Viaggio d’arte in Asia Orientale – Prof. Motoaki Ishi

AsiaOrientale

Viaggio d’arte in Asia Orientale

Vittorio Pica, viaggiatore immaginario e critico d’arte

 

Prof. Motoaki Ishi (Ordinario di Storia dell‘Arte dell‘Università delle Belle Arti di Osaka, Giappone)

 

Ci sono alcuni italiani celebri che conobbero il Giappone senza mai andarci.

Ricordiamo innanzitutto Marco Polo che diede nel suo “Milione” la prima notizia sul mio paese raccogliendo informazione nell’impero di Cubilay-khan. Da lui ebbe origine al nome del paese in tutte le lingue europee. Mi spiego: il mio paese si chiama Nippon-koku o Nihon-koku nella lingua giapponese con tre caratteri cinesi. Gli stessi caratteri si pronunciano in cinese “rìbenguo” dalla quale il veneziano prese la pronuncia “Zipangu”. Questo “Zipangu”, come sapete tutti, fu l’origine per “Giappone” in italiano, “Japan” in inglese, “Japon” in francese e così via.

Un altro esempio potrebbe essere Giacomo Puccini che compose “Madama Butterfly” basandosi sul famoso racconto sulla Kichi che visse a Shimoda. Il compositore livornese adoperò brani di folklore giapponese e riuscì a realizzare un dramma fantastico. Questi due “viaggiatori in sogno” sono gli esemplari ben riusciti.

Anche Vittorio Pica, famoso critico d’arte di origine napoletana, che molto fece alle Biennali di Venezia nell’ultimo periodo della sua vita, scrisse i primi lavori sull’arte giapponese in Italia pur non conoscendo direttamente nulla del paese.

Per capire meglio la situazione in cui Pica intraprese questa attività, ci conviene cominciare con il panorama in Europa. In paesi come la Francia, l’Inghilterra e l’Austria, l’interesse per l’arte giapponese fu uno degli stimoli fondamentali nel mondo artistico dell’epoca, dando origine al movimento conosciuto con il nome francese di japonisme. Ernst Chesneaux e Paul Gasnault avevano già scritto sulla “Gazette des Beaux-arts” sulla sezione dell’arte giapponese all’Esposizione universale di Parigi del 1878. Un anno più tardi, sempre sulla stessa rivista, Théodore Duret scrisse l’articolo L’art japonais: les livres illustrés. Les albums imprimés. Hokousaï. Un altro letterato francese, Edmond de Goncourt parlò della propria collezione di alcuni oggetti d’arte giapponese nella sua La maison d’un artiste, uscita nel 1881. Mentre nel 1882 un medico inglese, William Anderson che si era recato in Giappone, pubblicò a Londra Japanese Wood Engravings, la prima opera completa sull’arte giapponese (diapp. 1-5).

Il 1883 fu l’anno più proficuo per il japonisme: Christopher Dresser, portabandiera inglese del movimento Arts and Crafts, pubblicò a Londra Japan, its Architecture, Art and Art Manu­factures, mentre a Parigi uscì la grande opera in due volumi di Louis Gonse, L’art japonais, con numerose tavole (diapp.6-8 della versione del 1886) . L’autore si era avvalso della collaborazione di due giapponesi attivi a Parigi: Wakai Kenzaburō e Hayashi Tadamasa. In seguito furono pubblicati The Pictorial Arts of Japan di Anderson (diapp.9-12) e Ornamental Arts of Japan di George Audsley.

Nel campo dei periodici, Siegfried Bing pubblicò simultaneamente in Francia, Germania e Inghilterra, tra il 1888 e il ‘91, una lussuosa rivista intitolata in francese “Le Japon artistique” (diap. 13). L’intenzione di Bing era di presentare [une reproduction fidèle des originaux]1 resa possibile grazie alla sofisticata tecnica fotografica di Charles Gillot. Nella capitale francese il japonisme era giunto a maturità sulla base di numerosi oggetti di bassa qualità fabbricati appositamente per l’esportazione in Europa. Era dunque nato il bisogno di informare il pubblico sulla vera natura dell’arte nipponica.

All’inizio degli anni Novanta fu reso noto un pittore della ‘scuola volgare’, famoso per la rappresentazione della bellezza muliebre, Kitagawa Utamaro. Edmond de Goncourt, autore de La maison d’un artiste, pubblicò Outamaro, le peintre des maisons vertes nel 1891 (diapp.14-17). Anche Bing scrisse Estampes d’Outamaro et de Hiroshigé nel 1893.

*

Nell’Italia degli anni Ottanta un caso analogo fu la [giapponeseria] di Gabriele D’Annunzio, che si ispirò a La Maison d’un artiste di Goncourt.

L’arte giapponese sembra esser stata abbastanza conosciuta tra gli artisti italiani di quel periodo grazie agli scritti di Gonse e Anderson, tant’è vero che, senza fornire informazioni di tipo storico, ne riferisce Domenico Fadiga, segretario dell’Accademia di Belle Arti di Venezia nel suo discorso di fine anno accademico 1883-84. In tale discorso il segretario veneziano, pur apprezzando l’alta qualità delle industrie artistiche in Giappone, notava “la mancanza di grandi arti”.

Il punto di vista di Fadiga rispecchia probabilmente la visione dell’arte giapponese diffusa in Europa, dove si andavano accumulando opere d’arte nipponica, soprattutto stampe ed kōgeihin e cioè oggetti d’arte applicata. Va sottolineato come la visione generale dell’arte giapponese in Europa si fondasse proprio su queste opere e come, conseguentemente, fosse molto diversa da quella corrente in Giappone, dove le stampe erano considerate una forma d’arte minore e di poca importanza.

Negli anni Novanta, anche in Italia fu infine pubblicato un libro sulla storia dell’arte giapponese: L’arte dell’Estremo Oriente di Vittorio Pica pubblicato nel 1894. Il ruolo di Pica come divulgatore dell’arte giapponese finora non è stato studiato a sufficienza; Maria Mimita Lamberti vi accenna in due dei suoi articoli, e Giovanni Peternolli riferisce dell’amicizia tra Pica e Edmond de Goncourt. Gli studi sul japonisme sono stati eseguiti quasi sempre con riferimento al versante francese, e mi pare quindi importante illustrare la formazione di Pica come critico italiano dell’arte giapponese dato che in seguito divenne una figura predominante in questo campo.

*

Vittorio Pica (1866-1930), formatosi nell’ambiente culturale, si avvicinò ad Edmond de Goncourt, delle cui opere scrisse alcune recensioni già nel 1882, mentre studiava ancora presso la Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Napoli. Nel 1881 aveva iniziato con Goncourt una regolare corrispondenza, da cui traspare la sua fervida ammirazione per il letterato francese. Il suo interesse per l’arte giapponese ha origine da questa sua ammirazione. Lo stesso Pica riferisce di un incontro con Goncourt nel 1891 nei seguenti termini:

 

“Una di queste immaginarie gite nell’Estremo Oriente l’ho fatta tre anni fa, e non così presto nella mia mente se ne cancellerà il delizioso ricordo. Era un tiepido meriggio di giugno, e Edmondo de Goncourt, che già più volte mi aveva amichevolmente accolto nell’indimenticabile suo villino-museo di Auteuil, volle quel giorno mostrarmi la ricca sua collezione di albi giapponesi. […] Sullo scrittoio gli albi di Hokusai, di Utamaro, di Toyokuni, di Hiroshighé si accumulavano, si schieravano, si aprivano dinanzi a me, rivelandomi un prodigioso mondo,

pieno di luce e di letizia2.”

 

L’indicazione [un tiepido meriggio di giugno] si trova in un passo del diario goncourtiano. Qui Pica era comparso per la prima volta sabato 16 maggio con l’immagine abbastanza negativa del selvaggio così profumato da far venire la nausea, insopportabile per il raffinato japonisant.

 

Le Napolitain Pica, un sauvage des Abruzzes, parfumé à faire mal au cœur, qui se sert à même au plat rapporté sur la table, n’attendant pas qu’on le serve et dont les remuements de sanglier et la gesticulation balourde manquent de casser, après déjeuner, la statuette de Falconet qui est sur la cheminée de mon cabinet de travail3. ”

 

Questa impressione peggiora ancora nella seconda visita di giovedì 4 giugno.

 

A ce Pica, il manque absolument la lèvre supérieure, et la montre de ses grandes dents blanches dans un sourire napolitain lui donne un caractère cannibalesque4. ”

 

Goncourt non sopportava il profumo che Pica si metteva, e sabato 13 giugno lo invitò a lavarsi le mani. [Après quoi, sentant moin bon, il est un invité très agréable5].

Al contrario, Pica elogia il letterato francese:

 

”Fu così che io viaggiai per la prima volta nel Giappone, già da lunghi anni adorato ed intravvisto attraverso le pagine dei libri ed i miraggi dei sogni: ed oggi, che tento di rievocare quelle ore di intenso diletto estetico, io non posso fare a meno di mandare un affettuoso ed ossequente saluto a colui che nell’immaginario viaggio mi fu guida dotta e preziosa e che seppe accrescermene l’intellettuale godimento con la sua parola affascinante e coloratrice, a Edmondo de Goncourt, all’artista altero, novatore, geniale, che così gloriosamente onora le lettere francesi6. ”

 

Da questi passi si capisce come Pica abbia conosciuto l’arte giapponese, in particolare quella produzione xilografica che costituiva il maggiore interesse del francese, attraverso la mediazione di Goncourt nel 1891.

Anche per Goncourt quell’anno ebbe una grande importanza. Negli anni Ottanta era arrivata a Parigi la seconda ondata di importazioni di stampe giapponesi, la cui qualità e quantità era superiore alla prima degli anni Sessanta. Molti japonisants come Siegfried Bing, Philippe Burty e Louis Gonse furono presi da un folle entusiasmo per acquistarle. L’interesse di Goncourt si indirizzò verso Utamaro, maestro della xilografia della seconda metà del Settecento e pittore dell’eleganza e della bellezza femminile. Nel marzo 1886 il pittore appare per la prima volta nel diario di Goncourt, la cui ammirazione, nel 1888, era diventata ancor più fervida. Nakajima Kenzō nel suo studio sulla corrispondenza fra il mercante d’arte giapponese Hayashi Tadamasa e Goncourt afferma come segue. Vi dico nella mia traduzione dal testo in giapponese.

 

”Il 13 maggio 1888 Hayashi e Goncourt stavano tête à tête a guardare Seirō jūni toki (Le dodici ore delle case verdi). Goncourt chiamava Utamaro ‘il mio pittore preferito’; in una lettera a Hayashi dell’aprile 1890 egli si considera ‘un francese giapponesizzato’ e chiede a Hayashi di tradurre i materiali per la biografia di Utamaro, soprattutto una parte del testo di Seirō nenchū gyōji (Diario delle case verdi). Sempre nella stessa lettera chiede a Hayashi di collaborare a pubblicare il catalogo della sua collezione di opere d’arte giapponese. I suoi libri Utamaro e Hokusai si possono considerare la realizzazione dei suoi sogni7. ”

 Hokusai

L’amore di Goncourt per Utamaro si rinnovò in occasione della mostra che Bing organizzò presso l’École des Beaux-Arts di Parigi nel 1890. Con l’aiuto di Hayashi, terminò gli studi sull’artista nel giugno 1890, e un anno dopo pubblicò la monografia Outamaro, le peintre des maisons vertes. L’opera doveva far parte di una serie di monografie su cinque artisti giapponesi: Kitagawa Utamaro, Katsushika Hokusai, Ogata Kōrin, Ogawa Ritsuō e Gakutei. Troviamo anche qui una caratteristica tipica della critica europea sull’arte giapponese e cioè la maggior parte degli autori trattati sono pittori dell’ukiyoe e artisti dell’arte applicata.

La monografia ebbe grande risonanza in tutta Europa, e ne apparvero molte recensioni, tra cui quelle di Felice Cameroni e Vittorio Pica in Italia.

L’anno in cui Pica incontrò Goncourt per la prima volta fu appunto quello in cui comparve la monografia. Il Francese stimolò nell’Italiano una fervida passione per Utamaro, come risulta dalla recensione di quest’ultimo del libro goncourtiano apparsa su “La tavola rotonda” del 7 settembre 1891. Possiamo dire che Pica aveva costruito la sua visione critica già nel 1891, e che su tale visione fondò tutta la sua critica successiva. L’accento posto su Utamaro rimarrà anche ne L’Arte dell’Estremo Oriente del 1894 in cui Pica fece alcune aggiunte e correzioni rispetto alla recensione del 1891. Per esempio, scrivendo di Utagawa Kuniyoshi, cita la storia dei 47 Ronin, che Goncourt amava e pubblicò due volte, prima ne La maison d’un artiste e dopo ne “Le Japon artistique”, l’ultima volta intitolato Une écritoire de poche fabriquée par un des 47 ronins. Visto che il libro di Pica tratta l’arte giapponese in generale per la prima volta in Italia, l’autore aggiunse molte notizie prese dall’opera di Gonse per le parti non riguardanti i pittori che scrive il Francese. Del Harakiri, netzuke e fukusa, invece Pica continua a seguire i passi di Goncourt come prima traducendo direttamente e addirittura mantenendo lo stile del Francese. L’arte dell’Estremo Oriente si fonda sulla critica d’arte giapponese in Francia, e in modo particolare sugli scritti di Goncourt. Il libro conferì all’autore il ruolo di primo conoscitore dell’arte giapponese in Italia, e fu fondamentale anche per la sua successiva attività in questo campo.

*

Pica tenne due conferenze, a Napoli poco prima della pubblicazione del libro, e a Firenze nel febbraio del 1897, riassumendo il testo del 1894. Il “Marzocco” di Firenze del 14 febbraio annunciava come segue:

 

“Una conferenza di V. Pica Dimani, lunedì il nostro collaboratore Vittorio Pica, uno dei pochissimi critici italiani seriamente competenti in fatto d’arte, parlerà sull’arte giapponese in una delle sale dell’Esposizione.”

 

L’esposizione s’intende quella nazionale del 1897. Lo stesso giornale fiorentino, una settimana dopo (21 febbraio), riassumeva la conferenza, il cui contenuto risulta quasi uguale a quello del libro del 1894, dove la mancanza di tavole illustrate rendeva difficile capire l’arte di un paese così lontano. La recensione, accompagnata da due tavole di Utamaro, serviva ad illustrare meglio i concetti esposti.

Per colmare questa lacuna, Pica nel 1896, pubblicò su “Emporium” l’articolo Attraverso gli albi e le cartelle. Gli albi giapponesi. Questa rivista, esemplata sull’inglese “The Studio”, contribuì alla diffusione delle conoscenze artistiche con molte belle illustrazioni stampate con le tecniche più avanzate.

Pica nel già ricordato articolo sulle stampe giapponesi del 1896, fu il primo a presentare a un pubblico più vasto l’arte giapponese, con oltre trenta illustrazioni in ventitré pagine. Lo scopo e il risultato di questo testo si possono paragonare a quelli di Le Japon artistique, che Pica pensava di emulare. Esso si basa fondamentalmente su L’arte dell’Estremo Oriente, con alcune aggiunte e variazioni poco significative. L’obiettivo della serie di articoli su “Emporium” era prevalentemente quello di presentare le stampe, cosicché la storia dell’arte giapponese prima della scuola di ukiyoe fu sinteticamente illustrata in dodici righe. Pica considera moderna l’arte giapponese, cosa che sottolinea in particolare parlando delle stampe dal XVII secolo in poi.

*

Di questo articolo alcune tavole sembrano essere state prese da “Le Japon artistique”: per esempio, la stampa «Mercante di fiori» di Torii Kiyonaga era già stata riprodotta rovesciata dalla rivista francese (diap.18), come si nota dalla firma dell’artista – un errore, questo, ripetuto dal Pica. «Donne sopra un ponte» di Utamaro presenta un riquadro con il titolo della rivista francese che nella riproduzione di Pica è riportato vuoto. Anche «Ronino» di Kuniyoshi, ne “Le Japon artistique”, ha ancora il titolo in un riquadro (diap.19), tagliato nella versione italiana. Una stampa di Kuniyoshi, «Suicidio di due amanti» (diap. 20) corrisponde nel testo segunte:

 

I due amanti legati insieme si sono di già buttati giù dal ponte, ma non ancora hanno raggiunto l’acqua: essi non formano più che una massa sola, di cui descernonsi appena i piedi frementi nel vuoto, le braccia, che a vicenda stringonsi in un supremo abbraccio ed il capelluto didietro delle teste, poichè le due facce sono premute l’una sull’altra in un supremo, frenetico bacio.”

 

Tutto questo indica che Pica, oltre a leggere con passione “Le Japon artistique”, utilizzò addirittura nella sua pubblicazione le copertine dei volumi della rivista francese. Tant’è vero che le tre tavole sopracitate non portano il monogramma visibile sulle altre tavole, monogramma utilizzato dal Pica non solo nell’articolo del 1896 ma anche nelle altre sue pubblicazioni sull’arte europea.

*

Una buona occasione per la maggiore conoscenza di Pica dell’arte contemporanea giapponese fu la seconda Biennale di Venezia del 1897. Essa, invitando le opere degli artisti della Società artistica giapponese, Nihon bijutsu kyokai, presentò per la prima volta in Italia l’arte giapponese di cui alcuni critici lasciarono i propri pareri. Venne istituito il premio della critica ed esso attirò molti studiosi, sia italiani che stranieri.

Alcuni critici partecipanti al concorso critica, tra cui Primo Levi, Cesare Castelli e Antonio della Rovere, non fecero cenno all’arte giapponese. Lo storico d’arte Corrado Ricci, e i critici d’arte Ugo Ojetti e Enrico Thovez lasciarono descrizioni dettagliate, mentre Ginevra Speraz e Gio. Antonio Munaro sembrano non aver conosciuto il movimento japoniste prima di entrare nella sala giapponese.

L’ultimo, Munaro, all’inizio si chiedeva se “queste cose giapponesi, le quali in fondo non sono che arte decorativa, possono venir qui in mezzo all’arte pura?” ma concluse che “meritavano davvero un posto d’onore all’Internazionale8.”

Corrado Ricci, membro della Giuria del Premio critica della Biennale, accennò alla questione, pur evitando di giungere ad una conclusione. Le sue parole sono interessanti perché l’argomento è tuttora dibattuto, per cui oso di citarle:

 

“Ma come finire quest’articolo senza neppure accennare al conflitto recentemente sorto tra gli artisti giapponesi, conflitto nel quale anche gl’Italiani hanno qualche parte ?

Dunque diremo che i buoni seguaci di Sinto e di Budda vivevano lietamente e serenamente paghi delle forme tradizionali, quando il démone della novità si è cacciato fra di loro cominciando dal lanciare un curioso dubbio: l’arte giapponese è un’arte maggiore, o, pur limitandosi alla decorazione, un’arte minore ?

Purtroppo, i dubbi stanno all’anima, come i microbi del colera al corpo; si moltiplicano rapidamente, si diffondono e distruggono. Così successe per l’arte nel Giappone: su quella domanda pericolosa sorsero le polemiche, e il quieto, patriarcale e secolare vivere fu turbato9.”

 

Ugo Ojetti, partendo da un punto di vista simile a quello di Ricci, sottolineò la mancanza di un confine tra l’arte pura e quella applicata nell’arte giapponese, paragonandola con l’arte rinascimentale italiana. La sua fonte di informazione, a differenza di quella di Pica, mi pare di essere le opere di William Anderson. Alcune frasi sono le traduzioni letterarie. Mentre Pica, basandosi sempre sul proprio volume del 1894, riassume la storia dell’arte giapponese in cui mette le spiegazioni delle opere esposte.

Il 28 dicembre 1897, due mesi dopo la chiusura della seconda Biennale, Pica ricevette il secondo premio al concorso per la critica. La relazione della Giuria rilevò la sua conoscenza dell’arte giapponese, ma egli, convinto di meritare il primo premio e scontento del risultato, scrisse per lamentarsi ad Antonio Fradeletto, segretario del comitato organizzatore della biennale. Il critico svolgeva la sua attività anche sul giornale fiorentino “Marzocco” al cui direttore, Angiolo Orvieto, in procinto di partire per il Giappone, scrisse:

 

“Sono lieto, caro Orvieto, che il mio articoletto non vi sia dispiaciuto. Come v’invidio pel vostro prossimo viaggio e come volentieri vi accompagnerei! Quando sarete in Giappone pensate come sarebbe felice il vostro lontano amico di essere accanto a voi ! Salutatemi tutti i Marzocchini e vogliatemi bene10.”

*

Il fatto che Ojetti avesse cominciato ad interessarsi alla storia dell’arte giapponese, attingendo al filone inglese e non francese, fu sicuramente di stimolo a Pica. Nel 1904 questi pubblicò su “Emporium” un articolo sulle incisioni giapponesi intitolato: Attraverso gli albi e le cartelle, recensendo l’incisore e successore di Hokusai, Kawanabe Kyōsai, già studiato da Anderson. Per Pica, Kyōsai era uno dei geni della pittura in Giappone al pari di Kiyonaga, Utamaro, Toyokuni, Hiroshighe, Kuniyoshi e Hokusai.

*

L’ultimo stimolo per Pica nello sviluppare la sua visione fu l’apertura del Museo Chiossone a Genova avvenuta nel 1905. Il critico napoletano ammirò l’alta qualità della collezione genovese che conteneva numerose xilografie e lodò il lavoro di Alfredo Luxoro, autore del catalogo del museo, nell’articolo “Il Museo Chiossone a Genova” su “Emporium” nel 1905, seguito da altri tre articoli nel 1906, in cui presentò rispettivamente Le pitture e le stampe, Le sculture e i ceselli e Lacche, avori, ceramiche e ricami.

I testi erano fondamentalmente basati sulla sua opera del 1894, L’arte dell’Estremo Oriente. Si possono notare però alcuni notevoli cambiamenti nella struttura e nel contenuto. Pica, avendo visto le opere d’arte contemporanea giapponese alla Biennale e avendo conosciuto il lavoro di altri critici, come Ojetti e Luxoro, si rese conto dell’importanza delle opere di Gonse e Anderson. Al primo si rifece spesso anche con citazioni mentre aggiunse il secondo alla sua bibliografia. Sparirono quasi tutti i richiami al Goncourt anche per l’assenza degli autori da lui più studiati: Hokusai e Utamaro.

Dell’origine della pittura giapponese, Pica ne L’arte dell’Estremo Oriente aveva scritto solo che [era avvolta nella più fitta nebbia], mentre nell’articolo del 1906, parla della differenza tra lo shintoismo che proibisce l’ammirazione di idoli e il Buddismo promotore dell’arte. Tale spiegazione deve essere frutto dello studio dell’opera di Gonse, il cui primo volume del 1883 tratta diffusamente l’argomento per quasi ottanta pagine. Anche la storia della scuola Tosa diventò più dettagliata sulla base di quest’opera.

Un’ulteriore testimonianza della sua rivalutazione di Gonse si trova nell’apprezzamento del critico francese come conoscitore delle else di spada. Infine nella biblioteca del critico napoletano si conservava la seconda edizione dell’opera di Gonse.

*

A mio parere, la concezione della storia dell’arte giapponese di Pica, formatasi tramite la lettura del libro su Utamaro di Goncourt del 1891, subì successive evoluzioni legate all’arricchimento delle sue conoscenze grazie alla presenza dell’arte giapponese, sia antica che contemporanea, alla Biennale e dai contatti con gli altri critici. Pure le sue descrizioni delle opere d’arte presero più vivacità dopo l’apertura della Biennale e del Museo Chiossone.

La critica sull’arte giapponese di Vittorio Pica si perfezionò nei suoi articoli sulla collezione Chiossone: se Attraverso gli albi e le cartelle del 1904 rimane il culmine della sua opera per quanto riguarda le xilografie, quello sull’arte giapponese in generale è costituito dagli articoli del 1906. Egli pubblicò altri due rapporti sull’arte nipponica all’Esposizione universale di Parigi del 1900, all’Esposizione internazionale d’arte decorativa di Torino del 1902 e alla Doppia esposizione universale di Roma e di Torino del 1911, senza cambiamenti importanti rispetto alle opinioni espresse nel 1906.

*

Possiamo dire che lo studio sull’arte giapponese in Italia prima della seconda Biennale di Venezia del 1897 aveva come unico esperto Vittorio Pica, grazie alla sua recensione al libro di Goncourt e al più volte richiamato L’arte dell’Estremo Oriente. Questi scritti costituiscono solo una piccola parte della vasta attività critica relativa non solo all’arte ma anche alla letteratura di Pica.

La ragione del ritardo italiano nel campo dell’arte giapponese è dovuta principalmente alla mancata presenza in Italia di un esperto giapponese come Hayashi Tadamasa, che a Parigi aveva aiutato Gonse e Goncourt nelle loro ricerche sull’arte dell’Estremo Oriente. Pica e gli altri critici italiani furono dunque costretti a rivolgersi alle fonti europee, non ad originali giapponesi. In secondo luogo, si può anche ricordare che l’arte italiana in generale non era più all’avanguardia nel panorama europeo. In questa situazione non si poteva sperare in un particolare sviluppo della critica sull’arte giapponese.

Anche in questo contesto arretrato, la critica di Pica non è convincente, mancandogli una conoscenza più approfondita dell’arte giapponese. Ciò lo si nota ad esempio nella descrizione che egli dà delle stampe dell’ukiyoe. Pica, appassionato di stampe in generale, probabilmente conosceva solo questo genere di arte grafica giapponese. Negli altri campi, le sue descrizioni sono superficiali e danno informazioni poco convincenti, forse perché non era un collezionista d’arte appassionato come Gonse, Goncourt e Anderson, che, al contrario, scrissero da pionieri sull’arte giapponese. In Attraverso gli albi e le cartelle, Pica dichiara di possedere stampe ukiyoe, ma la collezione non è più rintracciabile anche se c’è il catalogo della vendita della sua collezione all’Archivio storico delle arti contemporanee di Venezia. Se le sue spiegazioni sull’ukiyoe sono abbastanza convincenti, quelle sulle altre scuole, come quelle di Tosa e di Kano, sulle sculture e sull’architettura non sono accompagnate da vera partecipazione. Si può pensare che possedesse solo alcune xilografie, e non invece anche pitture, presenti ad esempio nella collezione del Chiossone.

Concludo con una frase che si trova nella parte finale del “L’Arte dell’Estremo Oriente”, che secondo me, mostra il limite del critico italiano, a cui mancava il coraggio di affrontare la realtà.

 

“Ogni volta che io mi attardo dinanzi a qualcuna di queste meraviglie dell’arte dell’Estremo Oriente, albo, bronzo o ricamo, o che soltanto la rievoco con la mente, sento dentro di me acuto il pungolo del dolce mal nostalgico, di cui pure a niun costo vorrei guarire.[…]

Lontano, troppo lontano, ahimè! è l’incantevole arcipelago, ed io, come tanti altri, sono condannato a non contemplare quell’adorata plaga che con gli occhi della fantasia.

Ma forse è meglio. Chissà se il tanto desiato viaggio nel Giappone non mi procurerebbe una dolorosa delusione? Non sappiamo noi forse che la prodigiosa arte giapponese da circa cinquant’anni si è trasformata in una speculativa produzione di oggetti di esportazione adatti ai bisogni prosaici degli europei, e di assai discutibile buon gusto e di nessuna originalità? E Bonnetain e Loti non ci hanno forse descritta la recente balorda smania dei Giapponesi, uomini e donne, di abbandonare i loro splendidi vestiti multicolori per i nostri tristi abiti europei, che li rendono grotteschi?

No, no, meglio sognare sempre il paese fatato del Sol Levante e non andarci mai, così come il poeta e romanzatore marsigliese Giulio Méry, che si esaltò, durante tutta la sua vita, al pensiero della lussureggiante flora e della colossale e ieratica architettura dell’India, senza mai poterla vedere.

E poi desiderare ardentemente una qualche cosa, sperare sempre di ottenerla e non ottenerla mai, non è questo forse il più invidiabile destino di un uomo? É soltanto così che si può evitare l’intensa tristezza che ritrovasi fatalmente in fondo ad ogni sogno realizzato!”

 

Grazie.

 

1 Programme, ne “Le Japon artistique”, 1 vol., mai 1888, p.4.

2 V. PICA, L’arte dell’Estremo Oriente, Torino, Roux, 1894, pp.10-11.

3 E. et J. d. GONCOURT, Journal, vol.III, Paris, Bouquins, 1956, p.583.

4 Ibid., p.591.

5 Ibid., p.595.

6 V. PICA, L’arte dell’Estremo…, cit., pp.11-12.

7 [Traduzione] Ukiyoe ni kansuru Hayashi Tadamasaate Gonkūru no shokan (Lettere di Goncourt a Hayashi Tadamasa su ukiyoe), NAKAJIMA Kenzō hen, Tōkyō, Hakusuisha, 1930, p.93.

8 G. A. MUNARO, La seconda Esposizione Internazionale d’Arte Venezia 1897”, ne ”La Gazzetta di Venezia”, 29 agosto 1897; raccolto ne La seconda Esposizione Internazionale d’Arte Venezia 1897, Venezia, Ferrari, 1897, pp.131-136.

9 C. RICCI, L’arte giapponese all’Esposizione di Venezia, ne “L’Illustrazione Italiana”, vol. XXVIII,11 luglio 1897, pp.29-32.

10 Archivio Vieusseux, fondo Orvieto, Pica Vittorio a Angiolo Orvieto, lett. esc. c.13 dal 7 aprile 1896 al 29 giugno 1898, n.14.

L’Immacolata nell’arte

Maria 01

Foto 1
Antonio de Pereda ( 1608 ca.- 1678), Immacolata. Lione, Museo di Belle Arti.

 

Maria 02

Foto 2.
Juan Valdes Leal, “La Vergine Immascolata tra gli angeli”, National Gallery, Londra

 

Maria 03

Foto 3
Charles Mellin. L’Immacolata Napoli, Chiesa di Donnaregina Nuova.

Maria 04

Foto 4
Francisco de Zurbaràn. L’immacolata Concezione. Barcellona, Museo di Arte Catalana.

Maria 05

Foto 5
Piego Velasquez ( 1599–1660), Immacolata. Londra, National Gallery.

Maria 06

Foto 6
Gianbatrista Tiepolo (1696- 1770), Immacolata. Madrid, Museo del Prado.

Maria 07

Foto 7
Leonardo da Vinci (1452- 1519), Immacolata-La Vergine delle Roccie. Londra, National Gallery.

Maria 08

Foto 8
Murillo, Immacolata. Londra, National Gallery.

Maria 09

Foto 9
Gian Battista Piazzetta, Immacolata. Parma, Pinacoteca.

Maria 10

Foto 10
Francisco de Zurbaràn. Immacolata. Guadalaiara, Museo Diocesano di Siguenza.

Maria 11

Foto11

Francisco de Zurbaràn, L’Immacolata Concezione- particolare. Guadalaiara, Museo Diocesano di Siguenza

Maria 12

Foto 12

 

Maria 13

Foto 13
Giuliano di Jacopone Bandino Panciatichi, l’Immacolata. Pistoia, Chiesa della SS. Annunziata.

Maria 14

Fig. 14
Bartolomeo Estèban Murillo., Immacolata. Madrid. Museo del Prado.

Maria 15

Maria 16 immacolata_apollinare

Foto 16
Edicola dell’800 ( S. Apollinare – Fr) in ceramica di scuola napoletana, restaurata nel 2005 dalla Sovrintendenza dei Beni Culturali del Lazio

Dobbiamo risalire alla fine del ’400 alle composizioni che mostravano Maria purissimo concetto esistente nella mente di Dio. Maria è sempre nel centro: ha aspetto giovanile di ragazza, quasi ancora bambina, con i capelli lunghi, neri e sciolti; è sospesa fra il ciclo e la terra, ha le mani giunte ed è immersa in profonda adorazione. Dio dall’alto del ciclo la contempla e vedendola così pura, esclama: “Tutta bella sei, o amica mia, e in te non v’è macchia”. Cortei di angeli sono in profonda ammirazione.

La liturgia applica a Maria le parole del Siracide: “Sono cresciuta come un cedro sul Libano come un cipresso sui monti dell’Ermon Sono cresciuta come una palma in Engaddi come le piante di rose m Gerico, come un ulivo maestoso nella pianura sono cresciuta come un platano. Come cinnamomo e balsamo ho diffuso profumo come mirra scelta ho sparso buon odore; come galbano, onice e storace, come nuvola di incenso nella tenda. Come un terebinto ho esteso i rami e i miei rami sono rami di maestà e di bellezza. Io come una vite ho prodotto germogli graziosi e i miei fiori, frutto di gloria e di ricchezza Avvicinatevi a me, voi che mi desiderate, e saziatevi dei miei prodotti. Poiché il ricordo di me è più dolce del miele, il possedermi è più dolce del favo di miele. Quanti si nutrono di me, avranno ancora fame e quanti bevano di me, avranno ancora sete” (24,13-20).

Gli artisti per rendere meglio la pura bellezza di Maria, scelsero le più soavi espressioni della Scrittura che si leggevano nelle preghiere delle feste dell’Immaco-lata e dell’Assunta e le hanno poste intorno a Maria.

Così tutte le cose belle divennero un riflesso della bellezza di Maria e divennero gli emblemi dell’Immacolata. Essi si trovano sempre nelle prime composizioni, vi occupano quasi sempre lo stesso posto e sono talora accompagnati dalle relative scritte Essi sono, a destra di Maria: il sole (electa ut sol); la luna (pulchra ut luna); una porta turrita di città (porta coeli); una pianta (exaitata ut cedrus) ; un roseto (plantatio rosae); un virgulto fiorito (virgo, lesse floruit); un pozzo (puteus aquarum viventium); giardino con siepe (hortus conclusus). Alla sinistra di Maria troviamo: una stella (stella matutina); un giglio (sicut lilium inter spinas); una città turrita (turris David); un ramo d’olivo (oliva speciosa); uno specchio (speculum sine macula); una fonte (fons hortorum); una grande città con mura e torri (civitas Dei).

Talora qualche simbolo manca, talora se ne trovano di nuovi, o ai vecchi simboli sono messe scritte nuove. Ad esempio: la scala di Giacobbe (scala Jacob); un giardino (hortus voluptatis); una fonte (fons gratiarum); un fiore (flos campi) ; un palazzo (domus Dei); l’aurora (aurora consur-gens); un filo di fumo (sicut virgula fumi ex aromatibus); l’arca delle tavole della legge (foederìs arca); un vaso (nardus odoris oppure nardus odorifera, oppure myrrha o myrrha electa); una stella (stella non erratica); una finestra (fenestra coeli)…

Qualche particolare fu preso dagli schemi già studiati; così dalla rappresentazione apocalittica dell’Immacolata fu tolto il motivo delle dodici stelle, la luna sotto i piedi e talora il dragone che insidia; e dalla rappresentazione di Maria, “figlia” privilegiata di Adamo, fu tolto il particolare del serpente cui viene schiacciata la testa. Citiamo alcuni esemplari fra i più antichi. Nella chiesa del Cerco ad Artajona (Navarra) vi è una tavola che presenta il nuovo schema ed è datata 1497. La Vergine tota pulchra occupa gran parte del centro del quadro, con le sue mani giunte, assorta in meditazione. Un grande Eterno Padre, posto in alto, la sta ammirando.

Ai suoi lati vi sono due file di simboli, posti uno sull’altro senza preoccupazioni per la prospettiva, come se fossero tanti quadretti a se stanti. A destra di Maria, dall’alto in basso, troviamo: il sole, la luna, la porta del cielo, il cedro, il roseto, il pozzo, la verga di Jesse, l’orto recintato.

Alla sinistra: la stella del mare, il giglio, l’olivo, la torre di Davide, la fonte, lo specchio, la città di Dio. Nel 1505 questo schema veniva riprodotto in una incisione da Thielman Kerver, a Parigi, e diffuso in un “Libro d’ore”. Nel 1513 veniva riprodotto in pietra da Des Aubeaux come pala d’altare per la chiesa di San Gervaso a Gisors (Eure) con alcune varianti. Anzitutto, al di sopra dell’Immacokta, vi sono tutte e tre le Persone della Trinità, poi, due angeli sostengono una corona sul Capo della Madonna. Anche nella disposizione dei simboli vi sono delle varianti. A destra di Maria, dall’alto in basso: là palma, la porta celeste, il pozzo, la rosa, la fonte, la luna, la stella, lo specchio; a sinistra: il sole, l’orto, la torre, il giglio, la città, lo stelo di Jesse, il cedro.

Altro bassorilievo col nuovo schema è quello del 1564, conservato nella chiesa di S. Arè di Decize (Nièvre), chiamato La Vergine delle litanie. Anche nelle vetrate fu riprodotto molto presto: lo si trova in una vetrata di S. Fede a Conques e in una di Saint-Alpin a Chalons, ambedue del secolo XVI. Sempre in Francia, nella cattedrale di Bayeux si conserva un’Immacolata secondo il nuovo schema, dell’epoca di Luigi XIII, che ricordiamo perché pone i simboli in quattro file, ed inoltre ne presenta alcuni molto rari, come: l’arca del Signore, la scala di Giacobbe, la porta di Salomone, l’albero della vita, il vello di Gedeone e l’incensiere.

In Italia il nuovo schema fece più fortuna che non altrove, e lo si trova subito dopo i primi anni del ’500 diffuso un po’ ovunque. Tra i primi pittori che lo usarono nei loro quadri ricordiamo Bernardo Castello. In Spagna uno dei primi pittori fu Juan de Juanes (1506-1572). Egli dipinse Maria, con la luna sotto i piedi circondata da simboli, in due quadri: uno è conservato nella chiesa dei Padri Gesuiti di Valencia e uno nella sacrestia di Sot de Ferrer di Castellon de la Plana. Anche gli artisti cinquecenteschi della Scuola di Cusco in Perù seguono questo schema.

Qualche artista vorrà mantenere l’usanza di porre i simboli ai lati di Maria, però sostenuti da angeli e con armoniosa prospettiva. Ne riportiamo un esempio famoso: La Purissima di Josè de Ribera, di Valencia. Essa fu dipinta a Napoli per conto del viceré di quella città Don Manuel de Fonseca y Zuniga, conte di Monterrey. Costui fondò a Salamanca il convento delle Agostiniane Recollette e la loro chiesa pubblica per custodirvi il prezioso quadro. I lavori durarono dal 1636 al 1687. La Purissima vi trovò una sede degna, e anche oggi continua a destare ammirazione di tutti per la sua incomparabile bellezza. La Vergine è veramente la purissima contemplata nella mente di Dio dagli angeli estatici. Il Padre compare dall’alto per mostrarla e lo Spirito Santo aleggia su di lei. Intorno vi sono i soliti simboli trasportati dagli angeli: la rosa, il giglio, lo specchio, il tabernacolo, l’ulivo. Sulla porta del cielo brilla la stella. Tutto ciò si ritroverà anche in Charles Mellin (fig. 3).

Ben presto però gli emblemi vengono riportati a terra ove in un primo tempo li troviamo in ordine sparso, poi sempre più fusi con il paesaggio. Ad esempio, li troviamo per terra in una miniatura del Breviario Grimani della Biblioteca di Venezia, intitolata Hortus conclusus e da alcuni attribuita al Memling. In terra vi sono tutti i simboli di Maria Immacolata: il puteus aquarum viventium, l’hortus conclusus, il giglio, la porta turrita, la civitas Dei, l’oliva speciosa, la Virga Jesse, lo specchio tenuto da un angelo, la stella marìs. In alto, librata nell’etere, una piccola Immacolata al di sopra della quale l’Eterno Padre le dice “tota pulchra es amica mea et macula non est in te”.

Il Greco, nel dipinto che si trova alla National Gallery di Londra, ha posto gli emblemi dell’Immacolata per terra ancora ben distinti dal paesaggio. Si vede il tempio d Dio, il pozzo di acque vive, la fonte, il giglio dei campi, il cespuglio di rose, la palma, il cipresso e, in lontananza il sole, la luna, la città turrita e l’aurora che sorge. Maria è sempre una pura idea della mente di Dio, ammirata dagli angeli estatici. Se ha un corpo, è di sostanza e di bellezza tanto pura quanto pura è la luce immateriale che la esprime. Si noti la presenza dello Spirito Santo e la scomparsa dell’Eterno Padre. Vedi anche VImmacai dello Zurbaran (fig. 4).

La “Concezione” di Francesco Vanni (1563-1609), venerata nella collegiata di Montalcino, riporta ancora distinti emblemi dell’Immacolata, però sempre più fusi con il paesaggio. In lontananza v’è la porta del ciclo, la scala del paradiso, la torre di Davide, la città turrita, il tempio di Dio, il pozzo, il platano lungo le acque correnti, il fiore del campo, il cespuglio di rose, il cipresso. Alla sinistra di Maria v’è l’orto recintato, la palma, la fonte, l’olivo, i giglio delle convalli e lo specchio senza macchia. Nel ciclo è ben visibile la stella del mattino, sotto la quale annuncia un’alba, l’aurora consurgens. Il sole e la luna sono ai lati del bellissimo Eterno Padre che insieme allo Spirito Santo contempla l’idea della sua purissima figlia. Costei ha, eccezionalmente, il bambino in braccio, che però vi è forse introdotto come Verbo di Dio che contempla la futura madre, che rimane come assente da lui. L’artista preso anche elementi dalla donna dell’Apocalisse e,cioè la luna sotto i piedi e le dodici stelle intorno al capo. Inoltre, dalla rappresentazione della “figlia” privilegiata di Adamo, ha preso il dragone che ella schiaccia con il piede immacolato.

In un’altra innovazione più tardiva, che non riflette più nei simboli, l’ordine delle precedenti composizioni, questi sono posti in terra, così fusi con il paesaggio da non distinguersi che a fatica. È un quadro di Giuliano di Iacopo di Bandino Panciatichi, del 1523 (fig. 13). Medesima innovazione comincia ad osservarsi nel dipinto dell’Immacolata di Charles Mellin (1600-1649) venerata a Napoli nella chiesa di Santa Maria Donnaregina Nuova: l’Eterno Padre è nell’atto di ammirare questa sua perfetta idea e di mostrarla al creato. L’immacolato concetto di Dio è circondato da angeli che sostengono alcuni simboli: lo specchio senza macchia, l’olivo della pace che cominciò a regnare con la venuta di Maria, la stella del mattino che preannuncia la nascita del sole, la scala che porta al cielo (altro simbolo di Maria che è scala al paradiso) e finalmente lo scettro e la corona di rose, segni della sua regalità; in alto a sinistra si vede anche la corona di dodici stelle. Sotto i piedi di Maria v’è la luna e il demonio, nel simbolo (il serpente) e nella realtà. In terra v’è il sole che sorge (aurora consurgens), il cipresso, e nell’angolo di destra (di chi guarda), la città murata, la palma, e la torre di Davide (fig. 5).

Anche il Velazquez nella sua Immacolata (National Gallery di Londra) pone in terra il tempio, l’aurora, la fonte di acqua viva, il platano, la città turrita (fig. 14). Talune Madonne del nostro Rinascimento, poste in un paesaggio di eccezionale bellezza naturale, per essere capite devono essere vedute alla luce dello schema dell’Immacolata, idea purissima di Dio, posta in un mondo di ideale bellezza. Così, ad esempio, la Vergine delle Rocce di Leonardo da Vinci.

Fu commissionata al grande artista dalla Confraternita della Concezione, il 25 aprile 1483, per la loro cappella posta nella chiesa di San Francesco Grande a Milano. Egli doveva eseguirla in collaborazione con i fratelli Ambrogio ed Evangelista De Predis, che dovevano preparare la cornice con rilievi e figure, e il tutto doveva essere presentato finito per la festa dell’Immacolata di quell’anno, cioè l’8 dicembre 1483.

In seguito a dissapori con i due fratelli, Leonardo non volle più collaborare con essi e fece il quadro indipendentemente dalla cornice. Soppresse anche i profeti (che nel contratto si trovano menzionati) e li ridusse ad uno solo: san Giovannino (fig. 7). 1 critici, pur non sapendo di trovarsi di fronte ad una Vergine Immacolata, hanno sempre rilevato nel quadro di Leonardo una insolita atmosfera religiosa ed un sublime senso mistico. “Se il Leonardo è rimasto indietro quale pittore della luce, nessuno suscitò col chiaro-scuro sensi acutissimi di mistero e di religioso sgomento come nella Vergine delle Rocce”, scrisse il Berenson.

Maria è la creatura immacolata prescelta da Dio prima del tempo come madre di Dio e collaboratrice alla redenzione del genere umano, “posta dal pittore in un recesso fuori della vita e del tempo, in mezzo alla rappresentazione poetica delle cose che per lei e per il Cristo vennero fatte”.

La presenza di Giovanni riassume i profeti che hanno preannunciato l’Immacolata e l’abbiamo già trovata in Raffaello e nel Parmigianino. Forse però allude anche alla Passione di Cristo e quindi alla missione di Maria come madre della vittima e corredentrice, missione che era la ragione di essere della sua Immacolata Concezione.

Il tipo di Immacolata fissato da Leonardo ebbe moltissimi imitatori. Esistono opere del secolo XVI in relazione con la sua ad Affori e ad Asola, e vengono chiamate Immacolata. Ad essa si ispirò Cesare Magni pure nel secolo XVI (Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte); Jacopo Sansovino (Venezia, Loggia del Campanile di San Marco); Raffaello, Luini, Correggio e tanti altri artisti grandi e umili.

La cosiddetta Madonna col bambino e san Giovannino del Correggio conservata al Prado è certamente un’Immacolata che imita quella del Leonardo. L’idea di Maria, concetto immacolato nella niente di Dio, piacque tanto che fu introdotta anche nelle composizioni dell’Immacolata che già conosciamo: così abbiamo delle “Dispute” ove invece di trovare la Madonna nella sua vita terrena come si vede in Palmezzano, o nel simbolo di Ester, la si trova come idea immacolata nella mente di Dio. Ne citiamo un esempio superbo “La disputa dei dottori sulla Immacolata Concezione” di Giovanni Antonio Sogliani, discepolo di Lorenzo di Credi.

L’Eterno Padre guarda con ineffabile compiacenza a questa sua purissima idea. Due angioletti gli sollevano il manto d’ambo i lati con un gesto che già si trova nel quadro della Concezione e vari Santi di Francesco Zaganelli da Cotignola, conservato a Forlì. Giunto a questo punto il lettore stesso comprenderà come si sentisse negli artisti e nel popolo il desiderio di semplificare lo schema e di ridurlo alle sue parti essenziali. È così che verso la fine del secolo XVI si giungerà finalmente alla più perfetta e sublime composizione dell’Immacolata che poi resterà invariata fino ai giorni nostri. Citiamo qualche esemplare. Cesare Fracanzano riduce la scena all’Immacolata, all’Eterno Padre e a due angeli. L’Eterno Padre è nell’atto di contemplare e di mostrare l’idea purissima di Maria nella propria mente. Il Sogliani ci ha mostrato il Padre quasi nell’atto di far uscire l’Immacolata di sotto il suo manto; nel Francanzano il Padre sembra voglia farla uscire da un velo.

Il Murillo che talora aveva introdotto anche alcuni fedeli a contemplare l’Immacolata e a condividere l’estasi degli angeli, poi li sopprimerà. Solo Dio, dall’alto, contempla questa sua purissima idea in mezzo all’estasi di piccoli angeli (fig-61). Qualche autore preferirà porre al posto dell’Eterno Padre lo Spirito Santo, forse per ricordare che Maria è il capolavoro dell’attività della terza persona della Trinità. Così il Tiepolo nella sua Immacolata accanto alla quale lavorò anche il figlio Domenico (fig. 14). Il Piazzetta preferisce la sola Immacolata (fig. 9). E fra queste due tipologie oscilleranno gli artisti posteriori e moderni (fig. 2).

Dal ’500 ai nostri giorni si può dire che nessun pittore ha saputo resistere alla tentazione di dipingere l’Immacolata, tanto è il fascino che emana da questa composizione: Jean Bellegambe, che finiva il suo Trìttico dell’Immacolata nel 1526 (Douai, Museo); il Reni (Forlì, San Biagio); Juan Valdes Leal (Amburgo, Collezione privata); il Ribera (Madrid, Prado); il Velazquez (Londra, National Gallery); Annibale Carracci (Bologna, Pinacoteca); il Van Dyck (Firenze, Galleria degli Uffizi); Giuseppe Odazzi, 1665-1731 (Roma, Santa Maria dell’Orto); C. Francesco Nuvolone (Malnate, chiesa parrocchiale); lo Zurbaràn (fig. 10). Costui iniziò la sua carriera di pittore con una Immacolata nel 1612, sedicenne, e la finì nel 1662 a 66 anni di età con un’altra Immacolata che si ammira nel Museo di Budapest.

Anche il Murillo, già citato, ha una ventina di quadri della Immacolata Concezione (figg. 8, 14). A Venezia, nella chiesa di San Vitale, è venerata la bellissima Immacolata di Sebastiano Ricci. A Madrid, al Prado, si ammira quella del Rubens e a Lione, nel Museo di Belle Arti, quella di Antonio de Pereda (fig. 1); a Toledo, al Museo di S. Cruz, le due Immacolate di Scuola madrilena del XVII secolo. Un nuovo particolare ha aggiunto all’iconografia dell’Immacolata il pittore Giovanni Tagliasacchi (1737c.) nella sua tela conservata nella chiesa di San Lorenzo a Cortemaggiore (Piacenza): l’Eterno Padre vi contempla Maria e le pone in capo una fulgida corona davanti agli angeli estasiati. Nella scultura questo schema dell’Immacolata fu prediletto, soprattutto, in Germania. Ve ne è una in avorio della Scuola del Giambologna, ricordiamo la bella statua dell’Immacolata di C. Wenzinger, conservata nel Museo agostiniano di Friburgo; di I. Guenther, nella chiesa parrocchiale Weyarn; di J.A. Feuchtmyer, nella chiesa parrocchiale di Birnau sul Bodensee.

A Genova nell’Oratorio di San Filippo, è venerata una Immacolata del grande scultore francese P. Puget. In Italia poi molte città hanno elevato statue all’Immacolata nelle pubbliche piazze: ricordiamo quella celeberrima di Napoli, quella di Giovanni Lazzoni innalzata a Lucca nel 1687, quella di Roma in Piazza di Spagna, quella di Piacenza… Dei tempi più vicini a noi ricordiamo l’Immacolata Concezione del Maccari nella Santa Casa di Loretc; le due del Seitz a Loreto e nella basilica di San Lorenzo al Verano a Roma; quella di G. Szoldatics, conservata nei Palazzi Apostolici Vaticani; quella su vetrata di R. Albertella, inaugurata nel 1954 per il centenario della definizione del dogma, nella cattedrale di Genova; quella di F. Asco in marmo, inaugurata nella stessa solennità, l’I settembre 1954 a Trieste; e quella di Ernesto Bergagna, affrescata nella cappella del Seminario teologico di Venegono. Costui, guidato da quella grande anima di artista e di santo che fu mons. Giuseppe Polvara, egli pure architetto e pittore, eseguì nell’abside di quella cappella una grandiosa composizione dell’Immacolata, densa di pensiero teologico, Maria che apre soavemente le braccia ha lo sguardo assorto in ciclo; essa vede in se stessa l’adempimento del disegno di salvezza del genere umano, promesso ai nostri progenitori e che finalmente si attuerà per tutte le generazioni future. Posta così fra due età del genere umano, Maria le domina, le avvicina nel mistero del suo figliuolo, di cui essa ha la chiave. E’ lei l’alba del riavvicinamento dell’umanità a Dio e perciò è sospesa fra ciclo e terra, fra miriadi di stelle, quasi nuova costellazione di buon augurio e di pace per l’umanità. E, difatti, sopra di lei c’è solo l’Eterno Padre che stende le braccia in un gesto ampio e misericordioso, quasi impaziente di riabbracciare i suoi figli che la nascita dell’Immacolata gli assicura che presto potrannc ritornare a lui. Al di sotto del Padre aleggia lo Spirito Santo, pronto a ispirare, guidare e compiere l’opera redentrice del futuro Messia, che Maria portò già nel suo cuore spiritualmente, prima ancora di concepirlo nel suo seno immacolato. Maria tiene fra le mani un velo, che anticamente era simbolo di protezione, e che qui le serve per sostenere il bambino.

Schiere di angeli, come nubi che salgono nel silenzio dell’universo, cantano ed esaltano la loro regina. Al di sotto di Maria v’è la città di Dio, simbolo della Chiesa, come è descritta da Isaia (51,11-12), da Ezechiele (43,30-35) e da Giovanni stesso (Ap 21,10-27): con le sue torri e le sue cupole, cinta di mura di marmi rari, con le porte ornate di pietre preziose. Ogni porta è custodita da un angelo.

Dopo le apparizioni di Lourdes l’iconografia dell’Immacolata si è, il più delle volte, limitata, a ripetere la scena dell’apparizione di Maria a Bernardetta. Maria è vestita di bianco, con le mani giunte e gli occhi rivolti al ciclo, una fascia azzurra la cinge e due rose d’oro le ornano i piedi.

L’Immacolata nell’arte dei Paesi di Missione.
La composizione iconografica dell’Immacolata ha ricevuto un nuovo impulso dall’arte dei Presi di Missione, con l’aggiunta di nuovi elementi, estranei alla nostra cultura.

Nel Museo Laterano è conservata una statua dell’Immacolata alta cm. 65, proveniente dall’Annam e scolpita da un indigeno nel 1890 circa. Maria ha il serpente e la luna sotto i piedi. Appoggia su una roccia che sorge dal mare, motivo tipicamente buddista. Non è questo il solo particolare tolto dall’iconografìa buddista. La mantellina della Madonna dalle volute a fior di loto, i capelli del bambino, identici a quelli di Budda, ci dicono l’influenza dell’arte annamita su questa statua. Al tema delTlmmacolata sono stati particolarmente sensibili gli artisti indiani. Padre Heras così descrive una statua in avorio fatta scolpire ad artisti indiani: “La Madonna è vestita con il caratteristico sari indiano, tanto modesto quanto elegante e artistico. È rappresentata come è descritta da san Giovanni: vestita di sole (che si vede dietro la testa) con la luna sotto i piedi e una corona di dodici stelle sul capo. La corona è di stile indiano. L’immagine è posta su un fior di loto che ha un significato simbolico molto prezioso. Il fior di loto nei laghi e nelle fontane appare senza visibile connessione alla terra. Perciò coloro che stanno sul fiore sono esenti dalle imperfezioni e impurità terrene. Come il giglio è simbolo di purezza in Europa, così lo è in India il fior di loto. L’arco che si sviluppa dietro l’immagine è caratteristico delle sculture indiane.

In sanscrito si chiama prabhavali che significa cammino di luce ed equivale alla nostra aureola. Nella parte superiore, ove le immagini indiane mostrano spesso una testa di leone simbolica e puramente ornamentale, noi abbiamo posto la colomba dello Spirito Santo, autore delle meraviglie che si attuarono in Maria”.

Luca Hasegawa, artista giapponese, ci ha dato pure un’Immacolata, che forse i posteri apprezzeranno come un autentico capolavoro. “In essa – scrisse il card. Costantini – la corporeità sparisce nello splendore di una insuperabile spiritualità” il giglio è divenuto un ornamento del suo vestito.

La concezione buddista della vita, e il modo con il quale questa percezione viene resa in arte, possono forse fornirci qualche bella e utile ispirazione artistica per una composizione dell’Immacolata.

Il Buddismo primitivo ha insegnato che tutto quello che noi chiamiamo regno della realtà, regno dell’esistenza, non è altro che un regno del divenire, e quindi del fenomeno, dell’illusorio.

Questo regno fu chiamato samsara che significa corrente ed in arte fu rappresentato come un fiume straripante o un mare agitato, che tutto inghiotte, tutto trasforma, è in continuo moto e mai non s’arresta. Di qui l’importanza che il mare assume nell’arte buddista.

Volete rappresentare la vita? Ecco una mare coi suoi flutti agitati sui quali galleggia un vecchio tronco dal ramo fiorito. Forse tutti noi abbiamo visto questa scena in qualche raccolta d’arte cinese, giapponese o tibetana.

Quei flutti rappresentano l’instabile divenire della vita: quel tronco morto, la vita che ha ceduto; quel ramo fiorito, la vita che si rinnova.

Altro quadro tipicamente buddista e che si ispira agli stessi concerti è il seguente: in primo piano si vede il mare spumeggiante; da esso, immobile, fiammeggiante, si eleva un fìor di loto: fra i petali, gelosamente custodito, sfavilla un gioiello.

I buddisti sentono l’incanto di questo quadro. Essi vedono che in mezzo al fluttuare del mare del divenire c’è qualcosa che sta, che è perenne: è la dottrina di Budda, rappresentata dal gioiello che sfavilla tra i petali del loto: il loro cuore si commuove e lascia erompere la preghiera che è adorazione ed estasi (tratto da: G. M. Toscano, La vita e la missione della madonna nell’arte. Volume I La Madonna “in mente Dei”, Carlo Pellerzi Editore, 1989)

Condivisione – Silvia

Posted on Luglio 26th, 2009 di silvia |

Vengo qui quando proprio la solitudine sembra prevalere.

Qui mi sento in comunione di vita, di preghiera,di offerta.

Reciproca e per tutti.

La Croce continua qui trova una condivisione.

 

  

Sal 72.2; 21-24 

 

2Per poco non inciampavano i miei piedi,

per un nulla vacillavano i miei passi,

______________________________

 21Quando si agitava il mio cuore

 

e nell’intimo mi tormentavo,

22io ero stolto e non capivo,

davanti a te stavo come una bestia.

23Ma io sono con te sempre:

tu mi hai preso per la mano destra.

24Mi guiderai con il tuo consiglio

e poi mi accoglierai nella tua gloria.

_____________________________

 

Questa è la mia preghiera, e la mia esperienza di questi

giorni.

 

Un niente e scivolavo…

Un poco oltre e facevo un passo falso.

Solo nella preghiera,

avverto il “niente” che separa la tentazione dalla colpa.

Solo nella vita accolta e vissuta per Te mio Signore,

avverto che sono con Te,

già ora e sempre.

Perchè Tu sei con me..

silvia

 

Accettare e offrire – Silvia

Posted on Agosto 1st, 2009 di silvia

“Accettare e offrire”.

Poi, tante altre Parole.Ma quelle due Parole, l’inizio dell’avventura, sono tutto.

Come sono vere e attuali, Signore, queste tue Parole.Allora, quando Ti ho detto SI, non sapevo che cosa Tu ne avresti fatto.

Ho accolto la tua insistente ed irresistibile proposta.Ho ceduto a Te perchè la mia vita non poteva essere -e non è – se non è in Te.

Ho accettato, e firmato quell’assegno “in bianco” che Tu mi hai donato.Tu hai provveduto a riempirlo giorno per giorno…

Accettare e offrire.

E’ come un cammino a spirale. Io non so nulla, neppure dove mettere il piede.

devo solo seguire i Tuoi passi.

Tu sai l’oggi che cosa mi sta portando: accetto sempre dalle tue mani.

Offro : è la sola preghiera possibile.

Grazie sempre a Te: donami la Luce e la Forza necessaria.

Grazie Signore!

SAINT RICHARD PAMPURI O.H.

 

Posted on Febbraio 22nd, 2009 di Angelo |

 

RICHARD PAMPURI  O.H.

(1897-1930)

 

ERMINIO FILIPPO PAMPURI, Brother Richard in religion, was the tenth of the eleven children of Innocenzo and Angela (nee Campari) Pampuri. He was born at Trivolzio (Pavia, Italy), on 12 August 1897 and was baptised the following day.

 

When he was three years of age his mother died and he was then taken into the home of his mother’s sister, at Torrino, a village near Trivolzio. In 1907 also his father is expired at Milan.

 

He went to two primary schools at nearby villages and then went to Milan where he attended a junior high school. He completed his high school studies as a boarder at Augustine’s College, Pavia, where after graduation, he enrolled in the Medical Faculty of Pavia University.

 

Between the years 1915 and 1920, he was in the fighting zone of World War I. He served firstly as a sergeant and later went into training as an officer in the Medical Corps.

 

On 6 July 1921, he graduated top of his class in Medicine and Surgery at the above mentioned university.

 

After a three years practical experience with this doctor uncle, and for a short time as temporary assistant in the medical practice at Vernate, he was appointed to the practice of Morimondo (Milan). In 1922 he passed his internship with high honours at the Milan Institute of Obstetrics and Gynaecology. In 1923 he was registered at Pavia University as a General Practitioner of Medicine and Surgery.

 

Very soon his heart and mind began opening up to the Christian ideals of medicine and the apostolate. Even as a young boy he wanted to become a missionary priest, but was dissuaded from this on account of his delicate health.

 

From his youth he was always a shining example of Christian virtue everywhere he went. Whilst living in the midst of the world, he openly and consistently professed the Gospel message and practised works of charity with generosity and devotion. He loved prayer and kept himself constantly in close union with God, even when he was kept very busy.

 

 

 

 

 Saint Richard

Saint Richard, 

you once walked the roads of our land,
you prayed in the silence of our churches,
you lovingly and intelligently served the sick in our homes,
you have been welcoming towards each person that looked for you.

 

Today, as once your patients did,
I too look for you and turn to you,
so that you help the healing of my body and spirit,
and so that you grant for me, from the Lord,

 

Prayer to Saint Riccardo for young people

Saint Riccardo, we have come to your tomb
That you may help us onto your path.

 

Like us, you dreamed, Riccardo,
Pray to God
That our hopes may be fulfilled.

Like us, you studied, Riccardo,
Pray to God
That His truth may be made known to us.

Like us, you went through troubles, Riccardo,
Pray to God
That he may make us stronger in life.

Like us, you waited, Riccardo,
To understand the directions your future was to take.
Pray to God
That we may always be watchful
And able to recognize the path to which He calls us.

Like Jesus, you managed to hope, even through difficulties,
And pray amidst thousands of worries,
And love under all circumstances,
Ask the Lord to grant us
The enthusiasm and generosity with which you lived.

Amen.  

Riccardo Pampuri’s memorial tablet

 

List of Countries » Italy » Pavia » Medical monuments and memories in the University central seat » Riccardo Pampuri’s memorial tablet

 

One of the Medical monuments and memories in the University central seat, in Pavia, is the marble memorial tablet to the memory of Saint Riccardo Pampuri who studied medicine in this University from 1915 to 1921. He graduated on the 6th July 1921, with a doctoral thesis on the “Determination of the arterial pressure with a new sphygmomanometer”.

 

PAVIA – UNIVERSITY  

  

The italian inscription on the tablet reads as follows:

 

“BENIGNO QUI ANCORA SPIRI L’AMORE

 

DI CUI SI INFIAMMO’ IN MODO ERICO

 

ERMINIO PAMPURI

 

ALUNNO ESEMPLARE E MITISSIMO

 

DI QUESTA UNIVERSITA’

 

ORA ELEVATO AGLI ONORI DEGLI ALTARI

 

E INVOCATO CON IL NOME DI

 

S.RICCARDO

 

DELL’ORDINE OSPEDALIERO

 

FATEBENEFRATELLI

 

QUANTI NE SEGUONO LE ORME

 

SENTANO COSTANTE LA SUA PROTEZIONE

TRIVOLZIO / 2.8.1897 / MILANO / 1.5.1930″.

He assiduously attended the Eucharistic table and spent long periods in profound adoration before the Tabernacle.

 

He had a tremendous devotion to the Blessed Virgin Mary and prayed the Rosary often more than once a day.

 

He was an active and diligent member of Pavia University’s Severino Boezio Club for Catholic Action. He also belonged to the St. Vincent de Paul Society and the Third Orden of St. Francis. 


Since his boyhood he was involved in Catholic Action so when he arrived at Morimondo to practice medicine, he gave valuable assistance to the parish priest and helped him to set up a musical band and a Catholic Action Youth Club of which he was the first president. Both of these under the patronage of St. Pius X. He was also secretary of the Parish Missionary Aid Society.

 

He organised regular retreats for the Youth Club, farm labourers and local workers, at the Jesuit Fathers’ “Villa del Sacro Cuore” at Triuggio, generally paying their expenses. He used to invite his colleagues and friends to come along as well.

 

As well as being studious and competent in practising his profession, he was generous, charitable and very concerned for his patients. Throughout his practice he visited them both by day and night, never sparing himself no matter wherever they lived, even in places difficult to find. Since most of his patients were poor, he gave them medicines, money, food, clothing, and blankets. His charity extended to the poor rural workers and needy folk in and around Morimondo and even going further afield to other towns and districts.

 

When eventually he was to leave his practice in six years time, to become a religious, the grief at having lost the “holy doctor” was so greatly felt everywhere, that even the daily press took up the story.

 

Dr. Pampuri joined the Hospitaller Order of St. John of God so as to follow the way of evangelical holiness more closely and at the same time to be able to carry on his medical profession so as to alleviate the suffering of his neighbour. He joined the St. John of God Brothers at Milan on 22 June 1927. He did his novitiate year at Brescia and when it was over, made his profession of religious vows on 24 October 1928.

 

He was then appointed Director of the dental clinic attached to the St. John of God Brothers’ Hospital at Brescia. This was mostly frequented by working people and the poor. Brother Richard untiringly gave himself fully to serving them with such wonderful charity that he was admired by all.

 

Throughout his life as a religious, Brother Richard was, as he had always been before he became a St. John of God Brother, a model of virtue and charity: to his Brothers in the Order, the patients, the doctors, the paramedics, the nurses, and all who came into contact with him. Everybody agreed upon his sanctity.

 

He suffered a fresh outbreak of pleurisy, which he first contracted during his military service, and this degenerated into specific bronco-pneumonia. On 18 April 1930 he was taken from Brescia to Milan, where he died in sanctity on 1 May at the age of 33 years: “leaving behind, the memory of a doctor who knew how to transform his own profession into a mission of charity; and a religious brother who reproduced within himself, the charism of a true son of St. John of God” (Decree of heroic virtue, 12 June 1978).

 

After his death, his reputation of sanctity which he demonstrated throughout his life, greatly expanded throughout Italy, Europe and the entire world. Many of the faithful received significant graces from God, even miraculous ones, through his intercession.

 

The two required miracles were accepted and he was beatified by His Holiness John Paul II on 4 October 1981.

  

 

 

Erminio Filippo Pampuri
Riccardo Pampuri
Ricardo Pampuri

 

Memorial
1 May

 

Profile

 

Tenth of the eleven children born to Innocenzo and Angela Pampuri. His mother died of tuberculosis when Erminio was three, and he was raised by his maternal grandparents and an aunt. His father died in a traffic accident when Erminio was ten.

 

Though he wanted to become a missionary priest, one of the great influences on the boy was his uncle Carlo, a village doctor. When Erminio’s health proved to be too weak for the rigors of missionary work, he studied medicine at Pavia University. Franciscan tertiary, member of the Society of Saint Vincent de Paul, and involved in Catholic Action, he attended Mass daily while in school.

 

Drafted into the Italian army medical corps in World War I in 1917, Erminio was a sergeant; he spent his duty in field hospitals, sickened by the misery of war.

 

He resumed his studies in 1920, and graduated from medical school on 6 July 1921 at the top of his class. Rural health officer in Morimondo in the Po Vally, a poor area near Milan, Italy. Secretary for his parish’s missionary society, he organized retreats for local laymen, and worked area youth. He treated the poor for free, coordinated charitable drives for them, and founded the Band of Pius X, a group dedicated to medical care for the poor.

 

Feeling a call to religious life, Erminio joined the Hospitaller Order of Saint John of God on 22 June 1927, taking the name Riccardo, and making his formal profession on 24 October 1928. Ran a free dental clinic for the Order in Brescia, treating those in need, and giving them money and food in the bargain if they needed it.

 

Born
2 August 1897 at Trivolzio, Pavia, Italy as Erminio Filippo Pampuri
Died 1 May 1930 in Milan, Italy of pleurisy, tuberculosis and pneumonia  

All information used with permission of the Patron Saint Index.

 

 

Later on, a miraculous healing through the intercession of Blessed Richard Pampuri, took place on 5 January 1982 at Alcadozo (Albacete, Spain). This was approved as a miracle and so, on the feast of All Saints, 1 November 1989, he was solemnly canonized.

 

“The brief, but intense life, of Brother Richard Pampuri is a stimulus for the entire People of God, but especially so for youth, doctors and religious brothers and sisters.

 

He invites the youth of today, to live joyfully and courageously in the Christian faith; to always listen to the Word of God, generously follow the teachings of Christ’s message and give themselves to the service of others.

 

He appeals to his colleagues, the doctors, to responsibly carry out their delicate art of healing; vivifying it with Christian, human and professional ideals, because theirs is a real mission of service to others, of fraternal charity and a real promotion of human life.

 

Brother Richard recommends to religious brothers and sisters, especially those who quietly and humbly go about their consecrated work in hospital wards and other centres, to hold fast to the original charism of their Institute in their lives, loving both God and their neighbour who is in need” (Homily, 4 October 1981).

 

St. Richard Pampuri’s body is conserved and venerated in the Parish Church of Trivolzio (Pavia, Italy). His feastday is celebrated on 1 May.

 

 

By Tony Staley

 

Compass Editor

 

 

 

 

St. Richard Pampuri

When: 1897-1930Where: Northern ItalyWhat: Physician and religious brotherFeast: May 1     

 

 

 

 

Thirty-three years is a short time in which to make a mark, though that’s all it took Jesus — and St. Richard Pampuri, who in 1989 was canonized for his life of virtue as a doctor, friend of the poor and religious brother.

 

Richard, who was baptized Erminio, was three when his mother, Angela, died of tuberculosis and 10 when his father, Innocenzo, was killed in a car accident. The two deaths left his upbringing to his maternal grandparents and an aunt and uncle.

 

Erminio had long wanted to be a missionary priest, but ill health made that impossible. So he decided to follow the example of his Uncle Carlo, a village doctor.

 

His uncle paid for his education at Pavia University, where Richard attended daily Mass, became a lay Franciscan, and was active in the Society of St. Vincent de Paul and Catholic Action.

 

World War I interrupted his studies in 1917 when he was drafted into the Italian army medical corps, given minimal training and sent to a field hospital.

 

The brutality of war dismayed Erminio. He wrote: “What a stupid waste of human life. So many wounded, so many broken bodies!”

 

He soon earned respect for his care for patients. One colleague put it, “He was always very kind to the wounded soldiers, particularly those with the gravest wounds. He was always on hand to comfort them and was concerned that they should receive the Sacraments.”

 

Whenever Erminio had time, he read the New Testament and the Imitation of Christ, which he always carried with him.

 

In 1920, he resumed his studies, graduating at the top of his class the next year, after completing course work in medicine, surgery, obstetrics and gynecology.

 

At first, he practiced at a rural health clinic near Milan. He worked mainly among the poor, to whom he also gave money, food, clothing and blankets. He also was the secretary for the parish missionary society, and organized retreats for the laity and worked with youth.

 

Erminio, who saw his work as ministry, wrote to his sister, a missionary in Egypt: “I always see Jesus in my patients, so it is he whom I cure, comforting him who suffered and died to expiate our sins.”

 

On June 22, 1927, at the advice of his spiritual director, he entered the Hospitaller Order of St. John of God, taking the name Richard. His superior put him in charge of the order’s free dental clinic. He proved popular among patients, to whom he gave money and food, in addition to dental care.

 

But in August 1929, he came down with a lung disease — a legacy of the war — and died less than a year later.

 

(Sources: Brothers of St. John of God, Butler’s Lives of the Saints, catholic-forum.com, Catholic News Service, Saints Alive.)

 

This icon CHRIST–THE DIVINE PHYSICIAN

 

of Christ which is displayed in the sidebar of our website was painted by a medical colleague, a member of the Catholic Medical Association. The artist/physician wrote about the work:

 

“The inspiration for this icon came from the ancient icon at St Catherine’s monastery in Sinai – Christ the Pantocrator (Christ the Ruler, King). The ancient icon dates back to the year 500 AD and has lost its color so that it appears black and white and gold yet it is still very profound. Christ is holding His right hand to bless the viewer and His left hand holds the Word of God.

 

I ‘wrote’ (painted) this icon using the Sinai icon as a model. Christ wears a tunic of red to symbolize His suffering and death for our redemption. His robe of purple represents Kingship and royalty. The gold (real gold) of His halo, shoulder badge and book indicate divinity. The letters on His halo are the letters for the name of God “I AM”.

 

This is my prayer and contemplation: Christ the Divine Physician is the rightful Lord (Ruler, King) of medicine and of physicians. He calls us to be physicians in His image. Our response to His call is to profess an oath (~Hippocratic Oath) to Him of obedience and obligation and responsibility to Him for the care of His people in the practice of medicine. I pray that all who contemplate this icon of Christ the Divine Physician will become more and more conformed to His image as Healer.”

 

 

http://www.worcestercma.org/ChristDivinePhys.html

 

 

 

SAINT RICHARD PAMPURI

 

b. August 12, 1897, Trivolzio, Italy
d. May 1, 1930, Milan
Beatified: October 4, 1981
Canonized: November 2, 1989 

The Old Testament Book of Sirach pays an important tribute to physicians. “Hold the physician in honor,” Sirach says, “for he is essential to you, and God it was who established his profession” (38:1). St. Paul calls St. Luke the Evangelist a “beloved physician” (Col, 4:14). In our own time another saintly medical doctor has been canonized to whom God has communicated some of his healing power. He is St. Richard Pampuri, M.D.

Dr. Pampuri, the tenth of the eleven children of Innocenzo and Angela Pampuri, was born in the province of Pavia, northern Italy, on August 2, 1897, and baptized Erminio Filippo. His mother, in poor health, died when he was only three. Thereupon, his maternal grandparents offered to raise the youngster in their village. The grieving father accepted their kindly offer.

Growing up in the household of his grandfolks his Aunt Maria and her husband Dr. Carlo, the village physician, Erminio had the great blessing of being raised in an atmosphere of devout and loving Christianity. From the outset, he proved to be a winsome child naturally disposed to do the right thing. Though not physically strong, nevertheless, when he started to go to school, he did not allow the long walks to and from the schoolhouse, in weather fair or foul, to interfere with his perfect attendance. His teachers in elementary and secondary school all spoke of him as “outstanding under every aspect”.

When Erminio was ten, his father was killed in a traffic accident. Even as a lad young Pampuri had wanted to become a missionary priest, but he was dissuaded from that vocation because of his delicate health. Instead, he fell more and more under the influence of his uncle Carlo, a country doctor whose generosity and good example impressed him with the ministry of healing. Carlo also paid his way through schools and college. He must have been gratified when Erminio told him that he had enrolled in the Faculty of Medicine at Pavia.

The impression he made on teachers and fellow students while in college and medical school continued to be very positive. His quiet excellence in behavior and study made him a natural leader. Despite the anticlerical milieu of the university, he calmly attended daily Mass and received Holy Communion regularly. He was active in the student Catholic Actions groups, and attracted large numbers of his fellow students to these apostolates.

When Italy entered World War I, Erminio Filippo was conscripted into the Medical Corps. After a brief course in field medicine he was sent to the front. Most of his work seems to have been in field hospitals, but he was nevertheless shocked by the brutality of war. “What a stupid waste of human life,” he wrote. “So many wounded, so many broken bodies!” He outdid himself in serving these casualties. A companion said of him, “He was always very kind to the wounded soldiers, particularly those with the gravest wounds. He was always on hand to comfort them and was concerned that they should receive the Sacraments.” Personally he always carried the New Testament and the Imitation of Christ in his pocket, to be read in the brief moments of leisure. By the end of the war he had been promoted to Second Lieutenant, Medical Corps.

When the war ended in 1918, Erminio returned to the Medical School of Favia. On July 6,1921, he graduated at the top of his class in medicine and surgery. In 1922 he completed his internship with high honors, and was appointed to practice at Morimondo in the Province of Milan. Now he practiced medicine to the hilt. But he also found time to organize the parish youth, to serve as secretary of the parochial missionary society, and arrange retreats for adolescents, farmers and Don Alesina, pastor of the parish, called him “my lay curate”.

Now that he was a physician, Pampuri was able to prove to himself that his profession was indeed a “ministry”. “I always see Jesus in my patients,” he wrote to his sister, a missionary in Egypt, “so it is He whom I cure, comforting Him who suffered and died to expiate our sins.” Since most of his patients were poor, he gave them free medicine and money, food, clothing and blankets as needed.

Dr. Pampuri still felt an attraction to the religious life. After six years at Morimondo, on the advice of his spiritual director, he decided to join the Hospitallers of St. John of God, a religious order of nursing brothers. The Brothers were happy to receive him. He entered the Order officially in 1927, received the religious name “Riccardo” (Richard) and took his first vows in 1928. His new companions quickly agreed that Brother Richard was in every way an authentic son of St. John of God.

Unfortunately, Pampuri, while in the armed services, had suffered a bout with pleurisy. That ailment struck him anew in August 1929, and degenerated into bronchial pneumonia. He died in the Order’s hospital in Milan on May 1, 1930, aged only 33.

The speed with which he was beatified and canonized testifies to the reputation for high holiness that this admirable young man had acquired. Pope John Paul II declared him blessed in 1981 and proclaimed him a saint in 1989.

In a day when many physicians seem to ignore their Hippocratic oath to do patients no harm, it is good to have ranked among the saints one who saw Jesus in those whom he sought to cure.

–Father Robert F. McNamara

(source: http://www.irondequoitcatholic.org/index.php/St/RichardPampuri/)

http://www.worcestercma.org/Pampuri.html

 

 

  

THE WORCESTER GUILD OF THE CATHOLIC MEDICAL ASSOCIATION

008 Direttori Regionali


  

Se non conoscete la vostra regione, entra STATO IL TUO dalla lista: Se non conoscete la vostra regione, inserisci la tua  

Nella lista STATO:

Regione II Regione II



New York New York

   
 

Robert E. Madden, MD Robert E. Madden, MD

Bronxville, NY Bronxville, NY

 

Anthony R. Pivarunas, MD Anthony R. Pivarunas, MD

Elma, NY Elma, NY

 

Contattaci Contattaci

 
 

Regione III Regione III



Delaware, DC, Maryland, New Jersey, Pennsylvania, Virginia e West Virginia Delaware, DC, Maryland, New Jersey, Pennsylvania, Virginia, West Virginia e

   

Marie-Alberte Boursiquot, MD Marie-Alberte Boursiquot, MD

Columbia, MD Columbia, MD

Lester A. Ruppersberger DO Lester A. Ruppersberger DO

Washington Crossing, PA Washington Crossing, PA

   

Contattaci Contattaci

 
   

Regione IV Regione IV



Indiana, Michigan, Ohio e Indiana, Michigan, Ohio e

   
       

Lorna L. Cvetkovich, MD Lorna L. Cvetkovich, MD

Ann Arbor, MI Ann Arbor, MI

 

Giovanni Damiani, DO Giovanni Damiani, DO

Dearborn, MI Dearborn, MI

   

Contattaci Contattaci

 
   

Regione V Regione V



Alabama, Florida, Georgia, North Carolina, Puerto Rico, South Carolina e Tennessee Alabama, Florida, Georgia, North Carolina, Porto Rico, South Carolina, Tennessee e

   

Peter R. Morrow, MD Peter R. Morrow, MD

St. Cloud, FL St. Cloud, FL

JP Cornelius Sullivan, MD Cornelio JP Sullivan, MD

Northport, AL Northport, AL

   

Contattaci Contattaci

 
   

Regione VI Regione VI



Arkansas, Kentucky, Louisiana, Mississippi, Oklahoma e Texas Arkansas, Kentucky, Louisiana, Mississippi, Oklahoma e Texas

   
 

Martha M. Garza, MD Martha M. Garza, MD

San Antonio, TX San Antonio, TX

 

Albert E. Gunn, MD Albert E. Gunn, MD

Houston, TX Houston, TX

   

Contattaci Contattaci

 
   

Regione VII Regione VII



Illinois, Iowa, Kansas, Minnesota, Missouri, Nebraska, North Dakota, South Dakota e Wisconsin Illinois, Iowa, Kansas, Minnesota, Missouri, Nebraska, North Dakota, South Dakota, Wisconsin e

   

Giovanni I Lane, MD Giovanni I Lane, MD

Rochester, MN Rochester, MN

Thomas M. Zabiega, MD Thomas M. Zabiega, MD

Bolingbrook, IL Bolingbrook, IL

   

Contattaci Contattaci

 
   

Regione VIII (sito web) Regione VIII (sito web)



Alaska, Hawaii, Idaho, Montana, Oregon, Washington e Wyoming Alaska, Hawaii, Idaho, Montana, Oregon, Washington e Wyoming

   

Dr. Bissonnette

Lynne Bissonnette-Pitre, Lynne Bissonnette-Pitre,

MD, PhD MD, PhD

Portland, OR Portland, OR

Dr. Hemstad

Jan hemstad, MD Gennaio hemstad, MD

Yakima, WA Yakima, WA

   
 

Contattaci Contattaci

 

Regione IX Regione IX



Arizona, Colorado, Nevada, New Mexico e Utah Arizona, Colorado, Nevada, New Mexico e Utah

   
 

William H. Brophy, MD William H. Brophy, MD

Mesa, AZ Mesa, AZ

 

Maricela P. Moffitt, MD Maricela P. Moffitt, MD

Phoenix, AZ Phoenix, AZ

   

Contattaci Contattaci

 
   

Regione X Regione X



California California

   

Paul Braaton, MD Paolo Braaton, MD

Modesto, CA Modesto, CA

 

John Lewis, MD John Lewis, MD

Cupertino, CA Cupertino, CA

. .

 

Contattaci Contattaci

 
   

Regione XI Regione XI



Canada Canada

   

Dr. Luminos

Howie L. Bright, MD Howie L. Bright, MD

Chilliwack, BC Chilliwack, BC

Karen MacDonald, MD Karen MacDonald, MD

   

Contattaci Contattaci

 
   

Militari Guild Esercito Guild



 
   

Dr. Richard Watson

Richard A. Watson, MD Richard A. Watson, MD

Montagna, NJ Montagna, NJ

   
   

Contattaci Contattaci

 
   

Missioni mediche direttore Missioni Direttore Medico



 
 

Daniel B. Reardon, MD Daniel B. Reardon, MD

East Greenwich, RI East Greenwich, RI

   

Contattaci Contattaci

 

 

SAINTS AND BLESSEDS OF HOSPITALITY

Posted on Febbraio 24th, 2009 di Angelo |

ST.  JOHN OF GOD

It is now five centuries since the birth of St. John of God. The example of his life is still inspiring people, his work has spread throughout the world. What was it about this man that led so many people to want to help him in his ministry in Granada in the 1540’s? What is it that still inspires the thousands of people who comprise the family of St. John of God today?

St. John of God was born John Ciudad in 1495 in a small village in the south of Portugal called Montemor-o-Novo. At the age of eight, in circumstances that are still a mystery, John left home. He was reared by a Spanish family in Oropesa. The greater part of his life was spent as a rootless wanderer, working as a shepherd, soldier, bookseller and labourer and covering in his travel the countries of Europe and North Africa.

When St. John of God finally settled in Granada around the age of forty he underwent a conversion experience so dramatic in its intensity that he was placed in a psychiatric hospital. His brief experience of the kind of treatment meted out to the afflicted gave him an insight into, and understanding of, the real needs of the sick. He decided to devote the rest of his life to caring for those in need.It is now five centuries since the birth of St. John of God. The example of his life is still inspiring people, his work has spread throughout the world. What was it about this man that led so many people to want to help him in his ministry in Granada in the 1540’s? What is it that still inspires the thousands of people who comprise the family of St. John of God today?

ST. RICHARD PAMPURI O.H.

Richard Pampuri lived nearer to our times. Born at Trivolzio, a small city in the north of Italy in 1897, he graduated from his medical course in 1921, after which he worked as a rural health officer assigned in a poor area near Milan. Even now, the inhabitants of that area still remember him for his charity.

Wishing to dedicate himself to the sick in a more complete and total way, he entered the Hospitaller Order of St. John of God in 1927. The Formation house was inside the general hospital managed by the Brothers in Brescia. There he made his religious profession on October 24, 1928.

The Superior entrusted to him the free dental clinic for the poor. Many people flocked to the clinic of Brother Richard not only because of his professional competence but also because of his kindness and gentleness in treating the patients.

Many times he also gave money and food to the needy patients and showed great sensitivity to all. Once there was a malnourished boy who came for dental treatment. After treating him, Brother Richard pretended to ask for money. The astonished boy replied, “But I don’t have money to pay.” Immediately Brother Richard offered money telling him, “Don’t worry, if you can’t pay me, I will pay you.”

Unfortunately, he started to have some health problems in the beginning of 1929. He has tuberculosis, an incurable sickness at that time. His health would only to fall ill again many times, until he has to be confined in the hospital of the Brothers in Milan on April 18, 1930. There he died in the evening on May 1, the date of his liturgical feast since he was proclaimed blessed in 1981. His body was bought to Trivolzio, his birthplace, where it is venerated in the same parish church he was baptized. Pope John Paul II declared him Saint in 1989. The Pope said, “The short but rich life of Richard Pampuri urges the medical doctors, his colleagues, to carry out delicate professional with commitment, to animate it with Christian, human and professional ideals, so that it will become a true mission of social services, of fraternal charity, of true human growth.”

The life of San Richard Pampuri was so short that truly there was no time or opportunity to perform great undertakings. Nonetheless, his life was very meaningful because he held on to a principle which he formulated during his preparation for the Religious Profession, he upheld that: “To do the least of things with great love.” It was precisely his daily adherence to this principle that led him on top of holiness transforming his medical activities into a true mission of charity.

SAINT BENEDICT MENNI

The typical apostolate of the Brothers of St. John of God is to care for the sick as nurses or doctors. For this reason. from the very beginning, the Hospitaller Order was recognized by the Church as a Congregation of religious brothers with exception of not more than one priest in each community acting as chaplain.

Saint Benedict Menni was one exception, being an ordained priest in Rome on October 14, 1860. In those years, the Spanish branch of the Hospitallers Order died away as a consequence of some Masonic laws issued in Portugal in 1834 and in Spain in 1835. Saint Menni was sent to Barcelona on April 6, 1867, to restore the Hospitaller Order in these countries.

After a long struggle, oftentimes risky, he was not only able to gather many vocations – almost a thousand from 1867 to 1903 – but also founded in Spain, Portugal and Mexico, 22 hospitals for every kind of sickness, especially for mental patients and handicapped children. Those conditions were the most neglected by the public health care at that time.

He also founded a female branch of the Order, the Hospitaller Sisters of the Sacred Heart of Jesus. Today, the Sisters are present in 20 Countries with almost 80 communities.

The mother house of the Sisters is in Ciempozuelos, Spain where the body of their founder is venerated. He was declared Blessed in 1985 and his Canonization was celebrated in November 1999. His feast day is April 24, the day he died in Dinan, France in 1914.

What is amazing in the life work of Saint Menni is the number and complexity of the undertakings he faced; but, even more so is their validity, tested for more than a century. The secret lies in his true, heroic detachment by which he always considered himself a docile instrument in the hands of God, without giving room to his personal ambitions or human plans.

MARTYRS OFHOSPITALITY

While Brother Richard Pampuri attained holiness through the ordinary activities of life, a good number of Brother of St. John of God had to face the ordeals of martyrdom before attaining the glory of Heaven.

In the golden annals of the Order are listed martyrs in Belgium, Poland, Columbia, Chile, Brazil, Philippines and specially in Spain where during the Civil War of 1936, ninety-eight Brothers were killed due to hatred towards their faith.

The process of beatification was successfully terminated for a group of seventy-one Brothers whose martyrdom happened in Spain. Pope John Paul II set October 25, 1992 as the date for their solemn beatification in the Vatican.

Among those seventy-one Blessed, there are seven young natives of Colombia who after their Profession had been sent to Spain to complete their formation. In the history of the church, they are the first from their country to be venerated in church. Consequently, it is worth mentioning their names: Arturo Ayala, Esteban Maya, Eugenio Ramirez, Gaspar Paez, Juan Bautista Velazquez, Melquiades Ramirez, Ruben Lopez. They were shot in Barcelona on August 9, 1936.

Also worth mentioning among those Blessed martyrs is a Spanish one, Brother Guillermo Llop, who lived for ten years in the Roman Province as Master of Novices and later as Prior in Frascati, near Rome.

Brother Guillermo was born in Spain in 1880. At the age of eighteen, he received the habit of the Order. He was with the Roman Province from 1912 to 1922, distinguishing himself specially in the care of the wounded in the First World War. In 1922, he went together with other Brothers to revive the Order in Chile. In 1928, he returned to Spain and at the outbreak of the Civil War, he was made Prior of the Mental Hospital in Ciempozuelos, near Madrid. Although there was an open persecution against the religious and the priests, he decided to stay together with the entire Community to care for the patients, until one day, they were imprisoned. On November 28, 1936, he was shot and his last words were words of forgiveness for his executioners.

Martyrs of Faith

The 71 champions of charity, animated by a trusly deep motivation, remained loyal to Jesus Christ in their belief in the Christian life and their religious vocation, even to the acceptance of persecution and death, in order to bear witness to their faith and consecration. Their fidelity clashed with marxist communism and the religious oppression of the revolution of the Spanish Militia, which, in an atmosphere of voilent persecution, broke out against the Church and its institutions. In this background was found the fundamental reason for their martyrdom.

In this background of persecution, the religious, torn from their life of community and of charity, and often after long and cruel periods of imprisonment, were sacrificed and died as martyrs of faith and of Jesus Christ. The greeting “Hasta el Cielo” (See you in Heaven) and the cry “Viva Cristo Rey” (Long live Christ the King) were the last echoes of their faith and brotherhood.

Martyrs of Hospitality

With the beatification of these 71 hospitaller martyrs the catholic martyrology has been enriched in a significant manner. This is not so much by reason of their number, but more for the precise and special way they died as martyrs of hospitality.

To the glorious crown common to all martyrs, is added in the case of our 71 hospitaller martyrs, as a shining ornament, the fact that they gave their lives to witness their vocation and consecration to hospitality in the service of the sick and needy as faithful imitators of Christ, the Good Samaritan, who passed through this world doing good and healing the oppressed.

Therefore, the 71 beatified Hospitaller Brothers, from now on, will be hailed by the Church as Witnesses of mercy and charity even to martyrdom.

The Patronage of the Blessed Virgin Mary

“In order to meet their debts they sought alms in every quarter. But they were not able to keep up the payment on the building work that had been done and were threatened with eviction unless they could pay twenty thousand francs. They did not know where to turn for the money.

One of the Brothers received two hundred francs from his relatives. Instead of putting it towards the debt, Br. John decided to buy a statue of Our Lady with it, consecrate the Province to her maternal protection and trust that she would find a way out of their difficulties. On the 19th November 1826, Brothers and patients knelt before the statue of Our Blessed Lady and she was appointed Superior-General. Her intervention was both rapid and efficacious.

Within a few days two cheques arrived which were quite unexpected, and enough to meet immediate needs. The letter containing one of the cheques was addressed to the Superiors of the Brothers of St. John of God and the postmaster would not hand it over at first believing it was not for them. But the Brothers saw in this a delicate gesture on the part of Our Lady and reward for their trust in her.

Since that time every year on the third Saturday of November, which is now the feast of the Patronage of the Blessed Virgin, the Brothers gather in front of the same statue and place themselves and their patients and hospitals under the protection of the Immaculate Mother of God.”

from The Story of the Hospitallers of St. John of God
Brother Norbert Mc Mahon, O.H.

© 1996 The Brothers of St. John of God

THE BROTHERS OF ST. JOHN OF GOD

Posted on Febbraio 24th, 2009 di Angelo |

Our Vision

to serve in a new century healing the spirit

As men in touch with the needs of our times, we are eager to contribute to the reshaping of our reality. We possess the spirit and will to continue the saving work of Jesus in the manner of St. John of God.

St. John of God was challenged by the needs of his time. He looked into himself and recognized the need to change. He looked outside of himself and saw the needs of suffering humanity. He surrendered to God and discovered a deeper relational integrity among the different dimensions of his life.

For over 400 years our Brothers have given of themselves to the care of those in need. In different parts of the world the Brothers have offered care and compassion.

Hospitality, the charism of the Brothers, has been a contemplative stance in an anxious world, a gift that gladdens the spirit and restores hope, a vital component that heals life.

Our response today has future implications, hence, we assess our resources and plan strategies that will assist us to transition our systems successfully into the future.

“The very richness of the charism we have received presupposes that it can be expressed in different forms according to specific circumstances of time and place. And this is why we live in an attitude of discernment and conversion, so that our mission in the Church may always correspond to God’s will for us and express our sense of unity.”

    (onstitutions 6.b.)

Mission Statement

We, Province of Our Lady Queen of the Angels, U.S.A., are called to witness to the people of God,
Christ’s healing love as expressed by our charism of hospitality, through a community of faith and a compassionate service to God’s suffering people.

TOGETHER IN
God’s loving
Jesus’ healing
John of God’s transforming
Our welcoming

Our Special Spirituality

As Hospitaller Brothers of St. John of God, we strive to incarnate in ever greater depth the sentiments of Christ towards the sick and those in need and to manifest these sentiments with actions of mercy: we make ourselves weak with the weak and help them as the most favored ones of the Kingdom; we proclaim to them the Father’s love and the mystery of their complete salvation; we defend their rights; and we offer our lives for them.

We dedicate ourselves with joy to helping those who suffer with those attitudes and actions, which characterize the Brother of Saint John of God: humble, patient and responsible service; respect for, and faithfulness to, the person; understanding, loving-kindness and self-denial; sharing in the anxieties and hopes of those who suffer. For them our life is a sign and proclamation of the coming of the kingdom of God.

 

Our Mission in the Church

 

Encouraged by the gift we have received; we consecrate ourselves to God and dedicate ourselves to serving the Church in the assistance of the sick and those in need, with a preference for the poorest. In this way we show that the compassionate and merciful Christ of the Gospel is still alive among men and we work with him for their salvation. When he called us to be Hospitaller Brothers of Saint John of God, God chose us to form a community of apostolic life and so it is our desire to live out in communion
with each other the love of God and our neighbor. We feel that we are brothers of all mankind and we dedicate ourselves chiefly to the service of the weak and the sick; their needs and sufferings touch our hearts and lead us to alleviate those needs and sufferings and to work for the personal development and advancement of such people.

Our Charism as Expressed in Practice

We feel that we are the responsible custodians of the gift of hospitality, which gives our Order its characteristic identity. This binds us to live our charism with fidelity, preserving, deepening and constantly developing it within the Church, our openness to the Spirit, to the signs of the times, and to people’s needs, will show us how we are to incarnate it creatively in any given time or situation.

( Constitutions of the Hospitaller Order of St. John of God)

HISTORIA DE LA VIDA Y SANCTAS OBRAS DE IUAN DE DIOS – Francisco de Castro

Posted on Febbraio 24th, 2009 di Angelo |

ORDEN HOSPITALARIA DE SAN JUAN DE DIOS

 

PROYECTO SOBRE FUENTES Y BIBLIOGRAFIA JUANDEDIANAS

 

Historia de la vida y sanctas obras de Iuan de Dios,

y de la institución de su orden, y principio de su hospital. Compuesta por el Maestro Francisco de Castro, Sacerdote Rector del mismo hospital de Iuan de Dios de Granada. Dirigida al Ilustrissimo Señor Don Iuan Mendez de Salvatierra, Arçobispo de Granada. Con privilegio. En Granada, en casa de Antonio de Libríxa. Año de MDLXXXV.

(Transcripción de la obra de Francisco de Castro hecha por GOMEZ-MORENO, Manuel, San Juan de Dios. Primicias Históricas Suyas. Dispuestas y Comentadas por Manuel Gómez-Moreno. (Madrid 1950).

Francisco de la Torre Rodríguez


Madrid, Marzo de 1997

 

INDICE CAPITOLI


  1. DEL NASCIMIENTO Y NATURAL DE IOAN DE DIOS.

  2. DE OTRO CASO QUE LE SUCEDIO A IOAN EN LA GUERRA, QUE FUE MEDIO DE DEXALLA.

  3. COMO VOLVIO A SU TIERRA IOAN DE DIOS, Y LO QUE LE SUCEDIO.

  4. DE LO QUE DESPUES DESTO LE SUCEDIO A IOAN DE DIOS.

  5. DE LO QUE LE SUCEDIO A IOAN DE DIOS HASTA VOLVER A ESPAÑA.

  6. DE LO QUE SUCEDIO A IOAN DE DIOS HASTA SU CONVERSION POSTRERA A DIOS.

  7. DE LA CONVERSION DE IOAN DE DIOS PARA EL SEÑOR.

  8. DE LO QUE DESPUES SUCEDIO A IOAN, Y COMO FUE TENIDO POR LOCO.

  9. COMO EL PADRE AVILA ENVIO A VISITAR Y CONSOLAR A IOAN DE DIOS AL HOSPITAL.

  10. DE COMO IOAN DE DIOS FUE A NUESTRA SEÑORA DE GUADALUPE EN ROMERIA.

  11. COMO IOAN DE DIOS VOLVIO A GRANADA, Y POR CUYO CONSEJO.

  12. DEL PRIMER HOSPITAL QUE TUVO IOAN DE DIOS.

  13. DE OTRAS OBRAS EN QUE SE EXERCITABA EL SIERVO DE DIOS.

  14. DE LA GRAN CARIDAD DEL HERMANO IOAN DE DIOS.

  15. DE LA PACIENCIA DE IOAN DE DIOS Y DE SU MUCHA HUMILDAD.

  16. COMO LE COMPRARON A IOAN DE DIOS UNA CASA PARA HOSPITAL, Y OTRAS COSAS QUE DESPUES SUCEDIERON.

  17. DE LA PENITENCIA DEL SIERVO DE DIOS, Y DEL PRINCIPIO DE SU HABITO.

  18. DE SU CONTINUA ORACION, Y COMO FUE PERSEGUIDO DEL DEMONIO Y DIXO ALGUNAS COSAS OCULTAS ANTES QUE SUCEDIESEN.

  19. DEL FERVIENTE CELO QUE TENIA DE LA HONRA DE DIOS Y DE LA SALVACION DE SUS PROXIMOS.

  20. DE LA MUERTE DE IOAN DE DIOS.

  21. DEL ENTERRAMIENTO Y OBSEQUIAS DE IOAN DE DIOS.

  22. DE LO QUE SUCEDIO DESPUES DE LA MUERTE DE IOAN DE DIOS.

  23. DE EL ORDEN QUE HOY DIA TIENEN LOS HERMANOS DEL HOSPITAL DE IOAN DE DIOS, Y EL FRUCTO QUE POR TODAS PARTES HAN HECHO.

  24. DE LA VIDA DE PEDRO PECADOR

  25. DE LA VENIDA DE PEDRO PECADOR AL HOSPITAL DE IOAN DE DIOS, Y DE SU MUERTE.

  26. DEL TRASLADO EN LENGUA CASTELLANA DE LA BULA DE FUNDACION E INSTITUCION, APROBACION Y CONFIRMACION DEL HOSPITAL DE IOAN DE DIOS DESTA CIUDAD DE GRANADA, Y LA LICENCIA Y CONCESION QUE SE DIO AL HERMANO MAYOR Y HERMANOS QUE PIDEN LIMOSNA PARA LOS POBRES DEL DICHO HOSPITAL, PARA QUE PROFESASEN Y TOMASEN HABITO DE CAPOTE DEBAXO DE LA REGLA DE SANT AGUSTIN, Y HICIESEN VOTO DE OBEDIENCIA AL PERLADO, POR EL MUY SANCTO PADRE PIO QUINTO DE FELICE RECORDACION.

CAPITULO I

DEL NASCIMIENTO Y NATURAL DE IOAN DE DIOS.

En el año del Señor de mil y quinientos y treinta y ocho, reinando en España el Emperador Carlos quinto, y siendo Arzobispo de la ciudad de Granada don Gaspar de Avalos, valeroso, prudente y buen pontífice, y que alcanzó felicidad en sus tiempos, de florecer en su obispado hombres señalados en sanctidad y virtud; entre los cuales fue uno, pobre, baxo y desechado en los ojos de los hombres, pero muy conocido y estimado en los de Dios, pues mereció llamarse de su apellido Ioan de Dios. El cual fue de nación portoguesa, de un pueblo llamado Montemayor el Nuevo, que es en el obispado de Evora en el reino de Portugal: nació de padres medianos, no ricos ni pobres del todo; criose con sus padres hasta edad de ocho años, y de allí, sin sabello ellos, fue llevado por un clérigo a la villa de Oropesa, donde vivió mucho tiempo en casa de un buen hombre llamado el Mayoral. Como fue de edad suficiente, lo envió al campo en compañía de otros criados suyos que guardaban ganado; servía de llevar y traer bastimento y lo que era menester para los pastores con toda diligencia, porque como le faltaron los padres en tan tierna edad, procuró de agradar y servir a este buen hombre, en el oficio que está dicho y de pastor, todo el tiempo que en su casa estuvo, por donde le tenían mucha voluntad sus amos, y era querido de todos. Siendo mancebo de veinte y dos años le dio voluntad de irse a la guerra, y asentó en una compañía de infantería de un capitán llamado Ioan Ferruz, que a la sazón enviaba el Conde de Oropesa en servicio del Emperador para el socorro de Fonterrabía; cuando el Rey de Francia vino sobre ella; movido Ioan con deseo de ver el mundo y gozar de libertades, que comúnmente suelen tener los que siguen la guerra, corriendo a rienda suelta por el camino ancho (aunque trabajoso) de los vicios, donde pasó muchos trabajos, y se vio en muchos peligros. Estando, pues, en esta frontera, un día faltóles a él y sus compañeros la provisión; y como hombre mancebo y más diligente, ofrecióse a ir a buscar de comer a unas caserías o cortijos, que estaban de allí algo apartados; y para ir y volver con más brevedad subió en una yegua francesa, que de los contrarios habían tomado; y siendo como dos leguas apartado de las estancia de donde había salido, la yegua, reconociendo la tierra donde solía andar, arremetió furiosamente para entrarse en su natural, y como no llevaba freno más que un cabestro con que la guiaba, no pudo ser parte para detenerla; y tanto corrió por el halda de una sierra, que dio con él un gran golpe entre unas peñas, donde estuvo sin sentido más de dos horas, echando sangre por la boca y por las narices y fuera de todo su sentido, como muerto, sin haber por allí quien le viese y socorriese en tanto peligro. Vuelto en sí atormentado de la caída que había dado, y visto que corría otro peligro no menor, de ser preso de los contrarios, se levantó lo mejor que pudo de tierra; no pudiendo apenas hablar, se hincó de rodillas, los ojos puestos en el cielo, invocando el nombre de nuestra Señora la Virgen María, de que siempre fue devoto, comenzó a decir: Madre de Dios, sed en mi ayuda y favor y rogad a vuestro sancto hijo me libre deste peligro en que estoy, y no permita que sea preso de mis enemigos. Esforzóse algún tanto, y tomando un palo en las manos, que allí halló, con que se ayudaba a andar, se fue poco a poco adonde los compañeros estaban esperándole. Como lo vieron venir tan mal tratado, creyendo que los enemigos habían encontrado con él, le preguntaron cómo venía así. El les contó el caso de lo que le había acontecido con la yegua, y ellos le hicieron acostar en una cama, y le hicieron sudar con mucha ropa que le echaron encima, y así de ahí a pocos días guareció y estuvo bueno.

CAPITULO II

DE OTRO CASO QUE LE SUCEDIO A IOAN EN LA GUERRA, QUE FUE MEDIO DE DEXALLA.

No pasaron muchos días en que se vio en otro peligro mayor que éste; y fue, que su capitán le dio a guardar cierta ropa, que había tomado a unos soldados franceses, y descuidándose y no poniendo en ella buen recaudo, se la hurtaron; y sabiéndolo el capitán, recibió dello tanto enojo, que sin querer oir los ruegos de muchos soldados que por él rogaban, le mandó ahorcar de un árbol. Acertó a pasar por allí una persona generosa, a quien el capitán tuvo respecto, y sabida la causa le rogó, que no acabase de poner en execución lo mandado, y que no pareciese más adelante del capitán, y que se fuese luego del campo. Viendo Ioan el peligro en que andaba su vida, y el mal pago que el mundo daba a quien más le seguía, determinó de volverse a Oropesa en casa de su amo Mayoral, y tornar a la vida quieta de pastor que antes había tenido, pareciéndole cuan más segura era para todo que la de la guerra. Mucho contento recibió su amo con él, porque lo amaba como a hijo, por ser fiel y diligente y habello criado en su casa. Estuvo esta segunda vez con él sirviéndole cuatro años, al cabo de los cuales, como la juventud no suele reposar en los mozos, ni asentar con pocas experiencias, estando un día con sus compañeros en el campo con el ganado, supo cómo el Conde de Oropesa pasaba con gente a Hungría en servicio del Emperador, cuando fue a Viena a resistir la entrada por allí del Turco. Informado bien Ioan desto, determina pasar en la casa del Conde, como en efecto pasó, no se le acordando ya de lo que había pasado en Fonterrabía. Todo el tiempo que el Conde estuvo en Hungría en el campo del Emperador sirvió Ioan con mucha diligencia en su casa, de manera que era amado de todos. Fenecida la guerra y retirado el Turco, se volvió con el Conde por mar a España, y desembarcando en el puerto de la Coruña vino a Oropesa, y Ioan desembarcó con él.


CAPITULO III

COMO VOLVIO A SU TIERRA IOAN DE DIOS, Y LO QUE LE SUCEDIO.
Así como el Conde desembarcó, tuvo gran deseo Ioan de ir a su tierra, porque le pareció desde allí cómodo camino, y porque nunca más allá había tornado después que della salió siendo niño, y por saber de sus padres y parientes. Se puso en camino y llegó a Montemayor el Nuevo, y preguntando por sus padres, ninguno de sus parientes le conocía, como había salido tan pequeño de la tierra, ni le sabían dar razón dellos, porque aun los nombres de sus padres no sabía; y andando de unos en otros, topó un tío suyo, viejo honrado y de buena vida, y hablando con él y por las señas que daba de sus padres y en la physonomía del rostro le conoció, y preguntó qué había sido dél después que salió de aquella tierra. Ioan de Dios se lo contó, y le dio parte de todo lo sucedido después que le sacaron de casa de su padre; y habiendo hablado los dos gran parte del día, preguntándose el uno al otro, le dixo el tío: Hijo, habeis de saber que vuestra madre falleció de ahí a pocos días que a vos os sacaron desta tierra, y según fue su dolor y pena que sintió de vuestra ausencia, y de no saber quién os había llevado ni dónde ni cómo, siendo tan chico, entendimos todos que la pena desto había acortado tan presto sus días y fue la principal causa de su muerte; y de vuestro padre, de ahí a pocos días, como se vio sin mujer y sin hijos, se fue a Lisboa donde se metió en un monasterio y recibió el hábito del señor san Francisco, y en él acabó muy sanctamente sus días. Por tanto, si vos, hijo, queréis reposar en esta tierra y estar en mi casa, yo os favoreceré y tendré en lugar de hijo todo el tiempo que quisiéredes mi compañía, como lo vereis por la obra. Mucho sintió Ioan de Dios la muerte de sus padres, y especial por parecelle que había él sido parte de sus trabajos, y bien lo mostraba llorando y diciendo muchas lástimas, que provocaba a lágrimas de su tío, y así le agradeció mucho esta voluntad y lo que que por él había hecho; y viéndose sin padres y solo y no conocido de sus deudos, después de pasado gran rato, le dixo: Señor tío, pues Dios fue servido de llevarse a mis padres, mi voluntad es de no quedar en esta tierra, sino de buscar a donde sirva a nuestro Señor fuera de mi natural, como mi padre lo hizo, y dello me dexó tan buen exemplo; y pues he sido tan malo y pecador, razón es que, pues el Señor me ha dado vida, que la que fuere la emplee en hacer penitencia y serville; que yo confío en mi señor Iesu-Cristo que me dará su gracia para que este deseo le ponga muy de veras en execución; por tanto deme su bendición y encomiéndeme mucho a Dios que me tenga de su mano, y nuestro Señor le pague la buena voluntad y recibimiento que en su casa me ha hecho. Y el tío le dio su bendición, y abrazándose los dos se despidieron no sin abundancia de lágrimas, y mirando al cielo el buen viejo le dixo: Señor, que ha de favorecer muy de veras vuestros buenos deseos, y que las oraciones de vuestros buenos padres os han de ayudar mucho para que les vais a tener compañía.

CAPITULO IV

DE LO QUE DESPUES DESTO LE SUCEDIO A IOAN DE DIOS.

Despedido ya del tío y recebida su bendición, se vino para el Andalucía, y en tierra de Sevilla asentó por ganadero de una señora de ganado, donde estuvo algunos días exercitándose en aquel oficio; que como se había criado en él, teníale más afición que a otro ninguno. Y así parece que nuestro Señor le quiso exercitar en estos dos oficios algún tiempo, de pastor y de la guerra, los cuales son muy apropiados, y se ofrecen muy a la mano, especial el de la guerra, a la vida espiritual; que es tan propia a ella, que bien echa de ver el hombre, en comenzándola, que no le conviene jamás dexar las armas de la mano, peleando a todas horas con demonio, mundo y carne, como bien lo hizo Ioan; se exercitó en el de pastor, siéndolo y caudillo de tantos pobres y miserables, procurándoles con tan buena industria el pasto espiritual y temporal y la cura de sus cuerpos. Y así decía él, que le daba gran dolor, cuando estando en casa del Conde de Oropesa vía en la caballeriza los caballos gordos y lucios y bien encubertados, y los pobres flacos y desnudos y mal tratados; y él entre sí decía: Y cómo, Ioan, ¿no será mejor que entiendas en curar y apacentar los pobres de Iesu-Cristo, que no bestias del campo? Y sospirando decía: Dios me traiga a tiempo que lo haga. Y con este vehemente deseo, y como por entonces no vía el camino que nuestro Señor le había de dar para serville (aunque le había dado la voluntad), andaba triste y no tenía sosiego ni reposo, ni le daba contento ya el guardar las ovejas. Y así, después que estuvo algunos días con esta señora, un día, estando pensando qué haría para dexar el mundo, le dio gran voluntad de pasar a las partes de Africa y ver aquella tierra y estar algún tiempo en ella, y luego lo puso por la obra; y despidiéndose de su ama se fue para Gibraltar, que es frontera de Ceuta, y como nuestro Señor le encaminaba para que, con algunas obras de caridad heroicas en que se exercitase, mereciese algo de la merced que le había de hacer, enderezóle a que topase en Gibraltar un caballero portogués que topó; el cual con su mujer y casa y cuatro hijas doncellas pasaba a Ceuta, desterrado por el Rey de Portugal por ciertos delictos que había cometido, por los cuales le había quitado toda su hacienda y mandado que sirviese en aquella frontera ciertos años. Pues como hablase con él y le contase su intención, él se ofreció de llevalle y hacelle muy buen tratamiento, y pagárselo muy bien. Desta manera concertados los dos, se embarcaron y llegaron a Ceuta.


CAPITULO V

DE LO QUE LE SUCEDIO A IOAN DE DIOS HASTA VOLVER A ESPAÑA.

Como hobieron todos llegado a Ceuta, de tal manera probó la tierra a este caballero y a su casa que así por esto es de creer, como por la pena grande que tenían de verse desterrados y pobres, todos cayeron malos. Lo cual fue causa de acabar de gastar lo poco que traían y verse en suma necesidad; de manera que les fue forzado pedir socorro a Ioan de Dios, que aunque flaco, por entonces fue el mayor que se les ofreció, según el lugar y el tiempo. Y así, acordó el caballero de llamar a Ioan en secreto y descubrille toda su necesidad, representándole cuan forzoso era, por acudir a aquellas pobres doncellas honestas y que se habían criado en abundancia, y rogándole, pues todos no tenían otro remedio, que le pluguiese de ir a trabajar a las obras del Rey, que a la sazón se hacían en la misma Ceuta, de la fortificación de unas murallas. y que de lo que le diesen comerían todos. Oídas por Ioan estas razones (que de suyo movían tanto, y especial el corazón de Ioan, que y lo estaba mucho para cualquiera obra que conocía ser servicio de nuestro Señor, y de quél se agradaba) fueron para él de tanta persuasión, viendo que le abría camino para su deseo, que a la hora se le ofreció muy de voluntad a hacello como se le pedía; y así lo hizo todo el tiempo que en su casa estuvo, dándole cada noche el jornal que ganaba de buena voluntad, viendo que con él se mantenían aquellas pobres doncellas y sus padres. Y (si) acontecía, que Ioan por algún impedimento no iba a trabajar o no lo traía, habiendo trabajado, por no dárselo, no lo comían, y así pasaban con mucha paciencia sin dar cuenta a nadie. Era tan buena esta obra, y al parecer tan acepta a nuestro Señor, que algunas veces decía Ioan de Dios, que entendía que nuestro Señor por su mucha bondad le había encaminado a que se exercitase aquel tiempo en aquella obra para que mereciese algo de la merced que después le había hecho. Viendo, pues, el demonio, nuestro adversario, el fructo desta buena obra ser tal para el que la hacía y lo que la recibían, procuró impedille con su acostumbrada malicia; y fue así, que siendo la gente que andaba en las obras maltratada de los ministros del Rey, así de obras como de palabras, como si fueran esclavos, y no pudiendo ellos, por ser frontera, usar de su libertad e irse a tierra de cristianos, algunos de mal sufridos, y como es de creer, de malas costumbres, se iban a tornar moros huyendo a Tituán, que está cerca; entre los cuales fue un compañero de Ioan, con quien había trabado amistad, que sin dalle parte de nada, engañado del demonio, se huyó y se fue a tornar moro. Fue tan grande el dolor que Ioan de Dios sintió de la desventura de su compañero, que no hacía sino llorar y gemir; diciendo: Oh ¡pobre de mí!, qué cuenta daré yo deste hermano, que así se ha querido apartar del gremio de la sancta Madre Iglesia, y negar la verdad de su fee, por no querer sufrir un poco de trabajo! Y ocupado su entendimiento en esta imaginación, y persuadiéndose el demonio que por su culpa había ido, y él no resistiéndole por su flaqueza, vino casi a persuadille que desesperase de poderse salvar, y a que hiciese otro tanto como su compañero. Mas nuestro buen Señor, que tenía puestos los ojos en él y le guardaba para mayores cosas, acorrióle a la mayor necesidad (como es su costumbre) y tuvo por bien de abrille los ojos del alma, y dalle a entender el peligro en que estaba, y proveelle del remedio necesario, que fue guialle al médico espiritual, el cual él ya había pedido con muchas lágrimas y sospiros invocando el favor de la Virgen nuestra Señora; y fuese a un monasterio de la orden de sant Francisco, que hay allí en Ceuta, y topóle nuestro Señor un fraile docto y de buena vida, con el cual confesó muy de espacio, y le descubrió sus llagas, y él le dio el remedio que por entonces convenía, mandándole expresamente, entre otras cosas, que luego se fuese de aquella tierra, y se pasase a España para amatar de todo punto aquella diabólica tentación, que como tan importante convenía remedio eficaz. El cual lo supo luego por obra lo más aina que pudo (aunque haciéndosele bien de mal) viendo la falta que a sus amos haría; pero, viendo que convenía, lo pospuso todo, y se fue a ellos y les dixo, que aquella jornada convenía a la salud de su ánima, y que no podía escusarse; que le perdonasen, que él quisiera hacelles aquel servicio, con la voluntad que hasta allí, que confiasen en él y le diesen licencia. No se puede decir lo que padre y hijos sintieron esta nueva; y visto que no se escusaba, llorando todos se la dieron, y le dixeron que al Señor pluguiese de dalle siempre el socorro en sus cosas que él les había dado, y así hallase su ayuda; y con tanto se despidió de ellos, y se embarcó y vino para Gibraltar.

CAPITULO VI

DE LO QUE SUCEDIO A IOAN DE DIOS HASTA SU CONVERSION POSTRERA A DIOS.

Luego que desembarcó Ioan de Dios en Gibraltar se fue a una iglesia, y hincado de rodillas delante la imagen de un Crucifixo, dio muchas gracias a nuestro Señor, diciendo: Bendito seais vos, Señor, que es tanta vuestra bondad, que a un tan gran pecador como yo, y que tan mal os lo ha merecido tuvistes por bien el libralle de un engaño tan grande y tentación en que por mis grandes pecados caí, y traerme a puerto de seguridad, donde procuraré con todas mi fuerzas serviros, dándome vos vuestra gracia; y así os suplico cuanto puedo, Señor mío, me la deis y no aparteis de mí los ojos de vuestra clemencia, y tengais por bien de enseñarme el camino por donde tengo de entrar a serviros y ser para siempre vuestro esclavo, y dad ya paz y quietud a esta alma, en que halle lo que tanto desea y con tanta razón; pues sois, Señor, dignísimo de que vuestra criatura os sirva y alabe, y se entregue a vos de todo su corazón y voluntad. Estuvo allí algunos días, en lo cuales se preparó y hizo una confesión general, y de continuo se entraba en las iglesias a orar cuando le vagaba, y pedía siempre a nuesto Señor, muy de corazón y con lágrimas, perdón de sus pecados, y que le encaminase en lo que le había de servir. Iba siempre a trabajar a lo que hallaba; y como se contentaba con poco sustento, ahorraba del jornal, y así llegó algunas blanquillas, con que compró algunos libros devotos y cartillas e imágines de papel, para volver a vender yendo por los lugares comarcanos de uno en otro, pareciéndole que en este oficio viviría con más quietud y más virtuosamente que hasta allí, y que con él aprovecharía a todo género de gente; porque compraba también algunos libros profanos, y cuando alguno llegaba a comprar alguno dellos, tomaba aquello por ocasión para decille que no le comprase sino uno devoto y bueno; así los persuadía y amonestaba a que leyesen buenos libros, y les daba algunos buenos documentos y especial a los niños. Con este pío ardid les amonestaba muy buenas cosas, y después daba más de buen precio el devoto libro y porque le comprasen, y infamado su mercaduría temporal por vender la espiritual, por el interese eterno que de allí pretendía; y lo mismo hacía on las imágines, persuadiendo a todos y diciendo, que nadie estuviese sin ellas, para avivar de contino la devoción viéndolas, y la memoria de lo que en ellas nos despiertan y representan, y las cartillas para que enseñasen a sus hijos la doctrina cristiana; y tenía en esto tan buena gracia y era tan humano y afable a todos, que muchos compraban lo que no pensaban, por lo que él les decía con buena gracia y amor; y así, con esto en poco tiempo vino a aumentar el caudal espiritual y temporal; porque demás de las buenas obras que en esto hacía, haciendo a muchos que leyesen buenos libros (que cosa notoria es cuan gran bien dello resulte), también aumentó el caudal de los libros, que vino a tener más y mejores; y pareciéndole mucho trabajo andar siempre con el hato a cuestas y de lugar en lugar, determinó de venir a Granada y vivir en ella de asiento; y así lo puso por obra, y se vino a ella de edad de cuarenta y seis años, y tomó casa y puso tienda en la puerta Elvira, donde estuvo usando su oficio hasta que nuestro Señor fue servido de llamarle para que sirviese en otro mejor.

CAPITULO VII

DE LA CONVERSION DE IOAN DE DIOS PARA EL SEÑOR.

Estando, pues, el buen Ioan de Dios muy descuidado tratando en su oficio, el Señor, que no lo estaba de la merced que le había de hacer, se acordó dél, volviendo sus ojos de misericordia sobre él, y levantándole para otro oficio diferente; haciéndole, de gran pecador, gran penitente y justo, y despensero de sus pobres. Y fue así, que el día del bien aventurado mártir sant Sebastián, en la ciudad de Granada se hacía entonces una fiesta solemne en la ermita de los Mártires, que es en lo alto de la ciudad frontero del Alhambra; y sucedió predicar un excelente varón, maestro en theología, llamado el maestro Avila, luz y resplandor de sanctidad, prudencia y letras de todos los de aquel tiempo, y tal, que por su buen exemplo y doctrina en toda España hizo nuestro Señor gran fruto en las almas, en todos géneros de estados de gentes, tanto, que desto requeriría muy particular historia. Y como sus sermones fuesen tales y tan famosos, seguíale, con mucha razón, gran número de pueblo, y así fue aquel día; y entre los demás fue Ioan de Dioa a oille. Y como la tierra de su alma estuviese algún tanto dispuesta, por las confesiones y exercicios de caridad que tenemos dicho en que se exercitaba, de tal manera frutificó la semilla de la palabra de Dios en ella, que oídas aquellas razones vivas de aquel varón, en que engrandecía el premio que el Señor había dado a su sancto mártir, por haber padecido por su amor tantos tormentos, sacando de aquí lo que se debía poner un cristiano por servir a su Señor y no ofendelle, y padecer a trueque desto mil muertes; y ayudado con la gracia del Señor, que dio vida a aquellas palabras, de tal manera se le fixaron en sus entrañas y fueron a él eficaces, que luego mostraron bien su fuerza y virtud. Porque, acabado el sermón, salió de allí como fuera de sí, dando voces pidiendo a Dios misericordia, y en menosprecio de sí (aquel que ya de veras estimaba lo que es de estimar) se arrojaba por el suelo dándose cabezadas por las paredes, y arrancándose las barbas y las cejas, y haciendo otras cosas, que fácilmente sospecharon todos que había perdido el juicio. Y él, dando saltos y corriendo con las mismas voces, comenzó a entrar por la ciudad, siguiéndole mucha gente y especial muchachos, dándole grita: ¡al loco, al loco!, y él siguiendo su camino, hasta llegar a su posada, donde tenía la tienda y caudal. Y llegado que fue, echó mano de los libros que tenía, y los que trataban de caballerías y cosas profanas hacíalos con las manos muchos pedazos y con los dientes, y los que eran de vidas de sanctos y buena doctrina, dábalos libremente de gracia al primero que se los pedía por amor de Dios; y lo mismo hizo de las imágines y de todo lo demás que en su casa tenía; y como no faltasen menos al recebir, en breve tiempo quedó sin caudal y desnudo de todos bienes temporales; porque no paró sólo en eso, sino los vestidos que tenía encima de sí dio también, desnudándoselos y dándolo todo, que no le quedó sino la camisa y unos zaragüelles, que reservó para cubrir su desnudez. Y así desnudo, descalzo y descaperuzado, siguió otra vez por las calles más principales de Granada dando voces, queriendo, desnudo, seguir al desnudo Iesu-Cristo, y hacerse del todo pobre, por el que siendo la riqueza de todas sus criaturas, se hizo pobre por mostralles el camino de la humildad. Así, Ioan, desta manera fue pidiendo misericordia al Señor por las calles; y siguiéndole mucha gente por ver las cosas que hacía llegó a la iglesia mayor, donde puesto de rodillas comenzó a dar voces diciendo: ¡Misericordia, miseriordia, Señor Dios, deste grande pecador que os ha ofendido!; y arañándose la cara y dándose bofetadas y golpes con el cuerpo en tierra, no cesando de llorar y dar gritos y pedir a nuestro Señor perdón de sus pecados. Fue tanto lo que desto hacía, que visto por personas honradas, y movidas de compasión, considerando que no era locura, como el común juzgaba, lo levantaron del suelo, y animándole con palabras amorosas lo llevaron a la posada del padre Avila, por cuyo sermón se había convertido, y le contaron todo lo que le había sucedido después del sermón. Y él mandó salir fuera toda la gente que con él venía, y se quedó en el aposento a solas con él, y Ioan de Dios se hincó de rodillas a su pies, y después de habelle dado breve relación del discurso de su vida, con grandes muestras de contrición le manifestó sus pecados, y le dixo que le recibiese debaxo de su amparo y consejo, pues por medio suyo le había el Señor comenzado a hacer tantas mercedes; que él desde aquella hora le tomaba por su padre y profeta del Señor, y estaba aparejado a obedecelle hasta la muerte.


CAPITULO VIII

DE LO QUE DESPUES SUCEDIO A IOAN, Y COMO FUE TENIDO POR LOCO.

El padre maestro Avila daba muchas gracias a nuestro Señor de ver las grandes muestras de contrición del nuevo penitente, y lo que mostraba sentir el haber ofendido a nuestro Señor; y él le concedió y le admitió por hijo de confesión desde entonces, y se ofreció que tendría cuidado de aconsejalle lo que le conveniese, diciéndole: Hermano Ioan, esforzaos mucho en nuestro Señor Iesu-Cristo, y confiá en su miseriordia, que el que comenzó esta obra la acabará, y sed fiel y constante en lo que comenzastes; no volvais atrás ni os dexeis rendir del demonio; sabed que lo que pelean como buenos caballeros en la milicia de este Señor hasta la fin, se gozarán con él en la gloria, y los que volvieren las espaldas como cobardes caerán en manos de sus enemigos, y perecerán para siempre; y cuando os sintiéredes desconsolado y afligido (que no puede ser menos) de algunos trabajos y tentaciones, que suelen suceder a los que nuevamente comienzan a pelear las batallas del Señor, veníos a mí, que sabiendo los golpes y heridas que más os dan pena, y las asechanzas con que más os combate el adversario, con la gracia y favor de nuestro Señor llevareis medicina saludable con que sea curada vuestra ánima, y nuevas fuerzas para pelear contra vuestros enemigos; e id en hora buena, con la bendición de Dios y la mía; que yo confío en el Señor que no os será negada su misericordia. Salió Ioan de Dios tan consolado y animado de las palabras y buenos consejos de aquel sancto varón, que de nuevo cobró fuerzas para menospreciarse y mortificar su carne, y desear ser de todos tenido y estimado por loco y malo y digno de todo menosprecio y deshonra, por mejor servir y agradar a Iesu-Cristo, que sólo en sus ojos vivía, y mejor encubrir con esta sancta cautela la gracia que de su mano había recebido. Y para esto tomó por medio, en saliendo de con el padre Avila, irse a la plaza de Bivarrambla, y en un lodazal que allí estaba, se metió todo y se envolvió en él, y puesta la boca en el cieno, comenzó a grandes voces a confesar delante de todos los que le miraban (que era asaz gente), cuantos pecados se le acordaron, diciendo: Yo he sido grandísimo pecador a mi Dios, y le he ofendido en esto y en esto; pues un traidor que tal ha hecho, ¿qué merece?, que de todos sea herido y maltratado, y tenido por lo más vil del mundo, y echado en el cieno y lodo, donde se echan las inmundicias. Toda la gente del vulgo, como vio esto, no creyeron sino que había perdido el juicio; mas como él estaba ya inflamado de la gracia del Señor, y deseaba morir por él, y ser corrido y menospreciado de todos, para que lo pusiesen por obra, salido de el lodo, comenzó a correr, así como estaba, por las calles más principales de la ciudad, dando saltos y haciendo muestras de loco. Y como los muchachos y gente común lo vieron, comienzan a seguille y dalle grita grande tropel dellos, y tirábanle tierra y lodo y otras muchas inmundicias; y él con mucha paciencia y alegría, como si fuera a fiestas, sufriéndolo todo, paresciéndole gran dicha llegar al cumplimiento de sus deseos, que era padecer algo por el que tanto amaba, y sin hacer mal a nadie. Llevaba un cruz de palo en las manos, y daba a besar a todos, y diciéndole cualquier persona que besase la tierra por amor de Iesús, luego obedecía y lo hacía, aunque hobiese mucho lodo y se lo mandase un niño. Esto hizo algunos días con tanto hervor, que muchas veces caía en tierra de cansado y molido de la grita y empellones y pescozadas que le daban; porque él se daba tan buena maña a fingir la locura (que realmente fue de casi todos tenido por loco), y estaba tan flaco, del continuo trabajo que todos le daban y del poco comer, que no se podía tener en los pies; y con todo esto no se hartaba de oprobios, ofreciendo con alegre rostro (sin quexarse ni contradecir) su cuerpo a las pedradas y golpes que los muchachos le tiraban. Y viéndolo dos hombres honrados de la ciudad, compadeciéndose dél, lo tomaron por la mano, y sacándolo de entre el tumulto del pueblo, lo llevaron al hospital Real, que es do recogen y curan los locos de la ciudad, y rogaron al mayordomo tuviese por bien de recebillo y hacello curar, y metello en un aposento donde no viese gente y reposase, que quizá así sanaría de aquella locura que le había dado. Pues como el mayordomo lo había visto andar por la ciudad y el trabajo que había pasado, luego lo recibió, y mandó a un enfermero lo metiese dentro; y visto como venía tan maltratado, la ropa hecha pedazos, y lleno de heridas y cardenales, de los golpes y pedradas, luego lo pusieron en cura; y aunque a los principios procuraron de hacelle algún regalo para que volviese en sí y nos desfalleciese, como la principal cura que allí se hace a los tales sea con azotes, y metellos en ásperas prisiones y otras cosas semejantes, para que con el dolor y castigo pierdan la ferocidad y vuelvan en sí, atáronle pies y manos, y desnudo, con un cordel doblado le dieron una buena vuelta de azotes. Mas como su enfermedad era estar herido del amor de Iesu-Cristo, porque por su amor le diesen más azotes y le tratasen peor, les comenzó a decir desta manera: ¡Oh traidores enemigos de virtud! ¿porqué tratais tan mal y con tanta crueldad a estos pobres miserables y hermanos míos, que están en esta casa de Dios en mi compañía? ¿No sería mejor que os compadeciésedes dellos y de sus trabajos, y los limpiásedes y diésedes de comer con más caridad y amor que lo haceis; pues los Reyes Católicos dexaron para ello cumplidamente la renta que era menester? Pues como los enfermeros oían esto, pareciéndoles loco malicioso, y deseándole curar de lo uno y de lo otro, añadían a la disciplina recios azotes, más que a los otros que sólo estimaban por locos. Y él, no por eso dexaba, debaxo de aquel color, de reprehendelles de los descuidos en que entendía que caían, lo cual todo le libraban en doblalle la ración en azotes; y así por este medio padeció mucho más de lo que se puede decir, ofreciéndolo todo en su corazón a aquel por cuyo amor lo padecía, y por quien había tomado aquella empresa.


CAPITULO IX

COMO EL PADRE AVILA ENVIO A VISITAR Y CONSOLAR A IOAN DE DIOS AL HOSPITAL.

Sabido el maestro Avila, que Ioan de Dios estaba en el hospital Real preso por loco; como aquel que sabía bien la causa de su enfermedad y locura, enviólo luego a visitar con un discípulo suyo, enviándole a decir, que se holgaba mucho de todo su bien, en ver que comenzaba a padecer alguna cosa por amor de Iesu-Cristo; que le rogaba de su parte, por el mismo Señor, hiciese como buen soldado animoso, poniendo la vida por su Rey y señor; y que todos los trabajos que su Majestad le enviase, los recibiese con humildad y paciencia, y que si consideraba lo que nuestro Redemptor padeció en la cruz, cualquiera tormento le parecería liviano, y decíale más: Ensayaos, hermano Ioan, ahora que teneis tiempo, para cuando salgais a pelear contra los tres enemigos por el mundo y confiá en el Señor, que no os desamparará. Por gran favor y consuelo tenía el hermano Ioan, que su buen padre el maestro Avila le enviase a visitar y se acordase dél, estando en aquella prisión olvidado de todos; y que él solo, después del Señor, le tuviese en la memoria para consolalle en sus trabajos; y así lloraba de alegría que sentía desta merced que el Señor le hacía, y respondióle así: Decidle a mi buen padre, que Iesu-Cristo le visite y le pague la buena obra que siempre me hace; que aquí está su esclavo, ganado por buena guerra, esperando en la misericordia del Señor, y que soy siervo malo y sin provecho; que por amor de nuestro Señor, que no me olvide de encomendarme a su Majestad en sus oraciones, que con esto viviré contento y esperaré no me faltará su socorro. Con estas y semejantes palabras se visitaban los dos secretamente, y se entendían el uno al otro. Los enfermeros del hospital tenían mucha cuenta con él, y de cuando en cuando, como le vían alterado y él les daba la ocasión (como está dicho), no dexaban de dalle sus disciplinas, como a los demás, con intención de velle sano, y él lo recibía alegremente, y les decía: Dadle, hermanos, a esta carne traidora, enemiga de lo bueno, que ella ha sido causa de tomo mi mal; y pues yo la obedecí, razón es que paguemos los dos, pues los dos pecamos. Y viendo castigar los enfermos que estaban locos con él decía: Iesu-Cristo me traiga a tiempo y me dé gracia para que yo tenga un hospital, donde pueda recoger los pobres desamparados y faltos de juicio y servirles como yo deseo. Y así se lo cumplió nuestro Señor muy cumplidamente, como después se dirá. Pasados algunos días, que Ioan de Dios estuvo en el hospital padeciendo estos trabajos y otros muchos, para mejor disimular y poner en execución la voluntad y ansia que tenía de servir a nuestro Señor en sus pobres, y pareciéndole ya tiempo, comenzó a mostrar que estaba quieto y sosegado, y a dar gracias a Dios con lágrimas y sospiros, y decir: Bendito sea nuestro Señor, que ya me siento sano y libre, y mejor que yo merezco, del dolor y angustia que en mi corazón sentía los días pasados. El mayordomo y oficiales recibieron mucho placer de velle más reposado y oille decir estaba mejor; y así luego le quitaron las prisiones, y le dieron libertad que anduviese suelto por la casa; y él se comidió luego, sin esperar a que le dixesen algo, a servir a los pobres en todos los oficios con mucho amor, fregando y barriendo y limpiando los servicios. Los enfermeros recebían mucho contento en velle, que libre de tal enfermedad tan bien había cobrado el juicio, que a todos les precedía en la caridad y diligencia con que a los pobres servía; y así daban gracias a nuestro Señor.

CAPITULO X

DE COMO IOAN DE DIOS FUE A NUESTRA SEÑORA DE GUADALUPE EN ROMERIA.

Empleándose Ioan de Dios en lo que está dicho, y estando un día sentado a la puerta del hospital, pensando en sus trabajos y en las mercedes que de nuestro Señor había recebido, mirando el campo, día de las once mil Vírgines, vio pasar por delante del hospital mucha gente a caballo y grande clerecía y otras personas religiosas, que traían y acompañaban el cuerpo de la Emperatriz, mujer del Emperador Carlos V, para dalle sepultura en la Capilla Real de Granada, que entonces había pasado desta vida presente. Y informado de lo que era, y nuevamente estimulado con aquel espectáculo, dióle gran voluntad de salir luego del hospital y poner por obra sus buenos deseos, que era de servir a nuestro Señor y a los pobres, y buscalles de comer, y recoger los desamparados y peregrinos; porque en aquel tiempo (como tierra poco había ganada) aún no había hospital donde se recogiesen en la ciudad. Y con esta determinación se fue al mayordomo y le dixo: Hermano, nuestro Señor Iesu-Cristo le pague la limosna y caridad que en esta casa de Dios se me ha hecho el tiempo que aquí he estado enfermo; ahora, bendito nuestro Señor, me siento bueno y sano para poder trabajar; por tanto, por amor de Dios, me dé licencia para irme si él manda. Yo quisiera, dixo el mayordomo, que estuviérades algunos días más en casa, para que convaleciérades y tomárades fuerzas, que estais muy flaco y maltratado de el trabajo pasado; pero, pues nuestra voluntad es de iros, andad con la bendición de Dios, y llevad una cédula mía con vos para que la gente que os viere no os vuelva al hospital, creyendo que no estáis libre de la dolencia pasada, y que podais ir libremente donde quisiéredes. El la recibió con toda humildad, dándole contento de quedar en aquella opinión de que todos lo hobiesen juzgado por verdadero loco. Despedido Ioan de Dios de todos los de la casa, que en gran manera le amaban, muy roto y mal tratado el vestido, y descalzo y descaperuzado, tomó luego el camino de nuestra Señora de Guadalupe, y se fue para allá a visitar a la Virgen nuestra Señora, y dalle gracias de las ayudas y mercedes pasadas, y pedille nuevo socorro y ayuda para la nueva vida que pensaba hacer; porque decía que siempre había sentido su manifiesto favor y ayuda en todos sus trabajos y necesidades. En este camino padeció muchos trabajos de hambre, frío y desnudez, como era en lo recio del invierno y él no llevaba dinero, habíalo de pedir para comer, y como iba decalzo. Y con todo eso, por no ir ocioso, siempre llevaba estilo, cuando llegaba al lugar donde había de comer o parar, de llevar un haz de leña a cuestas, y íbase derecho al hospital, si le había, y allí lo llevaba para lo pobres y luego se iba a pedir lo que le bastaba para mantenerse con asaz austeridad. Llegado fue a Guadalupe, entró en la iglesia de rodillas, y con mucha devoción y lágrimas ofreció a nuestro Señor sus necesidades, y le dio gracias por lo que había recibido, y confesó y comulgó, y estuvo allí algunos días ocupado en oración, hasta que le pareció tiempo de volverse.


CAPITULO XI

COMO IOAN DE DIOS VOLVIO A GRANADA, Y POR CUYO CONSEJO.

Concluída Ioan su romería, se volvió camino de Granada, y llegando a Baeza tuvo noticia que su buen maestro el padre Avila estaba allí predicando, como lo hacía en otras ciudades y pueblos; y sabido, luego le fue a visitar y dar parte de su camino, y él lo recibió con mucho contento; y estando algunos días con él, le dixo al cabo dellos, habiendo tomado su consejo de lo que debía hacer: Hermano Ioan, cumple que volvais a Granada, donde fuistes llamado del Señor, y él, que sabe que vuestra intención y deseo, os encaminará el modo como le habeis de servir; tenedle siempre delante en todas vuestras cosas, y considerad que os está mirando, y obrad como en presencia de tan gran Señor; y en llegando a Granada, tomad luego un confesor que sea tal cual yo os he dicho, y sea vuestro padre espiritual, sin cuyo consejo no hagais cosa que sea de importancia, y cuando se os ofreciere cosa en que os parezca que habeis menester mi consejo, escrebidme donde yo estuviere, que yo haré con vos en todo lo que soy a la caridad obligado con el ayuda de nuestro Señor. Con esto se despidió dél y se vino para Granada; y en llegando a la ciudad, que era por la mañana, después de haber oído misa se fue al monte por un haz de leña, y vuelto con él en la ciudad, que vencido della, jamás pudo pasar de la puerta de los Molinos, que está bien distante del comercio de la ciudad, y así se lo dio allí a una pobre viuda, que le pareció que tenía necesidad. Otro día, avergonzando de la cobardía del día de antes, se levantó bien de mañana, y oída misa, se fue por otro haz de leña a la sierra, y en llegando con él a la ciudad, le comenzó a dar la misma vergüenza que el día pasado; y él, aguijándose y pasando delante, comenzó a decir a su cuerpo: Vos, don asno, que no quisistes entrar en Granada con la leña, de vergüenza y honra, ahora la perdereis y llevareis hasta la plaza mayor, adonde de todos los que os conocen seais visto y conocido, y perdais el brío y soberbia que teneis. Y así se fue hasta la plaza, donde como lo vieron con su leña, donde no le habían visto desde la locura; y algunos, amigos de reir y burlar, le decían: ¿Qué es esto, hermano Ioan, ya os habeis hecho leñador? ¿Cómo os fue en el hospital Real con los enfermeros? No hay quien os entienda; cada día mudais de oficio y manera de vivir. Y desta manera burlaban dél con otras palabras los mozos ociosos. El alegremente lo recibía sin enojarse de nada, antes con risa les respondía, por participar de su contento y no desechar su ganancia: Hermanos, este es el juego de birlimbao, tres galeras y una nao, que mientras (más) viéredes menos habeis de aprender. Y así, con estas palabras y otros semejantes de retruécanos graciosos, amorosamente respondía a los que le preguntaban de su vida, encubriendo con ellas la gracia que del Señor tenía, y recreándose de que lo tuviesen por de poco ser y valor; y salía bien con ello, porque la gente en común siempre juzgaba que era ramo de locura cuanto le veían hacer, hasta que después vieron bien aquel grano, enterrado y podrido, cuánto fruto y qué bueno vino a dar. Pues pasados algunos días, que en traer haces de leña del monte se exercitaba y se sustentaba dellos, y lo que le sobraba repartía a los pobres, que buscaba de noche, por esos portales echados, helados y desnudos y llagados y enfermos, y viendo lo mucho que desto había, movido de gran compasión, determinó de más de propósito buscarles el remedio.

CAPITULO XII

DEL PRIMER HOSPITAL QUE TUVO IOAN DE DIOS.

Determinado Ioan de Dios de procurar de veras el consuelo y remedio de los pobres, habló con algunas personas devotas, que en sus trabajos le habían favorecido; y con ayuda dellos y su calor, alquiló una casa en la Pescadería de la ciudad, por ser cerca de la plaza de Bivarrambla, de donde y de otras partes recogía los pobres desamparados, enfermos y tullidos que hallaba, y compró algunas esteras de anea y algunas mantas viejas en que durmiesen, porque aun no tenía para más, ni otra medicina que hacelles; y así les decía: Hermanos, dad gracias a Dios muchas, que os ha esperado tanto tiempo a penitencia; pensad en lo que habeis ofendido, que yo os quiero traer un médico espiritual que os cure las almas, que después para el cuerpo no faltará remedio; confiad en el Señor, que él lo proveerá todo (como suele a los que hacen de su parte lo que pueden). Y fue y trúxoles un sacerdote, y hízolos confesar a todos; porque vista su gran caridad, cualquier sacerdote a quien se lo pedía, iba de muy buena voluntad a hacer esta buena obra. Después desto salía animosamente y con gran esfuerzo por todas las calles con una espuerta grande en el hombro y dos ollas en las manos colgadas de unos cordeles, iba diciendo a voces: ¡Quién hace bien para sí mismo! ¿Haceis bien por amor de Dios, hermanos míos en Iesu-Cristo? Y como a los principios salía de noche y algunas veces lloviendo, y a hora que estaban las gentes recogidas en sus casas, salían maravillados a las puertas y ventanas, de oír la nueva manera de pedir; y como tenía voz lastimosa y la virtud que el Señor le daba, parecía que atravesaba con ella las entrañas de todos. Y juntamente el velle tan flaco y mal tratado y la austeridad de su vida, movía mucho; de suerte que todos salían con sus limosnas, cada uno como podía, y se las daban con mucho amor y voluntad; unos dineros, otros pedazos de pan y panes enteros, otros lo que les sobraba de sus mesas, de carne y otras cosas, se lo daban en las ollas que para eso traía; y como sentía que tenía limosna bastante, volvía corriendo a sus pobres, y en llegando decía: Dios os salve, hermanos; rogá al Señor por quien bien os hace. Y calentaba lo que traía y repartíalo entre todos; y desque habían comido y rezado por los bienhechores, él solo lavaba los platos y escudillas, y fregaba las ollas, y barría y limpiaba la casa, y traía agua con dos cántaros del pilar, con gran trabajo; porque como era reciente la memoria de entender que había sido loco, y lo vían tan mal tratado, no quería alguno llegarse a su compañía para ayudalle; y así llevaba el trabajo a sus solas, hasta que fueron conociendo lo que era. Y como él servía a los pobres con mucha caridad, acudían muchos, no cabían de pies, de los que venían a la fama de Ioan de Dios, y el buscallos con halagos y amor los que en otros hopitales no podían entrar rogando. Y vista la necesidad que había, alquiló otra casa mayor y más espaciosa, a donde pasó todos sus pobres tollidos y enfermos, que no podían por su pie ir, a cuestas; y así mesmo las alhajas en que dormían ellos y los peregrinos. Aquí puso más orden y concierto, y armó algunas camas para los más dolientes; y nuestro Señor proveyó de enfermeros, que le ayudasen a servilles, mientras él iba a buscalles la limosna y medicinas con que se curasen. Así como la caridad crecía en Ioan de Dios, así iba creciendo y multiplicándose el caudal y alhajas de la casa de Dios; porque habían caído en la cuenta y echádolo de ver ya muchas personas principales y honradas, de dentro y fuera de Granada, viendo y considerando su perseverancia y orden en sus cosas, y que siempre iba creciendo de bien en mejor. Y como vieron que no solamente albergaba peregrinos y desamparados, como al principio, mas que tenía asentadas camas y enfermos que se curaban en ellas, comenzó a tener mucho crédito con todos, y a dalle y fialle cualquier cosa que había menester para los pobres, y a dalle limosnas más en grueso que solían; así como mantas, sábanas, colchones y ropas de vestir y otras cosas.

Y así, como le iban acudiendo todo género de pobres y necesidades a que les socorriese, viudas y huérfanos honrados, en secreto, pleiteantes, soldados perdidos y pobres labradores, que respecto de ser aquel año trabajoso y estéril, acudían muchos más, y a todos socorría conforme tenían necesidad, no enviando a nadie desconsolado. Porque al que podía daba luego y alegremente, y a alguno consolaba con palabras amorosas y alegres, dándoles confianza que Dios proveería, para que todos fuesen consolados, y así se cumplía; porque por maravilla llegó nadie a él, que poco o mucho no le proveyese el Señor para que remediase su necesidad como podía. No se contentaba con emplearse en esto, sino que también comenzó a tener cuidado de buscar los pobres vergonzantes, doncellas recogidas, religiosas y beatas pobres, y casadas que padecían necesidades secretas; y con mucho cuidado y caridad las proveía de lo necesario, pidiendo para ellas a las señoras ricas y que podían, y él mismo les compraba el pan y la carne y pescado y carbón y todo lo demás que es necesario para el sustento; porque no tuviesen ocasión de salir a buscallo, sino que estuviesen recogidas, y sustentasen virtud y recogimiento. Y después de habelles proveido de lo necesario para el cuerpo, buscábales (porque no estuviesen ociosas, y trabajasen para ayuda a vestirse) seda en casa de los mercaderes, que hiciesen, y a otras lana y lino que hilasen, y estopa; y luego sentábase un poco, y animábalas al trabajo y hacíales un breve razonamiento espiritual; y persuadiéndolas a que amasen la virtud y aborreciesen el vicio, dándoles para ello (aunque simples) vivas razones, que hasta hoy viven en las memorias de muchos que se las oyeron; dándoles esperanza, que si así lo hiciesen, que de más de la gracia que alcanzarían del Señor, no les faltaría lo necesario para el sustento, prometiendo alguna ventaja a las que más trabajasen, con lo cual las inducía y animaba que viviesen virtuosamente y sirviesen a nuestro Señor. No le faltaron émulos en esta obra, como en todas las demás que hacía, porque Sathanás nunca duerme de hacer guerra, por sí y por medio de sus ministros, a los que vee que se le han salido de su dominio y van camino en el servicio de nuestro Señor; porque algunos destos le ladraban y murmuraban, diciendo que todo era ramo de locura, que le había quedado cuando andaba por las calles sin juicio, y que presto caería, pues no llevaba fundamento; y junto con esto traíanle sobre ojos mirando en las casas donde entraba, y informándose de lo que allí decía y hacía, y aun acechándole por partes ocultas. Y viendo por sus ojos su grande exemplo y honestidad y santidad de palabras, y las buenas obras que hacía, quedaban espantados y confusos, y érales forzado callar; y aun algunos, fuera de su intento, loalle y dalle limosna cuando le topaban. Con todo esto no olvidaba sus pobres; porque su principal cuidado era con ellos, consolándoles de palabra y proveyéndoles de lo necesario por la mañana, antes que saliese de casa, y dando orden en todo, como cada uno hiciese con ellos su oficio; y sabiendo si lo hacían los compañeros que ya tenía para esto, él se iba y se ocupaba en pedir hasta las diez o las once de la noche.

CAPITULO XIII

DE OTRAS OBRAS EN QUE SE EXERCITABA EL SIERVO DE DIOS

Era el hermano Ioan de Dios muy devoto de la pasión de nuestro Señor Iesu-Cristo; porque, como el principal fuerte de todo nuestro remedio, había hallado en ella gran provecho y suavidad. Y así, queriendo con lo que se había aprovechado, aprovechar a sus próximos por amor del mismo Señor, tomó por devoción los viernes, en que se obró nuestro remedio, de ir a la casa pública de las mujeres, a ver si podía de allí sacar alguna alma de las uñas del demonio, en que tan metidas están las tales; y en entrando, echaba por la que, más perdida, le parecía que menos cuenta tenía de salir de allí, y decía: Hija mía, todo lo que te diere otro te daré yo y aun más, y ruégote que me escuches aquí en tu aposento dos palabras. Y entrados en el aposento, la mandaba asentar, y él se hincaba de rodillas en el suelo, delante un Crucifixo pequeño que llevaba para aquel efecto, y allí comenzaba a acusarse de sus pecados, y llorando amargamente pedía perdón a nuestro Señor dellos, con tal afecto, que le provocaba también a ella a contrición y dolor de sus culpas; y así, con aquella industria le hacía tomar atención para que le oyese, y él comenzaba a rezar la pasión de nuestro Señor Iesu-Cristo, con tal devoción que se la hacía sentir hasta derramar lágrimas, y luego decíales: Mira, hermana mía, cuánto le costaste a nuestro Señor, y mira qué padeció por ti; no quieras ser tú causa de tu propia perdición; mira que tiene premio eterno para los buenos y castigo eterno para los que viven en pecado como tú; no le provoques más a que totalmente te dexe, como merecen tus pecados, y vayas como piedra dura y pesada al profundo infierno. Tales cosas destas y otras le daba el Señor que dixese; que aunque algunas, empedernidas en su vicios, no hacían caso dél, otras, ayudadas de Dios, se compungían y movían a penitencia, y le decían: Hermano, sabe Dios si yo me fuera con vos a servir a los pobres del hospital; mas estoy empeñada y no me dexarán ir con vos. Respondía él muy alegre: Hija, confía en el Señor, que él que te ha alumbrado el alma, te dará remedio para el cuerpo; entiende bien lo que te va en serville y en no ofendelle, y haz propósito firme que antes morirás que volverás al pecado; y espérame aquí, que luego vuelvo. Iba luego muy diligente a las señoras principales, que conocía en la ciudad y sabía que le habían de socorrer, y decíales: Hermanas mías en Iesu Cristo, sabed que está una cautiva en poder del demonio; ayudadme por amor de Dios a rescatalla, y saquémosla de tan miserable cautiverio. Eran de tanta caridad estas personas, a quien él descubría semejantes necesidades, que pocas veces se iba sin remedio dellas; y cuando no hallaba lo necesario, hacía un conocimiento y se obligaba de pagar la deuda que debía cualquier mujer que sacaba de el que las tenía a su cargo. Llevábalas luego al hospital y metíalas en la enfermería, donde estaban curándose otras mujeres que habían tenido el mesmo trato, para que viesen el pago que daba el mundo, y la ganancia que sacaban las que perseveraban en aquel oficio; porque unas estaban podridas las cabezas, donde les sacaban gruesos, y otras en otras partes del cuerpo, donde con cauterios de fuego, con gravísimos dolores les cortaban parte dél y quedaban feas y abominables. Y de aquí procuraba de entender la intención de cada una a lo que se inclinaba; porque unas, a quien nuestro Señor daba más luz, conocida la facultad de su vida, se querían recoger y hacer penitencia; llevábalas al monasterio de las Recogidas y proveíalas de lo necesario. Otras, que no tiraban tanto la barra y veía inclinadas a casarse, les bucaba dotes y maridos y las casaba. Y destas casó muchas; tanto, que la primera vez que fue a la Corte, de las limonas que de allá truxo, casó diez y seis de una vez, como hoy día dan testimonio algunas dellas, que son viudas y han vivido y viven honestamente y castamente. En este exercicio y obras de caridad padeció Ioan de Dios mucha mortificación y trabajos, y mostró bien la mucha paciencia y heróica que nuestro Señor había comunicado a su alma; porque (como por la mayor parte son mujeres tan obstinadas y perdidas y endurecidas en su pecado, de suerte que por esta causa muchos siervos de Dios se abstienen de tratar con ellas, aunque les duele su perdición) cuando sacaba alguna de entre éstas, las otras apedillaban y lo deshonraban y decían muchas injurias, y le infamaban que aquello hacía con mala intención. Y él a todo esto no respondía palabra, sino con mucha paciencia lo sufría, no volviendo mal por mal, antes, si otro alguno las reprehendía, diciéndoles: ¿Por qué sois tan malas y descomedidas con quien tan bien os hace? El respondía: Dexadlas, no les digais nada, no me quiteis mi corona; que éstas me conocen y saben quién soy, y me tratan como merezco.

Acaeció acerca deste caso una cosa memorable y digna de memoria, más para espantar que para imitar, y para conocer de veras su ferviente caridad del aprovechamiento de las almas, que conocía ser redemidas por tan inestimable precio, y fue así: Que, entrando una vez entre otras en la casa pública, y persuadiendo a unas mujeres que dexasen la mala vida, cuatro dellas se concertaron, y mostrando querer hacer enmienda de lo pasado, le dixeron, que ellas eran de Toledo, y que si no las llevaba a donde pudiesen dar orden en ciertas cosas que mucho a su conciencia importaban, que no podían de dexalla y hacer todo lo que él les mandase. El, oído esto, y vista la ganancia que tanto deseaba de cuatro mujeres juntas, se ofreció de hacello. Y así, determinándose de llevallas, apercibió lo necesario de bestias y lo demás, y él a pie fue con ellas, llevando consigo un criado del hospital, llamado Ioan de Avila, hombre cuerdo y de buena vida, el cual ha pocos días que murió, habiendo servido muchos años loablemente en la casa, y dio testimonio de lo que pasó en esta jornada. Y fue, que yendo con ellas, como los caminantes y la gente que las vía, vían dos hombres de aquel hábito con cuatro mujeres semejantes, burlaban y escarnecían dellos, y silvando les decían muchas injurias, diiéndoles de amancebados y otras semejantes. A todo lo cual Ioan de Dios callaba y lo pasaba con mucha paciencia, aunque el Ioan de Avila, provocado por lo que oía, también le reprehendía, y decía: Que para qué era aquella jornada con aquella gente ruín, donde tantas afrentas habían de pasar; y especial cuando vio que, pasando por Almagro, se le quedó allí una, y llegando a Toledo se le huyeron y desaparecieron las otras dos. Entonces con más ahinco el criado le fatigaba, diciendo: ¡Qué locura ha sido esta! ¿No os lo dixe yo, que desta ruín gente no había más que fiar desto?: dexaldas y volvámonos, que todas son de una manera. El, a todo esto le respondía con mucha paciencia: Hermano Ioan, no consideras que si tu fueses a Motril por cuatro cargas de pescado, y en el camino se te estragasen tres (y) la otra quedase buena, que echando las tres a mal, no echarías la buena con ellas. Pues, de cuatro truximos nos queda la una, que muestra buena intención; ten paciencia, por tu vida, y volvámonos con ella a Granada: esperanza en Dios, que si con ésta quedamos no será en balde nuestro camino ni poca nuestra ganancia. Y así fue, que aquélla le concedió nuestro Señor, y volvió con ella a Granada, y la casó él con un hombre de bien, y ha vivido y hoy vive con tanto exemplo y virtud y recogimiento, siendo al presente viuda, que ha dado de sí muy buen loor y tan buen exemplo de cristiandad, que bien parece por el misterioso camino que nuestro Señor le truxo a que le conociese.


CAPITULO XIV

DE LA GRAN CARIDAD DEL HERMANO IOAN DE DIOS.

Era tanta y tan grande la caridad de que nuestro Señor había dotado a su siervo, y las obras tan peregrinas que della procedían, que algunos, juzgándolo con espíritu vano, lo tenían por pródigo y disipador, no entendiendo cómo le había el Señor metido en la bodega del vino, y allí ordenado con él su caridad, y de tal manera se había embriagado en su amor, que ninguna cosa negaba que por él se le pidiese, hasta dar muchas veces, cuando no tenía otra cosa, la pobre ropa que traía vestida, y quedarse desnudo, siendo piadosísimo para todos y muy áspero y riguroso para sí; y con la viva consideración de lo mucho que había recebido del Señor, todo cuanto hacía y daba le parecía poco, y siempre se hallaba deudor de más; y así vivía con aquella ansia que los sanctos, de darse a sí mismo por mil maneras, por amor del que tan magnífico y largo había sido con él. Porque esto tienen los varones espirituales, se hallan tan prósperos y abundantes, que les parece que siempre tienen que dar a todos; y así siempre le es dulce dar y nunca querrían recebir. Todo el día se ocupaba en diversas obras de caridad, y a la noche, cuando se acogía a casa, por cansado que viniese, nunca se recogía sin primero visitar a todos los enfermos, uno a uno, y preguntalles cómo les había ido, y cómo estaban, y qué habían menester, y con muy amorosas palabras consolallos en lo espiritual y temporal. Y luego daba vuelta por la casa, y daba recaudo a lo pobres vergonzantes que le estaban esperando, proveyéndoles de lo necesario, sin enviar a ninguno desconsolado. A cualquiera daba limosna, sin mirar más de que se la pidiese por amor de Dios. Y decíanle algunos: Mirá, que pide sin necesidad. El respondía: No me engaña a mí, él mire por sí, que yo por amor del Señor se lo doy. Y cuando no tenía que dar (que acontecía quedar envuelto en una manta, por haber dado el vestido), por no decir de no cuando le pedían, daba un carta para algún caballero o persona devota, para que socorriese aquella necesidad.

Sucediole un caso digno de contar; y fue, que estando en Granada el Marqués de Tarifa, don Pedro Enríquez, fue Ioan de Dios a su posada a pedille limosna, y estaba jugando con otros señores, y sacáronle de limosna veinte y cinco ducados; y él, yéndose con ellos a su hospital después de anochecido, el Marqués habiendo oído muchas cosas de su mucha caridad, y queriendo por modo de burla experimentalla, disimulose (porque Ioan de Dios no lo había visto más que aquella vez) y saliose al encuentro, y púsose delante y dixo: Hermano Ioan, yo estoy aquí en pleito, y padezco mucha necesidad para sustentar la honra; estoy informado de vuestra caridad, ruegoos que me socorrais, porque no venga yo a hacer alguna ofensa a Dios (que esta era su manera de hablar): daros he lo que traigo. Echó mano a la bolsa, y diole los veinticinco ducados, que he dicho le habían dado. Y él tomólos y agradecióselo y fuese. Y llegando admirado donde los otros señores estaban, contoles el caso, y entre todos se celebró como el negocio merecía, admirándose de tal caridad; que teniendo tantos pobres con quien cumplir, con uno solo fuese tan largo, confiando en la providencia de Dios. Y cierto, no fue frustrada su confianza; porque el Marqués, movido de lo que había sucedido, otro día por la mañana le envió a decir, que no saliese de casa, porque quería ir a ver el hospital; y ido, comenzó a burlarse con él y a decille: ¿Qué es esto, hermano Ioan, que me dicen que os robaron anoche? El dixo: Dome a Dios, que no me robaron. Habiendo pasado entre ellos otras palabras de entretenimiento y risa, el Marqués le dixo: Ahora, hermano, porque no podais negar el robo que os hicieron, a mí me lo deparó Dios: catá aquí vuestros veinte y cinco ducados y ciento y cincuenta escudos de oro que yo os doy de limosna, y mirá otro día cómo andais. Y mandóle traer ciento y cincuenta panes y cuatro carneros y ocho gallinas, y esta ración mandó que le diesen cada día todo el tiempo que estuvo en Granada, y con esto se fue muy edificado de ver los muchos pobres de todas maneras que allí se les hacía caridad y se curaban.

Otro caso sucedió, en que mostró su caridad en poner la vida por sus hermanos. Sucedió, que en el hospital Real de Granada, que dexaron fundado los Católicos Reyes don Fernando y doña Isabel, se emprendió fuego un día, tan de improviso y con tanta furia, que asoló la mayor parte del hospital; y luego que se supo, acudió Ioan de Dios a socorrer a los pobres que allí se curaban, y fue tanta su diligencia, por el gran peligro que vio en que estaban, que casi él solo salvó a cuestas todos los pobres, hombres y mujeres; y después echó por las ventanas, con una presteza más que de hombre, todas las camas y ropa que en él había; y desque hobo puesto en cobro los pobres, se subió a lo alto, donde estaba el mayor peligro, para ayudar a atajar el fuego; y estando en esto, reventó una gran llama por un cabo y otra por otro y lo cogeron en medio; y subió tanta espesura de humo, a vista de mucha gente que debaxo lo estaban mirando, que todos pensaron muy sin duda que la llama lo había abrasado y consumido; y así corrió la voz por toda la ciudad, que Ioan de Dios había muerto en el fuego; y cuando menos pensaron, de ahí a un poco lo vieron salir y sin lisión alguna, salvo que traía las cejas chamuscadas, como pasó por medio las llamas, para testimonio de la maravilla que Dios nuestro Señor usó con él. De lo cual dieron testimonio el Coregidor, que a la sazón era en la ciudad, que lo vio, y muchas personas de autoridad que se hallaron presentes. Y de estas obras se podrían referir muchas que en su vida pasaron, que por brevedad se dexan. Sólo diré, que quien entrara en su hospital, bien manifiestamente viera la gran caridad de este hombre. Porque en él viera que se curaban pobres de todo género de enfermedades, hombres y mujeres, sin desechar a nadie (como hoy día se hace) de calenturas, de bubas, llagados, tullidos, incurables, heridos, desamparados, niños tiñosos, y que hacía criar muchos que le echaban a la puerta, locos y simples, sin los estudiantes que mantenía, y vergonzantes en sus casas, como queda dicho. Proveyó también una cosa de gran socorro, que fue labrar una cocina para los mendigantes y los peregrinos, para sólo se acogiesen de noche a dormir; y se amparasen del frío; tan capaz y de tal suerte labrada, que cabían holgadamente más de doscientos pobres, y todos gozaban del calor de la lumbre que estaba en medio, y para todos había poyos en que durmiesen, unos en colchones y otros en zarzos de anea y otros en esteras, como tenían la necesidad, como hoy día se hace en su hospital; con que, además de la caridad que les hacía, escusaba muchas ofensas de nuestro Señor, en buscallos por las plazas, y quitar que no estuviesen juntos hombres y mujeres; y algunos los traía por fuerza allí, y las mujeres ponía por sí, y con esto limpiaba las plazas desta gente perdida.

CAPITULO XV

DE LA PACIENCIA DE IOAN DE DIOS Y DE SU MUCHA HUMILDAD.

La paciencia, que corona y perfecciona los caballeros de Iesu-Cristo, así poseía el alma deste santo hombre, que por muchos trabajos que le sucediesen, nunca alguno le vio turbado, ni salía de su boca palabra airada; antes en las mayores injurias y afrentas estaba más quieto y alegre, como quien no tenía otra voluntad más que la de nuestro Señor Iesu-Cristo, en cuya cruz sólo se glorificaba, como se vio en muchos casos que le sucedieron, de que diremos aquí algunos. Baxando un día por la calle llamada de los Gomeles de mañana, para buscar de comer a los pobres, subía un caballero la calle arriba; y como en aquel tiempo era mucha la gente de la ciudad, y especial la que baxaba por aquella calle del Alhambra, sin advertir topóle con la capacha en la capa, y derribósela de los hombros; y él, muy airado, volvió a él y díxole: ¡Ah, bellaco pícaro! ¿no mirais como vais? Y él con mucha paciencia díxole: Perdóname, hermano, que no miré lo que hice. Y él, con estas palabras, como le dixo de vos y hermano (como acostumbraba a decir a todos), mucho más airado, volvió a él y dióle una bofetada en el rostro; y Ioan de Dios dixo: Yo soy el que erré, que bien la merezco: dadme otra! Y él, como todavía le decía de vos, dixo a su criados: Dadle a ese villano mal criado! Y estando en esto, como se juntó gente, salió un vecino de allí, hombre principal llamado Ioan de la Torre: ¿Qué es esto, hermano Ioan de Dios? Y como el que le había injuriado lo oyó nombrar, echóse a sus pies diciendo, que no se levantaría de allí hasta que se los besase, diciendo: ¿Es éste Ioan de Dios tan nombrado en el mundo? Y Ioan de Dios le levantó del suelo abrazándole y pidiéndole perdón el uno al otro con muchas lágrimas. Le quería el caballero llevar consigo a comer, y él se escusó de ir; y después le envió cincuenta escudos de oro para los pobres.

Otro caso le sucedió, donde también mostró su mucha paciencia; y fue, que entrando a pedir limosna para los pobres en la casa de la Inquisición vieja, que tenía una alberca en mitad del patio llena de agua, un paje travieso llegóse a él y dióle un encontrón, y echóle en el alberca (como todavía estaba en crédito de algunos que era loco, después que estuvo en el hospital Real). El con mucha paciencia salió de allí, y con palabras y gesto alegre agradeció al paje lo que había hecho, de que quedaron admirados los que lo vieron, y de allí adelante lo tuvieron en mucho más. Una de las mujeres que sacó de la casa pública y casó, era tan importuna y impaciente, que a cada cosa que le faltaba le venía a pedir luego, y él procuraba de dárselo y contentalla, y así venía muchas veces. Una de las cuales halló a Ioan de Dios, que por no tener otra cosa que dar, había dado el capote y estaba envuelto en una manta, y díxole que no tenía que dalle, que se volviese otro día; ella, impaciente, embravecióse, y comenzóle a deshonrar y decille: ¡Mal hombre, hipócrita sancto!. El dixole: Toma dos reales y salte a la plaza y di eso a voces. Ella volvió a grandes voces a dehonralle; y él dixo, desque la vio así: Tarde que temprano yo te tengo de perdonar; yo te perdono desde luego. Y bien obró fructo de vida esta paciencia, porque esta misma mujer, el día de su entierro, iba entre otras que él había sacado de mal vivir dando voces por las calles y lamentando y diciendo grandes males de sí y confesando sus culpas y pecados, y grandes bienes de Ioan de Dios; diciendo que ella había sido muy mala, y que por su buen exemplo y amonestaciones sanctas había salido de pecado, y otras muchas cosas con que hacía llorar a toda la gente. Era tan humilde, que siempre era amigo de decir y contar siempre las pláticas y enderezándolas a su menosprecio y humillación, y como resultasen en edificación de los próximos, huyendo toda vanagloria, como polilla ponzoñosa a la vida espiritual.

CAPITULO XVI

COMO LE COMPRARON A IOAN DE DIOS UNA CASA PARA HOSPITAL, Y OTRAS COSAS QUE DESPUES SUCEDIERON.

Era tanta la gente que acudía a la fama de Ioan de Dios y a su mucha caridad, que no cabían en la casa que está dicho que tenía. Y así acordaron gentes principales y devotas de la ciudad, de compralle una casa que fuese capaz para todos. Y así la compraron en la calle de los Gomeles; la cual había sido monasterio de monjas; aquí pasó sus pobres y estendió su real y alojamiento, poniendo orden para que a todos se les administrase caridad con la honestidad y decencia debida. Y era tanto el concurso de todas gentes que con él venían a negociar, que muchas veces apenas cabían de pies; y él, sentado en medio de todos, con muy grande paciencia, oyendo a cada uno las necesidades que traía, sin enviar jamás a nadie desconsolado, con limosna o buena respuesta. Salía de su celda en amaneciendo, y decía en alta voz donde lo oyesen todos lo de la casa: Hermanos, demos gracias a nuestro Señor, pues las avecicas se las dan; y rezábales las cuatro oraciones, y luego salía el sacristán, y por una ventana por donde todos lo oyesen, decía la doctrina cristiana, y respondían los que podían; y otro la decía en la cocina a los peregrinos, y luego baxaba a visitallos antes que se fuesen, y a los que estaban desnudos repartía de la ropa de la ropa que dexaban los difuntos, y (a) los mancebos que veía sanos decíales: Ea, hermanos, vamos a servir a los pobres de Iesu Cristo. Y él, con ellos, íbanse a la sierra y cogían leña, y traía cada uno su haz para los pobres, y destos tuvo mucho tiempo, que con mucha caridad y voluntad se exerciataban en este oficio de traer leña cada día. Era tan grande el gasto que en todo lo dicho hacía, que no le bastaba la limosna que en la ciudad llegaba; y a esta causa se empeñaba en trescientos y cuatrocientos ducados con su mucha caridad.

Viendo las grandes necesidades que por la ciudad había, y por no ser molesto ni dar pesadumbre a los ciudadanos de Granada, pidiéndoles siempre de día y de noche; por dexallo descansar algunos días, salía a pedir limosna a algunos señores del Andalucía, los cuales tenían noticia dél por sus buenas obras (que ya por Castilla volaba su fama) y ellos lo socorrían liberalmente para ayuda a desempeñarse. Entre todos los señores de el Andalucía y Castilla, el que más socorrió sus necesidades fue el Duque de Sessa, el cual desde mancebo tuvo cuenta con sus pobres y hospital, y le desempeñó muchas veces de todo lo que debía en Granada; y sin esto le mandaba dar todas las pascuas del año zapatos y camisas para vestir y calzar a los pobres; y lo mismo hacía la Duquesa su mujer, que le hizo muchas limosnas y le favoreció en gran manera. Y así tenía gran cuidado de que él y sus pobres los encomendasen a nuestro Señor, y pidiesen para ellos la vida eterna y el consuelo de los trabajos desta vida. No bastando áun esto, y sientiéndose congoxado por favorecer a los que le acudían y pagar lo que debía, determinó de llegarse a la corte (que entonces residía en Valladolid), y pedir socorro al Rey y a los grandes señores, dexando en su hospital a un compañero suyo y amigo en su peregrinación, llamado Antón Martín, que mirase por los pobres y casa hasta que él volviese. Llegado que fue a la corte, el Conde de Tendilla y otros señores que lo conocían, dieron noticias dél al Rey, y le informaron de las cosas de Ioan de Dios y le metieron en palacio, donde le habló y dixo desta manera: Señor, yo acostumbro llamar a todos hermanos en Iesu-Cristo; vos sois mi rey y mi señor y tengo de obedeceros, ¿cómo mandais que os llame? Respóndió el Rey: Llámame, Ioan, como vos quisiéredes. Y porque aun entonces no era rey sino príncipe; buen príncipe os dé Dios en reinar y buena mano derecha en gobernar, y después buen fin para que os salveis y ganeis el cielo. Y así estuvo hablando con él un buen rato. Y después le mandó dar limosna él y sus hermanas las infantas, a las cuales cada día iba a visitar, y dellas y de sus damas recibió muchas joyas y limosnas, y él lo repartía con los pobres necesitados que había en Valladolid. Doña María de Mendoza, mujer del Comendador mayor don Francisco de los Cobos, que es una señora que después de viuda le ha hecho nuestro Señor grandes mercedes en ser de vida muy exemplar, que ha repartido y reparte su patrimonio, que es muy grueso, muy liberalmente a los pobres, dando renta muy copiosa a hospitales y monasterios de monjas pobres, y haciendo limosnas tan gruesas y otras obras de virtud, que sería largo de contar. Esta señora, pues (como en quien cabía tanta caridad), le dio aposento en su casa y de comer y todo lo necesario con mucha caridad y amor, todo el tiempo que en Valladolid residió, y le dio grandes limosnas que repartiese a los pobres vergonzantes. Y él lo hacía y repartía tan bien, que ya casi tenía tantas casas de mujeres y hombres pobres que visitar y dar de comer, como en Granada. Algunas personas que le conoscían y le vían distribuir y dar limosnas en Valladolid, le decían: Hermano Ioan de Dios, ¿por qué no guardáis los dineros, y lo llevais a vuestros pobres a Granada? Decía él: Hermano, dallo aquí ó dallo en Granada todo es hacer bien por Dios, que está en todo lugar.

Pasados nueve meses que estuvo en la Corte, se volvió a Granada con ciertas cédulas de limosnas que doña María de Mendoza y el Marqués de Mondéjar le dieron y otros señores, para pagar lo que debía y mantener los pobres. El cual padeció grandes trabajos por el camino, descalzo por los ásperos y fragosos lugares, lo pies llenos de grietas y abiertos por muchas partes, de los tropezones que daba en las piedras, y pasando grande escocimiento en el cuerpo, por ser el vestido áspero y grueso y pegado al cuerpo sin camisa; y cuando llegó llevaba quitado los cueros de la cara y pescuezo y cabeza, de los grandes soles que hacía y había pasado, por llevar la cabeza descubierta, y con todo sospirando por llegar a Granada, por ver a sus pobres y remediar sus trabajos. Llegado que fue a la ciudad, fue grande el alegría y consolación que recibieron, así los vecinos de Granada, por el grande amor que le tenían, como sus pobres, que le estaban esperando con deseo de verle; y especialmente los pobres vergonzantes y mujeres que él había casado, que le habían echado mucho menos, porque no tenían otro padre ni quien los socorriese. Pagadas, pues, parte de las deudas que debía, con lo que de la Corte truxo, y remediadas muchas necesidades que de nuevo halló, especialmente de pobres que casó, todavía quedó debiendo más de cuatrocientos ducados; porque para cumplir estas necesidades se tornó a empeñar de nuevo, porque no le sufría el corazón ver padecer al pobre necesidad sin dalle remedio. Por esta causa padecía mucha congoxa hasta verse sin deudas; y por otra parte parecía imposible, según cuan sin duelo dalo lo que tenía, en ofreciéndosele alguna necesidad.


CAPITULO XVII

DE LA PENITENCIA DEL SIERVO DE DIOS, Y DEL PRINCIPIO DE SU HABITO.

Sólo el ordinario trabajo, que Ioan de Dios tenía en procurar las limosnas y curar a sus pobres, era tan grande penitencia y mortificación de la carne, sin la continuas demandas y importunaciones de todos, que era muy bastante carga para otro cuerpo que fuera sano y recio, y aun lo que pudiera llevar con solas fuerzas humanas. Y con todo esto no se conformaba el hermano Ioan de Dios,sino que con obras de mucha penitencia mortificaba su carne, y la hacía servir al espíritu, no concediéndole aun lo muy necesario. Su comer era poco y de un manjar; y si no era fuera de casa, donde le rogaban por su consuelo que comiese, siempre comía manjares viles. Lo más ordinario era de una cebolla asada o de otros manjares de poco precio. Ayunaba los días de precepto con poco comer y sin hacer colación, y los viernes a pan y agua; y este día todo el año se deciplinaba muy ásperamente, hasta derramar mucha sangre, con unos cordeles ñudosos. Y esto sin dexallo por cansado y fatigado que viniese. Su dormir era en una sola estera en el suelo con una piedra por cabecera, cubierto con un pedazo de manta vieja; y otras veces en un carretón, que había sido de un tollido, con la misma ropa, en un aposentillo muy angosto debaxo de una escalera. Andaba siempre descalzo en la ciudad y en todos los caminos, y descaperuzado, y rapado a navaja barba y cabeza, y sin camisa ni otro vestido más que un capote de xerga ceñido y unos zaragüelles de frisa; andaba siempre a pie, sin subir jamás en alguna bestia en camino ni fuera dél, por cansado y despeado que viniese; ni por tempestades de agua y nieve que hobiese se cubrió la cabeza desde el día que comenzó a servir a nuestro Señor hasta que lo llamó para sí; y con todo eso se compadecía de los muy livianos trabajos de sus próximos, y los procuraba remediar, como si él viviera en mucho regalo.

Aconteció una vez, que yendo un noche de invierno tarde y tempestuosa y escura a su hospital, y subiendo la calle de los Gomeles, cargado con la capacha con bastimento y un pobre a cuestas, que de camino había hallado en la plaza Nueva, baxaba por la calle tanta agua, que dio con él en el suelo, y al ruido del agua y sus gemidos del pobre, asomóse un pleiteante, hombre de mucho crédito, a una ventana baxa donde había caído, y oyóle que estaba riñendo consigo y dándose con la cayada de golpes, y diciendo: Así, don asno, torpe y mal inclinado, floxo, haragán, lerdo, ¿no habeis comido hoy? Pues si habeis comido, ¿por qué no trabajais? ¿No mirais que aquellos pobrecicos, para quien vos trabajais, han menester comer? ¿Y no mirais éste que llevo cuál está muriéndose, y que tal lo habeis parado ahora? Y diciendo esto se levantó con mucho esfuerzo, que estaba arrodillado, y se fue dándole el agua a media pierna; y el que lo oyó dio fee, que todo esto decía de suerte que nadie lo pudiera oir sino él, que sin velle estaba escuchándolo, porque pasó debaxo de su ventana. Y otro día, preguntándole cómo le había ido con la caída, se lo negó, disimulando con él, y desta manera hacía de ordinario. En viendo él pobre, sin esperar más ayuda, se lo echaba a cuestas, y lo llevaba a su hospital con mucho trabajo, porque andaba flaco y enfermo.

El traje y vestido que Ioan de Dios traía, y el nombre con que se nombraba, no fue sin misterio, y bien hay que considerar en ello; y aunque no tuviera otra estima, sino habello traído este sancto varón, era de estimar en mucho, y quiso nuestro Señor aun autorizallo más, como se verá. Y sucedió así, que estando Ioan de Dios comiendo un día con un Obispo de Tuy (que en aquel tiempo se halló en Granada) le preguntó que cómo se llamaba. El le dijo, que Ioan; y el obispo le respondió, que se llamase Ioan de Dios; él respondió: Si Dios quisiere; y desde entonces le comenzaron todos a llamar Ioan de Dios. Y tenía Ioan de Dios por costumbre cuando vestía algún pobre de su vestido, vestirse él el del pobre; y como el Obispo le viese tan mal parado y tan desechado vestido en su persona, después de habelle puesto el nombre, le dixo: Hermano Ioan de Dios, por vuestra vida, que pues llevais de aquí el nombre, que tomeis también la manera del vestido; porque ese que traeis da asco y pesadumbre a los que tienen devoción de trataros y sentaros a su mesa; y sea, que os vistais de un cossete y uno calzones de buriel y un capote de sayal encima, que son tres cosas en nombre de la Sanctísima Trinidad. Y él concedió en ello de voluntad, y luego lo hizo comprar el obispo, y se lo vistió de su mano; y así fue con nombre y vestido y con bendición de mano del Obispo, y no lo mudó hasta que murió.


CAPITULO XVIII

DE SU CONTINUA ORACION, Y COMO FUE PERSEGUIDO DEL DEMONIO Y DIXO ALGUNAS COSAS OCULTAS ANTES QUE SUCEDIESEN.

Aunque al hermano Ioan de Dios le había nuestro Señor particularmente llamado para las obras de Marta (en las cuales se ocupaba lo más del tiempo) no por eso se olvidaba de las de María; porque todo el tiempo que le sobraba lo ocupaba en oración y meditación; tanto, que muchas veces se le pasaban las noches enteras llorando y gimiendo, y pidiendo a nuestro Señor perdón y el remedio para las necesidades que veía, con tan profundos gemidos y sospiros, que bien daba a entender que sabía como ésta es la áncora y fundamento de toda la vida espiritual, y la que trae bien despachados todos los negocios con Dios, y sin la cual poco fundamento lleva todo lo demás. Y así no emprendía cosa ninguna que no la encomendaba primero, y hacía encomendar muy de veras nuestro Señor. Y con esto hacía tanta guerra al demonio, que siempre salía victorioso de las batallas que con él tenía, que fueron muchas, invisibles y visibles. De las cuales contaré aquí algunas que le sucedieron, con que nuestro Señor quiso coronar a su siervo, y fue así: Sucedió, que estando en su celda una noche orando, un su sirviente, que dormía cerca, oyóle dar grandes gemidos y que parecía que estaba peleando con alguno, y al ruido acudió a él, y hallóle de rodillas muy fatigado y sudando mucho y diciendo: Iesús me libre de Satanás, Iesús sea conmigo. Y volviendo el sirviente la cabeza a una ventanilla, que salía a la calle, vio una figura muy fiera, que tuvo que era el demonio, y dando voces a los demás sirvientes de la casa, les decía: ¿No veis al demonio, que está metido por la ventana y echando fuego por la boca? Y aunque volvieron las cabezas nada vieron, y luego desapareció; y subieron al hermano Ioan de Dios a una enfermería, donde le tuvieron en un cama ocho días muy maltratado y molido de lo que había pasado, sin declarar nada de lo que había pasado. Sólo decía algunas veces entre sí santiguándose: ¿Piensas, oh traidor, que he de dexar lo comenzado?

Otra vez, de ahí a pocos días, en el mismo aposento, estando de rodillas orando y cerrada la puerta, se le puso delante una mujer de muy buen parecer, y él le preguntó, que por dónde había entrado. Y le respondió: Para mí no es menester puerta, que por donde quiero puedo entrar, y él le dixo: No es posible que pudieses entrar si no eres algún demonio. Y levantóse para ver si estaba cerrada, y hallo que sí, y cuando volvió la cabeza no la vio; y subióse luego a donde estaban los enfermos, llorando y diciendo: Hermanos, ¿por qué no rogais a Dios por mí, que me tenga en su mano?

Sucedió otra vez, saliendo tarde de la noche de la casa de un hombre principal de Granada, que en un calle se le atravesó entre los pies un puerco y le hizo caer; y no dexándolo levantar, le truxo casi una hora al rededor hozando sobre él y hollándolo, hasta que salieron de casa de un médico, llamado el doctor Beltrán, que allí vivía, a socorrelle; y preguntándole qué había sido, dixo, que no sabía más de que le habían empuxado y hecho caer y traído al derredor en el lodo; y queriéndolo entrar en la casa del doctor; él no quiso sino que le llevasen con sus pobres. Y así le llevaron, donde estuvo más de un mes desollado el rostro y muy maltratado y molido. Saliendo otra vez de una enfermería por una puerta que estaba junto a una escalera, le dieron un empuxón sin ver quién, y le hicieron rodar la escalera hasta el patio, diciendo él: Iesús sea conmigo. Y al ruido salió la gente de casa y lo vio como había caído, y él levantándose se metió en su aposento, y tomando un Crucifixo en las manos, comenzó a orar y a razonar con él con muchas lágrimas. Otra vez (como acostumbraba pedir de noche) pasando por una plaza de noche, se le puso un hombre delante y le dixo: Dame limona; y Ioan de Dios le dixo: ¿En qué nombre la pides? Y él calló y desapareció. Y más arriba en otra calle se le volvió a poner diciendo, que porqué no le daba limosna. Y él dixo, que si no se la pedía por amor de Iesu-Cristo, que no se la podía dar; y diciendo esto le dio un golpe en los pechos que le hizo volver algunos pasos atrás, y desapareció.

Estando otra vez en su celda en oración, oyeron que dio un grito, diiendo: Iesu-Cristo, hijo de Dios vivo, socórreme. Y acudieron todos a su voz, y abriendo la puerta le hallaron abrazado con una cruz, hincado de rodillas delante una imagen de la Encarnación; y preguntándole que había tenido, respondió, que le habían levantado en el aire y traído por el aposento, y que le dexaron caer de lo alto dando en el suelo un gran golpe; y luego lo sacaron de allí y llevaron a la enfermería de los pobres; y sucedió que lo pusieron junto a un enfermo, que había ocho días que estaba penando. Y otro día de mañana dixo Ioan de Dios al enfermo (que estaba con sus sentidos entero): Di, traidor, ¿por qué no confiesas la verdad? ¿No ves que está aquí el demonio para llevar tu ánima? Y respondió el enfermo, que cómo lo sabía. Yo lo sé, dixo él; y para que sepas que lo sé: tú eres casado dos veces y son vivas las dos mujeres; y demás desto has cometido un pecado de sodomía, que por vergüenza no has confesado: confiésalo, pues a Dios es manifiesto, y tendrás salud en el alma. El enfermo quedó muy maravillado, diciendo, que nadie en el mundo lo sabía sino él, y pidióle luego con instancia que le truxese un confesor; y él le truxo un fraile de sant Francisco, y confesó y recibió el Sanctísimo Sacramento y murió, a lo que dio muestras, con gran arrepentimiento y devoción. Y así decía otras cosas ocultas, que nuestro Señor le revelaba para bien y aprovechamiento de las almas de sus pobres que le había encomendado; y por sus méritos les concedía nuestro Señor que saliesen del pecado, como se lee en muchos santos, y pareció en el caso ya dicho y en otro que sucedieron; de que diré otro, que se supo de personas de crédito.

Había una mujer en el mismo hospital enferma, que sin quietarse daba grandes voces teniendo entero juicio, y decía que la arrastrasen por la plaza de Vivarrambla; y un noche oyéndola Ioan de Dios, subió allá y díxole: ¿Por qué das voces? Respondió; Porque quiero que me arrastren; y él le dixo: Quita el demonio de tu corazón, y luego no querrás que te arrastren; porque bien sé yo que ha diez años que estás amancebada. Y ella respondió, que era verdad, y que otros diez años que había que no confesaba verdad. Y Ioan de Dios entonces le persuadió con muy amorosas palabras, animándola a que pidiese perdón a Dios y confesase sus pecados. Y ella lo hizo, y murió cristianamnte. Estando una vez enfermo en una enfermería de su hospital, llamó a un enfermero, y díxole: que fuese a una sala que estaba sobre aquélla, y que pusiese una vela en la mano de un niño que quería expirar; y el enfermero fue, y lo halló así, y se espantó de sabello Ioan de Dios, porque aun no sabía que estuviese allí enfermo aquel niño; y se la puso, y a la hora espiró. Contaba una persona su devota, que le decía algunas veces que había de morir entre viernes y sábado; y así fue, que murió después de pasada media hora de la media noche. Y asimismo, que había de haber muchos de su hábito en el ministerio de los pobres por todo el mundo; y así se va cumpliendo, como en su lugar se dirá.


CAPITULO XIX

DEL FERVIENTE CELO QUE TENIA DE LA HONRA DE DIOS Y DE LA SALVACION DE SUS PROXIMOS.

Del mucho amor que Ioan de Dios tenía a nuestro Señor le procedía un deseo ferventísimo, que fuese honrado en todas sus criaturas. Y así lo procuraba como principal fin en todas sus obras, que dellas resultase gloria y honra de nuestro Señor; de suerte que la cura del cuerpo fuese medio para la del alma. Y jamás administró lo temporal a alguno, que con ello no procurase juntamente remediar su alma, si dello tenía necesidad, con sanctas y fervientes amonestaciones, como él mejor podía, encaminando a todos a la carrera de la salud predicando más con vivas obras que palabras el menosprecio del mundo y la burlería de sus engaños, y el tomar su cruz y seguir a Iesu-Cristo; como todo esto ha parecido bien por el discurso de lo que está dicho de su vida. Y la paciencia grande con que sufría cualquiera pesadumbre o injuria, acosta de que (como buen mercader) sacase alguna ganancia que perteneciese a la honra de Dios, que era la mercadería que trataba. Y aunque de esto se podrían contar muchos casos que le sucedieron, sólo diré uno que oí a personas fidedignas, y fue así: Estaba en Granada una mujer, que había venido a seguir un pleito de fuera de ella, en estreno de buen gesto, y pobre; y entrando Ioan de Dios en casa de un letrado vióla allí, y considerando su manera y en lo que entendía, parecióle que andaba en manifiesto peligro de ofender a nuestro Señor. Apartóla a una parte y preguntóle de su vida; y como ella se la contase y su necesidad, díxole: Ruego, señora, por amor de nuestro Señor, que hagais lo que yo os dixere; y hareis en vuestro remedio, y vuestro pleito se hará mejor; y es, que yo os encaminaré a que vivais en un casa de unas mujeres reogidas, en su compañía y en aposento aparte, a donde esteis a vuestro gusto, conforme a vuestra calidad. Y yo os daré de comer y solicitaré vuestro pleito, por sólo que esteis recogida y no salgais fuera, por el peligro de vuestra honra. La mujer vino de buena gana en ello; y él la puso, como dixo, en un casa honrada, y le daba lo necesario y solicitaba su pleito; y iba algunas veces a vella para dalle el bastimento, y cuenta del estado de su pleito, y siempre le pedía de rodillas y con lágrimas no saliese y mirase por su honra y no ofendiese a Dios, pues él le daba de comer y hacía su pleito. Sucedió que un noche tarde algo, andando pidiendo, entró en una casa de camino, y hallóla sola en su aposento y muy compuesta; comenzóla a reeprehender ásperamente la compostura y el estar sola a tal hora, diciéndole tales cosas que la hizo llorar; y amonestándola lo que debía hacer, se fue dándole lo que solía para su sustento. Y parece que esta mujer, con poco temor de nuestro Señor, tenía un mancebo escondido detrás de una cama para pecar con él. El cual oyó todo lo que pasó; y hicieron en él tal impresión las palabras de Ioan de Dios, y el ver con cuanta caridad procuraba la honra de Dios y el bien de aquella alma, que totalmente quietó en él este el fuego de la concupiscencia en que él estaba enlazado. Y salido de allí llorando y convertido, comenzó a persuadir a aquella mujer que fuese casta, y no diese tan mal pago a Dios y a aquel sancto, que en su nombre la mantenía y persuadía la verdad y lo que le convenía. Y en aquel mismo punto se salió luego de la casa, y se fue haciendo firmísimo propósito de no ofender más a nuestro Señor, sino serville. Y así lo cumplió, porque de ahí adelante mudó su vida en mejor, y acabó con muy buen exemplo y cristiandad. Y bien se entiende por aquí la gran bondad y magnificencia de nuestro Señor, que no permitió que quedase sin fructo el trabajo que por su amor puso su siervo; pues ya que aquella mujer no quiso aprovecharse de tanto bien como se le ofrecía (como por la mayor parte hacen las tales) su Majestad deparó quien recibiese aquella gracia. Porque tiene dicho por su profeta Isaías, cap. 55: Mi palabra que saliera de mi boca no volverá a mí vacía, sino hará todo aquello que yo quisiere, y prosperarse ha en aquellos para quien la envié.

CAPITULO XX

DE LA MUERTE DE IOAN DE DIOS.

Eran tantos los trabajos en que Ioan de Dios se ocupaba por dar remedio a los de todos, así de caminos y salidas que hacía, en que padecía muchas frialdades, como del trabajo ordinario de la ciudad, que se desvencijó, y desta enfermedad (como él le hacía poco regalo) padecía gravísimos dolores, y disimulaba cuanto él podía, por no dallo a entender y dar pena a sus pobres en vello malo; mas estaba ya tan flaco y debilitado y sin fuerzas, que no lo podía ya disimular. Y sucedió a esta sazón, que el río Genil vino aquel año muy crecido por las grandes aguas que había llovido; y dixéronle a Ioan de Dios, que el río con la creciente traía mucha leña y cepas. Y él determinóse, con la gente sana que había en casa, de illa a sacar, porque el invierno era muy fuerte de nieves y fríos, para que los pobres hiciesen lumbre y se calentasen. De meterse en el río en tal tiempo, cobró tanta frialdad sobre la enfermedd que tenía, que aquexándole más gravemente el dolor que solía, cayó muy enfermo; y la causa de meterse tanto en el río fue, que de la gente pobre que venía a sacar leña, un mozuelo entró incautamente en el río más de lo que sufría, y la corriente arrebatólo y llevábalo; y Ioan de Dios, por socorrelle, entró mucho, y al fin se ahogó, que no pudo asille. Y desto cobró mucha pena; de manera que su enfermedad se iba agravando cada día más.

Como era llegado el término que nuestro Señor tenía puesto para dar a su siervo el premio y galardón de su trabajos, sucedió, estando así en la cama, que algunas personas con celo indiscreto, y pasándoseles muy por alto, y no entendiendo el subido modo de proceder de Ioan de Dios, fuéronse al Arzobispo don Pedro Guerrero, que a la sazón era de Granada, y informáronle cómo en el hospital de Ioan de Dios se llegaban hombres de muchas maneras; y que había algunos que podían trabajar, y que no albergándose allí irían a trabajar y buscar su vida; y que así mesmo había mujeres malmiradas, que deshonraban a Ioan de Dios, no teniendo respecto al bien que se les hacía: que mandase poner remedio en esto, pues a él pertenecía. Oído por el Arzobispo (como buen pastor que era y perlado muy celoso de la salvación de sus ovejas) mandó llamar a Ioan de Dios, no sabiendo que estaba malo. Como lo oyó levantóse como pudo, y fue luego a su llamado con toda presteza; y llegado a él le besó la mano y recibió su bendición, y le dixo: ¿Qué es lo que manda, buen padre y perlado mío. El Arzobispo le dixo: Hermano Ioan de Dios, he sabido cómo en vuestro hospital se recogen hombres y mujeres de mal exemplo y que son perjudiciales, y que os da mucho trabajo a vos propio su mala crianza; por tanto despedidlos luego, y limpiad el hospital de semejantes personas, porque los pobres que quedaren vivan en paz y quietud, y vos no seais tan afligido y maltratado dellos. Ioan de Dios estuvo muy atento a todo lo que su perlado le dixo: Padre mío y buen perlado, yo soy el malo y el incorregible y sin provecho, y que merezco ser echado de la casa de Dios; y los pobres que están en el hospital son buenos, y yo no conozco vicio ninguno dellos; y pues Dios sufre a malos y buenos, y sobre todos tiende su sol cada día, no será razón echar a los desamparados y afligidos de su propria casa. Fue tan agradable al Arzobispo la respuesta que Ioan de Dios dio, viendo el amor tan paternal y afecto tierno que a sus pobres tenía; y cómo por volver por ellos se echaba a sí todas las faltas que se les imputaban, que como sabio y espiritual, entendiéndolo bien, y pareciéndole que a tal hombre bien se le podía encargar más que aquello, le dio su bendición y le dixo: Id bendito de Dios, hermano Ioan, en paz, y haced en el hospital como en vuestra casa propria, que yo os doy licencia para ello. Con esto se despidió dél, y se vino para su hospital. Y viendo cómo se le agravaba el mal (porque de ahí a poco le dio frío y calentura, y sospechando lo que podía ser) se esforzó cuanto pudo, dándole nuestro Señor fuerzas para ello, y tomó un libro blanco y unas escribanías y un hombre que le escribiese, y se fue por la ciudad de casa en casa de los que algo debía; íbalos asentando, y la cantidad de la deuda, y de qué se debía; y algunas había que ya no se acordaba su dueño dellas. Y así puso por orden todo lo que debía, y trasladallo en otro libro de manera que hobiese dos; y el uno se puso en los pechos y el otro mandó guardar en el hospital, a fin de que si Dios le llevase y se perdiese el uno, estuviese allí en depósito el otro, y se pagase lo que debía, habiendo claridad dello; y este fue su testamento. Y acabado de hacerse, volvió a su celda tan fatigado ya, que no se podía menear, y se acostó; y desde allí, como no podía salir, con cédulas que enviaba, procuraba remediar los pobres que a él acudían. Y nuestro Señor proveía tan cumplidamente lo necesario como si él anduviera, como solía, procurándolo; porque todos lo señores y ciudadanos proveían cumplidamente, sabida su enfermedad, y animaban a su compañero Antón Martín a que supliese lo que Ioan de Dios faltaba.

Sabida que fue su enfermedad de doña Ana Osorio, mujer del veinte y cuatro García de Pisa, señora de mucha cristiandad y exemplo (a quien por esto amaba mucho el hermano Ioan de Dios), le fue a visitar; y vista su dolencia y el poco refrigerio que allí tenía, y tan cercado de pobres, que no le daban lugar a reposar un poco (y él, que a nada contradecía), le rogó muy ahincadamente, que consintiese que lo llevasen a su casa a curar, donde se le haría cama y darían lo necesario; porque hasta allí sólo en las tablas estaba echado y la capacha en la cabecera; y aunque él se escusó todo lo que pudo, diciendo, que no lo sacasen de entre su pobres, porque entre ellos quería morir y ser enterrado, al fin le venció con decille, que pues él había predicado a todos la obediencia, que obedeciese ahora a los que con tanta razón le pedían por amor de Dios. Y así truxeron una silla para llevallo; y puesto que fue en ella, como lo pobres supieron que lo querían llevar, todos los que pudieron se levantaron y le cercaron; y aunque le quisieran resistir por el gran amor que le tenían, como es gente que a los infortunios y trabajos que tienen nunca hacen resistencia sino con gemidos y lágrimas, comenzaron todos a levantar tal alarido y gemido, hombres y mujeres, que no hobiera corazón, por duro qye fuera, que no reventara en lágrimas. Y él, oyéndolo y llorando y viéndolos afligidos, alzó lo ojos al cielo con sospiros, y díxoles: Sabe Dios, hermanos míos, pues Dios es servido que muera sin veros; cúmplase su voluntad. Y echándoles su bendición a cada uno por sí, les dixo: Quedad en paz, hijos míos, y si no nos viéremos más, rogad a nuestro Señor por mí. A estas palabras tornaron a levantar de tal manera el alarido y decían tales lástimas, que penetraron de tal manera las entrañas de Ioan de Dios (que poco había menester, porque los amaba) que quedó desmayado en la silla. Y vuelto en sí, por no dalle más pena, lo llevaron en casa de esta señora; y como había comenzado a obedecer y propuesto de hacello, aunque hasta allí, por enfermo que estuviese, nunca había mudado el traje, por áspero y pobre que era, entonces dexó que hiciesen en él cuanto le mandaban, por dar exemplo de obediencia. Y así le pusieron camisa y le echaron en una cama, y curaron de él con mucha caridad y cuidado, así de médicos como de medicinas y todo lo demás necesario. Y aquí fue visitado de muchas personas principales y señores, y de todos regalado, a porfía el que más podía. Y él de todo esto no gustaba, salvo de la caridad que vía que a ello les movía; porque, junto con esto, le habían privado que no viese pobre ninguno y puesto un portero que no los dexase entrar, porque en viéndolos lloraba y recebía pena.

Como el Arzobispo supo cuan al cabo estaba, fuélo a visitar, y consolólo con sanctas palabras, animándole para aquel camino; y al cabo le dixo, si tenía algo que le diese pena, que se lo dixese, porque, pudiendo él, lo remediaría. El le respondió: Padre mío y buen pastor, tres cosas me dan cuidado: la una lo poco que he servido a nuestro Señor habiendo recebido tanto; y la otra los pobres que le encargo, y gentes que han salido de pecado y mala vida, y los vergonzantes; y la otra estas deudas que debo, que he hecho por Iesu-Cristo. Y púsole el libro en la mano, en que estaban asentadas. Y el perlado respondió: Hermano mío, a lo que decís que no habeis servido a nuestro Señor, confianza en su misericordia, que suplirá con los méritos de su pasión lo que en vos ha faltado; y en lo de los pobres, yo los recibo y tomo a mi cargo, como soy obligado; y en cuanto a las deudas que debeis, yo las tomo desde luego a mi cargo para pagallas; y yo os prometo de hacello como vos mismo lo hiciérades; por tanto sosegá y nada os de pena, sino sólo atended a vuestra salud y encomendaros a nuestro Señor. Gran consolación recibió lo que le prometió; y después de habelle dicho otras palabras de mucha consolación le besó la mano y recibió su bendición; y despedido, se fue de camino a visitar el hospital.

Agravándosele más la enfermedad a Ioan de Dios, recibió el sacramento de la penitencia (aunque muy a menudo lo hacía siempre) y truxéronle a nuestro Señor y adorólo,, porque la enfermedad no daba lugar a recibillo, y llamando a su compañero Antón Martín, encargándole mucho los pobres y los huérfanos y los vergonzantes, amonestándole lo que había de hacer con muy sanctas palabras. Pues sintiendo en sí que se llegaba su partida, se levantó de la cama y se puso en el suelo de rodillas abrazándose con un Crucifixo, donde estuvo un poco callando, y de ahí a un poco dixo: Iesús, Iesús, en tus manos me encomiendo. Y diciendo esto con voz recia y bien inteligible, dio el alma a su Criador, siendo de edad de cincuenta y cinco años, habiendo gastado los doce déstos en servir a los pobres en el hospital de Granada. Y sucedió una cosa harto digna de admiración, y que no sabemos que se lea de otro ningún santo, sino de S. Pablo el primer ermitaño: Que después de muerto quedó su cuerpo fixo de rodillas sin caerse por espacio de un cuarto de hora, y quedara así hasta hoy con aquella forma, si no fuera por la simpleza de los que estaban presentes, que como lo vieron así, les pareció inconveniente, si se helaba, para podello amortajar. Y así lo quitaron, y con dificultad lo estiraron por amortajallo, y le hicieron perder aquella forma de estar de rodillas. Estuvieron presentes a su muerte muchas señoras principales y cuatro sacerdotes, y todos quedaron admirados y dieron gracias a nuestro Señor de tal manera de muerte, y cuan bien hacía consonancia con la tal vida. La cual fue a la entrada del sábado, media hora después de maitines, a ocho de Marzo de mil y quinientos y cincuenta años.


CAPITULO XXI

DEL ENTERRAMIENTO Y OBSEQUIAS DE IOAN DE DIOS.

Bien se cumplió en la muerte de Ioan de Dios lo que Cristo nuestro redemptor dixo en su evangelio por sant Mateo cap. 23: Que el que se humillase sería ensalzado. Pues él, todo el tiempo que sirvió a nuestro Señor gastó en abatirse y menospreciarse, y ponerse en lugar baxo y humilde por todos los modos y maneras que él pudo, como en el proceso de su vida parece bien claro. Así, nuestro Señor, cumpliendo bien su palabra, tuvo tanto cuidado en vida y en muerte de levantallo y honrallo, que se puede bien decir, que a su cuerpo se le hizo el más sumptuoso y honrado enterramiento que jamás se hizo a príncipe, emperador, ni monarca de el mundo; porque, aunque a algunos príncipes haya acudido a su entierro tanta y tan principal gente o más, sería muy diferente el afecto de los unos o de lo otros, que es con lo que se da la verdadera honra; porque áquellos, por cumplimiento y aplacer al sucesor, y algunas veces por fuerza (como son todos cumplimientos del mundo); pero a éste fue diferente, porque siendo tan pobre y menospreciado y no poseyendo algo en la tierra, no se pudo poner sospecha, en los que le acudieron a honralle, de ninguna de las tres cosas que sant Ioan dice andan embelesados los hombres del mundo; y con todo eso, no siendo de día y sabiendo que Ioan de Dios era muerto, fue tanta la gente que acudió, sin llamar a ninguno, de todas calidades, que fue cosa de admiración.

Amortajaron el cuerpo, y pusiéronlo sobre un sumptuoso lecho bien adornado en una sala grande, y allí se pusieron tres altares, y se dixeron luego gran número de misas por todos los frailes y clérigos de la ciudad, que les dieron lugar desde aquella hora hasta que lo llevaron a enterrar, y todos iban a decir sus responsos al cuerpo. Cuando fueron las nueve de la mañana, era tanta la gente que había acudido al entierro, que no cabían en la casa ni en las calles. Comenzóse a hacer, y tomaron el cuerpo en sus hombros el Marqués de Tarifa y el Marqués de Cerralbo y don Pedro de Bobadilla y don Ioan de Guevara, y baxáronlo hasta la calle, y allí hubo alguna contienda sobre quién lo había de llevar; y acudió un padre venerable y de mucha santidad, de la orden de los Menores, llamado Cárcamo, con otros de su religión, y dixo: Este cuerpo nos conviene llevar a nosotros, pues su vida imitó tanto a la de nuestro padre S. Francisco en pobreza, penitencia y desnudez. Y así se lo dexaron un buen trecho, y después acudían religiosos de todas órdenes, y a trechos llevaba cada uno un rato hasta llegar a nuestra Señora de la Victoria. El Corregidor y justicia ponían orden en la gente y hacían lugar, y era bien menester, según la muchedumbre había; y iba hecha una procesión en esta manera: Iban en la delantera los pobres de su hospital y todas las más de las mujeres que él había casado y doncellas pobres y viudas, todos con sus candelas en las manos, llorando amargamente y contando a voces los bienes y limosnas que dél habían recebido. Y luego iban todas las cofradías de la ciudad y los frailes de todas las órdenes, mezclados, con sus velas. Y luego la cruz de la parroquia con sus clérigos, y al cabo el cabildo y canónigos y dignidades de la Iglesia con su cruz, y el Arzobispo y capellanes de la capilla Real, y luego el cuerpo; y detrás lo veinte y cuatro y iurados de la ciudad y caballeros y señores con ellos; y luego todos los oficiales y letrados de la Audiencia Real y otra infinita gente; haciendo sentimiento por él, y no sólo los cristianos viejos, sino los moriscos también lloraban y iban diciendo en su algarabía el bien y limosnas y buen exemplo que a todos había dado, y clamaban echando mil bendiciones. Doblaron en la Iglesia mayor con todas las campanas, y en todas las parroquias y monasterios de la ciudad con tanto clamor, que parecía que como racionales, haciendo sentimiento diferente del que suelen.

Llegados que fueron a un placeta que está delante la puerta de nuestra Señora de la Victoria, pararon con el cuerpo; porque era tanta la priesa de entrar a la iglesia, por la mucha gente que cargó, que fue menester detenerse gran espacio de tiempo, porque no era posible entrar. Y con la gran devoción que la gente le tenía, pareciéndoles que ya no le habían de ver más en esta vida, remetieron, sin poder ser resistidos, a ver y tocar el cuerpo y llevar alguna reliquia dél; que unos tocaban cuentas y otros horas y otras cosas para su consuelo; y fue tanta la gente que se llegó y los gritos que sobre el cuerpo daban llorando, que en ninguna manera los podían apartar dél, ni por ruegos ni por fuerza; y si Dios no proveyera de hacerlo apartar, hasta el ataud hicieron pedazos, para llevar por reliquias, como comenzaron y no dieron lugar al entierro. Finalmente, dando lugar, entraron el cuerpo en la iglesia, y le pusieron sobre un rico lecho que estaba hecho. Salieron a recibille los frailes que quedaron en casa, y fueron a traelle con su general (que a la sazón estaba en Granada), el cual hizo el oficio y dixo la misa, y un fraile de la misma orden predicó muy subidamente, tratando de la humildad y menosprecio del mundo, y cómo por este camino ensalza nuestro señor a los suyos. Dixéronse muchas misas aquel día, con gran copia de hachas y cera, y enterráronlo en una bóveda de la capilla de García Pisa, que era de aquella de aquella señora en cuya casa murió. Y otros dos días, que fueron domingo y lunes, se hizo de la misma manera, con la misma solemnidad de misa y sermón y otras misas y mucho concurso de pueblo; y no se predicó sermón en más de un año en Granada, en que no se truxese a plática Ioan de Dios y su vida, para prueba de algo que se trataba y exemplo del pueblo. De este día en veinte años entraron unos caballeros en la bóveda con deseo de velle y hallaron que estaba entero sin comérsele sólo el pico de la nariz; de lo cual quedaron admirados, por no haber hecho en su cuerpo diligencia ninguna de embalsamalle como a otros, para que no se corrompan. El cual, según sus obras y la gran bondad y misericordia de nuestro Señor, se puede piamente creer, que está gozando de su Majestad en su gloria, que según su palabra tiene aparejada para los tales; a la cual plega a su Majestad encaminar nuestros pasos con tal vida y obras, que merezcamos vivir con él para siempre. Amén.

CAPITULO XXII

DE LO QUE SUCEDIO DESPUES DE LA MUERTE DE IOAN DE DIOS.

Ya queda dicho cómo antes que pasase desta vida Ioan de Dios, quedó encomendado el hospital a su compañero Antón Martín para que le rigiese y mirase por él, como él hacía; el cual, como bien enseñado de su maestro en la caridad y cura de los pobres, estuvo algunos días en el hospital exercitando su oficio con mucho cuidado; y movido de las necesidades que vio que la casa tenía, parecióle ir a la Corte a pedir a los señores y grandes (como Ioan de Dios hacía) para cumplir con ellas y llevar adelante la obra comenzada. Y allá algunas personas devotas y principales persuadiéronle que fundase en Madrid un hospital de su instituto y orden, que era muy necesario para que con caridad y cuidado se curasen los enfermos y pobres, y que le darían muchas ayudas para ello con que se pudiese hacer. El cual lo aceptó, y se comenzó a hacer y se hizo donde ahora está, y se dice el hospital de Antón Martín, tan grande y principal como todos saben, donde se curan muchos pobres, y hay muchos hermanos del mismo orden y instituto que en Granada, salvo que diferencian en ser un poco más escuro el color del sayal que traen, que los de Granada; y traen las capachas debaxo del brazo, y no al hombro, porque decían que les sucedía topar con ellas a los caballeros y personas principales con quien trataban, como hay tantos allí. Comenzada esta obra de Madrid y estando en buenos términos, Antón Martín volvió a Granada y truxo muchas mantas y lienzo de ropa y otras limosnas en dinero para el hospital, y dando cuenta al Arzobipo don Pedro Guerrero del estado del hospital que dexaba comenzado. Y pedida su licencia y habida, se volvió allá; donde estuvo exercitándose en muy sanctas obras, así de su hospitalidad como de penitencia (porque fue en extremo penitente y de gran exemplo y de buena vida) hasta que murió; y como su vida había dado a todos buen olor, acudieron a su enterramiento todos los señores y grandes de la Corte, y hízose muy solemne, y enterráronlo en una capilla principal del monasterio de sant Francisco de la villa de Madrid, donde reposa en el Señor.

Pues, volviendo a nuestra historia: como Antón Martín se fue, quedaron en el hospital otros hermanos, de que después haré más mención (que como discípulos de tan santo varón, salieron tales, que es bien digna de saberse su vida y lo que después hicieron). Y éstos regían y administraban el hospital por el orden que vieron a su maestro, siendo siempre uno hermano mayor, que como superior mandaba todo lo de casa, y los demás le obedecían. Sucedió, pues, que como eran tantos los pobres que acudían al hospital de todas enfermedades, y a ninguno se le negaba la puerta, como siempre fue y es costumbre en este hospital, no cabían de pies, y era mucha la estrechura que tenían, y grande la necesidad de buscar lugar más capaz, porque todos cupiesen y tuvieren holgura. Acudieron con esta necesidad al Arzobispo don Pedro, el cual era menester poco para que acudiese luego con todas sus fuerzas a semejantes necesidades. Y él, visto lo que pasaba, procuró poner remedio en ella; y así, considerando dónde habría lugar dispuesto y espacio para ello, y en el común cómodo cerca de todo lo de la ciudad, y fuera della por el aire, parecióle que no había alguno mejor que adonde ahora está el hospital, que era un suelo de la ciudad, junto a otro que era de los frailes de sant Hierónimo, donde decían que había sido sant Hierónomo el viejo; y concertó con la ciudad y con los frailes, que para una obra pública y tan necesaria como ésta, que diesen cada uno lo que les pertenecía del solar, donde se edificase el hospital, y que él ayudaría para la obra, y lo demás se haría de las limosnas de los fieles que se pedirían para eso, y que asimismo los frailes gastasen allí ciertas limosnas que un Obispo de Guadix, llamado don Antonio de Guevara y Avellaneda, les había dexado en su muerte, para que en esta ciudad lo gastasen en los pobres y obras pías; y como ninguna había más pía que está, que aquí se emplearía bien. Concertado esto con todos, la obra se comenzó, y el Arzobispo ayudó luego con mil seiscientos ducados, y el Padre Avila, que al presente estaba aquí, comenzó a divulgar la obra por los púlpitos y encargalla a todos, que ayudasen con sus limosnas. Y era tanto lo que este varón podía y estaba acepto al pueblo, que en breve tiempo le acudieron todos (como antiguamente a Moisen) para la edificación y ornato del tabernáculo de Dios. Porque uno traían dineros en grueso y otros bastimentos y peones, y otros ropa, y las mujeres sus manillas y zarcillos y sortijas y todo género de joyas, con tanto hervor y devoción, que en breve se allegó mucha limosna, y la obra iba creciendo, y se acabaron los tres cuartos que ahora están hechos, y el Arzobispo dio dineros con que se hiciesen de presto puertas y ventanas y atajos, y se pasasen los pobres, como se pasaron, a las nuevas salas donde ahora están, que aun la obra no está acabada. Y la causa ha ido, porque el demonio, que nunca duerme, sino como sembrador de cizaña, quiso meter su mano en esto, que vio que tan próspero iba en el servicio de nuestro Señor; y por los medios que él suele, dio orden en que hobiese pleitos entre los frailes y los hermanos, que hasta hoy duran, y aun no están averiguados. Que no es de mi intento tratallos, porque son cosas que van por tela de juicio; y en el de Dios, si pareciesen, presto se averiguarían, pues redunda de aquí que muchas buenas obras cesen: dexémoslo a él, y volvamos a decir el orden de los hermanos.

CAPITULO XXIII

DE EL ORDEN QUE HOY DIA TIENEN LOS HERMANOS DEL HOSPITAL DE IOAN DE DIOS, Y EL FRUCTO QUE POR TODAS PARTES HAN HECHO.

Fue tan grande el exemplo de vida que dexó Ioan de Dios, y lo mucho que agradó a todos, que muchos se animaron a imitalle y seguir su pisadas, sirviendo a nuestro Señor en sus pobres y exercitándose en el oficio de la hospitalidad por sólo Dios; para lo cual no son menester letras ni estudios, sino mucho menosprecio de mundo y de sí, y mucha caridad y amor de Dios. Y por eso se animaron y animan a entrar personas de todas edades y estados, que para otras órdenes no eran útiles por fatalles letras. El orden que tienen en recebillos es este: Entran en el hospital examinados de el intento que traen de servir a nuestro Señor, si es derecho; y siendo tal, recíbenlos y hacen que en hábito honesto pardo sirvan a los pobres y en el oficio que les mandaren por algunos días: algunos, dos y tres y seis años, según les parece que hay necesidad; donde les prueban en toda humildad y honestidad; y si salen tales, después de pedillo con mucha humildad al hermano mayor y rector, danles el hábito. Y así están con él también por algunos años, hasta que les hallan beneméritos para dalles la profesión; que así esto como su orden de vivir y proceder, en todo parecerá como en las constituciones de la orden, que adelante se pondrán, y por eso no lo digo aquí. Están de ordinario en esta casa de Granada diez y ocho y veinte hermanos; exercítanse en asistir en las enfermerías curando los pobres parte dellos, y otros sirven los oficios de la casa, y otros salen por la ciudad a pedir limosna, que la tienen repartida en parroquias; cada uno pide la suya, y otros salen fuera por la tierra y comarcas a pedir trigo y cebda y queso, aceite, pasa y las demás cosas necesarias a la vida. Y con esta industria llegan limosna bastante para el sustento del hospital, y con la poca renta que él tiene lo provee nuestro Señor, de manera que se sustentan de ordinario ciento y veinte camas y treinta sirvientes sin los hermanos, y algunas veces en tiempo de necesidad hay trescientas y cuatrocientas camas, y todos se sustentan y curan con la providencia de nuestro Señor, no sin justa admiración de todos; porque tuvo y tiene siempre, desde el principio, este hospital una cosa heredada del bendito Ioan: que no se desecha pobre que llegue, ni hay camas limitadas, sino a todos reciben cuantos llegan, y aunque no haya cama tienen por mejor hacelle echar en un zarzo de anea mientras la hay, y allí mantenelle y sacramentalle, que no sin nada desto que se mueran por los suelos. Todos los sirvientes que aquí entran sirven de caridad por amor de Dios, y a ninguno se le da salario. Y así es mejor servida la casa que en parte del mundo, porque todos entran por salvar sus ánimas exercitándose en la caridad; y así cada uno hace lo que más puede, sin que sea menester reprehensión.

No sólo se ha hecho aquí el fruto que está dicho, sino que desta casa, como de cabeza, han salido hermanos de mucho exemplo, que han fundado hospitales en otras muchas partes, donde se hacen muchas buenas obras nacidas de aquel granico que nuestro Señor sembró en Ioan de Dios, a su imitación y exemplo. Porque de aquí salió Marín de Dios, que fundó el hospital que los hermanos tienen en la ciudad de Córdova, que antes era el hospital de sant Lázaro y el Rey se le dio a este hermano, y allí fundó un muy buen edificio donde hay muchas camas, y tiene buena renta ya de trigo y dineros. este hermano fue de muy sancta vida, muy penitente y anduvo siempre secalzo, y así acabó sanctamente.

En la villa de Lucena en el Andalucía, que es del Duque de Segorbe, fundó un hospital un hermano desta casa llamado Frutos de sant Pedro, donde se curan los pobres que por allí acuden. En la ciudad de Sevilla fundó el hospital, que llaman de las Tablas, el hermano Pedro Pecador, que fue desta casa; y llamóse de las Tablas porque al principio fue su intento que sirviese de acoger de noche los peregrinos y desamparado, y así ponían unas tablas a la larga, donde dormía mucha gente con la ropa que había; y después hizo enfermería, donde se curaban los que había enfermos de aquellos que allí recogía. Y este hospital se pasó después a la placeta de sant Salvador, donde ahora está, y se llama de nuestra Señora de la Paz, y tiene sesenta camas, todas de incurables; y el otro de las Tablas se quedó así para que sólo sirviese de acoger a los peregrinos de noche, como sirve, y tienen cuidado dél los hermanos deste otro hospital, que son doce y viven con mucho orden y religión; y porque de la vida deste hermano haremos capítulo por sí, porque es muy memorable y ya pasado desta vida, aquí no digo más.

En Roma y Nápoles hay también hospitales desta orden. Y su principio fue este: que como los hermanos desta casa de Granada fuesen allá, en vida del Sumo Pontífice Pío quinto, de felice recordación, por causa de defender el pleito que traían con los frailes de sant Hierónimo; como su oficio no es pleitos sino hospitalidad, y vieron que estaban ociosos, el hermano fraile Sebastián Arias comenzó a fundar un hospital en la ciudad de Roma con favor del Sumo Pontífice, que le agradó su instituo y el ver con cuanta caridad se exercitban en la cura y cuidado de los pobres; así lo favoreció tanto, que no sólo dio calor para que esta obra se hiciese (que en cinco meses se pusieron sesenta camas y otras ayudas que les hizo) pero procuró reducir los hermanos a orden y religión; y para que fuesen verdaderos religiosos les concedió una bula muy favorable en que, entre otras cosas, les mandó militasen debaxo de la regla de la orden de sant Agustín, y que así lo profesasen, como todo parecerá por la bula, que a la letra pondré adelante. Y nuestro muy Santo Padre Gregorio XIII, que hoy felicemente preside en la Iglesia Romana, les ha sido y es muy favorable, y les concedió por protector al Reverendísimo Cardenal Gavelo (Sabello), su vicario, para que los defendiese y amparase en todas sus necesidades, como lo hace con mucha caridad y benevolencia.

En otras partes hay también fundados hospitales desta orden en España, que dexo por evitar proxilidad; sólo digo, que hará pocos días que hasta las Indias occidentales ha volado la fama de Ioan de Dios, y cuan útil es su orden para el ministerio de la hospitalidad; pues que enviaron a esta casa de Granada cartas del Perú, Panamá y Nombre de Dios, de hospitales, que allá están fundados las cabezas dellos, sujetándose y sometiéndose a la obediencia y sujeción de esta casa y a su orden y instituto, y pidiendo con mucha instancia les enviasen la orden de su vivir y constituciones de los hermanos y la bula que tienen, porque querían allá introducir la orden suya, para que los pobres se curasen con la claridad que convenía. Y así se les envió, como lo pedían, en el año pasado de mil y quinientos y ochenta y uno. Por donde me parece sería mucha razón que todos los príncipes cristianos les favoreciesen, y procurasen su aumento y el ayudar con limosnas las casas; pues es un bien tan común y universal, y que resulta en tanta utilidad de sus reinos el haber una orden que con la caridad que se debe y sin interés humano se exercita en la cura y cuidado de los pobres, y en sufrir los hedores y inmundicias que tal oficio de fuerza trae consigo. Por lo cual con ningún interés se podían hallar personas que lo exercitasen como se debía, porque naturalmente a todo hombre da horror, y si esto no se vence con caridad, no hay otras armas para él. Y habiendo proveido nuestro Señor orden, que sólo su instituto sea éste, con tanta misericordia, y que por sólo su amor lo hagan con la caridad que se debe, es digno de retribuille muchas gracias por ello, y que todos los que tienen desto conocimiento y desean su gloria y el bien común, lo favorezcan y amparen, cada uno con lo que más pudiere; pues demás de esto es gente toda los hermanos muy virtuosa y de mucho exemplo, y que entre ellos ha habido grandes hombres en sanctidad y vida. Y porque se entienda algo desto, haré aquí en breve mención de la vida de uno, que es pasado desta presente; y aunque de otros pudiera, no lo haré, que aun no es tiempo; porque algunos aun viven, y los que los que han muerto está aún reciente su memoria y tuvieron todos noticia dellos, y así no me pareció era ahora necesario alargar más la historia.

CAPITULO XXIV

DE LA VIDA DE PEDRO PECADOR

Bien parece cuan diferente es la prudencia y saber de los hijos de Dios, de la de los hijos deste siglo; pues éstos, llenos de hipocresía, buscan nombres y ditados, a su parecer honrosos y ilustres y que en este mundo son de estima, para con ellos encubrir sus faltas y lo que no tienen de virtud, y así parecer lo que no son; y lo otros, por el contrario, como de verdad les pertenezca y esté bien todo buen nombre, ellos buscan los más baxos y abatidos, para que pareciendo tales, encubran el tesoro que del Señor tienen recebido, y le den honra cofesando por aquí su gran clemencia; pues a hombres tales hace favor y merced y se acuerda dellos, siendo él quien es. Y esta fue la causa porque este santo varón tuvo por bien de llamarse Pedro Pecador; porque, como de verdad él estuviese muy fundado en el conocimiento proprio y estimación de Dios, por la lumbre que su Majestad fue servido de comunicalle, cuanto más sube esta balanza, más baxa la del conocimiento de su propria miseria y poquedad. Y así, de tan subida empresa ningún blasón de armas le pareció podía sacar más honroso que denotara el hecho, que tomar por nombre Pedro Pecador. Y bien denotó esto en la escuela que había aprendido, y que su vida había de ser tal como la de los varones señalados; pues a muchos que nuestro Señor quería hacer tales, para dallo a entender, les mudaba los nombres en otros de los que antes tenían. Este fue tal, según los muchos barruntos que dél tenemos, que meritísimamnte se pudiera hacer libro por sí de su vida, y loores de sus grandes virtudes, gran penitencia y amor perfectísimo de Dios y del próximo, su vida eremítica de muchos años, de la soledad del monte. Y esta fue la causa de saberse poco della; porque con mucha dificultad y por sólo Dios podía ser atraído a que viviese en lo poblado, como se verá en lo que dél diremos, que será en suma lo que dél hemos podido saber, y es así.

Fue Pedro Pecador natural desta Andalucía; el lugar particular no se sabe, ni el camino por donde fue su conversión y el seguir tan de veras el camino de nuestro Señor; salvo que desde bien mozo, y a los principios en la ciudad de Iaén, se exercitaba en trabajar por sus manos, y de allí comía. Y este estilo llevó siempre (como el apóstol S. Pablo) que siempre quiso comer de su trabajo y nunca pedía donde quiera que estuvo. Echaba agua por las calles con dos cántaros a cuestas y de allí comía; y lo que le sobraba de su muy abstinente y limitada comida, daba a los pobres, y luego recogíase a su rincón y dábase a la oración, no siéndole impedimiento para esto la delicada cena ni la blanda cama (porque era el duro suelo), y su vestido siempre fue muy áspero de xerga y en la forma que los demás, mientras anduvo en lo poblado. Siempre anduvo descalzo muchos años, hasta que por vejez mucha que tenía y obediencia, le hicieron calzar. Desde Iaén se fue a una ermita, que había en un áspero y solitario monte en tierra de Málaga, donde estuvo muchos años haciendo vida angélica, y comía del trabajo de sus manos (como está dicho) haciendo cucharas y cestillas y otras cosas de palo, que vendía y de aquí se sustentaba; y de creer es que le sucederían aquí hartas cosas dignas de saberse o de que no tenemos noticia, por ser él hombre en extremo callado, y que no hablaba palabra que no fuese movido de la gloria de nuestro Señor y aprovechamiento de el próximo; pero déxase entender, por los efectos que le veían, que salía de allí tan abrasado en el amor de nuestro Señor, que cuando iba a las ciudades comarcanas, el fructo que en ellas hacía lo daba bien entender, como luego se dirá. de aquí le dio voluntad de ir a visitar los lugares sanctos de la ciudad de Roma y las reliquias de los apóstoles sant Pedro y sant Pablo; y poniéndolo en efecto, fue con muy grandes trabajos que pasó a la ida y vuelta, de hambre y fríos y soles por el poco abrigo que llevaba, descalzo y sin algo en la cabeza. llegado allá, visitó con grande devoción y lágimas aquellos lugares que tanto había deseado, besando el suelo y piedras teñidas con la sangre de tantos mártires. Y como siempre, donde hallaba ocasión, su plática era de procurar el bien y aprovechamiento de todos, y el encaminar las criaturas a su criador, demás de otros con quien habló, topase un día en una ocasión con un judío, que agradándole ser mozo modesto y de buen gesto y agudo entendimiento, le comenzó a hablar de su salvación, y el error en que estaba en querer seguir ley que había cesado con la venida del Mesías; que de verdad había venido el prometido de Dios por todos los profetas, que ellos locamente todavía esperaban; y tales cosas le supo decir, ayudándole nuestro señor y dando lumbre al judío, que le convirtió y hizo confesar la verdad; el cual pidió el baptismo, el cual se le dio con mucha fiesta en Roma; y le persuadió que por quitarse de ocasiones, de que topándose y conversando con los otros judíos que allí hay, no le pervirtiesen, que se viniese con él a España; el cual lo hizo, y así se volvió con él a España.

Vuelto de Roma, se fue derecho a Sevilla, y traía tan afilados los aceros, que desnudo y descalzo y ceñido con una soga, entró por todas las calles haciendo penitencia pública, y dando voces a todos que la hiciesen, diciendo tales cosas, con tales amonestaciones y palabras tan vivas, que atravesaba los corazones de los que las oían, y que bien parecía que salían con fuego del Espíritu Sancto, pues en muchos hizo gran fructo; y dexado el mundo, siguieron a Cristo nuestro redemptor por diferentes caminos: unos en religión, otros siguiendo lo que él hacía, como se dirá. Y era un modo de decir el suyo tal, que no parecía que él hablaba, sino que otro le movía la lengua, porque él andaba absorto y tan elevado, que andando por medio de las plazas, parecía que ni vía ni oía a nadie, sino que andaba como solo en el monte, y sus palabras eran pocas, y tales y con tanta viveza dichas, que hasta hoy las oyó alguno, por olvidado que fuese de las cosas de Dios, que se le olvidasen y que dexasen de ponelle en admiración. desta manera y con este modo anduvo toda la tierra de Sevilla, donde con los hermanos que se le habían llegado, fundó el hospital de las Tablas, en la forma que queda dicha, y allí se exercitó muchos días curando y sirviendo los pobres y saliendo por las calles, y en lugar de pedir decía verdades y sin pedir le daban todos limosnas para los pobres. Y porque no fuese visto que todo lo procuraba para los otros, y que olvidaba su aprovechamiento y su antigua vida del monte y la oración, de cuando en cuando recogía los hermanos y hacíales una plática, amonestándoles cuán necesario era acudir los hermanos, y que en el tráfago de Sevilla se podía mal hacer, como se debía. Y así, dexado uno en el hopital, con los demás se iba a la sierra de Ronda, a lo más áspero della, y en una cueva se metía, y allí se daba muchos días a la oración y meditación, y enseñaba a los suyos cómo lo habían de hacer, como maestro que tantos año había que lo usaba. Y asimismo les enseñaba a trabajar de sus manos, para evitar la ociosidad y procurar el sustento necesario. Y de aquí, después de algunos días, veces un año y más, se volvía a la ciudad, y así sustentaba la una vida con la otra, y criaba hermanos de mucha virtud, exemplo y santidad y de mucha penitencia; porque él les daba tal exemplo, que esa era bastante amonestación para hacellos tales, porque era muy áspero para sí y muy abstinente. Y acontecíale, del andar descalzo y topar por aquellos riscos, hacérsele grietas tan grandes, que por no tener otra cura, por los duros callos que en los pies tenía, agujerarse con un alesna, y cosía las grietas con unos cabos en que cosen los zapatos. Aconteció un día, que estando en la sierra con un solo compañero, que hoy vive, fueron por ella a buscar madera para hacer cuchares y taravillas, y viniendo por el camino no habían comido, y venían tratando cómo en la cueva no había de comer, y venían desfallecidos; y llegados a la cueva, vio Pedro Pecador encima de un poyo un pan grande muy blanco y junto dél una aceitera llena de aceite, y vuelto al compañero con muchas lágrimas le dixo: Mirá, hermano, cómo el Señor piadosísimo ha tenido cuidado de proveernos sin merecello. Y hincados entrambos de rodillas dieron por muy gran rato gracias a nuestro Señor, que había hartado sus almas de devoción, vista aquella merced, y sus cuerpos del sustento necesario.

CAPITULO XXV

DE LA VENIDA DE PEDRO PECADOR AL HOSPITAL DE IOAN DE DIOS, Y DE SU MUERTE.

Aunque el buen Pedro Pecador deseaba a tiempo exercitarse en el servicio de Iesu-Cristo en sus pobres, pero su principal deseo y contento era la soledad y quietud; y así acudía algunas veces al hospital, y luego se volvía al monte. Perecióle que era muy conoscido en Sevilla, y que cuando le vían le hacían más honra de la que su mucha humildad y desprecio de mundo sufría; y así determinó de no volver más allá, sino encomendó el hospital a un hermano llamado Pedro Pecador el chico, de gran virtud y sanctidad y gran pieza, y que en Sevilla fue grandemente bien quisto y querido de todo el pueblo, y él fuese a Granada al hospital de Ioan de Dios, y allí hacía lo que le mandaban, saliendo por las calles como en Sevilla, con sus acostumbradas amonestaciones, descalzo y descaperuzado, y con los cabellos muy largos y un solo saco de xerga hasta en pies y un Crucifixo en la mano, que sólo velle compungía a un hombre y le hacía encoger; y diciendo las palabras y haciendo el fructo que en todas partes había hecho. Y de aquí se volvía a la sierra, como solía, hasta que amonestado de personas devotas sus conocidos, le persuadieron que se viniese de todo punto al hospital de Ioan, y tomase allí el hábito: lo uno por su mucha vejez, que ya era muy viejo, de casi setenta años, que no podía sufrir los trabajos del monte; lo otro por el fruto que a todo hacía en la ciudad a pobres y ricos. El, como no tenía voluntad, obedeció, pareciéndole que no era mal remate para la vida eremítica que había hecho, acabar debaxo de profesión y obediencia. Y así vino y tomó el hábito, y a cabo de algunos días profesó, y sirvió mucho en la casa su buena vida y exemplo, y lo que llegaba para los pobres, teniendo los exercicios que solía, y procurando con todo el aumento de la honra de Dios. Juntaba en la plaza aquella gente ociosa y perdida, y hacíales unas pláticas tan excelentes y con tanto espíritu, que tuvieran bien que aprender algunos de mucho discurso y años de letras. tenía también por costumbre cada día madrugar mucho y irse a las plazas donde se juntan las gentes trabajadoras del campo a cogerse, y subíase sobre una mesa, y hincado de rodillas decíales toda la doctrina cristiana con mucha devoción, como aquel que entendía que muchos de los que allí se juntaban no la sabían, para que con el ordinario curso de oilla la aprendiesen, y hacíales que respondiesen a ella. Traía de ordinario por las plazas un niño Iesús en la mano, muy bien aderezado, y era cosa de misterio ver la reverencia y acatamiento con que le traía, no desenclavando dél los ojos, ni por cansancio ni por discurso de tiempo, afloxando desto un punto; y con ser grandecillo, que pesaba razonablemente, nunca se cansaba de traelle todo el día en una mano, sin mudalle a la otra, con ser tan viejo, tanto que admiraba a los que lo veían. Y los viernes traía una cruz grande antes de llegar a la cueva. Y cuando iba a ella, siempre había de pasar por la cruz, y arrodillábase delante de ella, y decíale tantos amores y dulzuras y regocijábase tanto con ella, como sancto Andrés cuando lo llevaban a crucificar. Levantábase en el hospital a media noche, y íbase a la iglesia y hincábase de rodillas y gastaba hasta la mañana en oración y en cantares que decía delante el Sanctísimo Sacrmento, con gran devoción y simplicidad sancta, diciendo: ¿Quién me apartará del crucificado? ni el demonio ni cuanto hay criado; y cantando su coplas del Señor y de su amor. Y luego levantábase al son y bailaba, y tornaba a la oración; y desta manera pasaba las más de las noches en dulce melodía de su alma. Y esto mismo hacía algunas fiestas principales de pascuas y de otros sanctos, que madrugaba mucho y se iba a su iglesia, y allí bailaba delante su altar, diciendo algunas coplas en loor de la fiesta; y luego hincábase de rodillas y oraba y volvía al baile con tanto espíritu que movía mucho los corazones de los que lo alcanzaban a ver; porque, como queda dicho, él hacía todo esto tan embebido en sí, y tan hacer caso de nadie, como si estuviera solo en el mundo y no tratara entre hombres, pero no me maravillo; que de tratar tanto con Dios le había cobrado tanta reverencia y amor, que por andar en sola su presencia, compuesto y atento a lo que a su servicio convenía, había perdido el parecer que no andaba entre hombres; pues porque en un punto no le fuesen impedimento de asistir a Dios, no hacía más caso dellos que de piedras muertas; y de la misma manera obraba y oraba en la plaza, como si estuviera encerrado en su celda; que cierto ésta era una cosa muy de ponderar en él y muy notable, y que algunos que tenían ojos para vello, les ponía en admiración y loaban al Señor de habelle hecho tal su gracia y hábito de la buena vida. Era devotísimo del Sanctísimo Sacramento y asimismo de nuestra Señora. Y los días de Corpus Christi que se hallaba en Granada, salía puesto sobre el hábito alguna cosa y en la cabeza, y iba bailando delante de nuestro Señor y cantando toda la procesión; y con ser tan viejo no se cansaba, y con no saber bailar cosa ninguna era tanta la gracia y espíritu con que hacía aquello, que dexaban de ver todas las fiestas y se iban a ver a Pedro Pecador; y hombres espirituales había que decían que se iban a ver a Pedro Pecador por hartarse de llorar de devoción; y así les sucedía, porque daba tantos saltos delante nuestro Señor y de la imagen de su madre, y decía tales palabras, que sin mucha dificultad hacía prorrumpir en lágrimas. Llegóse el tiempo en que nuestro Señor tenía determinado de dar descanso a su siervo y el premio de sus servicios y trabajos; y porque se cumpliese bien el consejo que le habían dado de su parte, que era buen acuerdo acabar con obediencia, fuéle impuesta obediencia que tomase el camino; y fuese a Madrid a tratar ciertos negocios con el Rey, que importaban a la casa; a lo cual él obedeció sin hablar palabra, aunque se le hizo bien de mal; lo uno, por estar enfermo de vejez, que ella sola es enfermedad; y lo otro porque él era inimicísimo de tráfagos y de cortes cuanto era posible; y baxando la cabeza, fue llevando un asnillo, que el hermano mayor le mandó llevar, aunque según se supo, él poco subió en él, porque no lo tenía usado, sino de andar de pie toda la vida; y así en el comer se trató en el camino harto ásperamente; porque llegado a Madrid, se fue a acoger a su hospital de los hermnos, y allí, como era huésped, no quería comer en el refitorio de los hermanos, sino a un rincón comía algunos regojos de pan duro que traía en la capacha, y con esto pasaba. Comenzó a negociar, y dióle una calentura que le duró algunos días y le puso en trabajo. Y conocido que aquella enfermedad era la prostera, salióse de la Corte y fuese a Mondéjar, que es cerca. Y estaban allí el Conde y Condesa de Tendilla, que ahora son Marqueses de Mondéjar, que ellos y sus padres y abuelos han sido siempre muy piadosos y cristianos, y tenido gran devoción con esta casa de Ioan de Dios y favorecídole, y al presente le favorecen muy largamente con sus limosnas. Como fueron mucho tiempo capitanes generales deste reino de Granada, y son alcaides desta fortaleza insigne del Alhambra, y vivieron aquí siempre, conocían mucho al buen Pedro Pecador, y así acogióse allá a morir; y entrando por su puerta fuese a ellos, que holgaron mucho de velle. Y díxoles en entrando: acá me vengo a morir; y agravándosele el mal le hicieron acostar en buena cama, y curaron dél con gran caridad de todo lo necesario, como a sus mismas personas, y él en lugar de los quexidos que otros enfermos dan, si hasta allí cantaba y decía canciones amorosas a Dios, entonces las decía con mucha más dulzura y amor, como el cisne cuando muere, que canta más dulcemente. Y como aquel que ya veía al ojo el cumplimiento de sus deseos, y que se llegaba el día en que había de ver a su amado Iesús; y recebidos los Sanctos Sacramentos con muchas lágrimas y devoción, la noche que murió quedáronse solos con él el Marqués y Marquesa, por gozar aquello poco que les quedaba de su angélica conversación y palabras sanctas. Y comenzó a cantar y bailar y dar con los dedos, como solía, un cantar sancto; y luego a decir muchas veces: Cogé desas flores, coge desas flores; como aquel que ya veía las flores, que la Esposa dice, en los Cantares, que habían parecido en nuestra tierra, que presto le habían de dar frutos, que gozase en la bienaventuranza para siempre; y diciendo estas plabras espiró, y dio el alma a su Criador. Quedaron todos tan consolados de ver esta muerte seguida de tal vida (que es lo que hace el caso), que daban muchas gracias al Señor. Y lo más del pueblo, teniendo noticia dello, a la hora acudió mucha gente a vello y honrallo, como a sancto y hombre de Dios; y así los Marqueses lo veneraron como a tal, y le hicieron hacer las obsequias con mucho cuidado y muy hondamente. Y después de tenello en la iglesia a donde todos lo viesen, algunos días, el Marqués mandó que se le hiciese un caxa de madera forrada en cuero negro y en ella se metiese el cuerpo; y no queriendo, con el grande amor que tiene a esta casa y hermanos, privalles del cuerpo deste sancto hombre, hizo a sus criados que lo truxesen a esta casa en una acémila bien compuesto como a tal. Y así vinieron con él a Granada, y con ser en tiempo de calor y haber setenta leguas de camino, llegó aquí sin mal olor alguno, sino tan entero como cuando murió, y había quince días que había muerto. Llegó a media noche, y llegando al hospital con él, contó el hermano mayor: que estando despierto en su celda antes que llamasen a la puerta, en el techo de su celda le dieron un golpe tan grande, que pensó que el aposento y el cuarto iban al suelo. Y saliendo de la celda a ver qué podía ser, no oyó nada, sino que todos estaban quietos durmiendo; y oyó luego que a gran priesa llamaban a la puerta, y llamado que viesen que era, dixéronle que era el cuerpo de Pedro Pecador, por donde conoció que aquel golpe podría ser para prevenille de lo que a su casa venía. Y así se levantó luego toda la casa a aquella hora, y con velas blancas le salieron a recebir, y lo metieron en la iglesia con gran regocijo, y queriendo hacelle el entierro que tal persona merecía, el Perlado lo impidió, por los justos respectos que a él le parecieron, y mandó se enterrase luego, y con todo eso no pudo ser con tanto secreto que no acudió mucha gente, y lo sepultaron con mucha devoción de todos, viéndolo tan entero a cabo de tantos días que había muerto, y alabaron a nuestro Señor, que es honrado en sus sanctos y vive para siempre jamás. Amén.

CAPITULO XXVI

DEL TRASLADO EN LENGUA CASTELLANA DE LA BULA DE FUNDACION E INSTITUCION, APROBACION Y CONFIRMACION DEL HOSPITAL DE IOAN DE DIOS DESTA CIUDAD DE GRANADA, Y LA LICENCIA Y CONCESION QUE SE DIO AL HERMANO MAYOR Y HERMANOS QUE PIDEN LIMOSNA PARA LOS POBRES DEL DICHO HOSPITAL, PARA QUE PROFESASEN Y TOMASEN HABITO DE CAPOTE DEBAXO DE LA REGLA DE SANT AGUSTIN, Y HICIESEN VOTO DE OBEDIENCIA AL PERLADO, POR EL MUY SANCTO PADRE PIO QUINTO DE FELICE RECORDACION.

PIO OBISPO, siervo de los siervos de Dios, para perpetua memoria.

Aunque conforme a la obligación que tenemos a lo que toca al oficio de Sumo Pontificado, a nos de lo alto encargado, nos convenga atender al provecho de todos y cualquier píos lugares; principalmente nos toca mirar por los hospitales y lo que en ellos habitan, y por los miserables pobres y enfermos que en ellos se curan. Y de estos tales debemos tener más solicitud y cuidado, cuanto mayores viéremos que son las necesidades, y mayor la pobreza de los que en ellos están. Fuénos poco ha presentada una petición, por parte del amado hijo Rodrigo de Cigüença, que de presente es hermano mayor del hospital que dicen de Ioan de Dios de la ciudad de Granada. La cual contenía, que aunque es ansí que en el dicho hospital de la dicha ciudad en la cual reside el Audiencia real, a la cual suelen acudir gran número de forasteros a negociar sus pleitos, agora de presente haya un hermano mayor y otros diez y ocho hermanos, que están subjetos al dicho hermano mayor, los cuales se ocupan en pedir limosnas para el dicho hospital, en el cual siempre se curan de diversas enfermedades, y sustentan muchos pobres de Cristo incurables, viejos, mentecaptos, tollidos, perláticos, el número de los cuales suele subir a cuatrocientos y más, en cuya cura y sustento se suele gastar suma de diez y seis mil ducados y más, de lo que se llega de las limosnas que los fieles cristianos suelen dar a lo dichos hermanos cada año, y de lo que los dichos hermanos por su industria piden y buscan para caritativamente sustentar a los pobres.

Y como el tal número de pobres de Cristo, en el tiempo de la guerra que el año pasado hubo contra los revelados en el reino de Granada haya crescido, y no se lleguen agora tantas ni tan cumplidas limosnas como de antes se solían hacer, y los dichos hermanos, aunque con grandísimo trabajo, no cesen de lo que han comenzado, antes con gran fervor la dicha tan loble obra y siempre la prosigan. Demás desto, cresciendo la malicia de los hombres, algunas personas legas, movidas por avaricia sin temor de Dios nuestro Señor, vistiéndose con falso título del hábito llamado capote comúnmente, que es de paño de sayal en aquellas partes de que suelen vestirse los dichos hermanos, ansí de los sobredichos hospitales como de los de la ciudad de Córdova y de Madrid, diócesis de Toledo, y de la villa de Lucena, diócesis de Córdova, respectivamente, casas fundadas a la manera del dicho hospital de la ciudad de Granada, y en los cuales se suelen exercitar las semejantes obras de caridad que los dichos cofrades del dicho hospital de Granada suelen hacer, se han atrevido a pedir limonas y buscarlas y gastarlas en malos y dañosos usos, en grandísimo perjuicio del sustento necesario de los pobres y de las personas que en los dichos hospitales habitan. Y según en la dicha petición se contenía, nos haya suplicado humildemente el dicho Rodrigo, que para más fácilmente quitar y estorbar que no hubiese las tales cosas, que convendría que ansí a los dichos hermanos de Granada, como a los demás de los de Córdova, villa de Lucena y los demás hospitales que conforme a esto se erigiesen o por tiempo fueren, se les diese licencia, que sobre su vestido de capote que suelen traer, se pusiesen un escapulario del dicho paño de sayal que les llegase hasta las rodillas, para que fuesen conoscidos más fácilmente de todos los fieles cristianos que dan limosnas, y se diferenciasen de los que no son hermanos y con falso título de los dichos hospitales o de alguno dellos con fraude y malicia piden las limosnas. Y ansímesmo que a cada uno de los dichos hospitales y a los demás que a forma dellos se erigiesen, entre los dichos hermanos haya uno que sea sacerdote, que traiga el semejante hábito y escapulario, el cual diga misa, celebre los divinos oficios y administre los sacramentos, ansí los dichos demás hermanos como a los pobres de Cristo que estuvieren en el dicho hospital; el cual les predique y enseñe la ley divina y que se les de licencia puedan pedir y rescibir limosna para el sustento de los dichos pobres de los tales hospitales, no solamente en las ciudades y pueblo en que los dichos hospitales están, sino en todo su districto, diócesis y provincia. En todo nos pidió que tuviésemos por bien de favorescer su piadoso deseo, y suplicó mirásemos por la utilidad de los dichos hospitales y bien de los pobres, y proveyésemos de conveniente remedio, según la benignidad Apostólica.

Por tanto nos, deseando con purísimo afecto la ayuda de los pobres y consolidación del dicho Rodrigo y hermanos y el tan loble y piadoso propósito, y absolviendo al dicho Rodrigo de todas y cualesquier sentencias, censuras y penas, a iure vel ab homine, por cualquier ocasión o causas pronunciadas, si en ellas hobiere en alguna manera incurrido, para conseguir el efecto de las presentes por su tenor dellas, y dándolo por absuelto. Inclinados a las dichas peticiones, por la autoridad apostólica y tenor de las presentes, para siempre jamás, damos licencia y concedemos al dicho Rodrigo y a todos cualesquier hermanos de los dichos hospitales que agora están fundados o adelante se erigieren, con tal que vivan debaxo de la regla de sant Augustín, que continuamente puedan traer, sobre sus vestidos o el capote que suelen traer, el dicho escapulario que llegue hasta las rodillas, del mismo paño que dicen sayal; y que puedan tener un hermano sacerdote en cada uno de los dichos hospitales, que sea hermano y traiga el mesmo hábito de paño, con que sea mayor, más ancho, como conviene a la decencia sacerdotal, el cual agora por esta primera vez elija el Ordinario a su parescer. Y que puedan pedir a todos los fieles cristianos limosnas para los dichos hospitales y sustentos de los pobres de Cristo y de las personas que en ellos residieren, ansí en las ciudades, villas y lugares en que estuvieren fundados los dichos hospitales, como en todos su districtos y provincias; y libremente lo hacer, rescebir, gastar y convertir en los usos de los dichos hospitales y pobres de Cristo. Y ansí mesmo para siempre jamás sometemos y subjetamos, ansí al dicho sacerdote como al llamado hermano mayor y a los demás hermanos, a la jurisdición, visitación y obediencia del Ordinario donde estuvieren; y que el dicho hermano mayor y los demás hermanos estén obligados cada un año a dar buena cuenta, fiel y legal al dicho Ordinario del lugar, cuando a él le paresciere, de todas las dichas limosnas que se hubieren rescebido en el dicho hospital durante el tiempo de la tal administración, y no a otra ninguna persona.

Y para siempre jamás ordenamos que los hermanos que agora son o por tiempo fueren de los dichos hospitales, que después de haber rescebido el dicho hábito no lo puedan dexar ni dar ellos a otro, si no fuera de consentimiento de todos los otros hermanos del dicho hospital donde se hubiere tomado el dicho hábito, so pena de excomunión mayor, en la cual, ipso facto, incurran. Y estrechamente inhibimos a todas y cualesquier personas, de cualquier estado, grado, orden y condición que sean, si no fueren los Ordinarios de los tales lugares, que por ninguna causa ni vía ni pretensión se entrometan a regir, gobernar o administrar los dichos hopitales o los que conforme a estos se rigieren, so la dicha pena. En la cual ansí mesmo incurran, ipso facto, lo contrario haciendo. Decerniendo que el dicho hermano mayor y los demás hermanos de los hospitales que agora son o de aquí en adelante se fundaren, que en ningun manera puedan ser perturbados, vexados, molestados en la administración, gobierno o regimiento de los dichos hospitales por cualesquier personas de cualquier estado, grado, orden y condición que sean, aunque sea con pretensión de haberles fabricado en todo o en parte en los tales hospitales, o por cualquier pia manda o legado que hayan en ellos hecho. Y que las presentes letras en ningún tiempo deben ser notadas de vicio de subrepción o brepción, ni querer saber qué haya sido la causa de nuestra intención, o que sean de algún defecto notadas, impugnadas, invalidadas por cualquier causa o razón, ni deban ser traídas en juicio ni en pleito, o reducidas a los términos del derecho, y que no se pueda impetrar otro remedio de derecho o de gracia contra ellas y que no estén obligados a verificar la causa o causas ante el Ordinario del lugar, o otro cualquier juez delegado que use de cualquier facultad, la causa o causas porque las presentes de nos emanaron. Y por eso no dexen de tener su fuerza sin alegar haber sido ganadas por sobrepción, y que el dicho Rodrigo no esté obligado a verificar lo dicho, ni sean incluídas debaxo de cualesquier cláusulas se semejantes o diferentes gracias concedidas, ansí por nos como por los Romanos Pontífices nuestros sucesores, aunque sean con cualesquier cláusulas derogatorias y otras más eficaces y extraordinarias, o por otros decretos que andando el tiempo se hicieren, de cualquier tenor que sean. Sino que sin embargo dellas permanezcan en su fuerza y vigor, y que tantas cuantas veces las tales emanaren, éstas se queden en su antigua fuerza y vigor, y como si de nuevo fueran revaliddas, aunque estén de nuevo despachadas con data, y se ganaren ansí por el dicho Rodrigo o el que fuere hermano mayor del dicho hospital, porque esta es nuestra incomutable voluntad, y por tal se debe de tener y juzgar por cualesquier jueces comisarios de cualquier autoridad que sean, quitándoles a ellos y a cada uno dellos la facultad de juzgar o interpretar de otra manera. Y que todo lo que cualesquier personas, por cualquier autoridad que sea, sobre esto se intentare, sabiéndolo o de malicia, sea de ningún valor ni efecto. Por lo cual por las presentes mandamos a nuestros venerables hermanos del Arzobipo de Granada y a los obispos Amerinense y de Córdova, que ellos o los de ellos o el uno por sí o por otro, que por la dicha nuestra autoridad, luego que fueren requeridos por parte del dicho Rodrigo o del dicho hermano mayor que fuera del dicho hospital, publicándoles solemnemente las dichas letras, las hagan cumplir con efecto y guardar en todo y por todo, como en ellas se contiene. Y que los dichos Rodrigo y los que por tiempo fueren hermanos mayores gocen pacíficamente de las cosas dichas y cada cosa dellas conforme al tenor de las dichas letras, y no permitan que ellos o alguno dellos de cualquiera sean indebidamente molestados, perturbados o inquietados, poniéndoles silencio a los que lo contradixeren o fueren rebeldes en obedescer a las cosas sobredichas por censuras y penas eclesiásticas o otros convinientes remedios de derecho, sin les otorgar apelación y guardando la forma y tenor de lo que sobre esto se procesare declararlos haber los dichos incurrido en las tales censuras y penas y repetirlas, agravándolas, e invocar el brazo seglar si para ello fuere necesario. No embargante las constituciones ordenaciones de Bonifacio Papa Octavo, de felice recordación, nuestro predecesor, o el Concilio general de las dos dietas, con que por virtud de las enores y formas, y con cualesquier cláusulas y decretos, aunque sean por motu propio y cierta sciencia, y con la plenitud de la autoridad apostólica en contrario concedidas, confirmadas innovadas todas las cuales, aunque dellas y del tenor de todas ellas se hubiese de hacer especial y expresa mención en alguna otra forma que se hubiese de guardar, como si de verbo ad verbum, sin dexar algo se hubiese de enxerir en su forma y tenor, como si aquí fueran insertas, se hayan por bastantemente referidas, quedando aquéllas en cuanto a lo demás por agora en su fuerza y vigor, porque especial y expresamente las derogamos cualesquier cosas que en contrario fueren, aunque alguno en general o en especial por la Sede Apostólica le haya sido concedido, que no pueda ser entredicho, suspendido o descomulgado por letras apostólicas, no haciendo entra y expresa mención de verbo ad verbum deste indulto.

Ningún hombre se atreva a romper esta nuestra carta de absolución, concesión, facultad, subjectión, ordenación, estatuto e inhibición, decreto, mandato y derogación, o con presumpción temeraria ir contra ella, y el que presumiere atentarlo entienda que incurre la indignación de Dios omnipotente y de los bienaventurados sant Pedro y sant Pablo sus apóstoles. Dada en Roma a sant Pedro en el año de la Encarnación de nuestro Señor Iesu-Cristo de mil y quinientos y setenta y un años, a primero de Henero, en el sexto año de nuestro Pontificado.

Laus Deo.

SONO LORO I NOSTRI FIGLI PREDILETTI – Card. Crescenzio Sepe

Posted on Febbraio 28th, 2009 di Agelo |  

icon for podpress Flash Video [1:54m]: Hide Player | Play in Popup

sepe

IL  CARDINALE “SERVE” I POVERI: “SONO LORO I NOSTRI FIGLI PREDILETTI”

Sono arrivati in 260 al “pranzo di Natale” offerto oggi dal Cardinale Crescenzio Sepe nel salone di rappresentanza del Palazzo Arcivescovile proprio alle spalle del Duomo.

E a servire i poveri e i senza fissa dimora intervenuti, c’era un cameriere d’eccezione: l’Arcivescovo di Napoli in persona. Con tanto di grembiulino a quadri rossi e bianchi l’arcivescovo ha offerto il menù della tradizione campana: prosciutto e mozzarella, pasta e tacchino al forno, cassatine e aglianico del beneventano.

C’era anche la musica ad allietare il banchetto dei poveri che abitualmente pranzano o cenano alle mense delle suore di Madre Teresa di Calcutta, dei padri di Don Calabria, del Binario della solidarietà, del dormitorio pubblico, della casa Riario Sforza.

A servire gli invitati con Sepe, lo staff dei camerieri e 7 diaconi seminaristi.

Oltre 120 regali e giocattoli sono stati poi consegnati dall’associazione “Futuro in Movimento”, presieduta da Gianni de Bury, alle famiglie che hanno partecipato al pranzo. Il Cardinale ha in serbo un’altra sorpresa per i poveri partenopei…

» pubblicato da Pier Paolo Petino in: Notizie, cronaca < > Martedì 30 Dicembre 2008 alle 13:32
Invia questo articolo Invia questo articolo

icon for podpress Flash Video [1:27m]: Hide Player | Play in Popup

Una giornata molto particolare per i del di . Il prelato, come già in altre occasioni, ha celebrato messa per gli ospiti della casa circondariale, dopo averne incontrato una delegazione che ha donato all’Arcivescovo un dipinto. Dal canto suo, Sepe, ha distribuito rosari benedetti, per invitare i alla preghiera. Non c’è stato l’incontro con l’imprenditore , che non ha partecipato alla funzione.
Dopo il pranzo con i poveri, dunque, il Cardinale ha confermato la volontà della Diocesi di Napoli di essere vicina ai fedeli. Ad assistere alla celebrazione anche il procuratore della Repubblica, Giovandomenico Lepore, il comandante dei Carabinieri, , e l’assessore provinciale .
che, questa mattina, hanno ricevuto la visita dell’Arcivescovo di Napoli,

» pubblicato da marco caiano in: solidarietà < > Martedì 12 Febbraio 2008 alle 12:26
Invia questo articolo Invia questo articolo

icon for podpress Flash Video: Hide Player | Play in Popup

sepesolidariet.jpg

Alle persone ammalate, alle loro famiglie, agli operatori sanitari ha voluto rivolgere il suo messaggio di solidarietà il vescovo di Napoli, , durante la funzione religiosa organizzata, nel Duomo, in occasione delle celebrazioni per la 16° Giornata mondiale del malato. La giornata mondiale del malato è stata istituita nel 1992 da Papa Giovanni Paolo II e il tema di quest’anno è la famiglia nella realtà della malattia e coincide con il 150° anniversario delle apparizioni della Madonna a Bernadette a Lourdes. Per dare maggior risalto all’evento durante la funzione è stato distribuito il messaggio del Sepe curato dal settimanale diocesano Nuova Stagione. Rivolgendosi alle persone sofferenti, in particolare ai bambini, l’arcivescovo napoletano ha detto “ io soffro nella mia carne perché si completi la sofferenza di Cristo, la nostra sofferenza non è inutile nella storia perché siamo chiamati a unirci e integrare Cristo che soffre”.

» pubblicato da Francesca Ravel in: Religioni, campania, napoli < > Venerdì 2 Maggio 2008 alle 13:40
Invia questo articolo Invia questo articolo

icon for podpress Flash Video [1:10m]: Hide Player | Play in Popup

sepe.jpgBisogna creare le condizioni necessarie perchè ognuno possa investire adeguatamente i talenti ricevuti e il diventi occasione di qualificare e santificare il lavoratore contribuendo, allo stesso tempo, a creare una società più giusta e pacifica”. Questo uno dei passaggi più significatici dell’omelia del per la festa di S. Giuseppe Lavoratore – celebrata nel Duomo di Napoli con una veglia di preghiera. “Come Pastore di questa che è a Napoli in questa terra del Mezzogiorno d´Italia – ha continuato l’arcivescovo di Napoli- sento quotidianamente e con estremo dolore il disagio di tante famiglie che, a causa di un precario e, peggio ancora, per la ingiusta situazione creata dalla diffusa e macroscopica disoccupazione, si sentono come disperati giacche´ la loro vita non è vissuta come un dono del Signore, ma come una condanna da scontare”. Crescenzio

» pubblicato da Pier Paolo Petino in: IL FATTO, Notizie, cronaca < > Giovedì 22 Gennaio 2009 alle 13:08
Invia questo articolo Invia questo articolo

icon for podpress Flash Video [1:36m]: Hide Player | Play in Popup

“La politica ha bisogna di più etica”: lo ha detto il Cardinale di Napoli Crescenzio a margine della conferenza stampa di presentazione del convegno “ nel Sud, Chiese del Sud – Nel futuro da credenti responsabili” che si terrà a Napoli il 12 e 13 febbraio al Tiberio Palace Hotel. Un momento di riflessione, tra i vescovi delle cinque regioni del Sud, sul Mezzogiorno e il ruolo della . L’idea dell’incontro è nata, infatti, dall’esigenza di aggiornare ai problemi attuali che affliggono le popolazioni del Sud, il documento “ italiana e Mezzogiorno” del 1989. Venti anni fa, la Conferenza Episcopale Italiana pubblicava il documento per esortare i cristiani a offrire un contributo decisivo al superamento della Questione Meridionale. Le Chiese meridionali, dunque, saranno a Napoli il prossimo mese per aprire nuove prospettive di futuro per il Paese, in ascolto del Vangelo e in spirito di servizio, come ha sottolineato l’Arcivescovo di Napoli…

» pubblicato da Pier Paolo Petino in: IL FATTO, cronaca < > Sabato 26 Gennaio 2008 alle 11:12
Invia questo articolo Invia questo articolo

icon for podpress Flash Video [1:25m]: Hide Player | Play in Popup

Sepe bacia la teca

L’enormità del disastro dei in Campania scuote le coscienze e spinge la di Napoli ad un gesto estremo. Il cardinale Crescenzio , ieri sera ha voluto che le ampolle contenenti il sangue di , fossero portate eccezionalmente in processione all’interno del Duomo. In passato le reliquie del patrono erano portato in giro per la città martoriata da eventi catastrofici come pestilenze, guerre, carestie e terremoti. Un gesto simbolico importante, accompagnato da una lunga omelia nella quale il presule ha invitato tutti ad assumersi le proprie responsabilità.
“”Nessuno può chiamarsi fuori dallo scempio di una città mai così umiliata e mai così in pericolo, come in questi giorni”, ha detto l’arcivescovo aggiungendo che “i cumuli di che invadono le nostre strade sono i plateali corpi di reato che testimoniano il fallimento lungo tutta la filiera nazionale e locale, di una forma di servizio che raramente si è resa tale e ha contribuito anzi ad aggravare – attraverso dispute incomprensibili e miseri rimandi di responsabilità – un clima già teso ed esasperato”. Il cardinale ha mostrato le ampolle ai fedeli ma non ha compiuto il miracolo delle liquefazione del sangue. Un presagio funesto per la città ed un segno che l’emergenza non è ancora finita.
“Non potremo contare ancora a lungo giorni come questi, se non mettendo a rischio tutto il nostro futuro”, ha concluso l’arcivescovo.

SEPE: “BASTA INDIFFERENZA NEI CONFRONTI DEL SUD”

» pubblicato da Renato Cavallo in: Notizie, Religioni, napoli < > Venerdì 20 Giugno 2008 alle 15:04
Invia questo articolo Invia questo articolo
 

 

icon for podpress Flash Video [2:16m]: Hide Player | Play in Popup

sepe18.jpgLa questione meridionale va affrontata seriamente dal governo nazionale”. E’ quanto ha dichiarato questa mattina il cardinale di Napoli intervenuto alla , iniziativa organizzata dall’istituto italiano per gli studi filosofici che ha ricevuto l’alto patronato del presidente della Repubblica. Chiesa e Mezzogiorno: aspetti etico morali della questione meridionale, questo il tema su cui si è concentrata la relazione del cardinale, convinto che la Chiesa debba svolgere al sud un ruolo più impegnativo rispetto al resto del Paese

ha incentrato il discorso sulla necessità di bloccare la fuga dei giovani talenti, fenomeno che condanna alla mediocrità il meridione dove, le forme di illegalità diffuse rischiano di radicarsi ulteriormente nel tessuto sociale del territorio. Tornando alla realtà napoletana, l’arcivescovo di Napoli si è detto fiducioso di quanto stanno producendo le forze scese in campo per risolvere l’emergenza rifiuti

» pubblicato da marco caiano in: EMERGENZA RIFIUTI < > Giovedì 7 Febbraio 2008 alle 12:07
Invia questo articolo Invia questo articolo

icon for podpress Flash Video [0:48m]: Hide Player | Play in Popup

Cardinale Sepe

 

» pubblicato da Francesca Ravel in: Notizie, Religioni, solidarietà < > Giovedì 3 Aprile 2008 alle 12:48
Invia questo articolo Invia questo articolo

icon for podpress Flash Video [1:20m]: Hide Player | Play in Popup

LA COMUNITA’ DI SANT’EGIDIO COMPIE 40 ANNI: SEPE FESTEGGIA CELBRANDO UNA MESSA SOLENNEDa 40 anni comunica il Vangelo e opera al fianco dei poveri e delle persone disagiate. Lo fa grazie ai suoi 500 volontari, 200 ragazzi anche stranieri impegnati nella scuola e 700 anziani. Sono loro la forza della Comunità di Sant’Egidio che ieri a Napoli, nel corso di una funzione solenne al , ha festeggiato i suoi quarant’anni. All’interno della comunità, arrivata a Napoli nel 1973, l’anno del colera, confluiscono persone di tutte le età e condizioni che condividono la preghiera, la tensione della comunicazione del Vangelo nella vita quotidiana e l’amicizia verso i poveri. “Cari amici di Sant’Edigio – ha spiegato il Crescenzio che ha celebrato la funzione – anche a Napoli non avete conosciuto altro confine che quello della carità. Ma anche questa città, in qualche modo, vi ha dato molto. Nella prospettiva della speranza per l’umanità devastata da tanti confini, voi avete raccolto da Giovanni Paolo II, lo ‘Spirito di Assisi’. Quello spirito, che nel grande incontro delle religioni per la pace, svoltosi qui ad ottobre scorso, è divenuto ‘Spirito di Napoli’. La nostra città- ha concluso - ha una storia ed una vocazione nel Mediterraneo”

» pubblicato da Barbara Romano in: archivio, cronaca < > Venerdì 2 Gennaio 2009 alle 10:44
Invia questo articolo Invia questo articolo

icon for podpress Flash Video [1:00m]: Hide Player | Play in Popup

sepe“Il male continua ad esistere perchè c’è chi non accetta il bene ed utilizza la violenza per il suo egoismo. Ma la maggioranza della popolazione possiede altri valori”. Con queste parole il Cardinale Crescenzio ha accolto le mille persone intervenute ieri sera alla “Marcia della pace” organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio. L’Arcivescovo di Napoli ha poi rivolto un monito ai giovani: “Non è con la violenza, l’odio, il denaro facile che si conquista la pace interiore”. Un corteo silenzioso che radunatosi all’angolo di via Tribunali si è snodato per le vie del centro storico fino ad arrivare alla Cattedrale. 24 cartelli con i nomi di altrettanti paesi martoriati dalla guerra, per ricordare la violenza, l’orrore delle tante e troppe terre insanguinate. Le fiaccole illuminano la città, l’appello di pace lanciato dalla comunità di Sant’Egidio è stato racccolto dall’Ufficio giustizia e pace della diocesi partenopea e dai sindacati Cgil, Cisl, Uil e Ugl. Assente il sindaco Rosa Russo .

» pubblicato da Francesca Ravel in: Notizie < > Giovedì 11 Dicembre 2008 alle 11:32
Invia questo articolo Invia questo articolo

icon for podpress Flash Video [1:46m]: Hide Player | Play in Popup

sepebuona.jpgNel giorno del sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, le parole di San Paolo nella lettera a Tito, pronunciate al dal Cardinale risuonano particolarmente profetiche. “Rinnegare, l’empietà, vivere “con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo” ed “essere zelanti, nelle opere buone, nell’attesa della beata speranza”. Sono questi i versi dell’apostolo scelti dall’Arcivescovo di Napoli per aprire il terzo dei quattro incontri con la città organizzati da per dialogare con la città, parole che fanno riflettere tutti, laici e cattolici, nei giorni in cui le tensioni politiche in Campania diventano sempre più evidenti e nella sera in cui alla stazione centrale di Napoli, un uomo è morto di freddo e di stenti suscitando lo sdegno e la compassione del Cardinale. Nel gremito di circa tremila persone il Cardinale continua i suoi “dialoghi con la città”, ospite della serata il filosofo Biagio , che con ha discusso sul tema “Lo scandalo della Speranza. Il coraggio dei giusti, testiomoni di attesa (nel tempo dell’empietà)”. Per Biagio , già parlamentare europeo, docente di Dottrine politiche e rettore dell’Orientale, “uscire dalla crisi è possibile, ma la città deve risvegliare la sua coscienza critica” a lui risponde il Cardinale di Napoli Crescenzio che dice “La vera sfida è una speranza responsabile per aiutare il prossimo”. Appuntamento quindi a mercoledì prossimo con l’ultimo degli incontri organizzati dall’arcivescovo, ospite al sarà Boris Ulianich, ricercatore uomo di cultura e studioso della storia della chiesa.-

» pubblicato da raffaele de lucia in: archivio, cronaca < > Giovedì 20 Dicembre 2007 alle 16:11
Invia questo articolo Invia questo articolo

icon for podpress &nbsp;: &quot;CONOSCIAMO LE FERITE DI NAPOLI, MA BISOGNA REGAIRE PER CREARE UN&#039;UMANITA&#039; MIGLIORE&quot; [1:43m]: Hide Player | Play in Popup

SEPE“In questo nostro il pensiero di tutti noi non può non ritornare a questa nostra città. Questa città che alle volte sembra risucchiata nell&#8217;indifferenza quasi generale; una città afflitta da mali endemici e nuove calamità, che tenta con ostinazione a risollevarsi dal suo degrado, che lotta fieramente per il proprio riscatto”. Così il cardinale Crescenzio , arcivescovo di Napoli, è intervenuto ieri sera in duomo nel quarto incontro dei &#8220;dialoghi con la città&#8221; che ha visto protagonista il presidente emerito della Corte Costituzionale, Francesco Paolo Casavola.
“Conosciamo – ha detto ancora – le ferite di Napoli. Ma non basta conoscere; bisogna reagire, impegnarsi nella costruzione di una umanità migliore. Sappiamo bene che un impegno concreto può nascere solo dalla fiducia, dalla speranza nel futuro. Per questo la Chiesa di Napoli vuol porsi al servizio della comunità e riscoprire obiettivi condivisibili e, soprattutto, una rinnovata voglia di comunicare. Vuol farsi accanto ai propri giovani, spesso rannicchiati ai margini delle strade, ricurvi sulle proprie ginocchia, con gli occhi persi nel vuoto, allucinati da sostanze stupefacenti e mortifere. Esistenze senza respiro, spente anzitempo perché non c&#8217;é più
volontà di attendere il domani che fa paura e ci si lascia vivere senza entusiasmo o progetti”. “In questo Santo io chiedo a tutti voi, cari fratelli e sorelle: Alzatevi! Mettetevi in cammino come hanno fatto i Magi! Anche per voi c&#8217;é una stella che vi può condurre da un Bambino, che è disceso dal cielo per offrirvi il suo amore e la sua pace. La città di Dio ha bisogno anche di voi per costruire una città terrena riconciliata e in pace, per costruire la civiltà dell&#8217;amore”, è stata l&#8217;esortazione conclusiva di .

» pubblicato da Francesca Ravel in: Religioni, Sanità, archivio, napoli < > Martedì 18 Dicembre 2007 alle 18:00
Invia questo articolo Invia questo articolo

icon for podpress IL CARDINAL DONA SORRISI AI PICCOLI OSPITI DEGLI OSPEDALI COTUGNO E PASCALE [0:59m]: Hide Player | Play in Popup

IL CARDINAL SEPE DONA SORRISI AI PICCOLI OSPITI DEGLI OSPEDALI COTUGNO E PASCALEUna giornata dedicata ai bambini per il Cardinale Crescenzio . Ritorno all’ospedale Cotugno per l’arcivescovo di Napoli per una messa dedicata ai piccoli degenti dell’ospedale, e poi di corsa al vicino presidio ospedaliero del Pascale per l’inaugurazione e la benedizione del baby parking. Una ludoteca per i figli dei pazienti che dovranno sottoporsi a sedute chemio o radio terapiche e analisi di routine. Una piccola iniziativa di grandissima importanza per avvicinare la sanità alle esigenze dei pazienti. Per la durata delle visite dei genitori, i bambini verranno intrattenuti da puericultrici e vigilatrici che li coinvolgeranno in giochi e attività didattiche. Continuano anche i dialoghi del Cardinale con la città. Domani l’ultimo appuntamento con i mercoledì dell’Avvento. L’incontro previsto al Duomo è con Francesco Paolo Casavola giurista e presidente del Comitato nazionale per la bioetica.

» pubblicato da Francesca Ravel in: Religioni, campania, napoli < > Venerdì 2 Maggio 2008 alle 13:40
Invia questo articolo Invia questo articolo

icon for podpress Flash Video [1:10m]: Hide Player | Play in Popup

sepe.jpg“Bisogna creare le condizioni necessarie perchè ognuno possa investire adeguatamente i talenti ricevuti e il diventi occasione di qualificare e santificare il lavoratore contribuendo, allo stesso tempo, a creare una società più giusta e pacifica”. Questo uno dei passaggi più significatici dell’omelia del Crescenzio per la festa di S. Giuseppe Lavoratore – celebrata nel Duomo di Napoli con una veglia di preghiera. “Come Pastore di questa che è a Napoli in questa terra del Mezzogiorno d´Italia – ha continuato l’arcivescovo di Napoli- sento quotidianamente e con estremo dolore il disagio di tante famiglie che, a causa di un precario e, peggio ancora, per la ingiusta situazione creata dalla diffusa e macroscopica disoccupazione, si sentono come disperati giacche´ la loro vita non è vissuta come un dono del Signore, ma come una condanna da scontare”.

SEPE CONSEGNA I PREMI “NAPOLI CITTA’ DI PACE”

» pubblicato da Francesca Ravel in: Notizie < > Sabato 6 Dicembre 2008 alle 11:35
Invia questo articolo Invia questo articolo

icon for podpress Flash Video [1:03m]: Hide Player | Play in Popup

sepe.jpgIl cardinale di Napoli Crescenzio ha consegnato i “Napoli città di Pace”, ai vincitori, l’unione cattolica Stampa Italina, il Suor Orsola Beninacasa e l’ordine dei giornalisti della Campania hanno consegnato una targa d’argento realizzata dallo scultore Lello Esposito con la scritta “Napoli non morirà”: la certezza dell’arcivescovo. Il premio “Napoli città di pace” è stato attribuito al presidente del calcio Napoli Aurelio De Laurentiis “per aver restituito a Napoli la voglia di sognare”, al responsabile di Rai Vaticano Giuseppe De Carli, autore della Bibbia-no stop in tv “per la sua opera di evangelizzazione televisiva nel villaggio globale”, alla regista Cinzia Th Torrini “per il supplemento d’anima nella sua arte di raccontare per immagini”, alla scrittrice Chiara M. “per la sua radicale testimonianza di fede e speranza oltre il dolore” e al sottosegretario Guido “per il coraggio dell’azione nell’emergenza di Napoli”

ZUBIN METHA INCANTA IL PUBBLICO DI NAPOLI

» pubblicato da marco caiano in: IL FATTO < > Giovedì 3 Luglio 2008 alle 10:49
Invia questo articolo Invia questo articolo

icon for podpress Flash Video [1:36m]: Hide Player | Play in Popup

zubinmetha.jpgLo scenario è mozzafiato, la musica strappa applausi, , dal podio, riceve ovazioni. Il , per una sera, lascia la maestosità della sua regale struttura per un all’aperto, un per il popolo, mescolando ancora una volta il suo destino a quello della città. Un esperimento riuscito anche se la sinfonia subisce “il disturbo” dei rintocchi delle campane, di qualche aereo, delle chiacchiere in prima fila. Ma lui, , uno dei direttori d’orchestra più celebri al mondo, riesce a fare passare tutti i rumori in secondo piano regalando al pubblico, una platea composta da circa 9 mila persone, uno spettacolo difficilmente ripetibile. In prima fila ci sono , Sandro Bondi, , il sindaco ,Guido , il Cardinale , il prefetto , il presidente della Provincia Dino , , , Nicoletta Piovani e Mariagrazia . Anche loro si alzano in piedi quando i 400 musicisti terminano l’esecuzione della Nona di Beethoven, il calore del pubblico sale ancora di più quando Metha dirige l’orchestra facendole suonare O’ Sole Mio. si trasforma in un grande stadio con cori e applausi, tutta roba poco consona ad un diretto da , ma quando il maestro ha deciso di suonare in piazza sapeva che per una volta lo stile doveva lasciare spazio al calore, il calore del popolo napoletano.

JOSE’ CARRERAS

» pubblicato da Pier Paolo Petino in: IL PERSONAGGIO, arte, cultura, eventi < > Venerdì 22 Agosto 2008 alle 09:54
Invia questo articolo Invia questo articolo

icon for podpress Flash Video [1:37m]: Hide Player | Play in Popup

José CarrerasUn grande tenore per una grande piazza. Il Direttore artistico di , , mette a segno in queste ore un altro colpo da maestro e si assicura la presenza di Josè Carreras per il del 7 settembre a , “che sarà un grande omaggio all’indimenticato (proprio in quei giorni ricorrerà il primo anniversario dalla morte) e alla canzone classica napoletana”, come tiene a ribadire lo stesso Nino D’Angelo.
Dopo l’annuncio bomba di Sophia Loren madrina della festa, ecco, dunque, un altro colpo di scena: un senza precedenti, con uno dei cantanti lirici più famosi e amati al mondo.
Si delinea, così, ulteriormente il programma dell’evento 2008, destinato, senza ombra di dubbio, a rimanere nella storia della manifestazione più popolare ed antica di Napoli come una delle edizioni più riuscite.
Conosciuto dal pubblico di tutto il mondo per il sodalizio con Pavarotti e Domingo, che lo ha consacrato come uno dei tre tenori più bravi nel panorama musicale internazionale, Carreras si esibirà nella piazza di Napoli per eccellenza nel primo dei grandi concerti in programma per la .
La sua “voce libera” prenderà ala con la grande opera, planando eclettica sul musical, l’operetta, la e il flamenco e sconfinerà nella melodia, regalando sicuramente intense emozioni a quanti accorreranno a vederlo.
Per l’occasione, la piazza si trasformerà in un teatro a cielo aperto, con il famoso colonnato a contenere e rimandare le note della musica più bella mai composta.
“E’ una grande soddisfazione, per noi, portare in piazza, a Napoli, Carreras – sottolinea , Amministratore dell’Ente Provinciale per il Turismo di Napoli, che organizza la – La scelta di un tenore non è casuale: l’anno scorso la piazza tributò un lungo e commosso applauso al grandissimo . Questa immagine, questo tangibile affetto del popolo nei confronti di Pavarotti è rimasto in tutti noi. Ad un anno dalla sua scomparsa, ci sembrava giusto tributargli un omaggio, e nessuno meglio di Carreras, legato a Pavarotti da un lungo sodalizio artistico e umano, poteva essere interprete di questo momento dedicato alla commemorazione della sua indimenticabile figura.“

SULLA NOSTRA SERA – A. Nocent

Posted on Aprile 13th, 2009 di Angelo |

 

Cristo pensoso palpito…

 

Astro di luce

per le nostre notti

 

Stella che splendi

sulla nostra sera

 

pietosamente vigila,

veglia su chi t’implora,

 

Divina Luce,

appassionata l’anima ti sogni.

 

Resta.

Resta con noi, Signore,

nel tempo che passa

e nell’eternità che rimane.

Le apparizioni della Madonna in terra d’Africa – René Luneau O.P.

 
Le prime apparizioni della Madonna in terra africana riconosciute dalla chiesa si registrano a Kibeho, un paese nel sud del Rwanda. Il 28 novembre 1981 la Vergine appare, per la prima volta, ad Alphonsine Mumureke, presentandosi come Nyina wa Jambo (Madre del Verbo). Alcuni mesi dopo si mostra anche ad alcuni compagni di scuola.
L’avvenimento provoca in Rwanda un’intensa emozione. Le folle, anche da molto lontano, si riversano a Kibeho, mosse dalla curiosità e dall’aspettativa di miracoli, e si radunano attorno al podio sul quale è seduta la veggente, per accogliere dalle sue labbra il messaggio celeste e dalle sue mani l’acqua che la Vergine, dietro sua richiesta, benedice.

Per anni, una commissione teologica e una medica studiano attentamente la personalità dei veggenti (sei ragazze e un ragazzo di 15 anni, Segetashya, che non è neppure catecumeno quando Gesù in persona gli appare; sarà poi battezzato con il nome di Emmanuel), senza notare in loro alcunché di anormale. Anche i messaggi che i veggenti sono incaricati di trasmettere non esulano dall’ordinaria vita di un cristiano: parlano di penitenza, conversione del cuore, spirito di fede, preghiera, carità fraterna, disponibilità, umiltà, fiducia in Dio, vanità del mondo e dignità della persona umana.

L’apparizione del 19 agosto 1982 ha un tono singolare. I veggenti raccontano di aver visto immagini terrificanti: fiumi di sangue, persone che si ammazzavano tra di loro, cadaveri abbandonati insepolti, un albero in fiamme, un abisso spalancato, un mostro spaventoso e tante teste decapitate. Le 20mila persone presenti sono prese da un senso di paura, se non di panico e tristezza.

Dodici anni dopo, avviene il genocidio. Anche a Kibeho, migliaia di persone sono assassinate. I molti che cercano rifugio nella chiesa vengono massacrati; l’edificio è incendiato. Nel 1996, un campo di rifugiati, installato nei pressi di Kibeho, è attaccato dall’esercito del Fronte patriottico rwandese, al potere a Kigali: migliaia i morti.

Nel 2001, la chiesa del Rwanda, uscita indebolita e divisa dalla terribile prova del genocidio, riconosce l’autenticità delle apparizioni. Mons. Augustin Misago, vescovo di Gikongoro, l’inquisitore dei primi anni, precisa che il riconoscimento delle apparizioni non è articolo di fede; il credente è libero di crederci o meno. Il santuario, consacrato nel 2003 dal card. Crescenzio Sepe, è dedicato alla Madonna del dolore.

UN’ICONA MIRACOLOSA NEL TOGO

Nel 1973, per iniziativa del comboniano Francesco Grotto, la chiesa parrocchiale di Togoville (Togo) è trasformata in santuario, dedicato a Nostra Signora del Lago, Madre della misericordia. L’architetto italiano Ferdinando Michelini (miracolato da san Riccardo, Pampuri, medico e religioso dei Fatebenefratelli) dona all’amico comboniano un’icona miracolosa della Madonna, che l’arcivescovo di Lomé “intronizza” solennemente a nome di tutta la chiesa togolese. Da subito, l’icona comincia a compiere meraviglie.

Si racconta che un gruppo di pellegrini, in grave difficoltà mentre attraversava il Lago Togo per recarsi al santuario, si sia trovato misteriosamente sulla riva, sebbene il guidatore della piroga avesse perso la pertica.

Nel villaggio circola un altro aneddoto che assicura di un fatto avvenuto molti anni prima dell’arrivo dell’icona: durante un lavacro purificatorio presso un sacerdote del vodù locale, una donna consacrata al feticcio e impossibilitata ad avere figli ebbe la visione di una dama bianca, con un bimbo tra le braccia; qualche tempo dopo, la donna concepì.

Si racconta anche che, nel novembre 1983, in occasione dei festeggiamenti per il decimo anniversario dell’intronizzazione dell’icona, uno sciame d’api, “in forma di ostia, bianca e rotonda”, si sia posato proprio sopra la Madonna. Nella tradizione togolose, le api sono segno di benedizione.

Parlare di miracolo farebbe sorridere noi occidentali. Eppure, anche i grandi sacerdoti del vodù di Togoville si sono recati più volte a venerare l’immagine della Vergine, forse perché assimilano la devozione alla Madonna alla venerazione per la dea del lago, Mama Kponu.

Sempre in Togo, 1998: corre voce che la Vergine appaia nella piazza della chiesa parrocchiale di Tsévié, a 30 km da Lomé. I veggenti sono giovani, tra cui una rifugiata rwandese. La notizia travalica subito le frontiere e i pellegrini arrivano da Costa d’Avorio, Benin e Ghana. Le apparizioni si sono ripetute, ma la chiesa non le ha mai riconosciute. I fedeli, però, continuano a recarsi a Tsévié per pregare la Vergine.

Apparizione a Nsimalen, in Camerun

Il 13 maggio 1986, a Nsimalen, a 25 km da Yaoundé (Camerun), alcuni ragazzini stanno giocando nel cortile di una scuola. A un certo punto, sulla cima di un albero vedono una “forma bianca” che richiama fortemente la figura della Madonna venerata nella chiesa parrocchiale. La vedono anche alcuni adulti, che la “identificano subito: si tratta senz’altro della Vergine Maria!

La voce si sparge fino alla capitale e oltre. La gente accorre: per cinque intere giornate quella strana forma bianca resterà perfettamente visibile. E subito si parla di miracoli. Una bambina di 9 anni, muta dalla nascita, riacquista improvvisamente la parola e si mette a gridare: «Maria, Maria!». Un catechista di Nsimalen ricupera la vista.

Una notte, il villaggio è invaso da una luce ininterrotta che consente di leggere un libro o ricamare un vestito senza bisogno di lampada. C’è chi vede il sole trasformato in una lucente palla verde dai bordi trasparenti, e chi giura di aver visto la luna ovale e, su di essa, una donna seduta con il bimbo in braccio.

Il clero scuote la testa. Suor Marie Praxède, una suora che vive da anni a Nsimalen, non comprende la mancanza di entusiasmo dei responsabili della chiesa. Il parroco le dice che a Lourdes la Madonna è apparsa solo a Bernadette. E lei: «Ma qui siamo in Africa, e la Vergine comprende la nostra mentalità. Perché pretendere che appaia sempre allo stesso modo? Perché noi africani non potremmo avere la nostra Vergine? Voi preti, compreso l’arcivescovo, siete troppo europei e non capite».

Una devozione mariana che si è inculturata in Africa

Le apparizioni di Kibeho sono una “buona notizia” per l’Africa e la sua chiesa: la religiosità cristiana si starebbe africanizzando. Questo riequilibra le deviazioni causate dall’Occidente, che con la secolarizzazione sistematica e la dimenticanza dell’essenziale (valgono solo la scienza e la tecnica) ha spesso sedotto l’Africa.

Perché meravigliarsi se, dopo un secolo di cristianesimo, le devozioni cristiane assumessero in Africa carne africana e cominciassero a segnare profondamente la psicologia dei credenti? Gli africani hanno sempre avuto visioni di spiriti e di antenati. Per tanti fedeli, la Madonna o un altro santo sono diventati personaggi familiari, che fanno parte del loro universo quotidiano.

Almeno su questo punto, sì è operata una reale inculturazione. Per provarlo, non sono necessarie le apparizioni. Bastano i santuari. Ce ne sono in ogni angolo del continente: Poponguine (Senegal), Kita (Mali), Lagos e Kona (Nigeria), Yagma (Burkina Faso), Dassa-Zoumé (Benin), Yamoussoukro (Costa d’Avorio), Nairobi e Subukia (Kenya), Kampala (Uganda), Soweto (Sudafrica), Namacha (Mozambico), Muxima (Angola)…

A partire dal 1970, l’avvenimento del rinnovamento carismatico ha segnato un cambiamento importante nella vita delle comunità africane, ridando diritto di cittadinanza a espressioni religiose radicate nella tradizione e da essa valorizzate, ma che il cristianesimo ha sempre tenute con cura da parte (la trance, ad esempio, considerata “estasi” in Europa, è stata giudicata “possessione demoniaca” in Africa).

Oggi, se uno partecipa a un incontro di preghiera degli amanti del Rinnovamento nello Spirito, vede tante persone che cadono in trance durante la processione del SSmo Sacramento. Simili fenomeni non potrebbero rappresentare, tra l’altro, una protesta contro una liturgia che non dà spazio all’ispirazione o all’emozione collettiva?

Emest Kombo, vescovo di Owando (Congo) deceduto l’ottobre sorso, diceva: «Il giorno in cui non ci sarà più trance, sarà grave: vorrà dire che qualcosa è venuto a mancare». I santi “abitano”, anche solo per un momento, i loro devoti, proprio come il vodù “abita” i suoi adepti. La gente ci crede, e non serve dire che Cristo ci ha promesso il suo Spirito, non sua madre o l’angelo Michele.

Radicare il Vangelo nella cultura africana è un compito impegnativo e di lunga durata. E Maria di Nazareth, figlia di Israele e serva del Signore, diventa il paradigma anche del fedele cristiano africano. E non dubito che saprà, anche in Africa, situare bene il posto che lei occupa nella storia della salvezza.

Foto: Santuario di Kibeho in Rwanda

René Luneau (teologo domenicano a lungo vissuto in Africa), su Nigrizia, dicembre 2008

12-01-2008

Ricardo Pampuri Hospitalário, Santo 1897-1930

San Riccardo Pampuri  medico e frate

Ricardo Pampuri Hospitalário, Santo

 1897-1930

 

  • Em 1897, No dia 2 de Agosto, nasce em Trivolzio (Pavia) o décimo e penúltimo filho de Inocente Pampuri e Ângela Campari.

  • Foi baptizado no dia seguinte com o nome de Hermínio Filippo.

  •  Matricula-se na Faculdade de Medicina da Universidade de Pavia em 1915, mas a 1 de Abril de 1917 inicia o serviço militar, sendo enviado três meses depois para a frente de combate, agregado aos serviços de saúde.

  • No dia 6 de Julho de 1921 alcança a licenciatura em Medicina, com a máxima classificação. Participa numa peregrinação a Lurdes, na companhia dos tios, com paragem em Paray-le-Monial e em Ars.

  • Cresce a ideia de seguir a vida religiosa, com o auxílio do P. Ricardo Beretta, seu conhecido desde 1923.

  • A 6 de Junho de 1927 pede ingresso na Ordem Hospitaleira de São João de Deus.

  • No dia 22 de Junho entra na Ordem como postulante e no dia 21 de Outubro ingressa no noviciado e toma o nome de Ricardo.

  •  Faz os votos temporários no dia 24 de Outubro de 1928. É encarregado do gabinete de dentista.

  • Em Agosto de 1929 agravam-se as suas condições de saúde. Morre em Milão, no dia 1 de Maio de 1930, com 32 anos.

  • No dia 4 realiza-se o funeral.

  • É aberto o processo de canonização em 1949. Os restos mortais de Fr. Ricardo são exumados e transferidos para a igreja paroquial de Trivolzio em 1951.

  • No dia 4 de Outubro de 1981 é declarado Beato.

  •  A 1 de Novembro de 1989 é inscrito no catálogo dos Santos.

  •  Cronologia da vida de São Ricardo 1897: Erminio Pampuri nasce em Trivolzio, na província de Pavia (Itália), em 2 de agosto.

  • 1900: Sua mãe morre e ele tem que se mudar para a casa do avô materno, em Torrino, perto da cidade natal.

  • 1915: Depois de ter terminado o ensino médio no Colégio Santo Agostinho de Pavia, se inscreve na Universidade de Pavia no curso de Medicina e Cirurgia.

  • 1917: Com o advento da Primeira Guerra Mundial, precisou interromper os estudos. De fato, foi alistado e designado ao hospital de campo em Malonno, em Val Canonica, na província de Brescia.

  • 1921: Inscreve-se na Terceira Ordem de São Francisco. Em julho faz os votos plenos e começa a exercitar a profissão de médico municipal em Morimondo.

  • 1925: Erminio conhece padre Ricardo Beretta, sacerdote que se tornará determinante nas suas escolhas futuras. Ele o apresenta, dois anos mais tarde, a padre Zaccaria Castelletti, administrador dos Irmãos de Caridade da Província lombardo-vêneta. Graças a este encontro, Pampuri deixa Morimondo para se instalar na Casa dos Irmãos de Caridade de Milão.

  • 1927: Em julho, deixa a casa de Milão para transferir-se ao hospital Santa Úrsula, de Brescia. Em outubro do mesmo ano, começa o noviciado em Brescia para entrar na Ordem Hospitaleira de São João de Deus (Irmãos de Caridade), assumindo o nome de frei Ricardo.

  • 1928: Faz os votos religiosos com a Profissão simples.

  • 1929: Com a saúde frágil, contrai uma pleurite. Os seus superiores o enviam, por isso, a Gorizia, para se recuperar.

  • 1930: Aparentemente restabelecido, volta a Brescia. Mas o mal se manifesta novamente e é levado a Milão. Morre no dia 4 de maio.

  • 1954: É aberto o processo de canonização no Tribunal Eclesiástico de Gorizia por uma cura dita milagrosa.

  • 1962: No mesmo processo é acrescentado o relato de um nova cura milagrosa no Tribunal Eclesiástico de Milão.

  • 1978: No dia 12 de junho o Santo Padre Paulo VI declara Venerável o Servo de Deus Frei Ricardo Pampuri.

  • 1981: Em 30 de março, João Paulo II proclama o Decreto que aprova os dois milagres apresentados para a beatificação. O primeiro foi a cura do senhor Adeodato Comand “relativamente instantânea, duração perfeita, não explicável naturalmente quoad modum”, ocorrida em 18 de maio de 1952.

  • O segundo milagre foi a cura do senhor Ferdinando Michelini em 16 de setembro de 1959, “extraordinariamente rápida, completa e duradoura, não explicável quoad modum”, da “peritonite aguda generalizada”.

  • Em 4 de outubro do mesmo ano, João Paulo II proclama Beato o Venerável Frei Ricardo Pampuri. 1989: No dia 1º de novembro é canonizado por João Paulo II. O milagre apresentado para a canonização foi a cura de um rapaz espanhol de dez anos com a restauração da visão do olho esquerdo, fato não explicável pelos conhecimentos médicos.

 

cuore-di-san-riccardo-pampuri-fbf-trivolzio-181x300

Oração a São Ricardo

 São Ricardo, caminhaste tempos atrás pelas ruas da nossa terra, rezaste no silêncio das nossas igrejas, serviste com amor e inteligência aos doentes nas nossas casas, foste acolhedor para com todas as pessoas que te procuraram.

Hoje, como naquele tempo os teus doentes, eu também te procuro e dirijo-me a ti para que me ajudes a ter a cura do corpo e do espírito e obtenha-me do Senhor a tua mesma fé.

Ricardo Pampuri Hospitalário: http://compagniadeiglobulirossi.splinder.com

 

FERDINANDO MICHELINI – Bruna Spagnuolo

Michelini con Papa Woityla

FERDINANDO MICHELINI

 

Di  Bruna Spagnuolo – 02 Maggio 2009
 

Indice: Prefazione/ Incontro con il maestro Michelini: finestra aperta su una filosofia di vita/ Note critiche/ La pittura/ Le icone/ I progetti/ L’Apocalisse/ Postfazione

 

«Lasciamo ai retori o agli ebbri affermare che un bell’albero, un bel fiume, una sublime montagna, o anche un bel cavallo e una bella figura umana, siano superiori al colpo di scalpello di Michelangelo o al verso di Dante; e noi diciamo, con maggiore proprietà, che la «natura» è stupida di fronte all’arte, e che essa è «muta», se l’uomo non la fa parlare». Benedetto Croce 

Michelini - Si è spento... 

Prefazione-

Ho conosciuto un artista capace di far ‘parlare la natura’; era un genio e ora non è più su questa terra, ma forse è meglio che racconti tutto con ordine. Quattro anni fa, Don Michele Longatti, parroco di Omate (e uomo di cultura amante dell’arte e… un po’ tanto mecenate), mi chiese di fare da madrina a una mostra di pittura dedicata al maestro Ferdinando Michelini.

La mia ignoranza circa l’esistenza e l’opera di colui che immaginai essere un pittore era totale. Mi recai a conoscerlo: prima di decidere se accettare, volevo sapere qualcosa del personaggio e della sua opera. Mi trovai di fronte un uomo quasi novantenne che era un intero universo di dimensioni (artistiche, geografiche, umane ed ‘epocali’) e un’opera che era disseminata per il mondo (sotto forma di monumenti archiettonici, mosaici, affreschi, dipinti vari, icone) e che riempiva interi magazzini (sotto forma di dipinti su tela).

Presi visione di progetti, bozzetti, opere varie e foto e parlai con l’artista. La sua semplicità e la sua umiltà abissali mi sconcertarono e mi conquistarono. La mostra fu inaugurata, in Vimercate, il 31 maggio 2005. Tenni la mia piccola lecture agl’intervenuti, presi parte al reportage che vari giornali dedicarono al maestro e mi commossi, di fronte alle suggestioni di colori/ messaggi/ luci e segni che parevano danzare/ intrecciarsi/ intersecarsi/ abbracciarsi/ rincorrersi (come raggi silenziosi tanto mirabili quanto invisibili) da un quadro all’altro, da una fila di quadri all’altra e da un particolare di ogni opera a vari particolari di altre.

Il maestro Michelini, mite e silenzioso, come una presenza eterea, sorrideva e si mescolava al pubblico, spostandosi con il passo leggero del suo corpo magro e quasi senza peso (che parlava di un’età e di una storia senza tempo). Ebbe, dopo di allora, parecchie disavventure-fratture-ictus, ma nella mia mente rimane come lo vidi a quella mostra: fuori dal tempo e dalle umane ambasce.

 La mia vita errabonda non mi concede molto tempo da dedicare alle relazioni sociali e non ho più rivisto il maestro Michelini (come speravo). Ho trovato, al ritorno dall’Africa, una lettera in cui mi si comunicava la sua morte… È stato allora che ho compreso quale vuoto la sua assenza sia nel panorama umano e artistico di questo nostro tempo. Concordo con la sostanza dei titoli con cui i giornali hanno annunciato la sua morte: è morto un genio.  

*

Michelini - Samaritana al pozzo

Prima di conoscere Ferdinando Michelini, ascoltando Don Michele Longatti parlare di lui, avevo seguito con la mente l’immagine ancora irreale di questo pittore che “ha viaggiato molto, usando la sua arte come catechesi”. Mio malgrado, parole-immagini si erano formate nella mente, attorno ai concetti che Don Michele esprimeva. Ne era emersa l’idea di un uomo intento a:

  • cogliere l’attesa del messaggio di Dio sulla terra e farsene interprete-discepolo, attraverso l’arte;
  • farsi soldato di Dio e dargli gloria con le immagini di una pittura sublimata;
  • prestare a Dio la mente e la mano, per evangelizzare;
  • creare il bello e metterlo al servizio di Dio;
  • vedere il mondo come tempio di Dio,
  • farvisi pittore itinerante e trasformarne vari luoghi in stazioni oranti della Via Crucis/gloriose gallerie di arte e di colore.

L’incontro vero e proprio con il maestro Ferdinando Michelini mi avrebbe dato un quadro ben più completo e incredibilmente ampio di questo personaggio tanto grande quanto sconcertantemente umile.

Michelini - Icona - Madonna con Bambino

 Il cosmo umano ed espressivo di un artista a 360 gradi

L’uomo ha fatto scoperte a ritmo vertiginoso, negli ultimi decenni (tanto che buona parte della ex fantascienza è divenuta scienza reale), ma, con tutta la sua presupponenza-prepotenza-roboanza-presunzione di conoscenza, non è che una formica nell’universo del quale non può controllare neppure uno solo dei vari “tsunami”.

Nonostante ciò, esistono uomini “grandi”-veri giganti dell’umanità: si tratta sempre di uomini che nel nascondimento tessono le mappe su cui il genere umano orienta la propria sopravvivenza. Tali uomini, lungi dal sentirsi grandi, si fanno polvere, perché Dio vi scriva sopra le sue pagine belle (non per la gloria e il potere, ma per le dita leggere del vento della fratellanza e degli echi dell’Amore). Ferdinando Michelini è stato uno di questi umili/inconsapevoli giganti.

*

Per parlare dell’artista Michelini, non si può prescindere dall’uomo Michelini, poiché l’uomo e l’artista sono inscindibili, proprio come le mestiche dei colori dei dipinti. Non so quando l’uomo Michelini abbia consapevolmente deciso di accettare la “chiamata” e di farsi piccolo, nello spazio della vita terrena, perché Dio vi crescesse in proporzione esponenziale. So, però, che Dio lo ha scelto e che egli si è piegato al suo richiamo, accettando, con paziente e umile costanza, croci pesanti che avrebbero spezzato chiunque, ma che non hanno piegato la sua fede (neppure nel campo di prigionia e poi di concentramento-donde è riemerso pesando una trentina di chili). La sua fede abbagliante come il sole, che gli ha donato il miracolo della guarigione da un male inguaribile, è la bussola di tutta la sua vita e della sua arte.

L’artista Michelini ha scelto di servire Dio e di dargli gloria con tutta la sua opera, facendosi tavolozza per una tela illimitata a misura di globo terrestre.

Come umile esule, ha percorso le latitudini mondiali, servendo Dio nella rinuncia continua e nella povertà. Ha percorso le traiettorie dei passi di Cristo in Terra Santa. Ha progettato scuole, ospedali, lebbrosari e chiese (tante chiese- circa 70- ne ha affrescato/decorato una trentina). La pittura, sempre e dovunque, è stata la compagna fedele e inseparabile dei suoi tragitti, tra un progetto e l’altro, tra un affresco e l’altro, tra un problema e l’altro, tra un sopralluogo e l’altro alle grandi opere, tra i soggiorni in Europa e quelli in Africa e in Asia, tra i vari viaggi e durante gli stessi viaggi in nave.

Michelini - La Sacra Famiglia

La sua produzione pittorica è stata ciclopica.

I suoi soggetti, con o senza volto, hanno espressioni e sentimenti, creano atmosfere, commuovono, conquistano e guidano verso il trascendente, ponendosi nella realtà umana come nostalgia di Dio.

Ho domandato di persona al maestro Michelini di definire la sua arte ed egli ha pronunciato queste tre parole: “arte di devozione”, ma vorrei umilmente ribadire che l’arte di devozione rimane circoscritta all’ambito delle icone, poiché in tutte le tele, invece, l’ispirazione è un limpido fiume impetuoso che nasce dal cuore e dalla mente dell’artista e prende forma, attraverso la linea stilizzata/essenziale come un ideogramma cromatico, anche quando egli raffigura soggetti religiosi. La sola arte di devozione, a mio avviso, è quella in cui Michelini delinea chiaramente i lineamenti dei volti, poiché, in quel caso, com’egli stesso ha precisato, raffigura i personaggi religiosi così come i fedeli si aspettano di vederli. In tutte le altre opere, anche se esse sono a tema religioso, la creazione pittorica nasce da libera ispirazione, i volti non hanno lineamenti, eppure esprimono una tale carica espressiva da apparire completi.

In altra sede, ho accuratamente evitato di cogliere paralleli tra Michelini e le varie correnti artistiche, perché egli, piuttosto che “solitario”, come lo hanno definito, è unico (e non per iattanza: Michelini è se stesso, nient’altro, e in ciò sta la sommatoria della bellezza che il colore delle sue opere può raccontare). Le opere di Michelini, pur dando vita a soggetti religiosi, lasciano intatti i destrieri alati della fantasia e del sentire profondo.

 

Egli ha frequentato l’accademia di Brera negli anni in cui l’eredità del futurismo (v. Marinetti: manifesto pubblicato nel 1909 e poi manifesto tecnico nel 1910/ pittori futuristi: manifesto pubblicato nel 1910) non aveva ancora cessato di far sentire l’influsso del suo rifiuto dell’arte tradizionale/ del suo tentativo di rinnovamento in termini radicalmente eversivi e violentemente polemici. I pittori futuristi basavano la loro pittura sulla scomposizione divisionista del colore e sulla nuova sintassi del cubismo. Da ciò Michelini si è lasciato appena sfiorare, ereditando la linea stilizzata e lo schema appena accennato dei volti. In seguito agli sconvolgimenti del conflitto mondiale e alla crisi dei valori tutti, arte compresa, la corrente chiamata DADA dilagò, rinnegando l’arte classica in particolare e l’arte in generale/ vedendo l’arte come un non valore che ripudiava la logica e che si produceva secondo le leggi del caso –lo stesso nome era stato scelto a caso nel dizionario). Per i dadisti persino la rivoluzione del razionalismo cubista era un valore da disprezzare, poiché produceva ancora opere da esporre nei musei.

Michelini passò indenne tra le spire di quel contagio, che trasformò invece parecchi artisti in non-artisti (che non volevano produrre opere d’arte ma prodursi in azioni volutamente insensate e provocatorie, poiché ritenevano che l’arte “non rappresentasse nulla e non fosse nulla”). Egli non avrebbe potuto tradire l’arte, quella con la A maiuscola, quella che crea la magia della bellezza e alla quale ha dedicato tutta la vita, sviluppando una sua forma personale d’arte, un suo inconfondibile stile, una vena matura e costante come una miniera inesauribile. La sua legge pittorica è sempre stata “forma e colore” dotati di “linguaggio”.

Le opere di Michelini sono dotate di parola oserei dire; parlano un linguaggio che va oltre l’ispirazione che le ha generate e che è universale nella specificità individuale dell’osservatore.

*

Il “solitario” Michelini solitario non è affatto, perché ogni artista, per quanto isolato nel panorama artistico contemporaneo, è figlio del suo tempo e delle stratificazioni dei tempi che lo hanno preceduto.

L’arte è l’architettura dell’invisibile, dell’irrazionale e delle profondità insondabili del sentire e delle credenze dell’umanità. In essa l’impossibile è possibile e, perciò, per la loro valenza pedagogica, le opere micheliniane trovano parentele addirittura nella notte dei tempi, là dove l’uomo raccontava e si raccontava già sulle pareti delle spelonche, nella preistoria, e dove, in Egitto nel 4000 a.C, nacque l’arte di imparare e di insegnare l’arte stessa, in collegamento con le credenze religiose (anche se, nonostante la buona manualità-conoscenza dei materiali e l’intepretazione delle dimensioni e della prospettiva, era puro esercizio ripetitivo e non ancora libera espressione dell’artista).

Potrei dire, come si disse per l’arte di Picasso, che anche quella di Michelini è stata influenzata da Cezanne e dall’arte africana, asserendo il vero, ma c’è di più. L’opera di Michelini contiene parentele con il meglio del genio artistico (e proprio con capolavori classici di cui dovrebbe essere, per periodo di appartenenza, l’esatta antitesi): per esempio, guardando alcune delle figure dipinte da Michelini, capita, a tratti, specialmente nell’Apocalisse, di ripensare al quattrocento italiano, a Masaccio e alle sue figure umane imponenti e statuarie e, allo stesso tempo, sobrie ed essenziali. Sensibile e duttile com’era, il giovane Masaccio aveva afferrato al volo il fermento e l’atmosfera di rinnovamento creati in Firenze da Filippo Brunelleschi (con la rigorosa e stupenda semplicità delle sue opere architettoniche- che recuperavano i motivi classici, modernizzandoli con ingegnose e nuove tecniche costruttive- come si vede nella cupola di Santa Maria del Fiore, uno dei simboli più eccelsi del Primo Rinascimento) e da Donatello, che, in pieno accordo e collaborazione con Brunelleschi, aveva abbandonato gli elaborati panneggi del Gotico e li aveva sostituiti con una robusta sintesi espressiva (come si vede nelle gigantesche statue della facciata del Duomo di Firenze e del suo campanile).

Masaccio, in piena cultura ancora di stampo medioevale, che basava la pittura su costosi sfondi in oro o sull’ancor più costoso azzurro “oltremarino” derivato dai lapislazzuli, aveva avuto il coraggio di esibire scene impostate con solenne monumentalità ed eseguite con la più disarmante semplicità e di farsi capostipite di un nuovo modo di dipingere, che apriva la strada a Michelangelo e che faceva uscire Firenze per prima, in Italia e in Europa, dalla tensione mistica medioevale (facendola entrare nell’umanesimo e, finalmente, non rendendo vane le premesse fondate un secolo prima da Dante e da Giotto).

Michelini ha due punti di contatto con Masaccio: le figure semplici, delineate con grafemi geniali di luce commovente e sobria e ammantate di solennità statuaria, e la posizione storicamente significativa della sua arte. Passato, come artista, attraverso l’influenza futurista e poi attraverso la bora possente dei vari movimenti culturali (e delle conseguenti contagiose correnti artistiche contemporanee), Ferdinando Michelini si pone come coraggiosa colonna dell’arte intramontabile-basata sulla bellezza.

È perciò cardine di un’arte pittorica che raccoglie il meglio del vecchio e del nuovo e che è destinata a durare nel tempo e a passare ai posteri, con echi longevi e lusinghieri. La manzoniana epigrafe “ai posteri l’ardua sentenza” ben si sposa con l’arte micheliniana, che non deve temerla, al contrario delle mode passeggere senz’arte né parte, che nulla avranno da tramandare ai posteri, poiché il chiasso mediatico, indossato sulla più assoluta incapacità artistica e su una disperante-disperata mancanza di genialità e, pertanto, di grandezza, non avrà anima immortale da consegnare all’inclemente falce del tempo.

Michelini non ha nulla in comune con il manierismo e con la sua ricerca assillante e meticolosa del particolare, eppure richiama alla mente il Bronzino, l’allievo del Pontormo, e non per i colori smaltati e quasi metallici con cui Bronzino distanziò il suo stesso maestro, ma per la definizione rigorosa delle figure che Bronzino realizzò attraverso un nitido tratto di contorno: le figure micheliniane, infatti, sono circoscritte nella carezza luminosa di una linea sicura e precisa simile a uno spartiacque animato.

L’opera di Michelini, essendo priva di sfondi a largo respiro e di minuzie reiterate, non dovrebbe avere nulla in comune con l’arte rinascimentale, e, invece, non fa che accrescere la gloria degli effetti di luce e delle forme, tramite l’essenzialità toccante della struttura delle sue creazioni pittoriche, suggerendo, così, suggestioni-richiamo proprio in quella direzione.

La mestizia crepuscolare struggente di alcune atmosfere sfumate delle opere di Michelini, pur nella totale diversità stilistica globale, lancia richiami persino verso alcune dimensioni impressionistiche.

Anche quando è guidata da precise scritture religiose, la libera immaginazione, usata ampiamente da Michelini in tutte le sue opere, crea un qualche legame con il surrealismo, benché di esso non condivida in assoluto l’impegno ad esprimere l’istinto/l’inconscio/il mondo psichico. Non mancano nell’arte micheliniana neppure i legami con l’arte astratta intesa come musicalità cromatica avulsa da qualsiasi forma di imitazione.

Nella foresta non sempre edificante dei vari stili contemporanei, Michelini rappresenta un’ancora di continuità con i valori più eccelsi dell’arte. Le sue opere (che proclamano involontariamente classiche eccelse parentele, affermano una loro identità pregiata e imponente nel tempo presente, delineano un orizzonte futuro) sanno da dove vengono/ dove sono/ dove stanno andando.

Guardando la sua mano al lavoro, si rimaneva incantati dal gesto fluido e senza ripensamenti con cui il miracolo della creazione pittorica avveniva; guardando le sue opere, oggi, si può facilmente evocare il miracoloso passaggio di quella mano geniale. Se, di fronte a certi personaggi che usurpano il nome di artisti (esponendo alberi e simboliche impiccagioni) qualcuno rimane indeciso tra l’indignazione e la riflessione e qualcuno si domanda apertamente se la mancata esibizione di opere non significhi l‘assoluta incapacità di dipingere, nel caso di Michelini, genialità, manualità, e ricchezza propositiva si sono sempre armonizzate con l’unicità e la grandezza dell’opera e dell’artista e, ora che l’artista è scomparso, la sua opera inonda il mondo di abbondanza e rende immortale il suo autore.

*

Il maestro Michelini non è più, ma era (e, nelle sue opere ancora è e resterà per sempre) un artista a 360 gradi. Conoscerlo è stato un onore che ha arricchito il mio mondo culturale e umano. Ringrazio lui (in spirito e in arte) per aver reso questo mondo migliore con le sue opere e con la sua fede incrollabile. Ringrazio don Michele Longatti di essere la persona di cultura straordinaria che è e di avermelo fatto conoscere.

Ringrazio Cesare Vergani (l’antonomasia del discepolo fedele) di essere stato il miglior figlio che il maestro Michelini (celibe/ sposato all’arte e a Dio) potesse desiderare e di aver saputo fare tesoro dell’onore di adottare in vecchiaia, insieme alla sua consorte, l’anziano genio, dandoci  un prezioso e magnifico esempio di solidarietà umana e di amore.

Ringrazio tutte le gallerie e le latitudini mondiali che hanno ospitato/ ospitano/ ospiteranno le opere del maestro Michelini.

Ringrazio tutti coloro che hanno saputo/ sanno/ sapranno aprire la mente alle suggestioni poliedriche e nobilitanti provenienti dalle opere micheliniane (che siano architetture, mosaici, affreschi, dipinti o icone / che si trovino in gallerie, in musei, in piccole cappelle di campagna, in grandi chiese cittadine, in santuari-mete di pellegrinaggi, in scuole, in ospedali, in lebbrosari, in navi, in alberghi, in abitazioni private/ in Italia, in Asia, nel cuore del bush africano o in qualunque latitudine). 

Michelini Fernando in Africa

Note biografiche

Ferdinando Michelini è nato a Milano il 20 marzo del 1917. Ha frequentato l’Accademia “Brera” di MI e, in seguito, le Accademie di Belle Arti a Roma e a Parigi. La vita militare e poi la guerra hanno inflitto alla sua sfera vitale una ferita profonda e dolorosa: l’8 settembre del 1943 fu fatto prigioniero dai Tedeschi e deportato in Germania. Attraverso vari lager, approdò al campo di concentramento di Ravensburg, che non figurava neppure sulle mappe degli alleati. All’arrivo dei liberatori, Michelini era uno dei pochi superstiti di quel campo.

Fu salvato dalla croce rossa svedese. Pesava 38 chili: ne aveva perso quasi 50. Quell’esperienza lasciò segni irreversibili nel suo corpo e nel suo spirito. La mente e lo spirito fervidi non si arresero mai. Al ritorno in Italia, egli ricominciò a studiare. Frequentò la facoltà di architettura al Politecnico di MI. Conseguì l’abilitazione all’insegnamento. Sempre e comunque fornì canneti vibranti al vento dell’arte, attraverso la pittura. Le sue opere vennero richieste in varie gallerie europee.

Presto, il suo percorso artistico giunse al punto in cui la tela non poteva più contenere l’impeto del fiume-creatività, che dilagò con naturalezza e grazia nella pittura murale. Il sacro fuoco dell’arte non si lascia scegliere e decide da sé quali uomini eleggere a propria dimora: scelto da esso, Michelini non poté fare altro che seguirne i percorsi in un peregrinare imprevedibile, attraverso l’Italia, l’Europa, l’Africa, l’Asia e il Nord America. Raccogliendo l’eredità degli antichi pittori erranti, egli affrescò muri maestosi e/o modesti, progettò restauri eccellenti e nuove strutture ovunque, mai a scopo di lucro e sempre ricavando dalla sua opera lo stretto necessario per la sopravvivenza. Visse arricchimenti fantastici e indescrivibili disagi e privazioni che, per il suo organismo già segnato indelebilmente dalla guerra, furono insopportabili.

Nel settembre del 1959 svenne e fu ricoverato nell’ospedale San Giuseppe dei Fatebenefratelli. Operando d’urgenza, i medici si dichiararono impotenti di fronte alla sua patologia intestinale. In fin di vita, Michelini invocò l’aiuto del medico Fatebenefratello Fra Riccardo Pampuri, morto nel ’30 in concetto di santità. Il miracolo, chiaro-inconfutabile-scientificamente accertato e riconosciuto dalla Chiesa nel processo di beatificazione di San Riccardo Pampuri, restituì Michelini alla vita e alla sua attività artistica.

Quell’evento andò a sommarsi, nell’anima dell’artista, alle scintille divine che già la prigionia e il campo di concentramento vi avevano messo a dimora e fornì esca inestinguibile all’esplosione definitiva della religiosità di questo artista che mise la sua vita-dono al servizio del Prossimo evangelicamente inteso. Invitato, dalla Missione dei Fatebenefratelli, a progettare un grande ospedale ad Afagnan, in Togo, partì per l’Africa e vi si spostò in lungo e in largo.

Ai bisogni di quella grande terra egli dedicò un ventennio della sua esistenza, progettando strutture per la cura dei corpi, dell’anima e della mente (ospedali, dispensari, chiese, scuole). La pittura fu lo specchio libero e meraviglioso, che documentò (per le dimensioni lontane nello spazio e nel tempo) l’incontro di Michelini con la cultura africana e con le sue genti.

Quel periodo richiese a questo grande artista grandi sforzi creativi e fisici. Egli lavorava fino a sfinirsi alle opere locali e, in aggiunta, a quelle da inviare in Italia e da vendere, per ricavarne aiuti da distribuire in loco. Tutte le provviste che gli arrivavano egli le distribuiva ai poveri. Qualunque quantitativo di scatole di latte in polvere, di scatolame o di cibarie varie non era abbastanza. Egli non teneva per sé neppure l’indispensabile e deperiva oltre i limiti della prudenza. Il personale italiano delle varie organizzazioni, conoscendo la dimensione senza limiti della generosità altruistica di Michelini, lo cercava un paio di volte all’anno, lo prelevava letteralmente e lo nutriva per un paio di settimane, prima di restituirlo ai suoi luoghi di arte-missione.

Negli anni ’70, il patriarca di Gerusalemme, consapevole del talento pittorico e architettonico di questo poliedrico artista, ne richiese la presenza a Gerusalemme, per fargli eseguire importanti progetti edilizi religiosi nel vasto territorio della diocesi. Per alcuni anni, Michelini fece la spola tra Africa e Terra Santa, poi si arrese al richiamo sempre più esigente del Patriarcato Latino.

Vi trascorse un paio di decenni illuminati, affrescando chiese e istituti religiosi, illustrando libri agiografici, messali e catechismi, progettando e costruendo chiese (v. chiesa di Jaffa-Nazaret). Anche il connubio tra questo artista e la terra del Signore, con tutte le sue genti e le loro vicende tormentate, lasciò tracce indelebili nella formazione umana e nell’opera pittorica.

Tra le esperienze straordinarie della sua vita, Michelini, provò anche la grande emozione di essere nominato equitem a magna Cruce appartenente all’ordine del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Egli si sentì onorato e grandemente confortato da questo riconoscimento, che divenne per lui un vademecum dolce come la più pregiata delle ricchezze ereditate. Non abbandonò mai la pittura e sempre fece in modo che nella sua Italia non mancassero esposizioni alterne delle sue opere in progress.

Al termine della sua vita da pittore errante, rientrò in Italia e visse nella sua amata Milano. In una delle sue escursioni artistiche in Omate di Agrate Brianza, conobbe Cesare Vergani, allora adolescente, e ne divenne ‘il San Giuseppe’, come ebbe e dirmi lo stesso Vergani. Il ragazzo lo seguì a Milano e visse con lui come un discepolo e come un figlio. Degli anni passati con il suo maestro egli mi ha narrato l’incontenibile piena creativa micheliniana e i risvolti spesso bohémien della situazione economica sempre precaria, degli stenti e dei sacrifici necessari a procurarsi il materiale sine qua non per l’espressione artistica.

Molta dell’opera pittorica micheliniana è stata portata via con un semplice “Mi piace, me la dai?” o pagata con un invito a cena, in quei tempi, ma la dignità di Michelini ha fatto sì che egli sapesse coniugare sempre soltanto il verbo dare e mai il verbo chiedere; quando, tra lui e Vergani, svuotando le tasche, non riuscivano a mettere insieme abbastanza da comprare della tela, il maestro dipingeva sui cartoni o, in casi eccezionali, sugli schizzi del discepolo che, essendo giovane, avrebbe avuto modo di procacciarsi tutto il tempo e tutta la tela necessari al suo estro creativo.

Da adulto, sposandosi, Cesare Vergani si stabilì nella sua Omate, nel comune di Agrate Brianza, e lì Michelini cominciò a trascorrere periodi alterni, in una minuscola casa di ringhiera che Cesare Vergani comprò per lui. Il maestro Michelini adorava l’architettura antica e spartana di quella cascina e, attorno al 2003, vi si trasferì definitivamente.  Il suo discepolo fu per Michelini un vero figlio e gli fu accanto in salute e in malattia; quando l’anziano artista si ruppe il femore, lo portò nella sua casa e se ne prese cura insieme a sua moglie.

L’ultimo anno di vita del maestro Michelini, però, ha onorato il Fatebenefratelli di Solbiate Comasco, il cui priore aveva chiesto il privilegio di ospitarlo. Aveva subito altra frattura e un paio di ictus, era malato e malandato, ma non ha mai smesso di creare questo artista senza pari: in quell’ultimo anno egli ha prodotto ben centocinquanta opere (che restano ai fatebenefratelli, dei quali, infine, Michelini era diventato confratello).

 

Si è spento in Solbiate Comasco, nel Fatebenefratelli, il 27 Ottobre 2008. Riposa nel cimitero di Omate, per suo espresso desiderio. A Cesare Vergani ha lasciato (con regolare testamento) una gran parte delle sue opere pittoriche (tra cui la mastodontica/ straordinaria Apocalisse) e io mi auguro che il comune di Agrate Biranza

1) sappia sentirsi onorato di ospitare le spoglie mortali del defunto Michelini,

2) voglia trovare giusta collocazione per le opere di questo artista genio che ha targhe celebrative in tutto il mondo (prima che prendano direzioni altre e sparpaglino come pula al vento la loro immensa valenza globale e poliedrica),

3) possa trasformare l’abitazione micheliniana in un piccolo museo/ampolla fuori tempo/oasi-testimonianza di una vita da santo e da cultore dell’arte, della storia e della universalità della cultura.

Bruna Spagnuolo

  Incontro con il maestro Michelini:

finestra aperta su una filosofia di vita

 

Michelini - Mosaico

Entrando nel bel cortile dell’antica cascina di Omate, in cui il maestro Ferdinando Michelini risiedeva, ebbi la sensazione di attraversare una qualche cataratta temporale e di trovarmi in bilico tra passato e presente. Di una delle antiche case, formate da cucina a piano terra e camera al piano superiore, l’artista occupava solo il piano terra. Avvicinandomi alla sua porta, rimasi folgorata dall’affresco che la sovrastava: sembrava conglobarmi nell’abbraccio oltre tempo dello sguardo incredibilmente azzurro e terso della Madonna con Bambino/ parlava di agilità e di meravigliosa vitalità creativa che non riuscivo a coniugare con l’età di un uomo quasi novantenne.

Il maestro Michelini aprì la porta e mi stupì, al pari del suo affresco: aveva un aspetto senza tempo/ era magro e asciutto e si muoveva con un passo che mi parve completamente senza peso. Associai la coporatura di quell’uomo singolare a quella di un vecchio colombo mai stanco di voli. Oltrepassando la soglia di quella porta, mi trovai catapultata decisamente in una dimensione temporale e culturale che era come un crocevia di tentacoli-collegamenti-sentori-richiami di ritorno dalla storia dell’umanità e in viaggio verso di essa.

   L’ingresso incredibilmente piccolo era altrettanto incredibilmente zeppo di arte e di antico sapere: conteneva pergamene e preziosi reperti ammonticchiati su mensole, appoggiati al pavimento o attaccati al muro.

   Il soggiorno era un vero e proprio emporio, così pieno di progetti, tele, schizzi, disegni, opere antiche e icone da farmi girare la testa. Mi sentii stordita dalla magnificenza degli ori di una dovizia ubriacante di icone/ dal richiamo suadente di montagne di dipinti su tela/ dai messaggi poliedrici dei disegni in bianco e nero/ dalla sensazione di alveare pieno pieno di ogni sorta di meraviglia-arte.

Una marea di progetti-prospetti-proiezioni-foto parlavano del numero incredibile di costruzioni pensate, disegnate, seguite, affrescate da Ferdinando Michelini nelle latitudini più impensabili del mondo. Spiccavano, tra esse, magnifiche, le chiese con le loro linee protese verso l’infinito e con le decorazioni (affreschi o mosaici indifferentemente) intrise di senso del divino e di stupore bambino.

 Una ‘folla’ commovente di fotografie documentava il connubio tra l’arte e la spiritualità di questo esule itinerante di Dio/ il legame quasi palpabile tra lui e i popoli più disparati della terra/ il rispetto che egli aveva frapposto come conditio sine qua non tra il proprio mondo interiore e le culture altre incontrate e amate come volti di Dio e come manifestazioni della creazione da ricondurre a Lui.

   La camera da letto era così piccola che portava a pensare di poter toccare le pareti aprendo le braccia. La mente vi si smarriva come risucchiata tra le intercapedini del tempo. Era un insieme di mobili e di oggetti che parevano usciti dalla vita di Marco Polo. In alto, larghe mensole giravano attorno a tutte le pareti; sopra, in bell’ordine, ‘abitavano’ quelli che, a prima vista, sembravano preziosi tomi antichissimi e che, in realtà, erano scatole del ‘700 provenienti da un archivio legale di compravendita e che contenevano documenti apocrifi e tesori cartacei di ogni tipo.

I pochi oggetti appoggiati o appesi in quella camera avevano tutti un suggestivo alone di antichità e immancabilmente un valore storico e culturale. I libri appoggiati su uno dei due vecchissimi mobiletti accanto al letto, sapevano di meditazione e di museo. Il letto singolo, ligneo, basso e stretto e dai finimenti rossi, sembrava quello di Cristoforo Colombo. Un altarino, ‘abitato’ da un’icona suggestiva, era conglobato nel mobile a parete, di fronte al letto. La Santa Vergine e il Bambino Gesù della bella icona erano l’ultima cosa che Fedirnando Michelini vedeva prima di chiudere gli occhi la sera e la prima con cui salutava il giorno a ogni nuovo risveglio. Mi venne naturale pensare: ‘quest’uomo è un santo’.

   Il magazzino (situato in altro luogo lontano dall’abitazione) era un pozzo inesauribile di tele, di arazzi e di oggetti che parlavano della vita e dell’opera di questo maestro di architettura e di pittura. Una piccola collezione di francobolli di varia provenienza spazio-temporale contendeva l’attenzione alle targhette (tutte dipinte a mano/ ricoperte con cura meticolosa da pellicola protettiva/ simili a miniature pregiate prodotte da un antico amanuense) che quello straordinario artista aveva preparato per le opere che sarebbero andate in esposizione.

   Il maestro, semplice e socievole, accoglieva gli ospiti e dava loro ascolto, con umile disponibilità. Snello e familiare nel suo maglione grigio, aveva l’aria di un fraticello francescano. Non potei fare a meno di pensare che, per racchiudere l’intera vita in una piccolissima (seppur piena di arte e di cultura) casa, bisognasse possedere l’alchimia della saggezza e saper suddividere il tempo e il respiro tra la preghiera, l’arte e la contemplazione.

La dimora del maestro Michelini era abitata dal silenzio creativo; in essa, l’assenza di apparecchi televisivi e/o telematici era quasi rumorosa e andava a nozze con una vita spartana avulsa da elettro-smog, da programmi spazzatura, da suoni sgradevoli e da tentacoli consumistici e paradossi metropolitane. Come la sua arte, anche la dimora di questo grande artista al servizio del bello appariva ammantata di bellezza e illuminata dal senso del divino.

   L’essenzialità cui la vita del maestro Ferdinando Michelini era ispirata è in linea con quella sorta di glorioso splendore che emana dagli ori, dalle linee e dai colori delle sue opere e con la povertà fatta di purezza e di vera ricchezza… Nessun uomo è più ricco di colui che persegue l’arte e il sapere mai trascurando di seguire, ovunque, comunque, sempre e a qualunque costo, le orme nitide (belle o spinose che siano) tracciate da Dio per lui. Nel breve scambio di parole, ebbi modo di chiedere al maestro Michelini se e come avrebbe potuto definire la vita.

Il concetto filosofico di sintesi della risposta è più o meno il seguente: il passato è un sogno, il futuro una visione e soltanto il presente una dimensione da vivere. Le implicazioni che derivano da tale aforisma andarono a incidersi nella mia anima, in attesa di meditazioni profonde sul senso della vita umana intesa come un attimo intenso da vivere tutto a filo di respiro sulle note della musica interiore dettata dalla incrollabile fede in Dio.

Gli feci domande sulla sua arte. Ne dedussi che, a livello concettuale, egli la suddivideva in arte di devozione-educativa e arte personale-libera e indipendente, mentre, a livello produttivo, la raggruppava in arte europea, arte africana e arte medio-orientale.

Il maestro parlò e fece collegamenti con varie epoche-vari luoghi della sua opera; alcune immagini balzarono fuori dal tempo e dallo spazio. Le raccolsi e le stivai nella mente e nel cuore; tra esse spiccano i giovani Ebrei (ahimè, sempre in guerra, in terra Santa), che, lasciandosi sedurre dal richiamo dell’arte e del bello, posavano le armi all’ingresso, baciavano la mano e facevano la fila davanti ai dipinti di Michelini esposti a Beit Jala e i Maroniti, che, visitando una mostra micheliniana nell’università ‘Santo Spirito’ di Beirut, baciavano una per una le icone ivi esposte. L’opera di Michelini porta ad associare l’arte alla pace e l’autore alla evangelica ‘lampada sul moggio’.

   Al momento del commiato, il maestro Michelini mi chiese di non scrivere troppo di lui e di non esaltarlo, di parlare poco della marea di opere e di viaggi e di dare spazio alla pittura, perché tutto può contenere ricordi vari e anche dispiaceri, ma la pittura è stata-è-rimarrà l’espressione libera della sua arte.

Quelle parole mi colpirono come una rivelazione. L’uomo Michelini ha vissuto per dare gloria a Dio; ha dedicato tutti i suoi passi a servire e onorare il suo Creatore, attraverso l’arte. Ha speso ogni suo respiro suo respiro per l’arte; ha valicato confini e barriere di ogni dimensione; ha lavorato senza sosta, senza risparmio di energie e senza altra ricompensa che la destinazione finale delle sue opere; ha tracciato chilometri di segni-progetti; ha fatto erigere muri e strutture edilizie varie; ha dato forma alla sua sete del trascendente; ha riempito spazi grandiosi di grazia e di forme; ha dormito con la mente affollata di immagini-volti-espressioni-ispirazioni-suoni-parole-pensieri-preghiere; ha innaffiato e custodito con solerzia la sua mai paga ansia di lodare l’Onnipotente con le varie manifestazioni del suo genio.

 Il pittore Michelini ha usato il colore, le tele e le pareti come meditazioni oranti immortalate.

*

   All’interno della mastodontica opera micheliniana, il pittore potrebbe erroneamente essere visto come entità adombrata da quella dell’architetto-missionario-viaggiatore-esule errante. La pittura di Michelini, invece, rappresenta il cuore pulsante di tutta la sua arte, il tessuto connettivo tra le manifestazioni poliedriche del suo estro creativo; è stata per questo grande artista la liberazione pindarica, il volo senza pesi-zavorre, la nostalgia di Paradiso e l’eternità ritrovata tra le peregrinazioni terrene della materia-corpo-casa dello spirito-scintilla di Dio.

Se ne deduce chiaramente ciò che, oltre ad essere insito nel segno e nelle atmosfere delle opere, è scritto nella vita, se non nello stesso DNA, di questo personaggio che ha vissuto in spirito di povertà e umiltà: la vita è un dono del Creatore e va vissuta come umile testimonianza della sua grandezza. Viene naturale associare tale percorso alla santità: se scopo della vita stessa è la santità, intesa come adesione totale al volere di Dio, essere santi non vuol dire fare i miracoli eclatanti-vistosi-simili alle magie, ma vivere nel silenzio il proprio fiat senza renitenze-ribellioni-rivalse-ambiguità.

Ferdinando Michelini ha fatto tutto ciò, ha vissuto senza perseguire le ricchezze terrene, seguendo le mappe del richiamo di Dio con tutte le fibre del suo essere, e, in più, ha dato tutto se stesso per aggiungere forza e voce al coro universale del canto perenne delle lodi al Signore. Oltre ad essere un artista grande e completo, è lui stesso un’icona, un esempio luminoso della fede illuminata e vera (quella difficile da trovare su questa terra / quella che dovrebbe essere per ognuno lo scopo di tutta una vita / quella che darebbe a chi la possedesse la capacità di “spostare le montagne”). 

Bruna Spagnuolo

Note critiche 
 

È con grande umiltà che mi accosto all’opera di questo straordinario maestro d’arte ed è con un senso di inadeguatezza che mi permetto di accennare un tentativo di sintesi auspicabilmente latrice di un’idea verosimile dell’essenza dell’opera di Ferdinando Michelini, inestricabilmente intrecciata a una vita vissuta per dare gloria a Dio e per trasferire i moti del cuore e della mente nei passi-gesti-opere.

Hanno parlato di lui, autorevolmente e con cognizione di causa, veri ‘addetti ai lavori’. Ne elenco alcuni: Alfio Coccia, Guido Stella, Spartaco Balestrieri, M. Arnaldo Della Bruna, Pier Luigi Talamoni, Vincenzo Castelli, Mario Ghilardi, Pier Giuseppe Agostoni, Maria Sirtori Bolis, Riccardo Crescini, Elisabetta Antoniazzi Rossi, Ruggero Toldo, Roberto Bevilacqua, Ambrogio Chiari, Graziano Motta.

   È con profonda timidezza che oso unire la mia piccola voce a tale coro.

   In varie sedi, come in una mostra del 1967, il maestro Michelini è stato definito “un solitario” dell’arte italiana. La definizione mi piace per l’assonanza che ha con i famosi versi di Quasimodo (“Ognuno sta solo sul cuor della notte trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera”); non mi piace per l’implicazione di esclusione che le serpeggia dentro. Tutti gli esseri umani sono dei ‘solitari’, in quanto unici come creature di Dio.

Nessun artista è ‘solitario’ per davvero, in quanto figlio del suo tempo e inevitabilmente legato a tutto ciò che ne caratterizza la storia pregressa e presente (e, in qualche misura, anche futura). Più che ‘solitario’, io definerei Michelini unico, poiché egli raccoglie l’eredità del suo tempo a livello sia artistico che umano e la decanta nella sua anima, donde la fa riemergere come astrazione del suo mondo interiore/filtrata attraverso la fede, l’altruismo, la bontà, la sensibilità, l’ecumenismo innato, il richiamo del messaggio evangelico, il desiderio di amore fatto pace e bellezza.

   In tutto ciò che è stato detto dell’opera micheliniana ricorrono la ‘plasticità’ delle figure da lui disegnate come se fossero delle ‘statue’ e la ‘cancellazione dei volti’. Concordo con il concetto di plasticità: alcune delle sue opere hanno davvero una caratteristica statuaria e sono quelle fermate dall’artista in un atteggiamento statico e pensoso, pervaso da una forza che è quasi sofferenza accumulata nello sforzo di ritardare lo scatto verso il moto che attende. Tale effetto risalta prevalentemente nei soggetti tracciati a pastello, in bianco e nero, con segno che riesce ad essere fluido e sicuro anche quando ha il piglio geometrico, e con evidenza ancora maggiore in quelli dedicati alle scene di vita che l’artista ha raccolto in varie latitudini e carpito all’azione distruttrice e livellante del tempo.

Per quanto riguarda la “cancellazione dei volti”, benché essa possa essere, in ogni caso, considerata evidenza storicizzata, mi permetto di dissentirne. So che al tempo degli studi di Michelini, per spirito innovativo, “non si disegnavano nasi e bocche”, eppure sento il termine ‘cancellazione’ come improprio e, in qualche modo, come violenza alla vera essenza dell’ispirazione di questo personaggio dall’animo sensibile per antonomasia (che posso facilmente immaginare rispettoso del tragitto delle formiche/ incantato dal battere miracoloso delle ali di una libellula o del colibrì). ‘Cancellare’ vorrebbe dire eliminare lineamenti già delineati (nasi-bocche-occhi-espressioni prima concepite, schizzate, ripulite, precisate e completamente partorite).

Il pittore intento in tale operazione somiglierebbe allo scultore che, dopo aver “liberato” dal marmo le sue creature-opere imploranti dalla materia imprigionante, ne cancellasse i volti mirabili con scalpelli e martelli dissacranti. Non è questa l’operazione che traspare dalle opere di Ferdinando Michelini. Sia che i suoi personaggi escano dal tocco dei pastelli, o dalla forza dei colori più o meno corposi, o dal canto delle sfumature che sanno farsi impercettibili come richiamo di sirena o prorompenti come grido-ultrasuono, le figure umane spiccano nei dipinti micheliniani come metallo sbalzato, in una sorta di genesi autogena. Si ha l’impressione che la mano di Michelini esegua la maieutica di socratica memoria, mediante un parto che dà alla luce opere vive innamorate dell’occhio che le guarda e riguardose della psiche immaginativa individuale/collettiva. La mancata esecuzione di naso-bocca-occhi, nell’opera di Michelini, non viene percepita come un’assenza, perché la luce che incornicia i volti e ne bagna la superficie suggerisce espressioni-sentimenti-abbandoni-tenerezze cromatiche che si trasformano in forza propulsiva e rendono i personaggi vivi/ abitati da una docilità altera e quasi regale. 

La pittura

La produzione pittorica micheliniana ha il richiamo possente di una creatività inarrestabile. Vi si avverte la forza meravigliosa e irresistibile dell’arte che, come un fiume in piena, ha imperversato nella mente e nell’anima dell’artista, fino a identificarsi e fondersi con l’ansia del divino e, infine, con la fede in Dio. Fernando Michelini ha attraversato le sue opere-percorso e si è attraversato, oltrepassandosi e cercando orizzonti di spazi più grandi. È approdato così all’affresco, che ha realizzato in lungo e in largo, in tutto il mondo.

 Vedere le superfici enormi affrescate e trasformate da Michelini in suggestioni stupende dell’antico e del nuovo testamento porta a percepire l’affrescatore quasi come creatura dotata di capacità di volare (e a sentire, altresì, il contrasto inevitabile tra il peso della materia e il bisogno d’ali dell’anima prigioniera nel corpo). Capaci di fluttuare senza peso appaiono, infatti, le figure piccole, grandi o gigantesche immortalate da Michelini nell’intonaco fresco, perpetuando il sodalizio antico della penetrazione del colore nella calce e dell’asciugatura all’unisono dei due elementi. Imponenti come quelle degli affreschi risultano le figure dei mosaici enormi realizzati su cartoni di Michelini nella chiesa dell’Opera della Provvidenza, in Sarmeola di Rubano, e allo stesso modo si fanno vessillo di una funzione pedagogica intrinseca.

   Non meno imponente appare il numero sovrabbondante dei dipinti su tela, le cui atmosfere hanno un incedere biblico anche quando si ammantano di atmosfere oniriche. Discorso a parte merita la produzione astratta, che pare seguire una certa dicotomia rispetto alle magie toccanti del resto della pittura micheliniana. In essa, colori-shock, meccanismi e ingranaggi labirintici suggeriscono geometrie desvasticizzanti. Osservando i dipinti di epoca più giovanile, percepisco una sensazione cromatica in prevalenza siderale e forse in sintonia con i tragitti in itinere ancora frenetici. Nella produzione più recente, il segno maturo sposa colori caldi che paiono trafiggere i soggetti e illuminarli, bagnandoli di etereità obliante come preannuncio di tramonti incombenti.

   L’operazione di unione tra le caratteristiche ‘scultoree’ e ‘pittoriche’, ricorrente nell’arte micheliniana, viene mediata, alleggerita e quasi vanificata dal colore che, in alcune opere, pare cadere dall’alto e rivestire di trasfigurazione i personaggi rapiti e meditanti e, in altre, si lascia percepire come un chiarore benefico e crepuscolare proveniente dall’interno dei personaggi e diramantesi, con intensità graduale, dal vicino al lontano, come un alone soffuso. I soggetti di ispirazione evangelica e trascendentale hanno sempre una messe abbondante di interiorità radiosa e di meditatività fatta di letizia e di pathos ascetico, che trasudano dai tratti ben delineati e nitidi-dalle superfici campite con dolcezza-dalle mestiche sfumate con perizia riguardosa e attenta.

   La luce trasecola sui soggetti (siano essi di natura religiosa – come “La Samaritana”, “Emmaus”, “Sacra Famiglia”, “L’adultera” – o di altra natura – come “Il Pane”, “Solitudine”, “Manioche”- per citarne alcuni nella marea infinita della produzione micheliniana fervida e prolifica) sotto forma di linea dotata quasi di fosforescenza, di campitura imparentata con una sorta di trasparenza discreta e commossa, di sentore a tratti struggente e sempre coinvolgente/ chiamante dalle varie posture, dai volti sollevati-diritti-chini, dagli oggetti animati e vivi, sentiti come prolungamento-completamento della ‘personalità’ e della dolcezza toccante della figura dipinta/ evocata-sognata-immaginata-osservata. I soggetti, dotati di forza interiore, assurgono a simboli.

I volti-non-volti appaiono come astrazione della bellezza pura (da presagire e accordare sulle vibrazioni imprevedibili delle corde interiori individuali)/ i nudi assurgono a simboli smaterializzati della stessa astrazione. La funzione incontrovertibile della luce è invincibile e forte e, allo stesso tempo, docile-vulnerabile-tenera e dolce. Anche nella pittura, l’animo di Michelini si percepisce pervaso di amore per la vita in generale e arso dal desiderio di percorrere, con devota obbedienza (facendosi segno del trascendente sulla terra) il sentiero che Dio ha pensato per lui.

Le icone 

 “Sono un pittore di arte di devozione”, mi disse il maestro Michelini, riferendosi alle sue icone. Con espressione sognante ricordò di aver visto sul Sinai molte delle preziose icone bizantine antiche sfuggite alla folle distruzione iconoclasta. L’amore per quei tesori di arte antica aleggiava nell’aria, mentre egli diceva di aver trovato copiosi esempi di tali icone anche in Terra Santa e di aver visto, a Cipro, i monaci montanari dipingere miriadi di icone luminose e stivarle nel santuario di Nicosia. Aggiunse di avere ammirato, appreso e praticato in Armenia le antiche tecniche dell’arte armena. Alla domanda: “Quando ha cominciato a produrre icone?”, rispose Cesare Vergani: “Le ha sempre fatte.”

   Le icone, come tutte le forme d’arte, sono motivo di ispirazione e di imitazione da parte degli artisti, ma, dopo aver osservato le icone di Ferdinando Michelini, posso affermare che, pur ispirandosi alle antiche tecniche, egli ha creato le proprie icone con l’ispirazione della genialità autentica che lo abita e con l’integrazione di tecniche proprie originali e uniche. I lineamenti e la forza espressiva dei volti perfetti delle Madonne e dei Bambinelli micheliniani sono particolari che si rinnovano ogni volta, nell’intelligenza viva, che traspare dagli sguardi penetranti e traboccanti d’amore e nel realismo incredibile dei tratti dipinti. Le mani e i volti sono così perfetti da assomigliare al particolare mirabile ritagliato da fotografie reali e inserito nel tripudio degli ori. Domandai al maestro come mai riuscisse, con tanta fluida maestria priva di contrasti, a dar vita ai lineamenti di Maria e di Gesù e non potesse dare un volto a nessuna delle altre ‘creature’ della sua arte figurativa. Rispose che nell’arte di devozione non doveva fare altro che concentrarsi sull’immaginario religioso collettivo, per ‘trovare’ le caratteristiche espressive dell’immagine sacra, e che nella pittura libera non era così. Ciò mi conferma nell’idea che ho già espresso riguardo alla “cancellazione dei volti”, che nella pittura micheliniana vedo, invece, come ‘pudore’-delicatezza della mano dell’artista timorosa di ‘anticipare’-‘invadere’-‘forzare’ la sensibilità immaginativa-subliminale individuale e/o collettiva.

   I contorni lumeggiati da fili d’oro intrecciati, sono il particolare dissonante che differenzia le icone micheliniane da tutte le icone antiche o contemporanee conosciute e che firma in modo unico e introvabile i pezzi esistenti delle icone di questo artista dall’opera ciclopica e dal curriculum vitae tutto da meditare. 

I progetti  

Ferdinando Michelini aveva l’aspetto umile e poco appariscente tipico delle anime elette. Guardandolo veniva difficile immaginarlo artefice di grandi opere, di infiniti viaggi, di molti incontri ‘storici’, tra cui quello con Giovanni Paolo II e con Madre Teresa di Calcutta. Nella sua piccola casa-biblioteca-museo agratese, abbondano (spero ancora) grandi raccoglitori contenenti prospetti e prospettive di un numero indicibile di progetti. In un volume sono raccolte le fotografie belle e sorprendenti di quelli che hanno visto la luce e che svettano nei contesti ambientali più disparati della terra.

Ci sono ospedali, lebbrosari e chiese-tante chiese quante mai nessun progettista-artista abbia mai sognato di realizzare o abbia realizzato. Se la memoria non m’inganna, l’estro architettonico micheliniano ha arricchito, con la forma bella delle sue chiese dalle linee sempre movimentate e leggere, almeno una settantina di contesti ambientali. I suoi progetti sono stati realizzati un po’ ovunque. Sul filo della memoria mi sono rimaste le seguenti latitudini: Togo, Ghana, Costa D’Avorio, Benin, Burkina Faso, Nigeria, Terra Santa. La sola Terra Santa contiene un numero talmente grande di località arricchite dalle opere di Michelini da far impallidire la fama dei più grandi artisti della storia dell’arte: Galilea (nazareth/ Rameh/ Reneh/ Yaphia/ Shefa AMR); Samaria (Zababdeh/ Burqin/ Nablus/ Rafidia); Giudea (Abud/ Taybeh/ Gerusalemme/ Beit Giala/ Beit Sahur/ Beir Rafat); Gaza; Giordania (Anjara/ Ajloun/ Khirbeh/ Ermemin/ Naur/ Fuhais). Non ci sono dubbi sulla dimensione ciclopica di questo maestro d’arte del nostro tempo.

   Anche in ambito architettonico, egli ha profuso la forza dei battiti del suo cuore scanditi sulla ricerca della bellezza, da catturare, plasmare e diffondere a gloria del Creatore. Ne sono una testimonianza parlante le linee protese verso il cielo dei santuari a molte cupole-molti lati-molte cuspidi che spezzano lo spazio in policromie dialoganti con l’infinito. Mi tornano in mente due delle chiese da lui costruite in Togo: la chiesa Christi Regis, che conquista il cuore e la mente, insediandosi nell’ambiente circostante come elemento prezioso legato al trascendente/ in piena armonia con le capanne, le palme e il resto del paesaggio; la chiesa di Kouve, che poggia sulla terra una base fatta di idea di leggerezza e s’innalza timorosa verso il cielo (come una leggiadra ‘capanna di Dio’ a doppio tetto-doppio livello sottile/ come un gabbiano con le ali ripiegate in attesa del volo) e che del paesaggio naturale riporta i colori e l’alito di oblio.

La sensazione che mi assale anche di fronte a questo settore dell’opera micheliniana è sempre quella iniziale, di inadeguatezza delle parole di fronte alla grandezza di tanta vastità. Tra i progetti realizzatri in Italia, ricordo l’Opera Della Provvidenza Sant’Antonio, in Sarmeola di Rubano, e la chiesa di S. Girolamo in Este (il cui parroco, don Orlando, ha scritto: “È morto il prof. Arch. Fernando Michelini che ha fatto della nostra chiesa una ‘BASILICA’-“). 

L’apocalisse

  In omaggio alla funzione pedagogica dell’opera di Fernando Michelini, prima di parlare della raccolta di dipinti cui egli ha dato titolo “l’Apocalisse”, occorre soffermarsi un attimo sul significato del titolo medesimo.

   Il termine apocalisse (o apocalissi) connota gli scritti che contengono rivelazioni sul destino dell’uomo e sulla fine del mondo e, in particolare, designa l’Apocalisse di San Giovanni. La tradizione apocalittica giudaica comprende vari e numerosi testi; i principali sono: l’Apocalisse di Abramo/ di Elia/ di Sofonia, il libro di Enoch, l’Assunzione di Mosè, l’Apocalisse di Mosè, il nucleo giudaico dell’apocalisse ‘greca’ di Baruch, i libri III-V degli Oracoli sibillini.

   La fioritura delle apocalissi cristiane iniziò nel II sec. (v. apocalisse di Pietro/ di Paolo/di Tommaso e la più tardiva apocalisse della Beata Vergine Maria). Di medioevale memoria è la Navigatio sancti Brundani (XI sec.). All’Apocalisse di Paolo s’ispirò quasi certamente Dante Alighieri per la Divina Commedia.

   L’etimologia del termine apocalisse è: catastrofe cosmica/ disastro totale.

   L’apocalisse per antonomasia, l’ultimo libro del nuovo testamento, è attribuita all’apostolo Giovanni (come si legge all’inizio e alla fine del libro stesso). È la tradizione più antica a riconoscere tale attribuzione oggi non concordemente accettata. Nessuno può mettere in dubbio però che l’Apocalisse detta di San Giovanni faccia parte degli scritti del Nuovo Testamento identificati come “letteratura giovannea” e universalmente catalogati, comunque, come appartenenti alla scuola di Giovanni. Diverse fonti ritengono che Giovanni abbia scritto in Efeso, a conferma delle origini asiatiche dell’ultimo libro. In 1,9 viene indicata l’isola di Patmo come luogo in cui Giovanni ebbe l’incarico di redigere un’opera comprendente le visioni a lui apparse e di mandarla alle comunità asiatiche. Il periodo di riferimento indicato è l’81-96 d.C. (gli ultimi anni del regno di Domiziano), alcuni studiosi moderni ritengono che la data vada anticipata al 69-70.

   L’Apocalisse di Giovanni è un messaggio rivolto, a breve termine, a tutte le chiese d’Asia e, a lungo termine, a tutta la Chiesa in generale. Giovanni appare erede della tradizione apocalittica antico-testamentaria, soprattutto di Ezechiele e di Daniele, ma rielabora in modo originale i temi e la materia letteraria dei profeti; interpreta le antiche profezie alla luce della Rivelazione, mettendole al servizio di Cristo e della Chiesa; fa in modo che la tradizione dell’Antico Testamento, in cui Dio annunciava e preparava la salvezza, si saldi con la tradizione neotestamentaria, in cui la Chiesa cristiana si configura come il regno di Dio nel mondo.

   Le visioni comprendono numerosi quadri-avvenimenti in rapida successione: Cristo, dalla cui bocca esce una spada a doppio taglio, è posto tra sette candelabri d’oro (le sette chiese); Dio siede sul trono divino e tiene in mano sette sigilli; essi vengono aperti da un agnello con sette occhi e sette corna. I sigilli rivelano disgrazie e sofferenze; il settimo contiene sette angeli con sette trombe i cui squilli provocano la distruzione quasi totale dell’umanità; al suono della settima tromba si compie il mistero di Dio. Alla fine, le genti adunate da Satana vengono sterminate e il diavolo stesso viene gettato nella palude di fuoco; segue la resurrezione e il giudizio di tutti gli uomini. 

L’Apocalisse dipinta da Fernando Michelini è quella di San Giovanni. Il pittore l’ha lasciata sedimentare nel suo cuore di cristiano, ne ha trasferito la gestazione alla sua mente di artista e, infine, ha partorito ben 62 dipinti (olio su tela). 

  La mole di lavoro occorsa a Ferdinando Michelini, per realizzare l’Apocalisse di San Giovanni, è talmente mastodontica da far venire quasi il capogiro. Ciò che sbalordisce non è tanto la vastità della realizzazione pittorica dell’opera composita e imponente quanto la complessità innegabile del lavoro interpretativo e creativo che ne è l’anima.

   Osservando le varie tavole e provando ad entrare nei meandri dell’ispirazione religiosa che le ha provocate, ci si sente quasi afferrare da una sorta di soggezione e di timidezza. È un’impresa epica visitare i 62 dipinti dell’intera raccolta, esporsi all’emozione della visione delle tavole, capitalizzarle e tentare di rimpicciolirle per farle ‘entrare’ nei grafemi riduttivi delle parole. E ciò è tanto più difficile, trattandosi di dipinti singoli completi da soli eppure progettati come tessere di un unico mosaico a incastro o come particolari di un’unica grande opera dal disegno globale immenso e dalle ramificazioni infinite.

   L’Apocalisse di Michelini è sbalorditiva per la valenza grafica, per quella pedagogica e simbolica, per quella escatologica e, dulcis in fundo, per quella pittorica. Nell’insieme l’opera costituisce un’impresa ponderosa e sbalorditiva, ma nello specifico di ogni tavola si sgrana in unità apocalittiche dal sapore fiabesco che non sanno prescindere dalla nota storico-ambientale e di costume. L’intera grande opera è awesome, e quindi atta ad incutere timore e sacro terrore, eppure connaturata nella mescolanza stessa del colore si avverte un’inconscia nota desiderosa di dare conforto.

   Molte delle tavole di questa imponente raccolta sono intrise di luce evangelica e tutte si dipanano attorno alle ‘visioni ‘con immagini sempre rispondenti a un’atmosfera cosmica. Quasi regolarmente però, tra le caratteristiche terrificanti e la percezione di esse, si avverte una specie di filtro benefico e protettivo: il limpido occhio mentale e spirituale della mano che ha tracciato le linee, vestendole di colore senza saper albergare mai nel cuore l’orrore.

   Il “San Giovanni Esiliato in Patmos” commuove, con il corpo proteso in avanti, lo sguardo annidato nel colore e fisso sull’orizzonte lontano, l’intera postura abitata da un nostalgico alone di soffusa mestizia. In questo dipinto, come in quello intitolato “L’incarico a Giovanni”, la connotazione azzurra e la definizione delle terre quasi imbronciate non mancano di luce riflessa e tradiscono il chiarore autogeno tipico della pittura micheliniana.

   Nelle tavole dedicate alle varie chiese, i colori hanno una funzione particolare. In”Alla Chiesa di Efeso”, conferiscono ai vestiti una vaporosità quasi fluttuante e ai corpi una possanza che acquista peso e forza di gravità. In “Alla Chiesa di Smirne”, l’atmosfera dolce e crepuscolare dei colori freddi e siderali è rotta e disturbata da linee scure che si lasciano rabbonire da trasparenze e da pozze di luce. In “Alla Chiesa di Pergamo”, il poco azzurro è sopraffatto da riverberi quasi di fuoco e dall’atmosfera irreale e soprannaturale che trasecola in tutte le immagini di questa apocalisse. In “Alla Chiesa di Tiatira”, la luce è protagonista, danza/ esplode attorno alle figure, le inonda/ le stordisce. Le linee scure che feriscono i personaggi, mutilandone la forza vitale, aumentano la propellenza cromatica espressiva dei piani di lettura. La tavola intitolata“Alla Chiesa di Filadelfia” ha sfondo avvolto in foschia rosata che sa di silenzio e di assenza di vita.

   È sempre la luce il filo di Arianna tra il volto di Giovanni (pur in assenza di lineamenti) e quello dell’Angelo nelle varie ‘sezioni’ di riferimento.

   I soggetti catastrofici emettono riverberi forti; occhieggiano di riflessi e di atmosfere a tratti sconcertanti e disorientanti.

   Michelini ha saputo dare ai volti essenza rapita e intensa o ieratica e struggentemente comunicativa, a seconda che appartengano ad esseri trascendenti o a creature umane e sempre facendone intuire i lineamenti mai disegnati; ha lasciato qua e là, incistate nei venti apocalittici delle raffigurazioni più improbabili, ampolle di realtà sicure come vivai autorigeneranti. Le tele intitolate “La preghiera degli Eletti”,”I Quattro Venti della Terra”,”Il Grande Numero degli Eletti” sono oasi accese di emanazioni spirituali positive che paiono covare nei dipinti come calore benefico e separarsene solo per raggiungere chi sappia entrare in sintonia con essi.

   Nei dipinti intitolati “La Prima Tromba” e ”La Seconda Tromba”, il colore pare diffondersi come fuoco liquido; in quello intitolato “La Terza Tromba”, l’atmosfera primordiale richiama scene primitive di mistico terrore delle forze della natura. Il dipinto “La Quarta Tromba”, a molti piani di lettura, è investito da una luce spettrale, che pare mummificare lo sfondo in un incanto soprannaturale, i personaggi in un rapimento pregno di pensieri immobili e di parole congelate, le trasparenze in un richiamo dalla voce quasi sonora.

   La tavola “L’Aquila dei Tre Guai” è come uno stridore visivo dal quale l’occhio fatica a staccarsi. L’aquila minacciosa, sospinta da graffi di luce, si staglia contro uno sfondo profondo, sparandovi dentro una scarica possente di getti luminosi, a loro volta attraversati da un qualche chiarore proveniente da un punto di fuga quasi esterno al dipinto medesimo.

   Altre tavole, immortalate nella luce accecante e nella policromia trasparente, a più toni, di sfondi complessi, imperversano, con tragedie, disastri, fenomeni impressi sulla tela, con linee di lampi elettrizzati. Ovunque, si avverte il terrificante e l’obbrobrioso in antitesi alla ponderatezza che fa da contrappeso, reggendo ai venti del male. L’architettura delle linee e il conforto del colore non sono sempre funzionali all’armonia delle forme, ma sempre tesi verso il fluire simbolico dell’arte di devozione.

    Nelle due tele intitolate “Un Grande Segno Apparve nel Cielo” e ”Il Primo Avversario”, la Santa Vergine è dipinta con armoniosa attenzione, ricchezza di particolari, bellezza di forme e simbologia di sole, ispirando tenerezza e potenza allo stesso tempo.

   “Il Quarto Segno” è una tela-alveare, dalla quale si sprigiona un’idea di pienezza incontenibile; il risultato è un effetto di tridimensionalità quasi virtuale, che si accende di mille stelle cadenti, come la notte di San Lorenzo.

   Nel “Sesto Segno”, è imponente il Figlio Dell’uomo; la falce spaventosa trova scrigno nel cielo violaceo e cupo; la nube si fa destriero recalcitrante e si deposita, con consistenza e leggerezza a un tempo, sugli ocra bisbiglianti della messe; le linee dell’insieme sono vestite di luci affilate.

   “Le Uve Sono Mature” è un dipinto percorso da brividi lucenti di parentele bucoliche, che s’incuneano nell’urlo del mosto divenuto sangue, nelle armi letali e nel livore dell’aria.

   Nel “Settimo Segno”, la beatitudine e la gloria divina piovono con toni velati di mestizia luminosa e quaresimale.

   Nelle ‘sette’ tavole dedicate ai ‘calici’, tinte fascinose avvolgono il tratto deciso degli ambienti e delle figure incredule in un incantato sopore e in uno stordimento illuminato; i colpi di luce cadono come mannaie leggiadre; è toccante la grazia translucida delle vittime dell’ira divina; le grida silenti, sublimate in bellezza pittorica e abbandoni, non riescono ad essere avulsi da dolcezza e pietà (v. “Sesto Calice”, in particolare).

   In tutte le tavole dell’Apocalisse micheliniana, il pennello si fa strumento impareggiabile della grandezza onnipotente di Dio; la perizia della mano ispirata riempie di personaggi-folle infinite-particolari e suggestioni superfici di notevole estensione; mirabili sono le trasparenze luminose a uno o a più passaggi e, a volte, meravigliano con effetti-tampone leggeri come tulle e vestiti di oblio (v. “Acqua di Vita”).

   Le espressioni sono accarezzate dal pennello, come da alito che trasfonda la vita pur senza macchiare di scuro la campitura assorta e piena di calore. 

Michelini - Gesù e la folla

‘Postfazione’    

Ho scritto di Michelini, inserendo il suo genio poliedrico nel ‘nostro’ tempo e tenendolo lontano mille miglia dai non artisti, che, pur definendosi ‘pittori’, promettono mostre e poi celiano e trasformano gl’incontri in vacanze e non hanno quadri o dipinti di sorta da mostrare (o espongono oggetti reali, con simbologie di cattivo gusto); dai non artisti che questo nostro tempo in cerca di firma definisce pittori magari geniali perché dipingono sulla carta igienica. Il Michelini virtuoso delle icone/ asceta/ architetto/ pittore/ disegnatore/ amanuense è, al confronto, un Michelangelo.   

Claudio Di Scalzo colloca tra i grandi del Novecento (a buon diritto) Buffet e Rouault (che egli predilige). Io mi sento di dire che l’opera micheliniana merita un posto d’onore tra gli artisti del 900 (and more so than everybody). Il Buffet (pittorico e grafico), per esempio, ha avuto, già in vita, onori senza fine e pubblicità mediatica a iosa, ma (indipendemente dal fatto che “non ha convinto gli addetti ai lavori” dell’epoca e dal fatto che ha realizzato opere indubbiamente valide e acquarelli straordinariamente suggestivi) non ha alcun ‘meridiano’ di congiunzione con la statura mareale dell’opera micheliniana (sconosciuta), che si è espressa sì in pittura, ma ha osato anche voli pindarici verso gli spazi più vasti, conquistando le forme architettoniche e ‘ammansendole’ con grandiosità di tele e di mosaici giganteschi. 

Rouault è stato incoronato re dell’arte sacra moderna (ma appartiene a parentele con i Fauves e gl’Impressionisti/ è approdato a ‘natura’ e ‘divino’ di altra generazione pittorica, quella a cui la ‘generazione’ di Michelini si contrapponeva-opponeva). Michelini è ben altra figura artistica e umana: è un religioso che ha dipinto ‘arte di devozione’/ ha ricercato le orme del piede di Cristo fisicamente, in Palestina; ha bevuto alle fontanelle che hanno dissetato Cristo; ha uniformato ognuno dei suoi passi a ‘quei’ passi/ ha trasformato l’arte in fede e la fede in arte/ ha pregato creando e ha creato pregando/ ha disegnato, progettato, affrescato, ornato gli ambienti della preghiera/ ha inciso la sua preghiera nel vento, nella sabbia, nel cielo e nelle persone dei luoghi che ha visitato, prima di ricamarla nella forma delle sue opere architettoniche e di sfumarla nel colore  delle sue opere pittoriche.   

La critica ha affiancato Michelini a Gromaire, ma (dal basso della mia assoluta insignificanza) io credo che egli sia altra cosa e lo ritengo grande, perché sapeva dipingere come tutti questi artisti e ‘ha scelto’ quel suo modo di astrarre la linea (come un cursore luminoso e scarno) dalla ricchezza dei particolari e di renderla abitata dal divino. Il tempo non coprirà d’oblio Michelini: lo ricorderanno le nazioni nelle quali, da vero pioniere, egli ha vissuto in zone selvagge (ove doveva liberare il suo giaciglio dai cobra, prima di andare a dormire), fuori dal mondo, per tutto il tempo necessario a innalzare santuari o architetture artistiche varie.; lo ricorderanno per sempre le nazioni che gli hanno dedicato francobolli quando egli era ancora in vita; lo ricorderanno le città in cui sorgono le sue opere; lo ricorderanno tutti coloro che verranno a contatto con le sue icone e con i suoi dipinti.

Egli ha lasciato ‘segni’ illustri e innumerevoli del suo passaggio sulla terra/ segni che parleranno ai ‘posteri’ di varie nazioni del suo genio creativo poliedrico. Molte sono le latitudini che innalzeranno nei loro cuori monumenti di gratitudine a Michelini, ma l’Italia (e il Nord dell’Italia, in particolare) deve innalzargli quello più imperituro (quanti artisti contemporanei ha l’Italia che abbiano cantato la gloria di Dio con opere architettoniche/ affreschi/ mosaici grandi come pareti/ tele di ogni misura, contemporaneamente, in Italia e nel mondo- e non nelle piazze e nelle gallerie soltanto, ma nelle basiliche?).   

Michelini - Gesù e il Tentatore

La definizione ‘genio’ si addice al ‘personaggio’ Michelini.

È gigantesco, per l’arte a 360 gradi che esprime. È gigantesco per la vita, che lo ha portato a condividere il campo di concentramento con le circa seimila persone sterminate dalle SS in camera a gas/ con le decine di migliaia di esseri umani che morirono di denutrizione e di torture varie/ con le donne che furono vittime dell’azione omicida “14 f 13″ – in Ravensbrück; che lo ha risparmiato, dopo averlo ridotto a puro scheletro, allora; che gli ha fatto sfiorare la morte (quando fu aperto e richiuso dai chirurghi, perché era pieno di metastasi e di pus) e poi lo ha ‘miracolato’; che lo ha portato ripetutamente vicino al punto limite del deperimento (per altruismo) e dei malanni e poi lo ha restituito sempre alla frenesia orante della sua arte.

 È gigantesco per l’umiltà fuori misura, che non gli ha permesso di ‘curare’ la sua ‘carriera’.

Il genio Michelini, dalle molte sfaccettature, è stato avulso da qualsiasi tentacolo ambizione-arrivismo. Avrebbe potuto affidare le sue opere pittoriche agli esperti  (che hanno valutato ognuna delle sue tele più piccole dai cinquemila ai diecimila euro, anni fa). Non lo fece, perché lui era come un fraticello semplice, pago del niente, trascurato, non portato per gli affari (preso dai soggiorni missionari, nei quali diventava pelle e ossa, perché dava ai poveri tutto il suo cibo).   

Michelini ha vissuto nel nascondimento la sua umile vita, ma non ha potuto nascondere il suo genio creativo: la sua arte si è fatta, suo malgrado, lampada e, dal moggio evangelico, sul quale non smetterà di brillare, parlerà di lui e dei passi di Cristo che Michelini ha inseguito con le sue opere/ le sue mani/ i suoi carboncini/ le sue matite/ i suoi pennelli/ le sue chine/ i suoi ori . 

Il maestro Michelini, quando lo incontrai e lo intervistai, mi chiese di dedicare attenzione soltanto alla sua opera e non alla sua vita. È tipico delle anime grandi non sapere di esserlo e scegliere l’ombra silenziosa, che è l’habitat ideale degli umili. Chiedo perdono al soffio vitale del grande artista se non ho rispettato il suo desiderio di allora (perché l’opera di qualsiasi artista non può essere ‘letta’ né compresa in un frame avulso dalla vita del suo autore) e se mi sono autoinvestita dell’autorità di fare un’operazione ‘presuntuosa’ di scomposizione-ricomposizione del mondo globale da cui l’ispirazione scaturisce, al fine di donare (a chi ne dovesse ammirare l’opera) una piccola base di accesso a una chiave personale di lettura.

Ho redatto queste pagine, effettuando una dolorosa operazione di taglio alla grandezza della vita e dell’opera del maestro Michelini: mi duole aver dovuto ‘ridurre’ a misura di semplice summary una vita missionaria (e relativa grande opera) dal respiro universale. 

Sono grata a Dio di aver permesso al mio tempo di incrociare quello del maestro Michelini. 

Bruna Spagnuolo

LE DONNE DELLA PASSIONE DI GESÙ – Elena Bosetti

LE DONNE DELLA PASSIONE DI GESÙ

 Maria e le pie donne

di Elena Bosetti 

Bosetti Suor Elena - Cong. delle Pastorelle Docente Esegesi N.T alla Gregoriana.Le donne, diversamente dai discepoli, non abbandonano Gesù nella sua passione. A partire da colei che a Betania versa tutto il suo profumo su di lui, gesto che il Maestro interpreta in diretto collegamento con la propria sepoltura; alle figlie di Gerusalemme che lo accompagnano sulla via dolorosa e ne fanno il lamento, alle donne sotto la croce con sua madre, le medesime che osservano attentamente il luogo della sepoltura.

 Anche altre donne, non appartenenti alla cerchia del Maestro, giocano un ruolo nella storia della passione. Penso alla serva del sommo sacerdote, portinaia dallo sguardo indagatore che interpella Pietro; alla moglie di Pilato, coscienza critica che invita a riflettere e astenersi dall’iniqua sentenza. Se lasciamo parlare i Vangeli anche nei piccoli dettagli, queste figure appaiono tutt’altro che irrilevanti.

 

Oserei dire che l’animo di Gesù è capito piuttosto dalle donne. A loro il Maestro non ha bisogno di rivelare il come e il quando della sua passione. Esse intuiscono e gli stanno vicino come possono, al di là di ogni pretesa, con vero coraggio, amore e compassione.

 

LASCIATELA STARE”: IL PROFUMO, LA MORTE E L’AMORE

 

Nel vangelo di Matteo Gesù dice apertamente ai suoi discepoli: “Tra due giorni è Pasqua e il Figlio dell’uomo viene consegnato per essere crocifisso” (26, 2). Nessuna parola da parte dei discepoli, come se nessuno avesse udito. Pronta rimozione della notizia dolorosa. E mentre nel palazzo del sommo sacerdote i capi del popolo si incontrano per decretare la sua morte, Gesù si ritira a Betania in casa di amici. E qui ha luogo una scena straordinaria. Ne è protagonista una donna (anonima in Marco e Matteo) che senza dire parola compie un gesto estremamente eloquente: versa sul capo di Gesù tutto il suo preziosissimo profumo “di nardo genuino” e infrange perfino il vasetto d’alabastro che lo conteneva (Mc 14, 7). Si comporta come il buon Pastore che nel contesto del banchetto versa unguento profumato sulla testa del suo fedele: “cospargi di olio il mio capo” (Sal 23, 5).

 

Nel quarto vangelo quella donna è Maria, la sorella di Marta e di Lazzaro. Giovanni ne fa la figura agapica per eccellenza, contrapposta a quella di Giuda. Maria versa il profumo sui piedi del Maestro (come la peccatrice di Lc 7) e, senza curarsi di ciò che dicono i presenti, accarezza quei piedi, li bacia e li asciuga coi suoi lunghi capelli. E Giuda grida allo spreco: quel profumo poteva essere venduto per “trecento denari”! Paradossale. Per trenta denari lui vende il Maestro.

 

Il contrasto non poteva essere più stridente: se Maria è figura amante, Giuda è decisamente il suo contrario. Ma non fanno migliore figura gli altri discepoli, lasciati dal quarto evangelista volutamente nella penombra. Matteo invece non fa mistero, erano tutti indignati e dicevano: “Perché questo spreco? Quest’olio si sarebbe potuto vendere caro e dare il denaro ai poveri” (26, 8-9). Così la sala del convito diventa sala del conflitto, e proprio a causa di un gesto d’amore. Impressionante grettezza.

 

Ai discepoli Gesù aveva appena confidato l’imminenza della sua fine; la donna di Betania invece, cui nulla fu detto, intuì: e “fece ciò che poteva” (Mc 14, 8). Non si cura delle indignazioni maschili. Ma Gesù si espone in sua difesa. Egli apprezza tutto quel profumo e i sentimenti che esprime. Non solo, ne interpreta il senso richiamando alla memoria ciò che i discepoli avevano rimosso: “Gettando questo profumo sul mio corpo, l’ha fatto per seppellirmi” (Mt 26, 12).

 

L’evangelista Marco ha un’espressione meno cruda: “ha fatto ciò che poteva; ha anticipato l’unzione del mio corpo per la sepoltura” (Mc 14, 8). Profumo, amore, morte. Il collegamento con la sepoltura è presente anche nel quarto vangelo dove il Maestro prende le difese di Maria e dice a Giuda: “Lasciala stare; lo ha conservato per il giorno della mia sepoltura. Poiché i poveri li avete sempre con voi; me, invece, non mi avete sempre” (Gv 12,7-8). Gesù smaschera l’ipocrisia che vorrebbe contrapporlo ai poveri e conclude: “Dovunque il vangelo sarà predicato, in tutto il mondo, anche ciò che questa donna ha fatto sarà raccontato, in memoria di lei” (Mc 14, 9). Non si tratta solo di ricordare un gesto d’amore, ma il senso di quel profumo “sprecato” per il Signore. Senza nulla sottrarre ai poveri.

 

L’ASTUTA PORTINAIA E LA MOGLIE DI PILATO

 

Indubbiamente non erano tra le discepole di Gesù. Eppure queste due donne, giudea la prima, probabilmente romana e pagana la seconda, giocano egregiamente la loro parte nella storia della passione di Gesù.

Tipo sveglio la serva del sommo sacerdote. Non a caso faceva la “portinaia” (Gv 18, 16). È con lei che Giovanni prende accordi per far entrare anche Pietro nel cortile del palazzo di Anna, suocero di Caifa. Richiesta prontamente esaudita, il che evidenzia la notorietà e la stima di cui quel discepolo godeva nell’ambiente sacerdotale. La cosa ha insospettito gli esegeti. Come mai una donna, per di più “giovane” (Gv 18, 17) a fare da guardia alla porta del palazzo del sommo sacerdote? Non mancano insinuazioni: un uomo non avrebbe acconsentito alla richiesta di Giovanni, non avrebbe lasciato entrare nel cortile il suo amico… In altre parole, Giovanni ottiene il suo scopo perché alla porta c’era una donna! Alcuni privano la notizia di fondamento storico: impossibile che alla porta fosse di guardia una donna, tanto più se “giovane” ! Ma impossibile non è. Sappiamo infatti di altri casi, attestati da una fonte non sospetta, lo storico Giuseppe Flavio. Anche in At 12, 13 è una ragazza a far da portinaia nella casa dove si reca Pietro quando viene liberato dal carcere, e di lei ci viene detto anche il nome, Rode.

 

Una cosa appare chiara dai Vangeli: la giovane donna che presta servizio nel palazzo del sommo sacerdote ha uno spiccato spirito di osservazione. Se ha fatto entrare Pietro per “raccomandazione” ciò non le impedisce di essere critica. Le basta un colpo d’occhio e qualche battuta per inchiodare Pietro con una domanda bruciante: “Non sei anche tu dei discepoli di quest’uomo?” (Gv 18, 17). All’evangelista non interessa come reagì la giovane portinaia, se rimase persuasa o meno della risposta di Pietro. Ma immagino che il volto interrogante di lei rimase indelebile nella memoria dell’Apostolo che, preso da paura, non seppe dire la verità a una donna. E così rinnegò il Maestro.

 

Stando ai Vangeli, nessuna donna è complice della condanna del Giusto. Anzi, a sorpresa Matteo introduce nella scena del processo la nobile figura della moglie di Pilato. Mentre il procuratore sedeva in tribunale, lei gli mandò a dire: “Non aver nulla a che fare con quel giusto, perché oggi ho sofferto molto in sogno per causa sua” (Mt 27, 19).

 

Il “sogno” è un aspetto caro all’evangelista, basti pensare ai “sogni” di Giuseppe e dei Magi nei primi due capitoli di Matteo. Egli condivide con il mondo della Bibbia l’idea che il sogno può essere portatore di un messaggio divino, come avvenne per il patriarca Giacobbe e il figlio suo Giuseppe, il sognatore.

 

La moglie di Pilato rivela di aver “sofferto” a causa di Gesù, ma non dice come e perché. La sua comunicazione non è rivolta a soddisfare la curiosità, ma il discernimento. “Stai attento, dice in altre parole al marito, prendi le distanze, non ti immischiare nel complotto”.

 

Di più. Gli dice espressamente che quell’uomo è “giusto”. Perché Pilato non ascoltò sua moglie? Perché invece ascoltò la folla? Difficile entrare nel mistero della coscienza. Ma è comunque prezioso sapere, grazie a Matteo, che nel palazzo del potere romano ci siano, come già al tempo del Faraone in Egitto, donne che si dissociano dall’operato del padre o del marito. Donne che vanno contro corrente e danno a pensare.

 

NON PIANGETE SU DI ME”: IL LAMENTO DELLE FIGLIE DI GERUSALEMME

 

Siamo sulla Via Dolorosa e qui è l’evangelista Luca che ci informa di un gruppo di donne che fanno il lamento sul condannato: “Lo seguiva una gran folla di popolo e di donne che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. Ma Gesù, voltandosi verso le donne, disse: “Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: Beate le sterili e i grembi che non hanno generato e le mammelle che non hanno allattato. Allora cominceranno a dire ai monti: Cadete su di noi! e ai colli: Copriteci! Perché se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?” (Lc 23, 27-32).

 

Il lamento sul condannato fa parte del costume del tempo. Ma qui c’è di più. Si percepisce la risonanza della Scrittura e in particolare il lamento sul Figlio unico di cui parla il profeta Zaccaria: “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito.

 

In quel giorno grande sarà il lamento in Gerusalemme” (Zac 12, 10-11). Gesù, benché in preda a sofferenze atroci, ha orecchi, occhi e cuore per queste donne. Egli ha sentito tra tante voci brutali quel coro femminile e si “volta”, le cerca con lo sguardo annebbiato dal sangue e rivolge loro parole di conforto. Ahimé, non sono parole come ameremo udire. Dio non consola con parole prese in prestito dal nostro cuore. Consola con la Parola sua, la sua promessa. Gesù infatti cita la Scrittura indirizzandosi a queste pie donne.

 

L’espressione “Figlie di Gerusalemme” ricorre soltanto qui nel Nuovo Testamento e sembra evocare il Cantico dei Cantici dove ricorre più volte. Lo Sposo, il Messia, è ora in cammino verso la prova suprema e il suo popolo lo rinnega. Ma queste donne si dissociano dalla folla accusante: il loro lamento è anche un grido di protesta e un implicito riconoscimento della regalità di Gesù, secondo il passo profetico di Zaccaria sopra citato.

 

Le parole che Gesù rivolge a queste donne sono generalmente interpretate come vaticinio della distruzione di Gerusalemme e suonano come un pressante invito alla conversione. Egli annuncia alle Figlie di Gerusalemme che se la città da loro rappresentata non accoglierà il suo appello alla conversione, altre e più amare lacrime dovranno versare. In tal senso il loro pianto richiama il suo stesso pianto per Gerusalemme (cfr. Lc 19, 41-44).

 

STAVANO PRESSO LA CROCE: LE FEDELISSIME E LA MADRE

 

L’ultimo quadro ci ambienta sotto la croce dove, al di là dei dettagli, i Vangeli, concordano su un dato fondamentale: la presenza di alcune donne salite con Gesù dalla Galilea. Loro non abbandonano il Maestro nel suo tragico destino. Lo seguono fin sotto la croce. Non possono certo cambiare gli eventi, ma stanno lì, non scappano. E quello starci è quanto mai eloquente. Matteo ricorda in primo piano Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe e la madre dei figli di Zebedeo (Mt 27, 56). Marco fa anche il nome

di Salome (15, 40). Sono loro le testimoni della pagina più sublime e drammatica della vita del Cristo. Sono loro che ne raccolgono le ultime parole.

 

Presenza silente e straziante, come quella della madre che vede il figlio torturato e non può fare alcunché in suo favore. Si compiono le parole di Simeone: “A te stessa una spada trafiggerà l’anima” (Lc 2, 35). C’è forse un dolore più grande per una madre? Come sostenere senza morire un tale martirio? E la sua stessa presenza non aumenta forse la tortura del Figlio? Lui che ha rivolto attenzione alle pie donne non avrà parole per la Madre?

 

Nel racconto di Giovanni le sue ultime parole sono proprio per lei: “Donna, ecco tuo figlio”, e al discepolo amato: “Ecco tua madre” (Gv 19, 26-27). Una duplice consegna, del discepolo alla madre, della madre al discepolo amato. Nessuna parola da parte di Maria. Lei che a Gabriele aveva posto obiezione, ora semplicemente tace. L’ora del Figlio è giunta e con essa l’ora della Donna. Egli associa la Madre nel parto di una nuova umanità.

03 GESU’ CONOSCE SOPPORTANDO – C.M. Martini

GESÙ CONOSCE SOPPORTANDO

«Ti ringraziamo, Signore Gesù, perché ci chiami davanti a te. Tua è la parola che ascoltiamo e non parola di uomini; tu parli al nostro cuore. Sei tu che ci parli con amicizia, è a te che diciamo grazie perché ci hai dato tante cose. E noi, Gesù, che cosa daremo a te?
Fa’ che oggi sappiamo darti qualcosa di importante, fa’ che ti conosciamo come tu ci conosci perché possiamo essere veramente tuoi amici, così come tu sei amico nostro.
Maria, madre di Gesù, sede della sapienza e aiuto dei cristiani, prega per noi. Amen».

Abbiamo visto come Gesù conosce tutto e tutti, abbiamo compreso che Gesù ci conosce illuminando e separando in noi la luce dalle tenebre. Forse qualcuno di voi avrà anche pensato che la prima grande illuminazione che Gesù ha fatto nella nostra vita – l’illuminazione che resta fondamentale – è il Battesimo. Nel Battesimo ci ha chiamato per nome e ci ha dato il dono della fede, della speranza e dell’amore.

Sarebbero molti i temi sulla conoscenza che Gesù ha di noi, sul come Gesù ci conosce, e tuttavia io mi devo limitare a suggerirvi quattro meditazioni in tutto. Vorrei però çhe voi continuaste, terminati questi giorni di ritiro spirituale in comune, a cercare altri titoli. Ad esempio, sarebbe bello approfondire la tesi: «Gesù ci conosce perdonandoci». Quando Gesù ci perdona nel sacramento della Confessione, ci perdona dal di dentro, come uno che ci conosce e ci ama a fondo.

Il perdono è uno dei modi migliori per diventare amici! Ci sono amicizie che nascono dal trovarsi bene insieme, e ce ne sono altre che nascono da un perdonarsi sincero dopo aver litigato: questo secondo tipo di amicizie è certamente più forte. Non so se ricordate il grande gesto di perdono eroico che il figlio di Vittorio Bachelet ha avuto nei riguardi dei terroristi che avevano ucciso suo padre, o il gesto eroico di perdono di Maria Fida Moro: da questi gesti è nata una profonda amicizia tra il figlio di Bachelet e i terroristi, tra Maria Fida Moro e i terroristi. Il perdonare è segno di amicizia. Confido quindi che voi saprete riflettere su altri modi con cui Gesù ama ciascuno di voi.

In questa terza meditazione vorrei svolgere il titolo: «Gesù mi conosce sopportando». Non vuol dire che Gesù mi conosce sopportando la mia pigrizia, la mia svogliatezza, il mio poco impegno! Si tratta di qualcosa di molto più profondo: Gesù mi conosce vivendo delle prove e delle tentazioni simili a quelle che vivo io, Gesù mi conosce facendosi simile a me nelle prove. Svolgiamo il titolo attraverso i tre momenti che ormai avete certamente imparato.

La raccolta dei testi

Sono tre i testi evangelici che ho pensato di suggerire.

1. Le tentazioni di Gesù: Mt 4,2. Gesù dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ha avuto fame e allora il tentatore gli si avvicina. Mi fermerò soltanto sul significato delle seguenti parole: «Gesù ebbe fame».
È una fame diversa da quella che si può avere dopo aver giocato tutta la mattina, dopo essersi impegnati a fondo in una gara sportiva. La fame che Gesù prova si avvicina alla grande fatica di coloro che fanno, ad esempio, lo sciopero della fame. Per quaranta giorni e quaranta notti aveva vissuto con pochissimo – un po’ d’ acqua da una pozzanghera, qualche erba -; è stanco, affaticato, con la testa vuota e non ha più voglia di niente. Gesù prova la tentazione di pesantezza che noi sentiamo nella vita quotidiana quando tutto ci è difficile e ci dà disgusto: facciamo fatica a vedere i compagni, facciamo fatica ad alzarci e a rispondere al richiamo della campana.Gesù ci conosce perché ha provato anche lui queste cose.

2. Il secondo testo è il racconto del Getsemani: Mt 26,38. Gesù prende con sé Pietro e i due figli di Zebedeo (Giacomo e Giovanni) e va con loro nel podere chiamato Getsemani. Poi dice loro: «La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me». Da ragazzo questo brano mi faceva molta impressione e mi chiedevo: «Come è possibile che Gesù provi tristezza e angoscia fino alla morte? Come è possibile che Gesù provi le tristezze che posso sentire io, i momenti di ansietà che talora vivo?». Gesù mi conosce anche in quei momenti di turbamento e di angoscia che nessun altro forse conosce.

3. Il terzo testo è la terribile tentazione di Gesù sulla croce: Mt 27,40. I passanti insultano Gesù crocifisso e gli dicono: «Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso! Se sei il figlio di Dio, scendi dalla croce!».

La comprensione dei testi

Abbiamo già detto sufficientemente della prima tentazione, quella della fame, della stanchezza infinita provata da Gesù.

- Pensando all’angoscia del Getsemani dovremmo approfondire la riflessione leggendo, sempre al c. 26 del vangelo secondo Matteo, là dove si dice che «tutti i discepoli fuggirono» (v. 56). Gesù si sente solo e nessuno dei suoi gli dà più retta, nessuno sta più dalla sua parte. La tristezza giunge fino all’esperienza della solitudine, del sentirsi abbandonato. Talora ci capita di sentirci soli, anche se abbiamo intorno i compagni di scuola, i superiori del seminario, se ci sono con noi i genitori e gli amici. È una sensazione che non riusciamo a spiegare, che ci fa soffrire, che ci toglie ogni gioia. Gesù ha già vissuto tutto questo e l’ha voluto provare per me, per darmi la certezza che lui conosce tutto di me e sempre mi è vicino, mi ama.

- Nel terzo testo, Gesù viene tentato in ciò che gli sta più a cuore: «Se sei il figlio di Dio, scendi dalla croce». Ma Gesù è figlio di Dio e l’insulto vuol costringerlo a scegliere la via del potere, del trionfo, lasciando la via dell’obbedienza e dell’umiltà. È quindi tentato sulla sua strada, sulla sua vocazione. Spesso vi sarà capitato o vi capiterà che altri dicano: Ci sono tante cose da fare per la Chiesa e perché tu scegli la via del seminario, una via di sacrificio, di rinuncia? Perché scegli la via del sacerdozio, una via povera e difficile?
La fame e la fatica, la tristezza fino alla solitudine, la tentazione sulla vocazione, sono tre esempi attraverso i quali vediamo che cosa Gesù sopporta per noi.

- Comprendere i tre testi vuol dire approfondire la domanda: Perché, Signore Gesù, tu che non avevi bisogno di viverle, sei passato per queste prove così dure? E Gesù ci risponderà: Per esserti vicino, per conoscere e sperimentare quello che tu puoi provare e provi.
Sarebbe utile che ciascuno di voi, personalmente, cercasse di leggere un altro brano della Scrittura, che si trova nella lettera agli Ebrei – forse la più difficile di tutto il Nuovo Testamento -: «Gesù doveva rendersi in tutto simile ai fratelli per diventare un sacerdote misericordioso e fedele… Infatti, proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (Eb 2,17-18).
Leggendo e rileggendo questi versetti sono certo che, con la grazia del Signore, potrete capire meglio che cosa significa che Gesù ci conosce sopportando e che non situazione nella quale non possa darci una mano, anche se il demonio tende a suggerirci: «TI Signore ti ha abbandonato, nessuno più pensa a te!».

La preghiera sui testi

Sono cinque le domande che vi aiuteranno a pregare insieme con Gesù.

Prima domanda: Quali sono le mie tentazioni? Ciascuno dovrà naturalmente rispondere personalmente e potrà poi parlarne con il confessore o con il direttore spirituale.
Sarà forse la fatica di pregare, la svogliatezza, oppure la tentazione degli alti e bassi, il cambiamento di umore con passaggi dalla gioia alla malinconia, voglia di piangere, tristezza… Altre tentazioni possono riguardare la nostra vita, la nostra fantasia, il nostro corpo, i nostri progetti, il nostro futuro. Pensare a quelle che mi toccano più da vicino chiedendo al Signore: «Gesù, tu che hai sofferto tante prove per me, fammi capire quali sono adesso le mie prove». Perché ci sono prove che non riusciamo a cogliere e sarà importante forse fare un elenco, per iscritto, delle più decisive.

Seconda domanda: Mi spavento delle prove? Mi fanno paura? Quando, ad esempio, abbiamo l’impressione di vivere una prova che nessuno può capire, sopravviene il timore. Ricordo il grande bene che mi ha fatto il Diario di Giovanni XXIII, là dove parla delle difficoltà e delle prove che ha passato quando era un giovanissimo seminarista, delle prove avute con la famiglia, dei suoi difetti, dei problemi che ha dovuto affrontare da prete, da delegato apostolico in Turchia, in Bulgaria, e poi da Papa. Mi ha fatto bene perché ho capito che prima o poi passiamo tutti per le stesse tentazioni, le stesse difficoltà. Tra l’altro Giovanni XXIII ne parla con tale semplicità da aiutarmi a ridere un po’ sulle mie prove.
Il demonio invece cerca di farci paura mettendoci in mente che la nostra è la prova più grande di tutte, che nessuno l’ha mai vissuta, che è meglio non parlarne perché non saremmo capiti, ecc.

Terza domanda: Mi sento solo nelle mie prove? Sentirsi solo è già una prova. Le prove più dure sono quelle che non vogliamo esprimere nemmeno nella preghiera, dicendo a noi stessi che Gesù non può aiutarci, che siamo fatti così e non c’è altro da fare. E, naturalmente, il demonio si accanisce a farci credere che siamo davvero soli.

Quarta domanda: Mi faccio aiutare da Gesù nella preghiera, dalla Madonna, da una visita al SS.mo Sacramento, da una lettura del Vangelo, soprattutto da un colloquio con il direttore spirituale? Oppure penso che posso cavarmela da me? In questo secondo caso cadremmo in una grandissima tentazione.

Quinta domanda: Mi difendo? Bisogna, infatti, imparare a difendersi nelle tentazioni. In questi giorni, trovandomi con voi, mi sono venute in mente abbastanza chiaramente le prove e le tentazioni che ho avuto da ragazzo e per questo vi dico: è estremamente importante non che il Signore ci tolga le prove o tentazioni bensì che ci aiuti a saperci difendere, a saper resistere. Le prove hanno una grande utilità nel nostro cammino: senza di esse non si riesce a crescere, a diventare maturi e io ringrazio il Signore per tutti i momenti difficili attraverso i quali sono passato e ancora passerò. Tuttavia dobbiamo imparare a difenderci. Come ci si difende?

1. Non indugiare nei pensieri che ci vengono, non rimuginare sul perché e sul come. Se indugiamo, ad esempio, nelle prove depressive – scoraggiamento, malinconia – ne rimaniamo avvolti come ci avvolge un serpente quando attacca. Bisogna interrompere con decisione il corso dei pensieri.

2. Fare qualche cosa, qualche attività: cantare, correre, ascoltare una bella musica, leggere un salmo, dedicarci a una cosa che ci interessa. Se non si reagisce fortemente, ci deprimiamo sempre di più.

3. Per difenderci dalle tentazioni che riguardano la fantasia, la curiosità, i sensi, occorre saperci chiaramente disciplinare, cioè rendere ferma la nostra attenzione sui pensieri o sulla curiosità. Se ci lasciamo prendere dalla curiosità, sarà difficile vincere le distrazioni. Un esempio pratico è quello della televisione: la televisione sempre accesa costituisce un grosso danno. Come pure il manovrare la televisione passando continuamente da un canale all’altro, da un’immagine all’altra, perché è fonte di divagazione. Se dunque mi accorgo di essere distratto nella preghiera e non mi decido a dare un taglio netto alla televisione e alla curiosità, non potrò controllare i pensieri inutili durante la preghiera.

Quando ero ragazzo io, la televisione non c’era e però mi piaceva moltissimo il cinematografo: uno dei miei sogni era, una volta diventato grande, di comprarmi la tessera del cinema in modo da poter andare sempre senza fare la coda per il biglietto! Ad un certo punto ho compreso chiaramente che dovevo fare un passo decisivo, che dovevo troncare con l’abitudine del cinema e con i sogni della tessera. Forse il mio fu un taglio un po’ duro, un po’ rigido, e tuttavia sincero e coraggioso. Da quel momento ho avuto un grande giovamento nella preghiera.

Credo quindi che una decisione possa vincere le tentazioni di distrazioni, di curiosità, di fantasia, di incapacità a pregare assai più che non tanti consigli buoni. Per difendersi è allora necessario conoscere le proprie tentazioni e le proprie prove e applicare per ciascuna i rimedi giusti. Il direttore spirituale è la persona più adatta per aiutare, con la sua esperienza, ad applicare i rimedi giusti.

Poco per volta ci lamenteremo sempre meno delle prove. Le prove ci saranno, ma diventeranno occasione di crescita e potremo ricordarle come i momenti più belli della nostra vita, i momenti della lotta e del coraggio, i momenti in cui abbiamo sentito davvero che Gesù ci conosce e che noi lo conosciamo sopportando le prove e le tentazioni, lo conosciamo come amico che ha condiviso le nostre difficoltà e le nostre sofferenze, come amico vero.

«Signore, fa’ che ti conosciamo nelle nostre prove. Fa’ che ti ringraziamo per le nostre prove».

MICHELINI E IL MEDIO ORIENTE – Ambrogio Chiari e Serafino Acernozzi o.h.

San Giovanni di Dio trasporta sulle spalle un malato

MICHELINI E IL MEDIO ORIENTE

(Milano, 1917 – Solbiate Comasco, 2008)

Sul precedente numero si è messo in rilievo l’attività svolta dal prof. Michelini in Africa. È stato anche già accennato che la Provincia Lombardo-Veneta si impegnò in Israele con l’ospedale “Sacra Famiglia” di Nazareth (più noto come Ospedale Italiano), succedendo nella gestione alla Provincia Austriaca nel 1959.

Il presente articolo rivolge l’attenzione all’attività di Michelini in detto ospedale. Ma allora perché il titolo “Michelini ed il Medio Oriente”? Ecco la spiegazione. Quando alla fine del 2007 sono stato presso l’ospedale di Nazaret, nel sistemare la documentazione varia dell’archivio, ho avuto modo di vedere alcune lettere riguardanti Michelini.

Michelini - Fractio Panis

Sicuramente molto importante è stata una circolare del Patriarca di Gerusalemme mons. Michel Sabbah indirizzata, credo nei primi anni del 1990, ai vari parroci delle chiese di rito latino appartenenti al Patriarcato, che comprende anche la Giordania, in cui chiedeva agli stessi che redigessero una relazione circa l’attività e le opere realizzate da Michelini nelle loro chiese o altri luoghi. Non c’era però traccia alcuna circa l’esito di tale richiesta.

Incuriosito, una sera chiesi a mons. Giacinto Marcuzzo, Vescovo ausiliare del Patriarcato Latino che risiede a Nazaret, che era in visita al suo autista ricoverato, se sapesse qualcosa in merito. Mons. Marcuzzo si ricordava di tale circolare ma che la stessa non aveva avuto alcun riscontro. Sarebbe, comunque, interessante svolgere delle ricerche presso la sede del Patriarcato per sapere se eventualmente esiste un fascicolo riguardante l’attività svolta da Michelini nel territorio del Patriarcato. Questo perché Michelini si era messo gratuitamente al servizio del Patriarcato Latino per i vari interventi, non solo pittorici, che necessitavano presso le strutture di competenza dello stesso. Ma sarebbe troppo lungo darne un elenco ed allora limitiamoci all’ospedale S. Famiglia di Nazaret, che è quanto ci interessa.

Michelini ha operato a Nazaret per molti anni, durante le fasi di ampliamento dell’ospedale, e nel periodo dal 1986 al 1989 circa, quando si occupò della chiesa di Giaffa di Nazaret. All’ospedale Sacra Famiglia dei Fatebenefratelli ha maggiormente lasciato la sua impronta nella chiesa da lui affrescata.

Michelini - Ego sum

Ecco cosa vi troviamo. Nell’abside, sulla parete frontale (2): In alto, dove la parete termina a volta, c’è una gigantesca figura a mezzo busto del “Cristo Pantocratore”, con il braccio destro sollevato e la mano nel gesto di indicare con le tre dita la Ss.ma Trinità. La mano sinistra poggia su un libro aperto, su cui è scritto “Ego Cogito, Cogita Mones Pacis”. L’atteggiamento ieratico sottolinea la maestà e la sovranità di Cristo sull’universo. Per averne un’idea basti pensare, ad esempio, ai mosaici della Basilica di S. Marco a Venezia o del duomo di Monreale.

 Ai lati della figura di Cristo sono dipinti i simboli dei quattro evangelisti: l’angelo, l’aquila, il leone ed il bue, rappresentativi rispettivamente di Luca, Giovanni, Marco e Matteo.

Nella fascia sottostante il Cristo, Michelini ha dipinto gli episodi riguardanti la vita della Sacra Famiglia di Nazaret, alcuni desunti dai brani evangelici, secondo un certo ordine cronologico: la nascita di Maria; Maria bambina con la madre S. Anna ed il padre S. Gioacchino; l’annunciazione dell’Angelo a Maria, il sogno di S. Giuseppe; la cerimonia del fidanzamento e poi dello sposalizio; Gesù nella sinagoga che commenta il brano di Isaia che parla del Messia ed afferma che è Lui l’adempimento della scrittura; Gesù che, dopo tale affermazione, viene condotto su una rupe del colle ai margini del paese per esservi gettato sotto (vedi Luca 4, 14-30); Gesù che aiuta il padre Giuseppe nel lavoro di falegname; la morte di Giuseppe amorevolmente assistito da Gesù e da Maria.

Michelini - 3 Trasfigurazione

Entrando in chiesa, la vista di quella parete interamente affrescata – nella parte bassa è dipinto un drappeggio – desta stupore e meraviglia per la gran varietà dei colori e l’armoniosità compositiva delle scene raffigurate. Sulla parete di sinistra, sempre ad affresco, vi è raffigurata, in un inconfondibile stile “micheliniano” ed a struttura piramidale, la trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor (che non è molto distante da Nazaret) (3). Gesù, in lucenti vesti bianche, ha le mani levate al cielo ed ha ai lati Mosé ed Elia mentre inginocchiati in atteggiamento estatico ci sono gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni.

Di fianco all’altare principale ci sono due grandi dipinti: A sinistra l’ultima cena (1), nella composizione che vediamo abitualmente: Gesù, in piedi, sta spezzando il pane, attorniato dai discepoli attoniti. È particolarmente caratteristica a colorazione delle varie vesti. Sulle pareti sopra gli altari laterali ci sono i quadri con raffigurati: S. Riccardo Pampuri e S. Benedetto Menni, a destra; S. Gerolamo e S. Basilio, a sinistra. Alle pareti della chiesa è esposta l’intera Via Crucis.

Michelini - 6 Giovanni di Dio con Crocifisso

Nel corridoio antistante la chiesa sono collocati diversi quadri con dipinti: Un S. Giovanni di Dio (6), coronato di spine e con in mano un crocifisso. Un S. Giovanni di Dio (5) con in braccio un bambino con la testa fasciata (ad affresco, all’ingresso della chiesa) e la raffigurazione delle sette opere di misericordia corporale (eccetto il quadro riguardante il “dar da bere agli assetati”, che è sparito). Nel corridoio del convento si trovano, tra gli altri, di particolare interesse e bellezza, i quadri con: una Sacra Famiglia. S. Giovanni di Dio in una corsia di ospedale che lava i piedi a Gesù (4) (del noto e p i s o d i o biografico). S. Giovanni di Dio che trasporta un ammalato, aiutato dall’Arcangelo Raffaele (In copertina) con un cesto di pani, frutto delle elemosine.

Michelini - 4 Giovanni di Dio lava i piedi

Questi ultimi due quadri prima si trovavano in chiesa, all’altare di S. Giovanni di Dio. In giro per l’ospedale ci sono sicuramente altre opere, tenuto conto della facilità con cui Michelini riusciva a realizzarle e del tempo della sua permanenza in Terra Santa. Per concludere questa parte vorrei segnalare – da informazioni avute da fra Serafino Acernozzi, che a Nazaret è stato Priore per ben 22 anni – che Michelini, a seguito anche di ricerche effettuate a Parigi, nel 1984 tenne una grande mostra di quadri su cui aveva dipinto figure di spicco di religiosi Fatebenefratelli. Di tali opere si è, però, persa ogni traccia.

Inoltre Michelini ha illustrato i volumetti sulla vita di S. Giovanni di Dio e di S. Riccardo Pampuri. Questi volumetti sono stati redatti anche nelle lingue ebraica ed araba. Potrei, in finale, invitare i pellegrini in Terra Santa, trovandosi ad alloggiare a Nazaret,a fare una capatina all’ospedale, non eccessivamente distante dalla splendida basilica d e l l ’ A nnunciazione, opera dell’italiano Giovanni Muzio, e così avranno modo di ammirare di persona le opere sommariamente descritte in questo articolo.

Michelini 5 Giovanni di Dio con bambino

Durante il periodo del suo incarico presso il Patriarcato Latino di Gerusalemme, Michelini visitò le varie comunità cristiane e si interessò anche dei restauri degli arredi, dei quadri e delle icone bizantine. Per le icone utilizzò stoffe damascate e le varie pezze d’avanzo le mise da parte e le portò a Milano. Con questi avanzi compose, in maniera originale delle particolari icone, sullo stile bizantino, creando lui pittoricamente le parti relative ai volti ed alle mani.

Queste icone sono veramente suggestive e di grande intensità spirituale. Posso aggiungere che esse sono disponibili per chi eventualmente ne fosse interessato. Nella galleria dei ricordi di Serafino Acernozzi, o.h. Dare volto ai ricordi del prof. Michelini per fermarli, incorniciarli ed esporli in rassegna come in una galleria d’arte… lo incontrai in Terra Santa, ospite del Patriarcato Latino di Gerusalemme, sotto l’egida del Patriarca mons. Giacomo Beltritti, che l’aveva conosciuto tramite i Fatebenefratelli.

Il Professore era il Canonico del Patriarca e nelle visite alle parrocchie del Patriarcato lo accompagnava, così ha conosciuto: la Palestina con Gaza, la Giordania, e l’Isola di Cipro e là ha lasciato anche il suo segno e riservava nei suoi affreschi sempre uno spazio per raffigurare San Giovanni di Dio.

Michelini - 7 Giovanni di Dio - grafica

Infine, ospite da noi a Nazaret, come aggregato al nostro Ordine, mi aveva disegnato un’artistica immaginetta di San Giovanni di Dio con San Benedetto Menni e San Riccardo Pampuri in occasione del mio 25.mo di professione religiosa (7). Era ospite nel nostro convento e per motivi di lavoro, ospite anche nella casa parrocchiale di Giaffa di Nazaret, che si dice sia il luogo dove sia nato San Giovanni Evangelista, fratello di San Giacomo e figli di Zebedeo. All’apostolo Giovanni noi dobbiamo il Gesù più intimo, quello che più profondamente si manifesta figlio di Dio fatto uomo.

Il Michelini per questa Parrocchia ha progettato la nuova Parrochiale, ha seguito i lavori di costruzione e poi l’ha anche affrescata tutta; per questi lavori ci ha messo tutto il suo entusiasmo. Lui stesso si presentava negli uffici competenti, al Ministero dei Culti, per fare approvare i progetti, trovava sempre funzionari ebrei, che approvavano le sue idee, dicendo anche che lo aiutavano volentieri perché i cristiani sono i migliori divulgatori del loro libro sacro “La Bibbia”.

Ha affrescato perfino la “Via Crucis” e nell’affresco della risurrezione, nel lenzuolo lasciato fuori dal sepolcro ha disegnato la S. Sindone, un particolare rarissimo negli affreschi. Bisogna ricordare da ultimo l’avventura che ha avuto con la comunità musulmana della Parrocchia di Giaffa.

michelini-tota-pulchra-es-maria

Il professore aveva affrescato la nuova facciata della costruenda Parrocchia e nel triangolo di fine facciata aveva dipinto l’Immacolata Concezione con sotto i suoi piedi la luna. I musulmani, osservando questo suo lavoro, erano rimasti offesi, poiché veniva offesa la luna, messa sotto i piedi dell’Immacolata; per i musulmani la luna è il simbolo che rimanda alla scansione temporale. Quindi si era formata una commissione di musulmani e questa, dopo varie riunioni e discussioni con il parroco don Sante Visentin, decise di far cancellare dal Professore la luna, con il rincrescimento del Michelini e con problemi, poiché ha dovuto impiantare di nuovo l’impalcatura per raggiungere l’altezza del triangolo della facciata, così sono stati accontentati i musulmani, al contrario di quanto noi cristiani cattolici leggiamo nel libro dell’Apocalisse: 12,1 “Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle”. È una pagina classica nell’interpretazione mariologica dell’Apocalisse.

Questi grandi lavori lo hanno soddisfatto moltissimo. Dopo poco tempo è rientrato definitivamente in Italia, lasciando un grande vuoto nel Patriarcato Latino di Gerusalemme, oltre che ai seminaristi del Seminario Patriarcale ai quali aveva insegnato. Sulla collina che domina Abu Ghosh, a pochi chilometri da Gerusalemme, si trovano le rovine della città Kiryat Ye’arim, qui stette l’arca dell’alleanza quando fu rinviata dagli abitanti di Beit Shemesh. Le suore di San Giuseppe dell’Apparizione vi hanno costruito una casa per esercizi spirituali e sulle rovine di una Chiesa del V sec. Hanno riedificato la Chiesa dedicata a Maria Arca dell’Alleanza. In questa una icona dipinta dal prof. Michelini è molto venerata dalle suore col il titolo di Arca dell’Alleanza.

Da “FATEBENEFRATELLI” Luglio/Settembre 2009

05 SOTTO IL RAGGIO DELLA PAROLA DI DIO – Luigi Serenthà

 

Mons. Luigi SerenthàGUIDAMI SULLA VIA DELLA VITA

Le pagine che seguono sono di Mons. Luigi Serenthà, Rettore Maggiore dei Seminari Milanesi, che ha concluso gli Esercizi Spirituali. Il testo è stato trascritto da registratore e non rivisto dall’Autore.

Mettere la nostra vita

 sotto il raggio della parola di Dio

 

Preparazione alla Confessione comunitaria

L’Arcivescovo non sa più che parole usare per dire quanto siete bravi, quanto l’avete colpito; ha ripetuto più volte: «Si vede che sono attenti; che sono dei ragazzi formati, diligenti, e ciò nonostante non hanno perso la loro freschezza, la loro vivacità; sono ragazzi pieni di vita, pieni di sincerità, di gioia». Con queste parole l’Arcivescovo vi ha già assolti tutti! Potremmo quindi chiudere qui questo rito penitenziale, perché l’Arcivescovo ha dato un giudizio generale di bontà e bravura per tutti voi!

Ma ho letto una volta in una pagina di santa Teresa d’Avila, una grande santa, vissuta nel 1500 in Spagna, questo paragone molto bello: «Provate a prendere un bicchiere pieno d’acqua e mettetelo in una stanza in un angolo un po’ buio, in ombra. A voi quel bicchiere d’acqua sembra tutto limpido, tutto pulito; ma se per caso, da una fessura di una finestra, entra in quella stanza un raggio di sole e voi collocate quel bicchiere sotto quel raggio, vi accorgerete che dentro l’acqua c’è del pulviscolo, c’è tanta impurità, qualche scoria». Ecco, io penso che uno può dire che tutti noi siamo bravi, buoni, se guarda le cose un po’ da lontano; ma se lasciamo attraversare la nostra vita dalla luce della parola di Dio, ci accorgiamo che la nostra vita, purtroppo, non è limpida, non è bella; porta dentro di sé alcune cose sbagliate, alcuni peccati.

Allora, anche se l’Arcivescovo ha detto che siete bravi, buoni, generosi, simpatici, noi quest’oggi vogliamo mettere la nostra vita sotto il raggio della parola di Dio, per poter scoprire anche le cose meno belle che sono presenti nella nostra esistenza. E io personalmente, senza voler insegnare niente a santa Teresa d’Avila (e sapete che è stata proclamata dal Papa «Dottore della Chiesa», cioè maestra di vita cristiana), vorrei prolungare l’immagine che ha scritto in quella sua pagina, dicendo che la luce del sole, attraversando quel bicchiere, non soltanto fa vedere le cose sporche, il pulviscolo, le scorie, che ci sono, ma con la sua forza, col suo calore riesce a distruggerli, e fa diventare l’acqua ancora limpida e pulita.

Ecco, questo è ciò che vorremmo fare: lasciarci attraversare dalla parola di Dio, per raggiungere due risultati:

1) Vedere le cose sbagliate che sono dentro di noi.
2) Chiedere alla forza e al calore della parola di Dio di distruggere, di bruciare queste cose sbagliate.

Mi sono detto allora: cercherò nella Bibbia qualche parola di Dio da usare come raggio di sole, nel quale collocare la nostra vita; ma poi ho pensato: è da due giorni che l’Arcivescovo dice tante parole di Dio, le ha commentate con la sua parola autorevole di Vescovo, le ha fatte cercare anche a voi… Allora proviamo insieme a ricordare alcune di queste parole forti, luminose, intense, che l’Arcivescovo vi ha suggerito. Intanto anch’io imparo qualcosa…

Faremo due cose: la prima è di raccogliere le parole che vi hanno impressionato; cercherò poi di aiutare me e voi a fare sì che queste parole entrino come un raggio di sole nella nostra vita per farci capire i nostri sbagli, i nostri peccati; ma entrino nella nostra vita anche per darci coraggio, per non avere paura.

Mi pare di capire che le parole che l’Arcivescovo ha commentato con particolare insistenza sono state:
- Gesù conosce tutto e tutti.
- Gesù conosce perdonando e donando.

1. Gesù conosce tutto e tutti, niente e nessuno sfugge alla sua conoscenza piena di amore

Signore, tu mi scruti e mi conosci,
tu sai quando seggo e quando mi alzo.
Ti sono note tutte le mie vie;
la mia parola non è ancora sulla lingua
e tu, Signore, già la conosci tutta.

+ La luce di Gesù penetra tutto. La luce di Gesù non lascia nessuno indifferente.

Se dico: «Almeno l’oscurità mi copra
e intorno a me sia la notte»;
nemmeno le tenebre per te sono oscure,
e la notte è chiara come il giorno;
per te le tenebre sono come luce.

+ Gesù conosce di me anche tutto quello che io non conosco.

Sei tu che hai creato le mie viscere
e mi hai tessuto nel seno di mia madre.
Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio;
sono stupende le tue opere,
tu mi conosci fino in fondo.

Il brivido di sentirsi conosciuti. Il brivido di gioia o di rabbia, secondo che noi siamo felici che ci guardi o abbiamo paura che ci scopra!

2. Gesù conosce perdonando e amando

Scrutami, Dio, e conosci il mio cuore,
provami e conosci i miei pensieri;
vedi se percorro una via di menzogna
e guidami sulla via della vita.

Gesù ci vuole e ci accetta così come siamo; ma incontrandolo, facendoci e lasciandoci conoscere, ci trasforma, perdonandoci e donandoci una vita rinnovata.
Quando incontra la samaritana (e si lascia incontrare), quando incontra la peccatrice (e si lascia amare), quando incontra Zaccheo (lasciandosi vincere dalla sua voglia di vederlo) Gesù li fa diventare diversi; li ha accolti così come erano, ma poi li ha fatti diventare diversi.
(Si può utilmente riprendere il salmo 138 o i diversi episodi del Vangelo sopra ricordati e altri ancora).

* * *

Adesso facciamo due minuti di silenzio, affinché la nostra vita venga attraversata con coraggio da questa sciabola di luce che è la parola di Dio che l’ Arcivescovo ci ha detto in questi giorni e che in questo momento abbiamo ricordato.
Cerchiamo di pregare su quelle parole del Signore. E questa preghiera è anche un po’ un esame di coscienza, un parlare a Gesù come introduzione alla celebrazione del sacramento della Penitenza.

1. Mancanze contro la gioia di essere cristiano e seminarista

O Gesù, io sono rimasto colpito anzitutto da questo fatto, che la tua conoscenza, il tuo sguardo dovrebbe suscitare in me tanta gioia; ma riconosco che purtroppo non sempre ciò si verifica, non sempre sono felice di esserti amico. Se fossi davvero felice di esserti amico, pregherei molto volentieri quando mi è possibile; penserei a te, verrei con gioia in chiesa per celebrare la tua Eucaristia; non avrei paura di dedicare qualche tempo in più della mia vita a leggere la parola di Dio, non soltanto qui in Seminario ma anche quando vado a casa, quando ci sono le vacanze. Forse io sono contento che tu mi guardi e mi conosci, però non provo la gioia di essere conosciuto e guardato da te! Ecco una prima impurità che scopro dentro di me: non sono un cristiano felice.

A volte sopporto la vita cristiana. Con fatica prego, con fatica ascolto la tua parola; non sono uno che prega con entusiasmo, con gioia; che è felice di essere amico

di Gesù; anzi, qualche volta arrivo a dire: «Magari sono più fortunati quelli che non sono stati conosciuti e guardati da Gesù, perché fanno quello che vogliono!». Quante volte forse ho detto: «Come sono fortunati i ragazzi che Gesù non ha conosciuto e non ha guardato come me!».

O Signore, tu che sei tanto buono, perdona se non sempre mi sono lasciato guardare e conoscere da te con gioia, se ho portato la vita cristiana come un peso e non come un dono prezioso che tu mi hai fatto e che mi deve rendere felice!

2. Incapacità di vedere i propri difetti

E poi una seconda cosa bella, o Gesù, io ho ascoltato in queste parole: tu sei venuto per i peccatori, tu sai capire fino in fondo i nostri peccati, tu sei venuto non per quelli che si ritengono giusti, ma per quelli che sanno di essere peccatori, e che cercano il perdono come la samaritana, come Zaccheo, come il buon ladrone, come la peccatrice che è entrata durante il pranzo in casa di Simone. Ecco, io, o Signore, qualche volta faccio fatica a riconoscere di essere peccatore e continuo a guardare i difetti degli altri, e non ho il coraggio di guardare i miei; non ho il coraggio di riconoscere dove sbaglio; faccio fatica anche a farmi conoscere con i miei difetti ai miei educatori e a quelli che vogliono conoscermi bene, perché possano aiutarmi ad essere un bravo cristiano, un bravo seminarista.

Io apprezzo, ammiro la samaritana, Zaccheo, il buon ladrone, ma non so fare come loro; non ho il coraggio, o Gesù, di riconoscere i miei sbagli, di presentarti le mie povertà, i miei peccati. O Gesù, aiutami a non aver paura di me, aiutami a guardare dentro, per scoprire anche le cose che tu soltanto conosci e che io non so conoscere. Comunicami tu la tua conoscenza; fammi vedere dove sbaglio; fammi essere luminoso, coraggioso con me stesso; fammi essere limpido, trasparente verso di te e verso i miei educatori.

3. Non corrispondenza alla generosità del Signore

Terza cosa che mi è piaciuta molto, o Gesù, delle cose che hai detto in questi giorni a questi ragazzi attraverso l’Arcivescovo è che tu conosci tutto e tutti, e, conoscendo tutto e tutti, ti doni, dai tutto te stesso. È questa parola «tutto» che ho sentito continuamente ritornare: Gesù conosce tutto e tutti, Gesù perdona e sopporta tutto, Gesù dona tutto se stesso a noi… e mi ha colpito.

Ecco, anche su questa totalità mi scopro pieno di difetti, perché io ti voglio bene in certi momenti, ti darei veramente tutta la mia vita… Ma poi comincio a dire: questa cosa la tengo per me, per esempio un po’ del tempo della mia preghiera; mi piace pensare ad altre cose mentre prego. Un po’ del mio tempo di studio non lo do a te, ma lo tengo per me per far niente, per disturbare i miei compagni, che sono così indotti dal mio cattivo esempio a distrarsi, a non studiare.

O Signore, quante cose trattengo per me stesso; non do a te tutto il mio tempo, non ti do tutto il mio cuore perché voglio coltivare alcune amicizie non buone; non ti do tutto il mio corpo perché accontento la mia golosità, perché non mi alzo presto la mattina, accontento gli istinti che sento nascere in me.

Tu conosci tutto e tutti; tu doni tutto te stesso a me e io invece continuo a fare degli sconti; qualche cosa di me, del mio cuore, del mio corpo, del mio tempo, del mio studio non te lo do, lo tengo per me.

4. Il nostro amore diverso da quello del Signore

E infine, Gesù, la quarta cosa molto bella che ho sentito viene dalla parabola del buon samaritano.
Questo signore, che non aveva speciali vocazioni, che non aveva particolari compiti nel popolo di Dio (era anzi un forestiero, un nemico), ha saputo imitare la carità di Dio; ha visto quel poveretto e si è comportato così come avrebbe fatto Dio, con tenerezza, con amore, con comprensione.

Ho sentito dire tante belle parole; Gesù ci ama senza differenza, e allora anche noi dobbiamo interessarci dei nostri fratelli; Gesù ci ama, ci conosce, sopporta, perdona nei nostri confronti, noi dobbiamo essere come Gesù per i nostri fratelli, dobbiamo donare, perdonare, sopportare, capire; e anche qui, o Gesù, quante cose sbagliate scopro nel bicchiere della mia anima e della mia vita; quante volte io non do tutto ai miei fratelli, non sono capace di sopportare qualche loro difetto, non sono capace di dare qualche cosa di mio, di dire una buona parola, di perdonare un torto che ho ricevuto. ..

O Signore, aiutami ad essere come te; aiutami a conoscere gli altri con lo sguardo pieno di amore, che sa perdonare, che sa capire, che sa sopportare.

PREGHIERA

Grazie, Gesù, perché mi scruti e mi conosci.
Grazie, Gesù, perché mi conosci perdonando.
Grazie, Gesù, perché mi conosci illuminando.
Grazie, Gesù, perché mi conosci separando.
Grazie, Gesù, perché mi conosci sopportando.

Perdona, Gesù, le mie mancanze contro la gioia.
Perdona, Gesù, la mia incapacità di vedere i miei difetti.
Perdona, Gesù, le mie mancanze di trasparenza, di ge
nerosità.
Perdona, Gesù, se ti ho rubato qualcosa che ti dovevo.
Perdona, Gesù, se non ho amato i miei fratelli come te.

Un cammino in tre tappe
Omelia durante la celebrazione eucaristica conclusiva
(Letture: Gn 37,1-7; Prv 3,13-18; Mt 6,19-24)

Dobbiamo rendere grazie al Signore perché la sua parola che questa sera ci è stata annunciata sembra arrivare proprio al momento giusto.
Il rischio che possiamo correre al termine degli Esercizi spirituali è quello di dire: «Ho camminato tanto, ho fatto un lungo percorso di preghiera, di silenzio, di riflessione. Ecco, sono come arrivato in cima ad una montagna. Ho finito di camminare. Adesso mi siedo e riposo un po’».
Mentre il vero significato degli Esercizi non è di invitarci a riposare, ma piuttosto di camminare di più. Gli Esercizi non segnano una mèta raggiunta, ma sono un punto di partenza per una vita cristiana più vera, più seria, più profonda. E mi pare che proprio in questo contesto riusciamo a cogliere la bellezza della parola che il Signore questa sera ci ha rivolto. È una parola che traccia davanti a noi un cammino in tre tappe da percorrere e che potremmo intitolare così:

1) la prima tappa: dall’esterno verso l’interno; 2) la seconda tappa: dall’interno verso l’alto; 3) la terza tappa: dall’alto verso l’altro.

Prima tappa: dall’esterno verso l’interno

Penso soprattutto al Vangelo, che ci ha ricordato come le realtà più importanti da coltivare non siano le cose esterne, ma il nostro cuore, cioè i nostri desideri più profondi, che coltiviamo nella mente e nell’animo.
Il nostro cuore è il nostro intimo, il nostro interno da cui parte ogni decisione di orientare la vita verso i tesori del cielo che sono quelli veri, autentici, che rimangono; oppure verso le cose che passano e vengono distrutte dalla ruggine, dalla tignuola e portate via dai ladri. È importante dare una direzione giusta alla nostra esistenza. Questa direzione giusta dipende dal nostro cuore, dalla capacità che noi abbiamo di penetrare dentro di noi, di meditare, di capire, di riflettere, di non essere tutti dispersi fuori di noi stessi, attratti da tante cose. Questa direzione giusta dipende dalla nostra capacità di fare silenzio per ascoltare parole più grandi e più vere; per riflettere su ciò che accade, così da sapere confrontare un episodio con un altro e distinguere ciò che mi ha fatto bene da ciò che mi fa male, per cercare di coltivare le cose che mi fanno bene ed evitare ciò che fa male a me e agli altri.
Gesù dà importanza al cuore, cioè all’interno della nostra vita. Forse voi in questi giorni, con tanta gioia e anche con un po’ di fatica, avete sperimentato come è importante il vostro cuore. Tutti voi mi avete detto che sono stati giorni belli, che avete pregato, avete fatto silenzio; ma mi avete anche detto che avreste voluto pregare di più, tacere ancora di più, perché avete sco
perto che nella preghiera e nel silenzio uno impara tantissimo.
Ecco la prima tappa di viaggio che Gesù ci propone: saper passare dall’esterno di voi verso l’interno, coltivando l’abitudine al silenzio, alla riflessione, alla preghiera.

Quando ero bambino mi è tanto piaciuta una leggenda che ora vi racconto. Parla di un eremita, che viveva solo in cima ad una montagna, e una volta vide arrivare nella sua grotta una signora che gli disse:
- Signor eremita, sono disperata, sono vedova. Mi è morto il marito. Mi ha lasciato una grande fattoria e tutto va a rotoli. Ogni anno quando tiro le somme della mia attività sono sempre sotto zero; sono sempre piena di debiti. Tutto va male nella mia fattoria.
L’eremita, lisciandosi la barba, cominciò a dire: – Senti, figliuola mia, raccontami cosa fai durante la tua giornata.
- Signor eremita, io mi alzo verso le 9,30-10. – Così tardi? – replicò l’eremita.
- Sì! Poi faccio la mia toilette, e arrivano le 11 – continuò la signora -. Faccio un passeggino in città, a vedere i negozi. Arriva l’una e tomo a casa a mangiare. Poi faccio un riposino. Alle 16 prendo il tè da qualche mia amica. Arrivo a casa la sera. Faccio cena e poi guardo la televisione oppure vado a teatro, o a fare una passeggiata…
L’eremita, lisciandosi la barba, disse:
- Ora ti do io un rimedio per questa tua disgrazia. Si ritirò in un angolo nascosto della grotta e dopo un po’ comparve con in mano una scatoletta, che consegnò alla signora con queste parole:
- Senti, figliuola mia, in questa scatoletta c’è un rimedio eccezionale per la tua disgrazia. Tu però non puoi guardarlo. Tra un mese tornerai qui, e apriremo insieme la scatoletta. Tu devi fare soltanto questa cosa: ogni ora della tua giornata, iniziando dalle sette del mattino sino alle sette di sera, porterai questa scatoletta dapprima nel frutteto, poi nel vigneto, poi nel campo seminato a grano, poi nel mulino, e vedrai che questa scatoletta farà miracoli; farà fiorire ancora la tua azienda.
Fiduciosa nelle parole dell’ eremita, la signora ritornò a casa. Era tentata di aprire la scatoletta, ma pensava: «L’eremita ha detto che se l’apro tutto il rimedio svanisce» .

E così cominciò ad ascoltare l’eremita. Alle sei del mattino si alzava, lei abituata ad alzarsi alle nove! Poveretta, era tutta assonnata, sbadigliava, ma pensava: «L’eremita mi ha detto…», e così si faceva coraggio.
Alle sette era nel mulino, dove stavano macinando il grano, e scoperse che i mugnai spandevano la farina e la buttavano via; ma quando videro arrivare la padrona misero la farina tutta nei sacchi ben pigiata.
Alle otto la signora prendeva la scatoletta preziosa e la portava nel vigneto. I contadini, anziché raccogliere l’uva per fare il vino, la mangiavano oppure la distribuivano ai passanti. Ma visto che arrivava la padrona, dissero:
- Ragazzi, arriva la padrona! Mettiamo tutta l’uva nei tini per poter fare il vino.
E così di ora in ora quella signora portava la scatoletta in tutte le parti della sua fattoria. Così si accorse che anche i mungitori che dovevano mungere le mucche non lo facevano e lasciavano soffrire quelle povere bestie; e altrove gli operai anziché lavorare facevano altre cose.

Per un mese ogni giorno, dalle sette di mattina alle sette di sera, la signora portava la scatoletta preziosa in un posto diverso della sua fattoria, e alla fine del mese cominciò a vedere che i conti tornavano giusti.
Piena di gioia, andò dall’eremita a dire:
- Adesso deve aprirmi questa scatoletta, perché contiene un rimedio veramente formidabile. Ha fatto funzionare alla perfezione tutta la mia azienda.
L’eremita aprì la scatoletta e ne uscì il rimedio misterioso: un piccolo fogliettino su cui c’era scritto: «Alle cose tue pensaci tu!»; e commentò:
- Sappi stare in casa tua. Sappi badare alle cose della tua azienda e vedrai che funzioneranno. Se sei sempre in giro, o a dormire, a chiacchierare, a prendere il tè, invece di pensare a governare la tua casa, sarà impossibile che la casa funzioni.

Ecco, questo saggio eremita ci aiuta a interpretare l’invito del Signore a passare dall’esterno verso l’interno. Impariamo a stare in casa, dentro quella casa interiore che ognuno di noi porta dentro di sé. Tante volte noi pensiamo ad altro, pensiamo a centomila cose. Ma non pensiamo a noi stessi. Non siamo capaci di stare dentro di noi per ascoltare ciò che il Signore ci dice, per capire quello che dobbiamo fare. Ecco la prima tappa che gli Esercizi ci invitano a percorrere: andare dentro di noi.

Imparare a pensare. Imparare a riflettere. Penso che un aiuto importante a percorrere questa tappa ci è dato anche dalla scuola. I vostri educatori e professori vi insegnano a pensare, a ragionare, a riflettere. È un grandissimo aiuto che vi danno. Anche se qualche volta dite che sono troppo esigenti o rigidi – ed è normale che vi lamentiate un po’ – tuttavia dovete dire a loro un grazie immenso, perché vi aiutano ad «andare verso l’interno», a diventare gente che sa badare alle sue cose, che non è sempre con la testa fra le nuvole, dispersa fra centomila distrazioni, ma che sa abituarsi a pensare, a riflettere, a guardarsi dentro.

Seconda tappa proposta dalla parola del Signore: dall’interno verso l’alto

Gesù ci dice: «Il tuo cuore, che è dentro di te, va orientato verso i beni del cielo, verso Dio, verso Gesù, non verso le cose che possono essere rubate dai ladri, o distrutte dalla ruggine e dalla tignuola».
Occorre che i nostri desideri interni vengano orientati verso Dio, verso Gesù. È anche il messaggio che l’Arcivescovo vi ha suggerito in questi giorni. Dobbiamo capire sempre più profondamente questo invito di Gesù ad «andare verso l’alto».
Gesù ci dice che non basta pensare a Dio e servirlo con il nostro cuore qualche volta, dedicandoci poi qualche altra volta a Mammona, cioè al dio del denaro, all’egoismo, al possesso. Gesù ci chiede di andare dall’interno verso l’alto non soltanto qualche volta, ma sempre. Il nostro interno deve sempre essere orientato verso Gesù, in uno sforzo continuo di generosità. Penso che tutti i buoni cristiani di questo mondo ogni tanto sanno orientarsi verso l’ «alto», perché pregano, vanno a Messa, leggono la Bibbia, dicono di sì a Gesù. Ma il guaio è che poi in tanti altri momenti della loro vita non pensano a Gesù; non pensano ad andare verso l’alto, si separano da Gesù con il loro egoismo e i loro peccati.

Dobbiamo noi, tutti insieme, fare il proposito di orientare tutta la nostra vita verso Gesù: senza venire a mezze misure, senza dividere la vita Un po’ per Gesù e un po’ senza Gesù. Tante volte noi dividiamo a metà la nostra vita. Per esempio, con il corpo siamo qui in chiesa, siamo in ginocchio, con le mani giunte, ma la nostra anima è altrove, perché pensiamo ad una cosa e all’altra e così ci distraiamo. In questo caso, metà del nostro essere è con Gesù, ma l’altra metà non è con Gesù. Qualche altra volta facciamo l’inverso: con i nostri pensieri diciamo a Gesù: «Ti voglio bene, voglio pensare a te», ma poi il corpo lo teniamo per accontentare la nostra pigrizia, i nostri comodi, i nostri istinti, i nostri capricci.

Gesù ci chiede di non dividerci a metà, ma di essere tutti intieri per lui.

Ho letto alla porta della cappella una bellissima frase di Madre Teresa di Calcutta: «Essere con Gesù e come Gesù, non qualche ora o per un po’ della nostra giornata, ma ventiquattro ore su ventiquattro». Dobbiamo essere generosi con Gesù; dare tutto noi stessi a lui, e proprio questo vi ha richiamato l’Arcivescovo quando insisteva in questi giorni nel dire che Gesù conosce tutto e tutti; che ha dato tutto se stesso a noi e perciò noi dobbiamo dare tutto noi stessi agli altri.

Quando si tratta di entrare in rapporto con Gesù, gli scarti non vanno bene. Quando ad esempio so che devo fare la meditazione di venti minuti, mentre in realtà la riduco a diciotto…; quando so che devo studiare un’ora e tre quarti, mentre in realtà mi impegno solo per un’ora e mezza, e sciupo l’ultimo quarto perdendo tempo e disturbando gli altri; allora gioco a tirare di prezzo… Ma con Gesù non va bene mirare all’economia. Con Gesù bisogna essere generosi al massimo.

Mi viene in mente al riguardo un’ altra storiella, breve breve, che mi è stata raccontata quando ero in seconda media e come voi stavo facendo gli Esercizi spirituali. Mi è rimasta impressa, perché è un racconto simpatico. Non è un episodio contenuto nei Vangeli, è una leggenda, che però dice una verità molto importante.

Un giorno Gesù disse agli apostoli Pietro e Giovanni: «Andiamo a fare una bella passeggiata in montagna. Però vi raccomando di portare insieme con voi un sasso». Pietro, che era un tipo realista, ragionò così tra sé: «Andare in montagna costa fatica, ci sono delle salite lunghe. Conviene portare un sasso piccolo piccolo». E così si mise in tasca un leggero sassolino.

Giovanni, invece, che era un generoso, senza fare troppi calcoli, prese una grossa pietra, e messala sulle spalle si incamminò dietro a Gesù, verso la cima della montagna. Dopo un bel po’ di strada, Giovanni moriva dalla fatica ed era tutto sudato, mentre Pietro camminava fresco fresco, fischiettando e prendendo in giro Giovanni: «Chi ti ha fatto fare tutta quella fatica lì! Basta un sassolino…».

Arrivarono in cima alla montagna stanchi morti, pieni di fame. Gesù si sedette tra i due apostoli e benedisse quei sassi che, d’incanto, diventarono un pane fragrante. Pietro si trovò tra le mani un minuscolo boccone di pane con cui sfamarsi; Giovanni invece una bella pagnotta, così grande che poté mangiarla insieme con Gesù, e ne avanzò anche per la sera.
Questa leggenda ci insegna ad essere generosi. Con Gesù non si deve giocare a mezze misure o stare sul minimo: a lui occorre dare tutto, e darlo con gioia.

Terza tappa del nostro viaggio, suggerita dalla parola di Dio: dall’alto verso l’altro, cioè verso i fratelli

Quest’ultima tappa non la trovo scritta nel brano del Vangelo proposto, ma la ricavo dall’episodio del libro della Genesi narrato nella prima lettura.

Giacobbe, che ha conosciuto Dio, che ha toccato con mano il suo favore e la sua bontà misericordiosa, sente il bisogno di dire a tutti i suoi familiari: «Buttate via gli idoli. Cercate anche voi di credere in Dio con tutto il vostro cuore!».

È l’esempio di un uomo che ha conosciuto Dio, ha orientato il suo cuore verso l’alto e ora va verso gli altri per dire a ciascuno: «Credete in Dio insieme con me. Sapete come è bello amare Gesù; come è bello conoscerlo; come è bello sapere di essere conosciuti e scrutati dal suo sguardo che illumina e purifica, che separa in noi il bene dal male, che perdona».

E qui capite, cari amici, che voglio alludere alla vostra vocazione. Gesù, chiamandovi a diventare preti, vi invita proprio a spendere la vostra vita per dire agli altri uomini che è bello amare il Signore. Altre persone offrono agli uomini altri doni, come il vestito, il cibo, il vino da bere, la giustizia, ecc.; voi darete agli uomini soprattutto la certezza di essere conosciuti e amati dal Signore.

E qui mi rivolgo in particolare a quelli di terza media che stanno vivendo questi Santi Esercizi quasi come ultima tappa verso una decisione importante che dovranno prendere: se passare in ginnasio, e così continuare il cammino vocazionale, oppure incamminarsi per qualche altra strada.

Può darsi che uno, ragionando con calma col suo Rettore e col suo Direttore Spirituale, capisca che Gesù gli chiede un altro modo di volergli bene e di servirlo nella Chiesa. Quindi niente di male se lascia il Seminario per continuare a seguire la vocazione di Gesù su un’ altra strada, diversa dal sacerdozio.

Però penso che tanti di voi sono realmente chiamati a fare il prete. Qualcuno potrebbe dubitare, pensando: «Ma io ho tanti difetti, faccio tanti sbagli. Come posso fare il prete?»; oppure: «Cosa serve fare il prete. La gente ha bisogno di altre cose più importanti che non la preghiera, il Vangelo, i Sacramenti…».

Ecco, io vi dico: se voi scoprite che la vostra strada è un’altra, benissimo, seguite ciò che Gesù vi indica. Ma se Gesù vi chiama a diventare preti, non scoraggiatevi per i vostri difetti. Chiedetegli piuttosto il coraggio di vincerli pian piano. Soprattutto non pensate che il mondo non abbia bisogno di Gesù. lo ho girato un po’ il mondo in questi anni e dappertutto ho visto un immenso bisogno di persone che parlino di Dio agli uomini.

Ho in mente una scena straziante: nel luglio scorso sono stato in Africa, nel Sudan, e ho visitato a Quirick vicino a Giuba un grosso lebbrosario. C’è chi dice che lì siano raccolti 5.000 lebbrosi, altri dicono che siano 15.000, altri infine che ve ne siano 25.000; nessuno sa il numero preciso, perché i lebbrosi sono abbandonati a se stessi. C’è solo qualche capanna e una piccola cappella costruita da un prete. Ricordo che quando sono arrivato ho incominciato a distribuire un po’ di vestiti e altro… ma quando hanno capito che ero un prete, uno dì loro, che fa un po’ da sacrista, è corso subito in cappella a suonare la campana a più non posso per dire alla gente che era arrivato un prete.

In breve tempo si è radunato un bel gruppo di lebbrosi, e io dicevo: «Ma la Messa l’ho già detta, poi non so parlare l’arabo. L’inglese lo so appena appena». Essi mi rispondono: «Non fa niente, non fa niente! Father, bless us: Padre, benediteci!». Ecco, quella gente affranta aveva bisogno di incontrare un prete per essere benedetta. Uno può dire: «Certo in Africa, poveretti, non hanno niente, cercheranno i preti per consolarsi». No, non è così. Anche in altre parti del mondo ho fatto la medesima esperienza.

Ad esempio, nel 1970 sono stato un mese intero in America, ospite di mio fratello. Vicino c’era la casa di un protestante, più precisamente di una famiglia presbiteriana che ho cominciato a conoscere piano piano fino a diventare amici.

In America tanta gente ha tutto: il frigorifero, il condizionatore d’aria, soldi a palate, due o tre macchine… Eppure questa gente ha un immenso bisogno di Dio. Ricordo che quando recitavo il breviario nel giardino, dalla finestra della casa vicina la signora mi vedeva e sempre mi urlava: «Father Louis, pray also for us! (Don Luigi, preghi anche per noi!». Questa gente, che ha tutto, cerca qualcuno che preghi per loro.

E infine l’ultimo episodio che vi racconto si riferisce all’estate scorsa, quando sono stato in Germania con i seminaristi più grandi della Scuola Vocazioni Adulte di Milano.

Eravamo alloggiati in un ostello della gioventù, dove c’erano anche dei soldati impegnati per alcuni giorni in esercitazioni militari. La sera della nostra partenza abbiamo organizzato una festa assieme, bevendo birra, mangiando salsicce e cantando un po’ in italiano e un po’ in tedesco. Alla fine ci siamo salutati, e un soldato mi è venuto incontro e mi ha detto: «Padre, so che voi siete cattolici e so che questi giovani sono seminaristi. lo sono un protestante evangelico, voglio molto bene al Signore, dica ai suoi seminaristi di pregare tanto per me».

Il mondo ha un immenso bisogno di gente che parli loro di Gesù, che annunci il Vangelo, che trasmetta le cose che l’Arcivescovo vi ha detto in questi giorni.

La gente ha bisogno di uomini che con la loro vita dicano a tutti che Gesù ci conosce, ci ama, ci perdona, sopporta con noi tutte le nostre prove e difficoltà e ci sostiene con la sua grazia.

lo prego tanto in questa Messa soprattutto per voi più grandi di terza media, perché viviate questi ultimi mesi di scuola con coraggio, con gioia, con responsabilità.

Se il Signore vi chiama a diventare preti non siate pigri. Non spaventatevi dei vostri difetti. Non dite che non c’è bisogno di preti in questo mondo, Mentre prego per tutti i seminaristi, prego in modo speciale per voi, perché il vostro cammino sia pieno di speranza e di coraggio.

04 GESÙ CONOSCE DONANDO – C. M. Martini

GUIDAMI SULLA VIA DELLA VITA

«Signore Gesù, siamo giunti all ‘ultima meditazione e mi accorgo di non essere riuscito a dire tutto quello che avrei voluto. Sii tu, te ne prego, a dire loro le parole che veramente contano! Fa’ loro comprendere chi tu sei affinché ciascuno comprenda come tu lo ami.
Maria, madre di Gesù, insegnaci a conoscere Gesù come tu l’hai conosciuto soprattutto quando, sulla croce, ha dato tutto se stesso per noi. Tu, Maria, che sei l’aiuto dei cristiani, prega per noi. Amen».

In questa nostra ultima meditazione vorrei riassumere il segreto di tutte le cose dette precedentemente sotto il titolo: «Gesù conosce donando», ed è per questo che ho voluto affidare alla Madonna la riflessione che cercheremo di fare.
«Gesù conosce donando» significa che noi lo conosciamo quando ci accorgiamo che cosa fa per noi.

Il testo della lavanda dei piedi

Mi fermo alla lettura di un solo brano evangelico, uno dei più belli del vangelo secondo Giovanni, perché è una pagina ricchissima. Mentre io leggo cercate di seguire, come si fa davanti a un testo che vogliamo penetrare, e anzitutto vi consiglio di mettervi in una posizione che favorisca la riflessione. La parola di Dio va ascoltata per quello che è: parola di salvezza, per la nostra salvezza.

Gv 13,1-11: «Prima della festa di Pasqua, Gesù sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e che a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita». Vi confesso che leggo queste parole con particolare emozione perché, come sapete, il Vescovo, nel giovedì santo, compie lo stesso gesto in Cattedrale.

«Poi versò dell’ acqua e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto. Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: “Signore, tu lavi i piedi a me?”. Rispose Gesù: “Quello che io faccio tu ora non lo capisci ma lo capirai dopo”. Gli disse Simon Pietro: “Non mi laverai mai i piedi!”. Gli rispose Gesù: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”. Gli disse Simon Pietro: “Signore, non solo i piedi ma anche le mani e il capo”. Soggiunse Gesù: “Chi ha fatto il bagno non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto mondo. E voi siete mondi ma non tutti”. Sapeva infatti chi lo tradiva e per questo disse: “Non siete tutti mondi”».

La comprensione del testo

1. Qual è lo scenario di questo avvenimento? Gesù si trova verso la fine della sua vita con i discepoli, i quali pensano di conoscerlo a fondo, di conoscerlo già abbastanza. L’hanno infatti sentito parlare per tre anni, hanno visto i suoi miracoli, l’hanno visto pregare e probabilmente pensano: «Ormai sappiamo tutto di lui, sappiamo chi è».
In realtà, non lo conoscono ancora perché non hanno capito che cosa Gesù è capace di fare per loro. Il simbolo della mancanza di comprensione, di conoscenza, è Pietro che si rifiuta di farsi lavare i piedi da Gesù, non lo ammette. Pietro non sa che Gesù è colui che si dona, che serve, che si dà sino in fondo: «Li amò sino alla fine».
Il racconto della lavanda dei piedi è dunque molto importante per conoscere Gesù e vi invito a rileggerlo attentamente.

Da parte mia voglio indicarvi tre punti.

- Primo: Gesù è pronto a servirmi. Sembra incredibile ma è vero. Mi ama fino a servirmi, fino a mettersi a mia disposizione.

- Secondo: Gesù è pronto a servirmi con il dono della sua vita sulla croce. Il racconto della lavanda prelude alla croce. E Pietro, che già in precedenza si era ribellato al pensiero che Gesù potesse andare incontro alla morte di croce, anche qui si ribella ad essere servito da Gesù nel gesto simbolico della lavanda.

- Terzo: Gesù si mette a mia disposizione nell’Eucaristia facendosi cibo. Mi conosce fino in fondo ed entra in me, come cibo eucaristico, come dono del suo corpo.

Noi comprendiamo bene la reazione di Pietro per::ché, pur avendo una grande voglia di essere amati, rion riusciamo a credere che qualcuno ci possa amare fino a dare la sua vita per noi!
Il testo di Giovanni sottolinea, invece, che Gesù ci conosce donandosi, donando tutta la sua vita per noi, per me.

2. Che cosa significa il donarsi di Gesù? Ora è necessario capire che cosa sta dietro alla donazione di Gesù, e mi richiamo a tre brani del Nuovo Testamento: 1 Cor 15,3; Gai 2,20; Ef 5,2. Sono tre parole di san Paolo che ci spiegano cosa vuoI dire che Gesù ci conosce fino in fondo e viene a noi donandosi.

- 1 Cor 15,3: «Vi ho trasmesso, dunque, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture».
Gesù ci ama fino a morire per i nostri peccati. Si mette al nostro posto, entra dentro di noi come se questi peccati li avesse commessi lui, assume su di sé la nostra responsabilità.

- Gal 2 ,20: «Il figlio di Dio mi ha amato e ha dato se stesso per me».
Paolo mette al singolare la stessa affermazione della prima lettera ai Corinzi. Il figlio di Dio mi ha amato e ha dato se stesso per me: potremmo meditare per ore intere su questa parola. Gesù mi vuole essere così vicino da dare se stesso per me! Talora, quando distribuisco l’Eucaristia nella Messa della Visita pastorale, mi capita di pensare: Gesù ha dato la sua vita per questa persona alla quale sto dando l’ostia, perché l’ostia è il suo corpo! Ciascuno di noi quando riceve l’Eucaristia può dire veramente: Ecco il corpo di Gesù per me. Nell’Eucaristia c’è una rivelazione altissima di Dio perchéè la prova, per così dire, fisica che mi sta dando il suo corpo, cioè che mi ama. È un segno irrefutabile dell’a- . more di Dio per ciascuno di noi.

- Ef 5,2: «Camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi».
Dal momento che Gesù ha dato se stesso per noi, noi dobbiamo amarci e camminare nella carità, essere una Chiesa della carità. Il programma pastorale che la nostra diocesi vuole vivere quest’anno è la prossimità, il farsi prossimo, l’essere Chiesa della carità. E il motivo è che Gesù ci ha amato e ha dato se stesso per noi. Questa è la radice di tutto, di tutta la vita della Chiesa. Tutto quello che io faccio come Vescovo, quello che fanno i preti, quello che si fa nelle parrocchie e nei seminari, quello che fa il Papa, ha una unica radice: il figlio di Dio ci ha amato e ha dato se stesso per noi.
Senza questa radice la Chiesa diventa incomprensibile, la vita cristiana perde il suo senso, i sacerdoti non avrebbero ragione di essere.
Non dimenticate dunque mai la fondamentalità del dono che meditiamo guardando Gesù in croce.

La preghiera sul testo

La preghiera che il racconto della lavanda suscita in noi deve essere preceduta da una domanda: Che cosa posso dare a Gesù, che cosa gli darò per ricambiare ciò che lui ha fatto per me?

1. Anzitutto cercherò di fare la visita al SS.mo Sacramento. Nella visita, infatti, posso contemplare Gesù che mi serve e mi ama dando se stesso per me: mi metto in ginocchio o compostamente seduto, e gli metto a disposizione un po’ del mio tempo. È un segno di grande riconoscenza la visita, e se ci costa, meglio ancora! «Gesù sono qui con te, sto qui con te perché tu hai fatto tutto per me».

2. In secondo luogo devo vivere la S. Messa come centro della giornata. Nella Messa io dono a Gesù tutto me stesso. È vero che la Messa è il centro della mia giornata? «Gesù, fa’ che lo sia, fa’ che lo diventi!». Penso durante il giorno alla Messa e mi rioffro al Padre con Gesù? «Gesù, fammi vivere la Messa in unione con te, come offerta al Padre!».

3. Il terzo modo per rispondere alla domanda è di chiedermi se c’è qualcosa, nella mia vita, che Gesù vuole e che mi costa dargli. Forse si tratta di una cosa molto piccola e tuttavia non mi decido a darla. «Gesù, fammi comprendere che cosa vuoi da me e, dopo avermelo fatto comprendere, dammi il coraggio di donartela così come tu hai avuto il coraggio di morire per me sulla croce».
Se, ad esempio, in questi giorni abbiamo capito che Gesù vuole una cosa particolare, questa può costituire il proposito degli Esercizi e sarà allora utile metterla per iscritto: magari un difetto che devo vincere, una ripugnanza da superare, un’antipatia o un malumore da lasciar cadere. Tutto questo può essere un dono a Gesù, un modo per rispondere a quell’ amore che il racconto della lavanda dei piedi ci ha fatto comprendere.

Il salmo 138

Possiamo, per concludere, provare a rileggere il salmo 138. L’abbiamo letto all’inizio, però adesso molte parole del salmo ci saranno più chiare avendo capito di più che Gesù ci conosce, che ci conosce illuminandoci, standoci vicino, costruendoci e perdonandoci, che ci conosce sopportando e soffrendo le nostre prove e le nostre tentazioni, che ci conosce donandoci se stesso fino alla morte di amore in croce.

Lo leggiamo lentamente per recitarlo come una preghiera nostra, che ci nasce dal di dentro e che riassume le riflessioni comunitarie e personali che abbiamo fatto.

E prima di leggerlo possiamo invocare il Signore dicendo: «Signore, noi sappiamo pregare così poco! Manda il tuo Spirito perché preghi il salmo per noi, perché ci insegni la vera preghiera. Tu che hai ispirato il salmista, ispira il nostro cuore affinché possiamo leggerlo con quell’amore con cui l’ha pregato Gesù, con cui l’ha pregato Maria. Donaci di leggerlo con quell’amore con cui l’hanno pregato i tuoi Santi: Ambrogio, Carlo, Agostino. Vogliamo pregarlo insieme con tutti i Santi del cielo e della terra, con l’intera Chiesa diocesana di Milano, con i nostri genitori, i nostri fratelli e sorelle, con i superiori del seminario, con le suore, con tutti coloro che in questo momento sono sotto lo sguardo di Dio».

«Signore, tu mi scruti e mi conosci.
Tu sai quando seggo e quando mi alzo.
Penetri da lontano i miei pensieri,
mi scruti quando cammino e quando riposo.

Ti sono note tutte le mie vie;
la mia parola non è ancora sulla lingua
e tu, Signore, già la conosci tutta.

Alle spalle e di fronte mi circondi
e poni su di me la tua mano.
Stupenda per me la tua saggezza,
troppo alta, e io non la comprendo.

Dove andare lontano dal tuo spirito,
dove fuggire dalla tua presenza?
Se salgo in cielo, là tu sei,
se scendo agli inferi, eccoti.

Se prendo le ali dell’aurora
per abitare all’estremità del mare,
anche là mi guida la tua mano
e mi afferra la tua destra.

Se dico: “Almeno l’oscurità mi copra
e intorno a me sia la notte”,
nemmeno le tenebre per te sono oscure
e la notte è chiara come il giorno;
per te le tenebre sono come luce.

Sei tu che hai creato le mie viscere
e mi hai tessuto nel seno di mia madre.
Ti lodo perché mi hai fatto come un prodigio;
sono stupende le tue opere.

Tu mi conosci fino in fondo.
Non ti erano nascoste le mie ossa
quando vènivo formato nel segreto,
intessuto nelle profondità della terra.

Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi
e tutto era scritto nel tuo libro;
i miei giorni erano fissati, quando ancora
non ne esisteva uno.

Quanto profondi per me i tuoi pensieri,
quanto grande il loro numero, o Dio;
se li conto sono più della sabbia,
se li credo finiti, con te sono ancora.

Scrutami, o Dio, e conosci il mio cuore,
provami e conosci i miei pensieri:
vedi se percorro una via di menzogna
e guidami sulla via della vita».

03 GESÙ CONOSCE SOPPORTANDO – C. M. Martini

GUIDAMI SULLA VIA DELL VITA

«Ti ringraziamo, Signore Gesù, perché ci chiami davanti a te. Tua è la parola che ascoltiamo e non parola di uomini; tu parli al nostro cuore. Sei tu che ci parli con amicizia, è a te che diciamo grazie perché ci hai dato tante cose. E noi, Gesù, che cosa daremo a te?
Fa’ che oggi sappiamo darti qualcosa di importante, fa’ che ti conosciamo come tu ci conosci perché possiamo essere veramente tuoi amici, così come tu sei amico nostro.
Maria, madre di Gesù, sede della sapienza e aiuto dei cristiani, prega per noi. Amen».

Abbiamo visto come Gesù conosce tutto e tutti, abbiamo compreso che Gesù ci conosce illuminando e separando in noi la luce dalle tenebre. Forse qualcuno di voi avrà anche pensato che la prima grande illuminazione che Gesù ha fatto nella nostra vita – l’illuminazione che resta fondamentale – è il Battesimo. Nel Battesimo ci ha chiamato per nome e ci ha dato il dono della fede, della speranza e dell’amore.

Sarebbero molti i temi sulla conoscenza che Gesù ha di noi, sul come Gesù ci conosce, e tuttavia io mi devo limitare a suggerirvi quattro meditazioni in tutto. Vorrei però çhe voi continuaste, terminati questi giorni di ritiro spirituale in comune, a cercare altri titoli. Ad esempio, sarebbe bello approfondire la tesi: «Gesù ci conosce perdonandoci». Quando Gesù ci perdona nel sacramento della Confessione, ci perdona dal di dentro, come uno che ci conosce e ci ama a fondo.

Il perdono è uno dei modi migliori per diventare amici! Ci sono amicizie che nascono dal trovarsi bene insieme, e ce ne sono altre che nascono da un perdonarsi sincero dopo aver litigato: questo secondo tipo di amicizie è certamente più forte. Non so se ricordate il grande gesto di perdono eroico che il figlio di Vittorio Bachelet ha avuto nei riguardi dei terroristi che avevano ucciso suo padre, o il gesto eroico di perdono di Maria Fida Moro: da questi gesti è nata una profonda amicizia tra il figlio di Bachelet e i terroristi, tra Maria Fida Moro e i terroristi. Il perdonare è segno di amicizia. Confido quindi che voi saprete riflettere su altri modi con cui Gesù ama ciascuno di voi.

In questa terza meditazione vorrei svolgere il titolo: «Gesù mi conosce sopportando». Non vuol dire che Gesù mi conosce sopportando la mia pigrizia, la mia svogliatezza, il mio poco impegno! Si tratta di qualcosa di molto più profondo: Gesù mi conosce vivendo delle prove e delle tentazioni simili a quelle che vivo io, Gesù mi conosce facendosi simile a me nelle prove. Svolgiamo il titolo attraverso i tre momenti che ormai avete certamente imparato.

La raccolta dei testi

Sono tre i testi evangelici che ho pensato di suggerire.

1. Le tentazioni di Gesù: Mt 4,2. Gesù dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ha avuto fame e allora il tentatore gli si avvicina. Mi fermerò soltanto sul significato delle seguenti parole: «Gesù ebbe fame».
È una fame diversa da quella che si può avere dopo aver giocato tutta la mattina, dopo essersi impegnati a fondo in una gara sportiva. La fame che Gesù prova si avvicina alla grande fatica di coloro che fanno, ad esempio, lo sciopero della fame. Per quaranta giorni e quaranta notti aveva vissuto con pochissimo – un po’ d’ acqua da una pozzanghera, qualche erba -; è stanco, affaticato, con la testa vuota e non ha più voglia di niente. Gesù prova la tentazione di pesantezza che noi sentiamo nella vita quotidiana quando tutto ci è difficile e ci dà disgusto: facciamo fatica a vedere i compagni, facciamo fatica ad alzarci e a rispondere al richiamo della campana.
Gesù ci conosce perché ha provato anche lui queste cose.

2. Il secondo testo è il racconto del Getsemani: Mt 26,38. Gesù prende con sé Pietro e i due figli di Zebedeo (Giacomo e Giovanni) e va con loro nel podere chiamato Getsemani. Poi dice loro: «La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me». Da ragazzo questo brano mi faceva molta impressione e mi chiedevo: «Come è possibile che Gesù provi tristezza e angoscia fino alla morte? Come è possibile che Gesù provi le tristezze che posso sentire io, i momenti di ansietà che talora vivo?». Gesù mi conosce anche in quei momenti di turbamento e di angoscia che nessun altro forse conosce.

3. Il terzo testo è la terribile tentazione di Gesù sulla croce: Mt 27,40. I passanti insultano Gesù crocifisso e gli dicono: «Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso! Se sei il figlio di Dio, scendi dalla croce!».

La comprensione dei testi

Abbiamo già detto sufficientemente della prima tentazione, quella della fame, della stanchezza infinita provata da Gesù.

- Pensando all’angoscia del Getsemani dovremmo approfondire la riflessione leggendo, sempre al c. 26 del vangelo secondo Matteo, là dove si dice che «tutti i discepoli fuggirono» (v. 56). Gesù si sente solo e nessuno dei suoi gli dà più retta, nessuno sta più dalla sua parte. La tristezza giunge fino all’esperienza della solitudine, del sentirsi abbandonato. Talora ci capita di sentirci soli, anche se abbiamo intorno i compagni di scuola, i superiori del seminario, se ci sono con noi i genitori e gli amici. È una sensazione che non riusciamo a spiegare, che ci fa soffrire, che ci toglie ogni gioia. Gesù ha già vissuto tutto questo e l’ha voluto provare per me, per darmi la certezza che lui conosce tutto di me e sempre mi è vicino, mi ama.

- Nel terzo testo, Gesù viene tentato in ciò che gli sta più a cuore: «Se sei il figlio di Dio, scendi dalla croce». Ma Gesù è figlio di Dio e l’insulto vuol costringerlo a scegliere la via del potere, del trionfo, lasciando la via dell’obbedienza e dell’umiltà. È quindi tentato sulla sua strada, sulla sua vocazione. Spesso vi sarà capitato o vi capiterà che altri dicano: Ci sono tante cose da fare per la Chiesa e perché tu scegli la via del seminario, una via di sacrificio, di rinuncia? Perché scegli la via del sacerdozio, una via povera e difficile?
La fame e la fatica, la tristezza fino alla solitudine, la tentazione sulla vocazione, sono tre esempi attraverso i quali vediamo che cosa Gesù sopporta per noi.

- Comprendere i tre testi vuol dire approfondire la domanda: Perché, Signore Gesù, tu che non avevi bisogno di viverle, sei passato per queste prove così dure? E Gesù ci risponderà: Per esserti vicino, per conoscere e sperimentare quello che tu puoi provare e provi.
Sarebbe utile che ciascuno di voi, personalmente, cercasse di leggere un altro brano della Scrittura, che si trova nella lettera agli Ebrei – forse la più difficile di tutto il Nuovo Testamento -: «Gesù doveva rendersi in tutto simile ai fratelli per diventare un sacerdote misericordioso e fedele… Infatti, proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (Eb 2,17-18).
Leggendo e rileggendo questi versetti sono certo che, con la grazia del Signore, potrete capire meglio che cosa significa che Gesù ci conosce sopportando e che non situazione nella quale non possa darci una mano, anche se il demonio tende a suggerirci: «TI Signore ti ha abbandonato, nessuno più pensa a te!».

La preghiera sui testi

Sono cinque le domande che vi aiuteranno a pregare insieme con Gesù.

Prima domanda: Quali sono le mie tentazioni? Ciascuno dovrà naturalmente rispondere personalmente e potrà poi parlarne con il confessore o con il direttore spirituale.
Sarà forse la fatica di pregare, la svogliatezza, oppure la tentazione degli alti e bassi, il cambiamento di umore con passaggi dalla gioia alla malinconia, voglia di piangere, tristezza… Altre tentazioni possono riguardare la nostra vita, la nostra fantasia, il nostro corpo, i nostri progetti, il nostro futuro. Pensare a quelle che mi toccano più da vicino chiedendo al Signore: «Gesù, tu che hai sofferto tante prove per me, fammi capire quali sono adesso le mie prove». Perché ci sono prove che non riusciamo a cogliere e sarà importante forse fare un elenco, per iscritto, delle più decisive.

Seconda domanda: Mi spavento delle prove? Mi fanno paura? Quando, ad esempio, abbiamo l’impressione di vivere una prova che nessuno può capire, sopravviene il timore. Ricordo il grande bene che mi ha fatto il Diario di Giovanni XXIII, là dove parla delle difficoltà e delle prove che ha passato quando era un giovanissimo seminarista, delle prove avute con la famiglia, dei suoi difetti, dei problemi che ha dovuto affrontare da prete, da delegato apostolico in Turchia, in Bulgaria, e poi da Papa. Mi ha fatto bene perché ho capito che prima o poi passiamo tutti per le stesse tentazioni, le stesse difficoltà. Tra l’altro Giovanni XXIII ne parla con tale semplicità da aiutarmi a ridere un po’ sulle mie prove.
Il demonio invece cerca di farci paura mettendoci in mente che la nostra è la prova più grande di tutte, che nessuno l’ha mai vissuta, che è meglio non parlarne perché non saremmo capiti, ecc.

Terza domanda: Mi sento solo nelle mie prove? Sentirsi solo è già una prova. Le prove più dure sono quelle che non vogliamo esprimere nemmeno nella preghiera, dicendo a noi stessi che Gesù non può aiutarci, che siamo fatti così e non c’è altro da fare. E, naturalmente, il demonio si accanisce a farci credere che siamo davvero soli.

Quarta domanda: Mi faccio aiutare da Gesù nella preghiera, dalla Madonna, da una visita al SS.mo Sacramento, da una lettura del Vangelo, soprattutto da un colloquio con il direttore spirituale? Oppure penso che posso cavarmela da me? In questo secondo caso cadremmo in una grandissima tentazione.

Quinta domanda: Mi difendo? Bisogna, infatti, imparare a difendersi nelle tentazioni. In questi giorni, trovandomi con voi, mi sono venute in mente abbastanza chiaramente le prove e le tentazioni che ho avuto da ragazzo e per questo vi dico: è estremamente importante non che il Signore ci tolga le prove o tentazioni bensì che ci aiuti a saperci difendere, a saper resistere. Le prove hanno una grande utilità nel nostro cammino: senza di esse non si riesce a crescere, a diventare maturi e io ringrazio il Signore per tutti i momenti difficili attraverso i quali sono passato e ancora passerò. Tuttavia dobbiamo imparare a difenderci. Come ci si difende?

1. Non indugiare nei pensieri che ci vengono, non rimuginare sul perché e sul come. Se indugiamo, ad esempio, nelle prove depressive – scoraggiamento, malinconia – ne rimaniamo avvolti come ci avvolge un serpente quando attacca. Bisogna interrompere con decisione il corso dei pensieri.

2. Fare qualche cosa, qualche attività: cantare, correre, ascoltare una bella musica, leggere un salmo, dedicarci a una cosa che ci interessa. Se non si reagisce fortemente, ci deprimiamo sempre di più.

3. Per difenderci dalle tentazioni che riguardano la fantasia, la curiosità, i sensi, occorre saperci chiaramente disciplinare, cioè rendere ferma la nostra attenzione sui pensieri o sulla curiosità. Se ci lasciamo prendere dalla curiosità, sarà difficile vincere le distrazioni. Un esempio pratico è quello della televisione: la televisione sempre accesa costituisce un grosso danno. Come pure il manovrare la televisione passando continuamente da un canale all’altro, da un’immagine all’altra, perché è fonte di divagazione. Se dunque mi accorgo di essere distratto nella preghiera e non mi decido a dare un taglio netto alla televisione e alla curiosità, non potrò controllare i pensieri inutili durante la preghiera.

Quando ero ragazzo io, la televisione non c’era e però mi piaceva moltissimo il cinematografo: uno dei miei sogni era, una volta diventato grande, di comprarmi la tessera del cinema in modo da poter andare sempre senza fare la coda per il biglietto! Ad un certo punto ho compreso chiaramente che dovevo fare un passo decisivo, che dovevo troncare con l’abitudine del cinema e con i sogni della tessera. Forse il mio fu un taglio un po’ duro, un po’ rigido, e tuttavia sincero e coraggioso. Da quel momento ho avuto un grande giovamento nella preghiera.

Credo quindi che una decisione possa vincere le tentazioni di distrazioni, di curiosità, di fantasia, di incapacità a pregare assai più che non tanti consigli buoni. Per difendersi è allora necessario conoscere le proprie tentazioni e le proprie prove e applicare per ciascuna i rimedi giusti. Il direttore spirituale è la persona più adatta per aiutare, con la sua esperienza, ad applicare i rimedi giusti.

Poco per volta ci lamenteremo sempre meno delle prove. Le prove ci saranno, ma diventeranno occasione di crescita e potremo ricordarle come i momenti più belli della nostra vita, i momenti della lotta e del coraggio, i momenti in cui abbiamo sentito davvero che Gesù ci conosce e che noi lo conosciamo sopportando le prove e le tentazioni, lo conosciamo come amico che ha condiviso le nostre difficoltà e le nostre sofferenze, come amico vero.

«Signore, fa’ che ti conosciamo nelle nostre prove. Fa’ che ti ringraziamo per le nostre prove».