa e noi non l’abbasseremo più!”

E’ stata una conversazione gagliarda, si direbbe a Roma. Io alzavo la voce perché Arturo mi sentisse, lui gridava perché parlava dalla pienezza del cuore. Credo che quella stupenda chiesa romanica a tre navate, antico battistero della cattedrale di Lucca, non avesse più udito tanto chiasso dopo l’invenzione degli altoparlanti. E’ anzi verosimile che neanche prima gli fosse capitato un tale trambusto, perché i nostri padri gridavano non avendo i microfoni, noi invece gridavamo nei microfoni.

Luigi Accattoli
Da La voce di Padre Pio 9/2006

 

Il dramma dell’opulenza

 

Intervista ad Arturo Paoli

 

Cosa succede se la Chiesa diventa troppo “organica” alla logica delle società capitalistiche occidentali? Trascura i poveri e perde coraggio e radicalità nell’annuncio del Vangelo.

Un profeta dei nostri giorni analizza lo stato di salute di una comunità ecclesiale che corre il rischio di essere molto “visibile” e potente ma poco autorevole.

Lui dice che basta guardarsi in giro per persuadersi che i risultati di una società fondata sull’egoismo sono disastrosi. Ed è anche convinto che lo saranno sempre di più. «A meno che…».

  • Arturo Paoli, 90 anni, una vita intensa di prete e di profeta, erede di Carlo Carretto (2 aprile 1919 – 4 ottobre 1988) tra i Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld, “Giusto delle nazioni” per Israele per aver salvato la vita a un ebreo a Lucca nel 1944, sacerdote da 62 anni, scrittore e conferenziere in tutto il mondo, uomo che da 40 anni condivide la vita con i boscaioli, i contadini dello Stato del Paranà in Brasile, spiega cosa ha guidato la sua vita e cerca di spendere qualche parola sulla fede in questa intervista che è un po’ come un testamento. Il nostro incontro con Arturo Paoli prende le mosse da un libro, l’ultimo dei suoi, intitolato Quel che muore, quel che nasce (Ega, lire 22.000).

  • Cominciamo da quell’”a meno che…”. Cosa vuol dire?

«A meno che non prendiamo su di noi il peccato del mondo. Concretamente, senza pensare che il raddrizzamento delle situazioni che non vanno, insomma che la redenzione dell’umanità, sia qualcosa affidata, come si diceva, al sangue di Cristo. Bisogna lasciarsi guidare dai volti delle persone, bisogna andare nei sotterranei della Storia dove vivono le persone. Dobbiamo occuparci delle vittime e non gioire per la bravura dello stratega».

  • C’è troppa angoscia in giro oggi?

«Sì, angoscia e paura. Ossessioni. Siamo ossessionati dal denaro, dal sesso, dal gioco e anche da santi buoni e un po’ antichi che pensiamo ci possano risolvere tutti i problemi. Compreso quello della nostra sicurezza. In ogni campo. Ma la nostra angoscia più grande è data dalla incapacità, che ci rode dentro, di prevedere il futuro. Facciamo finta di essere spavaldi, perché non riusciamo a calcolare tutto. Umberto Eco ricorre alla fantascienza per pensare, solo pensare, al futuro».

  • Come si fa a guardare nei sotterranei della Storia?

«Ci si riesce solo se al centro della vita il cristiano mette il Regno di Dio e non se stesso. Insomma facendo quello che coerentemente ci consiglia il Concilio Vaticano II. Bisogna far sparire l’io come preoccupazione personale, che provoca angoscia. Quanti sono quelli che credono che lo Spirito agisce nella Storia e la trasforma? Quanti credono al Vangelo che dice “chi vuol salvare la propria anima la perderà”? È un tema centrale perché rimanda alla polemica che Gesù ha aperto con il mondo religioso della sua epoca. Gli ebrei rimandavano continuamente al passato, ad Abramo, a Mosé, ai profeti. Lui no, si occupa delle persone. Dice che Dio è qui davanti a voi: il povero, la vedova… La carità non deve servire a me, non è un rimedio alla mia angoscia. Perché si può essere caritatevoli senza essere giusti, se si mantengono le distanze».

  • La Chiesa è responsabile di una religiosità della distanza?

«Certo. La Chiesa – non tutta – ha ritirato Dio in cielo. Dice agli uomini: consolati, il Regno di Dio è vicino. Nelle omelie dei preti si parla di cose lontane. I sacramenti sono parole e non simboli. Dov’è lo Spirito che sprona a fare? Il Vangelo ha raccomandato l’annuncio attraverso la persona, non attraverso le parole. È la persona che parla. La parola è solo rimedio d’emergenza. Se la mia vita non testimonia, io non posso neppure parlare».

  • Come sta la Chiesa?

«Male. Non ha seguito fino in fondo l’ordine dello Spirito Santo e del Vangelo. Il centro della predicazione si è spostato: dal Regno di Dio alla visibilità della Chiesa, alla sua grandezza, al suo potere. Parla molto la Chiesa, scrive molto. Non si può dire che non si occupi dei poveri: mai sono state prodotte tante parole sull’argomento, mai tanti documenti. Viviamo una religiosità opulenta, anche dal punto di vista intellettuale. Sappiamo come affrontare i problemi, sappiamo come risolverli, da soli, sempre da soli, senza contare sugli altri. I poveri, i barboni, gli esuli, cosa contano per me intellettuale, per la mia teologia, per la mia pastorale? Il Vangelo è ridotto a manifestazioni rituali o metafisiche. Voglio fare una provocazione e dire ai credenti: spogliatevi anche della vostra fede e allora comincerete a capire cos’è la gratuità».

  • Ma tutta la Chiesa è così?

«Non tutta. Nei Paesi poveri modelli di Chiesa diversi sono stati soffocati, ma non distrutti. Alla Chiesa era stata servita su un piatto d’argento la teologia della liberazione, ma è stata rifiutata. Ripeto: soffocata, non distrutta».

  • Eppure la riflessione attorno a un nuovo umanesimo è stata portata avanti…

«E con grande forza, per esempio da Giovanni Paolo II, soprattutto negli ultimi anni in modo profetico. Ma la Chiesa è troppo legata all’Occidente. Ha dovuto mantenere buone relazioni con il capitalismo. Gesù dice che saremo giudicati non sull’obbedienza, ma se l’avremo visto nudo, affamato, prigioniero, schiavo. Tutto lì. Vederlo sta solo a me».

  • Lei è dunque contro la Chiesa, i suoi dogmi?

«No. Per me l’obbedienza non è un problema. Ma dico che il concetto di “santo” non coincide necessariamente con “religioso”. Il giudizio va dato sulla costruzione del Regno di Dio: beati i poveri, i miti… Io sento che sarò giudicato su questo, non sul devozionalismo, che in questo secolo non ha impedito guerre e sangue. È sull’uso della mia libertà che mi si chiederà conto. Se uno risponde “Eccomi”, è santo. Diventare santi è drammaticamente difficile appunto per l’estrema semplicità della risposta. È difficile obbedire a Dio piuttosto che agli uomini».

  • La Chiesa tuttavia oggi è molto visibile, di essa si parla e si scrive. Allora cosa c’è che non va?

«La Chiesa gode di grande prestigio. Vorrei dire che il carisma del prestigio è sceso sugli Stati e sui popoli. Molti stanno ad ascoltare le parole del Papa. Molti restano ammirati dalla sua figura e dalle cose che dice. Ma la disobbedienza formale e la noncuranza rispetto ai suoi insegnamenti è enorme. Nella Chiesa quelli che prendono sul serio la responsabilità di fare la giustizia, di difendere il diritto dei poveri, molto spesso vengono emarginati. E di solito fanno molto meno di quello che è scritto nei documenti. Prenda il Brasile, Paese visitato tante volte dal Papa: che riscontro hanno avuto le sue parole forti sulla giustizia, sulla distribuzione della terra, sui popoli oppressi? Zero. Chi oggi è convinto che amore per gli altri significa uso sobrio dei beni? Molti credenti nel mondo praticano una buona spiritualità individuale, ma poi sono assolutamente sfrenati nell’uso del denaro, anarchici nell’uso dei beni. Non si può giustificare il primato di Dio, sopra tutti gli altri diritti».

  • Parliamo del Concilio. Perché lei spesso dice che è stato tradito?

«È stato il Concilio Vaticano II a richiamare i credenti sulla centralità del Regno di Dio e sul ruolo dello Spirito Santo. Il Concilio ci ha chiesto di aprire le porte e non soltanto di parlare di Dio, ma di camminare con gli uomini, di affermare il diritto a una vita piena, di esaminarci in base alla giustizia o all’ingiustizia. Non ci ha insegnato a consolarci con la religione. Quando Gesù va via da Nazareth non si mette a fare il guru, non va nel tempio di Gerusalemme ad ascoltare, ma ad attaccar briga, dando la prova tremenda del suo unico interesse: costruire il Regno di Dio. Noi invece ci ritiriamo sul culto, a volte in modo narcisista».

  • Ma le responsabilità sono dei preti o dei laici?

«Di entrambi. Cominciamo dai preti, che sono educati secondo forme rigidamente borghesi. I preti – non tutti – stanno troppo bene. Si occupano di sé stessi. C’è troppa paura di perdere vocazioni. Vengono allenati ad avere coscienza di sé, a essere altro rispetto al mondo. Ecco l’insistenza sul sacramento dell’Ordine che vale di più di altri sacramenti, compreso quello del matrimonio. Stanno chiusi nei seminari e vanno nel week-end nelle parrocchie. Io domando: quando si calano sulle piaghe di Cristo? È sicuramente migliorata la formazione intellettuale. Le omelie sono più colte, più dotte che in passato. Ma sono spesso anche più lontane dalla vita reale che nel passato. La Chiesa ha come paura di essere invadente, di essere esigente. Non si può dire che i giovani rifiutano la Chiesa. Se si analizzano le cose in profondità, si vede che essi non capiscono, non ci comprendono. Dio non c’è nel loro orizzonte».

  • E il laicato?

«Manca di audacia. Passa da un ritiro spirituale a un altro, ma poi non si interroga sulla propria responsabilità davanti alla società. Non si può essere contro la manipolazione della vita, contro una bioetica sbagliata, e poi dichiarare valido il sistema economico che arriva a queste aberrazioni, quello che succhia il sangue dei poveri, che è la benzina di cui ha bisogno il nostro mondo troppo ricco per vivere. Vogliamo una società nuova, ma poi applaudiamo al politico di turno. Siamo troppo miopi, non siamo capaci di guardare avanti. Il laico che vive la sua responsabilità politica con autonomia, sapendo che di essa deve dar conto solo davanti a Dio, oggi è scomparso. Naufragate le ideologie, il laicato religioso è stato inglobato nella Chiesa, che ne ha marcato la clericalizzazione».

  • Lei quali esempi indica?

«Ho ammirato De Gasperi, La Pira, Dossetti come cattolici. Uomini che sapevano distinguere l’area religiosa da quella politica e la propria autonomia e responsabilità dall’obbedienza dovuta alla Chiesa. Uomini che erano convinti di rispondere al Vangelo e non al prestigio della Chiesa nel Paese in cui abitavano. Dov’è finita la tradizione che loro hanno incarnato? Il laico credente – uomo o donna che sia – non deve rifugiarsi sotto le ali della Chiesa per stare al caldo e dimostrare che sa fare. Ha una responsabilità adulta, libera, autonoma, di rendere il mondo più umano della quale risponderà solo a Dio».

Arturo Paoli ha raccolto, insieme a Carlo Carretto, morto il 4 ottobre 1988, l’eredità di padre Charles de Foucauld. Secondo Paoli, è stato il fondatore dei Piccoli Fratelli «a indicare gli orientamenti essenziali di ogni vita religiosa: il servizio sacerdotale, assetato di giustizia, deve suscitare una gioventù che vuole una società differente».

Arturo Paoli è autore di oltre trenta opere, tra cui Camminando s’apre cammino (Cittadella editrice), Facendo verità (Gribaudi), Dialogo della liberazione (Morcelliana), Il sacerdote e la donna (Marsilio), Gesù amore (Borla), Cercando libertà. Castità, obbedienza, povertà (Gribaudi), Il grido della terra (Cittadella editrice).

 

ALE NOVANTATRE PRIMAVERE DI ARTUTO PAOLI

Di Ettore Masina


Man mano che la vecchiaia mi grava addosso e vedo crescere intorno a me la tenerezza dei miei figli, torno col pensiero al mito di Anchise, il padre che Enea si porta sulle spalle mentre cammina verso un nuovo destino. Ma questa volta il mito non mi sorregge perché devo parlare di una persona che ha sedici anni più di me.
A osservarla mentre se ne sta in silenzio, quella persona sembra un vecchietto lindo e sorridente, un po’ curvo (ma certo non tanto se si pensa che è nato nel 1912), con una bella chioma bianca: immagine rassicurante, di buon nonno, persino somigliante a quella di certi spot pubblicitari; ma quando il vecchio Arturo Paoli viene invitato a parlare, allora sembra rivestire il mantello del profeta Eliseo e la sua voce grida un vangelo inquietante.


La voce di Arturo Paoli, come ben sanno i suoi ascoltatori, è innanzi tutto un miracolo fisiologico: viene da polmoni giovanissimi che le consentono di dispiegarsi in chiese e in aule di convegni tanto da far vibrare le fibre dei tavoli e i vetri delle finestre. Mi ha detto una volta uno pneumologo: “Quest’uomo respira Spirito Santo“. Le parole che questa voce ci rivolge non sono mai aspre né minacciose, improntate, invece, a tenerezza per noi, ma severe nei confronti delle nostre coscienze e dei costumi e istituzioni dietro le quali cerchiamo di nasconderci. Come mostrano con ogni evidenza le pagine che leggerete qui di seguito, amorosamente compilate da Francesco Comina (lui sì Enea accanto ad un Anchise, che però preferisce camminare da solo), le parole che Arturo grida o scrive (o canta, come vedrete) più che indicarci i nostri infantili peccati personali ci additano l’enorme, genocida peccato collettivo, la arrogante risposta corale degli innamorati del potere – e di noi troppo spesso loro pavidi servi – alla domanda del Creatore: “dov’è Abele?” “E chi lo sa? Siamo forse i custodi dei nostri fratelli?” rispondono e rispondiamo. “Sì, grida il Signore con la voce di Arturo: sì, per questo vi ho creato: perché vi prendiate cura l’un l’altro di voi”. I

l vecchio amatore di filosofi è ormai convinto che “metafisica” e “traseendenza” siano parole che acquistano senso soltanto quando nascono dal coraggio di affrontare gli occhi di chi soffre.


Dietro questa convinzione e testimonianza di Paoli c’è ovviamente la sua esperienza storica. Egli ha il grande privilegio della lucidità senile: la quale diventa straordinario aiuto a quanti sanno che la memoria del passato è lezione preziosa per il futuro. Il nostro amico (e maestro) era bambino mentre in Messico e a San Pietroburgo sventolavano le prime bandiere delle rivoluzioni popolari; imparava a leggere e scrivere mentre in Italia venivano incisi nei marmi delle lapidi menzognere i nomi di centinaia di migliaia di poverissimi analfabeti, gettati nella fornace della prima guerra mondiale, e i reduci tornavano piagati e piegati dall’amarezza di una giovinezza perduta. Era un ragazzo quando vedeva le piazze della sua Lucca segnate dalla violenza fascista; entrava in ginnasio mentre Mussolini liquidava con ferocia la democrazia parlamentare; era un prete di 32 anni quando la crudelissima persecuzione degli ebrei lo spinse a rischiare la vita per salvare le vittime dell’odio di Stato e, quando, pochi mesi più tardi, si alzarono nel cielo i funghi velenosi dell’apocalisse atomica: Auschwitz e Hiroshima, supreme barbarie di un secolo.

Più tardi avrebbe assistito in America Latina a orrendi regimi militari e resistenze eroiche, a spaventosi eccidi, al martirio degli empobrecidos; avrebbe ascoltato le spaventose notizie che filtravano dalle camere della tortura, e visto crescere un nuovo classismo (capitalista), una nuova lotta di classe con la quale un’oligarchia della quale facciamo parte, più o meno volontariamente riduce all’insignificanza interi popoli – e alla fame.


La strada sui cui Arturo cammina da 93 anni è fiancheggiata dai ruderi di molte ideologie, speranze, illusioni, civiltà, filosofie, piccoli Mozart (per dirla con Saint-Exupèry) assassinati dalla miseria. Sulla stessa strada ha camminato la Chiesa , la “sua” Chiesa: quella che egli enormemente ama ma della quale conosce il dramma di essere semper casta et meretrix, come la definivano gli antichi Padri: congregata intorno al Crocifisso risorto e però popolata da uomini quasi sempre, quasi tutti, infedeli per viltà e per egoismo.

Molte di queste infedeltà hanno segnato anche le spalle di Arturo, e un po’ anche quelle di chi ha vissuto una parte della sua storia. Ricordo con dolore gli anni fra il 1948 e il 1958. Ero nel Consiglio diocesano della Gioventù italiana di Azione cattolica di Milano, ribelle, di quando in quando, agli ukase che giungevano dalla Roma vaticana. Rifiutavamo di entrare nel “grande” partito anticomunista nel quale Luigi Gedda, con il compiacimento di Pio XII e della Confindustria, avrebbe voluto fondere le “truppe” cattoliche, i fascisti, le forze padronali, le massonerie militari e via dicendo, per una guerra di religione.

Ci capitava, per incoraggiarci nei momenti bui, di fare un censimento dei nostri “protettori” romani: elencavamo monsignor Montini, monsignor Dell’Acqua, Carlo Carretto (più tardi Mario Rossi), don Arturo Paoli… Salvo Dell’Acqua, tutti gli altri furono esautorati e dispersi nei “giorni dell’onnipotenza”, gli ultimi tempi pacelliani.

Perdemmo allora (persi) notizie di Arturo, poi seppi che si era imbarcato sulle navi che trasportavano i nostri emigranti nella soccorrevole Argentina di Peròn. Poi che si era fatto Piccolo Fratello. Poi disparve nuovamente (o mi sembrò) nel tragico panorama dell’America Latina: villas-miserias, poblaciones, favelas, cantegriles.

Il Cristo che vi raggiunse era esigente, imponeva conversioni; ma era anche un Risorto fraterno, talvolta festoso. Ricordo l’emozione con il quale ricevemmo durante il Concilio una lettera inviata da lui a Mario Rossi: ci chiedeva di essere attenti a che l’assemblea di tutti i vescovi della Terra non diventasse un momento “giacobino”, cioè il tentativo di riformare soltanto intellettualmente la Chiesa , senza imprimerle il segno e il linguaggio dei poveri nei quali il Cristo si è identificato.

Per questo il vecchio indomito torna e ritorna fra noi, lasciando le sue nuove patrie. Viene come un messaggero. Ci porta il vangelo non più glossato dai seriosi teologi nelle celle dei conventi o nelle aule delle università ma restituito alla sua rischiosa purezza dall’esperienza dei poveri, dalla loro concretezza, dal loro ammaestramento così eloquente anche quando è silenzioso.

Ricordo un aneddoto raccontato una volta da Arturo. Era da alcuni giorni in un poverissimo villaggio dell’America Latina quando gli arrivò un pacco di posta. Vi trovò, fra l’altro, una notificazione della Congregazione vaticana per il culto divino nella quale si disponeva che per la consacrazione eucaristica si usassero soltanto calici rivestiti internamente d’oro o d’argento. Rise, Arturo: “Avevamo appena celebrato la messa, come ci sembrava doveroso, nella capanna di una poverissima vedova; e naturalmente come calice avevamo usato un bicchiere scheggiato. Quella notificazione ci divertì grandemente. Fu motivo di ricreazione, di elevazione…”.


Tornando e ritornando dalla Chiesa dei poveri, ogni volta mi sembra che ci scruti, temendo che il sistema in cui siamo più o meno tranquillamente insediati ci rubi il cuore. Da qualche anno ha incontrato il pensiero del grande filosofo Levinas (anche lui povero: profugo, straniero), gli ha dedicato uno dei suoi numerosi libri e ne rilegge continuamente gli insegnamenti. Dire, come Levinas, che dobbiamo darci in ostaggio al volto dell’altro, del fratello che soffre, gli sembra una versione dell’evangelo, riletta finalmente da un filosofo disposto a chinarsi sui dolori e le speranze dei poveri, né lo arresta il fatto che Levinas non fosse (o non si dicesse) cristiano.

Ma io credo che Arturo piuttosto che leggere libri preferisca intendere le voci della Terra: il fragore delle cascate di Iguaçu, presso cui abita, che sembra l’immenso grido dell’America Latina ferita dall’ingiustizia e lo strillo gioioso del bambino che egli accarezza nella “sua” favela; le canzoni dei giovani che vogliono la pace e il sussurro di chi gli affida i suoi problemi: è un salmo che lo accompagna e che lui, all’alba, canta mentre il sole ancora un volta sorride alle sue 93 primavere…

Ettore Masina

SUL TEMA DEL PERDONO – Arturo Paoli

Posted on Gennaio 6th, 2009 di Angelo |

Intervento di Arturo Paoli sul tema del Perdono

arturo-paoli 2gifLa domanda di perdono espressa dal Papa, nei giorni scorsi, con il bigliettino lasciato sul muro del antico tempio di Salomone, è stata valutata in vari modi.

Io penso che quella richiesta, ripetuta e certamente sofferta, in quanto doveva assumere una posizione molto personale contro un’opinione diffusa, rappresenta un senso di colpa che il Pontefice sente dentro di sé.

Questo è certo e, anche se non riusciamo a capirlo, di sicuro si rivelerà alle generazioni future.

Penso cioè che tale richiesta di perdono, abbia un valore profetico, intendendo per profezia atti o parole contenenti un valore nascosto, molte volte non percepito dalla stessa persona che li compie, ne tanto meno dalla generazione contemporanea che assiste a tali atti.

L’origine del senso di colpa espresso continuamente dal Papa, credo che debba essere ricercato dentro la nostra cosiddetta civiltà occidentale, nella nostra cultura cristiana in quanto il cristianesimo è certamente il perno culturale dell’Occidente.

E’ vero che viviamo in un contesto religioso pluralistico, ed è vero che altri elementi hanno contribuito alla visione del mondo prevalente in Occidente, ma non possiamo negare che il cristianesimo abbia svolto, e stia ancora svolgendo, un ruolo predominante.

Quando parliamo di riconciliazione, di richiesta di perdono, per evitare di pronunciare parole che restino nell’aria, prima dobbiamo porci le seguenti domande:

 

  • A chi chiedere perdono?

  • Quale colpa dobbiamo farci perdonare?

  • Quali sono le conseguenze di tale riconciliazione (a cui ci richiama continuamente il Concilio Vaticano II)?


Stasera vorrei riflettere su una domanda in particolare:

 

  • Di che cosa, noi cristiani, dobbiamo chiedere perdono?

  • E soprattutto: a chi dobbiamo domandare perdono?

  • E quali sono le conseguenze di questo nostro desiderio di riconciliazione?


Credo che le radici delle nostre colpe risiedano nel sistema economico dell’Occidente, la cosiddetta “globalizzazione”, un progetto centralizzato e universale. Sappiamo che questo progetto economico uccide ogni giorno quarantamila persone nel mondo, sappiamo che le enormi disuguaglianze sociali prodotte sul pianeta da tale sistema sono la causa principale di tantissimi conflitti armati. In tutto ciò, come detto, la globalizzazione gioca un ruolo determinate per varie ragioni: innanzitutto perché tali guerre si fanno con il “placet” dell’Occidente cristiano, ma anche perché la globalizzazione, in quanto imposizione di un unico modello economico e culturale, sta soffocando l’attività intellettuale e politica locale, mediante l’affermazione di un’organizzazione tecnologica così vasta e precisa da non lasciare spazio alle attività culturali. Questo è un modo di corrodere e contaminare la stessa mentalità umana: la tecnologizzazione, cioè l’esigenza di studiare il potere della tecnica, limita la libertà di pensare, di riflettere e di immaginare un altro tipo di società.


Vengo da un congresso di “Mani Tese” tenutosi a Firenze al quale hanno partecipato una quindicina di economisti di fama internazionale i quali analizzavano non i successi della nostra società tecnologica e tecnocratica, ma gli effetti negativi che essa produce nel mondo. Si è discusso della vendita illegale di armi, della mortalità infantile nei paesi cosiddetti “in via di sviluppo”, soprattutto del traffico di droga: al riguardo tutti gli studiosi presenti hanno dovuto ammettere che il commercio illegale di stupefacenti costituisce una risorsa di primaria importanza per il sistema economico occidentale: esso non può farne a meno.


L’esempio più drammatico e vergognoso del ‘900, che prova come la cultura occidentale sia fabbrica di morte per milioni di persone, è la Shoah ebraica. Anche se oggi Auschwitz è chiuso, lo sterminio in esso continua quotidianamente nel mondo in forma più subdola e la nostra cultura è il centro di questo genocidio permanente. Noi tendiamo a dimenticarlo, però tutto questo esiste. Nei paesi in via di sviluppo (Sud America, Asia, Africa) in cui si sta affermando il nostro sistema economico si vede con più facilità come dietro l’apparenza di vitalità e di esuberanza della società rappresentata dalla lite economica, ci sia in realtà la disperazione delle grandi masse che non condividono la ricchezza di pochi e soprattutto non hanno neppure la speranza di un futuro migliore.

 

Se penso al Brasile, paese da cui arrivo, chiunque arrivi a San Paolo o a Rio de Janeiro riceve un’ impressione di grande sviluppo e vitalità. Ma basta spostarci in periferia per incontrare le favelas, è sufficiente aggirarsi per le baracche per accorgersi a quale estremità di miseria arrivano queste famiglie, fino a che punto è disperata la loro condizione.


Quello che più mi impressiona è pensare come sia stato possibile che proprio dall’Europa, culla del più alto pensiero filosofico della storia dell’umanità ed origine di tutte le forme di cristianesimo (non solo della confessione cattolica), sia nato questo progetto di morte, fatale per milioni di persone. Davanti a questo dato di fatto dobbiamo fermarci un attimo a riflettere, altrimenti tutte le nostre meditazioni su perdono e riconciliazione sono inutili perché, per poterci riconciliare, bisogna avere la consapevolezza di offendere qualcuno. La nostra cultura, di origine greca, è caratterizzata da una visione idealistica, cioè dalla continua tensione a trascendere la realtà: essa ha lasciato in eredità l’abitudine a pensare in categorie universali, in forme lontane dall’esperienza vissuta quotidianamente.

 

Per questo motivo la nostra intellettualità ha sempre elaborato progetti fuori dalla realtà e poi ha preteso di calarli nel mondo reale. Anche la Chiesa, ovviamente, è stata influenzata da questa cultura: quando qualcuno accusa il Papa di essere uno strenuo difensore del capitalismo, viene sempre sommerso da una sterminata quantità di documenti, encicliche, studi, prese di posizione da cui emerge chiaramente come il Pontefice abbia sempre condannato le degenerazioni prodotte dal capitalismo. Ma tale documentazione è sempre un prodotto che cade dal cielo dell’astrazione e mai dalla pratica.

 

Non si tratta di una colpa della Chiesa, è la nostra cultura che è fatta così. L’uomo ha prodotto delle grandi astrazioni, ma, con il passare del tempo, tali astrazioni gli sono sfuggite di mano ed hanno cominciato a vivere in maniera autonoma.


Durante il nazismo, l’astrazione culturale era lo “Stato Etico” che aveva il diritto di sopprimere la vita dei singoli. Nel mondo contemporaneo, l’astrazione equivalente è il “Mercato”. Esso, da un certo punto in poi, non si è più concretizzato nella distribuzione dei beni, ma nell’accumulo di ricchezza a favore di pochi e provocando la morte di milioni di persone.

 

Ancora una volta l’astrazione è sfuggita di mano all’uomo. Gli economisti incontrati recentemente, mi hanno fatto notare come le borse economiche dei vari paesi possano incrementare i profitti senza che questo comporti un parallelo sviluppo della società, anzi più spesso questa si impoverisce.

Ci chiediamo: ma la nostra religiosità che c’entra con questi ragionamenti ?
Ebbene queste riflessioni toccano il cuore dell’essere cristiani. Per motivi culturali siamo portati a pensare che il credente, per essere tale, debba pregare, esercitare il culto e, magari, fare l’elemosina. In realtà in tutta la Bibbia, dall’Antico Testamento in poi, Dio ha sempre detto che del solo culto non sa che farsene, che essere cristiani vuol dire “essere assetati di giustizia”.

 

Quando Gesù cacciò i mercanti dal tempio, lo fece perché era ingiusto che loro si arricchissero in un luogo sacro lasciando che i fratelli morissero di fame. E’ nella giustizia che bisogna provare il proprio amore, non nell’esasperazione del culto. L’andare a messa ogni giorno è inutile se non corrisponde al nostro stile di vita, evidenzia soltanto uno squilibrio fra la nostra religiosità formale e l’impegno per la giustizia. Quindi dobbiamo convertire la nostra religiosità dalla formalità fine a se stessa alla giustizia. Ed essere giusti vuol dire: sentirsi direttamente responsabili degli altri.


Leggo senza mai stancarmi il capitolo 4° di Luca nel quale si dice che quando Gesù ha iniziato la sua opera nel mondo, non ha aperto una scuola di catechismo o di teologia, ma è andato a portare la Parola direttamente ai poveri ed agli afflitti. Questa è etica.


Quale differenza c’è tra la morale e l’etica? La morale è una imposizione che nasce dall’interno e guida i comportamenti. L’etica è un comportamento di responsabilità e di amore verso i fratelli e la natura.


Oggi, noi viviamo in un mondo senza etica, infatti nessuno va a protestare con un industriale che rovina il mondo con le sue fabbriche ed attenta così alla vita dei suoi fratelli. Questo succede perché l’unico valore riconosciuto è la capacità di produrre ricchezza, il resto è ininfluente. Siamo perciò arrivanti al punto che l’Occidente “cristia-nissimo” ha dato al mondo i Santi ma poi lo ha lasciato in mano al diavolo.


Per questo motivo se noi non cominciamo ad assumerci le nostre responsabilità, il mondo (inteso come gli altri e come natura) non ha assolutamente futuro.

 

Per poterci  convertire dobbiamo essere consapevoli che il mondo non è nostro e non è stato creato per noi. Il vero cristiano deve obbedire a Dio obbedendo al suo volere che si manifesta nel mondo, altrimenti io posso cantare mille “Alleluia” e dire “Dio ti voglio bene”, ma se tradisco il Suo progetto, la mia preghiera è una bestemmia. Il caos che c’è sulla terra lo abbiamo creato noi, non Dio: sono gli esseri umani che non hanno seguito il Suo progetto.


Quando penso alla protervia delle persone che pensano di poter fare quello che vogliono della natura e della terra, mi viene sempre in mente un signore che, in Brasile, è proprietario é proprietario di un appezzamento grande quanto il Belgio e l’Olanda messi insieme: egli ne può fare ciò che vuole perché quel terreno è legalmente suo. Questo è stato possibile perché viviamo in un mondo nel quale la fame e le altre necessità concrete dell’uomo non hanno valore. Contano solo i grandi progetti: è così anche per il Giubileo.

 

Quando si parla di riconciliazione si omette sempre di affermare che, per riconciliarsi concretamente, occorre ripartire dalla responsabilità: io sono responsabile degli altri (degli immigrati che passano da Pisa, dei barboni che dormono alla stazione, etc.) perché la mia forma di vivere, la libertà di scegliere ciò che voglio al supermercato può anche provocare la sofferenza, e addirittura la morte, di altri esseri umani. Tutto questo non è un’appendice della nostra fede, ma ne rappresenta la sostanza.


Penso che in futuro, la possibilità di riconciliarci con le altri religioni non sia tanto nel trovare identità di dottrina e di concezioni che sono profondamente diversi, ma nel rispetto di valori universali su cui tutti dobbiamo convergere: la responsabilità verso gli altri, la fraternità e la giustizia. Bisogna incontrarci nella responsabilità verso il mondo che, poi, non è altro che obbedienza a Dio, al suo progetto, al suo sogno. In questo senso la Bibbia è di una chiarezza assoluta: dalla prima all’ultima pagina non fa altro che dirci che noi siamo ospiti, non siamo i padroni del pianeta.

 

Poi la Bibbia e il Vangelo sono state involte in catechismo di settecento pagine, con tutte le conseguenze che ne derivano: elucubrazioni teologiche, dogmi, regole, ragionamenti. Ma per dire “ama Dio e ama il tuo prossimo sinceramente e lealmente ci vogliono settecento pagine? Per salvare il mondo e l’umanità, e per essere autenticamente cristiani, è necessario ritrovare la semplicità del Vangelo.


Chiudo con un aneddoto. Un rabbino chiese al profeta Elia: “Quand’è che verrà il Messia?”.

 

Ed egli rispose: “Perché non lo chiedi direttamente a Lui ?”. Certo – replicò il rabbino -, se solo sapessi dove posso trovarlo e da che cosa lo riconoscerò”.

 

Allora Elia disse: “Lo puoi incontrare alle porte di Roma e lo riconoscerai perché sarà in mezzo ai poveri, fra le persone che si lamentano per le loro piaghe”.

 

Il rabbino si recò a Roma e, trovato il Messia, gli chiese: “Quando verrai a salvarci?”.

 

Ed Egli rispose: “Oggi…”. Il rabbino se ne andò infuriato senza attendere che il Messia avesse completato il discorso. Tornato da Elia, gli disse: “Anche lui mi ha mentito, ha detto che sarebbe venuto oggi, ma io non vedo i segni della sua presenza”.

 

Allora Elia spiegò: “Hai avuto troppa fretta e non hai atteso la fine del suo discorso. Lui voleva dirti: Oggi, se voi ascoltate la mia voce”.


Questo racconto è significativo per due ragioni:

 

  • perché è vero che il Messia sta lì, in periferia, alle porte di Roma

  • e perché è vero che lo si incontra solo in mezzo ai poveri.

 

Oggi possiamo illuminare la Sua presenza se cominciamo a vivere realmente con responsabilità.

 

Arturo Paoli

LA MIA IDENTITA’ L’HANNO FORMATA I POVERI – Arturo Paoli

Posted on Gennaio 6th, 2009 di Angelo |

Arturo Paoli a Pisa

per presentare “Svegliati Dio“

 

Sabato 15 marzo nella sala delle Baleari di Palazzo Gambacorti

conferenza dell’ “uomo delle due culture

11/03/2008

Svegliate Dio!” è il titolo dato alla raccolta di conferenze tenute in Sardegna da Arturo Paoli, una serie di interventi lucidi e appassionati che il novantaseienne Piccolo Fratello del Vangelo ha svolto nell’isola in cui, 51 anni fa, nacque la prima Fraternità Italiana che si ispira all’opera del beato Charles De Focauld. Il libro è stato presentatoo a Pisa, nella Sala delle Baleari di Palazzo Gambacorti sabato 15 marzo, nel corso di una conferenza organizzata dal Comune di Pisa, coordinata dal professor Giorgio Gallo dell’Università di Pisa e introdotta dal curatore del volume Dino Biggio e dal professor Umberto Allegretti dell’Università di Firenze.

E’ intervenuto anche Arturo Paoli, “l’uomo delle due culture” che ha levato alta la sua voce profetica lungo il secolo scorso e quello attuale. Nato a Lucca nel 1912, e laureatosi in Lettere, Arturo Paoli entra in seminario e viene ordinato presbitero nel 1940.

Negli anni della seconda guerra mondiale partecipa alla Resistenza e contribuisce a salvare molti ebrei in fuga
dalla persecuzione nazista.

Il 25 aprile 2006 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi gli consegna la medaglia d’oro al valor civile per aver salvato la vita agli ebrei durante l’invasione nazista. Da due anni è tornato nella città natale e vive a S. Martino in Vignale, in una parrocchia sulle colline lucchesi dove ha aperto la casa ” Beato Charles De Foucault ” nella quale continua a svolgere incontri individuali e di gruppo con  persone provenienti da tutto il mondo. 

deserto

La mia identità l’hanno formata i poveri

intervista ad Arturo Paoli

 

di Patrizia Caiffa

arturo-paoli“Giustizia” e “amore per i poveri” sono le parole che ricorrono più frequentemente nel parlare pacato e sereno di fratel Arturo Paoli, 88 anni di vita sperimentata nella sua essenza più profonda, sublimata nella relazione con Dio e con i poveri.

Lo scorso anno è stato proclamato dallo Stato d’Israele “Giusto fra le Nazioni” per il suo impegno a difesa degli ebrei durante la seconda guerra mondiale.

 

Il terzo segreto di Fatima. Cosa pensare?


“La Chiesa cattolica ha sempre dimostrato, nei secoli, grandissima dignità e distacco nel giudicare le rivelazioni personali. Anche nei processi dei santi non le ha disprezzate ma non le ha nemmeno prese molto in considerazione, dando quel suggello di verità e autenticità che si dà invece alle verità rivelate.


Al contrario la solennità che ha circondato la promulgazione dei segreti di Fatima ha dato l’immagine di una cosa seria, come fosse la Santissima Trinità. Si è andati oltre il livello in cui sono sempre state le rivelazioni private, che erano sì rispettate ma non considerate una promulgazione di fede davanti alla gente.


Questo, secondo me, ha prodotto un effetto negativo sul pubblico: c’è in giro una specie di fede molto basata sul miracolo, sulle guarigioni attribuite a Santi o a persone speciali – quando invece il Vangelo parla con sobrietà e distacco dei miracoli di Gesù, che lui produceva per manifestare la presenza del Padre – con una carica emozionale intorno alla fede cattolica che non aiuta il suo progresso né la manifestazione del vero senso della fede, ossia quello di trasformare la società umana.


Mi pare invece sia rimasta molto nell’ombra una delle più importanti indicazioni del Concilio Vaticano II secondo la quale il centro della predicazione di Gesù è il regno di Dio e la preoccupazione per la giustizia, la difesa dei vinti, degli oppressi. Questa dovrebbe essere predominante. Invece tutto si riduce a qualcosa di molto simile alla superstizione.


E la gente che osserva dal di fuori la fede non la vede importante per la vita, non trova in essa il senso del vivere. Eventi come la rivelazione del terzo segreto di Fatima sono colpi di scena che attraggono l’attenzione sulla Chiesa, il Pontefice, utilizzando il metodo di questa società. Come con la pubblicità si cerca di attirare l’attenzione dei prodotti, anche la Chiesa usa lo stesso metodo. E’ come una specie di febbre che porta a cercare sempre qualche idea nuova per mantenere viva l’attenzione sulla Chiesa. E io credo che questo dispiaccia molto alle persone che amano la Chiesa. E quando la Chiesa istituzione non lancia ponti ma si ritira, la sola possibilità che rimane è il dissenso. Perdendo in questo modo la possibilità di una critica costruttiva, di un contributo di pensiero che potrebbe dare il mondo laico…”.

E della Chiesa di oggi?


“La scelta odierna della Chiesa è dal punto di vista strettamente spiritualista e della classe borghese. La spiritualità ufficiale che viene predicata, favorita, alimentata non è né per gli intellettuali, né per il popolo. E’ per la classe borghese, la classe ricca, statica, quella che non si vuol muovere, quella che in fondo sente che la Chiesa deve essere al suo servizio, che anche Dio deve essere al suo servizio.


Non c’è più un messaggio serio capace di essere capito dagli intellettuali e dal popolo. L’intellettuale non aspetta una spiegazione razionale ma la visione di una fede che abbia una efficacia storica sulla trasformazione del mondo. Il popolo aspetta la giustizia, la difesa dei suoi diritti, la solidarietà. Ma non c’è né l’uno né l’altro.


C’è una cosa di mezzo che soddisfa la festa, il fasto, il bisogno di colori, di immagini, di esultanze, di trionfi. Tutto a misura di una classe borghese che non assume mai la realtà, la povertà della realtà, la sfida e le sofferenze della realtà, per vivere nelle novelle della televisione…dove entra anche la preghiera, la festa religiosa, ma tutto viene appiattito”.

Ma se la Chiesa è ispirata dallo Spirito Santo e il Papa è il rappresentante di Cristo in terra… perché tutto ciò?

“Nella Bibbia il popolo d’Israele è stato scelto da Dio per essere il popolo testimone, quello che presenta al mondo il Dio vero. Eppure il popolo di Dio è pieno di prevaricazioni, di abbandoni, di tradimenti, di esitazioni…


Il nuovo popolo di Dio presenta le stesse esitazioni, debolezze umane, fragilità, momenti di oscurità… Perché nella Bibbia si parla sempre dell’Alleanza che si rinnova? Di un Dio che ritorna di continuo? Perché c’è sempre questo tradimento o cedimento del popolo che non è all’altezza della missione che Dio gli ha affidato.


Eppure Dio continua con la sua fedeltà. Questo è il grande mistero, che poi ognuno vive nella sua vita privata, quando ci chiediamo come sia possibile che Dio continui ad amare una persona indegna come me… Quando si vive questo nella propria esperienza personale non è strano veder succedere questo a livello macroscopico”.


Parlaci della tua esperienza di fede…

Durante l’esperienza della vita di fede ci viene tolta sempre più gradualmente la nostra iniziativa: nella relazione con Dio noi siamo totalmente passivi. Come posso io chiedere a Dio di ascoltarmi, di occuparsi di me? Non si può, Dio è sempre più in là.


Però penso che Dio, vedendo la nostra debolezza, la nostra struttura umana, si lascia invocare, supplicare, accetta una relazione che è fatta più dall’uomo che da Lui. Dio accetta la rozzezza di questa relazione, prende sempre più posto dentro di te, ti fa rinunciare ai tuoi desideri personali, alle tue iniziative, ai tuoi sogni, ai tuoi progetti.


E senti che tutto ciò che ti aiutava ad avere una relazione con Lui non ha più senso, perché Lui ti occupa completamente. Io ho cercato di essere sempre fedele a ciò che ci prescriveva la Chiesa nella preghiera, nella meditazione mattutina, ecc. Ora non potrei più perché dedico molto più tempo di quello che dedicavo nel passato a Dio. Ma è più ascolto che Parola.


L’ascolto è nel deserto, non si ha più bisogno di ricorrere a santi, letture, parole o a un libro o alla spiritualità. L’ascolto ti blocca lì dove sei e ascolti senza sapere veramente cosa. Ma senti che ascolti. Ti apri. Se dovessi dire quali sono le parole della mia preghiera sarebbero: ‘vieni’ ed ‘eccomi’”.

Come fare per arrivare ad un ascolto così vero?


“Non saprei dirtelo. Forse Dio ha cercato di vedere nel mondo chi è il più bisognoso, come succede nelle famiglie dove si corre verso il figlio più debole. Forse Dio si è diretto verso di me per questo. Ho cercato di essere vero, di essere sincero. Siccome Lui abita tra i poveri – e di questo non ho alcun dubbio – forse mi ha visto aggirare tra i poveri e si è chiesto ‘Chi è questo qui che visita le famiglie, che abbraccia il lebbroso? Facciamogli fare una particina nel mondo…’ Mi ha scoperto tra i poveri perché lì sono andato con amore umano. I poveri ti provocano amore. Tutto quello che ho e che sono lo devo a loro, altrimenti sarei stato uno speculatore, uno di quei freddi teorici… Ma vista dalla parte dei poveri la Chiesa a volte fa soffrire molto. E’ vero che il Papa ha mangiato con i barboni – e io sono sicuro che il Papa personalmente ama i poveri – però tutte le decisioni, tutte le scelte, sono contro i poveri, non tengono assolutamente conto delle loro esigenze, dei loro diritti. Nelle encicliche e nei discorsi sì, ma nelle decisioni pratiche, nell’esercizio della Chiesa, i poveri non hanno voce, non contano nulla. E dove non entra il povero Dio non entra. Possono dire quel che vogliono, possono fare statue d’oro, ma Dio non entra mai dalla porta dove non entra il povero”.

Ma prima o poi si realizzerà una Chiesa dei poveri?


“Forse si realizzerà quando subentrerà una grande crisi, una débâcle come l’invasione dell’islam o qualcosa del genere. Questo perché gli eccessi di trionfalismo provocano sempre, quasi come un fenomeno storico, delle reazioni di rivolta”.

Quali consigli dare ad un “cristiano qualunque” che voglia assumere pienamente la causa dei poveri?


“I poveri sono dovunque. Gesù ha detto ‘i poveri li avrete sempre con voi’. Purtroppo la storia è sempre una relazione tra vinti e vincitori, tra schiavo e padrone. Bisogna mettersi dalla parte dello schiavo e dell’oppresso, anche politicamente. Un parroco deve guardare alla sua chiesa non dalla parte delle pie signore che lo circondano ma dalla parte dei poveri”.

Eppure spesso ci si occupa dei deboli sono per fare bella figura, per assistenzialismo…


“Certo, e lì è il punto dolente. Non bisogna fare elemosina ai poveri ma fare in modo che formino la nostra identità. Loro me l’hanno formata. Io non vivo come loro, vivo umilmente ma mangio due volte al giorno, mi vesto, viaggio, ma la mia identità è in mano loro. Per descrivere questo Lévinas usa l’idea dell’ostaggio. Sembra un’idea astratta eppure è una realtà. I poveri danno tanto amore, fiducia, speranza, gioia, che non si trova negli altri ambienti. Lì ho trovato veramente Dio”.


Si realizzerà un giorno un mondo in cui non ci saranno più poveri?


“Forse non ci saranno più miserabili economicamente, ma gli oppressi ci saranno sempre. La donna sarà sempre oppressa. Nella relazione uomo-donna la donna sarà sempre in una situazione di svantaggio per la sua stessa natura, l’essere legata così fortemente alla natura, che è la sua grandezza e la sua limitazione. L’uomo ha sempre l’impressione, anche fisicamente, di essere quello che guarda la natura dal di fuori, con la grande tentazione di usarla, di dominarla.

E la donna, anche se non lo vuole, è sempre legata alla natura. Non dovrebbe esserlo ma è dalla parte dell’oppresso perché l’uomo vede sempre la natura come qualcosa che l’attrae e che lui deve dominare. La relazione è invece lasciarsi attrarre non per dominare ma per mettersi in una posizione di umiltà, di gratitudine, dicendo all’altro ‘tu mi dai la vita’ non solo fisica ma anche spirituale…”

Perché la Chiesa è tanto impacciata sui temi che riguardano la morale sessuale?


“La Chiesa ha paura perché ha l’idolo del celibato, e non si preoccupa di come i preti vivono la sessualità. Ora un po’ meno con le scienze attuali, ma prima la sessualità non esisteva e la repressione si manifestava con odio verso la donna. Fortunatamente la mia vita è stata un po’ speciale. Io ho vissuto da laico fino a 25 anni, sempre in scuole miste, avevo numerose amicizie tra le ragazze. Queste esperienze sono state molto utili perché rompono quel mistero che si crea intorno alla figura femminile. Io ho sempre cercato l’amicizia con la donna, che per me è necessaria. E’ diverso un amico uomo da un’amica donna, ti dà quello che l’altro non ti può dare”.


Prima del Brasile dei poveri hai vissuto molto tempo nel deserto. Cosa ti ha dato questa esperienza?


“La vita contemplativa ti libera completamente dalla moralità. Non per dire ‘fai quel che vuoi’ ma perché ti mette in una sfera di libertà diversa. Un esempio: a 18 anni ho conosciuto Giorgio La Pira, che era veramente un mistico. Una cosa mi impressionò molto: lo andai a trovare che era ammalato e trovai seduta sul letto una ragazza che conversava con lui con tanta semplicità e purezza. Mi fece vedere ciò che io inconsapevolmente cercavo e che forse non avevo raggiunto, la relazione semplice, affettiva. E’ stato un esempio migliore di quanto potevano darmi preti o altri discorsi: l’idea di una relazione trasparente. Un altro prete forse si sarebbe scandalizzato. Io capii subito il valore enorme di questa libertà. La vita contemplativa ti libera dalla moralità per metterti in una sfera diversa. La donna non è più la tentatrice, quella che devi sedurre o conquistare. E’ la tua amica che quando ti apri ti dà delle ricchezze che tu non hai”.

Quali sono le maggiori difficoltà nel lavorare con i poveri?


“L’impotenza assoluta e il vedere come siano sempre traditi da tutti. I poveri servono per esercitare le peggiori qualità dell’uomo: la furbizia, le dominazioni… come un sadico su un bambino. E si soffre nel vedere tutto ciò. Prima di venire in Italia sono andato a visitare dei sacerdoti dell’Idi (Istituto dermopatico dell’Immacolata) che hanno costruito un grande laboratorio di analisi in Brasile. C’era anche un medico tra di noi. Vedendo una stanza vuota chiese a cosa servisse. I religiosi dell’Idi hanno risposto che avrebbero messo lì due o tre letti per accogliere i poveri che venivano da lontano per fare le analisi. Il medico è andato su tutte le furie dicendo: ‘Non sapete come sono i poveri, se vengono qui a dormire non se ne vanno più’. Allora mi chiedo: in città come le nostre, dove corruzioni e imbrogli sono all’ordine del giorno come si può negare ad un pover’uomo il diritto di stare alcuni giorni a dormire in ospedale? Questa cosa mi ferì profondamente. E’ come quando i poveri ti rubano la bombola del gas e accade la fine del mondo… Anche i poveri hanno la loro dignità, noi non sappiamo cosa vuol dire passare dei mesi senza il gas, senza la possibilità di cuocere il riso. Invece i grandi furti vengono elogiati.

In un mondo così, dove trovare la speranza?


“Eppure i poveri ce l’hanno. La depressione non esiste tra i poveri ma tra i ricchi, tra chi ha la vita assicurata. Ai ricchi non manca nulla però devono andare dallo psicanalista. I poveri avrebbero tutte le ragioni per disperarsi eppure tra loro c’è sempre la speranza, la forza della vita, l’andare avanti perché il domani sarà migliore”.

Cosa diresti ad un pessimista che pensa sia inutile impegnarsi “tanto le cose non cambieranno mai”?


“Gli direi: amico mio, io non so se le cose cambieranno, confido che prima o poi cambino, quando sarà non lo so. L’importante è che io oggi mi salvi, e se sono un uomo ingiusto, se non assumo la lotta per la giustizia, non sono un uomo, mi distruggo. C’è una forma di egoismo superiore che è salvare se stessi. Salvare se stesso non a danno degli altri ma per essere salvezza anche per gli altri”.

Quali sono stati finora gli effetti della globalizzazione, soprattutto nel Sud del mondo?


“La globalizzazione ha cancellato tutto con una livella. Non esiste politica, idea, ma solo l’accumulazione, il denaro. Anche il Giubileo è entrato nella legge generale. I politici non sanno più dove è la destra e la sinistra perché non esiste politica ma solo il maneggio del denaro, per vedere se la nostra moneta regge. Anche la remissione del debito estero non serve se non sappiamo chi ne approfitterà. Il denaro dovrebbe servire per le spese sociali, quei servizi a cui il popolo ha diritto e che non può pagare. Se si mandano soldi là o si condonano ne approfitteranno sempre quelli che sono ricchi, quelli che dominano”.

Il capitalismo sta dando segni di cedimento?


“Il capitalismo deve finire, non c’è dubbio. Deve finire perché è contro natura. E’ come se in una famiglia entrano due milioni al mese che devono servire per le spese di mantenimento, la spesa, lo studio, ecc. Se invece io riservo 300.000 lire per mangiare e il resto lo investo perché i soldi devono aumentare, fruttare, si crea una conduzione innaturale della famiglia. Lo stesso succede nella società. I soldi vengono distribuiti sempre meno e sempre più accumulati. Alla fine soffocano, necessariamente”.

Il dialogo tra le religioni riuscirà a cambiare qualcosa nel mondo?


“Intanto viviamo in una società pluralista. O ci facciamo guerra oppure dobbiamo metterci d’accordo. Saranno messi in valore quegli aspetti della nostra fede che possono essere armonizzati nel dialogo. La responsabilità verso gli altri, la giustizia, questi linguaggi ci faranno sentire più affini le altre religioni. MI sentirei più vicino ad un musulmano che crede in questi valori piuttosto che ad un cattolico che vive egoisticamente e pensa alla sua fede come salvezza personale ma non è interessato agli altri. Il pluralismo non è solo accettazione dell’altro. E’ messa in discussione di quegli elementi comuni nelle diverse fedi, poi ciascuno sarà ispirato da una fede o dall’altra. Quindi avranno sempre meno valore i culti in sé. Tutto questo finirà, deve finire”.


Patrizia Caiffa
Nata a Roma nel 1966, lavora come giornalista nel Servizio di Informazione Religiosa. Si occupa di attività di volontariato nazionale e internazionale.

 

 

CRESIMARSI PERCHE’ – Bruno Forte Arcivescovo

Posted on Gennaio 6th, 2009 di Angelo |

CRESIMARSI PERCHE’ ?

     

Il ponte dell’asino: così un Vescovo aveva definito l’esperienza della cresima per molti dei nostri ragazzi. Stimavo quell’uomo e la sua curiosa definizione mi colpì al punto che la ricordo ancora dopo molti anni. Ora che sono vescovo anch’io e ho celebrato tante cresime, capisco forse di più che cosa quelle parole volessero dire. Nell’uso comune “ponte dell’asino” indica un passaggio particolarmente difficile.

La confermazione e la bellezza di Dio

Vorrei provare a capire con te che cos’è la cresima, che significa riceverla, come prepararsi ad essa e come farne tesoro per tutta la vita: ho scelto di parlartene perché mi sembra che questo dono di amore sia spesso poco compreso, vissuto da molti più come un obbligo da assolvere che come un incontro decisivo, in cui – se lo vuoi – lo Spirito Santo può riempire il tuo cuore e imprimervi il sigillo dell’amore di Dio per renderti capace di credere, sperare ed amare oltre ogni misura di stanchezza e ogni prova e sfida della vita.

 

1. Il ponte dell’asino: così un Vescovo aveva definito l’esperienza della cresima per molti dei nostri ragazzi. Stimavo quell’uomo e la sua curiosa definizione mi colpì al punto che la ricordo ancora dopo molti anni. Ora che sono vescovo anch’io e ho celebrato tante cresime, capisco forse di più che cosa quelle parole volessero dire. Nell’uso comune “ponte dell’asino” indica un passaggio particolarmente difficile. All’origine pare ci sia un’antica leggenda, che narra di un Santo, di un asino e del Diavolo. Il Santo doveva spesso attraversare un torrente impetuoso. Il Diavolo gli propose, allora, di costruirgli un ponte, a patto di potersi impadronire dell’anima del primo che lo avesse attraversato. Il Santo accettò e il Maligno sembrò assaporare il gusto di impadronirsi dell’anima dell’uomo di Dio. Questi, però, dimostrò di saperne una più del Diavolo, perché ad attraversare il ponte mandò per primo… l’asino, che – come il Santo aveva previsto – fu risparmiato, in quanto non gradito al grande Avversario! La storiella fa capire perché “ponte dell’asino” designi una prova, dove c’è il rischio di perdersi. Essa contiene, tuttavia, anche un altro messaggio: e cioè che ci sono momenti in cui – se ti fidi di Dio e usi intelligenza e buona volontà – puoi guadare anche il torrente più impervio e avanzare libero e sereno nel cammino della vita. Dire che la cresima è “il ponte dell’asino” significa allora riconoscere che per molti essa risulta una tappa difficile, alla quale ci si prepara spesso con un senso di costrizione, mescolando noia e curiosità, attesa e fretta di finire. Giunto al ponte dell’asino, il protagonista rischia di cascare nelle mani del Nemico, lieto di poterlo separare da Dio. Avviene così che – messi da parte i buoni propositi – il ragazzo appena cresimato si allontani dalla pratica religiosa e cominci a navigare da solo nel turbinoso mare della vita. Il momento della confermazione diventa allora per molti l’ora del congedo! È possibile fare qualcosa perché non sia così? Si può vivere la cresima con la saggezza e la fede del Santo del racconto? Si può estendere a tanti – a cominciare da te, che ti prepari alla cresima – l’esperienza di gioia e di nuovo slancio, che alcuni riconoscono di aver vissuto grazie ad essa? Se sì, come? Prima di cercare una risposta, ti confido che anche per me non fu così semplice e immediato superare il “ponte dell’asino” della mia cresima. Posso però anche assicurarti che la gioia di averlo superato, cercando di camminare fedelmente con Dio, è stata ed è veramente grande. Mi sembra perciò un dovere d’amore cercare insieme a te una risposta a queste domande…

 

2. Che cos’è la cresima? Secondo le parole della liturgia è il sacramento – cioè il segno efficace dell’agire divino – in cui ci viene donato “il sigillo dello Spirito Santo”. Lo Spirito viene a prendere possesso del nostro cuore, realizzando in noi quello che dice l’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani: “L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (5,5). Può comprendere, allora, la grandezza di questo dono chi sente quanto sia importante e insieme quanto sia difficile amare, scoprendo nel profondo di sé il bisogno di una forza che venga dall’alto e lo renda capace di amore al di là di ogni fragilità e paura. È una necessità che appare in tutta la sua urgenza anche dopo aver ricevuto il dono del battesimo. Lo vediamo in questo episodio della vita della Chiesa nascente: “Gli Apostoli, a Gerusalemme, seppero che la Samaria aveva accolto la parola di Dio e vi inviarono Pietro e Giovanni. Essi discesero e pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo; non era infatti ancora sceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo” (Atti degli Apostoli 8,14-17). Chi è questo Spirito Santo? Nel Dio, che è Amore, c’è un eterno Amante, il Padre, da sempre e per sempre sorgente di amore; c’è un eterno Amato, il Figlio, che accoglie l’amore e lo ricambia, insegnandoci che anche il ricevere è divino; e c’è l’Amore personale, donato dall’Uno all’Altro, lo Spirito, che è al tempo stesso il vincolo che unisce il Padre e il Figlio e colui che apre il loro amore ad effondersi nella creazione. I Tre sono uno nella comunione profondissima dell’amore divino, l’unico Dio nella Trinità delle Persone. Quando lo Spirito viene ad abitare in noi, agisce al tempo stesso come vincolo di unità e sorgente di libertà: unisce il nostro cuore al Padre, vi rende presente Gesù e ci spinge a darci agli altri nell’amore, valorizzando in pieno la nostra libertà: “Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito” (Galati 5, 25). Cammina secondo lo Spirito chi vive la fede, la speranza e la carità, testimoniando agli altri con gioia e convinzione la bellezza di Dio.

 

3. Che cosa opera lo Spirito Santo in chi lo riceve?Il frutto dello Spirito” – scrive l’apostolo Paolo – è “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Galati 5,22). Perché possiamo vivere questi frutti, lo Spirito effonde in noi i suoi doni, aiutandoci così a corrispondere alla chiamata divina per ognuno di noi. Quali sono questi doni? Gli stessi che secondo il profeta Isaia Dio farà al Messia: “Su di lui si poserà lo Spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore” (Isaia 11,1-2). A questi sei doni la riflessione della fede – a partire dalla traduzione latina della Bibbia – ha aggiunto il dono della pietà, che in qualche modo unifica tutti gli altri nell’adorazione umile e innamorata di Dio. Si parla perciò dei sette doni dello Spirito Santo: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà e timor di Dio. In essi si può riconoscere quello che la cresima è in grado di produrre in noi.

  • Il dono della sapienza ci aiuta a vedere l’insieme del mondo e della vita in Dio, ad assaporare nel rapporto con Lui il senso, che dà luce e forza a ogni passo del nostro cammino.

  • Il dono dell’intelletto ci educa a leggere in ogni situazione la Sua presenza e a discernere concretamente quello che Lui ci chiede.

  • Il dono del consiglio ci guida nelle diverse decisioni da prendere perché possiamo preferire ciò che è giusto davanti a Dio a ciò che sembra utile agli occhi del mondo, e metterci così al servizio degli altri con generosità.

  • Il dono della fortezza ci rende fedeli al Signore nella varietà dei momenti e delle stagioni della vita, affinché non ci lasciamo sedurre da tentazioni di egoismo o da calcoli di opportunità.

  • Il dono della scienza è quello che scaturisce dal misurare ogni conoscenza sul mistero ultimo che avvolge tutte le cose, superando le ristrettezze di una visione che si fermi solamente a ciò che appare: grazie ad esso possiamo sperimentare come sia vero che “non è la conoscenza che illumina il mistero, ma il mistero che illumina la conoscenza” (Pavel Evdokimov).

  • Il dono della pietà è quello che accende in noi la tenerezza per Dio, l’essere innamorati di Lui e il desiderare di rendergli gloria in ogni cosa. Grazie a questo dono non cercheremo solo le consolazioni di Dio, ma desidereremo fargli compagnia tanto nella Sua gioia, quanto nel Suo dolore per il peccato del mondo.

  • Il dono del timor di Dio, infine, è l’atteggiamento che ci fa vivere costantemente sotto lo sguardo del Signore, preoccupati di piacere a Lui piuttosto che agli uomini, perché in questo solo si trova la consolazione più profonda, la libertà più grande. Esso ci fa percepire anche la gravità del peccato che ci separa da Dio, unica fonte di ogni bene.

 

Il compendio vivo di tutti i doni dello Spirito si rende visibile nell’esperienza dei santi: perciò è bello conoscerne la vita e lasciarsi guidare dal loro esempio. A volte, una storia di santità ti parla dello Spirito santificatore più di tante riflessioni e parole!

4. Perché è importante cresimarsi? A questo punto si comprende perché sia così importante cresimarsi, portando a compimento il cammino della “iniziazione cristiana” cominciato col battesimo: abbiamo tutti bisogno di essere fortificati dal dono di Dio, per divenire capaci di credere, sperare e amare al di là della nostra debolezza, imparando ad agire nella comunione della Chiesa con lo slancio dei testimoni, che vorrebbero comunicare a tutti la bellezza del Signore. Certo, il pane eucaristico è già culmine e fonte della vita cristiana, nutrimento e forza in cui opera lo Spirito Santo: tuttavia, abbiamo tutti bisogno del dono personale dello Spirito, che ci dia la luce dall’alto per riconoscere la verità che salva e discernere la volontà del Padre, che ci ama. Più che essere noi a “confermare” l’impegno della nostra fede, è così Dio a “confermarci”, a illuminarci e a renderci forti e saldi nella potenza del Suo Spirito. Chi può dire di non aver bisogno di questa forza? Chi può ritenersi capace di amare veramente con le sole capacità umane? Ovviamente, chi non ha mai avuto esperienza di cose spirituali può pensare che questo dono di “conferma” sia un’illusione: basta, però, avere un po’ di conoscenza della vita per renderci conto di quanto abbiamo bisogno di forza dall’alto per vincere l’egoismo e la paura di amare. Lo ha riconosciuto Sant’Agostino all’inizio delle sue Confessioni: “Hai fatto il nostro cuore per Te, ed è inquieto il nostro cuore finché non riposa in Te”. Non è, allora, la stessa cosa ricevere o non ricevere la cresima: il dono dello Spirito, la Sua “conferma”, la Sua “unzione” (termine che dà il nome al sacramento, perché l’olio con cui il cresimando viene segnato è detto dal greco “crisma”, unzione), sono fondamentali, anche quando operano come il fuoco sotto la cenere o il seme nascosto sotto terra. Da solo nessuno si salverà! Abbiamo bisogno di Dio, del Suo Spirito Santo! E la stessa comunità di fede e di amore, la Chiesa in cui ci viene donato lo Spirito, non potrebbe generare in noi la vita divina, se non fosse continuamente nutrita dalla grazia del divino Consolatore. Perciò la cresima è un dono per tutta la comunità e non solo per il singolo cresimato. Grazie a questo dono siamo chiamati a prendere nuova consapevolezza dell’appartenenza alla Chiesa, del tesoro di grazia che vi si trova, della responsabilità di partecipare alla vita della comunità e alla sua missione con tutto il cuore, mettendo a disposizione del prossimo i doni che Dio ha fatto a ciascuno di noi.

5. Quando cresimarsi? Ogni età della vita ha un suo valore davanti a Dio e l’appuntamento con la Sua grazia è fondamentale in ogni stagione. C’è tuttavia in ognuno di noi un processo di maturazione, attraverso cui prendiamo coscienza delle nostre possibilità e dei nostri limiti. Si comprende allora come può invocare con più convinzione il dono dello Spirito chi ha già la consapevolezza del bisogno di amare che c’è nel suo cuore e delle resistenze e fatiche che incontra nel realizzarlo. In questa luce, la tradizione della Chiesa in Occidente ha insistito sull’importanza di una presa di coscienza della nostra realtà davanti a Dio e della necessità del Suo aiuto, per meglio prepararsi a ricevere la cresima. In questa insistenza occorre evitare ogni forzatura o pretesa impossibile: non si deve mai dimenticare che è lo Spirito a confermare il cresimato nella vita divina, più che il cresimato a confermare la sua scelta di Dio. Certamente, la decisione di domandare la cresima è importante, ma essa non deve oscurare il primato dell’agire del Signore. La scelta migliore dell’età in cui celebrare la confermazione è allora quella che la pone all’interno del cammino globale dell’iniziazione cristiana, in stretto rapporto col battesimo e con l’ammissione alla mensa eucaristica, dopo un percorso di almeno un biennio di catechesi che faccia seguito alla prima comunione. In tal modo si può contemperare l’esigenza di una certa maturazione psicologica e spirituale del cresimando con il pieno affidamento all’aiuto dello Spirito Santo per la crescita ulteriore della persona. Anche nel caso della cresima degli adulti è necessario proporre un itinerario di presa di coscienza che da una parte metta in luce l’esigenza che abbiamo dell’aiuto divino e dall’altra introduca chi chiede la confermazione all’esperienza dello Spirito, vissuta nella preghiera personale, nella liturgia, nella partecipazione attiva alla vita della Chiesa e nell’esercizio concreto della carità.

6. Chi sono i protagonisti della cresima? Il primo protagonista è il cresimando, chi domanda di ricevere la cresima. La richiesta deve essere libera, meditata, consapevole e gioiosa. L’impegno nel prepararsi serio e perseverante. È compito di tutta la comunità cristiana aiutare chi chiede la cresima a comprenderne e viverne pienamente il significato: hanno qui un ruolo importante la famiglia e la parrocchia, come chi accetta di assumere il ruolo di padrino o di madrina. Alla famiglia è chiesto di superare ogni atteggiamento di delega, per coinvolgersi tanto nella preparazione del cresimando, quanto nell’ora di grazia della celebrazione e nel successivo cammino di fedeltà al dono ricevuto. In tal senso vanno sensibilizzati anzitutto i genitori dei nostri ragazzi. Alla comunità parrocchiale si domanda un impegno corale nell’accompagnamento dei candidati alla cresima e dei cresimati: questo impegno riguarda anzitutto il parroco e i catechisti, con cui egli condivide il compito delicato e importante di introdurre alla vita dello Spirito i cresimandi. Circa il padrino o la madrina, l’ideale sarebbe che si trattasse della stessa persona che ha assunto questo compito nel battesimo del cresimando, in modo da evidenziare l’unità dei due sacramenti nell’unico cammino di crescita della vita di fede. Compito del padrino o della madrina è di accompagnare il cresimato nella vita, sostenendolo nell’impegno di fedeltà a Dio e alla Chiesa con la preghiera, il consiglio e la testimonianza. Occorre perciò liberare la scelta del padrino o della madrina da ogni aspetto di pura convenienza sociale o di semplice occasionalità, incoraggiando il cresimando stesso a orientarsi verso chi possa meglio corrispondere alla responsabilità che deve assumersi, in modo da favorire legami veri di fede e di amore fra le persone. C’è infine – fra i protagonisti della cresima – il ministro del sacramento, colui che dona lo Spirito Santo in nome di Dio e della Chiesa: ministro “originario” della confermazione è il Vescovo, successore degli Apostoli, segno e strumento dell’unità della comunità cristiana. Si evidenzia così come la confermazione unisca più strettamente coloro che la ricevono alla Chiesa, alle sue origini e alla sua missione apostolica. Nel caso non sia possibile al Vescovo essere presente, egli può delegare un sacerdote che – in comunione con lui – sia strumento del dono dello Spirito Santo. Questo rapido elenco dei protagonisti della confermazione non deve trascurare che il protagonista più importante è il Signore stesso: se nessuno deve delegare ad altri la responsabilità che gli compete, resta vero che il Soffio divino è uno solo e noi siamo unicamente la vela, fatta per lasciarsi portare sul mare della vita verso il porto di Dio. Come sottolinea l’apostolo Paolo, “è Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo, e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori” (2 Corinzi 1,21-22).

7. Come si celebra la confermazione? Bisogna distinguere tre fasi: la preparazione, la liturgia del sacramento e il cammino di vita nuova che con essa si apre. La preparazione comprende momenti di preghiera, personale e liturgica, un itinerario articolato di catechesi ed almeno alcune esperienze di carità e di servizio al prossimo. Il percorso catechetico ha per scopo di introdurre il cresimando alla conoscenza e all’esperienza dello Spirito Santo, della sua azione e dei suoi doni, perché possa meglio assumere le responsabilità della testimonianza cristiana, risvegliando al tempo stesso in lui il senso dell’appartenenza alla Chiesa. La celebrazione della cresima nella Chiesa latina avviene normalmente nel corso di una liturgia eucaristica presieduta dal Vescovo: dopo l’omelia, i candidati sono invitati a rinnovare le promesse del battesimo e la propria fede in Dio Trinità santa. Quindi il Vescovo o il suo delegato invoca il dono dello Spirito, imponendo le mani sui cresimandi in segno della presa di possesso da parte di Dio, e invita tutti i presenti a unirsi in una preghiera intensa, che continui per tutta la durata della cosiddetta “crismazione”. Questa consiste in un atto semplice e solenne: il cresimando si presenta davanti al Vescovo o al ministro delegato accompagnato dal padrino o dalla madrina; il celebrante unge la fronte del cresimando con l’olio detto “crisma”, simbolo dell’unzione che lo Spirito stesso opera, consacrato dal Vescovo stesso durante la celebrazione della “Messa crismale” del Giovedì Santo, cui partecipano di regola tutti i sacerdoti e i diaconi della diocesi. Durante l’atto dell’unzione il celebrante dice: “Ricevi il sigillo dello Spirito Santo che ti è dato in dono”. Il cresimato risponde “Amen”, esprimendo così la sua fede nel fatto che grazie a quel gesto e a quelle parole lo Spirito Santo è entrato nel suo cuore e vi ha effuso l’amore di Dio. Il Vescovo offre quindi la pace al nuovo cresimato con un gesto di comunione e di missione: segno della nuova responsabilità di chi è stato confermato dallo Spirito, inviato ad essere testimone di Cristo nella Chiesa e nella società, in comunione con i pastori e con la fede degli Apostoli. Come il battesimo, di cui costituisce il compimento, la confermazione è conferita una sola volta. Essa imprime un sigillo spirituale indelebile, il “carattere”, segno della relazione unica a Cristo che il dono dello Spirito produce nel cuore del battezzato, rivestendolo di potenza dall’alto perché sia testimone del Risorto.

8. Verso dove ci conduce la cresima? Il cammino di vita nuova che inizia con la cresima è una realizzazione progressiva della vita secondo lo Spirito, in base alla vocazione di ciascuno. Si tratta per ognuno di scoprire i doni che Dio ha messo nel suo cuore, di esprimerli nella propria esistenza, di diffonderli con la testimonianza della gioia che nasce dal riconoscere il dono ricevuto e dal viverlo in comunione con gli altri, al servizio di tutti. Qui si apre per ciascuno la strada della propria vocazione, e cioè del proprio rapporto unico e irripetibile con Dio. Lo Spirito ricevuto nella cresima viene così ad assumere il volto di chi si sforza di accoglierlo e di essergli fedele. Un aiuto molto importante per questo cammino può venire dalla partecipazione attiva a qualche gruppo o associazione ecclesiale (a cominciare dall’Azione Cattolica parrocchiale). La condizione perché tutto questo si realizzi e la bellezza di Dio si manifesti nella vita del cresimato è, però, la docilità, l’accoglienza umile e pronta, cioè, dell’azione dello Spirito in noi. Un racconto popolare può aiutarci a capirlo, riportandoci tra l’altro all’immagine dell’asino con cui ho iniziato questa lettera: “Mentre Giuseppe e Maria erano in viaggio verso Betlemme, un angelo radunò gli animali di tutta la terra per scegliere quelli adatti ad aiutare la Santa Famiglia. Per primo si presentò il leone: ‘Solo un re è degno di servire il Re del mondo – disse -. Io sbranerò tutti quelli che tenteranno di avvicinarsi al Bambino!’. ‘Sei troppo violento’ disse l’angelo. Subito dopo si avvicinò la volpe. Con aria furba insinuò: ‘Io sono l’animale più adatto. Porterò a Maria e Giuseppe tutti i giorni un bel pollo!’ ‘Sei disonesta’, disse l’angelo. Passarono, uno dopo l’altro, moltissimi animali, ciascuno magnificando il suo dono. Invano. L’angelo non riusciva a trovare nessuno che andasse bene. Finalmente, vide che un asino e un bue continuavano a lavorare con la testa bassa nei pressi della grotta. Li chiamò: ‘E voi che avete da offrire?’. ‘Niente’, rispose l’asino e afflosciò mestamente le lunghe orecchie: ‘Noi non abbiamo imparato altro che l’umiltà e la pazienza!’. Il bue, timidamente, soggiunse: ‘Però potremmo di tanto in tanto cacciare le mosche con le nostre code’. L’angelo finalmente sorrise: ‘Voi siete quelli giusti!’”. Essere umili, docili, fedeli: farsi bue e asinello… Ecco la condizione perché la cresima non sia il “ponte dell’asino”, ma il nuovo inizio di una storia di fede e di amore che faccia risplendere nella storia degli uomini qualche tratto dell’infinita bellezza di Dio: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio” (Michea 6, 8). Prega con me il Signore perché ci aiuti a essere davanti a Lui… come il bue e l’asinello!

(Teologo Borèl) Novembre 2008 -autore: + Bruno Forte Arcivescovo Metropolita di Chieti-Vasto

L’INCANDESCENZA DELLA PAROLA CHE CREA – + G.Ravasi

Posted on Dicembre 26th, 2008 di Angelo |

 L’INCANDESCENZA DELLA PAROLA CHE CREA

  

+ GIANFRANCO RAVASI

  

La Bibbia, alfabeto colorato dell’arte, ha dato all’Europa cristiana parole, singole voci e locuzioni idiomatiche . È la lingua materna dell’Occidente e si esprime anche in forme semplici e quotidiane che attingono al dettato e all’immaginario della Parola sacra. 

 

ravasi-gianfranco-arcivescovo0712m14a-150x150Kant era convinto che «il Vangelo fosse la fonte da cui è scaturita la nostra cultura», mentre Goethe non aveva esitazione nel considerare la Bibbia come «la lingua materna dell’Europa». Lo è stato e lo è tuttora in forme anche semplici e quotidiane, attraverso quella spontaneità lessicale che si esprime in locuzioni che attingono al dettato e all’immaginario della Parola sacra: «fare da Marta e Maria», «la pazienza di Giobbe», «andare da Erode a Pilato», «lavarsene le mani», «cedere per un piatto di lenticchie», «essere una colomba», «essere uomo di poca fede», «aspettare la manna dal cielo», «il figlio prodigo», «le cipolle d’Egitto», «essere un Cristo in croce», «chi semina vento raccoglie tempesta», «essere il beniamino di qualcuno», «nessuno è profeta in patria», «fare un’ira di Dio», un’«apocalisse» e così via in tutte le lingue con modalità e allusioni diverse. Un linguista importante come Gian Luigi Beccaria segnalava appunto che «la Bibbia è il libro che ha dato parole all’Europa cristiana: singole voci, soprattutto locuzioni idiomatiche». 

Noi, però, ora vorremmo attraverso un percorso solo emblematico illustrare il rilievo che le Sacre Scritture hanno esercitato nell’arte e, più in generale, nella cultura dell’Occidente, proprio perché esse stesse sono in tessute con un linguaggio simbolico le cui parole sono già in sé immagine. Affrontare un orizzonte così vasto e complesso impone una semplificazione che cercheremo di comprimere all’interno di un dittico ideale. Nella prima tavola vorremmo alludere a una particolare dimensione della Bibbia che è spesso oggetto di considerazione ai nostri giorni, cosi com’era invece disattesa in passato: intendiamo riferirci alla qualità estetica delle Sacre Scritture. Tante sono le vie che possono illustrare questo aspetto di bellezza. Noi ora ci accontenteremo di approfondire solo il tema della grandezza della parola. Nella seconda tavola di questo dittico esalteremo, invece, l’influsso esercitato dalla Bibbia all’interno della storia culturale dell’Occidente in tipologie multiformi e complesse. 

Efficacia della parola divina 

Sappiamo che per la Rivelazione ebraico-cristiana la parola è la radice della creazione ove espleta una funzione «ontologica». Infatti, si può quasi affermare che entrambi i Testamenti si aprono con la Parola divina che squarcia il silenzio del nulla. Bereshit… wajjômer ‘elohîm; jehî ‘ôr, Wajjehî ‘ôr, «in principio, Dio disse: Sia la luce! E la luce fu» (Genesi, 1, 1.3). Così si schiude la prima pagina dell’Antico Testamento. Nel Nuovo Testamento l’ideale apertura potrebbe essere quella del celebre inno che funge da prologo al Vangelo di Giovanni: En archè en ho Logos, «In principio c’era la Parola» (1,1). L’essere creato non nasce, perciò, da una lotta teogonica, come insegnava la mitologia babilonese (pensiamo all’Enuma Elish), bensì da un evento sonoro efficace, una Parola che vince il nulla e crea l’essere.
Canta il Salmista: «Dalla Parola del Signore furono creati i cieli, dal soffio della sua bocca tutto il loro esercito… perché egli ha parlato e tutto fu, ha ordinato e tutto esistette» (Salmo 33, 6.g).
La Parola divina è, però, anche alla radice della storia, come sorgente di vita e di morte: «Mandò la sua Parola e li guarì, li scampò dalla fossa (…). Egli invia la sua Parola e li fa perire (…). Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte era a metà del suo corso, la tua onnipotente Parola dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si slanciò (…) portando, come spada affilata, il tuo ordine inesorabile» (Salmi, 107,20; 147, 18; Sapienza, 18, 14-15). La Parola divina sostiene e giudica, quindi, anche la trama storica col suo tessuto di vicende ed eventi perché «retta é la Parola del Signore e fedele ogni sua opera» (Salmo, 33, 4). Ma questa stessa Parola interpreta il senso ultimo della storia: è, quindi, la radice della Rivelazione.
 

 

Significativa, al riguardo, è la scelta aniconica di Israele che ha la sua espressione più grandiosa (e drammatica) nel primo precetto del Decalogo: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto terra» (Esodo, 20, 4). Via gli occhi dal vitello d’oro, dunque! Una scelta, dicevamo, drammatica non solo per un popolo così affamato di realismo e di simboli com’è quello ebraico di matrice semitica, una cultura realistica e simbolica al tempo stesso ma per la stessa storia dell’arte della quale dovremo poi interessarci. In bocca a Mosè è messa dal Deuteronomio una frase folgorante per illustrare l’esperienza sinaitica: «Il Signore vi parlò dal fuoco: una voce di parole (qôl debarîm) voi ascoltaste; non un’immagine (temûnah) voi vedeste, solo una voce (qôl)» (4, 12).

In questa linea che privilegia la Parola, la Bibbia è chiamata dalla tradizione giudaica miqra’, cioè «lettura», laddove si ha il rimando al verbo qara’ della «proclamazione», così come accade per il Corano, vocabolo che contiene la stessa radicale verbale. In questa luce il rilievo «sonoro» del testo biblico è non solo una questione letteraria ma anche teologica. Suggestivo sarebbe a questo punto scoprire la dimensione estetica «fonetica» della Parola sacra: si ricordi, tra l’altro, che la metrica ebraica non è quantitativa ma qualitativa, cioè affidata all’impasto cromatico armonico e persino descrittivo-denotativo dei suoni. A esempio, la professione d’amore della donna del Cantico dei cantici è affidata al filo musicale del suono «i» che indica la personalità dell’io e dell’ «ò» che rimanda al «lui» dell’amato: dodî lî wa’anî lô… ‘anî ledôdî wedôdî lî, «il mio amato è mio e io sono sua… io sono del mio amato e il mio amato è mio» (2,16; 6, 3). La Parola è, dunque, voce che parla il linguaggio di Dio.

 

 

Ma la Parola si cristallizza anche nel Libro per eccellenza, la Bibbia. È cosi che il Nuovo Testamento ama l’espressione graphè/graphài per indicare la Parola di Dio. Si ha qui una puntualizzazione del complesso rapporto tra infinito e contingente, tra Lògos e sàrx. La Parola, infatti, deve comprimersi nello stampo freddo e limitato dei vocaboli, delle regole grammaticali e sintattiche, deve adattarsi alla redazione di autori umani. È l’esperienza che tutti i poeti vivono nella sua drammaticità e tensione. Goethe nel Faust confessa che das Wort erstirbt schon in der Feder, sì, la parola muore già sotto la penna. E nel suo Flauto di vertebre Majakowski ribadisce: «Sulla carta sono crocifisso coi chiodi delle parole», mentre Borges più generalmente riconosce che el universo es fluido y cambiante, el lenguaje rigido.

Eppure questa rigidità non riesce a raggelare e a spegnere l’incandescenza della Parola. Esemplare è il caso del profeta Geremia che «prende un rotolo per scrivere e scrive» su ordine divino gli oracoli del Signore (36, 2). Ma dopo che il re Ioiakim, leggendo quel rotolo, ne «aveva lacerato col temperino da scriba e aveva gettato nel fuoco» le colonne di quel testo (36, 23), il profeta non avrà esitazione su comando divino a far rinascere gli stessi oracoli mostrando cosi che – come dichiarava Isaia (40, – «secca l’erba, appassisce il flore, ma la Parola del nostro Dio dura in eterno». È anche questa un’esperienza che il poeta analogamente vive, convinto com’è che, una volta detta, la parola autentica non muore ma proprio allora comincia a vivere: «A word is dead / when it is said, / some say./ I say’ it just / begins to live / that day» (così la poetessa americana Emily Dickinson). E la forza «performativa» e non meramente «informativa» della Parola che ovviamente nella poesia celebra il suo trionfo e che ha il suo apice nella Scrittura Sacra. 

Kènosi e splendore della parola divina

Come accade per l’Incarnazione, anche la Parola rivela due volti, quello della «carne», del limite, della finitudine, e quello del divino, dell’efficacia creatrice, della teofania. A questi due volti, che in pratica continuano il discorso sopra abbozzato, dedicheremo ora la nostra attenzione. La Parola di Dio – come anche la poesia – si avvale di un mezzo «kenotico», quello di una lingua, di un lessico, di regole e fonemi. E la prigione necessaria della Parola ineffabile per rendersi effabile. È qualcosa di analogo alla kènosis del Verbo di Dio così come è descritta nell’inno paolino di Filippesì: «Cristo Gesù, pur essendo di natura divina…, svuotò (ekènòsen) se stesso, assumendo la condizione di servo» (2, 6-11). La debolezza della parola umana è stupendamente illustrata da Isaia che, in una personificazione di Gerusalemme vinta, cosi canta: «Prostrata parlerai da terra e dalla polvere saliranno fioche le tue parole, sembrerà di un fantasma la tua voce dalla terra e dalla polvere la tua parola risuonerà come un bisbiglio»(29, 4).

La Bibbia alfabeto colorato dell’arte

Tentiamo a questo punto di illustrare, in modo del tutto emblematico, la seconda tavola del dittico ideale a cui accennavamo in apertura. In essa vorremmo esaltare la funzione generativa che la Bibbia ha espletato per la cultura occidentale attraverso una presenza tale da renderla una sorta di «lessico» iconografico e di modello ideologico a cui attingere. Non per nulla Chagall affermava che le pagine bibliche sono «l’alfabeto colorato in cui per secoli i pittori hanno in tinto il loro pennello».

«Le Sacre Scritture sono l’universo entro cui la letteratura e l’arte occidentale hanno operato fino al XVIII secolo e stanno ancora in larga misura operando». Questa affermazione sul rapporto tra Bibbia e letteratura – contenuta nel noto saggio Il grande codice di Northrop Frye (1981) – registra un dato di fatto facilmente accessibile a chi perlustri la storia culturale dell’Occidente: per secoli, infatti, la Bibbia è stata l’immenso lessico o repertorio iconografico, ideologico e letterario a cui si è attinto costantemente a livello colto e a livello popolare. E se Erich Auerbach nella sua famosa Mimesis (1946) aveva riconosciuto nella Bibbia e nell’Odissea i due modelli cruciali per la nostra cultura, Nietzsche nei materiali preparatori all’opera Aurora (1881) ugualmente confessava che «per noi Abramo è più di ogni altra persona della storia greca o tedesca. Tra ciò che sentiamo alla lettura dei Salmi e ciò che proviamo alla lettura di Pindaro e di Petrarca c’è la stessa differenza tra la patria e la terra straniera».

Cercare di delineare questa presenza con la molteplicità delle sue forme, ora ideali ora degenerate, è un’impresa ciclopica, per non dire disperata tanto sterminata risulterebbe ogni catalogazione. Tuttavia, sulla scia di stimoli provenienti dalla filosofia (ad esempio, Gadamer) e dalla teologia (ad esempio, von Balthasar), si è riconosciuto, per la comprensione della Bibbia, il rilievo rappresentato non solo dall’Autore ma anche dal lettore, cioè dalla Tradizione teologica, spirituale e artistica che dalla Scrittura è stata generata. Si è, così, configurata una ricerca detta di Wirkungsgeschichte o «storia dell’effetto» (o anche Rezeptionsgeschichte, ossia di «storia della recezione» di un testo) che verifica lo straordinario influsso e l’irradiazione esercitata dalla Bibbia sull’immaginario e sulla vicenda culturale alta e popolare. Potremmo citare, ad esempio, una ricerca di Jacob Kremer sulla risurrezione di Lazzaro che, dopo aver approfondito il significato teologico del passo giovanneo (capitolo 11), analizza la storia della recezione di questo miracolo con testimonianze desunte dalla letteratura religiosa e profana, dalla liturgia e soprattutto dall’arte (catacombe, sarcofagi, dittici, codici miniati, Giotto, Cranach, Rubens, Rembrandt, Redon, van Gogh e altri).

Muovendoci sempre su una traiettoria puramente esemplificativa, ci accontenteremo di indicare solo alcuni modelli che cerchino di rappresentare in modo emblematico questo immenso influsso. Un primo modello potrebbe essere definito come reintepretativo o attualizzante: si assume il testo o il simbolo biblico e lo si rilegge e incarna all’interno di coordinate storico-culturali nuove e diverse. Pensiamo alla figura di Giobbe che, dopo esser divenuta per secoli un’immagine del Cristo paziente nell’arte sacra – come nella Meditazione sulla Passione o nel Compianto sul Cristo morto del Carpaccio – si trasforma in un segno personale nella Ripresa di Kierkegaard: in Giobbe il filosofo danese legge la sua esperienza infranta di amore e il tentativo di recuperarla dal passato a opera di Dio. Scriveva Kierkegaard: «Io non leggo Giobbe con gli occhi come si legge un altro libro, ma lo metto sul cuore (…) Ogni sua parola è cibo, vestimento e balsamo per la mia povera anima».

E, per stare allo stesso filosofo, pensiamo al sacrificio di Isacco (Genesi, 22) così come è letto da lui in Timore e tremore: il terribile e silenzioso cammino di tre giorni affrontato da Abramo verso il monte della prova diventa il paradigma di ogni itinerario di fede, segnato dalla luce e dalla tenebra, in cui il credente deve giungere fino alla spogliazione totale di tutti gli appoggi umani, compresi gli affetti e le relazioni fondamentali. Un esegeta, Gerhard von Rad, in una sua opera intitolata Il sacrificio di Isacco, raccoglierà attorno al testo biblico, oltre a quelle di Kierkegaard, le reintepretazioni attualizzate di Lutero, di Rembrandt e di Kolakowski, ma già la tradizione giudaica nella ‘aqedah, cioè nella legatura sacrificale di Isacco sull’altare del monte Moria, aveva visto il mistero della sofferenza del popolo ebraico e si era interrogata sul silenzio di Dio (in particolare in connessione con la tragica vicenda della Shoah per le persecuzioni naziste).

Potremmo continuare a lungo nella documentazione di questo tipo di rilettura che domina nell’arte sacra, attenta a ricondurre eventi evangelici all’oggi della Chiesa: pensiamo alle raffigurazioni popolari, al folclore, ai riti tradizionali che cercano di far rivivere la passione di Cristo o altri momenti della sua esistenza all’interno della quotidianità, delle architetture e delle presenze che popolano l’orizzonte quotidiano. C’è, però, un altro modello da individuare: esso elabora i dati biblici in modo sconcertante e per questo lo potremmo definire come degenerativo. Nella stessa storia della teologia e dell’esegesi si sono verificate spesso deviazioni e deformazioni interpretative. Il testo sacro si trasforma in un pretesto per parlare d’altro (allegoria) o persino per ribaltarne il senso originario, Così accade anche nella storia della cultura. Prendiamo ancora come emblema il libro di Giobbe. La tradizione, infatti, ignorando l’altissimo poema che costituisce la sostanza dell’opera, si è attestata quasi esclusivamente sul prologo e sull’epilogo (capitoli 1-2 e 42). Qui Giobbe appare solo come l’uomo paziente che supera la prova ed è alla fine ricompensato da Dio. In realtà il corpo centrale dell’opera presenta invece il dramma della fede posta di fronte al mistero di Dio e del male.

L’approdo di una ricerca lacerata e acre è in quella professione di fede che sigilla realmente l’intero scritto: «Io ti conoscevo per sentito dire; ora i miei occhi ti vedono» (42, 5).
L’arte cristiana, invece, sulla scia di un’interpretazione riduttiva già presente nel Nuovo Testamento (Giacomo 5, 11) e nei Padri della Chiesa, si accontenterà di un Giobbe collocato sul letamaio, pronto a sopportare le più atroci sofferenze, l’ironia della moglie e la contestazione degli amici, in attesa della liberazione finale. Ma la degenerazione del significato autentico del libro biblico può essere ulteriormente illustrata all’interno dell’enorme ripresa letteraria che la storia di Giobbe ha subito (da Goethe a Dostoevskij, da Roth a Singer, da Bloch a Camus, da Morselli a Pomilio e altri). Esemplare in questo senso è la Risposta a Giobbe di Carl G. Jung (1952) in cui il celebre sofferente biblico si erge come il simbolo della moralità e della responsabilità di fronte a un Dio del tutto libero da ogni etica, nella sua onnipotenza e onniscienza. Cristo sarà colui che, provenendo da Dio ed entrando nell’umanità, riuscirà a imparare la lezione morale di Giobbe e a ergersi contro la durezza «immorale» e l’insondabilità del Padre celeste. Come è evidente, il testo biblico è ormai solo uno spunto sul quale si intessono nuove trame e nuovi significati e questo accade per molte figure bibliche; sempre per stare nell’ambito psicoanalitico, si ricordi l’elaborazione della figura di Mosè e delle origini della religione ebraica compiuta da Sigmund Freud nei tre saggi sull’Uomo Mosè e la religione monoteistica (1913),

L’arte come ermeneutica trasfigurativa del testo biblico

Come accade per l’Incarnazione,
anche la Parola rivela due volti, quello della «carne», del limite, della finitudine,
e quello del divino, dell’efficacia creatrice, della teofania
Il lessico e le regole della lingua
sono la prigione necessaria della Parola ineffabile per rendersi effabile
 

Tuttavia dobbiamo riconoscere che, se è già segno di fecondità e di forza dell’originale biblico anche la lettura deviata, la Bibbia offre una grandiosa testimonianza di potenza spirituale e culturale quando è fatta trasparire in tutta la sua ricchezza simbolica e teologica. È per questo che vorremmo parlare di un terzo modello di tipo trasfigurativo. L’arte riesce spesso a far vibrare le risonanze segrete del testo sacro, a ritrascriverlo in tutta la sua purezza, a far germogliare potenzialità che l’esegesi scientifica solo a fatica conquista e talora del tutto ignora. E ciò che Paul Klee afferma va in senso generale quando nella sua Teoria della forma e della figurazione scriveva che «l’arte non ripete le cose visibili ma rende visibile ciò che spesso non lo è», Gaston Bachelard diceva di Chagall che nei suoi quadri «egli legge la Bibbia e subito i passi biblici diventano luce».
In questo senso ci sembra particolarmente indicativa la grande musica che nel periodo storico che va dal ‘600 agli inizi dell’800 ha spesso superato le arti figurative nel divenire interprete della Bibbia (Carissimi, Monteverdi, Schütz, Pachelbel, Bach, Vivaldi, Buxtehude, Telemann, Couperin, Charpentier, Haendel, Haydn, Mozart, Bruckner e così via). Si immagini solo cosa possa significare un oratorio come Jefte di Carissimi o il Vespro della Beata Vergine di Monteverdi o una Passione secondo Matteo di Bach o, per venire ai nostri giorni, la Passione secondo Luca di Penderecki o i Chichester Psalms di Bernstein. Per avere un esempio specifico ed essenziale, basterebbe seguire la suprema rilettura che Mozart fa di un salmo letterariamente modesto, il brevissimo 117 (116), caro però a Israele perché proclamava le due virtù fondamentali dell’alleanza che lega Dio al suo popolo: veritas et misericordia come dice la versione latina della volgata usata dal musicista, «amore e fedeltà» in una traduzione più vicina all’originale ebraico hesed wa ‘emet. Ebbene, il Laudate Dominum in fa minore dei Vespri solenni di un Confessore (K 339) di Mozart riesce a ricreare la carica teologica e spirituale, ebraica e cristiana del salmo come non saprebbe mai fare nessuna esegesi testuale diretta.

Il risultato trasfigurativo è proprio, comunque, di tutte le grandi opere d’arte e di letteratura. Impossibile sarebbe dimostrarlo compiutamente perché il repertorio da consultare è vastissimo. Ci accontentiamo di un simbolo, quello del dito efficace di Dio, spesso celebrato dalla Bibbia. Ebbene, tutta la storia, la missione, la figura e la grandezza del Battista sono racchiuse in quell’indice poderoso puntato verso il Crocifisso che Matthias Grünewald ha dipinto nell’Altare di Isenheim del museo di Colmar. Tutto il mistero dell’atto creativo descritto nel libro della Genesi è nell’indice «imperativo» del Creatore michelangiolesco che sveglia all’essere l’indice assopito di Adamo. E tutta la redenzione «ricreatrice» che si crea nella vita del pubblicano Levi è nella citazione che Caravaggio fa di Michelangelo in quell’indice che Cristo punta sul futuro apostolo Matteo, nella celebre tela di San Luigi dei Francesi a Roma.

L’arte e le varie espressioni culturali possono, quindi, rivelarsi ripetutamente animate dall’immaginario e dall’ideologia biblica. Contemporaneamente la tradizione culturale diventa chiave di interpretazione – ora libera, ora corretta, ora deviata – della stessa Scrittura tant’è vero che un teologo come Marie-Dominique Chenu nel suo volume sulla Teologia nel XII secolo confessava: «Se dovessi rifare quest’opera darei un’attenzione molto maggiore alla storia delle arti, sia letterarie sia plastiche, perché esse non sono soltanto delle illustrazioni estetiche ma dei veri luoghi teologici». Tutto questo è giustificalo anche dal fatto che la Bibbia, pur essendo un testo teologico nella sua finalità ultima, è anche un’opera letteraria, dotata di una sua straordinaria forza espressiva. Essa si manifesta in forme molteplici ma soprattutto ha una via privilegiata di formulazione – come si ha già avuto l’occasione di sottolineare – proprio nel simbolo. Thomas S. Eliot parlava dei Salmi come di un «giardino di simboli» ma questa definizione può essere estesa a molti scritti biblici (si pensi solo a Giobbe, al Cantico dei cantici e all’Apocalisse).

Per la storia della cultura alta e popolare dell’Occidente fondamentali sono stati quei simboli narrati che sono le parabole di Gesù. Il seme, i campi, le cene nuziali, i figli difficili, i portieri notturni, i ricchi beceri ed egoisti, le vittime degli assalti e i soccorritori, le vigne e i contadini, i gigli del campo, il fico, i cani randagi, i passeri, il tarlo e la ruggine, gli avvoltoi, i pesci, il sole e la pioggia e cosi via diventano segni indimenticabili di un messaggio che sarà costantemente ripreso, trascritto, esaltato e anche deformato ma sempre attraverso quello straordinario apparato immaginifico. Per la Bibbia è possibile dire Dio in modo figurativo, in forma letteraria bella e in linguaggio giusto. Attraverso il simbolo si respinge un’ineffabilità e un aniconismo che ha colpito alcune religioni, almeno in certi ambiti: pensiamo alla proibizione delle immagini nell’ebraismo e nell’islam. Un atteggiamento che ha lambito anche il cristianesimo nel periodo dell’iconoclasmo o in qualche fase della Riforma protestante. Il simbolo, però, permette anche di rigettare la rappresentazione idolatrica che spesso è condannata dalla Bibbia e che è talora affiorata anche nella storia successiva. Il linguaggio simbolico e ciò che esso genera a livello artistico permette di conservare in equilibrio il mistero, l’Altro e l’Oltre di Dio con la sua rivelazione, la sua effabilità, il suo comunicarsi storico all’umanità.

Con la sua ricchezza simbolica la Bibbia è stata, quindi, il grande codice della cultura, in particolare dell’arte, e dell’immaginario popolare ma è stata anche la presentazione di una fede che unisce in sé trascendenza e immanenza. L’arte ha cercato di cogliere la carnalità, cioè la storicità di quella rivelazione, ora esaltandola, ora trasformandola, ma ha anche saputo quasi sempre salvaguardarne la dimensione di segno, di mistero, di infinito e di eterno. E ciò che può essere illustrato, in finale, attraverso un genere particolare dell’arte orientale cristiana, quello dell’icona, così come ce la presenta Pavel Florenskij: «L’oro barbaro e pesante delle icone, in sé futile alla luce del giorno, si anima con la luce tremolante di una lampada o di una candela in una chiesa, facendo presentire altre luci non terrestri che riempiono lo spazio celeste». Arte e fede in questo senso s’incontrano. Le figure dell’icona e i loro fondi dorati sono terreni ma riverberano il divino e immettono in un’esperienza paradisiaca.

Da un lato, l’arte giunge ad espletare una funzione kerigmatica, diventa cioè un annuncio del messaggio spirituale, come suggeriva un grande cultore delle immagini sacre, san Giovanni Damasceno, nell’VIII secolo: «Se un pagano viene e ti dice: “Mostrami la tua fede”, tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui essa è ornata e spiegagli la serie dei quadri sacri”. D’altro lato, l’arte illuminata e sostanziata dall’iconografia biblica diventa essa stessa catechesi per i fedeli, come già sosteneva san Gregorio Magno nel VI secolo invitando qui litteras nesciunt (…) ut in parietibus videndo legant. L’arte è, quindi, la Parola divenuta immagine, è il codex in pariete e, come si leggeva negli Statuti d’arte dei pittori senesi del Trecento: «Noi (gli artisti) siamo manifestatori, agli uomini che non sanno lettura, delle cose miracolose operate per virtù della fede».

 

Osservatore Romano 17 febbraio 2008

La Bibbia si affida alla povertà espressiva di una lingua pietrosa come il deserto, scarna e scabra: è l’ebraico classico che può ricorrere, tra l’altro, soltanto a un arsenale lessicale limitato, composto di soli 5.750 vocaboli, Oppure si basa sul greco koinè, ben più modesto della lingua della classicità ellenica e il lessico greco neotestamentario ricorre a un patrimonio di soli 5.433 vocaboli. Anzi, la kènosis procede fino al punto che il nome più importante, quello divino, si contiene in quattro consonanti: JHWH, che rimangono mute, impronunziabili. Al vertice di questo assottigliarsi della Parola, nella miseria umana abbiamo l’esperienza straordinaria del profeta Elia al monte Horeb-Sinai. Dio non appare nel «vento impetuoso e gagliardo da spaccare le rocce», né si configura nel terremoto o nel fulmine di una tempesta assordante. Ma, come dice l’originale ebraico, il Signore si nasconde in una qôl demamah daqqah, cioè in «una voce di sottile silenzio»(Primo libro dei Re 19, 11-12). E quasi il punto zero dell’annientamento della Parola, eppure quel silenzio è «bianco», cioè racchiude in sé tutti i suoni, le lettere, le sillabe, le parole. È il «mistero», termine che nella sua radicale greca (myein) suppone il tacere, il chiudere le labbra, non per un’assenza di significati ma per una presenza di vita di vita e di persona.

È così che la Parola divina – come per analogia anche la parola poetica – rivela la sua potenza. Si manifesta come un mezzo sontuoso e, per usare un’espressione di Teilhard de Chardin, si fa «diafanica», cioè diafana e trasparente alla Rivelazione divina. È questa la potenza riconosciuta al Lògos del prologo giovanneo, già evocato, secondo la semantica semitica sottesa. In ebraico, infatti, dabar, «parola», significa contemporaneamente anche «atto, evento». Dire e fare s’intrecciano. E sono, perciò, da assumere cumulativamente e non disgiuntamente o alternativamente, come suppone il poeta, i quattro significati che Goethe nel Faust attribuisce al Lògos giovanneo: das Wort, Parola, der Sinn, significato, die Kraft, potenza, die Tat, atto.

Questa efficacia che rende la parola (debole ed esile) capace di manifestare in diafania la Parola che «è stabile come il cielo» (Salmo 119, 89) si attua soprattutto attraverso il simbolo, nel senso genuino del termine (syn-ballein, «mettere insieme») e non nell’accezione popolare che lo fa sconfinare nella metafora meramente allusiva. Il linguaggio simbolico permette di annodare finito e infinito, contingente e assoluto, temporale ed eterno, umano e divino. Cristo è il grande Simbolo perfetto perché fonde in sé Lògos e sàrx, come si diceva, divinità e umanità, pienezza e debolezza. E come c’è in teologia la tentazione dia-bolica (dià-ballein, gettare via, disperdere) di infrangere l’incarnazione attraverso lo spiritualismo gnostico o il fenomenismo storicistico, così anche nell’esegesi della parola c’è il rischio di spezzare la simbolicità della Parola o riducendola a mera larva spirituale o a cava da cui estrarre teoremi teologici oppure a una raccolta di testi storiografici o letterari.

Emblematica in questo senso è stata l’ermeneutica tradizionale del Cantico dei cantici. Da un lato, l’amore dei due protagonisti è stato fatto evaporare in un misticismo allegorico (Dio-Israele, Cristo-Chiesa, Cristo-Maria, Cristo-anima): decollando dalla realtà, si infrangeva ogni legame con la concretezza dell’esistenza per rincorrere rarefatte geometrie metaforiche e spirituali. D’altro lato, la cosiddetta école voluptueuse, cioè la scuola interpretativa letteralista, considerava il poema una semplice raccolta di liriche erotiche, modulate su analoghi modelli dell’antico Vicino Oriente, testi carichi talora di torrida sensualità, altre volte affidati ai tòpoi del linguaggio amoroso. In realtà il Cantico è contemporaneamente eros e amore, è celebrazione dell’abbraccio pieno umano che riflette e rivela quello divino nei confronti della sua creatura. Ed è solo la lettura simbolica a conservare compatti i due valori senza penalizzare uno per salvare l’altro. Come scriveva René Char (1907-1988), poeta surrealista e simbolista francese, «gli dei abitano il simbolo; / ghermita dal brusco balzo, / la poesia s’accresce / di un oltre senza protezione». È qui che teologia e poesia si trovano a muoversi nella stessa maniera, entrambe radicate nel presente e nel reale per ascendere a un Altro e a un Oltre trascendenti.

LETTERA A DIOGNETO – Principio monastrico e principio domestico

Posted on Dicembre 25th, 2008 di Angelo |

  

LETTERA A DIOGNETO 

Esordio

I. 1. Vedo, ottimo Diogneto, che tu ti accingi ad apprendere la religione dei cristiani e con molta saggezza e cura cerchi di sapere di loro. A quale Dio essi credono e come lo venerano, perché tutti disdegnano il mondo e disprezzano la morte, non considerano quelli che i greci ritengono dèi, non osservano la superstizione degli ebrei, quale amore si portano tra loro, e perché questa nuova stirpe e maniera di vivere siano comparsi al mondo ora e non prima. 2. Comprendo questo tuo desiderio e chiedo a Dio, che ci fa parlare e ascoltare, che sia concesso a me di parlarti perché tu ascoltando divenga migliore, e a te di ascoltare perché chi ti parla non abbia a pentirsi.

 

L’idolatria

II. 1. Purìficati da ogni pregiudizio che ha ingombrato la tua mente e spògliati dell’abitudine ingannatrice e fatti come un uomo nuovo da principio, per essere discepolo di una dottrina anche nuova come tu stesso hai ammesso. Non solo con gli occhi, ma anche con la mente considera di quale sostanza e di quale forma siano quelli che voi chiamate e ritenete dèi. 2. Non (sono essi) pietra come quella che si calpesta, bronzo non migliore degli utensili fusi per l’uso, legno già marcio, argento che ha bisogno di un uomo che lo guardi perché non venga rubato, ferro consunto dalla ruggine, argilla non più scelta di quella preparata a vile servizio? 3. Non (sono) tutti questi (idoli) di materia corruttibile? Non sono fatti con il ferro e con il fuoco? Non li foggiò lo scalpellino, il fabbro, l’argentiere o il vasaio? Prima che con le loro arti li foggiassero, ciascuno di questi (idoli) non era trasformabile, e non lo può (essere) anche ora? E quelli che ora sono gli utensili della stessa materia non potrebbero forse diventare simili ad essi se trovassero gli stessi artigiani? 4. E per l’opposto, questi da voi adorati non potrebbero diventare, ad opera degli uomini, suppellettili uguali alle altre? Non sono cose sorde, cieche, inanimate, insensibili, immobili? Non tutte corruttibili? Non tutte distruttibili? 5. Queste cose chiamate dèi, a queste servite, a queste supplicate, infine ad esse vi assimilate. 6. Perciò odiate i cristiani perché non le credono dèi. 7. Ma voi che li pensate e li immaginate tali non li disprezzate più di loro? Non li deridete e li oltraggiate più voi che venerate quelli di pietra e di creta senza custodi, mentre chiudete a chiave di notte quelli di argento e di oro, e di giorno mettete le guardie perché non vengano rubati? 8. Con gli onori che credete di rendere loro, se hanno sensibilità, siete piuttosto a punirli. Se non hanno i sensi siete voi a svergognarli con sacrificio di sangue e di grassi fumanti. 9. Provi qualcuno di voi queste cose, permetta che gli vengano fatte. Ma l’uomo di propria volontà non sopporterebbe tale supplizio perché ha sensibilità e intelligenza; ma la pietra lo tollera perché non sente. 10. Molte altre cose potrei dirti perché i cristiani non servono questi dèi. Se a qualcuno ciò non sembra sufficiente, credo inutile parlare anche di più.

 

Il culto giudaico

III. 1. Inoltre, credo che tu piuttosto desideri sapere perché essi non adorano Dio secondo gli ebrei. 2. Gli ebrei hanno ragione quando rigettano l’idolatria, di cui abbiamo parlato, e venerano un solo Dio e lo ritengono padrone di tutte le cose. Ma sbagliano se gli tributano un culto simile a quello dei pagani. 3. Come i greci, sacrificando a cose insensibili e sorde dimostrano stoltezza, così essi, pensando di offrire a Dio come ne avesse bisogno, compiono qualche cosa che è simile alla follia, non un atto di culto. 4. «Chi ha fatto il cielo e la terra e tutto ciò che è in essi», e provvede tutti noi delle cose che occorrono, non ha bisogno di quei beni. Egli stesso li fornisce a coloro che credono di offrirli a lui. 5. Quelli che con sangue, grasso e olocausti credono di fargli sacrifici e con questi atti venerarlo, non mi pare che differiscano da coloro che tributano riverenza ad oggetti sordi che non possono partecipare al culto. Immaginarsi poi di fare le offerte a chi non ha bisogno di nulla!

 

Il ritualismo giudaico

IV. 1. Non penso che tu abbia bisogno di sapere da me intorno ai loro scrupoli per certi cibi, alla superstizione per il sabato, al vanto per la circoncisione, e alla osservanza del digiuno e del novilunio: tutte cose ridicole, non meritevoli di discorso alcuno. 2. Non è ingiusto accettare alcuna delle cose create da Dio ad uso degli uomini, come bellamente create e ricusarne altre come inutili e superflue? 3. Non è empietà mentire intorno a Dio come di chi impedisce di fare il bene di sabato? 4. Non è degno di scherno vantarsi della mutilazione del corpo, come si fosse particolarmente amati da Dio? 5. Chi non crederebbe prova di follia e non di devozione inseguire le stelle e la luna per calcolare i mesi e gli anni, per distinguere le disposizioni divine e dividere i cambiamenti delle stagioni secondo i desideri, alcuni per le feste, altri per il dolore? 6. Penso che ora tu abbia abbastanza capito perché i cristiani a ragione si astengono dalla vanità, dall’impostura, dal formalismo e dalla vanteria dei giudei. Non credere di poter imparare dall’uomo il mistero della loro particolare religione.

 

Il mistero cristiano

V. 1. I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. 2. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. 3. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. 4. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. 5. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. 6. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. 7. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. 8. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. 9. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. 10. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. 11. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. 12. Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. 13. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. 14. Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. 15. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. 16. Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita. 17. Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell’odio.

 

L’anima del mondo

VI. 1. A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. 2. L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. 3. L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. L’anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si vedono nel mondo, ma la loro religione è invisibile. 5. La carne odia l’anima e la combatte pur non avendo ricevuto ingiuria, perché impedisce di prendersi dei piaceri; il mondo che pur non ha avuto ingiustizia dai cristiani li odia perché si oppongono ai piaceri. 6. L’anima ama la carne che la odia e le membra; anche i cristiani amano coloro che li odiano. 7. L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo. 8. L’anima immortale abita in una dimora mortale; anche i cristiani vivono come stranieri tra le cose che si corrompono, aspettando l’incorruttibilità nei cieli. 9. Maltrattata nei cibi e nelle bevande l’anima si raffina; anche i cristiani maltrattati, ogni giorno più si moltiplicano. 10. Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare.

 

Dio e il Verbo

VII. 1. Infatti, come ebbi a dire, non è una scoperta terrena da loro tramandata, né stimano di custodire con tanta cura un pensiero terreno né credono all’economia dei misteri umani. 2. Ma quello che è veramente signore e creatore di tutto e Dio invisibile, egli stesso fece scendere dal cielo, tra gli uomini, la verità, la parola santa e incomprensibile e l’ha riposta nei loro cuori. Non già mandando, come qualcuno potrebbe pensare, qualche suo servo o angelo o principe o uno di coloro che sono preposti alle cose terrene o abitano nei cieli, ma mandando lo stesso artefice e fattore di tutte le cose, per cui creò i cieli e chiuse il mare nelle sue sponde e per cui tutti gli elementi fedelmente custodiscono i misteri. Da lui il sole ebbe da osservare la misura del suo corso quotidiano, a lui obbediscono la luna che splende nella notte e le stelle che seguono il giro della luna; da lui tutto fu ordinato, delimitato e disposto, i cieli e le cose nei cieli, la terra e le cose nella terra, il mare e le cose nel mare, il fuoco, l’aria, l’abisso, quello che sta in alto, quello che sta nel profondo, quello che sta nel mezzo; lui Dio mandò ad essi. 3. Forse, come qualcuno potrebbe pensare, lo inviò per la tirannide, il timore e la prostrazione? 4. No certo. Ma nella mitezza e nella bontà come un re manda suo figlio, lo inviò come Dio e come uomo per gli uomini; lo mandò come chi salva, per persuadere, non per far violenza. A Dio non si addice la violenza. 5. Lo mandò per chiamare non per perseguitare; lo mandò per amore non per giudicare. 6. Lo manderà a giudicare, e chi potrà sostenere la sua presenza? 7. Non vedi (i cristiani) che gettati alle fiere perché rinneghino il Signore, non si lasciano vincere? 8. Non vedi, quanto più sono puniti, tanto più crescono gli altri? 9. Questo non pare opera dell’uomo, ma è potenza di Dio, prova della sua presenza.

 

L’incarnazione

VIII. 1. Chi fra tutti gli uomini sapeva perfettamente che cosa è Dio, prima che egli venisse? 2. Vorrai accettare i discorsi vuoti e sciocchi dei filosofi degni di fede? Alcuni affermavano che Dio è il fuoco, ove andranno essi chiamandolo Dio, altri dicevano che è l’acqua, altri che è uno degli elementi da Dio creati. 3. Certo, se qualche loro affermazione è da accettare si potrebbe anche asserire che ciascuna di tutte le creature ugualmente manifesta Dio. 4. Ma tutte queste cose sono ciarle e favole da ciarlatani. 5. Nessun uomo lo vide e lo conobbe, ma egli stesso si rivelò a noi. 6. Si rivelò mediante la fede, con la quale solo è concesso vedere Dio. 7. Dio, signore e creatore dell’universo, che ha fatto tutte le cose e le ha stabilite in ordine, non solo si mostrò amico degli uomini, ma anche magnanimo. 8. Tale fu sempre, è e sarà: eccellente, buono, mite e veritiero, il solo buono. 9. Avendo pensato un piano grande e ineffabile lo comunicò solo al Figlio. 10. Finché lo teneva nel mistero e custodiva il suo saggio volere, pareva che non si curasse e non pensasse a noi. 11. Dopo che per mezzo del suo Figlio diletto rivelò e manifestò ciò che aveva stabilito sin dall’inizio, ci concesse insieme ogni cosa, cioè di partecipare ai suoi benefici, di vederli e di comprenderli. Chi di noi se lo sarebbe aspettato?

 

L’economia divina

IX. 1. (Dio) dunque avendo da sé tutto disposto con il Figlio, permise che noi fino all’ultimo, trascinati dai piaceri e dalle brame come volevamo, fossimo travolti dai piaceri e dalle passioni. Non si compiaceva affatto dei nostri peccati, ma ci sopportava e non approvava quel tempo di ingiustizia. Invece, preparava il tempo della giustizia perché noi fossimo convinti che in quel periodo, per le nostre opere, eravamo indegni della vita, e ora solo per bontà di Dio ne siamo degni, e dimostrassimo, per quanto fosse in noi, che era impossibile entrare nel regno di Dio e che solo per sua potenza ne diventiamo capaci. 2. Dopo che la nostra ingiustizia giunse al colmo e fu dimostrato chiaramente che come suo guadagno spettava il castigo e la morte, venne il tempo che Dio aveva stabilito per manifestare la sua bontà e la sua potenza. O immensa bontà e amore di Dio. Non ci odiò, non ci respinse e non si vendicò, ma fu magnanimo e ci sopportò e con misericordia si addossò i nostri peccati e mandò suo Figlio per il nostro riscatto; il santo per gli empi, l’innocente per i malvagi, il giusto per gli ingiusti, l’incorruttibile per i corrotti, l’immortale per i mortali. 3. Quale altra cosa poteva coprire i nostri peccati se non la sua giustizia? 4. In chi avremmo potuto essere giustificati noi, ingiusti ed empi, se non nel solo Figlio di Dio? 5. Dolce sostituzione, opera inscrutabile, benefici insospettati! L’ingiustizia di molti viene riparata da un solo giusto e la giustizia di uno solo rende giusti molti. 6. Egli, che prima ci convinse dell’impotenza della nostra natura per avere la vita, ora ci mostra il salvatore capace di salvare anche l’impossibile. Con queste due cose ha voluto che ci fidiamo della sua bontà e lo consideriamo nostro sostentatore, padre, maestro, consigliere, medico, mente, luce, onore, gloria, forza, vita, senza preoccuparsi del vestito e del cibo.

 

La carità

1. Se anche tu desideri questa fede, per prima otterrai la conoscenza del Padre. 2. Dio, infatti, ha amato gli uomini. Per loro creò il mondo, a loro sottomise tutte le cose che sono sulla terra, a loro diede la parola e la ragione, solo a loro concesse di guardarlo, lo plasmò secondo la sua immagine, per loro mandò suo figlio unigenito, loro annunziò il Regno nel cielo e lo darà a quelli che l’hanno amato. 3. Una volta conosciutolo, hai idea di qual gioia sarai colmato? Come non amerai colui che tanto ti ha amato? 4. Ad amarlo diventerai imitatore della sua bontà, e non ti meravigliare se un uomo può diventare imitatore di Dio: lo può volendolo lui (l’uomo). 5. Non si è felici nell’opprimere il prossimo, nel voler ottenere più dei deboli, arricchirsi e tiranneggiare gli inferiori. In questo nessuno può imitare Dio, sono cose lontane dalla Sua grandezza! 6. Ma chi prende su di sé il peso del prossimo e in ciò che è superiore cerca di beneficare l’inferiore; chi, dando ai bisognosi ciò che ha ricevuto da Dio, è come un Dio per i beneficati, egli è imitatore di Dio. 7. Allora stando sulla terra contemplerai perché Dio regna nei cieli, allora incomincerai a parlare dei misteri di Dio, allora amerai e ammirerai quelli che sono puniti per non voler rinnegare Dio. Condannerai l’inganno e l’errore del mondo quando conoscerai veramente la vita nel cielo, quando disprezzerai quella che qui pare morte e temerai la morte vera, riservata ai dannati al fuoco eterno che tormenta sino alla fine coloro che gli saranno consegnati. 8. Se conoscerai quel fuoco ammirerai e chiamerai beati quelli che sopportarono per la giustizia il fuoco temporaneo.  

Il loro maestro

XI. 1. Non dico stranezze né cerco il falso, ma, divenuto discepolo degli apostoli, divento maestro delle genti e trasmetto in maniera degna le cose tramandate a quelli che si son fatti discepoli della verità. 2. Chi infatti, rettamente istruito e fattosi amico del Verbo, non cerca di imparare saggiamente le cose che dal Verbo furono chiaramente mostrate ai discepoli? Non apparve ad essi il Verbo, manifestandosi e parlando liberamente, quando dagli increduli non fu compreso, ma guidando i discepoli che, da lui ritenuti fedeli, conobbero i misteri del Padre? 3. Egli mandò il Verbo come sua grazia, perché si manifestasse al mondo. Disprezzato dal popolo, annunziato dagli apostoli, fu creduto dai pagani. 4. Egli fin dal principio apparve nuovo ed era antico, e ognora diviene nuovo nei cuori dei fedeli. 5. Egli eterno, in eterno viene considerato figlio. Per mezzo suo la Chiesa si arricchisce e la grazia diffondendosi nei fedeli si moltiplica. Essa ispira saggezza, svela i misteri, preannuncia i tempi, si rallegra per i fedeli, si dona a quelli che la cercano, senza infrangere i giuramenti della fede né oltrepassare i limiti dei padri. 6. Si celebra poi il timore della legge, si riconosce la grazia dei profeti, si conserva la fede dei Vangeli, si conserva la tradizione degli apostoli e la grazia della Chiesa esulta. 7. Non contristando tale grazia, saprai ciò che il Verbo dice per mezzo di quelli che vuole, quando vuole. 8. Per amore delle cose rivelateci vi facciamo partecipi di tutto quanto; per la volontà del Verbo che lo ordina, fummo spinti a parlare con zelo.  

La vera scienza

XII. 1. Attendendo e ascoltando con cura, conoscerete quali cose Dio prepara a quelli che lo amano rettamente. Diventano un paradiso di delizie e producono in se stessi, ornati di frutti vari, un albero fruttuoso e rigoglioso. 2. In questo luogo, infatti, fu piantato l’albero della scienza e l’albero della vita; non l’albero della scienza, ma la disubbidienza uccide. 3. Non è oscuro ciò che fu scritto: che Dio da principio piantò in mezzo al paradiso l’albero della scienza e l’albero della vita, indicando la vita con la scienza. Quelli che da principio non la usarono con chiarezza, per l’inganno del serpente furono denudati. 4. Non si ha vita senza scienza, né scienza sicura senza vita vera, perciò i due alberi furono piantati vicino. 5. L’apostolo, comprendendo questa forza e biasimando la scienza che si esercita sulla vita senza la norma della verità, dice: «La scienza gonfia, la carità, invece, edifica». 6. Chi crede di sapere qualche cosa, senza la vera scienza testimoniata dalla vita, non sa: viene ingannato dal serpente, non avendo amato la vita. Lui, invece, con timore conosce e cerca la vita, pianta nella speranza aspettando il frutto. 7. La scienza sia il tuo cuore e la vita la parola vera recepita. 8. Portandone l’albero e cogliendone il frutto abbonderai sempre delle cose che si desiderano davanti a Dio, che il serpente non tocca e l’inganno non avvince; Eva non è corrotta ma è riconosciuta vergine. Si addita la salvezza, gli apostoli sono compresi, la Pasqua del Signore si avvicina, si compiono i tempi e si dispongono in ordine, e il Verbo che ammaestra i santi si rallegra. Per lui il Padre è glorificato; a lui la gloria nei secoli. Amen.

  Testo prelevato dal sito dei Domenicani: I classici del Cristianesimo

“Beata solitudo”? 

Monachesimo cristiano e città postmoderna 

  

di Mons. Pierangelo Sequeri 

Estratto da “Un monastero alle porte della città” – Ed. Vita e Pensiero 


E’ veramente possibile anche oggi, per il credente comune, vivere nel mondo senza essere del mondo? La trasformazione del monachesimo cristiano e la sua diakonía nei confronti della chiesa cittadina hanno precisamente nel fuoco di questa domanda il loro punto d’incontro.

………………………..omissis  ……………………. 

E’ già successo, dopo tutto. Fra la “Lettera a Diogneto” e “La Regola di Benedetto” non si osservano differenze tanto grandi, che non lascino apparire somiglianze ancora maggiori. 

 4. La concentrazione monastica intorno all’essenziale della fede comune: la Parola che fa fiorire il deserto intorno alle cattedrali.

 La forma monastica sfida l’impossibilità dell’essenziale. E mette il suo azzardo in ciò che è più comune.

 La qualità della vita monastica dipende infatti dalla forza e dalla immediatezza con la quale eSsa indirizza l’intensità dello sguardo e la felicità del cuore intorno allo splendore della verità cristiana elementare sulla quale essa si concentra.

Della stessa Parola di Dio che anche noi desideriamo ascoltare e che cerchiamo di intendere; quella che ci tiene in vita e senza la quale comprendiamo di non poter vivere la nostra relazione con il Signore. Della stessa eucaristia senza la quale non c’è vita cristiana per nessuno.

Della stessa sapienza spirituale della vita che segna la qualità elementare della conversione della fede. Senza di essa, la fede – anche quella che sposta le montagne, fa miracoli in soccorso dei poveri, e getta la propria vita in fiamme – non diventa per nessuno l’affetto assoluto del cuore. Ossia l’agape di Dio, che ci salva.

 L’interesse intramontabile della forma monastica, insieme con la sua singolarità cristiana, sta proprio nel fatto che essa rende speciale l’essenziale, massimo il minimo, eccezionale ciò che è più comune.

 Elemetare l’esistenza, elementare la spiritualità. Le due cose insieme restituiscono al simbolo della via monastica la sua verità cristiana. In questo esercizio di ostinata riconduzione della fede e della vita all’elementare, perciò all’essenziale, la forma monastica ottiene a sua volta la restituzione della verità cristiana al radicale legame fra l’unum necessarium e la forma comune della fede.

 Scioglie ogni volta l’alibi della sua impraticabilità nella normalità del mondo e della Chiesa. Perché è nella normalità di questo mondo e di questa Chiesa che essa si apre – a forza – la via per la restituzione alla coscienza dell’impossibile umano, possibile a Dio, che abita la fede in quanto tale. Ed esalta al tempo stesso la felicità della fede più semplice, che riconosce lo splendore dello Spirito e della forza che abitano i doni elementari della fede: la rivelazione di Gesù Cristo e il sacramento, l’agape dell’abbà-Dio e la fraternità.

 Il più comune è la “prossimità” solidale con il cristianesimo elementare: vivere del proprio lavoro, coltivare la fraternità, tenersi in vita con la Parola di Dio e il sacramento della presenza/assenza – dell’attesa – del Signore fra i suoi. La prossimità si realizza per altro a “distanza” dai vincoli mediante i quali le potenze mondane lo tengono per certi aspetti in ostaggio.

 La spregiudicata sottrazione del monachesimo al legami mondani (e non tanto l’esibizione di uno stato di maggiore costrizione, che spesso appare come il simbolo più eccitante) è in vista del vigore di una speranza che deve essere rigorosamente comune ai credenti. Nulla e nessuno possono separarci dall’amore di Cristo e dalla compiuta destinazione degli affetti degni di Lui.

 Perciò le due cose vanno insieme. L’evidenza della prossimità indirizza persuasivamente il senso cristiano della distanza. La qualità cristiana – agnostica – della distanza, illumina il significato evangelico, non utilitaristico, della prossimità. Il monachesimo deve essere abitato da una tale qualità dell’esperienza dell’uomo e della vita, da rendere persuasivi i tratti essenziali della sapienza teologale che essa dispiega. Nella condizione attuale, questa reciproca evidenza è in molti modi oscurata.

 L’opportunità storica/teologale del monachesimo la vedrei oggi proprio nella possibilità di scavare, nelle viscere della città moderna, la fitta rete di un vivace scambio simbolico fra il cristianesimo monastico (polarizzato dalla vocazione celibataria) e quello domestico (polarizzato dal legame coniugale).

 E’ evidente che la correlazione funziona se l’alleanza dialettica sta in saldo rapporto con una forma domestica dell’esistenza che mostri di avere integrato la novità cristiana: appresa, come sequela del Signore, nell’ascolto della parola e nella assimilazione di agape.

 Parliamo infatti del sacramento cristiano del legame dell’uomo e della donna, determinato dalla qualità personale del coinvolgimento sessuale, dalla cura responsabile della generazione, dalla stabilità etica della sua figura sociale. Parliamo dunque pur sempre, anche in riferiemnto al principio domestico della Chiesa, di un azzardo cristiano/ecclesiale della fede evangelica, che scommette, in virtù della fede e in forza della benedizione di Dio, sulla consegna della relazione nuziale alla via della sequela testimoniale e della vocazione al discepolato.

 In tal caso infatti, nella reciproca frequentazione della Ecclesia fidei, le due figure hanno l’opportunità di realizzare l’unità del simbolo ecclesiale cristiano. L’una viene efficacemente richiamate alla necessità di non rinchiudersi nell’arida applicazione alla “cura di sé” (sia pure in chiave spirituale); l’altra viene distolta dal pericolo di rassegarsi ad una relazione teologale che integra semplicemente la “cura del mondo”.

 Battere insieme il puritanesimo gnostico e l’accomodamento mondano della vita cristiana è prospettiva dura e affascinante. Eppure, l’alleanza del principio monastico e del principio domestico, con le relative inclusioni simboliche della memoria dell’uno nell’altro (il monachesimo fraterno, aperto all’ospitalità; la chiesa domestica permeabile all’iniziazione contemplativa e all’esercizio del distacco) sarebbero un segno forte per la chiesa della città. Ma anche per la città moderna tout-court.

 E’ già successo, dopo tutto. Fra la Lettera a Diogneto e La Regola di Benedetto non si osservano differenze tanto grandi, che non lascino apparire somiglianze ancora maggiori. 


LE DOMANDE CHE PUNGONO SUL VIVO – Angelo Nocent

Posted on Dicembre 18th, 2008 di Angelo | 

 

 

Le  domande che pungono sul vivo

  

 Di Angelo Nocent

 

Shalðm! 

Sul nostro percorso incontriamo parole che confondono, altre illuminanti. L’idea che la Parola di Dio, quando raggiunge il mio Dna ne influenzi le frequenze e ne modifichi i suoi componenti può essere credibile?

 

E’ di questi giorni l’ultima notizia che, se attendibile, potrebbe metterci di fronte a una svolta epocale. La bomba  messa in circolazione è questa: il Dna ci parla di altri universi. Stando alle ricerche di scienziati russi (Garjajev) comunicate dai tedeschi G. Gosar e F. Bludorf nel libro “Vernetze intelligenz”, sembrerebbe proprio di sì.

 

Questi scienziati avrebbero studiato con genetisti e linguisti per dimostrare che il Dna serve da magazzino di informazioni e per la comunicazione, avrebbe un comportamento vibratorio emettitore di frequenze e ricettore, a sua volta, di frequenze. In sostanza, parole pronunciate con il tono appropriato o suoni specifici, potrebbero influenzare le frequenze del Dna, modificando i suoi comportamenti.

 

Qualcuno vi ha gia letto i miracoli di Cristo: la sua voce raggiungeva il Dna. Naturalmente gli scienziati sono andati oltre questo semplice accenno. Al di là delle suggestioni di queste ipotesi, ho voluto riprendere la notizia perché mi premeva questo: sottolineare che la Parola di Dio ha davvero una forza capace di cambiarmi profondamente il cuore, ossia di andare alla radice del mio essere. Poi, sul come interagisca sulle mie cellule, ce lo faremo spiegare dagli studiosi un’altra volta.

 

Test sperimentale

 

    Gesù risorto appare ai discepoli di Emmaus  (Luca 24, 13-35)  (vedi anche Marco 16, 12-13)

13

Quello stesso giorno due discepoli stavano andando verso Emmaus, un villaggio lontano circa undici chilometri da Gerusalemme.

 14

Lungo la via parlavano tra loro di quel che era accaduto in Gerusalemme in quei giorni.
15

Mentre parlavano e discutevano, Gesù si avvicinò e si mise a camminare con loro. 16

Essi però non lo riconobbero, perché i loro occhi erano come accecati.
17

Gesù domandò loro:
- Di che cosa state discutendo tra voi mentre camminate?
Essi allora si fermarono, tristi.

 18

Uno di loro, un certo Clèopa, disse a Gesù:
- Sei tu l’unico a Gerusalemme a non sapere quel che è successo in questi ultimi giorni?
19

Gesù domandò:
- Che cosa?
Quelli risposero:
- Il caso di Gesù, il Nazareno! Era un profeta potente davanti a Dio e agli uomini, sia per quel che faceva sia per quel che diceva.

20

Ma i capi dei sacerdoti e il popolo l’hanno condannato a morte e l’hanno fatto crocifiggere.

21

Noi speravamo che fosse lui a liberare il popolo d’Israele! Ma siamo già al terzo giorno da quando sono accaduti questi fatti.

 22

Una cosa però ci ha sconvolto: alcune donne del nostro gruppo sono andate di buon mattino al sepolcro di Gesù

 23

ma non hanno trovato il suo corpo. Allora sono tornate indietro e ci hanno detto di aver avuto una visione: alcuni angeli le hanno assicurate che Gesù è vivo.

 24

Poi sono andati al sepolcro altri del nostro gruppo e hanno trovato tutto come avevano detto le donne, ma lui, Gesù, non l’hanno visto.
25

Allora Gesù disse:
- Voi capite poco davvero; come siete lenti a credere quel che i profeti hanno scritto!

26

Il Messia non doveva forse soffrire queste cose prima di entrare nella sua gloria?
27

Quindi Gesù spiegò ai due discepoli i passi della Bibbia che lo riguardavano. Cominciò dai libri di Mosè fino agli scritti di tutti i profeti.
28

Intanto arrivarono al villaggio dove erano diretti, e Gesù fece finta di continuare il viaggio.

29

Ma quei due discepoli lo trattennero dicendo: “Resta con noi perché il sole ormai tramonta”. Perciò Gesù entrò nel villaggio per rimanere con loro.

30

Poi si mise a tavola con loro, prese il pane e pronunziò la preghiera di benedizione; lo spezzò e cominciò a distribuirlo.
31

In quel momento gli occhi dei due discepoli si aprirono e riconobbero Gesù, ma lui spari dalla loro vista.

32

Si dissero l’un l’altro: “Non ci sentivamo come un fuoco nel cuore, quando egli lungo la via ci parlava e ci spiegava la Bibbia?”.
33

Quindi si alzarono e ritornarono subito a Gerusalemme. Là, trovarono gli undici discepoli riuniti con i loro compagni.
34

Questi dicevano: “Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone”.

35

A loro volta i due discepoli raccontarono quel che era loro accaduto lungo il cammino, e dicevano che lo avevano riconosciuto mentre spezzava il pane.

 

Questa è la parabola che ci ritrae come singoli e come comunità, famiglia. Soli o in compagnia, girovaghiamo tra delusioni e sconforti. I produttori di ansiolitici e psicofarmaci fanno affari d’oro perché la domanda cresce in modo esponenziale.

Se a bruciapelo uno mi porgesse questo quesito: ma tu, come vivi il tuo rapporto col Signore? Lo senti davvero vicino a te, come una presenza viva? Oppure è un rapporto più che altro razionale, che rischia però di rimanere sterile?

Quello di stabilire un rapporto con Dio, ma di perderne la dimensione viva, vitale, personale è un rischio che corrono sia i professionisti che i consumatori del sacro, ossia tutti noi: preti e laici.  Se questa domanda mi venisse posta mentre mi trovo davanti a un piatto fumante di spaghetti, la probabilità di strapparmi una risposta deludente sarebbe molto elevata. Perché ho tirato fuori gli spaghetti? Perché parliamo di famiglia  e perché i discorsi più profondi sul Signore e col Signore, come ci attestano i Vangeli e lo stesso brano riportato, si fanno proprio a tavola.  

Questa è una domanda che punge sul vivo, perché raramente il Signore è immediatamente percepibile. Se guardo dentro di me, con tutta onestà  mi rendo conto che il rapporto con Dio non è mai garantito, non va mai dato per scontato. Talvolta  il Signore lo sento lontano, come lontano da lui mi sento io quando mi rendo conto di prendere le distanze dalla missione che mi ha   affidato, dalla via che mi ha indicato.

 

Adesso provo a rivoltare la domanda:

  • dov’è il tuo Signore?
  • Ti accompagna nel cammino?

La risposta ognuno se la dia tra sé e sé.

 Rimando la riflessione sul brano evangelico di Emmaus ed invito a concentrare l’attenzione su queste parole:

  • 32 Si dissero l’un l’altro:Non ci sentivamo come un fuoco nel cuore, quando egli lungo la via ci parlava e ci spiegava la Bibbia?”.
  • 33 Quindi si alzarono e ritornarono subito a Gerusalemme. Là, trovarono gli undici discepoli riuniti con i loro compagni.

Mi limito a evidenziare che la parabola racchiude in sé un invito ad abbandonare l’inerzia. Anche il girare a vuoto è inerzia, anche perdersi in ore ed ore di navigazione su Internet può celare uno stato di oziosità spirituale: vorrei, ma non so, non oso, non me la sento, non vedo nulla di concreto…

 

Il messaggio che vorrei far passare oggi è questo: avete in mente i pipistrelli senza piume del nostro premio Nobel James D. Watson? Ebbene, si possono mettere le piume solo prendendo confidenza con la Bibbia. Così scriveva l’Arcivescovo Martini alla sua Diocesi:

 

  • “Per un primo impatto con la fede cristiana, una ben studiata aderenza alla pedagogia del testo biblico favorisce un contatto con gli elementi essenziali della fede;
  • permette itinerari diversi e complementari, sempre orientati alla centralità del mistero pasquale;
  • assicura quel costante contatto con la realtà storica, che dà fondamento critico alle certezze della fede;
  • assume un andamento esistenziale e narrativo, che permette di congiungere una estrema concretezza con inesauribili risorse contemplative e spunti riflessivi;
  • propone una mirabile varietà di formule sintetiche, con cui la fede, senza nulla perdere della sua vastità e complessità, riesce però a dire la sua pregnante compiutezza nel giro di poche parole.”

Ad una famiglia qualsiasi che decide di muovere i primi passi, farei due considerazioni:

  • Tu hai  “fame di Parola”, noi abbiamo “fame di Parola”.
  • Non è sufficiente che io ti regali una Bibbia,
  • non basta che tu ce l’abbia nella tua vetrina, bella, elegante, illustrata,
  • non è sufficiente che qualcuno metta nelle tue mani il testo delle Scritture,
  • non è sufficiente che tu l’ascolti nella lingua volgare.
  • Bisogna che tu sia abilitato a tale ascolto, attraverso la frequenza a conferenze, a scuole della Parola, a sussidi, incontri con competenti che prevedano l’apprendimento delle metodologie della lettura, della meditazione e dell’attualizzazione della Bibbia.

Per evitare di farne una lettura letteralistica e mitica, uno deve acquisire la capacità di accostare la Bibbia, libro di sua natura complesso, perché comprende generi letterari diversi, dovuti al fatto di essere stata composta lentamente attraverso i secoli  e conclusasi con l’Apocalisse. Suggerirei di iniziare affrontando alcuni temi biblici particolarmente significativi che avranno certamente una ricaduta anche sulla tematica familiare che ci siamo dati come obiettivo: 

  • misericordia,fedeltà, peccato, liberazione 

Una buona provocazione spirituale può venire dai seguenti testi: 

  • Luca   4, 16-30 con i salmi 46, 72 e il canto d’Isaia 61;
  • Luca   23, 32-54 con il salmo 31;
  • Luca   6, 20-38 con i salmi 27, 73,131;
  • Luca   12, 13-34 con i salmi 130, 136, 133;
  • Giovanni 13, 1-17  con i salmi 130, 136, 133 

Meriterebbe affrontare da subito la parabola dei talenti (Mt 25, 14-30) che non va letta in modo moralistico. I talenti non sono le nostre qualità personali, bensì i grandi doni che ci sono stati annunciati: 

  • il Cristo,
  • il Regno,
  • la Parola,
  • le Beatitudini,
  • la libertà,
  • l’abbandono,
  • l’agàpe, cioè l’amore gratuito. 

Il Regno costituisce il vero punto di partenza di una famiglia in cammino. Se non viene colto il senso, si finisce in breve tempo in un vicolo cieco. 

La Bibbia nella famiglia –  Ascoltatori smemorati 

Il Card. Carlo Maria Martini nella lettera al clero e ai fedeli sul tema: “La parola di Dio nella liturgia e nella vita” così scriveva a proposito della Bibbia nella famiglia: 

“[23]   Dobbiamo, purtroppo, collocare la famiglia tra gli ambiti di difficile penetrazione della Parola di Dio. La famiglia, di per sé, dovrebbe essere un luogo di intensa comunicazione non solo della parola di Dio, ma anche di quelle fondamentali parole umane che introducono al senso profondo della vita. In realtà la famiglia vede molto compromessa, nella società attuale, la sola insostituibile funzione educativa. Alcuni sintomi allarmanti denunciano la crisi profonda di quei valori umani, di cui la famiglia è portatrice in modo specifico e costitutivo. 

            Per esempio, il rapporto uomo-donna tende a perdere la sua specifica caratteristica di dedizione incondizionata e definitiva, per uniformarsi ad altri rapporti umani a breve scadenza, fondati sull’interesse, sull’arbitrio, su quello che di volta in volta appare come utile e piacevole, senza il coraggio della libera scelta irrevocabile. 

            Così la tipicità del rapporto genitori-figli viene intaccata sia dal fatto che il figlio tende ad essere visto come un fenomeno accessorio o addirittura fastidioso del rapporto coniugale, sia dal fatto che altre e contraddittorie figure di adulti, che si presumono autorevoli, impongono se stesse ai figli, non in collaborazione con l’autorevolezza dei genitori, ma spesso in sottile o clamoroso contrasto, rendendo ancora più difficile il dialogo familiare, già disturbato dall’ingigantito “salto generazionale”. 

            La conseguenza di tutto ciò è una grave riduzione del rilievo sociale e culturale della famiglia. Il senso pregnante di quelle fondamentali parole a cui uno deve far riferimento per orientarsi nella vita – come amore, lavoro, amicizia, apertura al mistero, nascita, morte, dolore, onestà sociale ecc. – non è più determinato dall’ambito familiare, con la sua carica di vita vissuta, di sapienza tradizionale, di affetto rispettoso, ma tende a essere influenzato sempre più da mille altre voci extra-familiari, spesso caratterizzate da superficialità, da distorsioni, da intenti di strumentalizzazione e di cattura psicologica. Anche i tempi del dialogo familiare e dell’intimità post-lavorativa vengono invasi dai mezzi di comunicazione sociale, che condizionano pesantemente la vita intellettuale e affettiva della famiglia. 

            Occorre aiutare la famiglia a ritrovare il gusto e la responsabilità di quei valori umani originali, che in essa vengono celebrati a beneficio delle persone e, a lungo andare, dell’intera convivenza sociale. 

            Se la famiglia riuscisse a raccogliere se stessa, intorno alla parola di Dio, o riandando a ciò che fu proclamato in chiesa, durante la liturgia, o leggendo direttamente e organicamente le pagine bibliche, troverebbe una fonte inesauribile di messaggi preziosi circa la vita stessa della famiglia, circa le vicende che i familiari attraversano nelle diverse stagioni della vita, circa gli avvenimenti che succedono nel mondo d’oggi. Allora fatti e situazioni entrerebbero nella famiglia, non più in forma grezza e incombente, ma attraverso quel filtro di sapienza e di serenità che è la parola di Dio. Questa Parola, inoltre, potrebbe stimolare le famiglie a inventare una socialità nuova, superando, anche a prezzo di tempo e di fatica, le aggregazioni istintive e discriminanti, fondate sulla comune estrazione sociale e culturale. 

            Le parrocchie si impegnino a preparare sussidi opportuni, utilizzando il bollettino parrocchiale, prevedendo nel programma di catechesi dei ragazzi qualche parte da svolgere in famiglia con i genitori, educando le famiglie più sensibili a una meditazione comune dei testi biblici almeno nei tempi forti dell’anno liturgico. 

            La visita annuale alle famiglie (trovando ad esempio anche il tempo di leggere insieme un Salmo e attualizzandolo brevemente) sarà un tempo propizio per stimolare questa apertura della comunità familiare alla parola di Dio.” 

Il fatto che un gruppo di persone abbia pensato di sviluppare queste tematiche che vivono per prime come meglio possono nelle rispettive famiglie, è un tentativo in atto di aprire la comunità familiare alla Parola di Dio. 

L’amore di Gesù si esprime anche con gli ammonimenti. Eccone uno: 

  • “Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano” (Lc 11, 28).
  • Giovanni 13, 17:“Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica” .
  • San Giacomo esorta a non essere “come un ascoltatore smemorato” (Giac 1, 25).

 

I verbi da memorizzare:

  • ascoltare la Parola,
  • vivere la Parola, c
  • ustodire la Parola,
  • praticare la Parola.

 Per non perdere il contatto con la parabola, una sottolineatura: quelli che erano tornati a Emmaus per mettere fine al loro peregrinare, per rinunciare alla loro missione, capiscono che il cammino deve proseguire; e il loro cammino riceve una nuova direzione. Non è più il cammino mesto e rassegnato di chi se ne torna a casa con le pive nel sacco, ma il cammino gioioso di chi sfida la notte e i suoi pericoli per correre alla città santa e annunziare agli altri discepoli la buona notizia della risurrezione del Cristo.

 Ecco un miracolo della Parola operato in persone sfiduciate. Esso è destinato a ripetersi, ripetersi, ripetersi…

 Angelo Nocent

PREGHIERE DELLA COMPAGNIA

Posted on Dicembre 12th, 2008 di Angelo |

 

    NEL NOME DEL PADRE,      

DEL FIGLIO 

E DELLO SPIRITO SANTO. AMEN

 

  

 

Preghiera della Compagnia 

 

Signore, insegnaci a non amare noi stessi, a non amare soltanto i nostri, a non amare soltanto quelli che amiamo già.

Tu che sei buono, facci la grazia di capire che l’ansia di pensare agli altri è un dono che ci fa simili a Te; Che amare prioritariamente coloro che nessuno ama  ci apre alla missione:  i ciechi vedono,   i sordi odono,  ai poveri è annunciato il  Vangelo della consolazione.

RENDICI degni della sofferenza degli altri,

 ALLARGA i nostri orizzonti, le dimensioni del cuore, la profondità dell’amore,

CORREGGI la nostra miopia per individuare le lacrime da asciugare,

FORZACI l’udito per accogliere i gemiti  della disperazione,

PERSUADICI che sono troppi i tuoi figli che ogni giorno muoiono di fame senza meritare un simile castigo, muoiono di freddo senza meritare una tale punizione, muoiono di malattie senza alcun soccorso.    

Padre, che hai pietà di tutti i poveri del mondo, rendici  misericordiosi strumenti della tua compassione. Tu che nel Figlio ti sei caricato di tutte le sofferenze umane, usa le nostre schiene per i salvataggi d’emergenza e per i Tuoi progetti di salvezza.

Cristo Gesù, che ci hai spezzato il Pane della Vita e ci hai ritenuti degni di accostarci al Calice del Tuo sangue, offerto in sacrificio per noi, annotaci nel libro dei “donatori” della Tua carità.

Spirito, che sei il solo Consolatore, inviaci sul fronte dei destini umani più segnati dal dolore e dalle malattie, a trasfondere l’amore che hai per le Tue creature che popolano il pianeta.  

Santa Madre di Dio, tu che sei più vasta dei cieli, poiché hai racchiuso in Te Colui che i cieli non sanno contenere, volgi il tuo sguardo materno a questa Compagnia dove uomini e donne cercano, nel silenzio dell’ascolto e nella comunione dei cuori, sostegni di fede e di opere per chi è nella prova.

Aiutaci nello sforzo di scoprire che cosa vogliono afferrare le mani tese degli uomini e delle donne di oggi.

Donaci la pace dei pellegrini e la gioia di camminare insieme,perché ogni popolo e nazione accolga sempre più nel suo grembo, come tu hai fatto, il Verbo di vita, unica  speranza del mondo. AMEN”

 

 

 

 

Maria di Nazareth 

  • Mater  Hospitalitatis,
  • Onnipotentia supplex,
  • Signora di tutti i Popoli,
  • Santa Maria de los Remedios,
  • Sorella dai saggi consigli,
  • Donna del perpetuo soccorso,
  • Consolatrice degli afflitti,
  • Vigore degli infemi,
  • Genitrice che hai tanti figli fuori di casa e tanti senza casa,
  • mamma del più Povero e la più povera delle mamme,
  • dacci la grazia di avere cuore da vendere e tanta testa. 
  • Aiutaci nella nostra carità:
  • fa’ quello che non sappiamo fare, 
  • non  quello che non vogliamo o non osiamo fare. AMEN.

  

  

A GESÙ CROCIFISSO 

O Gesù, mi fermo pensoso ai piedi della Croce: anch’io l’ho costruita con i miei peccati ! La tua bontà, che non si difende e si lascia crocifiggere, è un misteroche mi supera e mi commuove profondamente.

Signore, tu sei venuto nel mondo per me, per cercarmi, per portarmi l’abbraccio del Padre.

Tu sei il Volto della bontà e della misericordia: per questo vuoi salvarmi ! Dentro di me ci sono le tenebre : vieni con la tua limpida luce.

Dentro di me c’è tanto egoismo : vieni con la tua sconfinata carità.

Dentro di me c’è rancore e malignità: vieni con la tua mitezza e la tua umiltà.

Signore, il peccatore da salvare sono io: il figlio prodigo che deve ritornare, sono io !

Signore, concedimi il dono delle lacrime per ritrovare la libertà e la vita, la pace con Te e la gioia in Te. Amen.

(Angelo Comastri Arcivescovo – 8 Dicembre 2005)

 

 

8 Dicembre 2005

 

 

 

O Maria,

oggi la Compagnia che Tu hai in mente, ti proclama Regina:”Sub tuu praesidium…”

Oggi rinnoviamo la nostra consacrazione a te, Mater Hospitalitatis, perché dove ci condurrai, nascano luoghi di stupore.

Guarisci le infermità del nostro spirito.  Facci comprendere che l’Eucaristia è il Sacramentum Hospitalitatis, la piscina probatica dove ri-nascono il corpo, la mente, lo spirito.

Ottienici dal Signore Gesù , noi, gli ospitati per primi, soccorsi e teneramente amati, di essere, a nostra volta, ospitali, soccorritori,  teneramente amanti: “Amatevi come vi ho amato”.

Mandati nel mondo a guarire ogni sorta di infermità, Tu, la numero uno della Compagnia, ìndicaci i sentieri da percorrere per raggiungere, senza esitazione e smarrimenti, i confini della terra.

Aiutaci a riconoscere in ogni volto che incontriamo il Viso dolcissimo del nostro fratello Gesù, il cui Nome è salvezza per tutti gli uomini.

Insegnaci a pregare perché Lui cresca ed il nostro io diminuisca fino a scomparire in Dio per ritrovarci insieme nel  giorno benedetto, quell’ottavo , che non avrà fine.

Riscalda il cuore dei giovani perché trovino il coraggio della donazione eroica e senza calcolo. E a noi, incamminati ormai verso il tramonto, restituisci la nostalgia vitale degli ardori giovanili, per superare la diffidenza, la stanchezza, le delusioni dei giorni che ci restano.

Per tua ispirazione, i tradimenti e le debolezze del vissuto, non soffochino l’anelito del cuore: amarti e farti amare. Del resto, ci è toccato, nonostante tutto, di vivere i giorni migliore della Storia, che è sacra per il VERBO che in Te, sorella e madre, vergine immacolata, ha preso carne e condiviso la nostra sorte. AMEN

  padrepio

PREGHIERA A SAN PIO DA PIETRELCINA

  

Padre Pio,
tu sei vissuto nel secolo dell’orgoglio:
e sei stato umile.

Padre Pio,
tu sei passato tra noi nell’epoca delle ricchezze
sognate, giocate e adorate:
e sei rimasto povero.

Padre Pio,
accanto a te nessuno sentiva la Voce:
e tu parlavi con Dio;
vicino a te nessuno vedeva la Luce:
e tu vedevi Dio.

Padre Pio,
mentre noi correvamo affannati,
tu restavi in ginocchio
e vedevi l’Amore di Dio inchiodato ad un Legno,
ferito nelle mani, nei piedi e nel cuore:
per sempre!

Padre Pio,
aiutaci a piangere davanti alla Croce,
aitaci a credere davanti all’Amore,
aiutaci a sentire la Messa come pianto di Dio,
aiutaci a cercare il perdono come abbraccio di pace,
aiutaci ad essere cristiani con le ferite
che versano sangue di carità fedele e silenziosa:
come le ferite di Dio! Amen.

 

+ Angelo Comastri Vescovo

 

Essere santi… – Silvia

Posted on Novembre 3rd, 2009 di silvia

 |

 

Essere santi…

 

Mi chiedo e chiedo qui dove forse si comunica nella Fede, se vivo sapendo sempre che sono chiamata alla Santità.

Vivo, con il pensiero di Lui sempre presente?

Una ordinaria attenzione alla Sua Volonta.

Una ordinaria percezione di essa.

Del vincolo che mi unisce a Lui.

Tutto questo è Suo dono. Dal Battesimo. Nel Battesimo.

Essere santi, è Suo dono.

E nostra – mia- risposta.

Anche se non mi ricordo sempre di pensarTi,Signore, Ti so e Ti avverto sempre li,presente,attento….

Anche se da tempo infinito, non vedo nepure dove mettere il piede per il prossimo passo, nella notte e nel deserto senza fine, Ti so accanto e soffro.

Soffro e offro.

Amo?…

Donami Signore, l’Amore.

FATEBENEFRATELLI E CAMILLIANI INSIEME PER…

Fra Pierluigi Marchesi o.h.LA VOCE DI PADRE PIERLUIGI MARCHSI O.H.

 

ROMA , 4 maggio 1987 – 00:00

 http://www.radioradicale.it/scheda/21252/21279-presenza-e-missione-del-mondo-della-salute-presentazione-del-convegno

“Presenza e missione del mondo della salute”

presentazione del convegno

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    Gabriele Marrone

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    Pierluigi Marchesi

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    Il cardinale Martini “Un Concilio sul divorzio” – Eugenio Scalfari

    Martini - Mediaset

    Il cardinale Martini

    “Un Concilio sul divorzio”

    Intervista con EUGENIO SCALFARI

    (da “Repubblica” del 18 giugno 2009)

    Il volto è dimagrito ma gli occhi d´un azzurro intenso lo illuminano ancora di più. Mi guarda fisso, come per riconoscermi. Sono molti anni che non ci incontriamo anche se ci siamo sentiti spesso scambiandoci a distanza sentimenti e pensieri. Sono passati tredici anni da quel dibattito a due voci organizzato da don Vincenzo Paglia, allora assistente ecclesiastico della comunità di Sant´Egidio, nel grande salone di palazzo della Cancelleria a Roma, dinanzi ad una platea gremita di sacerdoti d´ogni provenienza con i loro variopinti costumi: vescovi e cardinali di Santa Romana Chiesa in talare e zucchetto rosso, copti, patriarchi della Chiesa orientale, pastori protestanti, anglicani. C´erano anche, ricordo, quattro monaci buddisti. Molti i gesuiti, in veste nera e fascia alla vita, venuti ad ascoltare lui, il loro compagno di seminario e di religione diventato poi cardinale e arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini.

    Quel dibattito aveva come tema: «La pace è il nome di Dio» con un sottotitolo: «Che cosa può unire oggi cattolici e laici». Lui fece una premessa (fare premesse è una sua abitudine per meglio definire l´argomento). Disse: «Non sono qui per fare proselitismo, perciò non parleremo di fede e di teologia ma di etica e di convinzioni». A mia volta lo ringraziai e la discussione cominciò, ma ci accorgemmo subito che eravamo d´accordo su tutto, la sua etica era anche la mia, lui la riceveva dall´alto, io dall´autonomia della mia coscienza, tutti e due ci ponevamo il problema dell´incontro tra il sentimento religioso e una modernità laica e relativista.

    Da allora la figura dell´arcivescovo di Milano è stata per me un punto di riferimento, ho seguito la sua opera pastorale diretta ai credenti e il suo dialogo costante con i non credenti, il suo rapporto con il cardinal Silvestrini, con Pietro Scoppola, con la comunità di Sant´Egidio, con le varie anime della Compagnia di Gesù. Ho letto i suoi libri e in particolare le Conversazioni notturne a Gerusalemme. Ed ora quello appena uscito Siamo tutti nella stessa barca, un lungo dialogo con don Luigi Verzè, fondatore dell´ospedale di San Raffaele a Milano e dell´Università che porta lo stesso nome. Quel binomio Martini-Verzè ha stupito molti amici del cardinale. Il fondatore del San Raffaele è un personaggio di notevole intraprendenza che ha ben poco in comune con Martini.

    Perché ha scelto proprio lui come interlocutore?

    Il cardinale risponde così: «Io e don Luigi siamo molto diversi sia per temperamento sia per formazione; sono diverse le nostre biografie ed anche le nostre visioni politiche e sociali. Non so se don Luigi ed io abbiamo le stesse soluzioni di fronte a scelte sempre più difficili. Ma siamo insieme sulla stessa barca, la barca della Chiesa, pur con tutte le nostre diversità. Ci accomuna un grande amore verso la Chiesa, un´ardente passione per il Verbo Incarnato Gesù Cristo e il desiderio che la Chiesa incontri e comprenda la società moderna».

    La spiegazione è chiara, le differenze tra i due emergono dal libro ma l´obiettivo comune è quello di porre all´attenzione dei cristiani cattolici problemi non più oltre rinviabili. Domando a Martini quale siano quei problemi in ordine di importanza. «Anzitutto l´atteggiamento della Chiesa verso i divorziati, poi la nomina o l´elezione dei Vescovi, il celibato dei preti, il ruolo del laicato cattolico, i rapporti tra la gerarchia ecclesiastica e la politica. Le sembrano problemi di facile soluzione? Possono interessare anche un laico non credente come lei?».

    Mi guarda sorridente e si riassesta sulla sedia che scricchiola e mi viene il timore che sia malferma ma lui mi rassicura: «E´ solida, stia tranquillo, sono io che mi muovo troppo». Ci troviamo in una stanza molto sobria, un tavolo lungo e qualche sedia, nella casa di riposo dei gesuiti a Gallarate.

    Il cardinale, prima di ricevermi, ha incontrato una cinquantina di preti venuti dal dintorno milanese. Volevano ascoltare le sue parole di fede e di speranza in una società sempre meno cristiana e sempre più indifferente.

    Indifferente verso che cosa? gli chiedo.

     «Non c´è più una visione del bene comune. Il sentimento dominante è di difendere il proprio interesse particolare e quello del proprio gruppo. Magari pensano di essere buoni cristiani perché qualche volta vanno a messa e fanno avvicinare i loro figli ai sacramenti. Ma il cristianesimo non è quello, non soltanto quello.

    I sacramenti sono importanti se coronano una vita cristiana.

    La fede è importante se procede insieme alla carità.

    Senza la carità la fede è cieca.

    Senza la carità non c´è speranza e non c´è giustizia».

    Lei, cardinal Martini, ha affermato in molte occasioni l´importanza della carità, ma forse bisogna definire con esattezza che cosa lei intenda con questa parola. Non credo che si limiti al far del bene al prossimo.

    «Far del bene, aiutare il prossimo è certamente un aspetto importante ma non è l´essenza della carità. Bisogna ascoltare gli altri, comprenderli, includerli nel nostro affetto, riconoscerli, rompere la loro solitudine ed esser loro compagni. Insomma amarli. La carità non è elemosina. La carità predicata da Gesù è partecipazione piena alla sorte degli altri. Comunione degli spiriti, lotta contro l´ingiustizia».

    Nel suo libro Conversazioni notturne lei dice che i peccati sono numerosi e la Chiesa ne enumera molti ma, a suo parere, il vero peccato del mondo – lei dice proprio così se ben ricordo – il vero peccato del mondo è l´ingiustizia e la diseguaglianza. Se ho ben capito le sue parole, la carità è lottare contro l´ingiustizia?

    «Gesù disse che il regno di Dio sarà dei poveri, dei deboli, degli esclusi. Disse che la Chiesa avrebbe avuto come missione di essere vicina a loro. Questa è la carità del popolo di Dio predicata dal suo Figlio fatto uomo per la nostra salvezza».

    Cardinale, che cosa intende per popolo di Dio? E´ il laicato cattolico il popolo Dio?

    «Tutta la Chiesa è popolo di Dio, la gerarchia, il clero, i fedeli».

    I fedeli hanno un ruolo attivo nel governo della Chiesa, nella partecipazione, nell´amministrazione dei sacramenti, nella scelta dei loro pastori?

    «Hanno certamente un ruolo ma dovrebbero esercitarlo con molta più pienezza. Troppo spesso è un ruolo passivo. Ci sono state epoche nella storia della Chiesa nelle quali la partecipazione attiva delle comunità cristiane era molto più intensa. Quando prima ho parlato d´una dilagante indifferenza pensavo proprio a questo aspetto della vita cristiana. Qui c´è una lacuna, una defezione silenziosa specie nella società europea e in quella italiana».

    Pensa alla scarsa frequenza dei sacramenti, della messa, delle vocazioni?

    «Questi sono aspetti esterni, non sostanziali. La sostanza è la carità, la visione del bene comune e della comune felicità. Felicità non solo per noi ma per gli altri e non solo nel presente qui e subito ma per i figli e i nipoti, le generazioni che verranno».

    La chiesa istituzionale fa abbastanza in questa direzione?

    «Fa molto, ma dovrebbe fare molto di più». Cardinal Martini, vorrei porle una questione piuttosto delicata. Un noto scrittore cattolico, Vittorio Messori, ha scritto recentemente che la Chiesa istituzionale, cioè il Vaticano con la sua Segreteria di Stato i suoi Nunzi sparsi in tutto il mondo, le sue strutture di Curia, non può sanzionare i vizi privati dei potenti. Il suo compito è stipulare accordi, Concordati, affrontare problemi concreti da potere a potere. Fece accordi con Hitler, con Mussolini, con Pinochet, con Franco, con Craxi. Se li avesse pubblicamente giudicati sui loro comportamenti, sulla loro moralità, non avrebbe potuto operare politicamente come è suo compito. Il problema semmai – secondo Messori – riguarda il confessore, ammesso che qualcuno di quei potenti si confessi. Comunque il tema della salvezza riguarda il clero pastorale, i parroci e i vescovi con cura di anime.

    Lei è d´accordo con questa distinzione tra istituzioni vaticane e clero con funzioni pastorali?

    «In verità non sono molto d´accordo, la distinzione che fa Messori ci richiama ad una fase in cui esisteva ancora il potere temporale e il Papa era anzitutto un sovrano; ma quel potere grazie a Dio è finito e non può essere restaurato. E´ una fortuna che sia finito. Certo esiste una struttura diplomatica della Santa Sede, ma composta pur sempre di sacerdoti il cui fine ultimo è quello di testimoniare la predicazione evangelica ed il suo contenuto profetico.

    Aggiungo che la struttura diplomatica, secondo me, è fin troppo ridondante e impegna fin troppo le energie della Chiesa. Non è stato sempre così. Nella storia della Chiesa per molti e molti secoli questa struttura non è neppure esistita e potrebbe in futuro essere fortemente ridotta se non addirittura smantellata.

    Il compito della Chiesa è di testimoniare la parola di Dio, il Verbo Incarnato, il mondo dei giusti che verrà. Tutto il resto è secondario».

    Le Chiese protestanti non hanno anch´esse strutture consimili?

    Non sono necessarie per tutelare la libertà religiosa e lo spazio pubblico di cui la Chiesa ha bisogno per diffondere i suoi valori? «Le Chiese protestanti non hanno strutture accentrate e potenti come la nostra. Hanno assetti molto diversi. Sono, da questo punto di vista, più deboli della Chiesa cattolica ma per altri aspetti più coese con i fedeli».

     Il problema che lei solleva indubbiamente esiste. Riguarda i Vescovi? Forse la figura del Papa, che esiste soltanto nella Chiesa cattolica, ha come conseguenza un certo temporalismo che è sopravvissuto al potere temporale propriamente detto.

    «Il Papa è innanzitutto il Vescovo di Roma. Per noi cattolici è il vicario di Cristo in terra e gli dobbiamo amore, rispetto e obbedienza senza però dimenticare che la chiesa apostolica si regge su due pilastri: il Papa e la sua comunione con i Vescovi. Ricordo che nel Concistoro che precedette l´ultimo Conclave, ci fu un dibattito preliminare per individuare una sorta di identikit del futuro pontefice. Quando toccò a me di parlare dissi che noi dovevamo eleggere il vescovo di Roma. Volevo dire con ciò che è sempre comunque prevalente la capacità e la vocazione pastorale rispetto a quella diplomatica o teologica».

    Lei disse questo? Che voi, il Conclave, dovevate eleggere il Vescovo di Roma?

    «Le sembra un´eresia? Invece questo è il mandato costante secondo la dottrina e la tradizione evangelica».

    Il tempo passava e di argomenti che avrei voluto discutere con il cardinal Martini ce n´erano ancora molti, ma temevo di affaticarlo troppo. Glielo dissi, ma mi rispose che potevamo continuare. C´era un tema che mi stava a cuore. Gli dissi che leggendo il suo ultimo libro, quello scritto con don Verzè, m´era parso di capire una sua propensione a proporre un altro Concilio, una sorta di Vaticano III.

    La spinta del Vaticano II si era indebolita? Non bisognava riprendere il discorso e portarlo più avanti? La risposta che ne ebbi a me è sembrata molto innovatrice e anche imprevista.

    «Non penso ad un Vaticano III. E´ vero che il Vaticano II ha perso una parte della sua spinta. Voleva che la Chiesa si confrontasse con la società moderna e con la scienza, ma questo confronto è stato marginale. Noi siamo ancora lontani dall´aver affrontato questo problema e sembra quasi che abbiamo rivolto il nostro sguardo più all´indietro che non in avanti. Bisogna riprendere lo slancio ma per far questo non è necessario un Vaticano III.

    Ciò detto io sono favorevole ad un altro Concilio, anzi lo ritengo necessario, ma su temi specifici e concreti. Ritengo anzi che bisognerebbe attuare ciò che fu suggerito anzi decretato dal Concilio di Costanza, cioè convocare un Concilio ogni venti o trent´anni ma con un solo argomento o due al massimo».

    Questa sarebbe una rivoluzione nel governo della Chiesa.

    «A me non pare. La Chiesa di Roma, non a caso, si chiama apostolica. Ha una struttura verticale ma al tempo stesso anche orizzontale. La comunione dei vescovi con il papa è un organo fondamentale della Chiesa».

    E quale sarebbe il tema del Concilio che lei auspica?

    «Il rapporto della Chiesa con i divorziati. Riguarda moltissime persone e famiglie e purtroppo il numero delle famiglie coinvolte aumenterà. Va dunque affrontato con saggezza e preveggenza.

    Ma c´è anche un altro argomento che un prossimo Concilio dovrebbe affrontare: quello del percorso penitenziale della propria vita. Vede, la confessione è un sacramento estremamente importante ma ormai esangue. Sono sempre meno le persone che lo praticano ma soprattutto il suo esercizio è diventato quasi meccanico: si confessa qualche peccato, si ottiene il perdono, si recita qualche preghiera e tutto finisce così. Nel nulla o poco più.

    Bisogna ridare alla confessione una sostanza che sia veramente sacramentale, un percorso di pentimento e un programma di vita, un confronto costante con il proprio confessore, insomma una direzione spirituale».

    Ci alzammo. Mi disse di aver letto il mio ultimo libro L´uomo che non credeva in Dio e di averci trovato alcune assonanze con la sua visione del bene comune. Lo ringraziai. Io le sono molto vicino, gli dissi, ma non credo in Dio e lo dico con piena tranquillità di spirito.

    «Lo so, ma non sono preoccupato per lei. A volte i non credenti sono più vicini a noi di tanti finti devoti. Lei non lo sa, ma il Signore sì».

    Fui tentato di abbracciarlo, ma siamo un po´ tremolanti tutti e due ed avremmo rischiato di finir per terra. Ci siamo stretti la mano promettendoci di rivederci presto.