IL CAMMINO DI OSPITALITA’ SECONDO LO STILE DI SAN GIOVANNI DI DIO

IL CAMMINO DI OSPITALITA’

SECONDO LO STILE DI SAN GIOVANNI DI DIO

Spiritualità dell’Ordine

Introduzione

1. L’opera che “tanto pietosamente iniziò quel benedetto uomo Giovanni di Dio”[1]attorno all’anno 1538, a Granada, in una povera casa presa in affitto[2] continua a vivere; il suo spirito ed il suo carisma palpitano nel nostro mondo da oltre 465 anni. La sua fecondità e la sua capacità trasformatrice sono tali che uomini e donne di diversi popoli, continenti, razze ed epoche lo riconoscono come “padre spirituale”. Mossi dal suo spirito, questi uomini e donne portano avanti progetti di accoglienza, aiuto, salute e riabilitazione a favore dei più bisognosi[3].

2. Viviamo in un’epoca non solo di cambiamenti, ma in un vero e proprio cambio d’epoca. Le forme di pensare, di agire e di vivere dell’immediato passato sono ormai obsolete ed anacronistiche; vecchi metodi ed istituzioni perdono la loro efficacia. Per questo, l’eredità ricevuta da Giovanni di Dio, oltre ad essere accolta con venerazione, deve essere tradotta in nuove espressioni, vissuta in forme culturali nuove e sentita con nuovo ardore.

1. Il cambio d’epoca

3. Il cambio d’epoca ci riguarda da diverse angolazioni: la globalizzazione e la regionalizzazione, la post-modernità e la sua influenza sulla Chiesa e sull’Ordine.

Ø Globalizzazione e regionalizzazione: Il nostro tempo si distingue per la globalizzazione (creazione di grandi reti mondiali); ma anche per la regionalizzazione (affermazione di valori autoctoni, locali, culturali, peculiari). Entrambi gli sviluppi contengono aspetti positivi, ma anche negativi. Una globalizzazione umanizzante, solidale e non al servizio di una sola parte dell’umanità, offre possibilità inedite per promuovere la comunione tra le nazioni, i diversi gruppi umani e le persone. Una regionalizzazione che non tende alla chiusura e al radicalismo, può apportare al nostro mondo ricchezze e prospettive inimmaginabili sino ad oggi. Anche il nostro carisma si globalizza e si regionalizza continuamente prendendo corpo in diversi luoghi e culture. In un mondo in cui la globalizzazione economica è causa di pesanti discriminazioni e produce innumerevoli vittime, noi sentiamo in modo particolare il dovere di mettere in pratica la chiamata della Chiesa a globalizzare la solidarietà, la compassione e la carità. Nello stesso modo ci sentiamo chiamati a difendere i valori locali e il valore della individualità di ogni persona, in special modo di quelle che sono emarginate dalla società globalizzatrice.

Ø La post-modernità: la cosiddetta ‘postmodernità’ è un’altra caratteristica del cambio d’epoca che stiamo vivendo. Di solito la si descrive come uno “stato mentale” comune, globalizzato, presente in una forma o nell’altra in tutti i popoli della terra. Il pensiero postmoderno ci indica chiaramente che sono finiti i tempi del totalitarismo, dell’assolutismo, delle visioni dogmatiche, del patriarcalismo e che è definitivamente tramontata la visione eurocentrica del mondo, che cercava di spiegare e di controllare tutto. La mentalità postmoderna si trova soprattutto nelle nuove generazioni, anche se ci riguarda tutti, e ci suggerisce di optare per spiegazioni umili e frammentarie della realtà, che è più utile realizzare piccoli passi di trasformazione, invece di pretendere dei cambiamenti totali; che dobbiamo accettare il pluralismo, la diversità ed essere più tolleranti ed ospitali verso i diversi, verso gli altri. In questo contesto, l’ospitalità e la misericordia acquisiscono un significato nuovo e ci pongono di fronte alla sfida di concretizzarle in azioni e strutture adeguate per quest’epoca. La post-modernità pone anche una grande sfida alla nostra spiritualità che, proprio in sintonia con lo spirito postmoderno, deve essere vista più come un cammino che come una legge morale o un’esigenza astratta. La postmodernità ci rende più sensibili alla pluralità delle forme di vita umana e cristiana e, per questo, ci apre alla interdipendenza ed alla comunione. Proprio per questo parliamo di missione condivisa, carisma condiviso, vita condivisa.

Ø Possibilità e minacce: ci attendono nuove e preziose possibilità, ma anche nuove e terribili minacce. Ci troviamo di fronte ad un tempo che non dominiamo, e nel quale dobbiamo trovare nuovi cammini. In ogni caso, le ripercussioni di questo cambio d’epoca riguardano tutto in noi: spirito e corpo, individuo e società, dimensione profana e trascendenza. Le relazioni umane non sono più le stesse di prima. Scopriamo nuovi aspetti nel rapporto tra sesso maschile e sesso femminile che hanno impresso un nuovo stile alle relazioni tra uomo e donna (tanto nella famiglia, quanto nella società). Di fronte all’accumulo di potere economico e politico emergono nuove forme di potere (terrorismo, mafie) che minacciano l’ordine esistente: ne sono coinvolti milioni di esseri umani, che patiscono le conseguenze di questa lotta. La nostra umanità è caratterizzata da una sorprendente mobilità – reale e virtuale – che impedisce ritmi sereni, tappe prevedibili e ci espone ad una forte incertezza. La crescita economica è reale, ma non riesce a impedire il contemporaneo aumento della povertà tra milioni di esseri umani. Sono molti i contrasti e le pressioni che si abbattono sulla psicologia umana, tanto che molte persone non reggono l’impatto, cadono in depressione e, non di rado, impazziscono. Tutti soffriamo oggi come mai prima di una notevole perdita del “senso della vita” e della storia.

2. La Chiesa e l’Ordine in questo nuovo contesto

4. Anche la Chiesa è toccata da questo cambio epocale. Non è più la stessa di prima.

Ø Il suo volto oggi è più globale e mondiale. E’ più multiculturale e multirazziale che mai.

Ø Avverte in se stessa tutte le possibilità del nuovo tempo, ma patisce contemporaneamente tutte le minacce e le disgrazie che il cambio d’epoca comporta.

Ø Spronata dalla misericordia, che la costituisce, la madre Chiesa desidera accogliere tutti ed aprirsi – in modo speciale – ai più bisognosi.

Ø Ascolta con nuova attenzione ed atteggiamento creativo le parole del Risorto che la invia come missionaria in tutto il mondo, a tutte le genti per annunziare il Vangelo e rendere presente la Misericordia.

5. In questo contesto, il carisma di Giovanni di Dio riacquista una formidabile attualità che è necessario far risaltare e delineare. L’Ordine ha fatto proprio con audacia e serietà il processo di rinnovamento avviato dal Concilio Vaticano II. Ha riflettuto profondamente sul carisma nel nostro tempo e si è posto nuove sfide e nuove mete. Così ha dato un nuovo volto al carisma di Giovanni di Dio adatto a questo tempo[4]. Non dobbiamo però fermarci; oggi è necessaria quel tipo di fantasia creativa, che ha nelle giovani generazioni i suoi depositari migliori. In queste circostanze storiche, in questo mondo pluricentrico e globale, in questa Chiesa di Chiese particolari e cattolica, l’Ordine deve essere capace di intuire nuove risposte e nuovi cammini nello Spirito. Oltre ai Confratelli, bussano alle porte dell’Ordine anche altre persone che si sentono arricchite dal carisma di Giovanni di Dio. Per questo motivo oggi esiste una nuova apertura verso la “missione condivisa”, la “spiritualità condivisa”, come nuova definizione dell’identità dell’Ordine. Oggi l’Ordine mostra un volto pluralista, interculturale ed interrazziale[5] e si sente chiamato a proporre il cammino spirituale di Giovanni di Dio anche a uomini e donne che non appartengono più solo alle culture occidentali, come succedeva finora.

6. La sfida di aprirci alla ricchezza spirituale di nazioni e culture diverse, senza per questo perdere l’eredità spirituale ricevuta, dà un nuovo respiro al nostro carisma storico, come Ordine. Le giovani generazioni avvertono nel loro intimo un forte bisogno culturale. C’è una frattura culturale tra le generazioni che non deve essere sottovalutato. Solo le persone che si sono mantenute aperte alla realtà, riescono a comprendere ed accompagnare adeguatamente le giovani generazioni nella loro ricerca e nelle loro aspirazioni. Oggi emergono sfide nuove ed inedite; non è più sufficiente accogliere il carisma come eredità ricevuta. Bisogna riconfigurarlo, dargli un nuovo volto, interpretarlo in modo più attuale. Occorre far “ardere il cuore”, non solo ai membri dell’Ordine, ma anche alla società, alla gente, alla Chiesa. Il compito di rifondare la spiritualità sarà un impegno impossibile se non siamo convinti che lo Spirito sta agendo tra noi offrendoci come grazia ciò che tanto appassionatamente stiamo cercando. In cambio lo Spirito esige da noi solo di essere vigili e di saper accogliere e seguire i nuovi cammini che ci si aprono dinanzi.

7. L’obiettivo del presente documento è offrire gli elementi fondamentali della spiritualità dell’Ordine nel nuovo contesto storico e pluralismo etnico-culturale in cui viviamo. Il documento si suddivide in tre parti:

I. La Memoria: le origini carismatiche.

II. Le chiavi evangeliche: Misericordia e Ospitalità.

III. L’itinerario spirituale: una spiritualità ospedaliera per il nostro tempo.

I. La memoria: le origini carismatiche

8. Contempliamo ora il cammino spirituale di San Giovanni di Dio. In lui scopriamo il disegno originale e l’icona del nostro “cammino spirituale”.

1. Il Cammino spirituale di San Giovanni di Dio

9. Giovanni di Dio fu un uomo in cammino, un viaggiatore: nella sua vita ci furono tante peregrinazioni e lunghi viaggi. In esse iniziò ad delinearsi l’itinerario del suo viaggio interiore, del suo cammino spirituale. Giovanni di Dio fece della propria vita un cammino che lo portò – a piedi nudi e attraverso un sentiero scosceso[6] – verso la vetta. Paradossalmente, trovò la vetta scendendo negli abissi più profondi della miseria umana. Nella sua vita possiamo distinguere quattro tappe che abbiamo denominato: vuoto, chiamata, trasformazione e identificazione.

a) Vuoto: fare spazio alla grazia – prima tappa -

10. Dopo una serie di insuccessi, Giovanni di Dio sperimentò il vuoto e scoprì la pienezza di Dio: “Dio prima di tutto e sopra tutte le cose del mondo!”[7]. Non ebbe fortuna nelle sue prime avventure come soldato: cadde da cavallo a terra – come San Paolo -, spaventato e senza nessun aiuto, se non quello che poteva venirgli dal cielo[8]. Non ebbe maggior fortuna come militare, quando un capitano lo condannò a morte per impiccagione, perché aveva perso un bottino che gli era stato dato in custodia; ed anche se l’esecuzione non ebbe luogo, fu espulso dall’accampamento e restò in miseria. Nel suo cammino da Fuenterrabía a Oropesa si lamentava della “cattiva ricompensa che il mondo dà a chi più lo segue”[9]. Dopo nove anni di silenzio, Giovanni si arruolò di nuovo nell’esercito dell’Imperatore per lottare contro i turchi. Al ritorno da Vienna sbarcò a La Coruña. La vicinanza della sua terra natale destò in lui la nostalgia per i suoi genitori, da quali era stato separato all’età di otto anni, ma la sua pena fu grande quando venne a sapere che erano morti entrambi[10]. Si sentì vuoto. Scoprì l’inconsistenza della vita[11]: “Anche nel caso fossimo i padroni di tutto il mondo, non ci accontenteremmo se avessimo molto di più [12]; per questo, si decise a “non confidare in se stesso”[13].

b) La chiamata: al servizio definitivo del Signore Dio – seconda tappa -

11. Lo zio gli offrì di rimanere in quella che era stata la casa dei suoi genitori, ma egli rifiutò con queste parole: “La mia volontà è di non rimanere in questa terra, ma di cercare un luogo dove io possa servire nostro Signore …confido nel mio Signore Gesù Cristo che mi darà la sua grazia perché io possa realmente mettere in pratica il mio desiderio”[14]. E continuò a cercare senza trovare. Tornò a fare il pastore a Siviglia. “Non vedendo ancora quale via nostro Signore gli avrebbe aperto per servirlo”, se ne andava triste[15]. Alla fine, ruppe definitivamente con la pastorizia. Si recò a Ceuta. Lì, per soccorrere una famiglia i cui componenti erano malati, si mise a lavorare nella “fortificazione di alcune muraglie”; ed ogni notte “consegnava la paga della giornata”[16]. Superò una profonda crisi spirituale con l’aiuto di un frate dotto, che gli disse espressamente di abbandonare quella terra e di tornarsene in Spagna. Giunto a Gibilterra, fece una confessione generale. Giovanni, alle volte tra le lacrime, chiedeva pace, tranquillità e di capire la forma di servizio destinatagli dal Signore: “Date pace e tranquillità a quest’anima”. E la preghiera si convertiva in un’offerta ogni volta più generosa fino a culminare nell’unico desiderio: Voglio “servirvi ed essere per sempre vostro schiavo”.

“Chiedeva sempre a nostro Signore, con tutto il cuore e molte lacrime, che gli aprisse la via in cui doveva servirlo”: “Vi supplico quanto posso, mio Signore, di degnarvi di indicarmi il cammino che devo intraprendere per servirvi”[17].

12. Si procurava il sostentamento realizzando diversi lavori, fino a quando trovò nella vendita di libri, dapprima come ambulante, un’occupazione continua. Desideroso di stabilizzare la propria vita con il nuovo lavoro, con il quale realizzava un apostolato, oltre a guadagnare denaro sufficiente per vivere e per fare opere di carità, decise di “recarsi a Granada ed ivi stabilire la sua dimora”[18]. A Granada sperimentò una certa serenità, dedicandosi alle faccende del suo lavoro, ma continuò a sentire sempre quella voce interiore che chiedeva insistentemente di essere ascoltata. Il giorno della festa di San Sebastiano si recò al Romitorio dei Martiri per udire, mischiato tra gli altri, il sermone del Maestro Giovanni d’Avila[19]. Lì lo attendeva il Signore.

13. Il maestro Avila divenne la sua guida spirituale. Lo colpì in modo particolare il suo commento a Lc 6,17-32 (Beatitudini e beatitudine dei poveri):

“Terminata la predica, uscì di là, come fuori di sé, chiedendo ad alta voce misericordia a Dio…e continuò fino alla sua dimora…prese i libri che aveva e …li dava volentieri gratuitamente al primo che glieli chiedesse per amor di Dio… e tutto il resto che aveva in casa… in poco tempo rimase senza capitale e privo di tutti i beni materiali, perché non si limitò soltanto a questo, ma diede anche gli indumenti che aveva addosso… E così, nudo, scalzo e col capo scoperto, tornò nuovamente a gridare per le strade principali di Granada, volendo, nudo, seguire Gesù Cristo nudo, e farsi totalmente povero per colui che, essendo la ricchezza di tutte le creature, si fece povero per mostrare ad esse il cammino dell’umiltà”[20].

c) Trasformazione: trasformato dalla Parola di Dio – terza tappa -

14. A partire da questo momento, la vocazione di Giovanni di Dio si definisce come un voler, nudo, seguire Gesù Cristo nudo e farsi del tutto povero per colui che si fece povero.

“Essendo stato visto da persone onorate… considerando che quella non era pazzia, come comunemente si giudicava…lo condussero nella dimora del padre Avila…Il padre maestro Avila rendeva molte grazie a nostro Signore, vedendo i grandi segni di contrizione del nuovo penitente…dicendo: “Fratello Giovanni, confortatevi molto in nostro Signore Gesù Cristo e confidate nella sua misericordia, poiché avendo egli incominciato quest’opera, la porterà a compimento…andate in pace con la benedizione del Signore e mia, perché io confido nel Signore che non vi sarà negata la sua misericordia. Giovanni di Dio rimase tanto consolato …che ricuperò di nuovo le forse…per desiderare di essere da tutti preso e stimato pazzo e cattivo e degno di ogni disprezzo e disonore, per meglio servire e piacere a Gesù Cristo, poiché viveva solo sotto il suo sguardo[21].

“Avendolo visto in tale stato due uomini dabbene della città, mossi a compassione…lo condussero all’Ospedale Reale, che è il luogo dove vengono rinchiusi e curati i pazzi della città…e dato che la principale cura che ivi si pratica a questi tali consiste in sferzate e nel contenerli in aspri vincoli, e cose simili, affinché, mediante il dolore e il castigo, perdano feroci…gli legarono i piedi e le mani, e, nudo, con un flagello a doppia corda, gli diedero una buona dose di frustate…”[22]

15. Nell’Ospedale Reale Giovanni trovò la risposta alla sua affannosa ricerca di servire il Signore dove e come Lui desiderava. L’esperienza di sentirsi tra coloro che avevano perso la parte più pregevole della persona, la ragione, e sentirsi con ciò sprofondato nel pozzo più profondo del disprezzo e della commiserazione, gli ricordò il cammino percorso da Cristo per poter riabilitare l’umanità: era necessario incarnarsi nel mondo della miseria umana, patire il disprezzo di coloro che si credono saggi e normali, per ottenere la riabilitazione di quanti percorrono il cammino della malattia, della povertà e della pazzia; era necessario diventare uno di loro per mostrare che anche loro erano persone, figli di Dio come lui… come tutti.

“E vedendo castigare gli infermi, che erano pazzi e stavano insieme con lui, diceva: Gesù Cristo mi dia la grazia di avere io un ospedale, dove possa raccogliere i poveri abbandonati e privi della ragione, e servirli come desidero io”.[23]

16. Giovanni fu “ferito dall’amore di Gesù Cristo”[24]. E qui ricevette “la grazia che doveva fargli”[25]. Scoprì il cammino che aveva tanto cercato e desiderato, quando si fece solidale con i poveri ed i malati vivendo e patendo la loro stessa condizione.

d) Identificazione: povero come Gesù e come i poveri – quarta tappa -

17. Iniziò a percorrere il suo nuovo e definitivo cammino: raccoglieva legna rivendendola; con ciò che ricavava, si nutriva poco e male per dare il resto ai poveri. La sua casa erano i portici delle piazze e delle strade di Granada, sulle quali condivideva con i diseredati il caldo ed il freddo, le amarezze e le speranze. Decise di farsi mendicante per alleviare la sofferenza e la miseria dei suoi fratelli, dicendo ad alta voce: “Chi fa del bene a se stesso? Fate bene per amor di Dio, fratelli miei in Gesù Cristo!”[26]

18. Vedendo i poveri “buttati giù per quei portici, intirizziti e nudi, piagati ed infermi…vedendone la moltitudine…decise di procurar loro con maggiore impegno il rimedio”[27]. Con l’aiuto di alcune persone pie prese in affitto una casa, la dotò dell’indispensabile ed iniziò a portarvi “i poveri caricandoseli sulle spalle che trovava per la città”[28]. Così Gesù Cristo iniziava a permettergli di mettere in pratica il suo proposito di avere un ospedale, in cui curare i malati come gli comandava il suo cuore.

19. Per Giovanni di Dio l’ospedale è un luogo sacro, la casa di Dio. E’ un ospedale-rifugio, aperto a tutti i poveri abbandonati senza distinzione, perché Dio fa sorgere il sole per tutti, nel quale l’ospite è il “signore” e Giovanni il suo schiavo:

Dato che “la città è grande e molto fredda, particolarmente in questo tempo d’inverno, sono molti i poveri che giungono a questa casa di Dio…vi si ricevono indistintamente (persone affette) da ogni malattia e gente d’ogni tipo, sicché vi sono degli storpi, dei monchi, dei lebbrosi, dei muti, dei matti, dei paralitici, dei tignosi e altri molto vecchi e molti bambini; senza poi contare molti altri pellegrini e viandanti che vengono qui”.[29]

20. La gente era sbigottita e non comprendeva che “il Signore lo aveva messo nella cantina del vino ed ivi aveva stabilito in lui la sua carità”[30]. Giovanni cresceva nella contemplazione della “grande misericordia di Dio” facendosi esso stesso misericordia e gratuità: “Soccorreva tutti secondo le loro necessità, e non mandava via nessuno sconsolato”[31]; “tutto quello che faceva e dava gli sembrava poco…e viveva con l’ansia di dare se stesso in mille modi[32]. La gente diceva di lui: “Viveva completamente in Dio per la sua grande carità”[33]; “cercava sempre la carità e di fare l’elemosina”[34]. Trascorreva notti intere chiedendo al Signore “aiuto per le necessità che vedeva, con profondi gemiti e sospiri”[35]. Giovanni di Dio riconosceva che “le buone opere che gli uomini fanno, non sono loro, ma di Dio: a Dio onore, gloria e lode, perché tutto è di Dio. Amen Gesù”[36]. Per questo, “tutto quello che faceva e dava gli sembrava poco”[37], perché viveva immerso nell’immensità della misericordia di Dio, che “era stato tanto magnanimo e munifico con lui”[38]. Per questo, il suo maggior dolore era di non poter porre rimedio a tutte le necessità: ciò gli spezzava il cuore[39], perché “si era in tal modo inebriato del suo amore (del Signore), che non negava nessuna cosa …essendo pietosissimo con tutti”[40]. Giovanni di Dio mangiava “una cipolla cotta o altri alimenti di poco prezzo”, e dormiva “sopra una semplice stuoia sul pavimento, coprendosi con un pezzo di vecchia coperta, in uno stanzino molto angusto sotto una scala”[41]. In uno scantinato, sotto la scala dell’ospedale, Giovanni di Dio vive la stessa povertà dei suoi poveri.

21. Un giorno scopre che può impegnare se stesso, dare se stesso come pegno per poter continuare a porre rimedio a tanto dolore. Non esita un momento, chiede prestiti, si indebita, i debiti si moltiplicano, continua ad indebitarsi, deve “più di duecento ducati”[42], ma la soluzione al problema rimane lontana. Le angustie “ogni giorno aumentano e…sempre più aumentano i debiti e i poveri”[43]. I debiti aumentano così tanto che i creditori gli chiudono le porte: “non vogliono più farmi credito, dovendo molto”[44]. La tenaglia si stringe e lo tormenta: i debiti e le necessità dei tanti poveri da accudire lo chiudono in un vicolo cieco. “Vedendomi tanto indebitato, molte volte non esco di casa a motivo dei debiti che ho”[45].

22. Nella preghiera scopre il senso di tutto: “mi trovo indebitato e prigioniero solo per Gesù Cristo”[46]. Prigione e indebitamento diventeranno per lui una catena perpetua, dalla quale non si libererà né potrà più liberarsi per tutta la vita. Poco prima di morire, lascerà nelle mani dell’Arcivescovo di Granada, Don Pedro Guerrero, il libro dei “debiti che debbo pagare e che ho fatto per amore di Gesù Cristo”[47]. E “poiché sentiva in sé che si avvicinava la sua dipartita, si alzò dal letto e si mise in ginocchio sul pavimento, abbracciando un crocifisso, stette un po’ in silenzio e poi disse: Gesù, Gesù, nelle tue mani mi affido. E, detto questo con voce forte e ben chiara, rese l’anima al suo Creatore”[48].

23. Giovanni di Dio fu provato dalle angustie e dalla sofferenza. Come Gesù, si fece stolto tra gli stolti e venne arricchito, grazie alla sua fedeltà, con il dono della vera saggezza: comprese che la dignità della persona si fonda sulla ricchezza del cuore; come Gesù, scoprì che la lotta contro il male e la sofferenza è un imperativo umano e, come lui, si dedicò a fare del bene a tutti, a incominciare dai gruppi più discriminati: malati di ogni tipo, peccatori, prostitute…a costo di essere disprezzato e calunniato. Come Gesù, contemplò il mondo degli uomini con occhi compassionevoli e misericordiosi e, grazie al suo amore senza limiti, trasmise amore, divenne fratello di tutti e diede inizio ad un cammino di solidarietà ospedaliera. Come Gesù, scese negli abissi più profondi della miseria umana, lasciandosi ricoverare nell’Ospedale Reale. E in questo luogo Dio continuò a parlare a Giovanni, questa volta attraverso i gridi, i lamenti e la disperazione dei suoi fratelli infermi; così Dio rispose all’intensa ricerca di Giovanni e alla sua decisione di voler “nudo, seguire Gesù Cristo nudo, e farsi totalmente povero per colui che, essendo la ricchezza di tutte le creature, si fece povero per mostrare ad esse il cammino dell’umiltà”[49].

Sintesi: Giovanni di Dio seguì un cammino spirituale che lo portò dalla durezza scarna della spogliazione alla pazzia nella quale Gesù Cristo lo contagiò con il suo infinito amore. Forte di questa esperienza scelse di inserirsi nella povertà e nell’emarginazione dei bassi fondi di Granada, sino a giungere, a imitazione del Maestro, ad una identificazione mistica con i più poveri assumendo le loro umiliazioni e sofferenze fino alla morte.

2. Tradizione: trasmissione dello spirito del Fondatore e Padre

a) Padre e fratello nello Spirito: i primi fratelli

24. Il dono di Giovanni di Dio era irradiante. Il suo spirito era contagioso. Il suo amore ai poveri e ai malati animò molti ad unirsi alla sua opera di carità. La maggior parte come benefattori che lo aiutavano con le loro elemosine; altri, desiderosi di lavorare con lui nel servizio ai bisognosi; qualcuno decise di vivere con lui un nuovo stile di seguire ed imitare Gesù. Con questi ultimi costituì una comunità di fratelli. Non reputò necessario dare loro delle norme di vita oltre al proprio modo di vivere.

26. Per esperienza personale sapeva che servire Gesù Cristo nei suoi poveri supponeva realizzare un cammino per niente facile. A chi voleva vivere con lui e come lui, rammentava questo fatto con parole semplici, ma decise. Era necessario essere disposti a svuotarsi di se stesso, a “lasciare la pelle e il resto”[50], a superare dubbi e incertezze ed un andamento di vita “come barca senza remo, come una pietra vagante[51]; invitava ad essere consapevole delle proprie debolezze e fragilità, per non lasciarsi trasportare da entusiasmi repentini, tenendo conto che nel futuro avrebbe dovuto essere “assuefatto a fatiche e all’alternarsi di giornate assai nere o molto buone”[52], per cui sarebbe stato opportuno prendersi del tempo per discernere la chiamata, raccomandandosi “molto a nostro Signore Gesù Cristo”[53] e percorrere il cammino dell’ascesi personale: “soffrire vita dura, fame e sete e ignominie e stanchezze, e angustie e affanni e contrarietà…tutto si deve patire per Dio, perché se venite qui, dovete soffrire tutto questo per amore di Dio”[54]. Esortava a vivere in relazione con Dio e ad accostarsi frequentemente ai sacramenti: “tutti i giorni della vostra vita guardate a Dio, assistete sempre all’intera Messa, confessatevi frequentemente, se sarà possibile”[55]. In definitiva, chiunque volesse unirsi al suo stile di vita, doveva intraprendere un processo di conoscenza e di intimità con Gesù Cristo, che lo avrebbe motivato all’imitazione della sua dedizione nell’amore a Dio ed al prossimo; Giovanni di Dio non si adegua alle mediocrità; propone di raggiungere il grado più alto dell’amore: “Ricordatevi di nostro Signore Gesù Cristo e della sua benedetta Passione, che restituì, per il male che gli facevano, il bene: così dovete fare voi …quando verrete alla casa di Dio, sappiate conoscere il male e il bene”[56]; non nasconde neanche le difficoltà e le esigenze: “se venite qui, dovete obbedire molto e lavorare molto più di quanto abbiate lavorato…e non poltrire, perché al figlio più amato si affidano le maggiori fatiche…e tutto nelle cose di Dio e perdere il sonno nella cura dei poveri; perché se venite qui, dovete soffrire tutto questo per amore di Dio; e di tutto dovete rendere molte grazie a Dio per il bene e per il male”[57]. Come criterio finale, che dà senso a tutto il resto, propone di aspirare a basare e a centrare la propria vita nell’esperienza di vita che animava tutto il suo amare ed il suo operare: “Amate nostro Signore Gesù Cristo sopra tutte le cose del mondo, ché per molto che lo amiate, molto più Lui ama voi; abbiate sempre carità, perché dove non c’è carità, non c’è Dio, anche se Dio è in ogni luogo”[58].

27. Desiderava dei fratelli che avessero sperimentato profondamente la misericordia di Dio[59]; in questo modo avrebbero vissuto impregnati d’amore sin nel profondo, disponibili al servizio in ogni dettaglio, fedeli, comprensivi, capaci al perdono e alla riconciliazione ed uniti tra di loro. Con il suo modo di essere e di porsi di fronte alla vita, trasmetteva loro una sicurezza incrollabile nella sua fede e nel carisma ricevuto. Molto presto, i cittadini di Granada vedono che “..i fratelli vanno per le strade cercando i poveri e li portano all’ospedale in braccio o sulle spalle, e li curano con grande carità…E’ cosa pubblica che i fratelli, incontrando i poveri per le strade, se li caricano sulle spalle e li portano all’ospedale[60]. Era nato nella Chiesa l’Ordine dei Fratelli di Giovanni di Dio.

b) Lo spirito ospedaliero ereditato

28. I primi compagni[61] di Giovanni di Dio condivisero il suo spirito ospedaliero e lo diffusero. Antón Martín fu come una prosecuzione di Giovanni di Dio; fondò e diresse l’Ospedale di Nostra Signora dell’Amore di Dio, a Madrid, al quale alla sua morte, fu dato il suo nome[62]; Pedro Velasco, trasformato dalla grazia come Antón Martín, che prima era suo nemico e del quale desiderava l’uccisione, si unì al Santo imitando la sua vita, e morì nell’Ospedale di San Giovanni di Dio di Granada. Entrambi furono toccati dalla misericordia di Dio grazie alla testimonianza misericordiosa di Giovanni e sono prove eloquenti di riconciliazione e fraternità ospedaliera. Gli altri compagni sono ricordati da testimoni come ospedalieri, molto vicini ai poveri e ai malati che assistevano; riconoscevano che Giovanni di Dio fu il loro iniziatore[63] e lo imitavano nella sua ospitalità senza frontiere[64]. Vent’anni dopo la sua morte, lo spirito ospedaliero continuava a vivere con grande forza.

29. Questo spirito è rimasto vivo lungo tutta la storia dell’Ordine. Annoveriamo, anzitutto, coloro che la Chiesa ha proclamato Santi, Beati e Venerabili: San Giovanni Grande, San Riccardo Pampuri, San Benedetto Menni; numerosi Beati Martiri; altri confratelli la cui causa di beatificazione è ancora in corso (Francisco Camacho, José Olallo Valdés, Eustachio Kugler, William Gagnon); e tanti altri che nella storia dell’Ordine hanno sopportato il martirio e la persecuzione per Cristo e per l’ospitalità in Brasile, Colombia, Cile, Polonia, Filippine, Francia, Spagna e, recentemente, in altri paesi.

30. La spiritualità si è trasmessa anche attraverso i fondatori ed i rifondatori di comunità ed opere dell’Ordine: sono i confratelli Pietro Soriano (Italia); Giovanni Bonelli (Francia); Gabriele Ferrara e Giovanni Battista Cassinetti (Austria/Germania/Europa Centrale), Francisco Hernández (America). In tempi più recenti si ricordano Paul de Magallon (Francia), Eberhard Hacke e Magnobon Markmiller (Germania), Giovanni Maria Alfieri (Italia) e San Benedetto Menni (Spagna, Portogallo e Messico). Lo spirito ospedaliero si è manifestato anche in diversi collaboratori che hanno partecipato alla missione ed allo spirito carismatico.

31. I valori spirituali che hanno animato questa lunga storia, a partire dall’esperienza originaria di Giovanni di Dio, sono i seguenti :

Ø Esperienza profonda della “grazia” e della “misericordia” di Dio, che porta a riconoscersi peccatori bisognosi di perdono e ad accogliere il dono dell’ospitalità concesso da Dio con tanta generosità a Giovanni di Dio e ai suoi[65]. Giovanni di Dio sperimentò l’infinito amore misericordioso del Padre e si sentì spinto a vivere misericordiosamente, soprattutto dalla contemplazione della Passione e morte di Gesù Cristo. Lo espresse in modo semplice e profondo in queste parole alla Duchessa di Sessa: Se considerassimo quanto è grande la misericordia di Dio, non cesseremmo mai di fare il bene mentre possiamo farlo;…diamo per suo amore ai poveri quello che Lui stesso ci dà […] E ci prega con le braccia aperte di convertirci, di piangere i nostri peccati e di avere la carità prima verso le nostre anime, poi verso il prossimo (1 D.S., 13). Quando invitava a contemplare la Passione del Signore, lo faceva per esortare alla preghiera di ringraziamento e di contemplazione, a ravvivare la speranza in Gesù Cristo, nel quale trovare consolazione e coraggio nelle difficoltà e nelle sofferenze, e a fare il bene ai poveri e ai bisognosi. (Cf. 3 DS. 8.9; 2 DS. 9.19). Da Giovanni di Dio, la Passione di Cristo continua ad avere un posto privilegiato nel nostro cammino spirituale.[66]

Ø Sequela di Gesù compassionevole e misericordioso[67]: scopriamo in Gesù l’incarnazione e l’espressione umana del Dio-Misericordia, origine della nostra ospitalità (Cost. 20); lo seguiamo ed imitiamo nei suoi gesti ed atteggiamenti (Cost. 2c; 3a); lo riconosciamo nella persona e nel volto del malato e del bisognoso, accogliendolo e prestandogli aiuto amorevole.

Ø Devozione alla Vergine Maria come esempio vivo e sublime dell’ospitalità: nel suo modo di accogliere, servire, di intercedere, di stare in modo compassionevole al fianco di chi soffre [68].

Ø Esperienza armonica ed integrale dell’amore a Dio ed al prossimo bisognoso[69].

Ø Solidità spirituale di fronte agli ostacoli: l’esperienza della grazia è tale che non esiste difficoltà né sofferenza che possano interrompere ciò che facciamo per i poveri, malati e bisognosi.

Ø Ospitalità irradiante: come Giovanni di Dio, anche i suoi seguaci hanno ricevuto la grazia di un’ospitalità irradiante e vigorosa che invitava gli altri a partecipare a nuovi progetti ospedalieri e ad entrare in comunione di carisma e spiritualità con essi. L’irradiazione carismatica era accompagnata da un’attenta formazione dei collaboratori nello spirito di Giovanni di Dio.

Ø L’attenzione alla persona del malato e del bisognoso come contributo dell’Ordine all’unica missione della Chiesa[70].

Ø Professionalità: la tradizione ospedaliera dell’Ordine testimonia l’impegno a unire la missione ospedaliera con la tecnica, la scienza e l’aggiornamento dei mezzi, secondo i problemi e le possibilità che ogni epoca presenta.

Ø Spirito di dedizione fino alla morte: è una costante in tanti seguaci di Giovanni di Dio la disponibilità a donarsi senza riserve, sino al sacrificio della propria vita a favore dei malati e dei bisognosi. Lo dimostrano i fatti eroici che costellano la storia dell’Ordine in luoghi e tempi diversi: durante le epidemie, le guerre, i pericoli…

Ø Inculturazione tra i poveri, o umiltà ospedaliera: è la continenza o la “kénosis” ospedaliera, che portava i Confratelli a rinunciare alla vita confortevole e a qualsiasi tipo di grandezza, adattandosi allo stile di vita umile dei poveri e dei malati.

3. L’ “oggi” del carisma di Giovanni di Dio: missione condivisa e inculturazione

32. Giovanni di Dio condivise il dono che aveva ricevuto, con tutte le persone che si sentirono contagiate dal suo modo di vivere il cristianesimo ed il suo amore ai bisognosi: gente semplice che si univa a lui nel servizio, benefattori anonimi e personaggi appartenenti alla nobiltà che lo sostenevano con i loro beni, presbiteri che collaboravano con lui nell’assistenza spirituale di coloro che vivevano nell’ospedale e molti altri: volontari, medici e gente di servizio che assieme a lui ed ai confratelli si occupavano dei malati.

33. Il dono dell’ospitalità, secondo lo stile di Giovanni di Dio, è andato irradiandosi costantemente, giungendo anche a persone non sempre animate dai valori della fede cristiana. Il carisma trasmesso si è manifestato in un’ammirevole creatività traducendosi in una serie di opere adattate a tempi e luoghi diversi. Siamo sempre più consapevoli che il carisma dell’ospitalità secondo lo stile di Giovanni di Dio trascende l’ambito dei Confratelli che hanno professato nell’Ordine. Si sta imponendo sempre più una nuova visione dell’Ordine come “famiglia”, forte della quale accogliamo – come dono dello Spirito nel nostro tempo – la possibilità di condividere il carisma, la spiritualità e la missione[71]. Questa realtà che si è andata affermando lentamente nell’Ordine, è una sfida che esige da noi di vivere “così compenetrati con la nostra missione, che i nostri collaboratori si sentono spinti ad agire nello stesso modo”[72], non solo perché le opere apostoliche dell’Ordine, soprattutto nei paesi industrializzati, sono diventate enormemente complesse, ma per ché ci sentiamo spinti dall’imperativo evangelico di condividere con gioia e gratuitamente ciò che gratuitamente abbiamo ricevuto dal Signore, per il bene della comunità ecclesiale e l’annuncio del vangelo della misericordia.

34. I confratelli missionari – nel realizzare la missione “ad gentes”- hanno reso possibile che il carisma di Giovanni di Dio si estendesse in modo considerevole e si inculturasse; ora si sta verificando il passaggio dall’inculturazione alla incarnazione del carisma e della missione dell’Ordine attraverso i confratelli autoctoni. Ciò significa che è necessario superare le forme di vivere la consacrazione nell’ospitalità secondo lo stile delle nazioni di provenienza dei missionari, per promuovere lo stile e le forme di viverlo di ogni cultura, conservando l’elemento genuino e perenne del carisma. Le esigenze sono ancora più significative nell’apostolato nel quale si deve passare progressivamente da uno stile di organizzazione dell’assistenza di stampo da primo mondo a forme attuative dell’ospitalità che siano adatti alla rispettiva realtà e che si incarnino nell’ambito socio-ecclesiale, senza rinunciare al valore chiave della tradizione dell’Ordine di promuovere un’assistenza degna fondata sui progressi della scienza e della tecnica e realizzata da confratelli e collaboratori ben qualificati.

35. In questo modo il carisma di Giovanni di Dio si arriccherà da una parte con i valori di ogni cultura, mentre dall’altra l’Ordine continuerà ad essere coscienza critica nei luoghi in cui l’assistenza sanitaria e sociale è carente, e promuoverà un sano sviluppo delle strutture sanitarie e assistenziali alle quali possano accedere tutti, in special modo le persone più sfavorite.

II. Il Fondamento: Misericordia e Ospitalita’

come categorie basilari

36. L’Ordine ha articolato il carisma di Giovanni di Dio in due parole che sono strettamente legate tra loro: “misericordia” e “ospitalità” [73], che ritroviamo anche nella Parola di Dio; anche nel nostro tempo, sono due termini che ci parlano di valori umani molto ben accettati in tutte le culture. Presentiamo di seguito alcune brevi riflessioni su ognuna di esse, come perno attorno al quale ruota la spiritualità peculiare dell’Ordine. Perciò, parleremo:

Ø in primo luogo, della misericordia, come categoria biblica ed antropologica;

Ø in secondo luogo, rifletteremo sull’ospitalità in senso biblico ed antropologico;

Ø in entrambi i punti metteremo in luce la risonanza peculiare che questi temi hanno trovato nel carisma dell’Ordine, tenendo conto in modo particolare delle Costituzioni attuali.

1. Premessa: misericordia e ospitalità, colpa e violenza

37. La misericordia è, anzitutto, capacità di comprensione, di compassione, di perdono, di essere agenti di riconciliazione, capacità che si rivela soprattutto nel modo in cui si reagisce di fronte alla colpa, di fronte al peccato. Noi esseri umani possiamo agire fedeli al progetto di Dio o, viceversa, abbiamo la possibilità di violare la sua volontà, le norme umane, i patti che abbiamo stipulato. Vivere privilegiando l’essere, con atteggiamenti positivi, crea armonia, promuove lo sviluppo della propria persona e favorisce ambienti di serenità e di solidarietà. Viceversa, la trasgressione si ripercuote sulla nostra psicologia turbandola o squilibrandola; la conseguenza è che ci sentiamo colpevoli, sviluppiamo un senso di colpa che condiziona tutte le dimensioni della nostra vita. Quando

Ø uno si sa e si sente colpevole di fronte a Dio, parliamo di peccato,

Ø uno si sa e si sente colpevole di fronte a se e di fronte agli altri, parliamo di colpamorale” o “etica”,

Ø si attua una violazione di unna norma fondamentale nel nostro sistema di valori, affiora in noi la coscienza di colpa, emergono i sensi di colpa.

38. Per questo, non bisogna negare la colpa, ma neppure favorire complessi di colpa che ingrandiscono e deformano la realtà. Perdonare – saper perdonare e sapersi perdonato – rappresenta il superamento più radicale della colpa, del peccato.

39. L’ospitalità è, anzitutto, la capacità umana di aprirsi ed accogliere l’altro; in secondo luogo è la capacità di reagire in un determinato modo di fronte alla violenza. La violenza c’è laddove esiste l’antagonismo tra di noi e non siamo capaci di vivere in pace, di incontrarci come persone. La violenza interiore ci fa preferire il conflitto, la lotta, la distruzione. La violenza fa scattare in noi le molle peggiori (i peccati radicali) e stimola la nostra aggressività. La violenza originale non ha le sue radici nella guerra di tutti contro tutti, ma nell’ostilità di una comunità umana – famiglia, villaggio, nazione, religione, entità culturale – verso gli estranei e gli stranieri. Quando la violenza dello spirito si erige a legge universale, reclama per se il monopolio della civilizzazione e combatte la diversità umana. C’è violenza laddove viene negato il diverso.

40. La violenza religiosa afferma “Dio è con noi!” e nega la presenza di Dio in chi è diverso. Chi crede che Dio sia soltanto con lui, non deve niente a nessuno. Ciò dà luogo all’egoismo sacro: “Affinché possa esistere io, è necessario che l’altro non esista”. Per questo, la violenza sacra è fondamentalista ed omicida verso gli altri; ma è anche distruttiva per coloro che la praticano. Solo l’accoglienza dell’altro, del diverso, l’ospitalità – la filoxenia e non la xenofobia! – si oppone alla violenza.

2. La Misericordia

a) Il Dio della Misericordia

41. La caratteristica suprema di Dio, secondo l’Antico Testamento, è la misericordia e non la violenza[74]. La misericordia supera infinitamente l’ira: “in un impeto di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma con affetto perenne ho avuto pietà di te” (Is 54,8). Il testo paradigmatico che esprime la misericordia, come identità di Dio, è Es 34,6-7:

“Il Signore passò davanti a lui proclamando: “il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa de padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione”…

42. Qui Dio viene definito come “rahum”, colui che ha un amore sviscerato, materno, profondo, un amore di cuore. Questo amore misericordioso è totalmente gratuito, non è una risposta ai meriti, ma un’esigenza del cuore. Misericordia è, perciò, bontà, tenerezza, pazienza, comprensione, disponibilità a perdonare malgrado l’infedeltà.

43. La misericordia di Dio si manifesta sempre in contesti in cui è stata violata l’Alleanza. Il popolo, cosciente della propria infedeltà, allora ricorreva alla misericordia di Dio. Le trasgressioni all’Alleanza suscitavano l’ira e la collera di Dio; ma con i profeti (Ezechiele e Deutero-Isaia), le minacce si convertirono in annunci di consolazione e manifestazioni di misericordia, in vangelo (il lieto annunzio) per i poveri (Is 40; 61).

b) L’incarnazione della Misericordia

44. Il testo di Fil 2,6-11 ci dice che Dio “spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”. Il Dio onnipotente rinunciò al potere: “sto in mezzo a voi come colui che serve”. (Lc 22, 27; cf. Mt 22, 25-28) Il Dio onnipotente non distrugge meccanicamente il male e la morte, ma li assume su di se. Per questo, di fronte alla sofferenza degli innocenti, o agli episodi assurdi della vita, il nostro Dio si mostra come debolezza invincibile. E proprio perché Dio si manifesta come debole, soffre con l’essere umano. La sofferenza è il pane che Dio condivide con noi. La misericordia divina è la penitenza di Dio, la debolezza di Dio. La debolezza di Dio corrisponde alla debolezza dell’essere umano. Il nostro Dio si presenta sempre come protagonista del perdono. Ed è proprio perdonando e praticando la misericordia, che il nostro Dio si rivela come tale all’uomo.

45. Il nuovo testamento presenta Gesù come uomo del perdono, come il grande terapeuta del perdono. In Lui si prende corpo tutta la misericordia di Dio. In un ambito tanto peculiare com’è quello del perdono (cfr. Mc 2, 7; Lc 15), Gesù fa le veci del Padre. Gesù si preoccupa delle persone nella loro totalità, entra nel loro intimo, nel loro cuore, senza però fermarsi all’anima, alla psiche, ma curando anche il corpo. “La terapia che Gesù somministrava, era lui stesso” (Hanna Wolff). Perdonando Gesù mette in moto nel perdonato un processo di recupero integrale. In Gesù si rivela la misericordia, non la violenza. L’incarnazione è l’abbassamento di Dio verso l’uomo (kénosis di Dio). E’ il segnale che Dio non è violento. Ama la debolezza e si fa debole. Gesù non appare con il carattere assoluto di una persona sacra, ma come uno “simile agli uomini” (Fil 2, 7), come uno di questo mondo. Gesù si fa prossimo di tutti, senza eccezione. Ama tutti, perché è l’icona di Dio, e Dio è Amore (1Gv 4, 7). Rifiuta senza riserve ogni tipo di violenza. Gesù presenta suo Padre (Abbá) non come padrone, ma come amico; non come dominatore, ma come servitore; afferma che le cose essenziali non sono rivelate ai sapienti, ma ai piccoli (Mt 11, 25; Lc 10, 21). Il filo conduttore della storia, iniziata da Gesù, è la riduzione delle strutture forti, la rinuncia alla violenza e all’efficientismo; per questo, raccomanda tanto il perdono ed invita a perdonare sempre di nuovo, fino a settanta volte sette! (Mt 18, 22). Gesù si manifesta così come il grande educatore che conduce a fonti tranquille ed insegna come superare la violenza – sacra o sociale che sia.

46. L’inno che apre la lettera agli Efesini enfatizza la magnificenza di Dio che, in Gesù ed attraverso di lui, ci concede il perdono dei peccati. Se la gratuità costituisce uno dei tratti sorprendenti di Dio, la misericordia in particolare ce lo rende più vicino ed accessibile. Il nostro Dio non solo dona gratuitamente, ma, nel perdonare, si dona come misericordia. Avere misericordia è un elemento peculiare di Dio. Dio sviluppa la sua presenza tra gli uomini perdonando. “chi può rimettere i peccati, se non Dio soltanto?” (Lc 5,21; Mc 2,7). Gesù assume il protagonismo riservato a Dio. L’incarnazione del Figlio di Dio è stata la manifestazione suprema della Misericordia. L’Abbá è il “padre misericordioso e Dio di ogni consolazione” (2 Cor 1,3), è il “Dio ricco di misericordia” (Ef ,2,4).

47. L’identificazione di Gesù, non solo con l’uomo, ma specialmente con l’uomo che ha fame e sete, con i forestieri, i carcerati e tutti i bisognosi (Mt 25,34-45), ci mostra fino a dove arriva la misericordia che egli incarna. Gesù stesso è – come quelli con i quali si identifica – vittima della violenza. Egli non trova misericordia, tanto che sulla croce si domanda: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27, 45). Ma il Figlio fu ascoltato e la sua preghiera sbocciò nella Risurrezione. Risuscitò dalle viscere di Abbá: Tu sei mio Figlio, e io oggi ti ho generato (Cfr. Sal 2, 7; Heb 1, 5). Nacque per la vita eterna dalle viscere misericordiose di Abbá.

c) La misericordia nel carisma dell’Ordine

48. La “misericordia” è l’asse del carisma e della spiritualità di Giovanni di Dio[75] e del suo Ordine[76]. E noi vogliamo essere nella Chiesa un’icona vivente e collettiva della Misericordia.

Ø Punto di partenza: riconosciamo che siamo misericordiosi nella misura in cui sia Giovanni di Dio sia ciascuno di noi è stato toccato dalla Misericordia di Dio e l’ha sperimentata nella propria vita: “se considerassimo quanto è grande la misericordia di Dio, non cesseremmo mai di fare il bene mentre possiamo farlo”[77]. Ci sentiamo destinati e consacrati ad essere misericordiosi. Desideriamo “ amare Gesù al di sopra di tutte le cose del mondo e per amore suo e bontà vogliamo fare il bene e la carità ai poveri e ai bisognosi”; vogliamo imitare nostra Signora la Vergine Maria “sempre intatta” nel suo amore materno (Cost. 4b.c).

Ø Il nostro obiettivo spirituale consiste nell’ “incarnare con sempre maggiore profondità i sentimenti di Cristo verso l’uomo ammalato e bisognoso e manifestarli con gesti di misericordia”; “farci deboli con il debole”; essere per lui segno ed annuncio dell’arrivo del Regno di Dio (Cost. 3). La nostra risposta vocazionale ci porta a coltivare in noi un amore ogni volta più intenso verso i poveri, i bisognosi ed i peccatori.

Ø Lo stile che ci caratterizza sin dalle origini, si esprime nelle seguenti virtù: “servizio umile, paziente e responsabile; rispetto e fedeltà alla persona; comprensione, benevolenza e abnegazione; partecipazione alle sue angosce e alle sue speranze” (Cost. 3b).

3. L’Ospitalità

49. L’Ordine ha espresso tradizionalmente il carisma ricevuto con la parola “ospitalità”. Questo termine, non solo non ha perso la sua forza espressiva nel nostro tempo, ma è stato proposto da alcuni come categoria fondamentale di una nuova etica per il nostro tempo[78]. E’ importante perciò riflettere su di essa, come perno intorno al quale gira la spiritualità peculiare dell’Ordine.

a) Cos’è l’ospitalità

50. L’ospitalità ci parla delle relazioni che si stabiliscono tra un ospite e la persona che lo accoglie (l’anfitrione). In queste relazioni ci sono degli obblighi e delle responsabilità. L’ospite e l’anfitrione si trovano in una relazione reciproca: non esiste l’uno senza l’altro. L’ospite è un assente che in qualsiasi momento può farsi presente e rivendicare il suo diritto di ospitalità. Laddove vige l’ospitalità, l’assente ha dei diritti nei confronti dell’anfitrione (essere accolto) e l’anfitrione, anche se non costituito in quanto tale, ha dei doveri nei confronti dell’ospite che bussa alla sua porta (accoglierlo),

51. Perché gli esseri umani sono ospitali? Non è facile sapere il motivo; ad ogni modo, la relazione dell’ospitalità non è meccanica, giacché l’ospite può andar via o l’anfitrione può ritirare la sua offerta di accoglienza; ma neanche arbitraria, dato che l’anfitrione si sente moralmente obbligato a ricevere un ospite, anche se inopportuno.

52. La caratteristica fondamentale dell’ospitalità è l’accoglienza ed il riconoscimento dell’ospite da parte dell’anfitrione; ma questo riconoscimento e questa accoglienza hanno delle caratteristiche speciali:

Ø L’ospitalità è virtualmente universale. L’ospite può essere qualsiasi persona; riconoscerla come ospite presuppone un passaggio molto importante verso il riconoscimento di tutti gli esseri umani come ospiti virtuali. Qualsiasi persona al mondo è un ospite virtuale, o un anfitrione virtuale. In molte culture è proibito chiedere all’ospite da dove proviene o il suo nome, come se fosse una rappresentazione simbolica dell’assente. La tutela dell’anonimato dell’ospite è il segnale che in lui vediamo qualsiasi persona del mondo. I nostri doveri verso i visitatori che ci vengono a trovare sono molto concreti. Mostrare un certo disinteresse a conoscerne il nome, la provenienza o l’origine, non significa disprezzo, ma propensione ad un’ospitalità aperta a tutto il mondo.

Ø L’ospitalità è indice di un alto senso della moralità e della politica. L’ospite non solo viene ricevuto in quanto determinato individuo, ma anche come ambasciatore sostituibile, come rappresentante di altri poiché gli esseri umani formano gruppi, comunità, società, nazioni; ogni individuo è inserito in un gruppo. L’ospitalità ci mette di fronte, perciò, a qualcosa che ha un notevole significato etico e politico: l’accoglienza del forestiero, dell’altro, di colui che non fa parte “dei miei”. L’ospitalità è il riconoscimento dei “diversi”: accettiamo che l’ospite sia diverso da noi e gli diamo la libertà di esserlo.

Ø L’ospitalità è virtualmente sacra. In non poche popolazioni si incontra la convinzione che questo “altro” che è l’ospite, è rivestito di mistero. Una certa sacralità lo avvolge. L’ospite potrebbe essere un dio. Che gli dei vengano come ospiti tra gli uomini è un tema frequente nella mitologia greca, nella Bibbia e nella tradizione di molte culture diverse. Si diceva che gli dei assumessero frequentemente forme irriconoscibili e chiedessero aiuto agli umani. La lettera agli Ebrei dice che alcuni avevano ospitato degli angeli senza saperlo (Eb 13,2). In questo modo si sanziona da un punto di vista religioso il diritto di ospitalità: con i forestieri bisogna comportarsi come se si trattasse della visita di un Dio. La figura dell’ospite è connotata da una certa ambiguità, che la presenta come un luogo incerto, in cui viene messo in gioco qualcosa d’importante per noi. E’ un luogo di paura e di desiderio allo stesso tempo. L’ospite si tramuta in simbolo di mediazione tra due sfere distinte. Nel ricevere l’ospite ha luogo un incontro tra esseri di ordini distinti: il divino, il lontano, l’illimitato ed inconcepibile, viene accolto in un ambito umano. Quest’incontro ha, in alcune occasioni, il carattere di un’irruzione violenta che distrugge l’ordine stabilito e spezza l’equilibrio dello spazio familiare; in ogni caso, risulta sempre come qualcosa di imponderabile e sconcertante.

Ø L’ospitalità è un avvenimento. E’ imprevedibile ed incontrollabile. Non sappiamo quando avverrà, né con chi. L’anfitrione è sempre preparato perché l’ospite può arrivare nel momento più inaspettato.

Ø Ogni incontro di ospitalità è unico e richiede sempre l’attenzione per una persona concreta; dev’essere realizzato ed interpretato secondo le caratteristiche delle persone che esercitano le funzioni di ospite o di anfitrione. I doveri dell’ospite e dell’anfitrione sono generali, ma vengono esercitati nell’ambito di un orizzonte determinato e finito. Uno può essere disposto ad adempiere agli obblighi che impone l’attenzione a qualsiasi essere umano, indipendentemente dalle sue peculiarità, in virtù della sua appartenenza al genere umano, ma queste esigenze si fanno presenti sempre in una persona umana particolare. Un anfitrione che sta aspettando l’ospite universale, l’unico che secondo lui che merita veramente attenzione – respingendo nel contempo tutti i viandanti che bussano alla sua porta perché nessuno di loro realizza appieno la condizione umana – nega l’evento dell’ospitalità.

b) L’ospitalità nella Rivelazione

53. La rivelazione giudaico-cristiana è particolarmente sensibile all’evento dell’ospitalità[79]. Inizia narrando come Dio accolse l’uomo nel suo giardino: si adoperò per il suo ospite (“fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare”), gli offrì cibo e vestiti (“Fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì” – Gen 2,8-9; 3,21). La rivelazione conclude narrando come Dio chiede ospitalità all’uomo: “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20).

54. L’ospitalità rese gli uomini ospiti di Dio, e Dio ospite degli esseri umani e questi ultimi ospiti tra di loro. Adamo ed Eva furono ospiti di Dio nel giardino dell’Eden. Abramo, e dopo il popolo che era in Egitto, furono condotti alla terra dove sgorgano latte e miele, e lì furono ospiti di Dio: “la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti” (Lev 25,23; cfr. Sal 23,5; 27,10). Dio fu ospite di Abramo ed abitò sotto la tenda alle Querce di Mamre; poi fu ospite del popolo che camminava nel deserto dimorando nella tenda del convegno. Alla fine accettò di rimanere nella casa del Tempio: “la gloria del Signore riempiva il tempio” (1 Re 8,10-11). L’ospitalità aprì gli occhi agli uomini, affinché si vedessero e si riconoscessero come ospiti tra di loro. Abramo e Mosé si sentivano forestieri in terra straniera. Così anche il popolo in Egitto. Compresero che l’ospitalità è una componente connaturata dell’uomo.

55. Ospitalità è l’accoglienza di ciascun essere umano nel seno materno. Ospitalità ricevuta e donata in tende, case, città o paesi. L’ospitalità non era intesa come una semplice accoglienza dell’ospite; implicava la sua “inclusione” nel proprio raggio di di interessi, difendendolo contro i nemici, proteggendolo, rispettandolo profondamente a livello esistenziale, prendendosi cura di lui in tutte le eventuali necessità.

56. Icone dell’ospitalità nell’Antico Testamento furono: Abramo che accoglie i tre uomini, la vedova di Sarepta ed Elia nell’ospitalità reciproca, la prostituta di Jerico, Rahab, che accoglie gli inviati di Giosuè, l’anziano che accoglie il levita e sua moglie (Gdc 19), Tobia, l’arcangelo Raffaele, Rut.

57. Il Nuovo Testamento è la grande esplosione dell’ospitalità portata al culmine. Gesù è il sacramento del Dio che ci accoglie, che ci serve e ci cura, che ristabilisce la nostra dignità e la nostra salute, che si identifica con noi, che ci lava i piedi e muore per noi. Varrebbe la pena – ad esempio – contemplare la figura di Gesù nel vangelo di Luca, come un autentico cammino di ospitalità. Anche Gesù riceve l’ospitalità uomo: l’ospitalità di Maria nel suo grembo, di alcuni farisei, di Marta e Maria, di Zaccheo, ecc. La spiritualità cristiana attribuisce un valore talmente alto all’ospitalità che riconosce la presenza di Gesù anche e soprattuto nei poveri, nei carcerati, nei malati, in tutti quegli esseri umani che hanno bisogno della nostra solidarietà, del nostro amore, del nostro servizio.

58. La grande parabola cristiana dell’ospitalità è la parabola del buon Samaritano. Alla domanda del dottore della legge: chi è il mio prossimo?, Gesù risponde narrando la parabola. Si potrebbe supporre che il prossimo fosse colui che era caduto nelle mani dei banditi, la persona bisognosa. Ma Gesù stravolge la domanda del dottore della legge e chiede: chi dei tre ti sembra sia stato il prossimo? (Lc 10,36). Ciò che è importante per Gesù non è che esista il prossimo, o che ci siano persone che vedano le necessità degli altri, ma che si può acquisire lo status di prossimo esercitando la misericordia verso i bisognosi. Per questo, il dottore della legge non deve preoccuparsi di cercare persone che si trovino nel bisogno, ma deve farsi prossimo e esercitare la misericordia come il Samaritano. Nella parabola si fondono ospitalità e misericordia.

c) L’ospitalità nel nostro Padre San Giovanni di Dio

59. Giovanni di Dio fece della sua vita un progetto, un cammino di ospitalità misericordiosa. Ma in questa grande proposta antropologica e biblica, si sentì chiamato a mettere in risalto nella sua esistenza l’ospitalità nei confronti dei più poveri, dei più derelitti tra gli esseri umani, i malati fisici e psichici, senza alcun tipo di esclusione o discriminazione. Per Giovanni di Dio l’ospitalità, così intesa, fu la ragione della sua vita. Fu questo il carisma che ricevette, con un’intensità sconvolgente e a volte incomprensibile. Accolse tutti, andò incontro all’altro. Gli diede tutto ciò che aveva. Si identificò con l’altro; gli donò il suo tempo. Scoprì il carattere sacro dell’estraneo.

60. Lo stile della sua ospitalità era di accogliere e servire il malato come fratello e prossimo. La sua preoccupazione principale era consolare con le parole e fornire il necessario ai pazienti: Si occupava tutto il giorno…e la sera, quando tornava a casa, per quanto stanco fosse, non si ritirava mai senza aver prima visitato tutti gli infermi, uno per uno, e chiesto loro com’era andata la giornata, come stavano e di che cosa avevano bisogno, e con parole molto amorevoli li confortava spiritualmente e corporalmente .[80] Amare il Signore nei poveri e nei malati gli dava una gioia incontenibile [81].

61. La carità di Giovanni fu molto creativa. Lo mostra chiaramente una delle descrizioni del suo ospedale: Essendo questa una casa per tutti, vi si ricevono indistintamente persone affette da ogni malattia e gente d’ogni tipo, sicché vi sono degli storpi, dei monchi, dei lebbrosi, dei muti, de matti, dei paralitici, dei tignosi e altri molto vecchi e molti bambini; senza poi contare molti altri pellegrini e viandanti che vengono qui.[82] Lo aveva dimostrato con il suo modo di chiedere la carità, che convertì in apostolato, ricordando a chi dava che il primo bene dell’elemosina ricadeva proprio sul donatore stesso. Giovanni di Dio non escludeva nessuno dal suo amore senza limiti. Un amore che, sia quando si centrava sui poveri, sia quando invece era rivolto ai ricchi, aveva la sua origine nell’amore di Gesù Cristo e a Gesù Cristo, che amò tutti come fratelli e sorelle.

62. L’identificazione con Cristo fece di Giovanni di Dio un buon maestro di misericordia: Dio gli concesse un cuore compassionevole e profondamente umano. Come Gesù, insegnò più con le opere che con le parole. Non si preoccupò di redigere statuti o norme di vita; si limitò a vivere il dono che lo animava, a fare il bene, a pregare per lunghe ore durante le notte, a visitare uno per uno i suo malati, e ad ascoltare tutti con grande pazienza, consolando e aiutando ciascuno secondo le necessità e le possibilità. Come Gesù, visse, amò e servì donando la vita per tutti; come Gesù, lasciò un solo precetto che illuminasse quanto doveva essere in seguito codificato per aiutare a mantenere vivo il suo spirito nelle persone e nelle opere dell’Ordine.[83] I Confratelli che seguirono il suo stile di vita, appresero da lui ad accogliere, servire ed amare i poveri malati con i gesti che gli videro praticare e che più tardi raccolsero nelle Costituzioni dell’Ordine per perpetuare il modello di ospitalità ereditato dal Fondatore:

“Nei nostri Ospedali si dovrà fare in modo che il servizio che si rende al Signore nei suoi poveri gli sia gradito, per cui (…) prima di mettere il malato a letto, gli si taglieranno i capelli e le unghie, non essendo dannoso alla salute, e gli si laveranno le mani ed i piedi e, ove necessario, tutto il corpo, con acqua calda preparata allo scopo; e fatto ciò si vestirà con una camicia pulita e gli si metterà una cuffia o un berretto da notte, e così pulito il malato sarà messo a letto, che avrà lenzuola e guanciale puliti; e se fosse inverno, lo si riscalderà, ed in questa maniera gli si applicheranno i rimedi corporali ”.[84]

d) L’Ospitalità nelle Costituzioni e nei documenti dell’Ordine

63. La ragion d’essere della vocazione del Fatebenefratello è mantenere “viva la presenza misericordiosa di Gesù di Nazareth”, incarnando “i suoi sentimenti verso l’uomo ammalato e bisognoso”, per manifestare che “rimane vivo tra gli uomini”[85]. Gesù di Nazareth è la “fonte e corona” della nostra spiritualità[86]. Il Fatebenefratello ha una missione ed un ministero del tutto particolare: rappresentare Gesù nel servizio ai malati, nell’accoglienza ai poveri ed abbandonati. Gesù trasmise la pace del Regno a coloro che erano stanchi e umiliati, la liberazione a quanti si sentivano oppressi dal male e dalle malattie, la serenità a quelli che si sentivano turbati.

64. Obiettivo del testo delle Costituzioni è offrire all’Ordine un nuovo orizzonte di spiritualità in tempi nuovi. L’Ordine è consapevole che senza conversione ed un serio impegno spirituale non può portare avanti il rinnovamento chiesto dal Concilio.[87] Nel suo processo di rinnovamento, l’Ordine ha individuato diverse opzioni:

Ø L’umanizzazione dell’assistenza: la prima finalità dell’Ordine consiste nel difendere la dignità della persona malata (Cost. 10d; 12c; 23a; 28b; 43d)[88]. L’apostolato ospedaliero si identifica in questo modo con l’umanizzazione. Si scopre, allo stesso tempo, la necessità di umanizzare la vita religiosa e di potenziare gli aspetti umanizzanti nei Confratelli: “umanizzarsi per umanizzare”. Senza attenzione all’elemento umano, si perde il senso stesso del carisma di servi dell’ospitalità.

Ø L’obiettivo della vocazione ospedaliera è entrare in Alleanza con l’essere umano che soffre, che è il modo di esprimere carismaticamente l’Alleanza con Dio.

Ø Consiste, inoltre, nel creare vincoli di fratellanza. Giovanni di Dio si sentì fratello di tutti: dal più povero al Principe Filippo[89]. Creare legami di fratellanza è la caratteristica che deve distinguere il Fatebenefratello a incominciare dal sentirsi fratello della persona che soffre e di quanti condividono con lui il ministero dell’ospitalità (45b; 46b.c; 23), operatori, volontari e benefattori, con i quali è chiamato a vivere un’Alleanza a favore del servizio e della promozione della vita.[90]

Ø L’ospitalità dev’essere intesa partendo dall’opzione preferenziale per i poveri e dall’umanizzazione (Cost. 5a)[91] del servizio ai malati e ai bisognosi in generale.

4. Ripensare la Misericordia e l’Ospitalità nel nostro tempo: il rapporto con “l’estraneo”

a) Il rapporto con “l’estraneo”

65. I fenomeni dell’ospitalità e della misericordia ci parlano del rapporto dell’uomo con il prossimo, il fratello, e con “l’estraneo”. Questa realtà estranea può essere l’amico (comunione!) o il nemico (ostilità!), lo straniero che ci fa paura, o il nostro stesso corpo come scenario di sofferenza, o le conseguenze esterne delle nostre azioni (cfr. Rom 7). L’incontro con “l’altro”, “l’amico”, “il nemico”, “ lo straniero”, “l’estraneo”, può provocare reazioni differenti: allegria, accoglienza, solidarietà, irritazione, paura, curiosità, interesse per l’esotico. La non conoscenza dell’altro produce paura; appare minaccioso ed affascinante allo stesso tempo: minaccioso perché entra in competizione con ciò che ci è proprio e familiare; affascinante perché l’estraneo fa sorgere possibilità sino ad ora inedite nella propria vita.

66. L’estraneo è sempre ciò che si trova fuori dal proprio ambito, dal proprio spazio, che appartiene ad altro. E’ ciò che si oppone, l’incomprensibile, l’insolito, l’eterogeneo, il non disponibile. La realtà appare come estranea quando si pone in relazione con “il mio”, “il proprio”; affinché qualcosa possa essere definito come estraneo o proprio, è necessario che si riconosca la relazione tra i due termini; per questo, l’estraneo è tale quando in un certo senso già ci appartiene: riconosciamo il proprio dall’estraneo e l’estraneo dal proprio. Per questo, l’ospite non è il viaggiatore che viene e se ne va, ma il viaggiatore che viene e rimane; anche se solo provvisoriamente. L’ospite occupa uno spazio di frontiera. Anche l’anfitrione che lo accoglie. Lo spazio che occupano non è né dell’uno né dell’altro.

67. L’estraneo è anche, e soprattutto, ciò che si trova fuori dal nostro tempo. Ogni persona vive il “suo” tempo. Possiamo parlare degli altri come di “altri tempi”, altri ritmi. Convivere, perciò, significa accordare tempi e ritmi, armonizzare il tempo degli altri con il mio tempo. L’ospitalità si delinea come una questione strettamente vincolata al rispetto del tempo degli altri e non tanto, o solo, un rispetto dei suoi spazi. Considerato con la propria temporalità, l’altro generalmente è una persona inopportuna, qualcuno che tende, in modo fastidioso, ad affrettare o a ritardare. Gli altri sono più lenti o più rapidi di noi, abitano una temporalità che, per una ragione o l’altra, ci risulta estranea o che ci sembra impropria. Coloro che sono veramente estranei non sono quelli che vivono lontani, ma quelli che vivono in un altro tempo. L’emarginato non si trova alla periferia dello spazio, ma vive letteralmente in un altro tempo. Per questo, l’ospitalità ha molto a che vedere con la capacità di “perdere tempo”, o di “dedicare il proprio tempo”.

68. L’estraneo – sia spaziale, sia temporale – è sempre ciò che ci interpella, che accade in modo imprevedibile, insondabile. Ed esige una nostra risposta. Non rispondere all’estraneo è anch’essa una forma di risposta: si neutralizzano così le domande future, ci si protegge contro un futuro imprevedibile. L’estraneo può mettere in crisi la nostra identità. In questo consiste la sua ricchezza ed il suo rischio. L’esperienza culturale dell’estraneo comporta sempre un confronto con le possibili alternative della propria vita, e provoca una messa alla prova di ciò che è proprio. L’estraneo è un capitale per arricchire e correggere la limitazione delle proprie posizioni. Durkheim diceva – in questo senso – che la qualità morale di una cultura si misura dal suo rapporto con l’estraneo. Ciò a cui rispondiamo oltrepassa sempre ciò che offriamo come risposta.

b) Apprendere l’ospitalità e la misericordia

69. L’ospitalità così intesa, e la misericordia come amore e non violenza, ci mostrano le verità fondamentali dell’essere umano. La persona scopre se stessa andando incontro ad altre persone. La scoperta di sé è un atto intersoggettivo. Conosciamo i nostri diritti e i nostri doveri nella misura in cui andiamo incontro all’altro. Scoprirsi come ospite o anfitrione, come colui che è accolto o colui che offre accoglienza, è scoprire un’identità che dà origine ad obblighi e a responsabilità. Gli individui si costituiscono come persone solamente attraverso la prospettiva di approvazione o disapprovazione da parte degli altri.

70. Com’è giusto l’aforisma di Merleau-Ponty: “Dobbiamo imparare a considerare il proprio come estraneo, e l’estraneo come proprio”. Ciò si raggiunge imparando ad esercitare un tipo di ospitalità e di misericordia che non sia opprimente, né indifferente, ma che sia capace di stare con l’eterogeneo e sappia sopportare la contingenza propria ed altrui. L’ospitalità e la misericordia si apprendono abituandosi ad interessarsi all’estraneo, rispettandolo e cercando di farsi carico delle sue peculiarità.

c) In missione di misericordia ed ospitalità “oggi”

71. Nelle attuali condizioni di vita, la mobilità è molto facile, e l’esperienza dell’estraneo si fa ogni volta più frequente nell’esistenza delle persone. Assistiamo ad enormi ondate di immigrazione ed emigrazione. Ci troviamo nella società del movimento, della globalizzazione. Viviamo in società multiculturali, che ci fanno scoprire e provare il pluralismo. Ci viene chiesto di essere tolleranti con il diverso, con ciò che ci è estraneo. Questa situazione ci fa vedere che non esistono blocchi compatti, omogenei, che non ci sono realtà definite e delimitate; ci sorprendiamo nel constatare come il proprio si fa estraneo, e ciò che inizialmente ci è estraneo passa a far parte dell’ambito del proprio. Le società complesse richiedono una maggiore sensibilità verso le realtà escluse causate solitamente da un’eccessiva affermazione della propria identità o da un determinato ordine sociale. Nella società contemporanea assistiamo ad una sorta di perdita di gravità dell’individuo: si sente meno vincolato di prima ad un territorio, è meno controllabile; vive in modo più disinvolto ed interdipendente. Ci troviamo in uno scenario in cui ha poco senso insistere sull’identità come se fosse qualcosa di definito e di definitivo. Oggi preferiamo parlare di “identità complessa” (Amin Maalouf). E’ partendo dall’estraneo che riusciamo a comprendere meglio il proprio.

72. Le situazioni ingiuste del nostro mondo sono arcinote. Il numero dei poveri e degli emarginati non diminuisce, ma al contrario aumenta, malgrado le nuove tecnologie ed i processi di globalizzazione. La concezione sacra dell’essere umano cede il passo agli idoli, davanti ai quali si prostrano le società moderne in riverente venerazione. L’educazione che la società (mezzi di comunicazione, ambiente socio-economico) offre alle nuove generazioni non esalta il valore dell’ospitalità, ma al contrario privilegia l’individualismo, la visione materialista ed edonista della vita. Questa mentalità non riesce però ad arginare – perché non ne è capace – fenomeni perversi come il consumo ed il traffico di droghe, la pornografia ed il disordine affettivo con la conseguente perdita della dignità della sessualità umana, la crescita della povertà e dell’ingiustizia, il manifestarsi di tante e nuove malattie che colpiscono milioni di essere umani. Di pari passo con il degrado dell’umanità, va il degrado ecologico (acqua: zone costiere, risorse marine inquinate dalle attività industriali e minerarie; inquinamento dell’aria: industrie tessili, alimentari, raffinerie petrolifere; manipolazione genetica), il degrado ambientale (saccheggio della natura, esaurimento delle risorse, la minaccia di uno squilibrio ecologico).

73. La nostra capacità di ospitalità si vede inoltre di fronte all’enorme sfida dell’esplosione demografica. Ogni giorno l’umanità aumenta di 220.000 persone. La rapida crescita della popolazione fa emergere nuove sfide: sradicamento delle famiglie, urbanizzazione, sfruttamento insostenibile delle risorse disponibili ed accessibili per far fronte alle grandi necessità della popolazione. Sembra che in non pochi luoghi e persone, l’umanità abbia perduto il senso della sacralità della vita: guerre fratricide, violenza contro donne indifese, sfruttamento di bambini innocenti, un capitalismo disumano che fa crescere sempre più il divario tra ricchi e poveri. C’è un grande dislivello tra il 30% degli uomini che vivono nell’opulenza materiale ed il rimanente 70% condannato a rimanere nella povertà e senza gli elementi basilari della vita; sono minacciate inoltre le culture dei poveri per mancanza di risorse e per la forte la seduzione che esercitano i modelli di sviluppo materiale importati da fuori.

74. Gli atteggiamenti di accoglienza e di riconoscimento, di servizio e di solidarietà (ospitalità!) dei nostri contemporanei, manifestano tutto il loro splendore in molteplici istituzioni ed iniziative: volontariato, ONG, istituzioni sociali di vario tipo, eserciti di pace, movimenti a favore della giustizia, dell’ecologia, della dignità umana, rifiuto di qualsiasi tipo di xenofobia, ecc. Ci sono inoltre molte popolazioni della terra che conservano le loro preziose tradizioni di ospitalità, come uno dei valori più preziosi. E’ vero però che in queste popolazioni il valore dell’ospitalità sta subendo un certo declino a causa del valore – parimenti fondamentale – della sicurezza; il senso di insicurezza causato da violenze, guerre, crimini, terrorismo, è talmente forte che i valori tradizionali di ospitalità ne hanno risentono molto. In questa rete di fratellanza umana è presente, con la sua tradizione, l’Ordine dei Fatebenefratelli, che desidera essere all’altezza dei tempi e rispondere con nuovo vigore alla sua vocazione specifica, offrendo spazi in cui l’organizzazione, la professionalità, la tecnica e l’umanizzazione si coniughino ed armonizzino con atteggiamenti e gesti di accoglienza, servizio, solidarietà e risanamento della sofferenza fisica e morale.

III. L’Itinerario spirituale

ripercorrere “oggi” il cammino di giovanni di dio

1. La spiritualità oggi

75. Nella Chiesa – ed anche nel nostro mondo! – c’è una grande sete di spiritualità. Di fronte alla mancanza di senso, all’accumulo di problemi che ci sembrano insolubili, alle vertigini dell’era del movimento, sentiamo tutti la necessità di avvicinarci al Mistero, allo Spirito che dà stabilità e ragion d’essere. Siamo assetati di spiritualità. La Chiesa stessa ha canalizzato questa sete in diverse proposte di spiritualità.

76. Oggi assistiamo ad una sorta di globalizzazione o mondializzazione della spiritualità. Il dialogo interreligioso ha prodotto stupendi risultati in questo campo. Allo stesso tempo, però, si sta rivendicando un aspetto più locale della spiritualità. Per questo, si sta delineando una nuova spiritualità con tratti africani, o asiatici, o americani, o europei…Alle soglie di un nuovo secolo, intendiamo la spiritualità in un modo più integrale. La spiritualità ha a che vedere con il corpo e con l’anima, con l’individuo e la comunità o la società, con l’aspetto locale e quello mondiale, con la religiosità particolare e quella ecumenica… Lo stesso avviene nel nostro Ordine. C’è in esso una spiritualità globalizzata, che risponde al dono ricevuto, ma allo stesso tempo la nostra spiritualità peculiare acquisisce tratti particolari e locali nelle diverse zone della terra.

77. Intendiamo la spiritualità come un processo, un cammino, in cui distinguiamo diverse tappe. Le nostre Costituzioni ci indicano la meta. E’ necessario trovare il cammino per giungere ad essa, il metodo di spiritualità più adeguato. Lo Spirito è il nostro “maestro interiore”; ci porta alla perfezione dell’Amore, dell’Alleanza, dell’unione con Dio, con gli altri e con il cosmo. In questa vita non arriviamo mai alla meta, e per questo, sono eloquenti le parole di Gregorio di Nissa nella sua “Vita di Mosé”:

“Interrompere il cammino verso la virtù è l’inizio del cammino verso il vizio…Tutto ciò che si misura quantitativamente è contenuto in certi suoi limiti. Per la virtù invece abbiamo appreso dall’apostolo che il solo limite della perfezione è non avere limite… Forse la perfezione della natura umana consiste nell’essere sempre disposti a conseguire un bene maggiore”.

78. La Chiesa presenta a noi religiosi questa stessa prospettiva nel documento “Ripartire da Cristo”, constatando che:

“Proprio nella semplice quotidianità, la vita consacrata cresce in progressiva maturazione per diventare annuncio di un modo di vivere alternativo a quello del mondo e della cultura dominante…Oltre all’attiva presenza di nuove generazioni di persone consacrate che rendono viva la presenza di Cristo nel mondo e lo splendore dei carismi ecclesiali, è pure particolarmente significativa la presenza nascosta e feconda di consacrati e consacrate che conoscono l’anzianità, la solitudine, la malattia e la sofferenza. Al servizio già reso e alla saggezza che possono condividere con altri, essi aggiungono il proprio prezioso contributo unendosi con la loro oblazione al Cristo paziente e glorificato in favore del suo Corpo che è la Chiesa (cfr. Col 1, 24)” (Ripartire da Cristo, n.6[92]).

2. Il paradigma o modello del nostro cammino spirituale

79. “La nostra ospitalità ha la sua origine nella vita di Gesù di Nazareth” (Cost. 20), che fu imitato fedelmente dal nostro Fondatore San Giovanni di Dio, che si dedicò interamente al servizio ed alla salvezza dei poveri e dei malati (Cost. 1a). Adesso Giovanni di Dio siamo noi: condividiamo il suo dono, la sua fede, la sua sensibilità di fronte alla sofferenza umana, la sua dedizione incondizionata al servizio, la sua umiltà e creatività caritativa[93]. Il suo itinerario spirituale è la proposta pedagogica che lo Spirito Santo ci offre per potenziare il carisma dell’ospitalità. Anche noi, come lui, siamo persone in cammino, viaggiatori e pellegrini in un mondo globalizzato ed enormemente complesso. Il pellegrinaggio interiore di Giovanni di Dio, il suo cammino spirituale verso la cima della discesa, verso la miseria umana, sono per noi la migliore proposta in fatto di spiritualità, missione e comunione (Cost. 5): Sono casa e scuola di spiritualità!

80. Le tappe percorse da Giovanni di Dio: “vuoto - chiamata – trasformazione – identificazione”, ci indicano quali sono le tappe del nostro cammino. Le dobbiamo però intendere non come tappe lineari e successive, ma come una spirale, poiché si riproducono in ciascun’età della nostra vita. Giovanni di Dio si trasforma per noi in simbolo di un cammino che ci porta di svuotamento (kénosis) in svuotamento e dallo svuotamento al servizio fino alla morte (cfr. Fil 2, 6-11).

a) Esperienza del vuoto: distaccarsi per “nascere di nuovo”

81. In ogni itinerario si parte da un luogo per giungere ad un altro. La partenza implica la disponibilit a distaccarsi: quello che era il nostro stato normale di vita, il nostro territorio vitale, inizia a perdere senso. Ci sentiamo come stranieri in casa nostra. Inizia così il processo che segna l’inizio di un cammino, che molte volte non sappiamo dove ci condurrà. Siamo Giovanni di Dio e, come lui, abbiamo sentito la vacuità delle cose di questo mondo; assieme a lui facciamo l’esperienza del distacco.

82. Questa esperienza è magistralmente riflessa nella figura biblica di Mosé ed il Popolo. In un primo momento, Mosé affrontava la vita con la saggezza degli egiziani. Poco alla volta, dopo un lungo viaggio attraverso il deserto, scoprì che chi guidava la sua vita e quella del Popolo era Yahweh. Rinunciò per questo alle certezze immediate ed ai falsi dei, ed accettò nella sua vita l’iniziativa dell’unico Dio che lo esortava a togliere le tende, a camminare superando ostacoli e barriere: barriere mentali e emotive (paura, tendenza a scoraggiarsi, rifiuto dello sforzo necessario per la conquista del futuro promesso), che sono più forti e violente del deserto e delle acque.

83. Il cammino spirituale si intraprende dopo aver sperimentato per la prima volta la limitazione delmondo, della vita. Si sente, per grazia di Dio, la accidentalità di tutto – nulla di ciò che vediamo è assolutamente necessario! -. Cerchiamo il senso della vita, della storia, e troviamo solo risposte parziali o contraddittorie. Ciò che sembra più promettente, si rivela deludente. Le carenze affettive, la frustrazione, le delusioni o i fallimenti (famiglia, amicizie, studio, progetti…), ci inducono a porci delle domande sulla consistenza dei valori che predominano nella società, e a ricercare quelli che possono dare un senso alla vita. Persino il maggior successo può risultare insufficiente per l’inquietudine del cuore umano: “Signore, ci hai creati per te e il nostro cuore rimane inquieto finché non riposa in te” (Sant’Agostino). E, soprattutto, Gesù ci dice: “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?” (Lc 9,25). L’esperienza della chiamata, della vocazione, è di solito il primo passo verso un cambiamento di vita. La voce di Dio è potente e fa tacere tutte le altre voci; invita ad “andare oltre” e suscita il desiderio per qualcosa di diverso.

84. Quest’esperienza può sorgere in diverse occasioni nell’arco della vita. Sono quelli i momenti in cui abbiamo bisogno di “nascere di nuovo”, perché abbiamo vissuto dei grandi fallimenti, interiori o esteriori. Sono momenti caotici, nella vita, esperienze di morte che sembrano “sbarrare” ogni strada verso il futuro. L’esperienza del vuoto può portare allo scoraggiamento, all’accettazione passiva della realtà, a lasciarsi condurre dalla vita invece di guidarla e viverla; può inoltre, essere un segnale di allarme per riprendere in mano la propria esistenza e lasciare che risuonino nell’animo le questioni e gli stimoli che, sebbene silenti, erano vivi[94]. L’esperienza del vuoto, accolta, accettata, non superficialmente attenuata, consentirà la grazia di una ricreazione ed un rinnovamento interiori.

85. Questa tappa corrisponde a quella che Teresa di Gesù chiamava le due prime mansioni dell’anima, o Giovanni della Croce l’inizio della salita al monte Carmelo. San Giovanni di Dio la descrive come un’esperienza di morte in un mondo di morte e senza via d’uscita. Corrisponde anche ai primi passi nella vita spirituale che Giovanni d’Avila – maestro spirituale del nostro Padre San Giovanni di Dio – descrive come la tappa del non-ascolto del linguaggio del mondo, demonio e carne (“Audi, filia”, I A).

b) La “chiamata” e le chiamate lungo l’arco della vita: “Ascolta, figlio!”

86. Quando la persona rinuncia a vivere per e in se stessa, scopre un misterioso disegno sulla propria esistenza. Allora è in grado di ascoltare la voce di Dio e di sperimentare l’energia dello Spirito che la conduce e la guida verso “lo sconosciuto”. L’esperienza vocazionale è stata paragonata ad una “seduzione” o ad una “attrazione irresistibile”. Gesù, il Figlio di Dio, ci viene incontro, ci attraversa la strada e ci invita a cambiare percorso e a seguirlo.

87. La chiamata sopraggiunge, in un primo momento, quasi in modo impercettibile. Gli avvenimenti felici o i momenti di avvilimento, successivi alle esperienze di frustrazioni o delusioni, sono il linguaggio di Dio. Ciò che è certo è che la voce di Dio, in un determinato momento, risuona nel profondo della persona e rimuove quei strati che sinora le hanno impedito di mettersi in sintonia con essa: “ascolta, figlio, porgi l’orecchio”. Ci si sente sedotto, in forma di contrasto o coincidenza con le aspirazioni più profonde, dal modo in cui Gesù di Nazareth ha vissuto e manifestato il suo amore al Padre e ai suoi fratelli, gli uomini. Si sperimenta l’urgenza di cambiare stile di vita, di rompere con un cristianesimo monotono e ripetitivo impostatto su pratiche senza complicazioni, con le quali si cercava, quasi sempre in modo inconsapevole, di ottenere la benevolenza di Dio.

88. La seduzione del Mistero non si realizza sempre in ambiti di pura trascendenza, di isolamento e preghiera intima con Dio. Questa seduzione accade con frequenza, come nella vita di Giovanni di Dio, grazie all’incontro con i crocifissi del mondo, con gli emarginati e disprezzati. In essi si scopre il volto di Dio e la chiamata di Dio si fa in essi ineludibile, profondamente interpellante. Nel volto degli sfigurati, si scopre la presenza del Trasfigurato.

89. La chiamata, la vocazione, è una tappa in cui si rende necessario il discernimento, l’accompagnamento spirituale, la risposta a non poche domande. I maestri spirituali ci parlano dell’ ”inizio del cammino”, o delle terze mansioni. Qui è ancor più necessario un grande sforzo ascetico, che consenta di aggiustare la propria vita a ciò che Dio ci propone.

90. Lungo la vita sorgono “nuove chiamate” che approfondiscono e danno solidità alla prima. Sono quelli i momenti in cui scopriamo un nuovo orientamento, in cui ci sentiamo chiamati a cambiare mentalità (metanoia), e avvertiamo la necessità interiore di essere inviati verso nuove frontiere di missione. Rispondere alla chiamata di Dio in tali circostanze è tanto vitale quanto lo era la prima risposta. Se non c’è risposta, il cammino spirituale si arresta.

91. La porta d’ingresso al cammino spirituale è certamente la vocazione, ma essa deve essere accompagnata dalla risposta. La risposta si esprime, anzitutto, nella preghiera e nell’umile obbedienza e servizio. San Giovanni d’Avila chiedeva di “ascoltare la prima Parola…solo Dio che è la somma Verità” (Audi, Filia, I, B) 1.), “con la fede” (Audi, Filia, I. B),2.).

c) Trasformazione e Consacrazione

92. Chi si sente chiamato da Dio a seguire lo stile di vita di Giovanni di Dio e gli risponde, sperimenta nella propria persona una misteriosa e progressiva trasformazione interiore. Si sente come trasformato e consacrato, abilitato dallo Spirito ad una forma di vita nella spogliazione, nella nudità e nello svuotamento di sé.

93. Come a Giovanni di Dio, Dio ci parla attraverso le grida dell’umanità che soffre per malattia, povertà ed ingiustizia. Si risvegliano e si rafforzano in noi l’amore compassionevole e misericordioso, l’accoglienza, la benevolenza, il senso di solidarietà e di fraternità. Si trasforma, così, la scala dei valori che fino a quel momento definiva la nostra vita. Consacrandoci nell’Ospitalità, lo Spirito Santo ci rende capaci di manifestare nella nostra vita l’amore speciale del Padre per coloro che soffrono e di mantenere vivo nel tempo lo stile di vita di Gesù di Nazareth, vivendo in castità, povertà, obbedienza e ospitalità, collaborando alla missione della Chiesa, servendo Dio nell’uomo che soffre (Cost.1d; 2b; 7b).

94. Questa azione trasformatrice dello Spirito viene celebrata ed accolta nella celebrazione liturgica della nostra Professione religiosa (Cfr. ET. 47; Cost. 9a). In essa riconosciamo che Dio ci consacra e continua a consacrarci attraverso i molteplici avvenimenti della vita.

95. Non basta partecipare all’atto di consacrazione; è necessario lasciarsi consacrare. Quando ciò accade, Dio pensa al resto. Si entra in una tappa mistica, in cui Dio, attraverso Gesù e lo Spirito, diventa il grande protagonista della vita del suo prescelto. I maestri spirituali definiscono questa tappa come le quarte mansioni, come il passaggio da una tappa ascetica ad un’altra più mistica. Giovanni di Dio non visse questa tappa in un isolamento contemplativo, ma con una contemplazione mistica inserita nell’azione caritatevole, misericordiosa ed ospedaliera. Si sentì unto dallo Spirito attraverso il contatto con la miseria umana. Questo è anche il nostro cammino di consacrazione continua. San Giovanni d’Avila insegnava come l’ascolto della voce di Dio introduceva il credente ad una nuova visione e ad una nuova disposizione verso la volontà di Dio, che lo portava a fuggire e a dimenticare questo mondo malvagio e pure la casa paterna (Audi, Filia, II-V).

d) Identificazione mistica con Gesù povero, emarginato e sofferente

96. In questa vita non si conclude mai il cammino nello Spirito, che ha come obiettivo l’identificazione totale con il Signore. Le ultime tappe ci collocano di fronte ad una trasformazione o trasfigurazione ogni volta maggiore, che può essere descritta come “sposalizio mistico”, autentica simbiosi: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal, 2,20). Lo Spirito si manifesta ed agisce in noi come Ospitalità; ci configura con il Cristo compassionevole e misericordioso del Vangelo, per mantenere viva nel tempo la sua presenza misericordiosa (Cost. 2).

97. Queste ultime tappe della vita spirituale sono quelle che ci permettono di scoprire le potenzialità segrete della nostra vita, che superano ogni immaginazione e desiderio. Chi rinuncia ad essere condotto fino a qui, si sentirà frustrato. Queste ultime tappe sono chiamate dai maestri spirituali “ultime mansioni” o “arrivo alla cima del Monte”, o l’occasione in cui Dio si sente catturato dall’anima del credente (Audi, Filia, VI).

3. Partecipi del cammino del popolo di Dio

98. Il nostro cammino spirituale carismatico, comunitario e personale, si situa all’interno del grande cammino spirituale del Popolo di Dio, della Chiesa. Se c’è un ambito in cui il cammino spirituale della Chiesa si manifesta in modo paradigmatico, esemplare e pedagogico, questo ambito è il ciclo sacramentale e liturgico. Ed è questo anche il nostro cammino. Il ciclo liturgico-sacramentale dell’Anno Liturgico è il grande contesto del nostro cammino spirituale. Lungo il suo arco entriamo in contatto con tutto il messaggio rivelato. La lettura continua che ci propone la Madre Chiesa giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, è il migliore nutrimento spirituale, la miglior guida nei cammini dello Spirito.

99. Il Concilio Vaticano II ci ha detto che “la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù [...], dalla Liturgia, dunque, e particolarmente dall’Eucarestia, deriva in noi, come da sorgente, la grazia, e si ottiene, con la massima efficacia, quella santificazione degli uomini e glorificazione di Dio in Cristo, verso la quale convergono, come a loro fine, tutte le altre attività della Chiesa”[95]. Per questo, la celebrazione quotidiana dell’Eucarestia, nel contesto del ciclo liturgico:

Ø ci incorpora al sacrificio di Gesù e al culto che Egli offre al Padre (Cost. 7c);

Ø esprime e realizza la nostra missione come famiglia ospedaliera[96]; l’amore di Gesù, presente nell’Eucarestia, rinnova il nostro spirito ospedaliero (Cost. 30);

Ø la riserva eucaristica e la presenza di Gesù nei nostri sacrari trasforma le nostre comunità in autentiche scuole di ospitalità[97]. La nostra ospitalità eucaristica è la fonte della nostra ospitalità carismatica. E la nostra ospitalità carismatica potenzia e vivifica l’ospitalità eucaristica che esprimiamo nella celebrazione quotidiana dell’Eucarestia e nell’accoglienza orante della presenza reale del Signore nei nostri luoghi di preghiera.

100. Nei tempi penitenziali della Chiesa, così come nelle celebrazioni comunitarie e personali della Riconciliazione, celebriamo la Misericordia di Dio, riconosciamo la nostra collaborazione e partecipazione al male, ci apriamo a Dio e alla Comunità ed accogliamo la grazia trasformatrice. Il Sacramento della Riconciliazione è fondamentale nella nostra spiritualità, che pratica la Misericordia e l’accoglienza incondizionata ed ospitale dell’altro.

101. Il sacramento dell’unzione degli infermi ha occupato sempre un luogo privilegiato nel servizio pastorale ai malati. Giovanni di Dio lo procurò con grande sollecitudine; la tradizione dell’Ordine lo ha mantenuto come manifestazione di vero amore ai malati. La Madre Chiesa ci offre la possibilità di celebrare la vicinanza misericordiosa e trasformatrice di Gesù attraverso il sacramento dell’unzione degli infermi. La celebrazione comunitaria di questo Sacramento ci fa sperimentare - sia come soggetti della celebrazione sia come comunità celebrante – la presenza reale e risanatrice di nostro Signore Gesù nel mondo del dolore e della malattia. Partecipare alla preghiera e all’unzione della Chiesa a favore dei malati è uno dei momenti più qualificanti per la nostra crescita spirituale come Religiosi Ospedalieri.

102. La Liturgia delle Ore, cui partecipiamo regolarmente, ci unisce strettamente al Cammino del Popolo di Dio. La recita dei salmi, l’ascolto della Parola, più potente di una spada, guida la nostra vita sul Cammino del Signore, in modo infallibile. Per questo, non non vogliamo fare a meno di questo ritmo vitale. Quando partecipiamo alla preghiera della Chiesa entriamo simultaneamente in comunione con l’umanità, in special modo con gli uomini e le donne che soffrono – la Chiesa del dolore – . E’ importante che rinnoviamo la coscienza di questa dimensione della nostra spiritualità: siamo voce che benedice, canta le lodi, rende grazie e supplica il Dio della vita e Padre di misericordia, a nome di quanti sono impossibilitati a farlo personalmente o non hanno sperimentato la gioia della sua filiazione divina.

4. Partecipi del Cammino di spiritualità dell’Ordine e delle sue comunità

a) Trasmissione carismatica

103. Il nostro cammino spirituale è il Cammino dell’Ordine e delle comunità nelle quali ci integriamo. La spiritualità vive attraverso processi di trasmissione, di contagio, di comunione. Per questo, è così importante la comunità, l’Ordine (del presente e del passato) come scuola di spiritualità dell’ospitalità. Il carisma dell’ospitalità lo riceviamo in una comunità di Fratelli, riuniti dal Signore Gesù per camminare insieme incontro al Padre e per rendere presente il Regno nel mondo della Salute e dell’Assistenza (Cost. 26 a). Entrare nella comunità dell’Ordine significa integrarsi in una grande tradizione spirituale e impegnarsi con fedeltà creativa per essa, affinché lo Spirito vivifichi, attraverso di noi, il dono dell’ospitalità in coloro che ne sono portatori.

104. I Confratelli e le componenti più antiche dell’Ordine assumono, in questo contesto, una nuova importanza. Essi sono i testimoni, i ministri della tradizione spirituale. Il contatto con loro è vivificante. La loro presenza ed influenza è particolarmente importante in quei luoghi in cui, a causa della giovane età dei Confratelli, esiste il pericolo di distaccarsi dalle origini. Compito dei Confratelli più anziani e di quelli formati nell’ambito della Grande Tradizione è di esercitare una funzione di paternità carismatica.

b) L’amore fraterno

105. Come Giovanni di Dio, siamo chiamati a stabilire legami di fraternità. Uno dei frutti più negativi della secolarizzazione dei nostri ambienti è la perdita d’identità sociale del religioso nella nostra società. Siamo emarginati sociali, nel senso che la società non riconosce il nostro ruolo di consacrati. La persona ha bisogno di sentirsi inserita, accettata socialmente. La risposta a questa mancanza è incontrare un gruppo di appartenenza, di forti relazioni primarie, dove trovare l’appoggio sociale necessario per rafforzare la propria identità. Il nostro luogo di riferimento per eccellenza, per trovare il senso della nostra identità, è la comunità in cui viviamo. Ma se a causa dell’individualismo spirituale, la comunità non offre appoggio a questa ragione profonda, vocazionale, della nostra esistenza di consacrati, non c’è da stupirsi che ci sia chi vada a cercarlo fuori, o privatizzi questa dimensione, e cerchi di darsi un’identità sociale con l’attività che porta avanti (infermiere, operatore sociale, ecc.), riducendo l’appartenenza comunitaria al compito che realizza, identificandosi non in ciò che è, ma in ciò che fa.

106. Il dono dell’ospitalità ci rende capaci di vivere e manifestare gli atteggiamenti di accoglienza, benevolenza e servizio, anzitutto nell’ambito della nostra stessa comunità (Cost. 36b). La misericordia sperimentata ci spinge ad apprezzare gli altri Confratelli come depositari dello stesso dono e ad approfondire i legami di comunione che lo Spirito ha stabilito tra di noi, e ad essere segno e testimoni che le differenze di età, cultura ed etnia si relativizzano quando i rapporti si basano su valori che favoriscono la convivenza umana, la valorizzazione e l’accettazione dell’altro per ciò che è.

107. Il senso del segno della fraternità vissuta in comunione conserva tutta l’attualità ed il vigore che Gesù desiderava: è un invito a credere in Lui come inviato dal Padre e segno che siamo suoi discepoli (cfr. Gv 13, 35; 17, 21; Cost. 26b). La possibilità di essere segno per la società dipende soprattutto dalla capacità di comunione tra i Confratelli, dall’amore fraterno. Questa capacità viene sempre percepita come valore evangelico: “la comunione fraterna, prima di essere strumento per una determinata missione, è spazio teologale in cui si può sperimentare la mistica presenza del Signore risorto” (cfr. Mt 18,20; VC 42).

c) Condividere l’esperienza di Dio e discernere la sua volontà a livello comunitario

108. La comunità dell’ospitalità misericordiosa è l’ambito ideale della nostra spiritualità. E’, ed è chiamata ad essere, biocenosi, biotopo, luogo di vita e di crescita vitale. La comunità diventerà “scuola di spiritualità” nella misura in cui noi Confratelli comprendiamo che la ragione più profonda per cui ci siamo conosciuti e viviamo insieme, è la nostra esperienza personale di Dio, e che il luogo privilegiato dove l’esperienza di Dio deve potersi raggiungere nella sua pienezza ed essere comunicata agli altri è la nostra comunità (Cost. 27; cfr. DCVR, 15). E’ urgente perciò superare la tendenza all’individualismo nella vita interiore, ed incoraggiare la comunione nello spirito, il dialogo e gli incontri per condividere la fede, le difficoltà ed i mezzi che ci aiutino a viverla. Dobbiamo impegnarci e sforzarci per realizzare un cammino congiunto, e praticare l’aiuto reciproco e la correzione fraterna, e per comunicare l’esperienza di Dio.

109. Le celebrazioni liturgiche, la preghiera comune e le riunioni comunitarie sono momenti in cui, guidati dallo Spirito ed accogliendo Cristo come centro delle nostre assemblee, possiamo e dobbiamo praticare la comunicazione ed il dialogo a livello di fede, rivedere e valutare la nostra vita e cercare ed accogliere la volontà di Dio nei confronti della comunità e di ciascun Confratello (cfr. Cost. 38, 3).

110. Una comunità ospedaliera è chiamata ad essere, in modo rilevante, una comunità esperta del discernimento spirituale. Forse è uno degli aspetti nei quali possiamo crescere di più nel futuro. Discernere il buon spirito è qualcosa che va oltre la mera acutezza intellettuale. In questa ricerca nessuno può sentirsi superiore all’altro. Nel discernimento una comunità si colloca umilmente di fronte a Dio con il desiderio di comprendere la sua volontà. Per questo, il discernimento esige: preghiera, ascolto di Dio e dei Confratelli, consapevolezza che a Dio piace rivelare i suoi misteri ai più semplici, poveri e giovani.

d) Una comunità in missione di ospitalità

111. La missione dell’ospitalità – centrale nella vita dell’Ordine – si fa presente e si incarna nella comunità locale. Comunione e missione necessitano l’una dell’altra e si completano tra di loro. (cfr. Cost. 41a; 43c)

112. Non agiamo a titolo individuale: la comunità ci invia, mentre al tempo stesso ci sostiene e ci accredita come Fratelli di San Giovanni di Dio (cfr. Cost. 43c). Nella comunità tutti i Confratelli sono impegnati nell’annuncio del Vangelo ai poveri e ai malati. Certamente non tutti possono dedicarsi al loro servizio, ma tutti partecipano a quanto viene realizzato dagli altri Confratelli che, a loro volta, si sentono animati da quelli che per età, malattia o ufficio, non realizzano un’attività professionale. E’ importante coltivare e vivere questo senso di comunione nella missione, soprattutto dove l’età dei Confratelli è alta, e le esigenze socio-lavorative non permettono di continuare ad esercitare le funzioni insite al servizio a favore dei malati e dei bisognosi come operatori professionali.

113. Siamo stati convocati nel segno dell’Ospitalità per formare una comunità di vita apostolica (Cost. 5b; cfr. Mc 3, 13-14). E’ nella missione che la nostra comunità raggiunge il suo pieno significato (Cost. 41a), ed in cui si manifestano i frutti dell’incontro con Dio e con i Fratelli. E’ nella missione che si rende visibile la trasfigurazione della nostra identità di credenti e si fa presente ed attuale il Cristo compassionevole e misericordioso del Vangelo che, in noi e attraverso noi, si fa accoglienza, servizio e dedizione ai malati ed ai bisognosi (Cost. 2c; 5a). Nessuno dei livelli della nostra vita, preso separatamente, configura per e da se stesso la nostra identità. La nostra trasformazione è frutto del dono dell’Ospitalità (Cost. 2b). Non si può separare, pertanto, l’attività apostolica dalla preghiera e dalla vita fraterna in comunità, né si può pensare che è grazie all’attività, al lavoro realizzato, che ci costituiamo come comunità in cui è presente Cristo. L’Ospitalità ci costituisce come apostoli, e apostoli dell’ospitalità siamo sia quando nella pienezza delle nostre facoltà agiamo professionalmente, sia quando a causa dell’età o di qualsiasi altra limitazione non ci è possibile stare accanto al malato e del povero per curarlo e servirlo, perché l’elemento costitutivo di un Fatebenefratello è essere ospitalità, e da questo essere scaturiscono ininterrottamente gesti ed azioni di ospitalità.

114. L’attività apostolica non implica una sospensione della vita comunitaria (Cost. 43c), anzi, quest’ultima trova una forte espressione nella dispersione che esige la nostra opera di misericordia a favore dei bisognosi e la nostra ospitalità; un elemento importante della nostra spiritualità è pertanto essere consapevoli dei legami che ci uniscono nella dispersione. Dobbiamo convivere nella distanza partecipando al programma spirituale della nostra comunità. Non dobbiamo mai sentirci soli. L’inserimento in mezzo alla gente è un modo peculiare di dispersione apostolica nell’ospitalità e di esperienza di vita comunitaria. Proprio con ciò dimostriamo che la nostra comunità è nata per gli altri e non per se stessa (Cost. 5b; 41a).

e) Una comunità con senso di Chiesa

115. Non dobbiamo mai dimenticare che formiamo delle comunità che fanno parte della grande comunità della Chiesa e delle Chiese particolari con i loro Pastori. Per questo, ci lasciamo guidare dai suoi impulsi spirituali, dal suo magistero, dall’azione imprevedibile dello Spirito in essa, e collaboriamo alla sua missione di far presente il Regno (Cost. 1d; 5a; 41a), consapevoli che la Chiesa di Gesù, senza la testimonianza del servizio caritatevole e la missione sanante, sarebbe incompleta. Le opere apostoliche dell’Ordine sono chiamate ad essere ambiti in cui pubblicamente si confessa, si proclama e si pratica l’amore cristiano, così come la parrocchia è il luogo in cui si confessa e si celebra pubblicamente la fede[98].

116. La comunione con la Chiesa ravviva nel Fatebenefratello la sua vocazione di “sacerdote compassionevole e misericordioso” secondo lo stile di Gesù (cfr. Cost. 7c; 30 b): inserito tra la gente che soffre, offre al Padre il culto dell’oblazione della propria esistenza e dell’esistenza dei poveri e dei malati; inoltre è profeta del Dio della misericordia che discende nel mondo dei poveri per mostrare loro il suo amore e denunciare le situazioni di ingiustizia sociale o strutturale; il Fatebenefratello, nella Chiesa, incarna il mandato di Gesù che ha manifestato la sua disponibilità a donarsi fino alla morte, prostrandosi davanti ai discepoli per lavare loro i piedi, e li ha inviati a perpetuare i suoi gesti di ospitalità e di servizio, affinché la sua presenza nell’eucarestia non sia un rito che si ripete, ma il memoriale della sua offerta per comunicare la vita e collocare al suo stesso livello di dignità la vita dei suoi fratelli, gli uomini (cfr. Gv 13, 1-17; Lc 22, 17-21).

5. Il nostro cammino “personale” di spiritualità

117. Non è sufficiente seguire e condividere il cammino del popolo di Dio. Ciascuno di noi è un essere unico, una persona irripetibile. Il cammino spirituale contiene anche una dimensione individuale nella quale nessuno ci può sostituire e che ricade sotto la nostra assoluta e intrasferibile responsabilità.

a) La preghiera personale come cammino di spiritualità

118. “La fonte prima della nostra missione caritativa è l’amore misericordioso del Padre – cfr. 1Gv 4, 10-11 –. Questo esige che noi favoriamo, personalmente e comunitariamente, nel dialogo della preghiera, l’integrazione tra la vita interiore e l’attività apostolica, per renderci capaci di vivere l’amore a Dio in sintonia col servizio ai fratelli.” (Cost. 28a). Nella preghiera, Gesù vuole realizzare con noi prodigi di misericordia (S. Benedetto Menni). Si china sulla nostra debolezza, ci guarda con tenerezza infinita, ci accoglie con tutto l’amore del suo cuore, così come si chinò sul letto dei malati, guardò i bambini ed i peccatori, accolse Maria Maddalena, Zaccheo e Pietro. Nella preghiera siamo chiamati a lasciarci guardare da Gesù e a permettere che la luce della sua vita illumini la nostra mente ed il nostro cuore, per vedere qual è la volontà di Dio in ogni momento, e seguirla con docilità di figli.

119. Nell’incontro della preghiera personale, il Fatebenefratello constata la verità ed il dinamismo del suo cammino nello Spirito. L’incontro amoroso e regolare con il nostro Dio-Trinità si fa ogni volta più intenso e più ampio, sino a portarci a pregare in ogni momento. La qualità del dialogo interpersonale con il nostro Dio mostra fino a dove arriva lo Spirito in noi. E’ vero che non sappiamo pregare come dovremmo. Ma lo Spirito Santo ci viene in aiuto (Rom 8, 26-27). Egli guida i nostri progressi nella preghiera e ci sorprende nell’orazione con le sue ispirazioni. Quando le preoccupazioni quotidiane, quando il lavoro non permette una forte vita di preghiera, rischiamo non solo di arrestarci sul nostro cammino spirituale, ma addirittura di regredire.

b) Un progetto personale di spiritualità

120. Ogni Confratello deve esprimere il suo cammino di spiritualità in un progetto personale, seriamente elaborato, individuato assieme al suo maestro o accompagnatore nel cammino del Signore e, nella misura del possibile, condiviso con i Confratelli della comunità.

121. Il progetto personale di vita si tramuta nella manifestazione della nostra risposta vocazionale continuata. E’ il miglior indizio del fatto che assumiamo con responsabilità la vocazione che abbiamo ricevuto e siamo disposti a tradurla in ogni momento in azioni adeguate: sappiamo che per essere famiglia di Gesù, fratelli, dobbiamo non solo ascoltare la parola, ma anche metterla in pratica.

122. Il nostro progetto di vita è la risposta all’Alleanza di Dio e si centra nel regno di Dio che sta per giungere. La castità, la povertà, l’obbedienza e l’ospitalità che caratterizzano il nostro impegno per l’Alleanza di Dio con il suo popolo, acquisiscono il loro pieno significato nel contesto del Regno di Dio e della sequela apostolica di Gesù. Con la pratica dei consigli evangelici, lo Spirito ci rende capaci di denunciare con senso profetico i sistemi di ingiustizia, di discriminazione dei deboli, di spreco, di violenza. I carismi evangelici che lo Spirito ci ha concesso per una vita di ospitalità, crescono in contesti di appassionata missione ed amore al popolo, amore che ci radica sempre più profondamente nel suo mezzo, nella sua storia e ci fa identificare sempre di più con i piccoli della terra.

123. Elemento essenziale del nostro progetto personale di vita è la disponibilità continua per l’uomo come Fatebenefratello. E’ la più chiara espressione della nostra spiritualità ospedaliera. E’ la spiritualità della dedizione, del servizio permanente, dell’accoglienza senza riserve; è il cammino reale che conduce al culmine dell’amore che, come successe per Gesù e per San Giovanni di Dio, si raggiunge scendendo negli abissi più profondi della miseria e debolezza umana dedicandosi all’assistenza di chi soffre, con gli atteggiamenti e i gesti caratteristici del Fatebenefratello: servizio umile, paziente e responsabile; rispetto e fedeltà alla persona; comprensione, benevolenza e abnegazione (Cost. 3b), facendosi solidale con le loro angosce e speranze.

c) Contemplativi nella missione

124. L’azione apostolica non è pura esteriorità. E’ la sacramentalizzazione della missione dello Spirito e del Signore Risorto. Ciò esige da noi di integrare interiorità ed attività (cfr. Cost. 28a; 103a). Nella missione non smettiamo di stare con Cristo, al contrario, in essa stiamo uniti a lui in modo singolare. Dobbiamo tenere presente che “un pericolo costante per gli operai evangelici consiste nel farsi coinvolgere talmente dalla propria attività per il Signore che, per tanta attività, ci si dimentica del Signore” (cfr. Giovanni Paolo II). Un momento importantissimo della nostra spiritualità è disporci al servizio caritatevole, rinnovando la consapevolezza che, servendo i deboli, stiamo servendo Gesù stesso. La “mistica” dell’ospitalità ci anima a vivere in atteggiamento contemplativo. Abbiamo il privilegio di poter contemplare Cristo ininterrottamente: i piccoli – ogni persona è “piccola” e debole – sono icone viventi di Gesù. L’avvicinamento ai corpi umani per curarli dal male, come faceva Gesù, per darli dignità e convertirli in ambiti di dignità e di esperienza religiosa e cristiana, è un elemento essenziale della nostra spiritualità.

125. La fecondità del nostro apostolato si rafforza quando ci sentiamo solidali con coloro che soffrono, consapevoli che il nostro amore misericordioso per loro non è mai un atto unilaterale (Cost. 42c): l’apostolato ospedaliero è fonte di spiritualità. Non solo perché il Fatebenefratello evangelizza, ma perché nella sua stessa azione evangelizzatrice egli si sente a sua volta evangelizzato. Dio ci parla attraverso gli altri, specialmente attraverso coloro che hanno bisogno del nostro aiuto: si fa lamento, supplica, gratitudine… e ci invita ad ascoltare e a discernere i suoi messaggi; l’immigrato, il malato, è l’ ”altro” che incarna ed materializza la diversità, l’inconsueto con cui lo Spirito vuole sorprenderci; scoprire i valori che ci sono nei gruppi umani e nelle persone, lasciarsi emozionare ed arricchire da loro, è fonte di spiritualità. Le sue conseguenze sono imprevedibili, così come imprevedibile è lo Spirito.

126. L’apostolato ospedaliero è un’autentica scuola e fucina di umanizzazione: ci stimola a crescere come seguaci di Gesù di Nazareth, che restituì all’umanità il volto che il Padre aveva deciso per essa sin dal principio, mentre la purifica contemporaneamente dall’egoismo e dalla mancanza di solidarietà, affinché l’accoglienza, la comprensione, il servizio e la dedizione totale si plasmino e si trasmettano in gesti di misericordia e di sollecitudine. Il malato, nella sua debolezza, non è solo il destinatario, ma anche agente di comprensione e di amore: è la nostra ”università” (P. Marchesi) che, senza bisogno di teorie, ci aiuta ad acquisire la vera scienza, l’autentica saggezza del vivere. Inoltre, condividiamo il nostro apostolato ospedaliero con coloro che operano nel campo della Salute e dell’Assistenza, con tutte le persone che collaborano nelle Opere apostoliche dell’Ordine. Ciò è fonte di costante revisione dei nostri atteggiamenti e delle nostre motivazioni, e ci urge a verificare se la persona che soffre è veramente al centro di tutta la nostra attività apostolica e di tutte le nostre preoccupazioni (Cost. 103b); se mettiamo tutte le nostre energie e capacità al servizio di Dio nei malati e nei bisognosi (Cost. 22b; 1d); se a livello personale e comunitario siamo guide morali, coscienza critica e anticipatori [99] – oggi diremmo rifondatori[100] – di uno stile di ospitalità in sintonia con l’Ospitalità di Giovanni di Dio; se individualmente e comunitariamente manteniamo vivo e promuoviamo il suo spirito (SG 127b); se viviamo così compenetrati nella nostra missione che i nostri collaboratori si sentono spinti ad agire nello stesso modo (Cost. 23a). Assieme ai nostri Collaboratori siamo impegnati a coltivare ed a promuovere i valori della persona, e a contribuire a sviluppare e ad approfondire quella che abbiamo chiamato “cultura dell’ospitalità”.

d) La dimensione corporea del nostro cammino di spiritualità

127. L’incarnazione del Verbo continua nel tempo e diventa realtà nella persona; nella persona del Fatebenefratello che serve e in quella del malato o bisognoso che è da lui servito. La corporeità è il mezzo attraverso il quale si mediano le relazioni umane e fa parte del processo spirituale. Il nostro corpo è il tempio dello Spirito e membro del corpo di Cristo; la sua missione è glorificare Dio. Nel corpo è impressa la nostra storia, i nostri ricordi più profondi. Il corpo è il luogo della nostra avventura esistenziale. Ha una vocazione eucaristica grazie alla quale tende a trasformarsi in un corpo offerto, come lo fu il corpo di nostro Padre, Giovanni di Dio. La virtù della castità, vissuta come Fatebenefratelli, è fonte di fecondità personale, poiché nell’apostolato adempiamo la missione di servire e promuovere la vita e affermiamo la dignità e il valore del corpo (Cost. 10d).

128. L’unità psicosomatica ci indica che non c’è spiritualità che non passi per il corpo, ma anche che un corretto rapporto col corpo porta giocoforza verso lo spirito. L’interrelazione tra l’equilibrio psicosomatico e la vita spirituale è indiscutibile. Da qui nasce l’importanza di coltivare l’equilibrio della nostra realtà corporea: la pace, la serenità interiore, l’affetto e la cordialità si trasmettono attraverso i sensi. Gesù imponeva le mani ai malati, quando li curava (Lc 4, 40)[101].

e) Vigilanza e apertura allo Spirito

129. Noi Fatebenefratelli desideriamo seguire con la massima vigilanza l’azione dello Spirito nel nostro tempo e nei diversi luoghi. Questa vigilanza ci porterà a vivere la nostra spiritualità anche in situazioni di martirio[102], in cui più che l’azione, sarà la passione a caratterizzare la nostra forma di missione; cio vale sia in ambienti di dialogo interreligioso, dove proponiamo Gesù come nostro Signore, servo di tutti, corpo offerto per gli altri, e dove noi siamo suoi testimoni con la spiritualità della kénosis e dell’umiltà; sia per i nostri atteggiamenti di comunione con il laicato, donne e uomini, scoprendo in essi energie per la perseveranza, per la dedizione “ad vitam”, per la relazione reciproca; sia in situazioni conflittuali e dure nelle quali siamo i messaggeri e testimoni di giustizia e di impegno per la pace.

6. La formazione come cammino di spiritualità

130. Il cammino della spiritualità trova una sua versione ridotta nell’“iniziazione carismatica”, che ha luogo nei primi anni di vita nell’Ordine, e nella “formazione permanente”, che dura tutta la vita .[103]

a) Prima tappa: iniziazione carismatica

131. Durante la formazione iniziale e la formazione professionale, il Fatebenefratello apprende a fare delle cose: a studiare, ad esprimersi, a realizzare il lavoro professionale, a meditare, a pregare, ad essere un buon religioso…E’ il tempo degli “ideali” – di santità, di comunità, di “incarnazione nel mondo” – . [104] Partendo da questa prospettiva apprezza e critica gli altri: non hanno saputo fare; egli farà le cose in modo diverso, perché metterà in pratica ciò che sa e che sente. In questa tappa la realtà è vista con “gli occhi dei metodi”, cioè attraverso un’ideologia che poco a poco facciamo nostra. Non ci adeguiamo alla realtà così com’è. Entriamo in contatto non con la realtà stessa, ma con l’immagine che ne abbiamo della realtà. Non deve meravigliarci che, addentrandoci nella vita reale, la quotidianità ci scuota e vada a cozzare con l’ideale sognato. Le frustrazioni e le delusioni possono servire da scuola di “incarnazione” nel mondo con l’esperienza-accettazione della propria fragilità, dell’inconsistenza delle idee pure e della limitazione-ricchezza degli altri e delle strutture .[105]

132. Un’esperienza analoga si fa nell’apostolato, quando giunge il momento di lasciare il lavoro, per età o per motivi di salute. In questi momenti, nei quali si sperimenta la crisi, siamo chiamati a fermarci nel cammino, ad accogliere la forza dell’Ospitalità e a riscoprire che siamo stati chiamati e consacrati per essere ospitalità e per annunziare il Regno secondo lo stile di Gesù (Cost. 21), che dovette sperimentare il fallimento, la sofferenza, l’angoscia, la fragilità e l’abbandono, e perfino la morte sulla croce, per comprendere, compatire e liberare coloro che soffrono e muoiono abbandonati (cfr. Eb 2, 14-18)[106]

b) Seconda tappa: responsabilità operativa

133. Dopo la formazione iniziale, il Fatebenefratello viene pienamente inserito nell’attività apostolica. Il passaggio da una vita guidata e tutelata ad una situazione di responsabilità operativa, dev’essere accompagnato in maniera speciale ed intensa, per apprendere a vivere con pienezza la gioventù dell’amore e dell’entusiasmo per Cristo .[107]

134. L’età adulta ci confronta con il rischio della routine e dell’amarezza per la mancanza o la scarsezza di risultati. Questo è il tempo per rivedere, alla luce del Vangelo e del nostro carisma, l’amore primordiale, la nostra vocazione originaria. Troviamo un nuovo impulso e nuovi motivi di perseveranza nella vocazione. In questo periodo uno si concentra sull’essenziale .[108]

135. L’età matura comporta il rischio di cadere nell’individualismo, in una chiusura di fronte alla vita, o nella comodità. Il cammino spirituale ci aiuta a potenziare il nostro tono vitale, a purificarci e a donarci nell’oblazione generosa. Questa età ci offre la possibilità di maturare il dono e l’esperienza della paternità spirituale .[109]

c) Terza tappa: i limiti crescenti

136. L’età avanzata si caratterizza per un progressivo ritiro dall’attività, per malattia o a causa di un’inattività forzata. Sebbene sia un tempo spesso doloroso, offre al Fatebenefratello anziano l’opportunità di lasciarsi plasmare dalla Pasqua del Signore. In queste circostanze, la missione dell’ospitalità misericordiosa acquisisce la tonalità della passione; passione che ci identifica con la Passione del Signore. Giunge così a compimento nel Confratello il misterioso processo di spiritualità iniziato tempo addietro. La morte allora viene attesa e preparata come atto d’amore supremo e offerta totale di sé.[110]

d) I momenti cruciali

137. Indipendentemente dalle tappe, nella nostra vita ci sono momenti cruciali e decisivi. Fattori esterni, come una fatalità, un insuccesso, un avvenimento storico, o interni, come una malattia, una depressione, una perdita, un’amicizia, una crisi di fede o d’identità, possono portare molta tensione nella nostra vita al punto che ci sembra che sia prossima a spezzarsi. In momenti del genere sono decisivi l’accompagnamento spirituale[111], la preghiera, la vicinanza fraterna, la presenza degli amici. Il Confratello potrà così riscoprire il senso della sua alleanza con Dio e del primato e fedeltà di Dio ad essa. La prova è uno strumento provvidenziale dello Spirito per promuovere la crescita, l’identificazione con Gesù e il progresso nella sequela di Cristo crocifisso.[112].

Conclusione

138. Se noi Fatebenefratelli faremo emergere la sete di spiritualità che ci abita, dovremo stare attenti alle sorprese dello Spirito. Perché nascerà qualcosa di nuovo. Cadranno barriere. L’impossibile diventerà possibile. Fioriranno i nostri deserti. La nostra sete si placherà. Saremo messaggeri gioiosi ed entusiasti della Buona Novella della Misericordia e dell’Ospitalità. Saremo parabola di un mondo nuovo nel mondo del dolore e dell’emarginazione.

139. Il popolo di Dio, l’umanità intera, ha bisogno della nostra testimonianza perché il nostro spirito possiede una grande forza umanizzante. Nel contempo dobbiamo essere consapevoli della grande forza e energia spirituale che ci viene dal popolo santo di Dio e da tutta l’umanità, della quale facciamo parte. Per questo, crediamo che quanto più ci sentiremo Chiesa, popolo di Dio e umanità, più la nostra spiritualità crescerà, diventando più profonda e significativa. Siamo chiamati a vivere la nostra spiritualità condividendo il nostro dono e lasciandoci arricchire dai doni degli altri .

140. Come Profeti della Misericordia, animati dallo spirito di San Giovanni di Dio, accogliamo l’invito che, all’inizio di questo terzo millennio, ci ha rivolto Giovanni Paolo II nella lettera Novo Millenio Ineunte: “Duc in altum! Andiamo avanti con speranza!”[113]. Cristo Gesù, nostra speranza (1 Tm 1,1), ci darà la forza per rimanere fedeli alla nostra missione profetica.

NOTE

  1. Regla y Constituciones, para el Hospital de Ioan de Dios de Granada (1585) Tit. 1º, 1ª Constitución, in Primitivas Constituciones, Madrid 1977, p. 12.

  2. Costituzioni del 1587,Introducción, n o.c.., pp. 81-82.

  3. “Giovanni di Dio non è nostro! E’ della società, è della Chiesa. Non siamo nemmeno gli unici responsabili perché permanga vivo lungo la storia. Però con l’aiuto di Dio dobbiamo fare di tutto perché l’Ordine e lui continuino nel tempo” . Fra Pascual Piles Ferrando, Lasciatevi guidare dallo Spirito (Gal, 5, 16). Lettera Circolare ai Confratelli dell’Ordine, Roma 24 ottobre 1996, (9.3), p. 62.

  4. Cfr Dichiarazioni del LXV Capitolo Generale (Documentazione). Granada 6-24 novembre 2000; Carta d’identità dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, Roma, 1999; Fatebenefratelli e Collaboratori insieme per servire e promuovere la vita, Cernusco sul Naviglio, 1992; Giovanni di Dio continua a vivere nel tempo, Cernusco sul Naviglio, 1992; La nuova evangelizzazione e l’ospitalità alle soglie del terzo millennio. Documentazione finale del LXIII Capitolo Generale dell’Ordine, Bogotà, ottobre 1994; Marchesi, P., Ospitalità dei Fatebenefratelli verso il 2000, Roma, 1987; Piles Ferrando, P., Lasciatevi guidare dallo Spirito (Lettera Circolare ai Confratelli dell’Ordine), Roma, 24 ottobre 1996; Piles Ferrando, P., Ospitalità all’inizio del terzo millennio. Realizzazione della profezia di San Giovanni di Dio (Lettera Circolare). Roma, 2 febbraio 2001.

  5. “ Siamo 1.500 Confratelli, 40.000 collaboratori, tra impiegati e volontari, e circa 300.000 benefattori-sostenitori. Siamo presenti nei cinque continenti in 46 nazioni, con 21 Provincie religiose, 1 Viceprovincia, 6 Delegazioni Generali e 5 Delegazioni Provinciali, e realizziamo il nostro apostolato a favore degli infermi, dei poveri e di coloro che soffrono in 293 opere. Pur essendo membri dello stesso corpo – l’Ordine – viviamo realtà molto diverse. C’è chi vive in centri e società altamente tecnicizzate e chi in centri e società in via di sviluppo; c’è chi vive in nazioni immerse in un clima di pace e chi invece in paesi lacerati dalla guerra e dalla violenza o che vengono da un passato caratterizzato dalla violenza; c’è chi si può esprimere in piena libertà nella società in cui vive, e chi vede invece la sua libertà e i suoi diritti fondamentali pesantemente limitati; c’è chi si dedica all’apostolato propriamente ospedaliero e chi invece si trova impegnato in temi sociali e settori dell’emarginazione; c’è chi ha come missione quella di aiutare a vivere la persona e chi invece quella di garantire alla persona di morire con dignità; a prescindere dal fatto che il lavoro di noi tutti si ispira al progetto di un’assistenza integrale, ci sono sfumature che ci orientano di volta in volta verso la salute fisica, la salute mentale, il miglioramento delle condizioni di vita ecc.; infine c’è chi di noi vive nel Nord e chi nel Sud, chi nell’Ovest e chi nell’Est.”: Ordine ospedaliero di san giovanni di dio, Carta d’identità dell’Ordine. L’assistenza ai malati e ai bisognosi secondo lo stile di san Giovanni di Dio, Roma, 1999, p. 9.

  6. Giovanni di Dio non ignora che per giungere alla pienezza ed evitare gli ostacoli, l’uomo dev’essere vigile e disponibile: “vegliate sempre e tenetevi sul piede di partenza”, perché può accadere “che potreste finire col perdervi”: cfr San Giovanni di Dio (SGD), Lettere, 1 Lettera alla Duchessa di Sessa (1DS), 7, p. 77; Lettera a Luigi Battista (LB), 6 p. 29; in J. Sánchez, Origen y camino de nuestra espiritualidad).

  7. SGD, Lettere, ibid.

  8. Durante l’accerchiamento di Fuenterrabía, Giovanni di Dio si offrì per andare a cercare l’approvvigionamento che mancava al distaccamento militare: “montò su una giumenta francese” che era stata presa al nemico e senza briglia e incamminandosi per le falde di un monte andò a cercare da mangiare presso i casali o le fattorie del posto, ma la giumenta riconoscendo i luoghi “nei quali di solito andava”, cominciò a correre furiosamente. Giovanni non riuscì a trattenerla; e fu scaraventato contro alcune rupi, buttando sangue, e rimanendo in terra come un morto. Dopo aver ripreso i sensi, provò impotenza, dolore, minaccia per la vicinanza del nemico, paura e …senza alcun soccorso in tanto pericolo …si sollevò da terra “si mise in ginocchio e, alzati gli occhi al cielo, invocò il nome di nostra Signora la Vergine Maria”. Aiutandosi poi con un palo, camminò lentamente fino a giungere all’accampamento dove “lo fecero mettere a letto” Francisco de Castro, Storia della vita e sante opere di Giovanni di Dio, Roma 1975, Edizioni Fatebenefratelli, (in seguito Castro) p 39-40.

  9. Castro, p. 43.

  10. Crebbe in casa dei genitori fino all’età di otto anni, quando a loro insaputa venne portato da un chierico nella città di Oropesa” (Castro pp. 37-38).

  11. Tutto perisce… finché vivremo in questo esilio e in questa valle di lacrime” (1DS 6; 2DS 10) …“la morte consuma e distrugge tutto ciò che questo miserabile mondo ci dà e non ci consente di portare con noi se non un pezzo di tela stracciata ”: 3DS 15.

  12. 1DS 10.

[1] Regla y Constituciones, para el Hospital de Ioan de Dios de
Granada
(1585) Tit. 1º, 1ª Constitución,
in Primitivas Constituciones, Madrid 1977, p. 12.
[2] Costituzioni del 1587,Introducción, n o.c.., pp.
81-82.
[3] “Giovanni di Dio non è nostro! E’ della società,
è della Chiesa. Non siamo nemmeno gli unici responsabili perché permanga vivo
lungo la storia. Però con l’aiuto di Dio dobbiamo fare di tutto perché l’Ordine
e lui continuino nel tempo” . Fra Pascual Piles Ferrando, Lasciatevi
guidare dallo Spirito (Gal, 5, 16).
Lettera Circolare ai Confratelli
dell’Ordine
, Roma 24 ottobre 1996, (9.3), p. 62.
[4] Cfr  Dichiarazioni del LXV Capitolo Generale
(Documentazione). Granada 6-24 novembre 2000; Carta d’identità dell’Ordine Ospedaliero di
San Giovanni di Dio,
Roma, 1999; Fatebenefratelli e Collaboratori insieme per
servire e promuovere la vita,
Cernusco sul Naviglio, 1992; Giovanni di Dio continua a vivere nel
tempo
, Cernusco sul Naviglio, 1992; La nuova evangelizzazione e l’ospitalità
alle soglie del terzo millennio. Documentazione finale del LXIII Capitolo
Generale dell’Ordine
, Bogotà, ottobre 1994; Marchesi, P., Ospitalità dei Fatebenefratelli verso il
2000
, Roma, 1987; Piles
Ferrando, P., Lasciatevi guidare
dallo Spirito
(Lettera Circolare ai Confratelli dell’Ordine), Roma, 24
ottobre 1996; Piles Ferrando, P.,
Ospitalità all’inizio del terzo
millennio. Realizzazione della profezia di San Giovanni di Dio
(Lettera
Circolare). Roma, 2 febbraio 2001.
[5] Siamo 1.500
Confratelli, 40.000 collaboratori, tra impiegati e volontari, e circa 300.000
benefattori-sostenitori. Siamo presenti nei cinque continenti in 46 nazioni, con
21 Provincie religiose, 1 Viceprovincia, 6 Delegazioni Generali e 5 Delegazioni
Provinciali, e realizziamo il nostro apostolato a favore degli infermi, dei
poveri e di coloro che soffrono in 293 opere. Pur essendo membri dello stesso
corpo – l’Ordine – viviamo realtà molto diverse. C’è chi vive in centri e
società altamente tecnicizzate e chi in centri e società in via di sviluppo; c’è
chi vive in nazioni immerse in un clima di pace e chi invece in paesi lacerati
dalla guerra e dalla violenza o che vengono da un passato caratterizzato dalla
violenza; c’è chi si può esprimere in piena libertà nella società in cui vive, e
chi vede invece la sua libertà e i suoi diritti fondamentali pesantemente
limitati; c’è chi si dedica all’apostolato
propriamente ospedaliero e chi invece si trova impegnato in temi sociali e
settori dell’emarginazione; c’è chi ha come missione quella di aiutare a vivere
la persona e chi invece quella di garantire alla persona di morire con dignità;
a prescindere dal fatto che il lavoro di noi tutti si ispira al progetto di
un’assistenza integrale, ci sono sfumature che ci orientano di volta in volta
verso la salute fisica, la salute mentale, il miglioramento delle condizioni di
vita ecc.; infine c’è chi di noi vive nel Nord e chi nel Sud, chi nell’Ovest e
chi
nell’Est.: Ordine ospedaliero di san giovanni di
dio, Carta d’identità dell’Ordine. L’assistenza
ai malati e ai bisognosi secondo lo stile di san Giovanni di Dio,
Roma,
1999, p. 9.
[6] Giovanni di Dio non ignora che per giungere alla
pienezza ed evitare gli ostacoli, l’uomo dev’essere vigile e disponibile:
“vegliate sempre e tenetevi sul piede di partenza”, perché può accadere “che
potreste finire col perdervi”: cfr San Giovanni di Dio (SGD),
Lettere, 1 Lettera alla Duchessa di Sessa (1DS), 7, p. 77;
Lettera a Luigi Battista (LB), 6 p. 29; in J. Sánchez, Origen y camino de nuestra
espiritualidad
).
[7] SGD, Lettere, ibid.
[8] Durante l’accerchiamento di Fuenterrabía,
Giovanni di Dio si offrì per andare a cercare l’approvvigionamento che
mancava al distaccamento militare: “montò su una giumenta francese” che era
stata presa al nemico e senza briglia e incamminandosi per le falde di un monte
andò a cercare da mangiare presso i casali o le fattorie del posto, ma la
giumenta riconoscendo i luoghi “nei quali di solito andava”, cominciò a correre
furiosamente. Giovanni non riuscì a trattenerla; e fu scaraventato contro alcune
rupi, buttando sangue, e rimanendo in terra come un morto. Dopo aver ripreso i
sensi, provò impotenza, dolore, minaccia per la vicinanza del nemico, paura e
…senza alcun soccorso in tanto pericolo …si sollevò da terra “si mise in
ginocchio e, alzati gli occhi al cielo, invocò il nome di nostra Signora la
Vergine Maria”. Aiutandosi poi con un palo, camminò lentamente fino a giungere
all’accampamento dove “lo fecero mettere a letto” Francisco de Castro, Storia della vita e sante opere di Giovanni
di Dio,

Roma 1975, Edizioni Fatebenefratelli, (in seguito Castro) p 39-40.
[9] Castro, p. 43.
[10] Crebbe in casa dei genitori fino all’età di
otto anni, quando a loro insaputa venne portato da un chierico nella città di
Oropesa” (Castro
pp. 37-38).
[11] “Tutto perisce… finché vivremo in questo esilio
e in questa valle di lacrime” (1DS 6; 2DS
10) …“la morte consuma e distrugge tutto ciò che questo miserabile
mondo ci dà e non ci consente di portare con noi se non un pezzo di tela
stracciata ”: 3DS
15.
[12] 1DS 10.
[13] 2DS 15.
[14] Castro, p. 46.
[15] “ Non vedendo ancora quale via nostro Signore gli
avrebbe aperto per servirlo … se ne andava triste e non trovava tranquillità né
riposo, né gli piaceva più stare a guardare le pecore”. Castro, p. 52.
[16] Castro, p. 53.
[17] Ibid. , p. 59.
[18] Ibid. 16p. 61.
[19] Cf. Castro, p. 63 s.
[20] Castro, p. 65.
[21] Ibid., p. 66.69-70.
[22] Ibid., p. 71.72.
[23] Ibid., p. 76.
[24] Ibid., p. 72.
[25] Cf. Castro, p. 63.
[26] Castro, p. 92.
[27] Ibid., p. 87.
[28] J. Sánchez Martínez. “Kénosis-diaconía” en el itinerario
espiritual de San Juan de Dios,
Jerez, 1995, p. 331, 441.
[29] 2GL., 4-5.
[30] Castro. p. 107.
[31] Ibid, p. 94.
[32] Ibid., p. 107.
[33] Processo di Beatificazione di San Giovanni di Dio
L 52/1.23, f 81. Cfr. J. Sánchez Martínez. “Kénosis-diaconía” p.
190-191.
[34] Ibid,  L 52/1.20,
f 73v
[35] Castro, p.135.
[36] 1GL 11.
[37] Castro, p. 107.
[38] Ibid. , p. 107.
[39] 1DS 15s. Castro afferma anche che “il suo cuore
non sopportava di vedere il povero patire necessità, senza apportarvi
rimedio”.: p.125..
[40] Castro, p. 107.
[41] Castro, p. 129-130.
[42] 2GL., 7.
[43] 2DS 2.
[44] 2GL 17.
[45] Ibid., 8.
[46] Ibid., 7.
[47] Castro, p. 155.
[48] Ibid., p. 156.
[49] Ibid., p. 65.
[50] LB 13.
[51] Ibid. 8.9.
[52] Ibid. 6.
[53] Ibid. 7.
[54] Ibid. 9.
[55] Ibid. 15.
[56] Ibid. 10.
[57] Ibid. 11.13.9.
[58] Ibid. 15.
[59] Cf. 1DS. 13.
[60] J. Sánchez Martínez. “Kénosis-diaconía”, p. 292, 307, 393.
[61] Di loro non si parla. Nella biografia del Castro,
soltanto nel cap. XX si parla del compagno di Giovanni di Dio, Antón Martín.
Viceversa, nel “Processo”, antecedente alla biografia di Castro, si parla molte
volte di fratelli d’abito di Giovanni di Dio; se ne parla anche nelle biografie
scritte da Dionisio Celi e Antonio Govea. Giovanni d’Avila (che il Santo chiama
“Angulo” nelle sue lettere) fornisce il nome di quattro compagni di Giovanni di
Dio: Antón Martín, Pedro Pecador, Alonso Retingano e Domingo
Benedicto.
[62] L. Ortega Lázaro, El hermano Antón Martín y
su hospital en la calle Atocha de Madrid
(1500-1936), Madrid 1981,. p. 31.
cf. 17-19
[63] Cf. J. Sánchez Martínez. “Kénosis-diaconía”, TT 8/5; T 9/5; T
10/5, p. 346, 356, 364.
[64] Cf. J. Sánchez Martínez. “Kénosis-diaconía”, T 11/20, p. 383: accoglievano ogni tipo di
poveri, con ogni tipo di malattia, non importava che fossero mori o cristiani,
senza abbandonare nessuno.
[65] Già dalle prime Costituzioni si mette in risalto
quest’aspetto essenziale.
[66] Come per Giovanni di Dio, anche noi siamo
attratti in modo particolare dalla dedizione totale di Gesù nell’amore, fino
alla morte sulla croce per noi: la
contemplazione della Passione di Cristo, ”uomo dei dolori”
(Is 53, 3), occupa un posto di rilievo nella nostra spiritualità (Cost.
33). Su questo punto, la tradizione dell’Ordine si rifà al nostro Fondatore,
devotissimo della Passione di Cristo. Contemplando Cristo crocifisso, il nostro
Padre si centrava tanto nei patimenti di Gesù come nell’amore che lo motivava ad
accettarli; amore che
lo portò a perdonare, persino ai suoi nemici. Su questa qualità di amore
Giovanni di Dio insiste, quando dice a Luigi Battista: “Ricordatevi di nostro Signore Gesù Cristo e
della sua benedetta Passione, che restituì, per il male che gli facevano, il
bene: così dovete fare voi”
(nn. 10.11). Giovanni di Dio ci invita ad imitare
Cristo nei suoi patimenti, dedicandoci ad una vita di penitenza e di sacrificio
sino alla donazione d’amore nel servizio ai sofferenti. Nel volto afflitto dei
malati, nella vita annichilita dei poveri, Giovanni scopre e contempla Cristo.
Servirli, per Giovanni, non è una croce, non significa sacrificio: è
semplicemente la manifestazione concreta
che l’amore di Dio ha inondato la sua vita, e non può far altro che amare
tutti e sempre, in particolar modo i più deboli.
[67] La nostra spiritualità è, fondamentalmente,
cristocentrica. Giovanni di Dio amò Gesù in modo appassionato. Da lui abbiamo
appreso a centrare la nostra vita in Cristo e a contemplarlo nel suo modo di
servire, amare e guarire gli infermi. Gesù di Nazareth è il Maestro che, con il
suo modo di agire, ci insegna gli atteggiamenti ed i gesti che dobbiamo
incarnare per continuare la sua opera d’amore. Come Gesù, siamo chiamati a
sentire compassione nel  vedere
l’abbandono e la miseria della gente (Cf. Mt 9, 36) e a dedicarci a servirli e
consolarli come unica cosa che ci importa nella vita (Cf. Mc 6, 34-44); come
Gesù, sperimentiamo la capacità di essere consapevoli che, quando ci accostiamo
e serviamo i bisognosi, si manifesta una misteriosa forza interiore che ci
supera (Cf. Lc 8, 40-48); contemplando Gesù, che si identifica con i poveri e
gli infermi, prendendo su di sé i loro dolori e addossandosi le loro malattie
(Cf. Mt 8, 17), si rinnova la nostra decisione di dedicarci al servizio dei
sofferenti, assumendo, come Gesù, la condizione di servi che, con la dedizione
della propria vita, promuovono e difendono la vita dei poveri  (Cf. Mt
12, 15-21; 20, 28).
[68] La Vergine Maria,
figura della Chiesa e prima tra tutte le
persone consacrate (Cf. VC. 112), è per noi un modello di servizio a Cristo
nell’Ospitalità. Giovanni di Dio amò Maria di un amore intenso: la venerò e la
imitò nel suo modo di
vivere, fu un suo grande devoto, da lei si sentì accompagnato e protetto nei
momenti difficili della sua esistenza. Tutte le lettere di Giovanni di Dio
iniziano così: Nel nome di nostro Signore Gesù Cristo e della
Vergine Maria, sempre intatta
.
Come era d’abitudine in lui, invitava a fare tutto “…per il servizio di nostro Signore Gesù
Cristo e di nostra Signora la Vergine Maria
” (1 GL., 12)..Invocava la Madonna con la recita del santo
rosario ed esortava gli altri a recitarlo:
Mi è andata molto bene con il
Rosario, e spero in Dio, di recitarlo tutte le volte che potrò
”( LB., 17). Seppe trasmettere ai suoi
compagni la fiducia nella Vergine ed il desiderio di imitarla nel servizio ai
poveri e ai malati. Serva come esempio la testimonianza di Antón Martín
che, nel suo testamento, dice: Nel Nome della Santissima Trinità …e della beata
Vergine Gloriosa, nostra Signora Santa Maria sua Madre, che considero come mia
Signora e Protettrice in tutte le mie azioni… [...]…a servizio di nostro Signore
Gesù Cristo e della sua gloriosa Madre.(L. Ortega Lázaro, El Hermano Antón Martín y su Hospital en la
C. Atocha de Madrid
. 1550-1936, Madrid, 1981, p. 8).
Seguendo la tradizione
dell’Ordine, le Costituzioni raccolgono il senso mariano della nostra spiritualità:
la Vergine Maria è modello della nostra consacrazione a
Dio (n. 25), profondamente ospedaliera nella sua vita dedicata al servizio della persona e dell’opera
di Gesù (Cfr. n. 42b). Il suo esempio ci esorta a realizzare, come lei, il
nostro pellegrinaggio nella fede (Cf. LG. 58) e ad imitarla, accompagnando con
integrità ed amore profondo coloro che soffrono, associandoci in questo modo al
sacrificio del suo Figlio, che si prolunga nel dolore
dell’umanità
(n. 34a; Cfr. 4d). Maria, Salute degli infermi e madre
misericordiosa, ha un posto singolare nella vita della nostra comunità
ospedaliera
(Cost. 34) e nel cuore di ogni Confratello. Ci sentiamo
animati ad onorarla e ad imitare la sua semplicità e disponibilità, la sua
dedizione e fedeltà al progetto di Dio sulla nostra vita (Cfr. Cost. 4c), mentre
la veneriamo con affetto di pietà filiale celebrando le sue feste, in
particolare quella del suo Patrocinio sull’Ordine, e con le devozioni
tradizionali, tra le quali ha un’importanza speciale la recita del Rosario.
(Cfr. Cost. 4d; 34).
La Vergine del Magnificat mette in risalto uno degli aspetti più chiari della
nostra spiritualità: il Dio della misericordia mantiene le sue promesse di
liberazione e si china con una particolare predilezione sui poveri e sugli
umili, e farà trionfare il potere della sua misericordia sull’arroganza dei
potenti di questo mondo, che opprimono i deboli. Come Maria, siamo chiamati a
sentirci in comunione con essi, a sentire come propria la loro realtà ingiusta e
ad impegnarci evangelicamente per la loro liberazione integrale  (Cfr. Lc. 2, 46-53).
Nella visita ad Elisabetta, Maria ci viene proposta come modello di ospitalità per la
sua disponibilità di aiutare la cugina e di dedicarsi con semplicità al suo
servizio, ma soprattutto, perché in lei Dio manifesta e fa presente la sua
salvezza. Dio, incarnatosi nel seno di Maria, scegliendola come mediazione per
comunicare il suo Spirito ad Elisabetta e al bambino che portava in grembo (Cfr.
Lc 1, 41-44), eleva i gesti di ospitalità a livello di sacramento che evoca e compie la sua azione di salvezza.
[69] Cost. 1984 103a.
[70] Ibid. 1984, 103 § c.
[71] VC, 54.
[72] Dopo il Vaticano II, dalla metà degli anni Ottanta, l’Ordine incoraggiò ed animò un movimento di Alleanza con i Collaboratori.
Recentemente, la Chiesa ha riconosciuto questo importante passaggio dei laici da
operatori che lavorano per la missione o collaborano nella missione
dei religiosi, a operatori che condividono il carisma e la
missione dei religiosi
, in modo tale che “è iniziato un nuovo capitolo,
ricco di speranze, nella storia delle relazioni tra le persone consacrate e il
laicato”. (VC 54; Cfr. Cost. 23a).
[73] Cfr V.A. Riesco, La Hospitalidad manifestación del Ser de
Dios en favor del hombre. Fundamento bíblico de nuestra
espiritualidad
.
[74] Non è facile spiegare perché il Dio
dell’Antico Testamento fu presentato talvolta con tratti violenti e perfino
demoniaci. Il motivo di fondo era probabilmente la necessità di spiegare il
mistero del male, e di stabilire, contro ogni tipo di idolatria, che Yahweh era
l’unico Dio.
[75] Così lo esprime ripetutamente il primo Capitolo
(Costituzione Fondamentale) delle Costituzioni attuali. In primo luogo,
presentano San Giovanni di Dio come un uomo che : “trasformato interiormente dall’amore
misericordioso del Padre, visse in perfetta unità l’amore a Dio e al prossimo”
(Cost. 1); “imitò fedelmente il Salvatore nei suoi atteggiamenti e gesti di
misericordia…e si donò interamente al servizio dei poveri e dei malati” (Cost.
1).
[76] In secondo luogo, le Costituzioni affermano che:
“L’Ordine Ospedaliero nasce dal vangelo della misericordia (Mt 8,17; 25,34-46),
quale lo visse in pienezza San Giovanni di Dio” (Cost. 1); attraverso la
consacrazione dello Spirito i Confratelli si configurano con Gesù
compassionevole e misericordioso; partecipano dell’amore misericordioso del
Padre e mantengono viva nel tempo la presenza misericordiosa di Gesù di Nazareth
(cfr. Cost. 2).
[77] 1 DS, 13.
[78] Cfr. Daniel Innerarity, Ética de la hospitalidad, ed. Península,
Barcelona 2001.
[79] Cf. N.B. Pagadut, Be hospitable, Claretian Publications,
Quezon City, Philippines 1992.
[80] Castro, p. 107,108.
[81] un testimone ricorda che
un giorno, entrando in cucina, lo trovò molto allegro: batteva il palmo di una
mano sul dorso dell’altra, dicendo un canto santo. E questo testimone gli disse:
“Va tutto bene, Padre?” Ed egli rispose: “Chi serve Dio, vive allegro”. (T. 30. In Gómez Moreno, o.c. p 214).Molte volte mi trovavo lì e lo vedevo passare tra i
malati curandoli, vestendoli, girandoli e rimettendoli a letto prendendoli tra
le braccia, sempre sorridente e con tanto amore e carità che era una cosa
stupefacente, da sembrare che volesse stringere tutti i malati dentro di se. (T. 59. In Gómez Moreno, o.c., p.
231-232)
[82] 2 GL., 5.
[83]
A
mate nostro Signore Gesù Cristo sopra tutte le cose del mondo, ché per
molto che lo amiate, molto più Lui ama voi. Abbiate sempre carità, perché dove
non c’è carità, non c’è Dio, anche se Dio è in ogni luogo. (LB. 15)

[84]Cost. 1587, cap. 17. o.c., p. 95.
[85] Cost. 2 c.; 3 a; 5 a.
[86] Cfr. GS. 22; Cost. 20.
[87] “Il Rinnovamento ha due aspetti fondamentali:
innanzitutto esso cerca di eliminare le debolezze della nostra vita e di
abbattere le barriere che ostacolano la nostra comunione fraterna; in secondo
luogo si sforza di scoprire anche quei nostri “punti forti” che possono
facilitare il raggiungimento di una unione simile a quella tra il Padre e il
Figlio.” (P. Marchesi, Rinnovamento, Roma, 1978, p.
16).
[88] “…il bisogno fondamentale dell’uomo è quello di
essere riconosciuto come persona degna per se stessa, degna cioè di ricevere
attenzione, premura e amore al di là delle differenze di cultura, di
istituzione, di classe sociale, di religione e di razza …” ( P. Marchesi, Umanizzazione, Roma 1981, p.
21)
[89] Giunto che
fu alla Corte, il conte di Tendilla ed altri signori che lo conoscevano, ne
diedero notizia al Re, informandolo delle cose di Giovanni di Dio, e lo
introdussero nel palazzo. Ivi Giovanni gli parlò, iniziando in questo modo:
Signore, io sono solito chiamare tutti fratelli in Gesù Cristo. (Castro, o.c., p. 122)
[90] Cfr. Ordine Ospedaliero di San Giovanni di
Dio, Confratelli e Collaboratori
insieme per servire e promuovere la vita
.
[91] Negli anni ’80, sulla spinta del movimento di
umanizzazione, l’Ordine stava
ricercando il modo adatto per
riorganizzare la propria missione in favore
dei vecchi e dei nuovi bisogni dell’umanità. E’ interessante notare come
concluse i lavori l’Assemblea dei Provinciali, celebratasi nel 1981: “La nostra Assemblea riafferma la propria
speranza ed il proprio impegno nel costante rinnovamento dell’Ordine. Siamo
convinti che esso può essere ottenuto esclusivamente se tutti noi, membri
dell’Istituto, viviamo in continuo atteggiamento di attenzione per quelle
esigenze che implica la nostra consacrazione e se ci sforziamo di tradurre
questo nostro atteggiamento in concrete risposte alle speranze riposte in noi
dalla Chiesa e dalla Società. Considerando che il mondo sta vivendo
un momento importante della sua storia, i
cui valori fondamentali della persona sono ad un tempo rivendicati ed infranti,
noi assumiamo l’impegno preciso, espressione concreta del carisma dell’Ordine,
di difendere e promuovere senza indugio
il rispetto della dignità umana. Ciò ha suscitato in noi la convinzione che
l’umanizzazione, intesa nel senso da essa acquisito nella persona di Gesù di
Nazareth, costituisce, nel momento storico che stiamo attraversando, il vincolo
unificante ed integrante che può aiutarci a
tradurre in fatti di vita il processo di
rinnovamento”
(P. Marchesi, o.c., p.
146-147).
[92] Cfr. anche il n.10: “E’ questo un tempo in cui lo
Spirito irrompe, aprendo nuove possibilità. La dimensione carismatica delle
diverse forme di vita consacrata, pur sempre in cammino e mai compiuta, prepara
nella Chiesa, in sinergia con il Paraclito, l’avvento di Colui che deve venire,
di Colui che è già l’avvenire dell’umanità in cammino”. Vedere inoltre i numeri
18, 21, ecc. Non dimentichiamo che questo documento si basa sull’immagine del
“cammino”..
[93] Cfr. Governo Generale, Giovanni di Dio continua a vivere nel
tempo,
Cernusco sul Naviglio, 1992, punto 1.
[94] E’ stato così per Giovanni di Dio: sentendosi
senza radici umane autentiche, si ravvivò in lui la chiamata che, già da
Oropesa, lo invitava a lasciare il lavoro di pastore del gregge e di accudire ai
cavalli del Conte per dedicarsi a servire il Signore “fuori del luogo nativo”
poiché “sentiva una gran pena, allorché…vedeva nella scuderia i cavalli grassi e
lucidi e ben coperti, ed i poveri invece deboli ed ignudi e trattati male. E
dentro di sé diceva: E come, Giovanni, non sarebbe meglio che tu attendessi a
curare e nutrire i poveri di Gesù Cristo, piuttosto che le bestie del campo?”
(Castro, p. 51-52).
[95] S.C. 10
[96] Nell’Eucarestia infatti, ,
il Signore Gesù ci associa a sé nella propria offerta pasquale al Padre: offriamo
e siamo offerti. La stessa consacrazione religiosa assume una struttura
eucaristica: è totale oblazione di sé, strettamente
associata al sacrificio eucaristico. Qui si concentrano tutte le forme di
preghiera, viene proclamata ed accolta la Parola di Dio, si è interpellati sul rapporto con Dio,
con i fratelli, con tutti gli uomini: è il sacramento della filiazione, della
fraternità e della missione. Sacramento dell’unità con Cristo, l’Eucarestia è
contemporaneamente sacramento dell’unità ecclesiale e dell’unità della comunità
dei consacrati. (Ripartire da Cristo, n. 26)
[97] La “permanente disponibilità (di Gesù) ad essere
fortezza, consolazione e viatico degli ammalati, ci stimola a perseverare
accanto all’uomo che soffre, accompagnandolo nel suo dolore e nella sua
solitudine” (Cost. 30c).
[98] “La Chiesa ha bisogno di noi come noi abbiamo
bisogno di Lei, e ciò sarà sempre più vero nei prossimi anni. E’ indispensabile
comunicare all’interno della Chiesa. La nostra vocazione e il carisma del nostro
Ordine nella loro identità e nei loro programmi, debbono essere ben presenti al
mondo dei credenti, per diventare per essi uno stimolo e anche un modello, una
strada per realizzare la comune vocazione battesimale alla santità” . (P. Marchesi, Ospitalità dei Fatebenefratelli verso il
2000,
Roma, 1987, n. 89).
[99] Cfr. P.
Marchesi, L’Ospitalità dei Fatebenefratelli
verso il 2000
, Roma, 1987, nn. 66-86.
[100] La spiritualità nella missione si esprime nell’entusiasmo,
nell’immaginazione profetica, nella creatività apostolica. La mancanza di
Spirito porta alla routine, alla monotonia, alla mera ripetizione.
La presenza dello Spirito è il
fuoco che tutto anima e ricrea.
Per un religioso con spirito ospedaliero la
vocazione non diventa mai un’abitudine. Scopre sempre la novità del Regno di Dio in tutto ciò che
fa.
[101] Il nostro corpo è in strettissima relazione con la natura.
Il corpo è quella parte
della natura che più abbiamo addomesticato. La nostra spiritualità acquisisce
così toni
profondamente ecologici, che non dobbiamo trascurare: in
questo modo percepiremo meglio le possibilità
del corpo umano, ma anche le sue
debolezze e i suoi rischi. .
[102] Nell’orizzonte della vita di un Fatebenefratello c’è sempre
la possibilità del martirio, il “caso serio”
della generosità della carità, della confessione
della fede e della proclamazione della speranza.
Il martirio è un dono. Ed è sempre
stato riconosciuto come tale. E’ un dono per il martire ed anche per l’Ordine.
E
’ un dono paradossale,
ma reale. Possiamo evitarlo anticipatamente, se
eludiamo il pericolo, se cerchiamo
sicurezze, se evitiamo qualsiasi tipo di rischio. Una vita così, non merita
l’appellativo di “ospedaliera” e “misericordiosa
”. Il martirio come orizzonte dà
un colore speciale alla vita ospedaliera.
Fanno parte delle forme di martirio anche gli
impegni a favore poveri che comportano emarginazione, isolamento,
condanna. E
’ quando
l’ospedaliero può dire: “sono stato in carcere”, “sono stato espulso”.
”.
[103]Nella nostra vita passiamo per tappe significative; in
particolare dobbiamo curare: i primi anni della formazione iniziale di ogni
tappa, l
’età della
maturità; i momenti di crisi e di ritiro progressivo dall’azione. La vita degli
Istituti religiosi, e soprattutto il loro futuro, dipende in parte dalla
formazione permanente dei loro membri. E’ dovere di ogni
Istituto procurare i mezzi e i tempi adeguati perché le
persone si formino adeguatamente
. Ordine Ospedaliero di San Giovanni
di Dio,
Progetto Formativo dei Fatebenefratelli . (P.F.O.) Roma 2000, nº 132). Cfr.
Ordine Ospedaliero di San Giovanni
di Dio
. La Formazione Permanente nell’Ordine Roma 1991.
[104] P.F.O.., nn. 39 e 44.
[105] Ibid., nºn. 46-57. Caratteristiche del nostro
modello
formativo: integrale, in evoluzione, esperenziale, personalizzato, lgraduale e differenziato, liberatore e profetico, universale.
[106] Ibid., nº 24: “Alla luce dell’itinerario del
nostro Fondatore, il processo formativo deve offrire ai candidati ed ai formandi
un ampio spazio per interiorizzare e riflettere sul carisma e sulla spiritualità
dell’Ordine. E’
una
sfida per l’Ordine educare, formare e rendere in grado i Confratelli di
testimoniare il vangelo della misericordia
nella società attuale, con fedeltà creativa ”.
[107] Ibid., nn. 92 e 137c.
[108] Ibid., n. 26h. La formazione permanente nell’Ordine, n. 33
[109] Ibid, n. 136. La formazione  permanente nell’Ordine , n. 34.
[110] Ibid, nº 44. La formazione  permanente nell’Ordine , nn. 35 e 36.
[111] Nel cammino personale di spiritualità è essenziale l’accompagnamento spirituale, non solo durante la
gioventù
, ma in ogni età. L’esempio del rapporto
di San Giovanni di Dio con San Giovanni d’Avila è un eccellente punto di
riferimento per noi. Dobbiamo
instaurare un canale di comunicazione, al più profondo livello,
c
on un religioso o una religiosa che abbia una certa esperienza
nel cammino del Signore. Ci
servirà da riferimento, da contrasto, da stimolo. I
nostri superiori sono invece chiamati nella misura del possibiledi realizzare un servizio di animazione
spirituale nei
confronti di ciascun Confratello della comunità..
[112] Ogni Confratello ed ogni formando
devono saper integrare e vivere tutti gli avvenimenti, siano essi positivi o
negativi, come parte della propria storia di salvezza, partendo dalla quale Dio
ci parla e ci guida
”. (P.F.O., nn. 27 e 50)
[113] NMI 58.

Per noi donne solo sei sacramenti – Cettina Militello

CETTINA MILITELLO (nella foto), laureata in filosofia e teologia, è TEOLOGA a tutti gli effetti. Di lei sto leggendo IL GIUBILEO E L’INIZIAZIONE CRISTIANA. Dunque un libro del 2000, solo apparentemente vecchio. Ma non scaduto. Perché, se il Giubileo è riscoperta del senso profondo dell’essere cristiano, del pellegrinaggio della vita che è itinerario verso Dio,  una tappa nell’ oasi,  il deserto è sempre lì che mi aspetta e la terra promessa, ancora molto lontana.

Io come voi, appartengo a un popolo unto dallo Spirito. Ogni tanto ce lo sentiamo ripetere. Ma cosa significa? Il rimando è alla prima lettera di Giovanni (cfr. 1Gv 2, 20). In senso immediatamente teologico vuol dire mettere a profitto i lunghi discorsi di congedo nei quali, nel vangelo di Giovanni, Gesù assicura idiscepoli che non li lascerà soli, ma darà ad essi un altro “consolatore” che li condurrà alla verità tutta intera (cfr. Gv 15, 26; 16, 5-15).

Non mi dilungo perché ci sarebbe tanto altro…e, come si vede, questo libro non è uno yogurt che ha una data di scadenza. Ma poi, se sono in ritardo con l’editoria, è perché investo in borsa. Mi spiego: la tentazione di accedere alle ultime novità librarie è fortissima. Ma, la mole che il vulcano mensilmente emette,  è un lusso che pochi posono permettersi. So che gli editori con i tipi come me non faranno mai fortuna. Gli è che noi sappiamo attendere…Così il libro in oggetto, nuovo di zecca, è finito nella mia libreria – non dico da dove – per la ragionevole somma di 1 Euro. E così tanti altri. Meglio che investire in borsa, no?

Cettina mi ha fatto venire in mente che in archivio doveva esserci il file di una sua intervista che mi era piaciuta. Così, dopo Madre Teresa di Calcutta che riprenderò, ho deciso di rimetterla in circolazione, perché anch’essa ancora di attualità. Mi sbaglierò, ma col tempo mi sono fatto la convinzione che IL FUTURO E’ DONNA. Nella Società, nella Chiesa, nella Vita Consacrata, nella Famiglia

Un buon motivo per non arrivarci senza essersene accorti. Uomini di tutto il pianeta, siete avvisati. E’ uno dei segni dei tempi. Dunque, con la Militello, un’occasione per scoprire un’altra teologa, sorella di teologi famosi ma notevolmente diversa da loro. Già il titolo suona polemico. Perciò, niente paura, ascoltare tutte le voci e discernere. Buon Spirito Santo!

INTERVISTA ALLA TEOLOGA BRASILIANA LINA BOFF

Per noi donne solo sei sacramenti

di CETTINA MILITELLO

Suor Lina Boff, delle Serve di Maria. La religiosa, di origine italiana, non risparmia le critiche alle istituzioni. In un Paese tormentato da povertà e violenza, lei divide la passione per la teologia con quella per i diritti civili. L’amore per la giustizia, insegnatole dal padre, e il rapporto con i fratelli Leonardo e Clodovis.

Il nome dei Boff è noto nel mondo della teologia. Ho letto con ammirata attenzione Il volto materno di Dio (Queriniana, Brescia 1981) di Leonardo, che ha avuto più volte gli onori (indesiderati) della cronaca ecclesiale. Nella storia di questo francescano, fedele al suo ordine anche nel massimalismo mariano, ha costituito la pietra d’inciampo non tanto la mariologia quanto l’ecclesiologia.

La questione ecclesiologica ha toccato anche il fratello Clodovis, frate tra i Servi di Maria. La parabola di Leonardo si è avviata alle conclusioni che sappiamo dopo una vicenda lunga e sofferta. Più mite e defilato, Clodovis insegna teologia e mi è collega alla Pontificia facoltà teologica “Marianum”.

Dei tre fratelli teologi, ho conosciuto Lina per ultima. Ed è toccato a me, così lontana, dare un parere sul suo passaggio a docente stabile. Da ultimo è stata in Italia in occasione del Congresso mariologico-mariano internazionale del settembre 2000 il cui tema era “Maria e la Trinità”. Lina ha studiato presso le Serve di Maria Riparatrice; delle quali posso testimoniare lo sforzo nella ricerca di modelli innovativi sulle questioni attinenti il “genere”. I Servi di Maria onorano “nostra Donna” senza eluderne la femminilità. Per questa ragione al Marianum è stata di recente istituita la cattedra “Donna e cristianesimo“. Per vie proprie, e per contagio, anche le Serve si sono fatte attente all’identità femminile.

Lina Boff divide la passione per la teologia con quella dei diritti civili ed ecclesiali degli individui. Alle mie domande ha risposto in un italo-brasiliano asciutto e aspro che nei limiti del possibile ho lasciato intatto. Traspare un mondo assai diverso dal nostro, una situazione di lacerazione e di frontiera che è difficile percepire non avendone fatto esperienza. Le espressioni forti della Boff vanno ricondotte ai contesti sociali, di cui parlo a parte. Lina, prossima e lontana insieme ai suoi due fratelli, fa la teologa in una zona di frontiera. A me pare che assecondi e alimenti la speranza e che da lei, come da altre donne coraggiose, passi il futuro della fede.

  • Lina, che cosa ti ha spinta a studiare teologia?

«Un dono interiore, che ho interpretato come chiamata speciale di Dio. Ma anche la mia insoddisfazione per le modalità in cui si traduce la vita religiosa. Trovo in essa un eccesso di istituzionalità, che fa perdere di vista il nocciolo. Non ho trovato risposta alle mie domande insegnando lettere e nemmeno impegnandomi nella scienza pedagogica».

  • Sembra che non tutto sia stato conforme alle tue aspettative…

«L’essere religiosa mi ha consentito di fare molteplici esperienze e di arrivare nel profondo di me stessa. Questo è il positivo. Ma per spingermi sino in fondo ho dovuto oltrepassare l’orizzonte proposto dall’assetto istituzionale. Il progetto della vita religiosa è molto più ampio di quello che si vive e si fa. Per me qualsiasi vocazione dev’essere dinamica; deve implicare un cammino in avanti. Questo mi sono riproposta in ogni mia scelta e da suora non ho cambiato idea. Ma scegliere di camminare in avanti, per chi vive in un’istituzione, è scomodo. Non solo non la si considera una scelta profetica, ma addirittura la si avverte come un disturbo. La teologia mi ha aiutata a non fermarmi, anche se devo pagare sulla pelle quello che ho scelto di fare come adeguamento al progetto di Dio. Non vedo che senso possa avere l’appartenere a una congregazione senza il coraggio di andare sempre avanti».

  • Alle spalle c’è la storia personale. La tua famiglia è di origine italiana…

«Sì, italiani emigrati dall’Austria (Rech, Boff) i parenti di mio padre e dal Veneto (Fontana, Poletto) quelli di mia madre. Il veneto è stata la nostra prima lingua. Eravamo in 11: 6 sorelle e 5 fratelli! I miei fratelli Clodovis e Leonardo si sono fatti frati, io Serva di Maria. Allora l’unica possibilità, per far studiare tanti figli, era il seminario o l’internato presso le suore. Eravamo nati in campagna. Mio padre, ex-allievo dei Gesuiti, era insegnante a San Leopoldo nello Stato di Rio Grande del Sud. Lo definirei un filosofo. Ha fondato una biblioteca popolare per la gente del villaggio. Mio padre si chiamava Planalto, era un intellettuale, sempre pronto a pensare; però attento ai problemi sociali. Prendeva le difese della gente di colore che abitava vicino a un fiume. Era considerato una sorta di difensore pubblico. Veniva da lui la povera gente. Papà li riceveva in casa e li difendeva dai commercianti. Si impegnava a loro favore. La mamma temeva di perdere il marito».

  • Aveva ragione ad aver paura?

«Sì. Una notte papà tardava a tornare a casa e la mamma piangeva perché temeva che lo avessero ammazzato. Proprio quella notte lui corse questo rischio. Essendosi accorto della complicità di un amico, suo “compare”, gli disse: “Ma anche tu, compare Argenton, sei contro di me?”».

  • Parlami di tua madre…

«Mamma coltivava un campo per il nostro fabbisogno. Noi figli, nelle vacanze, lavoravamo con lei per vivere. Avevamo una mucca, due o tre porcellini, le galline, un cavallo per trasportare ciò che serviva a mantenerci e che ci portava avanti e indietro dalla campagna (roça, in portoghese). Salivamo anche in 6 su questo cavallo che si chiamava Báio. Alla sera, al chiaro di luna, la mamma ci insegnava a cantare a due e tre voci. Ci raccontava il suo fidanzamento con papà, le lettere appassionate e romantiche che riceveva senza saperle leggere. Ma aveva un fratello che leggeva per lei, il nostro caro zio Aurelio Fontana, morto da poco. La mamma era indipendente da papà per tutto quello che si riferiva all’amministrazione della casa, il sostentamento di tutta la famiglia, la salute di ognuno, e anche per le scelte che si dovevano fare per il nostro futuro. Il posto per studiare e i libri erano compito di nostro padre».

  • E voi figli?

«Eravamo tutti dalla parte della mamma quando discutevano. Mettere insieme due teste così diverse era una battaglia che coinvolgeva anche tutti noi. Ognuno, poi, aveva il suo lavoro in casa e in campagna, e, oltre a ciò, dovevamo studiare le declinazioni latine, l’alfabeto greco, il francese con un ex-seminarista amico di papà. Leggevamo i romanzi dell’epoca, le favole di La Fontaine. Noi tre religiosi siamo stati aiutati dalla mamma che ci lasciava molto liberi. Quando due frati Servi di Maria sono venuti a prendere Clodovis per portarlo al Seminario di Turvo-Santa Catarina, lui piangeva per la paura di non poter più ritornare a casa. È andato così a consigliarsi con la mamma pochi minuti prima di partire (con poca roba in un sacco di cotone). E lei gli ha detto: “Caro Nene, se non riesci ad abituarti a stare con i frati, torna a casa da me che ti voglio tanto, ma tanto, bene!”. Clodovis si è sentito libero e si è risolto a partire. Leonardo, invece, preoccupava papà che diceva di lui: “Pensa troppo e vuole che l’umanità cammini come la pensa lui e non come può… Va troppo avanti, cammina da solo!”. Papà era orgoglioso di questo suo figlio. Il suo sogno era vederlo salire all’altare. L’emozione dell’ordinazione fu la più forte della sua vita. Ci ha lasciati appena pochi mesi dopo».

  • Come donna qual è stata la tua esperienza?

«La mia vocazione è stata a un tempo un incontrare me stessa e un entrare nell’intimità di un Dio solidale e attento alla realtà concreta della mia persona. È stata, lo dico a tutte maiuscole, un’esperienza di “rivelazione”. Le difficoltà si sono manifestate a livello dell’istituzione. Innanzitutto di quella religiosa che vede la suora impegnata a lavorare soltanto all’interno della sua comunità, della sua congregazione e non fuori, in mezzo alla gente. A livello più ampio, di istituzione ecclesiale, ho poi trovato un’estrema povertà circa la coscienza del regno di Dio e circa la Chiesa come popolo di Dio. Ma anche a livello accademico i problemi non sono mancati e non mancano a causa della discriminazione clericale. Come donne si è escluse da tante cose perché senza l’ordine. Per noi donne ci sono 6 sacramenti e non 7! Invece è stata assai positiva l’esperienza con gli allievi – posso proprio dirtelo! –, soprattutto con i laici e con le religiose che riescono a uscire dal nido delle loro comunità».

  • Ci dici il tuo percorso ecclesiale?

«Da Serva di Maria, sono stata impegnata, per i primi dieci anni, come missionaria nell’Acre-Amazonia. Lì, non c’era spazio per la teoria. Bisognava darsi da fare e c’era una grande possibilità di contatto con la gente. Poi ho lavorato in una istituzione statale di Rio de Janeiro con i minori abbandonati. Erano ragazzi dagli undici ai diciotto anni. Anche in questo periodo il mio impegno era soprattutto pratico. Dovevo portarlo avanti con gli strumenti delle scienze umane, della sociologia innanzitutto».

  • Quando hai ripreso la teologia?

«Ho ripreso gli studi quando, eletta consigliera generale, ho dovuto abitare a Roma. Ho cominciato a frequentare la Gregoriana. In quel periodo sono riuscita a finire la teologia cominciata a Petropolis. Avevo tempo per lo studio e per la ricerca. In precedenza, a più riprese e durante le mie vacanze dal lavoro, avevo frequentato vari corsi teologici. Era una necessità, visto il tipo di attività che svolgevo. Ero obbligata a studiare le questioni sociali. Le affrontavo soprattutto con i laici, per i quali ero una religiosa informata ma che non ha approfondito bene le cause… Mi riferisco ai problemi della gioventù abbandonata, in età difficile».

  • Cosa ha rappresentato per te questo ritorno alla teologia?

«Mi sono trovata a un bivio. Ho dovuto assumere una posizione di resistenza dinanzi alle persone che in prima linea rappresentavano l’istituzione. Il bivio era proprio l’istituzione, la stessa vita religiosa. Non era possibile immaginare una suora teologa. Spiegare le ragioni della propria fede è istanza recente, di pochi anni. Sentiamo ancora le conseguenze della resistenza opposta a tutto ciò dalla vita religiosa. Occorre lasciare spazio alla riflessione; far luce su certe situazioni che devono cambiare, a tutti i livelli… Non solo nella religione, ma nel mondo, nella società, nelle istituzioni in genere, nei movimenti popolari ecc. Tutto questo fa paura, rappresenta una minaccia per chi deve esercitarsi nel servizio di stimolare e motivare una scelta che crea una cultura della vita alla luce della fede. Non mi riferisco a nomi o a specifici servizi, ma a tutta intera una situazione che è ancora nelle doglie del parto. Personalmente cerco di rispettare lo spazio del sapere, ma non so se il potere-servizio si rende conto di questo problema! Sia il sapere della fede, sia il servizio del potere camminano assieme!».

  • Ma non può esserci comunque la tentazione del potere?

«Le suore teologhe sono le serve e non le padrone… Vivono, nella loro limitatezza, la chiamata del Signore in un progetto che deve essere rispettato e stimolato ad andare avanti. Mi considero felice per il fatto che nella mia congregazione non c’è un modello di governo autoritario, ma un modo d’essere, uno stile di animazione che include tutte e tutti. Le questioni che sollevo valgono però anche per noi, per l’istituzione a cui appartengo. Chi fa teologia fa luce sulle cose di questa vita e la luce fa paura, non è accettata».

  • Torniamo al tuo percorso…

«Ritornata in Brasile, ho elaborato la tesi di laurea e subito dopo ho avuto un anno sabbatico che mi ha consentito un post-dottorato alla Gregoriana. Ho presentato un più approfondito lavoro di ricerca sulla prima parte della tesi di laurea. Di nuovo in Brasile, sono stata invitata ad assumere un servizio amministrativo a livello di licenza e dottorato nella facoltà dove lavoro ora. Sono coordinatrice di tutta la teologia e assegno corsi a livello di licenza, di master e di dottorato. In questo momento sono concentrata come ricercatrice in escatologia e mariologia. Ciò non impedisce che mi dedichi ad altri corsi e pubblicazioni».

  • I laici in Brasile frequentano le facoltà di teologia? Che possibilità di impegno hanno nella ricerca e nella pastorale?

«Questo non è un tempo propizio per i laici. Comunque, vedo che qui in università la teologia è un ambito di studi cui accedono persone che hanno già frequentato altre facoltà, che lavorano e trovano il tempo per approfondire la loro fede, sia a livello accademico che ad altri livelli. Abbiamo corsi, quasi accademici, alla sera, due o una volta alla settimana, per una durata di circa 3 anni. Li frequentano coppie, donne che esercitano professioni liberali in tutti i campi della scienza. Parlo soprattutto di persone che lavorano nelle favelas, nelle periferie, nei movimenti popolari, nelle organizzazioni non-governative, nelle parrocchie, nelle piccole comunità sparse all’interno del Brasile rurale, di militanti nei partiti. Nei corsi di master e dottorato un terzo sono cattolici e due terzi evangelici».

  • Qual è la presenza delle donne, sia come allieve che come docenti?

«Purtroppo nella facoltà di teologia le donne sono molto diminuite. C’è poco spazio di lavoro. Come corpo docente siamo metà e metà. La preferenza, però, è data sempre più ai chierici, agli uomini. Una donna non potrà mai essere preside della facoltà teologica di Rio. Una mia collega, che insegna alla facoltà di teologia e ha già conseguito il dottorato, per avere una possibilità più ampia di lavoro sta conseguendo la laurea (6 anni) in psicologia per estendere la sua ricerca fuori degli ambiti strettamente teologici. Per noi donne è un problema serio vedersi restringere l’ambito della teologia. Come si può lavorare da teologhe senza aprirsi alle altre scienze anche per riscattare le conquiste già fatte, in passato, dalle donne? Davvero non ci sembra roseo il nostro futuro come teologhe!».

  • Eppure, la Chiesa brasiliana in passato ha prestato attenzione alla questione femminile. Che cosa è rimasto di quei documenti?

«Non voglio parlare in generale della Chiesa ma piuttosto delle donne. Il loro impegno più forte, quello che in questo momento vedo come tale, soprattutto da parte di coloro che in passato dimostravano più grinta, è – mi pare – quello del dialogo interreligioso e un po’ meno dell’ecumenismo. Nel campo del dialogo interreligioso le donne si sentono libere. Ne sono venute fuori esperienze bellissime. Il sacro ha preso forza nella donna latino-americana e caraibica del nostro tempo. Ci sono degli studi e delle ricerche nel campo esoterico, della cura, del sacro, visti come un tutt’uno; c’è il riscatto della “strega”, soprattutto con l’obiettivo di ricercare il lato buono di cose considerate per tanti secoli “demoniache”… Cosa è rimasto dei nostri impegni e documenti, non saprei dirti ora, ma certamente ci hanno aperto altri campi del vivere in comunità come donne e uomini, dato che non siamo accettate con facilità, né nel “sacro” né nel “profano”. Non a caso, le tesi elaborate dalle donne sono soprattutto dirette alle tematiche del “genere”. Vanno dall’elaborazione di strategie a favore delle donne stuprate dentro casa dal maschio alla riflessione su chi è Dio per la donna, su quale sia per le donne l’immagine di Dio. Siamo sempre più coscienti che dobbiamo lavorare con le donne e, insieme, fare un cammino con gli uomini. Diciamo sempre più a noi stesse che non siamo ancora diventate persone, non lo siamo noi donne, né lo sono ancora gli stessi uomini. Quando saremo persone potremo camminare insieme. La complessità di questo cammino spiega perché le donne preferiscono lavorare nelle scienze religiose, nella cultura religiosa, più che nella teologia, in senso stretto, accademica. Sul piano ecclesiale, poi, i vescovi non possono contare pubblicamente su di noi, perché restiamo escluse anche dal diaconato. Sono però sempre più coscienti che senza di noi la Chiesa in America del Sud non funziona, neanche come istituzione. Abbiamo dunque speranza per il futuro».

  • Quale contributo teologico possono o debbono offrire le donne?

«Sono innanzitutto persuasa che devono avere gli stessi strumenti dei chierici e dei vescovi. Bisogna possedere come loro la teologia e sapere anche quali conseguenze se ne traggono sotto il profilo teologico e sotto quello pastorale. Solo sulla base di questa consapevolezza si può provare a fare una teologia nell’ottica nostra di donne, a partire dalla nostra esperienza. Ovviamente si deve tener conto del linguaggio, del contesto sociale, dello spazio che sempre più si restringe, e di una nuova ermeneutica che tenga conto di tutta la vita umana, senza lacerazioni, in fedeltà al piano di Dio che ci ha creati donna-uomo. Quello delle teologhe è un lavoro doppio. Occorre fare teologia insieme: donne-uomini-chierici-vescovi. Bisogna anche avere più coraggio nel dialogo con le altre confessioni e nel dialogo interreligioso».

  • Mi pare di sentire un’eco di quanto scrivono i tuoi fratelli teologi. Ne condividi le posizioni?

«Per Leonardo e Clodovis sono prima di tutto una sorella, a volte cara e a volte no. Loro sono loro, io sono io. Per me, tanto l’uno come l’altro, vedono le cose da lontano, alla maniera dei profeti, ma nella pratica vedono le cose da poca distanza. Ti porto un esempio: quando ho conosciuto meglio il socialismo dell’Africa, dove si mischiavano Cuba, la Russia, la Francia e così via, ho posto a entrambi grossissime questioni tornando in Brasile. Nessuno dei due ha voluto discuterne con me. Ero convintissima che quel socialismo non portava da nessuna parte. E loro erano già stati in Russia. Ti ricordi quanta pubblicità sui teologi della liberazione che invadevano la Russia, che sperimentavano il socialismo a tutte maiuscole? Con questo non escludo che si possa approfittare di quanto di buono viene dall’esperienza socialista! Condivido con loro tante cose in linea di principio, ma non sempre, poi, nella pratica. Mi sembra che l’orizzonte della teologia che nasce dalla pratica, dall’esperienza, deve venir fuori dalla collaborazione tra uomini e donne, e non solo dagli uni o dalle altre. Ancora oggi penso che ho provato in Africa quello che mai, fino a quel momento, avrei pensato di provare. E quest’esperienza ha comportato un mio diverso modo di pensare… Poco dopo, è caduto il muro di Berlino… Clodovis e Leonardo sono due fratelli che amo con tutto il cuore. Ma tante volte sono tentata di ignorare l’amore che nutro per ognuno dei due».

Leonardo Boff, teologo della liberazione (foto Giuliani).

  • Hai accennato alla teologia della liberazione. Cosa è stata e cos’è per voi, in America Latina?

«Si è trattato di un momento profetico e assolutamente necessario, senza di cui non saremmo arrivati dove siamo. Se ne parla poco adesso, ma la si vive di più, nel senso che abbiamo assimilato in tale forma questo modo di pensare la fede a partire dalle nostre esperienze e dalla povertà, che non c’è più bisogno di parlarne. Non si parla di ciò che si vive già. A livello di stampa la teologia della liberazione non è una novità. Per noi continua a esserlo e non cesserà mai di esserlo».

  • E in rapporto alle donne?

«Anche per noi donne resta la novità del fare la nostra teologia della liberazione senza escludere quella elaborata dagli uomini, i quali hanno l’appoggio di tutto il mondo, teologico e non. La teologia della liberazione nasce continuamente, a suo modo, da un’esperienza di fede del Risorto. Io, personalmente, trovo difficoltà nel parlare delle apparizioni del Risorto agli apostoli e alle donne nel mattino del primo giorno. Sarà facile per il nostro corpo mortale captare la gloria di un corpo risuscitato? A Dio niente è impossibile. Ma dobbiamo pensare come interpretare questi testi come donne! Le scienze umane potranno aiutarci tanto, ma l’esperienza di fede ancor di più! Abbiamo tanto da fare come donne e in ogni campo della teologia, dell’antropologia e della cristologia».

  • Quale contributo intendi dare?

«Quello di operare in futuro per una teologia fatta da uomini e donne, insieme, non divisi. Personalmente, poi, penso di dovermi costruire sempre più come persona, senza perdere la mia identità di donna credente nel Signore risuscitato. Questo il mio contributo».

  • A cosa stai lavorando, che libri hai in programma?

«Sul piano della ricerca vorrei approfondire la prospettiva dell’escatologia attingendo a fonti diverse. Mi piacerebbe anche avviare un archivio storico relativo alle province diverse della mia congregazione qui in Brasile. Quanto ai libri ne ho più di uno in cantiere. Vorrei scrivere sulla mariologia in un’ottica latino-americana; vorrei poi portare a termine il volume che ho già iniziato sulla vita consacrata a partire dall’esperienza di vita e un altro, sempre, sulla vita religiosa nel ritmo del terzo millennio, il cui sottotitolo è: “Una proposta di rifondazione?”».

  • Quali strategie ti sembrano possibili per il futuro della Chiesa?

«Sarò brutale: innanzitutto occorre alimentare la speranza che questa istituzione, così come si presenta e come agisce, nei suoi aspetti di connivenza e di complicità con ciò che è estraneo al disegno di Dio, muoia quanto prima. La morte porterà la risurrezione certamente, come ha portato la risurrezione la morte per amore, la morte di Cristo».

  • Trovo queste parole pesanti. Ovviamente non parli della Chiesa nel senso forte, misterico. Ti limiti a quegli aspetti che sfigurano il volto della sposa di Cristo!

«Sì, certo! Lasciami però dire che sogno una Chiesa laicale, solidale, semplice, “sposata” non solo con le donne ma anche con il popolo. Una Chiesa “una” nella carne e nello spirito tramite i diversi carismi: povera e umile; dove le donne, a cui è impedito di occupare gli spazi riservati agli uomini ordinati, possano e sappiano creare altri spazi che il potere clericale non possa condizionare. Sogno di spostare il baricentro da una Chiesa fissa e immobile a una itinerante; che vada dove il popolo cammina; che cammini seguendo il popolo e da esso impari a vivere, a livello umano e cristiano».

  • Cosa pensi della situazione politica internazionale e del possibile contributo delle donne?

«Credo occorra rendersi conto che muore più gente nel Sud del mondo che non in Afghanistan o in Palestina o in altri Paesi dilaniati dalla guerra civile, come in Africa. I mass media sono lontani da noi. E noi facciamo poco per far arrivare il nostro messaggio attraverso di essi. La potenza dei media scende a compromessi contro l’umanità. Come donne, il nostro contributo più immediato e fattibile è di stare vicino al popolo che soffre; di ascoltarlo e avvertire quello che sente e pensa. Spetta al popolo organizzato cambiare il corso della Storia (della salvezza). Ma, mi chiedo, noi donne, come ci collochiamo in mezzo a questo popolo? Credo che occorra andare avanti, mettendo a frutto la riflessione e la ricerca secondo quanto ci è segnalato dalla gente e dalle Chiese più impegnate con le masse escluse e derelitte. Questo significa dare il proprio sangue. In questo periodo, in Brasile, abbiamo vissuto tre attentati contro leader del PT, il Partito dei lavoratori (per inciso, le Chiese più aperte di questo Paese appoggiano il progetto del PT). Due di loro sono stati torturati e sono morti: il governatore di due prefetture di San Paolo e il coordinatore del Movimento dei senza terra (MST). Credimi, a San Paolo si vive in questo momento peggio che in Afghanistan. Questa situazione disperata e tragica mi costringe a riflettere e a cambiare il modo di fare teologia».

Cettina Militello

Tra la Gregoriana e la Católica SERVA DI MARIA AL SERVIZIO DELLA TEOLOGIA

Lina Boff, da religiosa Irmã Maria Lina, al battesimo Jenura Clotilde, è nata a Concordia (SC – Brasile) nel 1936. Licenziata in teologia presso la Pontificia università Gregoriana e la Pontifícia universidade Católica do Rio de Janeiro (Puc) (1986), ha conseguito il dottorato in teologia presso la Católica (1994), e il diploma di perfezionamento post-dottorato presso la Gregoriana (1995) con una dissertazione guidata dal professor Félix Alexandre Pastor.

Come religiosa ha diretto il Colgio Estadual/SC (1960-1970); è stata orientadora educacional nella Fundação do Bem-estar do Menor (1972-1978). Già consigliera generale delle Serve di Maria Riparatrice (1978-1984), dal 1987 è consigliera della Conferenza dei religiosi del Brasile (Crb), membro permanente dell’Equipe di riflessione teologica della Crb (Ert-Crb) e membro collaboratore dell’Unione internazionale della famiglia servitana (Unifas) (Roma). Dal 1990 al 1992 è stata professore collaboratore dell’Istituto brasiliano di sviluppo (Ibrades). Attualmente è professore di escatologia e mariologia per l’attualizzazione del Progetto “Arte e Espiritualidade” della Casa Centro Loyola de Cultura e Fé, legato alla Puc-Rio de Janeiro e membro collaboratore dell’Organizzazione internazionale “Religious Freedom Report”, per il dialogo interreligioso, con sede a Washington (Usa).

La sua attività di docente di cultura religiosa e di teologia, biblica, sistematica e pratica, data sin dal 1986. Attualmente dirige un’area di concentrazione relativa all’escatologia e alla mariologia per il conseguimento dei gradi accademici e dei diplomi post-gradi presso la Puc di Rio de Janeiro.

Collabora a diversi periodici ed è impegnata in iniziative di promozione teologica e pastorale. Tra i suoi volumi: Espírito e Missão na obra de Lucas-Atos. Para uma teologia do Espírito (Dissertação de Pósdoutoramento), Edições Paulinas, São Paulo 1996, 220 p. (tradotto in lingua spagnola); Espírito e Missão na prática pastoral. Acre: 1920 a 1930, Edições Paulinas, São Paulo 1997, 245 p.; Maria e o Feminino de Deus. Para uma espiritualidade mariana, Ed. Paulus, S. Paulo 1997, 60 p. (tradotto in lingua spagnola); Espírito e Missão na teologia. Um enfoque histórico teológico 1850-1930, Edições Paulinas, São Paulo 1998, 262 p.

Tra i contributi a volumi di Autori Vari: Quegli occhi tuoi misericordiosi: Riparazione nel duemila. Ed. Centro Mariano Beata Vergine Addolorata, Rovigo 1996, 21 p.; “Às portas do Terceiro Milênio”, in Horizontes de uma Caminhada, Crb/Edições Loyola, São Paulo 1996, pp. 137-140.; “O lugar da Mulher”, in Uma interpretação feminina da “Mulíeris dígnítatem”, Edições Loyola, São Paulo 1990, pp. 39-47.

c.m.

Riflessioni sul Brasile GIOCO AL MASSACRO PER SOPRAVVIVERE

Nel ’94, se non sbaglio, sono stata quasi un mese in Brasile, ospite a Rio de Janeiro anche dei Servi e delle Serve di Maria. Se rimasi colpita della generosità dei tanti operatori italiani che ebbi il dono di incontrare (e aggiornare), mi turbò profondamente vedere condannate a una condizione “subumana” tantissime persone. Non pensavo, ad esempio, che fosse possibile per un bambino di pochi anni uscire per strada e restarci a vita, morendo comunque prima di diventare adulto. Né pensavo che per una bambina fosse possibile restare incinta prima del menarca, violentata dal padre o dal patrigno, e che, per di più, la madre la buttasse fuori di casa, sempre che una casa l’avesse avuta.

Ho visto le favelas di Rio, piaghe purulente nel tessuto di una città splendida e affascinante come poche altre. Ricordo i colpi d’arma da fuoco e le suore che rispondevano: «Forse è un samba». Sì, era difficile dire se sulle colline si stessero scontrando gruppi rivali o se si stesse facendo festa. E tutto ciò in mezzo a una straripante voglia di vivere, a un ottimismo che, a me europea, sembrava un non senso. Del Brasile ricordo l’odore acre, intollerabile.

Le suore che mi hanno ospitato – e ciò fa loro onore – vivevano per lo più ai margini delle favelas, se non dentro. Rivedo i bambini giocare allegramente nei liquami e mi chiedo, oggi come allora, se si possono tollerare queste e altre cose, e se si può dire civile un Paese incapace di far fronte ai più elementari problemi della gente. In Brasile, come nei Paesi vicini, la ricchezza è concentrata nelle mani del 2-3% della popolazione. È dura per l’esigua classe media, forse più ancora che per i disperati, i quali non hanno un tenore di vita da salvaguardare. Ma oltre una certa soglia, si è fuori dall’esistenza umana, dalla coscienza, dai diritti e dai doveri. Resta il gioco al massacro del sopravvivere quotidiano, non importa a spese di chi o come.

Quando ci si domanda irritati di che cosa o perché avevamo da chiedere perdono nell’anno giubilare, non posso fare a meno di pensare all’America Latina, all’Africa, a tutti quei Paesi che siamo riusciti a violare, erodendone la cultura, impadronendoci delle loro risorse. Non abbiamo di che essere fieri come cristiani. Siamo stati complici e continuiamo a esserlo tutte le volte che il ricorso all’esprit de géometrie o all’esprit de finesse (lusso tutto nostro) ci rende incapaci di accogliere non sentimenti di rivolta, ma più semplicemente invocazioni, domande elementari di umanità.

Eppure la teologia e la riflessione di fede possono ancora offrire percorsi di umanizzazione. Ho visitato a Manaus una scuola di teologia per laici. La frequentavano soprattutto indios, che avevano fatto giorni di navigazione sul Rio delle Amazzoni e sui suoi affluenti per parteciparvi. In una delle poche sere di questo mio soggiorno si apriva un convegno catechistico. I partecipanti erano ospitati in un piccolo palazzetto dello sport. La prima azione rituale fu accogliere l’Evangeliario. Non riesco a reprimere ancor oggi la commozione provata nel vedere uomini e donne accogliere il Vangelo con un tifo da stadio. Non ne ho esperienza, ma credo avvenga così ai concerti rock. Quella sera mi dissi che forse stava lì il futuro della Chiesa. Mi chiesi anche se un’esperienza del genere avrebbe avuto senso altrove e se, nelle condanne, certo non comminate a cuor leggero, si avvertisse la posta in gioco, quella di una speranza, grande e flebile a un tempo, che occorreva con ogni cura assecondare…

c.m.

FATEBENEFRATELLI: Carta d’identità dell’Ordine Ospedaliero

L’ASSISTENZA AI MALATI ED AI BISOGNOSI SECONDO LO STILE DI SAN GIOVANNI DI DIO

 

Roma, 8 marzo 2000

 

PRESENTAZIONE

Ho l’onore e il piacere di presentarvi il documento “La Carta d’Identità dell’Ordine”. Abbiamo voluto che fosse un documento capace di affrontare tutti i punti necessari per illuminare l’ospitalità che siamo chiamati a realizzare oggi come Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio in prospettiva del Terzo Millennio per continuare ad incarnare il profetismo di San Giovanni di Dio.

Il documento era previsto dal Piano del Governo Generale per il Sessennio. Per la sua elaborazione sono stati nominati tre diversi gruppi di lavoro che si sono riuniti in due occasioni a Roma e che a loro volta hanno nominato al loro interno una commissione ristretta che ha elaborato in diversi passaggi con i suggerimenti e le proposte dei tre gruppi il testo che ora tenete nelle vostre mani.

Il Piano del Governo Generale per il Sessennio prevedeva una serie di attività di accompagnamento alla “Carta d’Identità” che tuttavia non si sono potute realizzare perché non è stato possibile elaborare il testo nei tempi previsti.

Il Consiglio Generale ha ritenuto opportuno che, invece di realizzare un nuovo documento apposito per il Capitolo Generale, le Comunità e gruppi scelti di collaboratori studiassero nel corso 1999-2000, sulla base degli orientamenti dati dalla Commissione Preparatoria del Capitolo, la Carta d’Identità. Le conclusioni di questo studio dovrebbero servire per preparare il programma da discutere ed approvare nel LXV Capitolo Generale per il prossimo sessennio.

Questa idea è stata condivisa sia dai membri della Commissione che ha elaborato il testo, sia dai Superiori Maggiori dell’Ordine nella riunione svoltasi a Roma dal 30 novembre al 4 dicembre 1998.

Il documento affronta diversi capitoli importanti per la nostra missione:

- il tema dell’ospitalità che viene sviluppato in un quadro filosofico e teologico-biblico per illuminare i tratti fondamentali di San Giovanni di Dio e della tradizione dell’Ordine giungendo a delineare i principi con i quali desideriamo realizzare la nostra ospitalità oggi;

- la dimensione etica dell’essere umano e dell’assistenza. A questo proposito vengono descritti i principi generali su cui si fonda la nostra etica e le situazioni concrete a cui, trasformandoci in ospitalità vissuta, siamo chiamati a rispondere nello stile di San Giovanni di Dio;

- il tema della cultura dell’ospitalità che ci richiama con forza all’importanza della formazione e della ricerca per rispondere alle sfide del terzo Millennio;

- la necessità di realizzare nelle nostre strutture una gestione carismatica. Dobbiamo applicare le regole del moderno management, ma dobbiamo farlo in maniera carismatica, vale a dire con i valori qualificanti che il seguimento di Cristo e di Giovanni di Dio apportano alla gestione, ancorati alla dottrina sociale della Chiesa.

Procedendo in questa maniera pensiamo di uscire dal Capitolo Generale con un programma pratico che ci aiuterà a vivere nel prossimo sessennio rispondendo alle esigenze del nostro carisma nel XXI secolo.

Diamo a conoscere questo documento ufficialmente nel giorno di San Giovanni di Dio, nell’Anno Giubilare, nel giorno della riconciliazione per sottolineare la sua importanza per vivere oggi l’ospitalità.

Che San Giovanni di Dio ci aiuti a riconciliare il nostro essere affinché siamo capaci di trasmettere la riconciliazione con il nostro essere ospitalità.

Fra Pascual Piles

Priore Generale

* – - – *

1. PRINCIPI, CARISMA E MISSIONE

DELL’ORDINE OSPEDALIERO DI SAN GIOVANNI DI DIO

1.1. Progettando il futuro sulla base dei nostri principi

L’umanità si affaccia al XXI secolo piena di timori e di speranze. Abbiamo raggiunto progressi impressionanti nella comprensione e nel controllo del nostro mondo che oggi appare ai nostri occhi come un grande villaggio – il “villaggio globale”. Nello stesso tempo persistono o si intensificano sofferenze individuali e collettive provocate dalle guerre, dall’egoismo di classe o di gruppo e dalla limitazione della natura umana che ci rimanda alla presenza permanente del dolore, dell’infermità e della morte.

L’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio fa parte di questo “villaggio globale”. Siamo 1.500 Confratelli, 40.000 collaboratori, tra impiegati e volontari, e circa 300.000 benefattori-sostenitori. Siamo presenti nei cinque continenti in 46 nazioni, con 21 Provincie religiose, 1 Viceprovincia, 6 Delegazioni Generali e 5 Delegazioni Provinciali, e realizziamo il nostro apostolato a favore degli infermi, dei poveri e di coloro che soffrono in 293 opere. Pur essendo membri dello stesso corpo – l’Ordine – viviamo realtà molto diverse. C’è chi vive in centri e società altamente tecnicizzate e chi in centri e società in via di sviluppo; c’è chi vive in nazioni immerse in un clima di pace e chi invece in paesi lacerati dalla guerra e dalla violenza o che vengono da un passato caratterizzato dalla violenza; c’è chi si può esprimere in piena libertà nella società in cui vive, e chi vede invece la sua libertà e i suoi diritti fondamentali pesantemente limitati; c’è chi si dedica all’apostolato propriamente ospedaliero e chi invece si trova impegnato in temi sociali e settori dell’emarginazione; c’è chi ha come missione quella di aiutare a vivere la persona e chi invece quella di garantire alla persona di morire con dignità; a prescindere dal fatto che il lavoro di noi tutti si ispira al progetto di un’assistenza integrale, ci sono sfumature che ci orientano di volta in volta verso la salute fisica, la salute mentale, il miglioramento delle condizioni di vita ecc.; infine c’è chi di noi vive nel Nord e chi nel Sud, chi nell’Ovest e chi nell’Est. (1)

Alle soglie del terzo millennio, uomini e donne di tutte le latitudini si interrogano sul futuro della nostra società, delle nostre istituzioni, di noi stessi. Analogamente tutti noi che rendiamo possibile l’opera dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio nel mondo, ci interroghiamo sul futuro che l’Ordine sarà capace di costruire nel prossimo millennio al servizio dell’uomo che soffre, dell’uomo che si trova in una condizione di bisogno e che chiede il nostro aiuto per ricostruire il suo progetto personale.

In alcuni casi, nel momento in cui si progetta il futuro si può commettere l’errore di mettere da parte il passato, non per cattiva volontà, semplicemente per dimenticanza, per scarsa considerazione, per il desiderio di incarnare nuove realtà. In altri casi, la necessità di profondo rinnovamento e di affrontare situazioni di rottura, esige di mettere da parte impostazioni del passato poiché i tempi nuovi esigono risposte nuove e si ritiene giusto liberarsi del passato come di una zavorra per avere più libertà di costruire il futuro.

Bisogna progettare il futuro fin da adesso tenendo conto di tutto il positivo del passato: pensiamo sia questa la situazione in cui si trova l’Ordine Ospedaliero che vuole progettare il suo futuro da una riflessione attualizzata dei suoi principi e valori.

Probabilmente vi saranno luoghi e forme di attuazione da parte dell’Ordine che esigono un cambiamento e può essere che in alcune realtà questo mutamento debba essere radicale se vogliamo essere presenti nel terzo millennio offrendo un servizio alla popolazione e trasmettendo un messaggio che sia attuale. Per cui non vi é dubbio alcuno che tutto l’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio dovrà fondarsi su quei valori che hanno caratterizzato la nostra istituzione.

Questi valori dovranno essere inculturati, attualizzati nel loro linguaggio, realizzati in armonia con la diversità delle parti del mondo, poiché solo in questo modo potranno essere conosciuti e accettati dalle persone che entrano in contatto con le nostre opere.

Di seguito riportiamo il numero 43 degli Statuti Generali dell’Ordine nel quale sono specificati i seguenti principi:

I principi fondamentali che come conseguenza della loro identità confessionale cattolica orientano e caratterizzano l’assistenza nelle nostre opere, sono:

· avere come centro di interesse di quanti viviamo e lavoriamo nell’ospedale o in qualsiasi altra opera assistenziale, la persona assistita;

· promuovere e difendere i diritti del malato e del bisognoso, tenendo conto della loro dignità personale;

· impegnarsi decisamente nella difesa e nella promozione della vita umana;

· riconoscere il diritto della persona assistita a essere convenientemente informata del suo stato di salute;

· osservare le esigenze del segreto professionale, facendo in modo che siano rispettate anche da quanti avvicinano gli ammalati e bisognosi;

· difendere il diritto di morire con dignità nel rispetto e nell’attenzione ai desideri giusti e alle necessità spirituali di coloro che sono in punto di morte, coscienti che la vita umana ha un termine temporale ed è chiamata alla sua pienezza in Cristo;

· rispettare la libertà di coscienza delle persone che assistiamo e dei nostri collaboratori, fermi nell’esigere che si accetti e si rispetti l’identità dei nostri centri ospedalieri;

· valorizzare e promuovere le qualità e la professionalità dei nostri collaboratori, stimolandoli a partecipare attivamente alla missione assistenziale e apostolica dell’Ordine; renderli partecipi del processo decisionale nelle nostre opere in funzione delle loro capacità ed ambiti di responsabilità;

· rifiutare la ricerca di lucro, osservando ed esigendo che non si ledano le norme economiche giuste. (2)

Riteniamo che noi confratelli e collaboratori siamo il “capitale” più importante dell’Ordine per la realizzazione della sua missione. Per questo, nelle nostre relazioni, ci impegniamo a rispettare e a promuovere i principi della giustizia sociale. Noi confratelli desideriamo condividere il nostro carisma con quanti si sentono ispirati dallo spirito di San Giovanni di Dio.

Sempre che siano rispettati i nostri principi, siamo aperti e promuoviamo la collaborazione con organismi sia della Chiesa sia della società nel campo della nostra missione con un’attenzione preferenziale per i settori sociali più abbandonati. (3)

Questi principi sono radicati nel nostro Fondatore e si sono strutturati nel corso degli anni con la riflessione e il bene fatto dai suoi successori. Nello stesso modo anche noi, tenendo conto della tradizione, dobbiamo riflettere sulla definizione della missione dell’Ordine Ospedaliero.

Il principio chiave che guida l’opera di Giovanni di Dio è il suo desiderio di “fare il bene, facendolo bene; vale a dire non limitarsi alla semplice assistenza, dimenticando la qualità, ma coniugare la giustizia con la carità cristiana per offrire ai malati e ai bisognosi un servizio efficiente e qualificato, sia a livello scientifico che tecnico”. (4)

1.2. Il carisma dell’Ordine

Giovanni di Dio era un uomo carismatico: il suo modo di agire attirò l’attenzione di quanti lo conobbero e la sua influenza si espanse da Granada ai villaggi e alle città dell’Andalusia e della Castiglia. Questo suo “carisma” trascendeva la sua persona: non si trattava solo di atteggiamenti e gesti umani che, esprimendosi in amore verso i malati e i bisognosi, suscitavano ammirazione e spingevano a collaborare con la sua opera.

In senso teologico, carisma è ogni forma di presenza dello Spirito che arricchisce il credente e lo rende capace di un servizio a favore degli altri. Il religioso si consacra a vivere un carisma particolare, come dono ricevuto dallo Spirito, mediante la coltivazione della grazia, l’incontro vitale con Dio e l’apertura e il servizio all’umanità.

Il carisma dell’ospitalità, con il quale Giovanni di Dio fu arricchito dallo Spirito Santo, s’incarnò in lui come germe che ha continuato a vivere in uomini e donne che nell’arco della storia hanno prolungato la presenza misericordiosa di Gesù di Nazaret, servendo coloro che soffrono, secondo il suo stile.

Le Costituzioni del nostro Ordine definiscono il Carisma così:

“In virtù di questo dono, siamo consacrati dall’azione dello Spirito Santo, che ci rende partecipi, in modo singolare, dell’amore misericordioso del Padre. Questa esperienza ci comunica atteggiamenti di benevolenza e di donazione, ci rende capaci di compiere la missione di annunciare e di realizzare il Regno tra i poveri e gli ammalati; essa trasforma la nostra esistenza e fa sì che attraverso la nostra vita si renda manifesto l’amore speciale del Padre verso i più deboli, che noi cerchiamo di salvare secondo lo stile di Gesù”. (5)

Il Fatebenefratello si consacra e vive in comunione con altri la chiamata ad esprimere lo stesso carisma. Ma l’amore verso l’interno (comunione) deve esprimersi verso l’esterno nell’esigenza di una missione che si intende come aiuto liberatorio a favore dei restanti membri della Chiesa e, in generale, di tutte le persone bisognose.

Partecipano direttamente al carisma di Giovanni di Dio, i Fatebenefratelli, consacrati nell’ospitalità; e a modo di “irradiazione” dello stesso, sono partecipi del carisma anche i collaboratori: “Coloro che conoscono Giovanni di Dio (…) sperimentano che nella loro vita prende corpo una specie di luce che fa nascere in loro il desiderio di vivere l’ospitalità, imitando l’esempio di Giovanni o dei suoi Confratelli (…) I fedeli laici che si sentono chiamati a vivere l’ospitalità, partecipano del carisma di Giovanni di Dio aprendosi alla spiritualità e alla missione dei suoi confratelli e integrandola nella propria vocazione personale.

I livelli di questa partecipazione sono ovviamente vari: così ci sono persone che si sentono particolarmente legati all’Ordine attraverso la sua spiritualità; altri invece vivono la partecipazione tramite il disimpegno della stessa missione. Ma quel che conta è che il dono dell’ospitalità ricevuto da Giovanni di Dio instauri tra confratelli e collaboratori un legame di comunicazione che sia per ambedue impulso e stimolo a sviluppare la loro vocazione e a essere per il povero e il bisognoso segno visibile dell’amore misericordioso di Dio verso gli uomini”. (6)

1.3. La missione dell’Ordine

Nel testo delle Costituzioni dell’Ordine Ospedaliero, la missione viene definita così:

“Incoraggiati dal dono ricevuto ci consacriamo a Dio e ci dedichiamo al servizio della Chiesa nell’assistenza agli ammalati e ai bisognosi, con preferenza per i più poveri”. (7)

Questa impostazione generale, valida per tutto l’Ordine, deve poi concretizzarsi in ogni sua opera. Partendo dalla considerazione che ogni opera é specifica e cerca di dare risposta ai bisogni di alcune persone, in un luogo e in un tempo concreto e se vogliamo che la nostra missione sia EVANGELIZZARE IL MONDO DEL DOLORE E DELLA SOFFERENZA ATTRAVERSO LA PROMOZIONE DELLE OPERE E DEGLI ORGANISMI SANITARI E/O SOCIALI CHE PRESTANO UN’ASSISTENZA INTEGRALE ALLA PERSONA, ne consegue che in ogni concreta realtà si dia risposta ai seguenti interrogativi:

· Perché questo Centro?

· A chi va diretto il nostro servizio?

· Chi siamo quelli che lo realizziamo?

· Quali sono le strutture più idonee?

Questo sarà il cammino per poter concretizzare i principi che vogliamo promuovere e la missione che vogliamo realizzare nella società.

Soltanto quando incarniamo questi principi, cioè quando il nostro servizio all’uomo malato e bisognoso in ogni regione di questo mondo verrà illuminato da questi valori che stiamo indicando, soltanto allora avremo realizzato un’opera dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio.

Per questo un altro passo molto importante sarà quello di descrivere in ogni Centro chi dovrà usufruirne, l’uomo malato e bisognoso che stiamo curando. Oltre a dedicare la nostra attenzione all’utente interno, dovremo includere nelle nostre riflessioni anche l’utente esterno: non solo il malato, ma anche i suoi parenti e familiari.

Altrettanto si dovrà fare nei confronti della società e dell’ambiente in cui ci troviamo, delle persone e delle strutture che intrattengono rapporti col Centro.

I servizi che il Centro presta devono costituire una realtà dinamica e in evoluzione, poiché così é la nostra società e in continuo mutamento é l’uomo di cui abbiamo cura.

Per la riflessione:

Nei Centri e nelle Comunità:

1) Descrivi segni che evidenzino come si sta vivendo il carisma, la missione e i principi fondamentali dell’Ordine.

2) Descrivi ciò che sta rendendo difficile od offuscando la messa in pratica del carisma, della missione e dei principi fondamentali dell’Ordine.

3) Indica le linee d’azione che possano garantire la messa in pratica del carisma, della missione e dei principi fondamentali dell’Ordine.

4) Segnala i segni che evidenzino i legami di comunione nell’ospitalità tra confratelli e collaboratori.

5) Che cosa è necessario fare per promuovere la crescita di questi legami di comunione nell’ospitalità?

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NOTE DEL PRIMO CAPITOLO

(1) Cfr. PILES FERRANDO, Pascual, Superiore Generale dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, Lettera Circolare per il Sessennio 1994-2000, Roma, 1994, N. 1.

(2) ORDINE OSPEDALIERO DI SAN GIOVANNI DI DIO, Statuti Generali, Roma, 1997, N° 43.

(3) Cfr. LXIII CAPITOLO GENERALE, La Nuova Evangelizzazione e la Nuova Ospitalità alle soglie del terzo millennio, Bogotá, 1994, # 5.6.3.

(4) ORDINE OSPEDALIERO – CURIA GENERALIZIA, Fatebenefratelli e Collaboratori insieme per servire e promuovere la vita, Roma, 1992, # 13

(5) Costituzioni, Roma, 1984, 2b.

(6) Fatebenefratelli e Collaboratori insieme…, Op. Cit., Nn. 115-116

(7) Costituzioni, Roma, 1984, 3

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2.

FONDAMENTI BIBLICO-TEOLOGICI DELL’OSPITALITA’

2.1. L’approccio filosofico e religioso alla sofferenza

2.1.1. L’uomo di fronte al dolore

“Cos’è l’uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte che malgrado ogni progresso continuano a sussistere? (…) Cosa ci sarà dopo questa vita?” (1)

La realtà della sofferenza umana ha costituito un interrogativo fondamentale a cui i vari sistemi filosofici e le fedi religiose hanno cercato di rispondere con varie modalità senza però riuscire mai a sollevare del tutto il velo di mistero che la avvolge.

Complessivamente possiamo sintetizzare in cinque prospettive le risposte fondamentali a tale inquietante domanda.

Una prima é quella, per così dire magica o misterica che fa riferimento alla radicale ineluttabilità e incomprensibilità del dolore. Spesso questo viene fatto risalire a un mito di carattere “punitivo” da parte della divinità o al sopravvento di divinità malefiche su altre benefiche. In ogni caso tutto viene proiettato in una dimensione soprannaturale per cui altrettanto soprannaturali possono essere i rimedi in grado di liberare l’uomo dalla sofferenza (stregoni, sciamani, riti esorcistici, ecc.). Tale concezione ancora persistente in alcune cosiddette “popolazioni primitive” rimane tuttavia come substrato ancestrale in molte altre concezioni religiose.

Una seconda risposta, che dall’antica filosofia epicurea ha attraversato la storia fino ad arrivare all’edonismo individualista di questo secolo, potremmo chiamarla di negazione. Tutte le realtà dolorose della vita costituiscono un limite alla conquista del piacere e pertanto é bene non preoccuparsene, cercando di godere il tempo presente finché questo é possibile. Si tratta di una vera e propria “rimozione” del dolore e dell’angoscia che la sua presenza crea. In tale substrato culturale, peraltro, affondano le loro radici tante forme di “disperazione” contemporanea che, negando la realtà dolorosa arrivano poi a negare la stessa vita quando non si riesce a sostenerne il peso esistenziale.

Un altro atteggiamento, opposto a questo é quello che riscontriamo nella eroica accettazione del dolore. E’ stato sistematizzato filosoficamente dallo stoicismo tanto che l’aggettivo “stoico” é diventato sinonimo di chi accetta, senza lamentarsi, sofferenze di notevole entità. Tale coraggiosa accettazione subì una particolare attrattiva per il cristianesimo, nella cui elaborazione teologica introdusse elementi di derivazione stoica che ben sembravano integrarsi con l’accettazione della Croce da parte di Gesù e con l’atteggiamento dei martiri. In realtà tale contaminazione non fu del tutto positiva divenendo una delle matrici di quella esaltazione pseudo-cristiana della sofferenza a cui é stato dato il nome di “dolorismo” e da cui ancora stentiamo a liberarci.

Una quarta modalità di approccio al dolore consiste nel suo annullamento mediante un cammino interiore che porta progressivamente all’abbandono di ogni passione e di ogni sofferenza sia fisica che psichica. Portato alla sua massima espressione dal Buddismo, esso si riscontra in altre filosofie e religioni orientali che oggi esercitano il loro fascino anche sul mondo occidentale. L’attenzione ai sofferenti é particolarmente accentuata nella religione buddista che fa della “compassione” uno dei sentimenti universali che avvicinano l’uomo alla divinità anche se l’aiuto che al sofferente viene dato consiste nel superare i desideri che ne sono all’origine più che nella “soluzione” dei problemi, anche materiali, che possono esserne causa.

L’ultima modalità, di cui parliamo più estesamente al paragrafo successivo, é quella che riscontriamo nella sua più alta espressione nel Cristianesimo e che possiamo definire della valorizzazione. Senza svelarne del tutto il mistero e senza volerlo trasformare in una realtà di per sé positiva, il Cristianesimo offre delle “ragioni” al dolore trasformandone l’assurdità in possibile strumento di bene per sé e per gli altri. Una tale processo é possibile riscontrarlo anche come semplice sublimazione psicologica dell’individuo qualora questi trovi una razionalizzazione all’esperienza dolorosa o, addirittura, alcune compensazioni comportamentali.

In ogni caso e al di là di queste interpretazioni non possiamo trascurare una dimensione assolutamente personale della sofferenza il cui significato sfugge a ogni generalizzazione avendo senso solo nell’universo esistenziale di ogni singolo individuo. In questa prospettiva la sofferenza diventa un elemento biografico il cui più profondo mistero non potrà essere mai svelato né ricondotto a una desiderata razionalità.

2.1.2. La sofferenza e i sofferenti nel Cristianesimo

Nella visione ebraico-cristiana il dolore, così come il male di cui é espressione, non appartiene al progetto originario della Creazione, cioè in altri termini non proviene da Dio. Quindi, a differenza di altre religioni, non vi è una divinità del male alla sua origine. Il dolore, e il male di cui questo é espressione, appartiene alla condizione umana ma al tempo stesso esprime il mistero di una realtà che Dio non vuole, di cui non gode e che attende solo di essere redenta. Realtà negativa, “assenza” più che presenza, come già intuiva S. Agostino.

Per far questo la Sacra Scrittura ricorre all’immagine mitica di una condizione umana esente da ogni sofferenza e in cui il dolore entra perché l’uomo trasgredisce un comando di Dio, cioè in realtà ci si allontana dal suo amore. L’immagine del serpente si fa simbolo dell’idolatria cioè del non “fidarsi di Dio” per preferirgli una realtà creata facendone la propria divinità.

Per molti secoli questa connessione “ontologica” tra colpa e sofferenza come sua punizione venne intesa da Israele in senso “personale”, vedendo in ogni singolo dolore la punizione per un peccato (mentalità spesso persistente ancor oggi). Non solo ma, evidenziando il paradosso della “felicità dell’empio” e della “sofferenza del giusto” i sapienti di Israele ritennero che l’empio sarebbe stato punito nella sua discendenza e il giusto stesse espiando colpe dei suoi padri.

Il primo drammatico grido contro questa visione del problema é contenuto nel libro di Giobbe. Con una sensibilità che ancor oggi sorprende per la sua modernità, Giobbe si ribella contro una tale concezione del dolore e chiede conto a Dio del perché un “giusto” come lui debba soffrire in modo sproporzionato alle sue possibili colpe. La risposta di Dio, tuttavia, non é esplicita ma si realizza fondamentalmente nell’invito ad accogliere il mistero senza pretendere di volerlo spiegare e senza rinunziare alla fede in un Dio che vuole solo il bene dei suoi figli.

Questa grande tipologia del “giusto sofferente” si ripresenta solennemente nella figura del “servo sofferente di Jhwh”, un personaggio in cui la successiva tradizione ha identificato l’immagine di Cristo che si “addossa” le sofferenze del popolo liberandolo così dalle stesse. Tale “espiazione vicaria” densamente identificata da Paolo in Rm 3, 25 più che come “punizione” di un uomo solo al posto di tutto il popolo, va intesa nel senso degli antichi sacrifici di espiazione mediante cui l’olocausto della vittima diventava strumento del perdono di Dio. Il sacrificio di Cristo e, in virtù del suo corpo mistico, il dolore dei credenti (ma secondo la prospettiva di Rm 8, 19 ed Ef 1, 7-10, anche del mondo intero) diventa così strumento del perdono di Dio.

2.1.3 Il messaggio di liberazione evangelico

La dimensione soggettiva di liberazione, per cui Gesù Cristo nella sua carne libera l’uomo dal peccato e, quindi, da ogni sua conseguenza, acquista anche un risvolto pratico nelle opere da lui praticate. Le guarigioni dei malati, l’accoglienza all’emarginato, la difesa del povero costituiscono parte essenziale della sua missione. Anzi la sua azione in favore dei poveri e degli ultimi é persino segno specifico della sua messianicità (cfr. Mt 11, 3-5). Viene così pienamente recuperata la forza dell’integrale liberazione dell’uomo da parte di Dio di cui l’Esodo era già stata esperienza storica e testimonianza simbolica.

L’atteggiamento di Gesù nei confronti del malato é non solo significativo ma per noi anche esemplare. Egli partecipa profondamente alla vicenda esistenziale sua o dei suoi familiari ( Cf. Mt 14,14; 15, 32; Lc 7, 13; Gv 11, 36); non contesta né critica né biasima la sua volontà di guarire; spesso prende per primo l’iniziativa (Cf. Mc 10, 49; Lc 8, 49; Gv 5,6); nega qualunque connessione tra peccato individuale e malattia attuale (Cf. Gv 9, 1-3); sana tutto l’uomo malato (Cf. Mt 9, 1-7). La sua opera cioè non si limita a un semplice gesto taumaturgico ma ha di mira il bene integrale dell’uomo, la sua salus e non solo la sanitas.

La cura del bisognoso si carica così di molteplici significati divenendo innanzitutto un nuovo segno dell’alleanza tra l’uomo e Dio. Il patto tra il Creatore e il Creato viene ad essere riproposto dall’amore di Dio “ri-sanante” il povero, il malato, l’escluso che investito da tale amore torna a vivere. Nell’affidare ai christifideles la continuità di tale cura troviamo così il fondamento “carismatico” dell’ospitalità sulle cui radici biblico-teologiche é opportuna una più organica riflessione.

2.2. L’ospitalità nell’Antico Testamento

2.2.1. Il Dio Ospitalità

Oggi, parlando di ospitalità, siamo soliti riferirci all’accoglienza che offriamo a un’altra persona nella nostra casa. Ma volendo risalire al più profondo senso teologico di tale atteggiamento umano si deve innanzitutto cogliere la dimensione ontologica dell’ospitalità.

Non dovrebbe ritenersi ardito vedere nella stessa realtà trinitaria la più profonda radice di una vita divina che si fa ospitalità. Ospitalità del Padre che “fa spazio” nella sua essenza, fin dall’eternità, per generare il Figlio ma anche ospitalità del Figlio che in sé accoglie il dono generazionale del Padre. Infine ospitalità dello Spirito che si fa reciprocità del dono paterno-filiale e quindi identità personale di un amore accogliente.

Tale dimensione trinitaria dell’ospitalità non riguarda solo l’essenza divina ma anche la sua inabitazione nell’uomo che diventa soggetto ospitante la divinità (cfr. Gv 13, 20). La stessa partecipazione eucaristica, nell’antico canone latino, veniva assimilata all’ospitare Gesù sotto il proprio tetto mentre l’esser “ospite dell’anima” diventa addirittura appellativo dello Spirito. (2)

Sul piano immanente, poi, la stessa Creazione si rivela quale frutto di questa primordiale Ospitalità divina che nella sua essenza genera e al tempo stesso accoglie un progetto che realizza al di fuori di sé. E’ Ospitalità che, nel suo porsi, intrappola l’eternità calandola nella dimensione storica e quindi fa del tempo, ancor prima che dell’uomo, il suo ospite. Tuttavia é nella creazione dell’uomo che Dio manifesta più compiutamente il suo essere Ospitalità facendo largo nella sua creazione alla presenza e al dominio dell’uomo, anzi prima ancora che nella sua creazione ospitandolo nella sua mente creatrice di cui reca l’impronta.

E alla Creazione fa seguito l’Alleanza, nelle sue molteplici espressioni variamente simbolizzate dal racconto biblico. Proprio in quanto incontro tra Dio e l’uomo l’alleanza di cui la Sacra Scrittura ci parla diventa incontro tra Dio e il suo ospite ma anche tra l’uomo e il suo ospite divino. Se pur espressa da realtà ontologicamente diverse, nell’alleanza l’ospitalità si fa reciprocità, dono vicendevole. E tutte le volte che nella storia individuale o collettiva tale alleanza viene infranta, il perdono divino e la conseguente riconciliazione con l’uomo testimonia l’inesauribile risorsa di una accoglienza sempre nuova.

2.2.2. Il concetto di ospitalità

Il contesto culturale sottostante all’Antico Testamento é quello del mondo semitico segnato da una tensione tra l’accoglienza dell’ospite e, al tempo stesso, un certo sospetto nei suoi confronti come elemento di “minaccia” per l’identità del popolo. Ciò che, in ogni caso, unifica l’atteggiamento di Israele nei confronti dell’altro é il considerarlo come straniero. A tal riguardo vi sono almeno tre termini che sottintendono distinti atteggiamenti. Il primo é zar e indica colui che appartiene a un’altra stirpe o tribù, chi é estraneo al proprio paese, a volte anche il nemico (Dt 25, 5; Gb 15,19; Is 61,5; 25, 2.5). Il secondo ger che indica lo straniero residente nel paese (gli Israeliti in Egitto o i Cananei in Israele); il terzo é tosab che designa lo straniero momentaneamente residente in un altro paese (Gn 23,4; Dt 14, 21). Tale molteplicità terminologica testimonia la diversità di atteggiamento nei confronti dello straniero in rapporto alla specifica condizione in cui questi veniva a trovarsi. In sintesi possiamo dire che Israele distingueva tra popoli stranieri, stranieri insediati nel paese e stranieri singoli di passaggio. Proprio nei confronti di questi ultimi veniva esercitata l’ospitalità nella sua più alta forma. Basti pensare all’episodio narrato in Gn 19, 1-8 in cui Lot é disposto ad offrire le sue figlie agli uomini della città, purché questi non tocchino gli ospiti. In realtà all’origine di questa disparità di comportamento vi era forse una stessa finalità: quella di superare la minaccia che lo straniero costitutiva per la propria comunità e la propria identità, sia osteggiandolo e considerandolo nemico, sia circondandolo di attenzione. D’altra parte troviamo una traccia di tale ambivalenza nelle tardive riletture latine di tale concetto, con la comune radice del termine hospes (ospite) ed hostis (nemico).

Naturalmente se questa era la più specifica e pertinente visione dell’ospitalità in seno ad Israele non dobbiamo dimenticare quanto lo stesso Israele viveva e praticava nei confronti dei suoi stessi concittadini. A rigor di termini quel “prossimo” (il cui concetto verrà stravolto da Gesù) era proprio il connazionale, il correligionario. Praticare l’ospitalità nei suoi confronti era un dovere fondamentale proprio in quanto membro di quel popolo la cui identità era non solo etnica ma anche e soprattutto religiosa. Nella comune elezione Israele scopriva le esigenze di ospitalità nei confronti di tutte quelle categorie di persone (basti pensare agli orfani e alle vedove) che ne avevano bisogno.

2.2.3. Le motivazioni dell’ospitalità

L’ospitalità nel contesto vetero-testamentario, così come in tutte le culture antiche, non va intesa nei moderni termini di una semplice accoglienza all’ospite, cioè nel fornirgli vitto e alloggio quanto piuttosto in una radicale “inclusione” dell’ospite nell’ambito della propria cerchia di interessi, nella sua tutela contro i nemici, nella sua protezione, nel suo profondo rispetto esistenziale, nell’accudire alla sua persona per tutte le possibili necessità.

Le ragioni di una tale attenzione (in aggiunta a quelle per i connazionali sopra evidenziate) sono varie. Innanzitutto ve n’è una di ordine culturale che Israele condivide con i popoli vicini. Si tratta dell’idea che sotto le vesti dello straniero in cerca di ospitalità possa nascondersi una divinità. Nella rielaborazione monoteistica le divinità si trasformano in angeli. Ne é chiaro indizio Eb 13, 2: “non dimenticate l’ospitalità; alcuni nel praticarla hanno accolto gli angeli senza saperlo”.

Una seconda motivazione é più specifica e fa chiaro riferimento alla storia di Israele. L’ “arameo errante” che fu Abramo, padre del popolo eletto visse da straniero e da straniero visse Israele in terra d’Egitto. Dello straniero quindi Israele comprende benissimo la condizione e sa quanto questi necessiti di ospitalità. Anzi qualora fosse tentato di disprezzarlo, l’ammonimento della Sacra Scrittura é chiarissimo: “Il forestiero dimorante tra di voi lo tratterete come colui che é nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto” (Lv 19, 34; cfr. pure Es 22,20; 23, 9).

Infine vi é una motivazione religiosa (che verrà poi sviluppata nel Nuovo Testamento) cioè l’esemplarità divina. E’ Dio Ospitalità, in primo luogo, ad accogliere lo straniero a chiedere di essere ospitali con lui (cfr. Dt 10, 18), a volere che gli siano dati parte dei beni a lui consacrati (cfr. Dt 26, 12).Il fatto che anche Israele si comporti così non é che l’attuazione di una volontà di Dio, una delle vie di fedeltà alla Legge (cfr. Lv 16, 29; 18, 26; 19, 10. 33).

2.2.4. I principali riferimenti

Tra gli episodi più significativi ricordiamo la visita dei tre uomini ad Abramo presso le querce di Mamre. E’ da notare come Abramo riconosca nell’ospite il suo “Signore”. Ancor prima di conoscere i motivi di tale visita e pur nella molteplicità degli interlocutori egli coglie la “visita” di Dio. Tutti i suoi gesti sono conseguenti e possono essere letti senz’altro in una chiave apertamente teologica: si prostra a terra (culto), prepara personalmente il vitello e il latte (offerta), crede alle parole dei tre uomini (fede), li supplica di non distruggere Sodoma (orazione). Detto in altri termini: l’ospitalità diventa occasione di incontro con Dio.

Esemplare e pedagogico, negli intenti dell’autore sacro, é l’episodio della vedova di Zarepta che non viene meno ai suoi doveri di ospitalità nei confronti di Elia condividendo con lui l’ultimo boccone che rimaneva per sé e per il figlio. Non solo ma proprio in virtù di tale ospitalità questi viene guarito dal profeta (cfr. 1 Re 17, 20).Una situazione per certi versi analoga possiamo riscontrare nel racconto relativo alla prostituta Raab che nasconde gli esploratori inviati da Giosuè a Gerico ricevendone in cambio l’incolumità per sé e per la sua famiglia (cfr. Gs 2, 1-12).Un rapporto tra vita della persona ospitante e vita delle persone ospitate é possibile vedere anche nel libro di Tobia che riferisce di aver dato la decima dei suoi averi agli orfani, alle vedove e agli stranieri (cfr. Tb 1, 8): l’ospitalità, che é gesto di accoglienza per la vita dell’altro, viene ricompensata col dono stesso della vita.

All’ospitalità nei confronti di tutte le categorie di bisognosi invita poeticamente il libro del Siracide: “Sii come un padre per gli orfani e come un marito per la loro madre e sarai come un figlio dell’Altissimo, ed egli ti amerà più di tua madre” (Sir 4, 10).L’ospitalità a cui la Sacra Scrittura ci chiama ci rende in qualche modo “familiari” della persona ospitata e, al tempo stesso ci fa sperimentare la tenerezza materna di Dio. Non dimentichiamo la forte carica di femminilità insita nel concetto di misericordia. Il termine ebraico rachamîn, infatti, si ricollega etimologicamente alle viscere materne che si dilatano per accogliere la nuova vita. Ospitalità e misericordia si trovano così unite in un binomio che diventa icona del Dio misericordioso, “amante della vita” (cfr. Sap 11, 26).

Proprio in tale prospettiva si colloca l’ospitalità del malato cioè l’atteggiamento e i concreti gesti di accoglienza nei suoi confronti. E’ esemplare a tal riguardo la figura dell’arcangelo Raffaele che proprio in quanto “medicina di Dio” é presenza accogliente oltre che sanante. La sua figura diventa così metafora non solo della “risoluzione medica” del problema, se così possiamo definirla, ma anche dell’accompagnare il malato, l’emarginato, il moribondo, il povero la cui unica medicina, a volte, é solo quella di una presenza amica.

Destinatario di tale attitudine ospitale é persino il morto, come evidenzia il libro di Tobia ponendola in stretta connessione con l’ospitalità tradizionalmente intesa (Tb 2, 1-4). Tobi, infatti, invia il figlio a cercare un povero da invitare a pranzo. Ma questi trova solo un connazionale morto, abbandonato sulla piazza. Allora non ha esitazioni: lascia il suo pasto e va a seppellirlo. In un certo senso questa diventa la sua condivisione conviviale col povero.

Infine non va sottovalutato un racconto che include la dimensione dell’ospitalità addirittura nell’ascendenza storica del Messia. E’ la storia di Ruth, donna straniera che accompagna la suocera Noemi nella sua terra d’origine finendo con lo sposare Booz, nel cui campo di grano andrà a spigolare. Da questa unione nascerà il nonno di David. Ad essere “premiati”, divenendo antenati di Gesù, saranno entrambi i coniugi perché reciproca é stata la loro ospitalità: accoglienza di Booz alla donna straniera ma anche accoglienza di Ruth al paese straniero per il quale lascia il proprio: l’ospitalità, quale dono di reciproca accoglienza abbandona le proprie certezze per trovare nella novità dell’incontro una nuova sicurezza.

2.2.5. L’ospitalità istituzionale

Una realtà di particolare interesse é costituita dalla scelta di sei città “che serviranno di rifugio agli Israeliti, al forestiero e all’ospite che soggiornerà in mezzo a voi, perché vi si rifugi chiunque abbia ucciso qualcuno involontariamente” (Nm 35, 15). L’istituzione di tali città-rifugio costituisce il momento in cui l’ospitalità da individuale e/o comunitaria si fa strutturale. Non é più la persona chiamata ad essere ospitalità né il popolo con gesti individuali ma l’intera comunità che si fa “istituzione ospitante”. La città diventa quasi un’icona di ogni futuro organismo dedito interamente ad accogliere l’altro in condizione di bisogno e dargli tutto ciò di cui necessita, non solo un’ospitalità momentanea ma una “città”, cioè un intero sistema di coordinate biografiche in cui possa tornare a vivere.

2.3. L’ospitalità nel Nuovo Testamento

2.3.1. La prospettiva evangelica

Prima di esaminare i concreti gesti di ospitalità da parte di Gesù si dovrebbe riflettere sull’evento “ospitale” che sta alla base della stessa fede cristiana cioè l’Incarnazione. Maria diventa la grande “ospite di Dio” accogliendolo nel suo grembo mentre l’Emmanuele in quanto “Dio-fra-noi” diventa il grande Ospite dell’intera umanità. Non a caso dall’accoglienza di Maria, poeticamente espressa nell’Annunciazione, scaturirà immediatamente un gesto squisitamente ospitale come la visita a Elisabetta e la conseguente accoglienza alla madre di Gesù.

Ai contenuti e alle motivazioni dell’ospitalità riscontrati nell’Antico Testamento il Nuovo Testamento aggiunge l’innovativo apporto del messaggio e delle opere di Gesù. L’accoglienza all’altro, soprattutto se bisognoso, acquista alla luce del Vangelo una triplice prospettiva .

La prima le deriva dall’identificazione di Cristo stesso col povero (cfr. Mt 25, 31-45). Nell’accogliere il povero si accoglie Cristo, per amare Cristo si deve amare il povero, ciò che viene fatto (o non fatto) al povero viene fatto (o non fatto) a Cristo. E’ una vera e propria trasfigurazione del povero in Cristo, non meno emblematica di quella che ci ricorda il celebre episodio della vita di S. Giovanni di Dio. (3)

La seconda prospettiva é quella del giudizio escatologico. Esclusivamente basato sulla carità (e non sulla formale osservanza dei comandamenti) questo trova nella ospitalità propriamente intesa uno dei parametri di valutazione. Non solo ma, in una più ampia accezione del termine, possiamo dire che l’ospitalità cioè l’accoglienza all’altro, il farne oggetto delle proprie cure, sia l’anima di tutto il messaggio escatologico.

Infine il Dio Ospitalità dell’Antico Testamento che difendeva il forestiero, l’orfano e la vedova, si fa visibile in Cristo la cui vita viene interamente spesa a servizio degli altri. Le sue parole così non sono semplice esortazione ma prendono corpo nella sua stessa attività, che diviene riferimento esemplare per tutti i cristiani. Sarebbe impossibile voler sintetizzare i gesti di ospitalità, cioè di accoglienza all’altro da parte di Cristo. Ci limitiamo a ricordare innanzitutto l’atteggiamento di benevolenza con cui incontra ogni malato, non limitandosi a guarirne l’infermità ma abbracciandone l’intero universo esistenziale. Tocca il lebbroso infrangendo il muro di segregazione che lo emarginava, ridà la vista al cieco aprendo gli occhi a tutti sull’erronea credenza circa un rapporto tra colpa individuale e malattia, resuscita il figlio della vedova di Naim toccato dalla situazione di questa donna. E poi ancora accoglie le prostitute e con esse le critiche dei benpensanti, si fa ospite dei pubblicani condividendone la mensa, accetta l’ostilità del suo popolo, il gesto dei suoi carnefici che non esita a scusare, il tradimento o la pavidità dei suoi amici, l’abiezione della Croce.

Cristo, in sostanza, é il “grande ospitante della storia” e con lui sono chiamati a confrontarsi tutti coloro che vogliono incamminarsi sulle vie dell’ospitalità.

2.3.2 La philoxenìa

La variabilità terminologica dell’Antico Testamento, anche se tradotta con appropriati e diversificati vocaboli nel Nuovo, viene in qualche modo “superata” da un termine specifico che designa in modo proprio l’ospitalità: philoxenìa, cioè amore per l’estraneo. Questo decisivo legame tra ospitalità e carità (philoxenìa e agàpe) é la specifica caratteristica che contraddistingue l’ospitalità neotestamentaria.

Possiamo dire, pertanto, che la philoxenìa costituisca quasi un termine “tecnico” entrato nel vocabolario cristiano per indicare una particolare attitudine di accoglienza nei confronti dei fratelli in genere e di quelli più bisognosi in particolare. Non a caso essa viene inclusa nelle “esemplificazioni” matteane della carità per ciò che riguarda il già citato giudizio escatologico (Mt 25, 35); Paolo la pone tra le esortazioni conseguenti all’esercizio della carità (Rm 12, 13); Pietro fa lo stesso sottolineando il dovere della reciprocità (1Pt 4, 9); la lettera agli Ebrei la ritiene inseparabile dalla philadelphìa, cioè dall’amore per i fratelli. Tutti sono tenuti a praticarla ma al tempo stesso é particolare prerogativa del vescovo (1Tm 3,2; 5,10; Tt 1,8).

In sostanza la Sacra Scrittura lascia trasparire come quella che é una generica esigenza della carità possa diventare specifica espressione carismatica da parte di alcune persone a questo chiamate.

2.3.3. Ospitalità ed evangelizzazione

A parte questa dimensione che correla strettamente ospitalità e carità vi é un’altra peculiare motivazione neotestamentaria per valorizzare questa virtù, cioè le esigenze dell’evangelizzazione. Nel messaggio evangelico queste non sono mai scisse dal comando di curare: “curate i malati che vi si trovano e dite loro: si é avvicinato a voi il regno di Dio” (Lc 10,9; cfr. Mt 10, 7-8). Un po’ come nelle moderne “missioni popolari” le case dei cristiani diventavano dei veri e propri “centri di ascolto”. Tale dovere di accoglienza é specificamente indicato in 3Gv 7-8: “poiché sono partiti nel nome di Cristo, senza accettare nulla dai pagani noi abbiamo il dovere di accogliere tali persone per cooperare alla diffusione della verità”. Su tale prassi abbiamo varie testimonianze neotestamentarie (Rm 16,4.23; Fil 22) e in virtù di questa strategia di evangelizzazione si convertivano spesso intere famiglie (cfr. At 16). L’ospitalità così si fa strumento di evangelizzazione, sia nella prospettiva della testimonianza che della parola e le strutture di ospitalità diventano per la comunità segno e luogo dell’annunzio di integrale liberazione evangelica.

2.3.4. Il Buon Samaritano

Grande parabola dell’ospitalità é quella del “Buon Samaritano” in cui la successiva tradizione ecclesiale ha identificato Cristo stesso e l’ideale del cristiano(4). E’ significativo innanzitutto il motivo da cui scaturisce tale racconto, cioè una richiesta fatta a Gesù su cosa debba intendersi per prossimo. Nella concezione ebraica del tempo, infatti era ritenuto “prossimo” e quindi meritevole dell’amore di Israele, solo il connazionale o la persona legata da particolari vincoli (di sangue, di amicizia, ecc.). Gesù con un paradosso inaudito per indicare chi sia “prossimo”, cioè il più vicino, sceglie “il più lontano”, l’odiato nemico samaritano.

La parabola é interessante anche perché offre spunti per una sorta di metodologia dell’ospitalità che può essere per noi di esemplare attualità. Il samaritano innanzitutto antepone l’accoglienza nei confronti del ferito al di sopra dei suoi personali interessi (si trovava in viaggio, si ferma, ritarda i suoi impegni) e lo fa non conformandosi al comportamento degli altri (non solo il sacerdote e il levita ma anche gli stessi samaritani). Cioè compie quello che ritiene il suo dovere senza rifiutarsi di farlo perché “tutti fanno così”.

Poi cerca di utilizzare al meglio le risorse di cui dispone. Fascia le ferite con bende improvvisate, le deterge e le medica con gli unici rimedi che ha con sé, carica il ferito sul suo cavallo e cerca per lui una più adeguata sistemazione.

Infine predispone una struttura assistenziale e, nel far questo, coinvolge la comunità. L’albergatore diventa così prototipo di ogni realtà sociale che, opportunamente sollecitata da chi ha ricevuto il carisma dell’ospitalità si fa istituzione accogliente. Così il samaritano con sano pragmatismo si preoccupa anche di reperire i fondi per l’assistenza all’infermo, che sono poi i suoi soldi, cioè si fa tramite di una vera e propria solidarietà sociale. La conclusione della parabola é il perenne invito che si é fatto storia nella vita di S. Giovanni di Dio e di tutti coloro che hanno ricevuto in dono il carisma dell’ospitalità: va’ e anche tu fa lo stesso.

Per la riflessione:

1) Illustra con esempi gli approcci più comuni che vediamo tra noi (confratelli, collaboratori ed assistiti) di fronte al dolore umano (cfr. 2.1.1).

2) Segnala l’evoluzione progressiva dell’ospitalità tra Antico e Nuovo Testamento (differenze, affinità, superamento di concetti ecc.).

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NOTE DEL SECONDO CAPITOLO

(1) CONCILIO VATICANO II Costituzione Pastorale Gaudium et Spes, n. 10, 1964.

(2) Cfr. Veni Sancte Spiritus.

(3) Tradizione che si riferisce all’episodio in cui Giovanni di Dio lavò i piedi a un povero e questi si trasfigurò nella persona di Gesù.

(4) Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Salvifici Doloris, 1984, Capitolo VII

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3.

IL CARISMA DELL’OSPITALITÀ

IN S. GIOVANNI DI DIO E NELL’ORDINE OSPEDALIERO

3.1. Il carisma dell’ospitalità in San Giovanni di Dio

Carisma dell’ospitalità viene inteso qui nel senso di un dono dato dallo Spirito in ordine a una missione ecclesiale in favore dei poveri, malati e bisognosi.Questo carisma e la relativa missione sono stati vissuti dal nostro fondatore con uno stile proprio e così caratteristico che ha iniziato una “cultura” ospedaliera originale e di grande vitalità. La “cultura” ospedaliera juandediana costituisce un originale valore profetico di rinnovamento nella Chiesa e nella società(1).

Per la famiglia Ospedaliera deve continuare ad essere un lievito rivitalizzante dei servizi dell’Ordine in tutto il mondo. Ne diamo le principali caratteristiche.

3.1.1. Ospitalità misericordiosa

L’ospitalità juandediana é scaturita dall’esperienza cristiana della misericordia di Dio verso il nostro fondatore che gli ha rivelato la sua condizione di peccatore e la grande misericordia e amore di Dio che perdona gratuitamente e fa comunione di vita con tutti i suoi figli. Questa esperienza costituisce la caratteristica fondamentale e la sorgente da cui scaturì la ricchezza dell’ospitalità di San Giovanni di Dio: “Se considerassimo quanto é grande la misericordia di Dio non cesseremmo di fare il bene mentre possiamo farlo”. (2)

Siamo tentati di considerare San Giovanni di Dio fondamentalmente misericordioso, compassionevole, capace di comprendere, perdonare e aiutare e abbiamo ragione. Però questa é una conseguenza della sua consapevolezza e del suo permanente vissuto riguardo alla misericordia e al perdono di Dio e di Cristo verso di lui. Egli vedeva la vita e le cose della vita come doni divini gratuiti della misericordia divina:”Gesù Cristo usa con noi tanta misericordia dandoci da mangiare, da bere, da vestire e tutte le altre cose senza che le meritiamo”. (3)

Il bene più desiderato e chiesto dal nostro Fondatore durante la sua conversione é stato il perdono e la misericordia divina come possiamo leggere nei capitoli VII, VIII e IX del Castro. Ha sospirato e chiesto misericordia al Signore e ricevutala se ne é fatto intermediario verso tutti i bisognosi.

L’ospitalità misericordiosa di San Giovanni di Dio é senza dubbio ciò che colpisce di più il lettore, attento alle sue straordinarie azioni in favore di tutte le categorie di bisognosi e sofferenti.

Possiamo affermare in modo assoluto che l’esperienza profonda dell’ospitalità misericordiosa di Dio verso di lui lo ha trasformato in ospedaliero misericordioso verso tutti senza eccezione e quasi, possiamo dire, senza limiti. Nelle sue azioni non conosciamo limite di bisognosi né di sofferenti che non abbia soccorso. La lista dei bisognosi di Granada e dei dintorni soccorsi da San Giovanni di Dio che Castro riporta nel capitolo XII e quella data dallo stesso Santo nella seconda lettera a Gutierre Lasso coincidono e coprono quasi tutte le categorie esistenti nella Granada del suo tempo.

3.1.2. Ospitalità solidale

Questa esperienza e rivelazione della misericordia di Dio verso di lui ha provocato due risposte: una di kénosis (annichilimento) (4) o umiliazione penitenziale ben visibile nelle fonti, e successivamente una risposta di ospitalità misericordiosa verso tutti i bisognosi, sofferenti e peccatori (5). F. de Castro ci racconta come Giovanni di Dio nel giorno della sua conversione, da povero libraio si sia distaccato da tutto ciò che aveva per farsi seguace di Gesù Cristo. Dice inoltre:

Andava sempre scalzo, sia in città che in tutti i suoi viaggi, col scoperto e la barba e capelli tagliati col rasoio, senza camicia, né altro vestito che un cappotto di ruvido panno cenerino e calzoni di tela di lana. Camminava sempre a piedi, senza mai servirsi di alcuna cavalcatura, anche nei viaggi, per quanto stanco fosse e malconci avesse i piedi. Né, per quanto imperversassero intemperie di pioggia o neve, si coprì la lesta dal giorno in cui cominciò a servire nostre Signore fino a quando lo chiamò a sé. Eppure sentiva compassione delle più lievi sofferenze dei suoi simili, e procurava di aiutarli, come se egli vivesse in molta agiatezza (6).

La sua prima casa ha avuto inizi molto poveri per accogliere altri poveri come lui. Castro lo racconta in poche parole:

Deciso di procurare realmente il conforto e il rimedio ai poveri, Giovanni di Dio parlò con alcune pie persone che durante i suoi travagli l’avevano confortato e, con il loro aiuto e il suo fervore, prese in affitto una casa alla pescheria della città, perché era nei pressi di piazza Bibarrambla, da dove e da altre parti raccoglieva i poveri abbandonati, infermi e storpi, che trovava; e comprò alcune stuoie di giunco ed alcune coperte vecchie in cui potessero dormire, non avendo ancora né danaro per far di più, né altra cura de prestar loro (7).

Possiamo affermare che San Giovanni di Dio si è incarnato nei poveri e negli infermi accogliendoli e curando i loro bisogni come uno di loro. Li ha guariti pur nei suoi limiti con la ricchezze del carisma d’ospitalità datogli da Dio. Mai ricusava di aiutare un bisognoso con tutto ciò di cui poteva disporre nelle sua povertà.

3.1.3.. Ospitalità di comunione

Intermediario tra ricchi e poveri, tra categorie di benestanti e bisognosi, tra potenti e disprezzati, San Giovanni di Dio ha praticato l’ospitalità di comunione.

Con San Giovanni di Dio la questua delle elemosine é diventata un patrimonio e una ricchezza spirituale dell’Ordine di cui non si può fare a meno nonostante si debbano adattare i suoi metodi ad ogni epoca e cultura. Bisogna considerarla come circolazione di beni per la costruzione solidale e spirituale della società.

Quando gridava di notte per le vie: “fate bene fratelli a voi stessi per amore di Dio” voleva inquietare e provocare le coscienze a non dormire sopra le miserie dei propri fratelli, chiedeva e dava in una dinamica di reciprocità.

Quando scriveva lettere ringraziando per i doni ricevuti e raccontando il suo dolore per le sofferenze dei miserabili che non poteva assistere da solo e quando ricorreva a prestiti continui che faceva fatica a pagare, voleva costruire una comunità di comunione in cui tutti si sentissero fratelli, amati, aiutati e perdonati da Dio come lui stesso si sentiva. Sapeva che se tutti avessero vissuto un’esperienza profonda della misericordia di Dio, come lui la viveva, la Chiesa e la società sarebbero diventate veramente la famiglia dei figli di Dio abitati dalla vita e dalla comunione divina superando le necessità dei bisognosi.

3.1.4. Ospitalità creativa

In una città con quasi una decina di ospedali e case di poveri, diventa incredibile come la sensibilità di Giovanni di Dio abbia scoperto tanti bisognosi e malati abbandonati. E diventa anche sorprendente come sia riuscito ad aprirsi uno spazio nuovo nel modo di praticare l’ospitalità. Egli ha anticipato quanti avevano la responsabilità di camminare davanti a lui per risolvere i problemi dei malati, dei poveri e dei bisognosi.

La sua ospitalità era risposta a quelli che non la trovavano (abbandonati) e ai bisogni nuovi a cui altri non erano ancora sensibilizzati (sofferenti a causa di colpe, odio o vendette). San Giovanni di Dio vedeva ogni sofferenza, sia del corpo che dello spirito(8).

3.1.5. Ospitalità integrale (olistica)

Possiamo affermare che uno dei valori più caratteristici dell’ospitalità juandediana sia l’integralità di cura diretta a tutta la persona sofferente, Per lui il malato e il bisognoso non era solo un corpo ed un’anima, peccatore o peccatrice, un vendicativo, un bugiardo o un indegno. Tutti erano persone, suoi fratelli e sorelle, tutti degni di essere aiutati e perdonati da lui e dai suoi collaboratori. E perché? Perché altrettanto fa Dio provvedendo ogni giorno ai bisogni di tutti (9), perdonando e salvando (10). E perché vederli soffrire senza aiuto gli “spezzava il cuore” (11).

L’ospitalità di San Giovanni di Dio, diremmo oggi, era nello stesso tempo preventiva e di emergenza, curativa e riabilitativa, guariva i curabili e accompagnava gli incurabili. Era ancora pedagogica e formativa per gli orfani, per i bambini esposti e per le prostitute che aiutava a liberarsi dalla colpa, a costruire e portare avanti un progetto di formazione e di inserimento sociale. Nel suo ospedale offriva letto e cibo, legna e locali per accogliere i pellegrini; medicine, infermieri, medici, cappellani e aiuti spirituali per i malati. (12).

La pratica ospedaliera di San Giovanni di Dio ci fa vedere che la storia cinese del pesce e della canna é una falsa questione quando si interpreta come dilemma esclusivo (o…o…). L’ospitalità per soccorrere i sofferenti e i bisognosi deve essere sempre e….e….secondo le circostanze di luogo, di tempo e di persona.

3.1.6. Ospitalità riconciliante

San Giovanni di Dio era comprensivo e trattava tutti, peccatori, oppressori e oppressi, come Dio trattava lui: perdonava e aiutava, assisteva e guariva le ferite fisiche e morali. Tante volte quelle morali e spirituali prima e come condizione per ottenere l’armonia e la guarigione delle malattie del corpo.

In un mondo così diviso e lacerato da tante ideologie, fondamentalismi, discriminazioni etniche che generano odio, risentimento e desiderio di vendetta, la capacità di San Giovanni di Dio di perdonare, riconciliare e costruire ponti di fraternità merita di essere studiata e vissuta da tutti noi nella Famiglia Ospedaliera. Tra tutti, tra i suoi assistiti e i suoi collaboratori, egli era un profondo guaritore di ferite, tensioni e conflitti.

Come Cristo, anch’egli guariva con le sue piaghe. I suoi biografi fanno notare come fosse stato ferito dalla separazione dai suoi genitori, dalla solitudine, dalle frustrazioni della vita militare ma principalmente dalle sue colpe, dalle ingiurie subite, e dalla sofferenza per i tanti debiti fatti per aiutare i poveri e i malati, suoi fratelli. Queste esperienze di ferite esistenziali ne facevano anche un ospedaliero specializzato nel sanare e riconciliare i nemici tra loro e farli suoi collaboratori come avvenne con Antón Martín e tanti altri.

Alla sua benefattrice, Duchessa di Sessa, diceva come si curasse con le ferite di Cristo crocifisso e la consigliava a fare altrettanto:

“Quando mi trovo afflitto non trovo rimedio o consolazione migliore che guardare Gesù Crocifisso (13).

“Ricorrete alla passione di Gesù Cristo nostro Signore e…sentirete grande consolazione” (14).

Fu così che riuscì a portare Antón Martín a perdonare e riconciliarsi con Pedro Velasco e conquistarli ambedue a divenire collaboratori diretti della sua ospitalità, come primi fratelli.

Ed era con la passione di Cristo, i venerdì, che guariva le ferite della prostituzione a tante donne distrutte da quel genere di vita. Per il suo carisma di ospitalità misericordiosa perdonò alla donna strappata da lui alla prostituzione che lo ingiuriava: “Prima o poi ti devo perdonarti, perciò ti perdono subito (15). Così la convertì una seconda volta come lei stessa testimonia ai funerali del santo.

Quando lo accusano all’arcivescovo di accogliere persone indegne nella sua “Casa di Dio”, si dichiara l’unico indegno e che “come Dio tollera i cattivi e i buoni ed ogni giorno fa sorgere sopra di tutti il suo sole, non é ragionevole scacciare gli abbandonati e gli afflitti dalla propria casa” (16).

3.1.7. Ospitalità generatrice di volontariato e collaboratori

L’amore misericordioso senza frontiere di San Giovanni di Dio aveva una vitalità così forte che generava amore, carità cristiana e collaborazione; era ospitalità irradiante, carisma sempre più partecipato.

Questa forza carismatica ricevuta da Dio a cui San Giovanni di Dio é stato radicalmente fedele ha fatto del Santo un fuoco di irradiazione ospedaliera a vari livelli di solidarietà e collaborazione con lui nell’aiuto ai poveri e ai malati.

Possiamo distinguere vari livelli di collaboratori: da quelli che aiutavano con azioni o elemosine saltuarie a quelli diventati collaboratori permanenti come Angulo e tanti altri citati nelle sue lettere, da Castro e dal documento del Processo contro i Gerolimini. Alcuni hanno abbracciato il volontariato juandediano fino all’appartenenza piena nell’identificazione con il suo carisma.

Tra i più diretti collaboratori si contano i primi compagni o fratelli di abito, i benefattori più identificati con il suo carisma che hanno sentito l’opera di San Giovanni di Dio come propria. E questo sentimento di appartenenza all’ospedale e all’opera juandediana generava a sua volta una forte dinamica di solidarietà. Questa identificazione nel carisma, portava tanti dei suoi collaboratori a promuoverlo e a difendere la sua originalità con beni e persone. (17). Questa identità di appartenenza alla Famiglia di San Giovanni di Dio resta un modello valido per il presente e il futuro.

3.1.8. Ospitalità profetica

Una delle note più originali dell’Ospitalità di San Giovanni di Dio é stata la profezia. Senza mezzi, straniero immigrante con fama di pazzo, dandosi totalmente a Gesù Cristo e ai sofferenti ha aperto cammini nuovi nella Chiesa e nella Società.

I suoi atteggiamenti ospedalieri furono sorprendenti, sconcertanti, ma funzionarono come fari per indicare nuove vie di assistenza e umanità verso i poveri e i malati. Ha creato da niente un modello alternativo per essere cittadino, cristiano, ospedaliero a favore dei più abbandonati. Questa ospitalità profetica é stata un lievito di rinnovamento nell’assistenza e nella Chiesa. Il modello juandediano ha funzionato anche come coscienza critica e guida sensibilizzatrice per nuovi atteggiamenti e pratiche di aiuto verso i poveri e gli emarginati.

3.2. L’ospitalità nell’arco della storia

3.2.1. L’ospitalità juandediana nei primi compagni e attraverso i secoli

I primi fratelli (18), compagni di San Giovanni di Dio, parteciparono del suo carisma ospedaliero, lo praticarono e lo diffusero. L’atto di fondazione dell’ospedale di Antón Martín di Madrid parla dello stato di bisogno di “malati con piaghe contagiose”. Lo stesso, nel suo testamento afferma che Giovanni di Dio lo lasciò alla guida del suo ospedale, al posto suo, come se stesso. (19)

I suoi compagni sono ricordati dai testimoni come ospedalieri molto vicini nel servizio ai poveri e ai malati che assistono. La sua persona, umile, povera, e abbassata in un annichilimento (kénosis) volontario in cui si distacca da ogni grandezza per portarsi a livello dei poveri e servirli continua ad essere l’esempio dei suoi compagni e collaboratori.

Testimoni di questa prima tappa dell’Ordine sono unanimi nel dichiarare che “i fratelli ricevevano con molta carità e liberalità tutti i poveri senza eccezione, qualunque persona sia straniera o nativa, curabili e incurabili, pazzi o sani di mente, bambini piccoli ed orfani. E questo lo facevano ad imitazione di Giovanni di Dio, il loro fondatore. Ricevevano tutti, tanto moriscos come vecchi cristiani. (20)

Dopo questa prima tappa dell’Ordine Ospedaliero si sono succeduti attraverso quasi cinque secoli di storia fino ai giorni nostri, confratelli e collaboratori juandediani, alcuni di grande fama, altri rimasti nell’anonimato, che hanno dato una preziosa testimonianza di fedeltà al carisma dell’ospitalità. (21)

D’altra parte, dai primi albori dell’Ordine, l’assistenza nei campi di battaglia, nelle armate e tra i militari anche in tempo di pace, diventarono una costante dei servizi ospedalieri dell’Ordine nella Spagna, l’Italia, il Portogallo e la Francia.

L’azione dell’Ordine si é articolata con altre due espressioni: il servizio di emergenza nelle epidemie e gli ospedali in territori di missione alcuni dei quali sono diventati i cosiddetti “ospedali-dottrina”.(22)

Un’altra espressione che si é sviluppata in parecchi paesi sono state le scuole di medicina e chirurgia e i corsi per infermieri per preparare i membri e i collaboratori dell’Ordine.

Nei secoli XIX e XX, con la psichiatria diventata sempre più un ramo specializzato della medicina, l’Ordine si é sensibilizzato nel fondare e gestire centri specifici per malati di mente. In Francia questo sviluppo é stato notevole per iniziativa di Paul de Magallon nel secolo XIX, con la restaurazione dell’Ordine dopo la sua estinzione dalla Rivoluzione del 1789. Così pure in Spagna, Portogallo e Sudamerica per opera di Benedetto Menni.

Altre Provincie, dalle diverse restaurazioni europee del sec. XIX (tedesca, polacca, austriaca e italiana) hanno fondato opere esclusive per malati di mente e handicappati mentali, bambini, giovani e adulti. Le Provincie d’Irlanda, Inghilterra e Australasia si specializzarono nell’organizzazione di servizi per disabili psichici dando un importante contributo a questo settore nel distinguerli dalle persone diagnosticate come malati mentali e cambiando la terminologia utilizzata per gli stessi al fine di mettere in risalto la loro dignità e i loro diritti come persone.

L’assistenza ai bambini e ai giovani handicappati fisici fu una risposta di Benedetto Menni in Spagna, tanto urgente fino a pochi anni fa e che oggi trova espressioni in alcuni ospedali generali pediatrici anche di avanguardia e centri di ortopedia e riabilitazione.

Una espressione del carisma di San Giovanni di Dio sviluppatasi molto negli ultimi decenni sono stati i ricoveri notturni per i senzatetto e le case per anziani nonché i centri per persone con difficoltà di apprendimento ossia disabili psichici.

Una delle dimensioni che l’Ordine ha sempre più sviluppato è stata quella missionaria. Si può dire che l’espansione missionaria dell’Ordine risalga alla sua stessa nascita. La fondazione in Cartagena (Colombia) in 1596, è stata la prima di una lunga serie che sono state create in America, in Africa e Asia fino al secolo scorso.

Dopo un periodo di estinzione, le fondazioni missionarie furono riprese in America, Africa, Asia e Oceania. L’Ordine vuole continuare oggi l’evangelizzazione del mondo della salute proprio come San Giovanni di Dio ha fatto e Gesù Cristo ci ha comandato

3.2.2. Presenza attuale

Le esigenze della Nuova Evangelizzazione poste dalla Chiesa all’inizio del terzo millennio, hanno portato l’Ordine a rispondere con il progetto di una Nuova Ospitalità. La “nuova ospitalità” si deve esprimere in due sensi: in opere innovatrici nella comunità; e in nuove risposte alle lacune esistenti.

Dal Capitolo generale del 1976 e più ancora da quello straordinario del 1979, l’Ordine ha fatto uno sforzo considerevole per aggiornare l’assistenza. Sono state parecchie le aree che hanno preso sviluppo. Vale la pena di ricordare le principali.

L’umanizzazione e la pastorale hanno conosciuto in questi ultimi venti anni una rivitalizzazione tanto necessaria per complementare i grandi sviluppi tecnici degli ospedali e adeguarsi alle sofferenze concrete dei malati e dei loro familiari. L’assistenza juandediana é stata sempre integrale, olistica, per cui non può esser priva della cura pastorale e spirituale aggiornata.

La dimensione umanizzante e pastorale unitamente alla necessaria formazione permanente dei confratelli e dei collaboratori, se portata avanti, può rinnovare la presenza dell’Ordine nei centri tradizionali. Se ben attuate sono mezzi per una rinnovata presenza assistenziale dell’Ordine, per una nuova ospitalità e una nuova evangelizzazione.

Negli ultimi anni si ha completato l’umanizzazione con la formazione in bioetica e in etica della salute e la sua applicazione al servizio dei malati.

L’adeguamento delle strutture a nuovi bisogni e ad esigenze tecniche ed umane, insieme a nuovi criteri di gestione con l’attribuzione prioritaria delle risorse secondo programmi ben definiti hanno contribuito a rinnovare molti dei nostri ospedali e centri.

L’evoluzione che hanno subìto i nostri centri tradizionali ha investito tutte le loro aree. Le innovazioni tecnologiche nell’ambito delle scienze della salute si è riflessa nei continui cambiamenti che hanno avuto i nostri centri. La loro struttura materiale ha subìto un notevole mutamento per l’incorporazione delle équipes tecniche, per il cambio delle tecniche assistenziali, per i nuovi metodi di lavoro con una particolare menzione per l’introduzione del lavoro in équipes multidisciplinari. Il tutto sempre orientato a una migliore e più completa attenzione al malato come persona.

Il mutamento più significativo si è avuto nell’integrazione dei collaboratori. Fino a non molti anni fa la comunità dei frati, con l’appoggio di alcuni laici, rendeva possibile il servizio ai malati. Oggi sono i collaboratori gli attori principali nelle opere e non vi sono aree precluse a tale presenza, dato che anche la direzione e la gestione sono state assunte dai collaboratori.

Accanto ai collaboratori dipendenti anche un numero crescente di volontari si va integrando nei nostri centri assumendo compiti di umanizzazione e di servizio pastorale.

Questa presenza rinnovata e aggiornata nei centri tradizionali sta dando ottimi risultati grazie anche all’opera di formazione a livello locale, provinciale e internazionale.

In questa maniera, il futuro delle opere passa, in parte, attraverso il mantenere sempre attuali gli strumenti tecnici, i metodi di lavoro e i processi direttivi e gestionali, con particolare riferimento ai mezzi tecnici correlati alla comunicazione e ai processi informatici. Si va pure sviluppando l’area della ricerca scientifica con programmi che alle volte vengono svolti in collaborazione con i competenti dipartimenti universitari.

I confratelli devono essere guida etico-morale, coscienza critica, anticipazione creatrice e innovativa e segno profetico di buone nuove ai poveri, ai malati e ai bisognosi di oggi, di ogni cultura e religione.

3.2.3. Nuove forme di presenza

Da parecchi anni le espressioni innovatrici nell’Ordine derivano dalla sensibilizzazione alle nuove necessità della società e dalle nuove risposte che ci sforziamo di dare a partire dal nostro carisma alle necessità esistenti. In alcuni casi vengono riprese espressioni già presenti nella pratica di San Giovanni di Dio. Ci riferiamo ad una maggiore apertura alla comunità sociale, alle famiglie e ai loro bisogni.

La nostra ospitalità sta uscendo sempre più dagli ospedali e dai Centri assistenziali estendendosi alla prevenzione ed educazione alla salute, alla riabilitazione e al reinserimento sociale e alla salute comunitaria. San Giovanni di Dio si occupava con premura degli orfani, della loro educazione e formazione, del reinserimento delle prostitute, ecc.

Così oggi l’Ordine sta estendendo il suo campo d’azione ai day-hospital, all’assistenza domiciliare, ai poliambulatori. Promuove anche la creazione di risposte assistenziali di aiuto ai nuovi sofferenti delle moderne patologie: tossicodipendenti, malati di AIDS, malati cronici terminali, ecc.

Le sofferenze della solitudine, dell’abbandono della disperazione e del vuoto esistenziale stanno trovando risposte con i telefoni della speranza, con la pubblicazione di bollettini e depliant di messaggi umani e cristiani, con riviste su temi di riflessione, di formazione etica ed ospedaliera.

Uno degli indirizzi in cui l’Ordine cerca di rispondere ai nuovi bisogni della società é l’integrazione di confratelli e collaboratori in opere, progetti e iniziative della Chiesa e di altri organismi nazionali e internazionali in campo sanitario, di ricerca e di assistenza. Queste realizzazioni si stanno attuando tra gruppi di una o parecchie provincie, le loro fondazioni o associazioni in collaborazione con organismi non governativi, con governi di altri paesi, soprattutto in via di sviluppo.

Il carisma di San Giovanni di Dio é così ricco e ha tanta vitalità che quando l’Ordine, i confratelli e i collaboratori si lasciano condurre dallo Spirito di Dio e si sensibilizzano ai bisogni emergenti della società, i frutti dell’ospitalità juandediana si moltiplicano anche se le risorse appaiono insufficienti.

Per la riflessione:

Come sta ricreando l’Ordine (confratelli e collaboratori) le caratteristiche principali dell’ospitalità?

 

PUNTI FORTI PUNTI DEBOLI SUGGERIMENTI

1) Ospitalità misericordiosa

2) Ospitalità solidale

3) Ospitalità di comunione

4) Ospitalità creativa

5) Ospitalità integrale

6) Ospitalità riconciliante

7) Ospitalità generatrice

di volontariato e collaboratori

8) Ospitalità profetica

____________________________________________

NOTE DEL TERZO CAPITOLO

(1) L’Ordine Ospedaliero dispone oggi di una ricca documentazione per studiare e approfondire le linee di forza e di vitalità del carisma ospedaliero. Le fonti documentarie diventano così mezzi per arrivare alla sorgente del carisma ospedaliero di San Giovanni di Dio e alle sue caratteristiche.

Cronologicamente e in ordine di importanza disponiamo di sei Lettere di San Giovanni di Dio, più tre di San Giovanni di Avila a lui. Queste lettere sono disponibili in edizioni critiche e ci danno un ritratto di prima grandezza di San Giovanni di Dio. Ci fanno vedere e innamorare di un personaggio, un membro vivo seguace del primo Ospedaliero della storia, Gesù Cristo. Ci fanno intravedere la sua passione per l’uomo bisognoso e sofferente, per la Chiesa sua madre e per tutti i suoi figli.

La seconda fonte in ordine di importanza é senza dubbio la Biografia del Santo scritta da Francesco de Castro e pubblicata nel 1585. Con grande fondatezza storica, costituisce un rendiconto profondo del percorso umano-spirituale del Santo in cui é messa in rilievo l’ospitalità divina verso di lui come sorgente della sua ospitalità senza frontiere verso tutti i poveri e i malati.

Dal 1995 la Famiglia Ospedaliera dispone di una nuova e preziosa fonte della vita e ospitalità di San Giovanni di Dio. E’ la Documentazione proveniente dall’Archivio della Deputazione Provinciale di Granada che formò parte della causa tra i Fratelli dell’Ospedale di Giovanni di Dio e i Fratelli del Monastero di San Girolamo”. Questa documentazione data del 12.03.1570 (il processo iniziò però soltanto nel 1572) e consiste di 171 fogli manoscritti che furono trascritti da José SÁNCHEZ MARTINEZ nel suo libro: Kénosis y Diakonía en el itinerario espiritual de San Juan de Dios, Madrid 1995. Dei 17 testimoni che risposero alle 26 domande, 10 avevano conosciuto San Giovanni di Dio. Questa documentazione ed altri documenti che Sánchez ha utilizzato in un altro lavoro sullo stesso processo, costituiscono la terza fonte in ordine di importanza per studiare l’ospitalità di San Giovanni di Dio.

In più disponiamo delle prime Costituzioni dell’Ospedale di Granada e di tre Bolle fondamentali:

1. Licet ex debito di Pio V (1 gennaio 1572)

2. Etsi pro debito di Sisto V (1 ottobre 1586)

3. Piorum Virorum, Breve di Paolo V (12 aprile 1608)

Questi documenti hanno un valore decisivo perché ci avvicinano a San Giovanni di Dio e ai principi teologici e giuridici della nostra ospitalità. Inoltre bisogna aggiungere le petizioni dei Superiori Generali di grazie ed approvazioni che diedero luogo alle succitate bolle. Entrambi vanno considerate fonti della nostra ospitalità.

Delle prime Costituzioni ricordiamo:

Regla y Costituciones para el Hospital de Ioan de Dios, desta ciudad de Granada…1585;

Constituciones hechas en el primer Capitulo General hecho en Roma año de 1587;

Costitutioni et ordini da osservarsi dagli Frati dell’Ordine di Giovanni di Dio… 1589;

Costitutioni del devoto Giovanni di Dio – d’Italia, 1596

Regla del Bienaventurado Padre San Agustín y Constituciones de la Orden de Iuan de Dios, Madrid 1612

La documentazione moderna è abbondante, ma, per non esagerare, vogliamo ricordare solamente alcuni titoli, i più significativi che sono stati pubblicati a partire dal Capitolo Generale del 1976, citati in ordine cronologico.

· P. Marchesi, Le basi del rinnovamento (1978).

· P. Marchesi, L’Umanizzazione (1981).

· La Dimensione Apostolica dell’Ordine di San Giovanni di Dio (1982).

· Costituzioni dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio (1984).

· P. Marchesi, L’Ospitalità dei Fatebenefratelli verso il 2000 (1986).

· Dichiarazioni del LXII Capitolo Generale (1988).

· B. O’Donnell, Servo e Profeta (1990).

· Giovanni di Dio continua a vivere nel tempo (1991)

· Fatebenefratelli e Collaboratori insieme per servire e promuovere la vita, (1992).

· La nuova Evangelizzazione e la nuova Ospitalità alle soglie del terzo millennio (1994).

· P. Piles, La forza della carità (1995)

· P. Piles, Giovanni di Dio: chiamata alla nuova ospitalità (1996)

· P. Piles, Lasciatevi guidare dallo Spirito (1996)

· La Dimensione Missionaria dell’Ordine Ospedaliero. Profeti nel mondo della salute (1997)

Gli studi e ricerche critiche compiuti nel corso dei secoli e di recente, sulla vita, spiritualità e ospitalità di San Giovanni di Dio sono ulteriori inestimabili contributi per approfondire il tema trattato in questa “Carta di identità”. Per non appesantirla rimandiamo alla bibliografia finale per alcuni dei titoli più significativi.

(2) 1a Lettera di San Giovanni di Dio alla Duchessa di Sessa (1DS), 13. Vedi anche GAMEIRO, A. Koinonía, filoxenía y martyrion em S. João de Deus e na sua Orden nascente, tesi di dottorato, Roma 1996, in corso di pubblicazione.

(3) 2a Lettera di San Giovanni di Dio alla Duchessa di Sessa (2DS), 18.

(4) Cfr. SÁNCHEZ MARTINEZ, José. Kénosis y Diakonía en el itinerario espiritual de San Juan de Dios, Madrid 1995.

(5) Cfr. 2a Lettera di San Giovanni di Dio a Gutierre Lasso (2 GL), 5. Questo elenco non è completo. Castro, nel capitolo XVI, aggiunge altri bisognosi. Il Santo ha assistito persone colpite da mali morali molto acuti. Conosciamo la sua sollecitudine e misericordia verso le prostitute, i carcerati, gli emarginati, i mori e probabilmente anche verso i “cristiani nuovi” di provenienza ebraica, gli schiavi ed altri esclusi sociali come i malati incurabili.

(6) CASTRO, Op. Cit., Capitolo XVII.

(7) Ibid., Capitolo XII.

(8) Cfr. 2 GL, 8.

(9) 1a Lettera di San Giovanni di Dio a Gutierre Lasso (1 GL), 2.

(10) Lettera di San Giovanni di Dio a Luis Bautista (LB), 19.

(11) 1 DS, 15.

(12) A partire dal Capitolo XII al XX del suo libro, Castro illustra bene queste distinte dimensioni dell’ospitalità juandediana.

(13) 2 DS, 9.

(14) 1 DS, 9.

(15) CASTRO, Ibid., Capitolo XV

(16) Ibidem., Capitolo XX.

(17) Questa solidarietà identificativa appare chiaramente nelle lettere a Gutierre Lasso e alla Duchessa di Sessa, nella biografia di Castro e nelle testimonianze del processo e si riferisce a decine di collaboratori.

(18) Nel Processo contro i Girolamini (Cf. SANCHEZ, Op. Cit.), anteriore alla biografia di Castro, si parla abbondantemente degli atteggiamenti ospedalieri dei fratelli d’abito di San Giovanni di Dio. Giovanni d’Avila (Angulo) cita i loro nomi: Antón Martín, Pedro Pecador, Alonso Retigano e Domingo Benedicto.

(19) ORTEGA LÁZARO, L., o.h., Antón Martín…. pp. 17-18 e 31

(20) Dichiarazioni tratte dalla causa tra i fratelli dell’“ospitale di Giovanni di Dio” e “i frati del monastero di san Girolamo”, 1572-73. En: SANCHEZ MARTINEZ, José Op. Cit., pp. 181-188 e 285 ss.

(21) Consideriamo importante per delineare l’identità e originalità dell’Ordine, conoscere, seppure solo molto parzialmente, alcune figure di confratelli particolarmente degni di considerazione per come abbiano vissuto i valori dell’ospitalità. I santi, beati e venerabili meritano di essere ricordati per primi: San Giovanni Grande, San Riccardo Pampuri, Beato Benedetto Menni e i numerosi Beati Martiri. Tra i venerabili e quelli di cui si sta introducendo la causa de Beatificazione abbiamo Francesco Camacho, Antón Martín, José Olallo Valdès, Eustachio Kugler e un altro gruppo di martiri, senza dimenticare anche tanti altri che nella storia dell’Ordine hanno sofferto il martirio o la persecuzione per Cristo e per l’ospitalità in Brasile, Colombia, Cile, Polonia, Filippine, Francia, Spagna e, di recente, anche in altri paesi.

Tanti confratelli “fondatori” e “rifondatori” di comunità e opere dell’Ordine meriterebbero di essere più conosciuti come espressioni vive della vitalità e dei valori del nostro carisma. Così i fratelli Giovanni Bonelli (Francia); Gabriele Ferrara e Giovanni Battista Cassinetti (Italia e Germania), Francisco Hernandez (America). In tempi più recenti è giusto ricordare Padre Giovani Maria Alfieri (Italia), Paul de Magallon (Francia), Eberhard Hacke e Magnobon Markmiller (Germania), il Beato Benedetto Menni (Spagna, Portogallo e Messico).

Nel campo della ricerca storica dell’Ordine acquistano speciale rilievo alcuni confratelli, che con amore per l’Ordine e spirito scientifico ci permettono oggi di conoscere il percorso del nostro carisma.

Un’altra schiera di confratelli illustri si sono distinti come medici, chirurghi, farmacisti, botanici, dentisti, che sarebbe lungo nominare. Ne menzioneremo alcuni nel sesto capitolo, nota 11, di questo documento dedicato al tema della formazione e della ricerca nell’Ordine.

Dopo questi nomi di confratelli chi sono stati profeti di Ospitalità, bisognerebbe forse aggiungere, alcuni nomi di collaboratori che per il loro amore all’Ordine e ai suoi valori meritano di essere ricordati.

(22) ANTIA, Juan Grande, in Labor Hospitalario-Misionera de la Orden de San Juan de Dios en el mundo, fuera de Europa, AA.VV., Madrid, 1929.

“I religiosi ospedalieri furono, da Filippo II a Ferdinando VII, gli incaricati della Sanità militare, specialmente nelle spedizioni nelle Indie e in tempo di guerra e di epidemie.

Oltre ai quasi cento Ospedali-Dottrina che avevano in America, nei quali curavano spagnoli, militari e indigeni e gestivano una numerosa e ben frequentata scuola di fede per gli indios, avevano anche farmacie e cliniche ossia dispensari di soccorso e rimedio per tutti. Nei loro Ospedali-Dottrina gli indios perciò non trovavano solo la salute per il corpo, ma anche per l’anima; è così che i fervidi Figli di San Giovanni di Dio rimasero sempre fedeli all’assioma ereditato dal loro Padre e dai loro Superiori: Dal corpo all’anima, assioma sempre valido per ogni buon ospedaliero”.

* – - – *

4.

PRINCIPI CHE ILLUMINANO LA NOSTRA OSPITALITA’

Accettando la chiamata della Chiesa ad essere sempre più coscienti della missione evangelizzatrice di ogni gruppo ed opera ecclesiale, l’Ordine, nel progettare la Nuova Ospitalità, si sente impegnato a sviluppare chiaramente la sua identità alla luce di ciò che chiamiamo la “cultura dell’Ordine”. Radicati in questa cultura ospedaliera siamo chiamati tutti, religiosi e collaboratori, ad incarnare nel nostro agire i principi che illuminano la nostra ospitalità. In seguito vogliamo illustrare uno ad uno questi principi.

4.1. Dignità della persona umana

4.1.1. Il rispetto della dignità della persona umana come caratteristica essenziale di un atteggiamento autenticamente cristiano. La creazione dell’uomo e della donna a immagine di Dio (Gen 1, 27) conferisce loro una dignità indiscutibile. Tra tutti gli esseri viventi l’essere umano é l’unico a somiglianza di Dio, chiamato alla comunicazione con Dio, in grado di ascoltare e rispondere a Dio. La dignità di ogni essere umano dinanzi a Dio é il fondamento della sua dignità dinanzi agli uomini e a se stesso. E’ la ragione ultima della fondamentale uguaglianza e fraternità tra gli uomini, indipendentemente dalla razza, dal popolo, dal sesso, dalle origini, dalla cultura e dalla classe sociale. E’ il motivo per cui un essere umano non può usare di un altro essere umano come di una cosa. Al contrario deve trattarlo come essere autonomo e responsabile di se stesso mostrandogli rispetto.

Dalla dignità dell’essere umano dinanzi a Dio consegue pure il diritto e il dovere dell’autostima e dell’amore verso se stessi. Di conseguenza dobbiamo considerarci un valore per noi stessi e assumere responsabilmente la cura della nostra salute. Dalla dignità di ogni essere umano dinanzi a Dio consegue pure che dobbiamo amare il prossimo come noi stessi e che la vita dell’essere umano é sacra e inviolabile, principalmente perché nel volto di ogni essere umano vi é un raggio della gloria di Dio (Gen 9, 6).

4.1.2. Il rispetto deve essere universale. Il rispetto della dignità della persona umana, creata a immagine di Dio esige che ciascuno, senza alcuna eccezione, deve considerare il prossimo come “altro sé” curandosi in primo luogo della sua vita e dei mezzi necessari per poterla vivere degnamente. (1) Bisogna affermare che la dignità di ogni essere umano é tale quali che siano le anomalie da cui può essere affetto, le limitazioni che può presentare o l’emarginazione sociale a cui può vedersi ridotto.

Il rispetto della dignità della persona umana creata a immagine di Dio é latente nella filosofia e nelle crescente coscienza internazionale sull’ampia gamma dei diritti umani.

Il carattere universale del rispetto della dignità umana si esplicita nell’affermazione di Kant per cui le persone sono assolutamente preziose, fini in sé, dotate di dignità e non commutabili con un prezzo. Il corollario etico sarà che in quanto persone, tutti gli uomini sono uguali e meritano uguale considerazione e rispetto. La dignità é inerente all’essere umano per essere soggetto di diritti e di doveri(2).

4.1.3. Atteggiamento interiore ed efficace modalità di accoglienza ai malati e ai bisognosi. Dato che il valore e la dignità umana nel dolore, nella disabilità e nella morte sono più frequentemente oggetto di interrogativi e rischiano di essere eclissati, l’Ordine Ospedaliero nel prendersi cura del malato e dei bisognosi annunzia a tutti gli uomini la meravigliosa eredità di fede e di speranza che ha ricevuto dal Vangelo.

L’atteggiamento di Gesù in favore dei più deboli e degli emarginati sociali, è per l’Ordine Ospedaliero, secondo l’esempio di S. Giovanni di Dio, una chiamata a impegnarsi nella difesa e promozione dei diritti fondamentali, fondato sul rispetto della dignità umana.

Tenendo conto delle varie forme attraverso le quali l’Ordine oggi esprime il carisma, ci sembra che esistano alcuni campi in cui, nella prospettiva della Nuova Ospitalità, sono segni evangelici particolarmente significativi:

· i senzatetto: come espressione della dimensione di gratuità, che nella nostra società dell’efficienza e della produttività è quasi negata;

· i malati terminali: per segnalare il valore della vita nel momento del morire;

· i malati di AIDS: per contrastare paure e pregiudizi irrazionali;

· i tossicodipendenti: amare l’uomo che non si sa amare;

· gli immigrati: accogliere Gesù straniero come genuina espressione di ospitalità;

· gli anziani; per affermare il valore della vita nella sua globalità;

· le persone in condizioni di infermità e limitazioni croniche: come espressione del valore e dignità della persona umana.

Ogni luogo in cui vi sia povertà, malattia, sofferenza, è un luogo privilegiato in cui noi, religiosi di S. Giovanni di Dio, esercitiamo e viviamo il Vangelo della misericordia(3).

4.2. Rispetto della vita umana

4.2.1. La vita come bene fondamentale della persona e condizione previa per godere degli altri beni. La vita, bene fondamentale della persona e condizione previa per godere degli altri beni, non solo non può vedersi subordinata a nessun altro bene ma rispetto ad essa ogni persona deve essere riconosciuta come avente pari diritto nei confronti di ogni altro uomo.

Il dovere di realizzarsi, proprio di ogni uomo -percepiamo l’esistenza come dono ma anche come impegno da attuare- presuppone di conservare il bene fondamentale della vita come condizione “sine qua non” per poter compiere il dovere di custodire la missione ricevuta con la stessa esistenza. Comunque venga formulato sussiste il principio etico: conseguire il fine per cui fummo creati, tendere alla propria perfezione o alla realizzazione di se stessi inseriti nella società[i].

La vita umana che per il credente é dono di Dio, deve essere rispettata dal suo inizio sino alla fine naturale. Essendo il diritto alla vita inviolabile e costituisce il fondamento più forte del diritto alla salute come degli altri diritti della persona, nessuna considerazione giustifica il ricorso all’aborto o all’eutanasia attiva.

4.2.2. Protezione speciale dei pazienti con minorazioni fisiche, mentali e psicologiche. In ogni individuo minorato fisicamente o psichicamente dobbiamo vedere un membro della comunità umana, un essere che soffre e che, più di qualsiasi altro, necessita del nostro appoggio e dei nostri segni di rispetto che lo aiutino a credere nel suo valore di persona. Questo é molto importante ai nostri giorni per il fatto che la nostra società si mostra sempre più intollerante nei confronti dei portatori di handicap, dei disabili, dei minorati. (4)

L’Ordine Ospedaliero deve distinguersi per la disponibilità e il servizio ad attuare, nella misura del possibile, la realizzazione pratica ed effettiva dei principi di integrazione, normalizzazione e personalizzazione. Il principio di integrazione si oppone alla tendenza a isolare, segregare o trascurare i disabili. Il principio di normalizzazione comporta l’impegno per la riabilitazione delle persone impedite creando un ambiente il più normale possibile. Il principio di personalizzazione sottolinea che nell’attenzione ai disabili occupano il primo posto la dignità, il benessere e lo sviluppo della persona dovendosi proteggere e promuovere le sue facoltà fisiche, psichiche, spirituali e morali.

4.2.3. Promuovere la vita, creando o collaborando alla creazione di realtà che aiutino a superare la miseria, la fame e l’infermità. Nella nuova evangelizzazione l’Ordine Ospedaliero deve render visibile il Vangelo della vita potenziando tutti i possibili sforzi che vengono fatti per eliminare le strutture ingiuste, disumanizzanti e creando possibilità di vita degna, lì dove esiste povertà, infermità, emarginazione e abbandono.

In virtù della sequela di Cristo secondo il carisma di S. Giovanni di Dio, il sostegno e la promozione della vita umana devono realizzarsi mediante il servizio della carità che si manifesta nella testimonianza personale e istituzionale nelle diverse forme di volontariato, nell’animazione sociale e nell’impegno politico[ii].

Il servizio alla vita deve estendersi dalla protezione della vita nascente fino all’accompagnamento fraterno di chiunque soffra per una malattia, una condizione di emarginazione o di bisogno, rispettando, difendendo e promuovendo la sua dignità di persona. Una speciale attenzione merita la persona nella fase finale della sua esistenza.

Il servizio di promozione alla vita deve espletarsi nella promozione delle attività in ambito di prevenzione, nel trattamento degli invalidi e della riabilitazione delle persone che sono impedite. In questo senso non sarà mai sufficiente quello che si fa per aiutare i disabili a partecipare pienamente alla vita e allo sviluppo della società cui appartengono, creare l’ambiente sociale che li accetti pienamente come membri della comunità con speciali necessità che devono essere soddisfatte.

4.2.4. Obblighi e limiti nel conservare la propria vita. La vita é un bene fondamentale della persona e condizione previa per l’uso di altri beni ma non é un bene assoluto. Questa può essere sacrificata in favore di altre persone o dei nobili ideali che danno senso alla vita stessa. La vita, la salute, ogni attività temporale si trova subordinata ai fini spirituali.

Neghiamo il dominio assoluto e radicale dell’uomo sulla vita quindi non possiamo realizzare atti che presuppongono un dominio totale e indipendente come sarebbe quello di distruggerla. Parallelamente possiamo affermare il dominio “utile” sulla propria vita, non il conservarla a qualsiasi prezzo. La vita é sacra certamente, ma é altrettanto importante la qualità di questa vita, cioè la possibilità di viverla umanamente e dandole un senso. Non esiste il dovere di conservare la vita in condizioni particolarmente penose.

Non tutti i trattamenti che prolungano la vita biologica risultano umanamente benefici per il paziente come persona. Gli individui non hanno il dovere di accettare mezzi sproporzionati per conservare la vita. In ogni caso, si potrà valutare se i mezzi sono proporzionati o sproporzionati tenendo conto delle condizioni fisiche e psichiche del malato e comparando: il tipo di terapia; il grado di difficoltà e di rischio che comporta; una ragionevole fiducia nell’esito; il livello di qualità di vita che ne deriva (vista dalla prospettiva del paziente); la durata della sopravvivenza; i disagi (propri e dei familiari) che il trattamento e le conseguenti spese porteranno con sé.

4.2.5. Il dovere di non attentare alla vita altrui. La vita umana é sacra, perché dal suo inizio é frutto dell’azione creatrice di Dio e rimane sempre in una speciale relazione col Creatore, suo unico fine. Solo Dio é Signore della vita dal suo inizio alla sua fine. Nessuno, in nessuna circostanza può attribuirsi il diritto di uccidere in modo diretto un essere umano (5). Dato che nel carisma ospedaliero devono trovare accoglienza tutte le persone, l’Ordine è contro la pena di morte in ogni situazione.

L’eutanasia in senso vero e proprio, cioè un’azione o una omissione che per sua natura provoca intenzionalmente la morte con il fine di eliminare qualunque dolore, é una grave violazione della Legge di Dio. “La tentazione dell’eutanasia appare come uno dei sintomi più allarmanti della “cultura di morte” che avanza soprattutto nelle società del benessere”. (6)

4.2.6. Doveri in ordine alle risorse della biosfera. La protezione dell’integrità della creazione é sottesa al crescente interesse per l’ambiente. L’equilibrio ecologico e un uso sostenibile ed equo delle risorse mondiali sono elementi importanti di giustizia con tutte le comunità del nostro “villaggio globale”; e sono pure oggetto di giustizia condiviso con le future generazioni che erediteranno ciò che daremo loro. Lo sfruttamento irresponsabile delle risorse naturali e dell’ambiente degrada la qualità della vita, distrugge le culture e riduce i poveri in miseria(7). Dobbiamo promuovere atteggiamenti strategici che creino relazioni responsabili con l’ambiente vitale che condividiamo e del quale non siamo altro che amministratori.

Essendo le nostre strutture luoghi di consumo dei materiali più vari, possiamo dare segni concreti e significativi di attenzione all’ambiente istituendo comitati a tal fine, privilegiando l’uso di materiali biodegradabili e riciclabili e sensibilizzandoci tutti, confratelli e collaboratori, attraverso corsi e seminari. (8)

4.3. Promozione della salute e lotta contro il dolore e la sofferenza

4.3.1. Il dovere di vigilare per la promozione della salute della popolazione. Tra le attività che promuovono la salute della popolazione bisogna evidenziare l’informazione al pubblico e i programmi di educazione che promuovono stili di vita sani e diminuiscono i rischi per la salute che possono essere evitati, compreso l’uso del tabacco, dell’alcol e di altre droghe; l’attività sessuale che aumenta il rischio di contrarre l’AIDS e le altre malattie sessualmente trasmesse; la cattiva alimentazione; l’inattività fisica e i livelli di inadeguata immunizzazione in età infantile.

In molti paesi l’educazione sanitaria costituisce uno dei mezzi per diminuire la morbilità e mortalità infantili, per mezzo dell’alimentazione al seno e l’informazione ai genitori sulla nutrizione adeguata e i rischi dell’acqua contaminata (9).

4.3.2. Il dovere etico di vigilare per il maggior interesse del paziente. Quanti lavoriamo in ambito sanitario abbiamo il dovere etico di adoperarci per il maggior bene del paziente in ogni momento, e integrare detta responsabilità con un maggior impegno a promuovere ed assicurare la salute della popolazione (10).

4.3.3. Mettersi a fianco dei poveri, degli emarginati e dei sofferenti come imperativo evangelico di giustizia. In un mondo di sofferenza e povertà (la maggior parte della popolazione mondiale) la missione di render presente San Giovanni di Dio si rivela particolarmente importante per il fatto che la povertà opprimente -a causa di strutture sociali ingiuste che escludono i poveri- genera una violenza sistematica contro la dignità degli uomini, delle donne, dei bambini e di chi ancora non é nato, che non può essere tollerato nel Regno voluto da Dio”.

“Il nostro Ordine esiste per evangelizzare i poveri, accompagnarli ed assisterli nelle loro sofferenze secondo lo stile di San Giovanni di Dio (…) Si sono visti alcuni sforzi per adeguare la nostra vita e le nostre strutture al servizio dell’emarginato: day-hospitals, alberghi notturni, assistenza a malati di AIDS e malati terminali, promozione di zone emarginate partendo da centri-base già esistenti… Questi sforzi richiedono tuttavia un’azione più coerente nel senso che l’Ordine si deve mettere più marcatamente nell’ottica del povero identificandosi, nel suo stile di vita, chiaramente con questa opzione, affinché, attraverso la sua forma di vita, il suo servizio, la sua missione di annuncio/denuncia, eserciti un’influenza sempre maggiore in questo senso sulla Chiesa e le strutture della società”. (11)

4.3.4. Trattamento corretto del paziente di fronte all’accanimento terapeutico. Per quanto orientati alla promozione della salute i nostri ospedali non possono contemplare la morte come un fenomeno che é loro estraneo, che deve essere emarginato, ma come parte integrante del corso della vita, particolarmente importante per la realizzazione piena e trascendente del malato. Conseguentemente ogni infermo deve essere soddisfatto nel suo desiderio di non essere impedito, anzi di esser facilitato secondo la sua religione e il suo senso della vita nell’assumersi responsabilmente il passo della propria morte. A questo si opporrebbe il nascondergli la verità e l’isolarlo, senza vera e urgente necessità, dalle sue relazioni abituali di amicizia, di famiglia di comunità religiosa e ideologica. (12)

Solo così si realizzerà, in questi momenti definitivi dell’esistenza, l’umanizzazione della Medicina.

4.3.5. Cure palliative. Le istituzioni dell’Ordine Ospedaliero che curano pazienti in grado avanzato di malattia devono poter disporre, per quanto sia possibile, di unità di cure palliative destinate a rendere più sopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia e, nello stesso tempo, assicurare al paziente un accompagnamento umano adeguato. (13)

4.4. L’efficacia e la buona gestione

4.4.1. Il dovere di coscientizzare la popolazione a non considerare le spese sanitarie come puro dispendio economico. In tutti i paesi la domanda di servizi sanitari é superiore alla capacità della nazione di offrire detti servizi. E’ un dovere importante quello di collaborare nel richiamare la coscienza della società sul fatto che i costi dell’assistenza medica non possono considerarsi come puro dispendio economico. Rappresentano anche un investimento in risorse umane che permette di ridurre la sofferenza individuale e offrire alla gente l’opportunità di dedicarsi al lavoro produttivo o di vivere nelle proprie case o di usufruire di un costo assistenziale più basso. Pertanto le spese nei servizi di assistenza medica hanno un effetto nella diminuzione di altri costi sociali.

4.4.2. Amministrazione e gestione efficace ed efficiente delle risorse. Le professioni sanitarie devono assumersi la responsabilità di un’amministrazione efficace delle spese assistenziali che include la utilizzazione di metodi diagnostici e terapeutici efficienti che comprendono anche l’implementazione degli indici di qualità e di parametri di esercizio applicabili e realistici.

4.4.3. L’istituzione ospedaliera come impresa deve orientarsi al recupero della persona integralmente considerata. La totalità dell’istituzione ospedaliera come impresa deve orientarsi o ri-orientarsi al recupero della persona integralmente considerata, cioè, delle sue dimensioni somatopsichiche, sociali e spirituali che, in definitiva costituiscono il nucleo dell’umanizzazione dell’assistenza sanitaria. Nell’ospedale-azienda l’investimento nel creare un clima umano e umanizzante aiuta la produttività e l’efficacia del lavoro stesso. (14)

4.4.4. Investire per creare un clima umano ed umanizzante in appoggio al rendimento delle risorse. Come in altre imprese anche nell’ospedale l’impegno a creare un clima umano e umanizzante contribuisce al buon uso delle risorse e al miglioramento delle condizioni lavorative degli operatori sanitari. Essi possono, a loro volta, umanizzando se stessi, aiutare a creare le condizioni più umanizzanti per i pazienti. (15)

Tra i miglioramenti che é necessario apportare necessita particolare attenzione l’aggiornamento delle conoscenze e delle competenze per mezzo della formazione permanente adattata alle circostanze di ogni tempo e luogo.

4.4.5. Diritti e doveri dei lavoratori Il diritto al lavoro é previsto dai contratti secondo le legislazioni vigenti. Spetta allo specialista in diritto del lavoro, trovare la soluzione tecnico-giuridica in grado di conciliare il diritto all’obiezione di coscienza e il diritto al lavoro nella formulazione del contratto di lavoro, nelle successive revisioni dello stesso e nell’entrata in vigore di nuovi contratti collettivi. L’attenzione ai diritti dei lavoratori che i nostri ospedali, residenze assistenziali e centri socio-sanitari devono prestare in modo eccellente in ossequio alla più stretta giustizia sociale, non deve realizzarsi a costo della propria esistenza contro questa stessa giustizia sociale.

4.5. Nuova ospitalità e nuove esigenze: Terzo e Quarto Mondo

Ogni volta é sempre più grande l’abisso che separa i paesi del cosiddetto Nord sviluppato e quelli del Sud in via di sviluppo. All’abbondanza di beni e servizi disponibili in alcune parti del mondo, soprattutto nel Nord sviluppato, corrisponde al Sud un inammissibile regresso ed é proprio in questa zona geopolitica che vive la maggior parte dell’umanità. A guardare la gamma dei diversi settori: produzione e distribuzione degli alimenti, igiene, salute e abitazioni, disponibilità di acqua potabile, condizioni di lavoro soprattutto femminile, durata della vita media e altri indicatori economici e sociali, il quadro generale appare desolante, sia considerandolo in se stesso, sia in relazione ai dati corrispettivi dei paesi più sviluppati del mondo. (16)

Anche nei paesi sviluppati le forze economiche e sociali escludono dai benefici sociali milioni di persone che costituiscono il cosiddetto “quarto mondo”: povertà o miseria di uomini, donne e bambini che “oltre a vivere in condizioni di gravissimo disagio fisico e psicologico hanno perso la legittimazione di “soggetti di diritto” poiché non sono garantite da protezione giuridica e sociale”. Esempi più concreti sono coloro che perdono la propria occupazione, i giovani senza alcuna possibilità lavorativa, i bambini di strada sfruttati e abbandonati alla propria sorte, gli anziani soli e senza alcuna protezione sociale, gli ex-carcerati, le vittime della droga, i malati di AIDS, gli immigranti in generale e i clandestini in particolare (…) tutti coloro che sono condannati a una vita di dura povertà, di emarginazione sociale e di precarietà culturale. (17)

4.5.1. Solidarietà e cooperazione. Il Vangelo di Gesù Cristo é un messaggio di libertà e una forza di liberazione. La liberazione é innanzitutto e principalmente liberazione dalla schiavitù radicale del peccato. Logicamente comporta la liberazione da molteplici schiavitù di ordine culturale, economico, sociale e politico che, in definitiva derivano dal peccato e costituiscono tanti ostacoli che impediscono gli uomini di vivere dignitosamente. (18)

“La solidarietà é una virtù eminentemente cristiana. Essa attua la condivisione dei beni spirituali ancor più che di quelli materiali. Il principio di solidarietà é una diretta esigenza di fraternità umana e cristiana. Lo solidarietà si manifesta in primo luogo nella distribuzione dei beni e nella remunerazione del lavoro. I problemi socio-economici possono esser risolti solo con il concorso di tutte le forme di solidarietà: solidarietà dei ricchi con i poveri ma anche dei poveri tra loro; degli imprenditori con i dipendenti ma anche dei lavoratori tra loro; solidarietà tra le nazioni e i popoli. La solidarietà internazionale é un’esigenza di ordine morale. In buona misura, la pace del mondo dipende da essa. (19)

4.5.2. Cooperazione e cooperatori: diritti e doveri. Il documento del LXIII Capitolo Generale segnala con sufficiente chiarezza le linee di ciò che si esige dai religiosi e dai collaboratori di San Giovanni di Dio. (20) Enucleiamo i seguenti aspetti:

· Umanizzarsi per umanizzare ed essere testimoni della santità secondo il radicalismo delle beatitudini a esempio di San Giovanni di Dio, povero tra i poveri, servo e profeta.

· La promozione delle persone sotto tutti gli aspetti: cura del malato, accoglienza amorevole dei cronici, attenzione speciale ai più deboli e ai più poveri, accompagnamento di coloro che stanno vivendo i loro ultimi momenti, trasformando i gesti di cura in gesti di evangelizzazione.

· Dobbiamo presentare la nostra cultura dell’ospitalità come alternativa alla cultura dell’ostilità che non solo domina sempre più fortemente le relazioni tra i popoli, le nazioni e le etnie ma anche le relazioni interpersonali. Dobbiamo dimostrare una nuova capacità di accoglienza, creare comunità di fede aperta che siano un invito a tutte le persone con cui ci relazioniamo: malati, familiari, collaboratori, amici. Ogni Centro dovrà essere una piccola Chiesa domestica capace di creare la comunione cristiana in cui la gioia dell’uno é quella dell’altro e il dolore dell’uno é il dolore dell’altro. Oggi più che mai, nelle relazioni umane, il religioso di San Giovanni di Dio é chiamato ad essere testimone di Dio “amante della vita” (Sap 11, 26) che si confonde con la sua gente e con la sua presenza rende la terra accogliente e l’uomo veramente uomo.

· Valorizzare e promuovere le qualità degli operatori e volontari che collaborano con l’Ordine e farli partecipi del servizio e della evangelizzazione delle persone presenti nel Centro e di particolari manifestazioni della vita della comunità.

· Preparare professionisti identificati con la filosofia e i valori dell’Ordine, perché assumano funzioni direttive e di animazione nelle nostre opere.

4.5.3. Il volontariato: gratuità e identificazione. “E’ volontario colui che, oltre ai suoi propri doveri professionali e di stato, in modo continuativo e disinteressato, dedica parte del suo tempo ad attività, non in favore di se stesso o degli associati (a differenza dell’associazionismo) ma in favori degli altri o di interessi sociali collettivi, secondo un progetto che non si esaurisce nell’intervento stesso (a differenza della beneficenza) ma che tende a eradicare o modificare le cause del bisogno e dell’emarginazione sociale”.(21)

La nostra filosofia é identica a quella di ogni altro tipo di volontariato. Solo che ciò che é fondamentale per tutti acquista una particolare sfumatura per il fatto di essere un’azione ospedaliera o sociale realizzata nei Centri dell’Ordine, secondo lo spirito di San Giovanni di Dio. Nel nostro volontariato deve esserci:

· Principio di volontarietà: i volontari fanno parte dello stesso organismo, liberamente, perché lo richiedono;

· Principio di gratuità: la loro dedizione é frutto di un’esigenza interiore, di un impegno personale, non vi é nessuna esigenza esterna che li obblighi;

· Principio di solidarietà: nasce dall’esigenza di farsi presenti nella necessità dell’altro, di compatirla;

· Principio di complementarità: ci si prefiggono mete che la nostra società non riesce a raggiungere, arricchendola e promuovendo così la giustizia sociale;

· Principio di integrazione personale: ci si propone quasi sempre di dare, però molte volte vediamo che é più quello che si riceve;

· Principio di preparazione: si esige una formazione adeguata che dia le conoscenze storiche, la dimensione apostolica, i valori dell’Istituzione e la capacità di sapersi trovare in qualsiasi circostanza;

· Principio di associazionismo: si lavora coordinatamente, formando un gruppo senza alcun individualismo;

· Principio evangelico: essendo il nostro volontariato aconfessionale, si fonda sul Vangelo nella forma in cui San Giovanni di Dio ha vissuto la sua dedizione ai poveri, ai malati e ai bisognosi. I luoghi in cui su esercita il volontariato sono centri confessionali: gratuità nel servizio e identificazione con il carisma dell’Ordine riassumono i fondamenti del [nostro] volontariato. (22)

4.6. Evangelizzazione, inculturazione e missione

4.6.1. Visione d’insieme. Evangelizzare costituisce la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per l’evangelizzazione, cioè, per testimoniare, insegnare e predicare la Buona Novella di Gesù Cristo. Come nucleo e centro di tale Buona Novella Gesù annunzia la salvezza, questo grande dono di Dio che é liberazione da tutto ciò che opprime l’uomo, ma che é soprattutto liberazione dal peccato. (23)

La evangelizzazione parte dal mandato missionario di Gesù Cristo: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,18-20; cfr. Mc 16,15-18; Lc 24,46-49; Gv 20,21-23).

Per compiere questo mandato, il Vangelo deve incarnarsi, “tradursi” (senza tradirsi) nelle differenti culture. (24) L’evangelizzazione non é possibile senza inculturazione.

La frattura tra vangelo e cultura e, senza alcun dubbio, il dramma del nostro tempo come lo fu in altre epoche. (25) D’altra parte la secolarizzazione comporta di fatto, come abbiamo segnalato più sopra, lo stabilire una cultura della non credenza in cui si converte in presupposto culturale che il mondo si esaurisca nell’immanenza e in cui le affermazioni relative alla trascendenza si rivelano culturalmente e socialmente irrilevanti. In questa situazione, coloro che vogliono essere cristiani senza rinunziare al loro proprio tempo, senza volersi esiliare dalla cultura in cui vivono devono realizzare lo sforzo di inculturare il cristianesimo nelle culture sorte dalla modernità.

L’inculturazione rende possibile portare la Buona Novella a partire dall’interno di ciascuna cultura apportando così la sua propria ricchezza alla incarnazione storica del Vangelo. Questo significa che il Vangelo, nell’incarnarsi concretamente subisce forti trasformazioni rispetto alle sue precedenti forme di inculturazione. Così l’inculturazione permette di “comprendere e trasformare con la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità che sono in contrasto con la parola di Dio e il disegno di salvezza”. (26)

Inquadrata correttamente, l’inculturazione deve ispirarsi a due principi: la compatibilità col Vangelo delle diverse culture da integrare e la comunione con la Chiesa Universale.(27)

4.6.2 Evangelizzazione, inculturazione e missione dell’Ordine. In un mondo in cui l’uomo contemporaneo crede più ai testimoni che ai maestri, crede più nella esperienza che nella dottrina, nella vita e nei fatti che nelle teorie (28) l’Ordine si trova in una situazione privilegiata per la evangelizzazione e la inculturazione della fede per il fatto di essere presente in molte culture, in 46 paesi e in 5 continenti. La cultura della tecnica, probabilmente la più restìa ai valori cristiani é tuttavia sensibile alla viva testimonianza dell’impegno concreto per l’uomo.

Il carisma dell’Ordine ci pone pienamente in questo impegno, dato che la promozione dell’uomo sotto tutti gli aspetti é la nostra missione: la cura dell’uomo malato, l’accoglienza amorevole dei cronici, l’attenzione speciale ai più deboli e ai più poveri o l’accompagnamento a quelli che stanno vivendo i loro ultimi momenti.

Solo la fedeltà al carisma renderà possibile l’evangelizzazione e la inculturazione nel mondo della tecnica in cui deve affrontarsi la cultura dell’ostilità con quella della nuova ospitalità.

La domanda a cui dobbiamo rispondere nel futuro é come trasformare i gesti di cura in autentici gesti di evangelizzazione, come trasformare i luoghi in cui lavoriamo in luoghi significativi di evangelizzazione. Umanizzazione ed evangelizzazione devono far parte per noi di una unità indivisibile perché “dove non c’è carità non c’è Dio, per quanto Dio stia in ogni luogo”. (29)

Per la riflessione:

1) Descrivi segni che evidenzino come si sta vivendo nei Centri e nelle Comunità dell’Ordine i principi dell’ospitalità nei seguenti ambiti:

· Dignità della persona umana

· Rispetto della vita umana

· Promozione della salute e lotta contro il dolore e la sofferenza

· Efficacia e buona gestione

· Nuova Ospitalità

· Evangelizzazione, inculturazione e missione

2) Descrivi ciò che sta rendendo difficile od offuscando la messa in pratica di questi principi:

· Dignità della persona umana

· Rispetto della vita umana

· Promozione della salute e lotta contro il dolore e la sofferenza

· Efficacia e buona gestione

· Nuova Ospitalità

· Evangelizzazione, inculturazione e missione

3) Come si sta promuovendo la diffusione dei principi che illuminano la nostra ospitalità e la relativa formazione tra i confratelli, collaboratori ed assistiti?

4) Che cosa è necessario fare per garantire una migliore diffusione e formazione in relazione ai principi che illuminano la nostra ospitalità?

__________________________________

NOTE DEL QUARTO CAPITOLO

(1) Cfr. CONCILIO VATICANO II, Costituzione Pastorale Gaudium et Spes (GS), N. 27.

(2) Il concetto di dignità umana e i diritti della persona appaiono intimamente connessi nella Dichiarazione Universale dei diritti umani (1948); nella Convenzione Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (1966); nella Convenzione Internazionale sui diritti civili e politici (1966); nel recente Accordo sui diritti umani in Biomedicina (1977): sebbene da queste Dichiarazioni non risulta chiaro in cosa consista e su cosa si fondi la dignità umana, la riconoscono tutte come inerente l’essere umano e riconoscono pure i diritti uguali e inalienabili di tutti i membri della famiglia umana come fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo.

(3) Cfr. LXIII CAPITOLO GENERALE, Nuova Evangelizzazione e Nuova Ospitalità alle soglie del terzo millennio, Bogotá, 1994, # 5.6.1.

(4) L’OMS definisce come deficit la perdita o la anomalia di una struttura anatomica o di una funzione fisica o psichica. Una disabilità é la diminuzione o incapacità di compiere un’attività nel modo e con i risultati che si considerano normali. Una minorazione é uno svantaggio acquisito da un individuo a causa di un deficit o di una disabilità, che limita o impedisce lo svolgimento di una normale attività per quell’individuo, tenuto conto dell’età, del sesso e dei fattori culturali e sociali (A. Anderson, “Simplemente otro ser humano”, Salud Mundial, 34, gennaio 1981: 6.)

(5) Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Evangelium Vitae (EV), 5.

(6) Cfr. Ibid. EV, 64-65.

(7) Cfr. PAOLO VI, Octogesima Adveniens 21; GIOVANNI PAOLO II, EV 27, 42.

(8) Nuova Evangelizzazione e Nuova Ospitalità…, Op. Cit., 5.6.3, Situazioni concrete.

(9) Documento dell’Associazione Medica Mondiale “Progetto di dichiarazione sulla promozione della salute”, 10.75/94, Agosto 1994.

(10) Ibidem.

(11) Nuova Evangelizzazione e Nuova Ospitalità…, Op. Cit., 3.6.3

(12) Cfr. EV, 15.

(13) Cfr. Ibid. EV, 44.

(14) Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Centesimus Annus 40; 20; 32.

(15) Cfr. MARCHESI, Pierluigi L’Umanizzazione, 1981.

(16) Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Sollicitudo Rei socialis, 14.

(17) Lettera del Card. CARLO MARIA MARTINI. Biennio pastorale 1992-1993.

(18) Cfr. ISTRUZIONE DELLA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Libertà cristiana e liberazione, Roma, 1986

(19) C.C. 1939-1942.

(20) Nuova Evangelizzazione e Nuova Ospitalità…, Op. Cit., 4.4

(21) CARITAS. Cfr. M. del Carmen Furés: El voluntariado en nuestra sociedad, in Labor Hospitalaria, 1985; 198(4):206.

(22) PILES F., Pascual Origine e traiettoria del Volontariato nell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio; Congresso Nazionale dei Volontari di San Giovanni di Dio, 18-20 ottobre 1995.

(23) Cfr. PAOLO VI, Evangelii Nuntiandi (EN) 9, 14.

(24) Cultura significa il modo in cui un gruppo di persone vive, pensa, sente, si organizza, celebra e condivide la vita. In ogni cultura soggiace un sistema di valori, di significati, di visioni del mondo che si esprimono esternamente nel linguaggio, nei gesti, nei simboli, nei riti e negli stili di vita.

(25) Cfr. Ibid., 20; Gaudium et Spes, 43.

(26) EN, 19.

(27) Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Redemptoris Missio, 54.

(28) Ibidem., 42.

(29) SAN GIOVANNI DI DIO, Lettera a Luis Bautista, 15. Cfr. Nuova Evangelizzazione e Nuova Ospitalità…, 4.3.

* – - – *

5.

APPLICAZIONE A SITUAZIONI CONCRETE

5.1. Assistenza integrale e diritti del malato

Il nostro apporto alla società sarà credibile, nella misura in cui sapremo incarnare i progressi della tecnica e l’evoluzione delle scienze. Da qui l’importanza che la nostra risposta assistenziale mantenga un’inquietudine per essere continuamente attualizzata nel suo versante tecnico e professionale.

Partendo da questo dovremo dare un’assistenza che consideri tutte le dimensioni della persona umana: fisica, psichica, sociale e spirituale. Soltanto un’attenzione che consideri tutte queste dimensioni, almeno come criterio di lavoro e come obiettivo da raggiungere, potrà considerarsi come assistenza integrale.

Forse questo é stato il campo in cui le opere dell’Ordine hanno coltivato una maggiore tradizione. Il loro livello assistenziale ha costituito una caratteristica che le ha distinte nel corso degli anni.

Le prime costituzioni già insistevano sul modo di trattare i malati e così si é continuato, privilegiando questo aspetto nel corso della storia.

5.1.1. L’approccio al malato, al bisognoso e ai suoi familiari

L’attenzione ai bisogni della persona (compresi quelli che si riferiscono allo spirito e alla trascendenza) é un elemento chiave in ogni servizio sanitario e sociale.

L’uomo é un essere relazionale; nella misura in cui entriamo in contatto con gli altri ci consolidiamo come persone. Quando facciamo sì che questo contatto si converta in incontro stiamo realizzando la pienezza della nostra dimensione relazionale.

Da qui l’importanza del nostro incontro, dell’ascoltare, dell’accettare, dell’accogliere, del saper canalizzare gli aspetti positivi e negativi che sono presenti in ogni persona che vive e avverte il bisogno degli altri.

La malattia, quale che sia la sua manifestazione esteriore, é un’espressione del limite, della debolezza dell’uomo ed è proprio in questa speciale circostanza che poniamo un’esplicita ed implicita domanda di aiuto reciproco.

Ogni persona, nel limite e nel dolore, cerca qualcuno con cui condividere la sua condizione, su cui scaricare il peso che grava su di lui. Ne consegue la necessità, per tutti coloro che costituiscono l’Ordine Ospedaliero -religiosi, collaboratori, volontari, ecc.- che acquisiscano e crescano nelle seguenti qualità:

5.1.1.1. Apertura: ai nuovi apporti della società, ai nuovi criteri di attuazione, alle nuove esigenze dell’uomo, alle altre culture. E’ aperta la persona che sa accogliere quello che la società e il mondo le vanno offrendo e sa discernere ciò che vi é di positivo in questa offerta per farlo suo. Aperta é anche l’istituzione che sa porsi nello stesso modo. Sebbene in questo caso si esigerà dialogo tra le persone, per saper discernere insieme, ciò che é positivo per tutti.

5.1.1.2. Accoglienza. Ricevere colui che arriva con uno spirito di affetto e di speranza che gli permetta di aver fiducia nelle persone e nelle Istituzione che si fanno carico di lui. Il primo contatto é molto importante, può aprire o chiudere le porte. Nel suo stato di bisogno, per il malato questo primo contatto acquisisce un’importanza fondamentale. In una condizione di difficoltà, sentirsi accettato e accolto é l’elemento essenziale per vivere uno stato di fiducia e di sicurezza nei confronti delle persone che si prendono cura di lui. Bisognerà vigilare in modo particolare perché la burocrazia e il tramite amministrativo non si trasformino in un ostacolo per l’accoglienza al malato.

5.1.1.3. Capacità di ascolto e di dialogo. Lasciare che la persona esprima la sua situazione, le sue esigenze, i suoi timori, le sue paure e che possa sentire in noi un’eco di fiducia e serenità, tanto nei momenti di allegria, quanto nelle situazioni più difficili.

Che il malato comprenda come tutto questo non cada nel vuoto, che é accolto, considerato, tenuto in conto. Sta dicendo la sola cosa che é in grado di dire in quel momento; incluso probabilmente il “dirci” tutto se stesso.

Si daranno anche situazioni in cui il malato chiede o desidera ciò che non é la cosa più conveniente per lui. Dalla nostra riflessione dovremo esser capaci di capirlo e di far capire al malato ciò che intendiamo fare anche in quei casi in cui ciò dovesse portare a una divergenza sui criteri di attuazione.

5.1.1.4. Attitudine al servizio. Sempre a disposizione del malato e dei suoi, sempre disponibili a donare le nostre competenze tecniche, la nostra scienza e la nostra persona al servizio del suo bene integrale.

Non sempre si deve fare ciò che il malato desidera o chiede, ma dall’atteggiamento con cui tratteremo la cosa egli potrà capire se stiamo agendo per il suo bene o per la nostra comodità.

5.1.1.5. Semplicità. Cioè l’umiltà di chi sa che sta dando un aiuto a chi ne ha bisogno e che si propone come obiettivo fondamentale di evitare una situazione di dipendenza.

Semplicità di chi cammina cercando di incontrare la verità, il bene per tutti, incluse le strutture tanto complesse come i nostri ospedali.

5.1.2. Diritti del malato

I diritti del malato s’iscrivono nel più ampio orizzonte dei diritti fondamentali dell’uomo. Dal punto di vista dei diritti umani, il diritto alla salute si colloca tra i cosiddetti diritti umani di seconda generazione, vale a dire tra i diritti di tipo economico e sociale. Con lo sviluppo della coscienza intorno a questo tema, negli anni sessanta si è intensificato l’interesse per i diritti dei malati. Premesso che come persona il malato è soggetto degli stessi diritti universali di tutti gli uomini, va considerato tuttavia che in lui entrano in gioco certe particolarità dovute alla sua situazione che richiedono una maggiore sensibilità e solidarietà. In questo senso sono state poi formulate tutt’una serie di dichiarazioni nazionali, regionali e locali.

L’Ordine fa propri questi diritti riconosciuti e proclamati e, dalla prospettiva di un’assistenza integrale, valorizza in maniera particolare i seguenti:

5.1.2.1. Riservatezza. La riservatezza comprende tre valori intimamente correlati nella relazione assistenziale: l’intimità, il segreto e la fiducia. Il rispetto per le persone esige il rispetto dell’intimità (1) del paziente, cioè di quella particolare sfera in cui ognuno si spiega a se stesso, si riconosce, afferma e lega la propria identità. Il rispetto all’intimità di ognuno rende possibile la convivenza sociale nella molteplicità dei singoli individui. Il velo del segreto tutela il rispetto reciproco e apre il cammino alla fiducia, via di accesso all’intimità dell’altro.

Rispetto reciproco e fiducia aprono la porta al diritto di comunicare i propri segreti con la garanzia che non saranno rivelati. In questo consiste l’obbligo del segreto professionale in cui si dà per supposto e rimane implicito l’impegno di non divulgare ciò che si é conosciuto nell’esercizio della professione.

L’obbligo del segreto, coesiste con l’obbligo di svelarlo quando non vi sia altro modo di evitare il danno ingiusto a un’altra persona e/o alla società, per esempio, per evitare il contagio o un altro male da cui la società non può liberarsi senza conoscere il segreto.

La progressiva specializzazione e tecnicizzazione della Medicina moltiplica i casi in cui questa si esercita in équipe. Si costituisce allora il segreto condiviso che esige speciale cura da parte di tutti perché non ne risulti pregiudicata l’intimità del malato.

Ogni operatore lavorando in ospedali o residenze sociosanitarie deve sensibilizzarsi per percepire i vari modi con cui il diritto alla riservatezza e all’intimità é violato. Basti pensare alle conversazioni sui pazienti in luoghi pubblici o al facile accesso alle storie cliniche da parte di persone non autorizzate. Speciale attenzione meritano tutte quelle liste di pazienti con diagnosi e/o trattamenti, tabulate dai moderni sistemi informatici.

Per facilitare il rispetto all’intimità dei pazienti, i centri dovranno disporre, nella misura del possibile, di una struttura fissa o mobile (come possono essere da un lato le camere individuali o gli ambienti riservati, dall’altro cortine o paraventi) che permettano l’isolamento del malato in rapporto alle sue necessità. Bisogna tener conto anche dell’età e della gravità di coloro che condividono la stessa camera.

Il malato potrà esprimere l’esigenza di restar solo o con la persona che desidera quando viene visitato dal suo medico oppure riceve l’assistenza infermieristica. Così pure potrà parlare col personale amministrativo in privato. Dovrà inoltre considerare che qualsiasi ospedale soprattutto se universitario o sede di insegnamento, é un luogo di formazione e che la sua collaborazione é imprescindibile sotto questo aspetto.

5.1.2.2. Veracità. Il diritto del malato a conoscere la verità va di pari passo con quello già analizzato relativo al segreto. Essi sono complementari e forniscono il più solido appoggio alla necessaria fiducia del medico ma entrambi possono entrare in conflitto in rapporto al motivo fondamentale della relazione medico-paziente: il conseguimento della salute. In qualsiasi ipotesi la decisione concreta deve fare attenzione al bene della persona del malato, considerata nella sua integrità, senza trascurare per questo il processo della salute come bene sociale.

Il diritto di ogni uomo a conoscere la verità sulle cose che lo colpiscono e il corrispondente obbligo di informarlo stanno alla base della convivenza. Non solo la menzogna ma anche la mancanza di sincerità distrugge la fiducia, tanto necessaria nella relazione interpersonale data l’ambiguità (finestra-maschera) della nostra esteriorità corporea. La fiducia é particolarmente importante nella relazione del malato col medico. Da qui l’importanza che acquista la sua veracità, che comporta sempre una certa responsabilità perché non si riferisce a fatti riduttivamente oggettivi ma a realtà cariche di importanza soggettiva, soprattutto quando la prognosi si riferisce al futuro aspetto del malato o alla sua funzionalità (libertà e capacità di movimento) o alla perdita della vita o ad altre possibili verità altrettanto difficili da accettare.

Come primo punto deve considerarsi prioritario il diritto a conoscere la verità sullo stato della propria salute da parte del malato, ma non a scapito di ciò che a lui conviene come persona. Alcune volte vi sono motivi di vero amore per tacere: gli creeremmo un danno inutile. Tuttavia non é onesto tacere solo per fuggire semplicemente dalla propria difficoltà. Se si ha tatto nel modo di dire la verità si può sempre aiutarlo. Il medico non deve attenersi all’obbligo generale di dire la verità senza prestare attenzione al possibile conflitto di interessi nel malato, in modo particolare quello della sua salute, motivo della relazione stabilita tra entrambi

I principi di soluzione non ci permettono di stabilire ricette stereotipate di applicazione universale. Il medico deve dire la verità, ma senza pregiudicare per questo inutilmente la salute o altri valori del malato. Il suo obiettivo ultimo é il bene di questi integralmente considerato.

Sono fattori che influenzano ciò che conviene dire: la fermezza del paziente e la sua forza d’animo, le sue convinzioni personali e il suo equilibrio psichico, così come il tipo di relazione che esiste tra il tale medico e il tal malato. Così pure non é possibile trascurare le circostanze economiche, familiari e sociali che coinvolgeranno il paziente dopo la consulenza medica. Ma acquistano particolare rilievo anche la diagnosi e la prognosi.

Trattandosi di malattie oggettivamente e soggettivamente innocue il fatto che niente gli venga nascosto tranquillizza il paziente. Sempre che la malattia sia curabile si impone una informazione adeguata per suscitare la collaborazione del paziente che é assolutamente indispensabile, quando senza la sua collaborazione il decorso della malattia potrà avere un esito fatale.

Il diritto del malato a conoscere la verità é indispensabile, soprattutto, quando questi deve prendere una decisione responsabile. E’ compito del medico agevolarla; non può sostituirsi ad essa e deve aver cura di non proiettarvi i suoi propri complessi e le sue inibizioni. Dovrà prendersi il tempo necessario per decidere le più opportune modalità di comunicare la verità in modo che il malato possa comprendere gli elementi più significativi per prendere una decisione saggia. A volte anche il paziente necessita di tempo per farsi carico dei vari elementi.

La conoscenza certa di una morte inevitabile e prossima deve essere comunicata al malato perché questi possa realizzarsi nell’ultimo atto della sua vita. Questo dovere presuppone la capacità del soggetto ad assumersi ed esprimere adeguatamente il suo ruolo in questo momento decisivo. Lasciargli qualche speranza (“un pezzo di cielo aperto” come dice qualcuno) può essere d’aiuto ma non può dimenticarsi che, abbandonando falsa speranza possiamo cedere il passo a un altro tipo di speranza che gli permetta di assumere la verità con maggiore respiro e realizzarsi così pienamente come uomo. Questo avviene anche nel caso di persone che non credono nella vita futura ma che hanno saputo dare un senso alla propria vita in relazione agli altri. L’ambigua espressione “diritto del paziente a morire” ha un significato reale: nessun essere umano deve esser privato del diritto a vivere la sua propria morte, coronando così la realizzazione della sua vita attraverso di essa.

Rinunzieremo a comunicare la verità quindi, quando ci consta che l’altro é incapace di sopportarla. Il diritto alla verità cessa qualora dovesse esitare nella disperazione fatalista e nell’annullamento del proprio essere, qualora -cioè- fosse recepita solo come una condanna a morte senza ragione e senza senso.

Il titolare del diritto a conoscere la verità é il malato, sempre che sia adulto e padrone di sé. Quando non é capace di assumersi la propria responsabilità per non aver acquisito la necessaria maturità o per qualsiasi altra causa, l’informazione richiesta deve esser comunicata a chi deve o può prendere decisioni in suo nome, a titolo di fiduciario, come la persona più interessata al bene del paziente. Se questi dovesse essere capace, si deve dire a familiari e congiunti, secondo il nostro criterio ragionevole, solo quello che il malato desidera comunicare loro.

Tanto nel soddisfare il diritto alla verità, come nel rispettare il dovere del segreto si deve tener conto del rispetto dovuto alla libertà della coscienza propria del malato e anche del medico. Ci occupiamo qui solo degli imperativi relativi alla prima.

“La coscienza é il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria” (2) . Non v’è alcun dubbio che anche l’ateo si senta interpellato e questo fatto, comunque lo si voglia capire e spiegare, merita un assoluto rispetto. Come il sacerdote anche il medico nello svolgimento delle sue funzioni può muoversi in prossimità di questo santuario e deve porre particolare attenzione a non violarlo. Né lo Stato, né tantomeno la Chiesa in nome di un preteso bene comune possono attentare contro la libertà della coscienza.

Mai il medico può coartare la coscienza del paziente. Il suo dovere é di procurare con cura la sua salute anche se disapprova la condotta che può averne causato la perdita (malattia venerea, infezione dovuta a un aborto mal praticato, ecc.) né é lecito approfittare della situazione di dipendenza per “moralizzarlo”. Niente impedisce, con questo, che se si deve favorire il processo curativo o l’umanizzazione dell’exitus lo si aiuti a mettersi in pace con la propria coscienza. Però questo deve esser fatto con il più grande rispetto per la sua libertà per quanto consideri erronei i suoi giudizi. Inoltre faciliterà l’approccio al malato da parte dei ministri religiosi o di altre persone che, a suo giudizio, lo possano aiutare a vivere con senso la malattia e anche la propria morte quale che sia la sua confessione religiosa o ideologia.

5.1.2.3. Autonomia. La valorizzazione e il rispetto dell’autonomia, specie in ambito sanitario è una conquista della modernità. Fino a non molti decenni orsono, infatti, era presente ancora un forte paternalismo nel rapporto medico-paziente per cui, in genere, decideva sempre il medico a cui il paziente stesso “si affidava” consapevole di non avere conoscenze né competenze adeguate per poter scegliere nel migliore dei modi. D’altra parte questi era pienamente convinto che il medico avrebbe agito sempre per il suo bene.

Il “paziente post-moderno” come viene chiamato oggi non ragiona più in questi termini. E’ cosciente infatti dei suoi “diritti” tra i quali quello alla vita e alla tutela della salute hanno senza dubbio un ruolo prioritario. Ed è cosciente, inoltre, di essere il solo titolare di tali diritti la cui difesa non può delegare ad altri, almeno fino a quando si trova in condizione di intendere e di volere.

Tale mutamento di prospettiva non è stato indolore e al vecchio paternalismo del passato, oggi non più accettabile, si è sostituito spesso un esasperato contrattualismo per cui il rapporto tra medico e paziente viene visto come un semplice “contratto” di cui entrambi sono tenuti a rispettare le clausole. Ovviamente il superamento di questo polarismo non può che essere quello di una vera e propria alleanza terapeutica in cui il medico cooperi col paziente, a realizzare il suo maggior bene, nel rispetto delle reciproche scelte. Presupposto fondamentale perché tutto questo possa realizzarsi nel migliore dei modi è un’adeguata comprensione di cosa sia l’autonomia del paziente.

Secondo una classica interpretazione una scelta può dirsi autonoma quando rispetta tre presupposti. Il primo è quello dell’intenzionalità. Deve trattarsi cioè di una scelta assolutamente “volontaria” e non semplice “voluta”. In secondo luogo deve esserci la conoscenza di ciò che si decide. Naturalmente tutto questo chiama in causa il problema della verità al malato di cui si è parlato al paragrafo precedente e a cui si rimanda. Infine deve esprimersi nell’assenza di controllo esterno. Questo significa che non deve esserci nessuna forma di coercizione (neanche quella che potrebbe derivare dall’autorevolezza esercitata dal sanitario nei confronti del paziente o dal timore di un possibile abbandono terapeutico da parte sua) né di manipolazione (ad esempio l’alterare o il distorcere la verità anche se fatto nella presunzione di un possibile bene del paziente stesso). Spesso viene pure inclusa tra questi criteri l’assenza di “persuasione”, anche se più prudentemente crediamo che un equilibrato e rispettoso tentativo di persuasione debba ritenersi addirittura doveroso qualora abbia di mira l’effettivo bene del paziente.

Naturalmente sul piano pragmatico questi criteri inerenti l’autonomia del paziente si manifestano pienamente nel consenso all’atto medico sia esso diagnostico o terapeutico, di cui si parlerà più avanti.

5.2.1.4. Libertà di coscienza. Il diritto alla libertà di coscienza, chiaramente formulato nell’art. 18 della Dichiarazione Universale dei diritti umani e inserito nelle Costituzioni della maggior parte di Stati moderni viene esigito dalla dimensione etica dell’essere umano e dall’autocomprensione della sua esistenza come dono e come progetto da realizzare. Da quest’ambito non è esclusa la dimensione religiosa dell’esistenza. A tal riguardo bisogna ricordare come la Dichiarazione Dignitatis Humanae del Concilio Vaticano II inizi proprio affermando che “la persona ha diritto alla libertà religiosa”.

L’esercizio di tale libertà, naturalmente, resta condizionato al principio generale della responsabilità personale e sociale, cioè, al fatto che ogni uomo o gruppo sociale è obbligato a tener conto i diritti degli altri e i doveri nei confronti degli altri e del bene comune. Questi limiti si concretizzano nell’esigenza di un ordinamento giuridico che tuteli concretamente tale libertà religiosa e difenda da un ingiusto proselitismo.

Ogni uomo e tutta la chiesa hanno il diritto di testimoniare la propria fede. Il diritto alla libertà religiosa include il diritto di dare questa testimonianza rispettando sempre la giustizia e la dignità della coscienza altrui. Ma il “proselitismo” è la corruzione di questa testimonianza, poiché è costituito da ogni comportamento abusivo e impertinente nell’esercizio della testimonianza cristiana che attenta alla libertà religiosa del prossimo. I principali atteggiamenti da riprovare, secondo il Consiglio Mondiale delle Chiese e il Segretariato per l’unità dei cristiani sono:

- ogni tipo di pressioni fisiche, morali o sociali che sfociano nell’alienazione o nella privazione del discernimento personale, della libera volontà e della piena autonomia e responsabilità dell’individuo;

- ogni beneficio materiale o temporale, offerto apertamente o in modo indiretto come prezzo per l’accettazione della fede di colui che ne à testimonianza;

- ogni beneficio risultante dallo stato di necessità in cui potrebbe trovarsi colui che riceve la testimonianza o dalla sua condizione di debolezza sociale o mancanza dio istruzione in vista di convertirlo al proprio credo;

- ogni cosa che può suscitare sospetto sulla buona fede dell’altro;

- ogni allusione priva di giustizia o carità verso i credenti di altre comunità cristiane o religioni non cristiane, in vista di fare adepti; gli attacchi offensivi che feriscono i sentimenti di altri cristiani o membri di altre religioni.

5.1.3. Programmi di Umanizzazione e Pastorale

5.1.3.1 Programmi di Umanizzazione. Se é certo che un ospedale che non sta al passo con la scienza e la tecnica può adagiarsi ai piedi delle stesse e pertanto non avere più interlocutori, non é meno certo che la scienza e la tecnica comportino dei rischi.

La costante evoluzione, la continua comparsa di nuove équipes e tecniche di lavoro, recano in sé il pericolo di mettere da parte la persona umana, tanto il professionista quanto il paziente. Poiché in molti dei processi lavorativi, da un ruolo fondamentale questo passa ad averne uno secondario e, a secondo delle tecniche, persino irrilevante. Pensiamo ad esempio a tutti i servizi di diagnosi o di procedure informative, ecc. dove prima la figura del professionista era imprescindibile per un adeguato operato, mentre adesso vi sono casi in cui il suo ruolo é secondario o inesistente.

Tutta questa evoluzione, non é neutrale alla risposta della persona, non sta ai margini della sua sensibilità anche se spesso corre il rischio di rimanervi. La tendenza verso un certo isolamento, verso una segregazione e un dispotismo tecnologico può presentarsi a maggior ragione quando si tratta col malato, soggetto passivo di tutta questa attività professionale: tutto per il malato ma senza il malato.

Per questo é imprescindibile la realizzazione di programmi di umanizzazione nei Centri e nelle opere. Intendiamo riferirci non solo alla attuazione di servizi ma alla pianificazione di effettivi programmi di umanizzazione.

Si deve ottenere che tutti i professionisti che attuano un servizio assistenziale si sentano chiamati ad aver cura del malato, della sua persona e della sua famiglia. In questo consisterà l’umanizzazione delle opere di San Giovanni di Dio, nel far sì che tutti gli operatori sanitari lavorino per il malato e con il malato, impiegando i migliori mezzi tecnici a servizio della persona assistita.

5.1.3.2. Pastorale socio-sanitaria. Il malato o bisognoso ha perso la sua salute, cosa che mette in crisi tutta la persona.

Ma poiché siamo convinti che la fede in Gesù Cristo sia una fonte di salute e di vita, ne consegue che la persona in crisi perché malata, possa esser messa in contatto con la sua dimensione di fede, se questa esiste, affinché l’incontro di entrambe (fede e crisi) possa convertirsi in sorgente di salute integrale.

Uno dei grandi valori della nostra società é il pluralismo che ha acquisito. Ormai sono passati i tempi in cui i regimi politici venivano imposti, come veniva imposta l’autorità e così pure la fede e la religione. La fede é un dono e come tale si può accogliere o rifiutare, mettere da parte o coltivare perché possa crescere e maturare.

Nelle nostre opere abbiamo voluto una presenza pluralistica di professionisti. Pertanto vi sono persone che hanno accolto il dono della fede e lo hanno fatto maturare e altre che non lo hanno fatto. Similmente, nei nostri centri vengono persone che hanno ricevuto il dono della fede e lo hanno fatto maturare ed altre no. Vogliamo servirli ed aiutarli tutti. Con tutti vogliamo percorrere un cammino che permetta loro di ricapitolare la loro storia personale, valorizzando questo momento di crisi che suppone la perdita della salute.

Dalla accettazione del limite e della dipendenza che comporta l’infermità o l’emarginazione, potremo accompagnarle a riscoprire la loro storia, il loro essere e il senso della loro vita. Questo si dovrà fare con sensibilità e rispetto, al ritmo che il malato o il bisognoso sia in grado di sostenere o, per meglio dire, al passo che loro vanno segnando. Con quelle persone che sentono in se stesse il dono della fede potremo celebrare in forma esplicita questo processo ma sempre in funzione del grado di crescita e di maturità che hanno acquisito.

I nostri Centri, sanitari e sociali, sono opere della Chiesa e pertanto la loro missione é di evangelizzare partendo dalla cura e dall’attenzione integrale ai malati e bisognosi, secondo lo stile di San Giovanni di Dio. Parlare di attenzione integrale implica l’occuparsi e il curare la dimensione spirituale della persona come una realtà essenziale, organicamente correlata con altre dimensioni dell’essere umano: biologica, psicologica e sociale.

La dimensione spirituale va molto al di là del riduttivamente “religioso” anche se lo comprende. Molte persone trovano in Dio le risposte alle grandi domande della vita mentre per altre il dato della fede in Dio non é significativo nella propria vita e quindi le cercano in altre realtà. D’altra parte Dio non ha per tutti lo stesso significato, né é per tutti lo stesso, né é uguale per tutti l’esperienza che se ne può fare.

A tutti i malati e gli emarginati, nel rispetto e nella libertà, dobbiamo accostarci e occuparci delle loro necessità spirituali, senza alcun protagonismo e recando loro ciò di cui hanno bisogno nella misura in cui possiamo farlo.

E’ certo che la malattia, l’emarginazione o la povertà sono occasioni per porsi molte domande circa il senso della vita e la presenza salvifica di Dio. Per questo e in modo diversificato dobbiamo accompagnare e rispondere, se é il caso, a queste situazioni. Da qui deriva la nostra preoccupazione per la pastorale della salute e dell’emarginazione.

La pastorale é l’azione evangelizzatrice di accompagnare le persone che soffrono, offrendo con la parola e la testimonianza la Buona Novella della salvezza, così come ha fatto Gesù Cristo sempre nel rispetto delle credenze e dei valori delle persone.

Il Servizio di Pastorale ha come missione prioritaria di occuparsi delle necessità spirituali dei malati e dei bisognosi, delle loro famiglie e degli operatori sanitari. Ciò richiede una struttura adeguata che include personale, mezzi e un piano che garantisca il compimento della sua missione.

L’équipe Pastorale é formata da persone preparate e totalmente dedite al lavoro pastorale del Centro, le quali sono collaborate da altre persone impegnate nel progetto, sia dedite a tempo parziale, sia sotto forma di volontariato. Deve esserci un piano di azione pastorale e un programma concreto in funzione delle necessità del Centro e delle persone che vi vengono curate. Vi saranno delle linee guida di azione pastorale tanto per ciò che riguarda i contenuti filosofici che quelli teologici e pastorali. A partire da queste linee si deve elaborare un piano pastorale cercando sempre di rispondere alle vere necessità spirituali dei malati, dei familiari e degli operatori. Si dovranno evidenziare gli obiettivi, le iniziative con i relativi parametri valutativi, distinguendo le distinte aree o i tipi di utenti del Centro, programmando per ciascuna area la pastorale più concreta ed adeguata.

L’équipe pastorale dovrà curare molto bene la sua formazione, al fine di stare al passo, aggiornarsi professionalmente e spiritualmente per poter servire meglio le persone. Un buon aiuto per l’équipe pastorale può essere il Consiglio pastorale che é composto da un gruppo di professionisti del centro, anche se non esclusivamente, sensibili alla realtà pastorale la cui principale funzione é riflettere e orientare il lavoro dell’équipe.

5.2. Problemi specifici della nostra azione assistenziale

5.2.1. Sessualità e procreazione

5.2.1.1. Procreazione responsabile. La procreazione umana costituisce la via attraverso cui Dio coopera con l’uomo che liberamente si fa strumento del suo atto creativo attraverso la generazione. Da ciò scaturisce l’alto valore del generare umano che, per questo, viene affidato alla procreazione responsabile da parte della coppia(3). Tale responsabilità procreativa rende la coppia attenta al duplice significato, unitivo e procreativo della sessualità coniugale. Nella realizzazione di tale alto compito la coppia si orienterà alla luce della parola Dio e degli insegnamenti della Chiesa responsabilmente recepiti nell’irripetibile singolarità della propria coscienza.

Nei Centri dell’Ordine dovranno essere favorite tutte quelle strutture che, secondo tipologie modalità proprie alla situazioni sanitarie e culturali dei vari Paesi possano favorire una effettiva responsabilità procreativa anche attraverso un adeguato counselling.

Tali criteri ispireranno anche le prestazioni professionali degli operatori sanitari sia nella pratica di tipo ambulatoriale che negli interventi in regime di ricovero.

5.2.1.2. Interruzione della gravidanza. La vita umana é un valore universalmente riconosciuto anche se percepito con diverse sensibilità storiche e culturali. Il suo rispetto e la sua tutela sta a fondamento di tutte le professioni e le organizzazioni sanitarie.

La tutela della vita si estende dal suo inizio fino alla naturale estinzione indipendentemente dalle modalità e circostanze della fecondazione, del suo stato di salute prima e dopo la nascita, dalle sue espressioni relazionali, dalla sua accettazione sociale. Anzi, ogni situazione di precarietà esistenziale, sull’esempio di S. Giovanni di Dio, costituisce motivo di impegno, individuale e comunitario, per la custodia del dono che Dio affida alla cura dell’uomo.

Nel ritenere inviolabile la vita umana viene formulato un principio etico a cui attenersi indipendentemente dalle complesse questioni teologiche relative al momento della “animazione” (sia che questa avvenga al concepimento che in una fase successiva). Secondo le equilibrate e prudenti posizioni della Donum Vitae e dell’Evangelium Vitae l’essere umano va rispettato “come una persona” fin dal suo concepimento(4).

L’inviolabilità della vita umana esclude pertanto che nelle opere dell’Ordine Ospedaliero possa praticarsi non solo l’aborto volontario ma anche altri interventi che di fatto sopprimono la vita nelle sue fasi iniziali o ne impediscono il regolare sviluppo.

Così pure si dovrà porre particolare attenzione affinché le procedure di diagnosi prenatale non vengano esclusivamente finalizzate all’interruzione della gravidanza qualora evidenzino malformazioni fetali. Anzi il positivo impegno per la vita e l’accoglienza del più debole e bisognoso, qual é un soggetto malformato, esigono in fedeltà al carisma di S. Giovanni di Dio, una sua più concreta e fattiva accoglienza. Questo é ancora più necessario in quanto la cultura dominante e le politiche di molti Stati tendono a negare la vita al soggetto in qualche modo “imperfetto”. La possibilità che nelle opere dell’Ordine si effettui tale diagnosi esige che al tempo stesso siano proprio le stesse opere, a istituire qualificati Centri di counselling per la coppia e la famiglia in difficoltà a causa della nascita di un figlio malformato.

Con analogo criterio é necessario che la riprovazione dell’aborto volontario non si traduca in disprezzo per chi lo pratica. Con carità cristiana, anzi, le nostre opere dovrebbero divenire Centri non solo di accoglienza alla vita ma anche di “ricostruzione” di un esistenza spesso profondamente turbata dall’aver praticato un’interruzione della gravidanza. Non solo la condanna dell’errore non deve tradursi in condanna dell’errante ma deve, trasformare mediante l’amore, l’errante in una persona consapevole del suo errore ma al tempo stesso fiducioso nell’immancabile perdono di Dio.

L’illiceità di praticare l’interruzione volontaria della gravidanza non esclude che possano praticarsi interventi farmacologici o chirurgici, volti a salvaguardare la salute della madre e che possano avere anche come effetto la morte del feto, purché questa non sia direttamente voluta, non venga ottenuta attraverso l’intervento stesso, e questo sia indifferibile(5).

5.2.1.3. Riproduzione assistita.. Sono molte le coppie sterili che ricorrono alle tecniche della riproduzione assistita come risorsa efficace per superare un problema che non dipende dalla loro volontà.

Nessun centro dell’Ordine può offrire questo servizio, se non è altamente qualificato e riconosciuto. In tal caso consideriamo eticamente accettabile l’aiuto alle coppie per mezzo delle tecniche di riproduzione assistita che permettono un esito procreativo alla loro intimità sessuale(6) utilizzando gameti della coppia, nel rispetto della vita dell’embrione.

Qualora circostanze di politica sanitaria dovessero esigere altri interventi, bisognerà individuare soluzioni accettabili o ricercare alternative. A tal fine i Comitati di Etica o Bioetica possono essere un eccellente aiuto.

5.2.2. Donazione di organi e trapianti

5.2.2.1. Tipologie del trapianto. Le moderne possibilità offerte dalla trapiantologia costituiscono una delle maggiori sfide etiche del nostro tempo invitandoci ad acquisire una nuova dimensione della solidarietà interpersonale. Donare i propri organi dopo la morte dovrebbe esser ritenuto un vero e proprio dovere da parte di ogni uomo e, a maggior ragione, di ogni cristiano. L’Ordine Ospedaliero, in questo, si unisce agli sforzi dell’intera collettività per incarnare e diffondere una “cultura del dono”. Al di là degli aspetti di ordine legislativo che possono rendere più o meno esplicito il consenso al prelievo di un organo dopo morti, tale dimensione del dono non dovrebbe essere mai persa.

Evidentemente occorre un lavoro di carattere culturale per superare certe remore che ancora possono esservi nei confronti del prelievo di organi dal cadavere, relative a una malintesa “sacralità” del cadavere stesso(7). In tal senso la duplice collocazione dell’Ordine, quale espressione di un organismo ecclesiale da un lato e di una struttura sanitaria dall’altro potrebbe contribuire al loro superamento. Non bisogna infatti trasformare il doveroso culto dei morti di cui é ricca la pietà cristiana, in un culto dei cadaveri.

Un problema diverso si pone per il trapianto tra viventi. Pur essendo un gesto di grandissima e a volte eroica oblatività proprio per le sue caratteristiche di non ordinarietà non può ritenersi eticamente doveroso al pari della donazione post-mortem. Rientra in quegli atti straordinari a cui non si é tenuti in senso stretto ma che sono espressione di grande e ammirevole generosità.

5.2.2.2. La morte cerebrale. Ai fini del prelievo di organi da cadavere si pone il delicato problema dell’accertamento della morte cerebrale. Evidentemente solo da un soggetto effettivamente morto si può prelevare un organo. Proprio per questo oggi esistono rigorosi criteri per il suo accertamento di cui bisogna “fidarsi”. Un individuo é morto quando in base ad alcuni parametri di ordine clinico e/o strumentale non vi é più alcuna attività, irreversibilmente, tanto nella sua corteccia cerebrale che nel tronco encefalico(8). Questi sono criteri sufficienti, riconosciuti dalla comunità scientifica internazionale e che non devono esser messi in crisi da notizie più o meno sensazionalistiche divulgate dai massmedia. La morte infatti é un processo, non un evento e, pertanto la fine dell’esistenza terrena non costituisce la morte di tutto l’organismo (che in alcune sue componenti continua a vivere anche dopo la cessazione dell’attività cerebrale) ma la morte dell’organismo come un tutto.

5.2.2.3. Utilizzo di tessuti embrio-fetali. In alcune patologie, in modo particolare di tipo ematologico o neurologico viene da tempo utilizzato il trapianto di tessuti fetali (cellule epatiche, cerebrali, ecc.). Poiché in genere i soggetti da cui viene effettuato il prelievo sono feti abortiti volontariamente, questo pone un delicato problema etico circa l’ “uso” di tali soggetti, la possibile “strumentalizzazione” dell’atto abortivo e la validità del consenso sottoscritto dalla madre. Di per sé l’uso di tessuti embrio-fetali, una volta ponderato un giusto bilancio tra rischi e benefici non dovrebbe costituire un problema etico. Tuttavia si dovrà evitare qualsiasi più o meno tacita istigazione all’aborto o la considerazione di tali feti come “vite a perdere” e sui cui quindi sarebbe possibile fare di tutto. La loro dignità di esseri umani dovrà essere comunque rispettata, così come tale gesto pur se in grado di salvare altre vite umane, non dovrà essere legittimante dell’atto abortivo. (9)

5.2.3. Malati cronici e terminali

5.2.3.1. Eutanasia. Il rispetto per la vita che comincia fin dal suo inizio si estende a tutto l’arco della sua esistenza, fino alla sua fine naturale(10).Con la dizione di eutanasia intendiamo la morte che sia procurata o ricercata sia con procedure che deliberatamente e volontariamente possano causarla (eutanasia attiva) sia omettendo o astenendosi da procedure che possano evitarla. Quest’ultima viene impropriamente definita eutanasia passiva, dizione ambigua e impropria: o si tratta di una deliberata soppressione della vita (operata sia commettendo che astenendosi) o si tratta solo dell’evitare un inutile accanimento terapeutico (ma allora non é eutanasia).

Per lo stesso principio del duplice effetto già applicato all’aborto volontario, non costituisce un atto di eutanasia quell’intervento che si proponga di intervenire per migliorare una condizione patologica dell’individuo (ad esempio per eliminare il dolore) ma da cui possa anche conseguire, in modo inevitabile e non voluto una possibile anticipazione della sua morte.

Il dovere di garantire a tutti una morte degna dell’uomo comporta in ogni caso la sua cura fino all’ultimo istante di vita. La profonda differenza che esiste tra terapia (cure) e cura (care) fa sì che non vi siano malati in-curabili, anche se ve ne sono alcuni in-guaribili. L’alimentazione parenterale, la detersione delle ferite, l’igiene corporea, le adeguate condizioni ambientali sono diritti ineludibili di cui ogni malato non può essere privato fino agli ultimi istanti della sua esistenza.

5.2.3.2. Testamento vitale. Il “testamento vitale” (living will) é un documento che esprime la volontà della persona a che siano rispettati i suoi valori e le sue convinzioni se un giorno, per effetto di una lesione o di una infermità, sia incapace di manifestarla. In concreto chiede che sia mantenuto il diritto, in queste circostanze, a non esser sottoposto a trattamenti sproporzionati o inutili; che non si prolunghi il processo del morire in modo irragionevole e che si allevino le sofferenze con farmaci appropriati anche se questo dovesse avere come effetto una minore durata della vita.

Formulato in questo modo e come dichiarazione di intenti, non vi é dubbio alcuno che il testamento vitale é buono e raccomandabile. Infatti esplicita la volontà del paziente su come desideri essere trattato dai medici alla fine della sua vita. Oggigiorno il testamento vitale non ha forza legale in senso stretto. Per questo un ampio settore della società reclama, con insistenza e motivatamente, la sua tutela giuridica in modo tale che, in caso di conflittualità, possa ricorrere al tribunale per risolvere il contenzioso in base a una legislazione specifica.

La Chiesa non può accettare in alcun modo che si provochi la morte anche se questa dovesse essere la volontà dell’interessato, liberamente espressa. Il limite del disporre della propria vita con l’intervento di terzi, in caso di malattia o invalidità incurabile e permanente, fino a provocare direttamente la morte, segna la differenza tra il testamento vitale accettabile per i cattolici e altre sue modalità espressive.

Oltre al testamento vitale si devono prendere in considerazione altre forme di protezione dei diritti del malato quando per incompetenza del paziente debbano intervenire terzi. Questo comporta il riconoscimento giuridico della figura di un tutore delegato a prendere le decisioni mediche. Questa persona, scelta dal paziente, avrà il potere di decidere, come se si trattasse del paziente stesso, le azioni che possano tutelare maggiormente il suo bene, integralmente considerato.

5.2.3.3. Proporzionalità delle cure e accanimento terapeutico. Per quanto orientati alla promozione della salute, i nostri ospedali non possono considerare la morte come un fenomeno estraneo, che debba essere emarginato, ma come parte integrante del corso della vita, particolarmente importante per la realizzazione piena e trascendente del malato. Conseguentemente ogni malato deve esser soddisfatto nel suo diritto a non essere impedito, anzi facilitato, nell’assumere responsabilmente, in armonia con la sua religione e il suo senso della vita, l’evento della propria morte. (11) Ad esso si opporrebbe l’occultare la verità o il privarlo, senza vera e urgente necessità, delle sue abituali relazioni con la famiglia, gli amici, la comunità religiosa e ideologica. Solo così si realizzerà, anche in questi momenti definitivi dell’esistenza, la umanizzazione della Medicina.

Naturalmente questo comporta il vivere con piena responsabilità e dignità il momento della propria morte. Se, da un lato, questo non può essere direttamente provocato, dall’altro non si deve insistere in trattamenti che non influiscono significativamente sul prolungamento della vita o sulla sua qualità, protraendo solo l’agonia in un inutile accanimento terapeutico. Ognuno ha diritto a morire con dignità e serenità senza inutili tormenti, ponendo in atto tutti e solo i trattamenti che appaiano effettivamente proporzionati. (12)

5.2.3.4. Cure palliative . Possiamo dire che l’uomo, fin dai primordi, abbia praticato cure palliative tutte le volte che si è fatto carico della fase “terminale” di un malato supportandola con tutti i rimedi disponibili ma anche aiutandolo, confortandolo, accompagnandolo alla morte. Oggi abbiamo una concezione più elaborata di tali cure unitamente a una loro specifica strutturazione operativa (negli hospices, nelle unità di cure palliative, ecc.) che ci consentono di non abbandonare al suo destino il paziente affetto da una patologia inguaribile. Le cure palliative si presentano così come “cure totali” offerte alla persona in una globale relazionalità di aiuto che si fa carico di tutti i suoi bisogni assistenziali. (13)

In realtà la cura palliativa è esattamente quello che c’è da fare per quel malato. Non sarà certo la guari­gione, perché questa è impossibile ma tutta una serie di provvedimenti (a volte anche tecnicamente impegnativi) per garantire una buona qualità della vita, per il tempo in cui questa gli rimane.

Alla luce di queste considerazioni le istituzioni dell’Ordine Ospedaliero che si occupano di pazienti in una fase avanzata della loro malattia dovrebbero predisporre, per quanto possibile, unità di cure palliative destinate a rendere più sopportabile al paziente la fase finale della malattia e, nello stesso tempo, assicurare al paziente un accompagnamento umano adeguato.

5.2.4. Problemi relativi alla ricerca con soggetti umani

5.2.4.1. Sperimentazione clinica. La ricerca costituisce da sempre uno dei principali “motori” con cui é andato avanti il progresso della medicina. Ad essa, unitamente ad alcune scoperte fortuite come quella degli antibiotici o dei raggi X, dobbiamo le attuali conquiste della scienza. Oggi la ricerca non la si effettua più nel chiuso di un laboratorio o sull’animale ma direttamente sull’uomo. Tale procedura sperimentale non é un optional che alcuni ricercatori vogliono realizzare ma é diventata oggi una necessità ineludibile soprattutto per ciò che riguarda i nuovi farmaci. Dopo il laboratorio e l’animale ogni farmaco deve essere saggiato per la prima volta sull’uomo. Non si tratta, ovviamente, di utilizzare l’uomo come una cavia ma di mettere a punto nel migliore dei modi una modalità terapeutica di cui lo stesso soggetto su cui si sperimenta e/o altri potranno trarre giovamento. Questo può avvenire solo ad alcune rigorose condizioni ormai fissate da numerose Carte e dichiarazioni internazionali. (14) E poiché tale ricerca si effettua prevalentemente nelle strutture di ricovero, é importante che i nostri Centri siano edotti ed attenti a tali condizioni.

La prima di queste é che ogni sperimentazione parta da una presunzione di beneficità. Cioè l’immissione nel mercato di un presidio terapeutico prima inesistente o di uno migliore rispetto ad un altro per varie possibilità: maggiore efficacia, minori rischi, minore costo, maggiore facilità di somministrazione, ecc.

Ovviamente ogni sperimentazione dovrà essere effettuata col consenso dell’interessato. Perché tale consenso sia valido esso deve essere fondamentalmente libero. Questo significa che nessuna forma di costrizione potrà essere esercitata, neanche implicita o di carattere “morale” come potrebbe essere l’influsso dell’autorevolezza medica o la paura di non essere più curati adeguatamente.

Inoltre tale il consenso dovrà essere “informato” rendendo il paziente edotto circa il suo inserimento in una sperimentazione clinica, i suoi possibili rischi e benefici, le alternative, le garanzie assicurative, ecc. Quale condizione previa perché il consenso sia realmente informato é indispensabile che il paziente sia adeguatamente a conoscenza del suo stato di malattia. Non si può mai nascondere indefinitamente e sistematicamente la verità al malato che, viceversa deve essere sempre consapevole delle sue condizioni di salute. Naturalmente questo non significa che tale comunicazione di verità non possa essere graduale, differita nel tempo, condivisa con i familiari. Né che si debba ostinatamente violentare la coscienza del malato qualora questi abbia espresso il desiderio di non conoscere la verità. Né ancora che tale verità debba essere minuziosa entrando nel merito di qualunque lontano e ipotizzabile effetto collaterale: é sufficiente che si sia adeguata.

Per una più organica modalità di ottenimento del consenso potrà essere opportuno che le varie Case o le Provincie producano un’apposita modulistica da adoperare nella pratica clinica dei vari Centri. E’ di fondamentale importanza che tutti gli operatori sanitari capiscano come la richiesta del consenso non é una procedura di carattere legale tesa a salvaguardare il medico ma un diritto del paziente e come tale comporta una specifica doverosità etica da parte degli operatori stessi.

5.2.4.2 Ricerca su persone incapaci e gruppi vulnerabili. Quanto sopra detto riguarda naturalmente la sperimentazione clinica effettuata su soggetti giuridicamente ed eticamente competenti, cioè in grado di comprendere perfettamente quanto viene loro detto e fatto, e di formulare un consenso pienamente consapevole. Ma la sperimentazione non riguarda solo tali soggetti né la si può limitare ad essi. Ne rimarrebbero esclusi, infatti, pazienti come i bambini, i malati di mente o i soggetti in coma pur essi bisognosi di nuovi ritrovati terapeutici. Proprio per questo si dovrà pensare ad opportune forme di “delega” affidate a soggetti che per i loro specifici legami affettivi con il paziente o per la loro funzione istituzionale si presume facciano sempre l’interesse del paziente stesso. A queste condizioni e valutata l’accettabilità del rischio che il paziente corre in rapporto ai potenziali benefici, tale sperimentazione potrà essere lecitamente condotta.

Una particolare problematica si presenta inoltre per le possibile sperimentazioni condotte su soggetti sani. Difficilmente uno di loro sarebbe disponibile a sottoporsi a una tale sperimentazione senza averne nulla in cambio. Il più delle volte, infatti, tali soggetti sono carcerati ai quali viene offerto uno sconto di pena. Spesso tale prassi viene giustificata per una sorta di “tributo” che così pagherebbero nei confronti della società. Altre volte tali soggetti sono studenti che vengono in qualche modo rimborsati per la prestazione effettuata o altre volte ancora, vere e proprie “cavie umane” reclutate nei Paesi del Terzo Mondo dietro un miserevole compenso. E’ inutile dire come in tali casi manchi il requisito fondamentale della libertà nell’adesione alla sperimentazione e come tali comportamenti si rivelino lesivi della dignità umana. Nei nostri Centri, pertanto occorrerà vigilare sempre perché anche una possibile sperimentazione su soggetti sani venga condotta previo un loro consenso assolutamente libero e con l’adeguata garanzia dell’assenza di rischi significativi.

5.2.4.3. Feti ed embrioni. Per ciò che riguarda la sperimentazione prenatale possono darsi due evenienze fondamentali. La prima é costituita dalla sperimentazione sugli embrioni sovrannumerari frutto di tecniche di fecondazione in vitro. Spesso questa viene eseguita con considerazioni di carattere pseudoumanitario valutando che, rispetto alla soppressione o ai rischi del congelamento, sarebbe in ogni caso preferibile “utilizzare” così l’embrione. La seconda evenienza é data dalla sperimentazione eseguita su donne gravide che abbia chiesto di interrompere la gravidanza. Anche in questo caso verrebbe così “utilizzato” un feto destinato ad essere in ogni caso perso. In realtà tali considerazioni, per quanto utile possa risultare tale ricerca per altri esseri umani fanno sì che l’uomo venga deliberatamente strumentalizzato, sia pure per una nobile causa, non essendo più “fine” ma semplice “mezzo”. (15)

Diversa da questa é la situazione in cui una terapia sperimentale, sia pure con tutti i rischi che comporta viene impiegata per un possibile beneficio da apportare al feto su cui viene sperimentata. Tale beneficio, ovviamente, dovrà essere potenzialmente superiore al non eseguire la sperimentazione stessa o all’uso di un’altra terapia.

5.2.4.4. Comitati di ricerca clinica e comitati di etica. Per promuovere i diversi campi della ricerca clinica e farmacologica, è opportuno che gli ospedali costituiscano comitati di ricerca clinica. Questi comitati sono anche un’istanza formativa che ispira e promuove momenti di riflessione, di informazione, di innovazione e di sensibilizzazione nelle aree assistenziale, scientifica, didattica ed amministrativa.

Dall’altra parte, i Comitati di etica che é opportuno costituire o promuovere in tutte le opere del nostro Ordine, si pongono oggi quali organi per la difesa dell’autonomia del paziente e il rispetto dei suoi diritti. Nella loro strutturazione dovranno essere adeguatamente rappresentate tutte le componenti della Casa a cui appartengono e soprattutto dovranno esservi persone adeguatamente competenti sul piano etico.

Non tutti i Paesi hanno apposite legislazioni in materia e spesso la fisionomia di tali Comitati è diversa. In alcuni Paesi esistono Comitati “nazionali” mentre in altri sono solo ospedalieri; alcuni si occupano solo di ricerca e altri solo di problemi clinici; alcuni sono del tutto indipendenti, altri sono collegati a una data istituzione, ecc.

In ogni caso possiamo dire che, complessivamente, le funzioni che assolvono i Comitati di Etica sono tre.

La prima é di ordine autorizzativo. Ad essi infatti compete l’esame dei trials sperimentali, sia di carattere medico che chirurgico. In tale ambito i Comitati dovranno esprimere un ponderato parere che tenga conto di tutte le condizioni di liceità che permettono la sperimentazione stessa (razionale dello studio, proporzione rischi/benefici, tutela del paziente, consenso informato, ecc.).

In secondo luogo i Comitati hanno funzione consultiva ove vengano specificamente interpellati da terzi (personale sanitario, pazienti, enti esterni) per formulare un parere su questioni di rilevante impegno etico o per illuminare situazioni conflittuali per la coscienza degli operatori.

Infine i Comitati hanno una funzione culturale potendo formulare linee-guida su aspetti comportamentali di rilievo etico o promuovendo con varie iniziative (convegni, pubblicazioni, ecc.) una maggiore competenza etica da parte del personale e delle istituzioni sanitarie.

Inoltre, i Comitati possono avere una notevole ricaduta di ordine formativo potendo ritenersi anzi veri e propri strumenti di formazione per promuovere la sensibilità etica da parte sia dei religiosi che dei collaboranti operanti nei centri.

5.2.5. Problemi etici in rapporto alla medicina predittiva

5.2.5.1. La comunicazione di diagnosi. Le moderne possibilità offerte dalla medicina predittiva, praticata in molti dei nostri Centri, offre problemi bioetici finora inediti. Il primo di questi riguarda la comunicazione di diagnosi. A chi dovrà essere fatta? All’interessato, ai suoi familiari, a entrambi? Il criterio etico generale relativo alla verità da comunicare al paziente ci dice che titolare prioritario, se non esclusivo, di tale diritto, é lo stesso malato, indipendentemente dalla gravità della malattia. Anzi proprio in quelle a prognosi infausta il problema si pone con maggiore urgenza.

La situazione delle malattie genetiche non dovrebbe costituire motivo di eccezione a tale regola. Tuttavia la particolarità relativa a molte di queste malattie la cui espressione clinica potrebbe coinvolgere i membri della famiglia spinge a porsi il suddetto interrogativo. Ovviamente in questa sede non é possibile approfondire ulteriormente il problema rinviando solo a un attento esame delle singole situazioni che tenga conto dei “diritti” di tutte le persone in gioco con una assoluta priorità del malato (che non potrà essere mai defraudato di un realtà che lo riguarda così profondamente) ma tenendo anche nel debito conto, se il caso lo richiede, le giuste esigenze dei suoi familiari.

5.2.5.2 Assetto genetico e tutela della riservatezza. Nel prossimo sviluppo delle scienze mediche si delinea l’orizzonte di una piena conoscenza dell’assetto genetico dell’individuo, non solo per ciò che riguarda la sua struttura fisiologica ma, ed é ciò che più conta, per valutarne le possibili patologie. Se questo da un lato é la premessa indispensabile per una loro futura correzione (ingegneria genetica) tale possibilità pone nuovi interrogativi etici.

Il primo di questi é dovuto alla riservatezza dei tali dati che, custoditi in apposite “banche genetiche”, potrebbero costituire un pericoloso elemento di ritorsione o di semplice invasione nella vita dell’individuo. Il problema in realtà non é diverso da quello che potrebbe comportare l’invasione di un archivio clinico o informatico. Pone solo in termini diversi un problema vecchio che é quello della riservatezza dei dati individuali. Forse ciò che in questo caso più colpisce é la profondità e l’ “intimità” di una tale possibile invadenza che penetra nelle più segrete fibre della struttura umana. Ma i criteri da applicare alle altre situazioni dovrebbero potersi trasferire a questa.

Strettamente correlato a questo problema é quello relativo a una sorta di “carta di identità genetica” dell’individuo, ultimo traguardo di quell’auspicata medicina predittiva di cui tanto di parla. Quali problemi potrà causare un tale strumento? Come inciderà sulla psiche dell’individuo il sapersi portatore di varie malattie genetiche non sempre clinicamente espresse ma potenzialmente tali? Come influirà nei problemi relativi alla scelta di un partner? In fondo fino ad oggi si é sempre detto che é giusto prevenire le malattie genetiche con opportuni esami prematrimoniali. Questo costituirebbe l’ultimo e insuperato strumento. Potrà condizionare le scelte affettive dell’individuo? Indubbiamente si tratta di uno scenario lontano ma al quale é opportuno iniziare a prepararsi.

Un ultimo aspetto, più pragmatico ma non meno importante riguarda le implicanze di ordine professionale e assicurativo. Non é escluso che il datore di lavoro possa un domani richiedere (come fa oggi con un semplice certificato medico) la “carta di identità genetica” magari escludendo quei lavoratori che risultino non essere idonei, in atto o in futuro. Questo costituirebbe una grave forma di discriminazione lavorativa e, di fronte a una tale evenienza, la filosofia assistenziale dei nostri Centri dovrebbe prevedere eventuali misure a garanzia di tali lavoratori che forse potrebbero costituire una delle “nuove povertà” del futuro.

5.2.6. Problemi etici nelle situazioni di emarginazione

5.2.6.1. Tossicodipendenti. Per quanto presso tutti i popoli e in ogni epoca siano esistite forme di dipendenza fisica e/o psichica da varie sostanze spesso a sfondo magico-religioso, solo oggi tale problema ha assunto dimensioni etico-sociali di vasta portata. Le principali motivazioni sono dovute alla diffusione di tale fenomeno, alla sua prevalenza nelle fasce giovanili della popolazione, al danno individuale e sociale che il ricorso a tali sostanze comporta.

Il problema, di grande complessità, interpella fortemente l’Ordine Ospedaliero che ne viene investito a vario titolo. Innanzitutto per le componenti tipicamente sanitarie che esso comporta: prestazioni di primo soccorso, procedure di disassuefazione clinica, trattamento medico delle complicanze.

In secondo luogo per gli interventi di ordine psicologico-educativo finalizzati al definitivo superamento della dipendenza psichica. Se, infatti, é relativamente semplice superare l’assuefazione fisica, non altrettanto può dirsi per quella psichica. Se manca, infatti, una proposta forte in grado di riempire il vuoto di valori che porta alla tossicodipendenza il soggetto non riuscirà mai a vincere la sua battaglia contro l’abuso di sostanze. Questa é la ragione, d’altra parte, perché nel mondo la Chiesa é presente con varie strutture (Centri di accoglienza, comunità terapeutiche) che hanno consentito il recupero e il pieno reinserimento sociale dei tossicodipendenti.

Infine non va trascurata la dimensione sociale di un tale impegno da parte dell’Ordine Ospedaliero pienamente corrispondente al suo carisma. Non v’è dubbio, infatti, che la tossicodipendenza rientri tra quelle “nuove” povertà di cui oggi si parla e da cui l’Ordine deve sentirsi fortemente interpellato.(16)

Le suddette attività, naturalmente, non dovranno svolgersi in dissonanza con i servizi e gli interventi pubblici ma in modo complementare ad essi. Questo non significa che si debbano necessariamente condividere provvedimenti legislativi o sociali che non si ritengano in armonia con la missione carismatica delle nostre opere.

Alle tossicodipendenze sono per certi versi assimilabili, altre forme di dipendenza, come ad esempio quella alcolica. Il problema dell’alcolismo, infatti, in alcuni Paesi del mondo raggiunge livelli di diffusione di gran lunga superiori a quelli dell’uso di droga. Non solo ma le fasce sociali interessate sono assai più variegate costituendo un ulteriore stimolo perché l’Ordine possa efficacemente impegnarsi anche in quest’ambito.

5.2.6.2. Malati di AIDS. L’attuale diffusione di tale patologia e le peculiarità di ordine sociale che comporta necessitano una valida risposta da parte del nostro Ordine sintetizzabile in varie adempienze.

La prima di queste dovrà essere di tipo culturale evitando nell’atteggiamento interiore e nei conseguenti comportamenti ogni prassi discriminante. Questo si rende particolarmente necessario in tutte quelle situazioni di carattere sanitario in cui il soggetto sieropositivo o con AIDS conclamata si trovi all’interno di ospedali generali per vari motivi (pronto soccorso, necessità di intervento chirurgico, ecc.) condividendo con altri malati e visitatori la sua condizione di degenza.

Tale atteggiamento di accoglienza dovrà poi esprimersi più appropriatamente e in spirito di specifica attuazione di una dimensione carismatica, in apposite strutture di soggiorno dei malati o di accompagnamento ai pazienti giunti alla fase terminale della malattia. Anzi é opportuno che l’Ordine si faccia promotore di tali strutture improntante di quello spirito cristiano che é stato sempre orientato, sul piano assistenziale, alle persone più emarginate. Anzi, sul piano dell’eredità storica non bisogna dimenticare come proprio nell’assistenza a persone affette da varie malattie infettive si siano distinti in passato, spesso eroicamente, molti nostri religiosi.

Unitamente alle suddetta presa in carico di questi malati, l’Ordine contribuirà all’opera di prevenzione della patologia che sia prevalentemente centrata su un’appropriata educazione valoriale. Qualora tali strategie si rivelino inefficaci o insufficienti, ogni eventuale riduzione del danno dovrà essere realizzata nell’effettiva consapevolezza che tali provvedimenti, a motivo della loro fallibilità, non costituiscono una garanzia assoluta per la prevenzione del contagio.

Inoltre, per quanto possibile sarebbe auspicabile che l’Ordine collaborasse anche ad attività di ricerca condotte da altri organismi o istituzioni sanitarie volte a identificare nuovi rimedi di ordine terapeutico o preventivo per sconfiggere definitivamente questo male.

Infine dovrà porsi particolare attenzione perché la profonda comprensione umana, l’accoglienza, il rifiuto di ogni emarginazione e di ogni presunta “condanna divina” espressa in tale patologia non si traduca in una legittimazione dei comportamenti che ne sono all’origine.

5.2.6.3. Portatori di handicap fisico e psichico. Anche se la società contemporanea sembra aver riscoperto l’attenzione nei confronti dei disabili, sia con la generica accettazione del “diverso”, sia con appositi provvedimenti quali l’abbattimento delle “barriere architettoniche”, sul piano culturale permane un certo rifiuto di tale realtà. Questo si estende dalla promozione di un eugenismo prenatale spinto alla soppressione dell’embrione affetto da qualsiasi anomalia fino alla richiesta dell’eutanasia per sopprimere il neonato malformato o l’adulto disabile.

Ma non avrebbe senso biasimare tutto questo se, al tempo stesso, non si operasse in modo tale da evidenziare l’accoglienza e l’amore che una vera società civile deve evidenziare nei confronti dei suoi membri che si trovino svantaggiati. Una società veramente a misura d’uomo non può essere orientata ai “forti” ma ai “deboli”. Pertanto, oltre ad opere specifiche a sostegno dei portatori di handicap, l’Ordine dovrebbe esercitare in quest’area una forte funzione di testimonianza.

Per la frequente combinazione di handicap fisico e psichico, rimandiamo alle considerazioni del paragrafo seguente. D’altra parte qualora l’handicap fosse esclusivamente di tipo fisico, con ancora maggior forza si porrà l’impegno per una riabilitazione integrale. In questa prospettiva, non meno bisognosa di riabilitazione é la stessa società, spesso incapace di riconoscere nel portatore di handicap una persona con problemi particolari.

5.2.6.4. Malati di mente e disabili psichici. Com’è noto, per la personale esperienza biografica del nostro Fondatore, costituiscono da sempre una categoria di malati particolarmente prediletti nelle nostre opere assistenziali. Nei loro confronti, pertanto, si é acquisito un bagaglio di esperienze e competenze assai spesso anticipatrici di idee e soluzioni oggi attuate dalla sanità pubblica. Tuttavia persistono nei loro confronti, al di là di alcune specifiche problematiche assistenziali inerenti le disposizioni legislative dei vari Paesi, specifici problemi di ordine etico.

Il primo di questi costituisce un po’ il denominatore comune di tutti gli altri e riguarda la capacità di consenso. Il superamento del paternalismo medico del passato e l’attuale valorizzazione dell’autonomia del paziente coinvolgono naturalmente anche il malato di mente e il disabile psichico. Anzi lo coinvolgono in modo più radicale stante la sua limitazione nell’esercizio di tale autonomia decisionale. Potrebbe esservi pertanto la tentazione di un ritorno, sia pure solo in questo caso e sia pure con un fine benefico, al vecchio paternalismo. Questo non deve verificarsi, limitando tale esercizio solo a quelle situazioni in cui a motivo di uno stato di necessità o in assenza di altre persone (familiari, tutori, comitati di bioetica) con cui poter condividere la scelta non vi siano effettivamente possibilità alternative. In tutti gli altri casi si dovrà rendere il paziente partecipe delle decisioni, nella misura in cui le sue facoltà glielo consentono, o coinvolgere le suddette persone che, a motivo dei loro legami o del loro ruolo si presume facciano sempre il maggior interesse del paziente.

Tale problema appare evidente nella somministrazione di psicofarmaci, nella terapia elettroconvulsiva (elettroshock), nella contenzione fisica e nella privazione della libertà. Nel far questo dovrà ritenersi sufficiente un generico e spesso solo implicito consenso espresso da chi é autorizzato a farlo, nel momento stesso in cui si rende indispensabile il ricovero.

Un problema di particolare delicatezza si pone in ordine all’esercizio della sessualità. Condizione indispensabile per tale esercizio é che esso possa essere liberamente voluto. Sia nel malato mentale che nel disabile psichico esistono vari gradi di restrizione di tale libertà decisionale mentre sono al tempo stesso presenti gli stimoli sessuali. Se, da un lato, appare irrispettoso della dignità umana ogni intervento atto a mutilarne una delle sue funzioni (nel caso specifico quella riproduttiva) da un altro lato il soggetto che presenti deficit psichici non solo non é in grado di esercitare liberamente tale facoltà ma dall’uso della stessa, che mantiene inalterato il suo potenziale biologico, potrebbe derivarne una gravidanza. Proprio per questo, cercando il custodire il massimo rispetto che é dovuto all’essere umano nella sua piena identità corporea si dovrà responsabilmente evitare che il malato di mente e il disabile psichico, a motivo di particolari condizioni esistenziali in cui venga a trovarsi possa essere di danno a stesso e agli altri.

In ogni caso, e al di là di queste specifiche problematiche, le strutture psichiatriche e sociali dell’Ordine dovranno caratterizzarsi sempre per la profonda umanità di trattamento nei confronti dei malati mentali e dei disabili psichici. Da un lato questo diventa perenne attuazione carismatica di quella particolare sensibilità mostrata a tale riguardo da San Giovanni di Dio, dall’altro rinnovata profezia in un ambito che necessita di continua umanizzazione. Questa, infatti, non va intesa in modo riduttivo limitandosi a garantire al malato di mente e al disabile psichico uno spazio vitale adeguato, un ambiente igienicamente soddisfacente, una buona qualità del cibo, una doverosa libertà di movimento, la possibilità di mantenere legami affettivi con la famiglia ecc. ma si dovrà estendere in termini positivi alla “realizzazione” della sua persona. Per far questo si dovrà far appello a ogni sua potenzialità, a ogni sua risorsa, anche spirituale. E’ un processo che deve condurre alla valorizzazione di una personalità che, nonostante le sue carenze, lascia trasparire sempre il volto dell’uomo.

5.2.6.5. Anziani. Il numero di anziani, sempre crescente nella società contemporanea comporta non solo un maggiore aumento delle patologie a loro carico, con l’impegno di carattere sanitario che ne deriva, ma anche specifici problemi di ordine socio-assistenziale. Le oggettive difficoltà di alcuni nuclei familiari ad accogliere la persona anziana al proprio interno o il rifiuto egoistico da parte di altri costringono spesso la persona anziana alla soluzione abitativa della casa di riposo. Sono ormai numerose le strutture di questo tipo gestite dall’Ordine in varie parti del mondo.

Naturalmente sono vari i percorsi esistenziali che possono condurre un anziano alla casa di riposo. Pur non avendo alcun diritto di giudicare le famiglie che hanno compiuto tale scelta l’Ordine dovrà adoperarsi, per quanto possibile, a favorire i legami affettivi tra la persona anziana e la famiglia d’origine anche aiutando a rimuovere possibili ostacoli che eventualmente possano frapporsi.

Il soggiorno della persona anziana in una Casa gestita dall’Ordine, non deve essere inteso solo come una soluzione di tipo abitativo ma deve essere profondamente improntata dal suo senso carismatico. Questo comporterà la valorizzazione della “terza età” che non deve essere mascherata nell’illusione di un eterna giovinezza ma vissuta come particolare e diversa età della vita con le ricchezze e i problemi che comporta, al pari delle altre. Naturalmente questa é caratterizzata da un vissuto di perdita (della forza fisica, del ruolo sociale, degli affetti, del lavoro, dell’abitazione, ecc.) che dovrà essere interiorizzato e compensato da vissuti di arricchimento (dell’esperienza, dei ricordi, del bene operato, ecc.). In una prospettiva di fede, infine, tale tempo può acquistare anche il senso di una lunga vigilia in preparazione all’incontro con l’eternità.

5.2.6.6. Problemi emergenti. Con questo termine si vogliono indicare varie tipologie di emarginazione o di “nuove povertà”, alcune già presenti e per le quali l’Ordine si é attivato con specifiche risposte assistenziali, altre appena agli inizi del loro apparire ma che sfidano la nostra immaginazione e il nostro impegno etico.

La prima di queste é costituita dai migranti e dai rifugiati, fenomeno in forte crescita in tutti i paesi del mondo occidentale. Se, da un lato, i problemi che questo pone sono prevalentemente di ordine sociale (integrazione culturale e religiosa, problemi occupazionali, ecc.), al tempo stesso essi costituiscono un ambito in cui il carisma dell’ospitalità può trovare una sua specifica espressione. Le risposte in tal senso possono essere le più varie, suggerite da una creatività che sa ascoltare le suggestioni dello Spirito e suscitate anche dagli specifici bisogni di ogni singolo Paese o situazione sociale. Naturalmente accanto alla dimensione della semplice accoglienza potranno esservi anche problemi di tipo specificamente sanitario per persone che spesso non possono usufruire di altra forma di assistenza pubblica. Anche per tali necessità l’Ordine dovrà attivarsi, sia con la possibile creazione di apposite strutture, sia trovando le più opportune soluzioni a tali problemi all’interno di altre strutture assistenziali.

Una situazione analoga é quella presentata da altre persone denominate senzatetto, barboni, squatters, accomunati da una povertà così radicale da non possedere una qualsiasi forma di abitazione stabile essendo costretta a vivere per strada, sotto i portici, nelle sale di attesa delle stazioni. Forse, pur con il divario di tanti secoli, lo scenario di questa umanità sofferente é assai simile a quello che si presentava alla vista di S. Giovanni di Dio o di S. Giovanni Grande. Per cui ogni tipologia di intervento assistenziale nei loro confronti (materiale, alberghiero, sanitario, ecc.) si pone sulla linea di una assoluta continuità carismatica.

Accanto a tali situazioni non é escluso che negli anni futuri l’Ordine possa essere interpellato (dovendo dare una pronta risposta) da altre situazioni oggi più sporadiche o assai meno avvertite. Pensiamo ad esempio alle donne vittime di violenza, ai bambini che hanno subito abusi, a persone che hanno tentato il suicidio, alla solitudine della vedovanza, ai problemi psico-alimentari (anoressia e bulimia), ecc. Una adeguata attenzione alle necessità dell’uomo sofferente non può non essere attenta anche alle “nuove sofferenze” che nel tempo possono affacciarsi e che devono trovare l’Ordine pronto a farsene carico con creatività ed amore.

5.3. Nella gestione e direzione

5.3.1. Gestione

5.3.1.1. Organizzazione e impiego delle risorse. Il nostro fondatore si seppe anticipare all’assistenza della sua epoca e lo fece mediante criteri di organizzazione e distribuzione delle risorse. Come lui, anche noi siamo chiamati ad apportare innovazioni di avanguardia alla nostra società. Nella nostra epoca, più che allora, l’organizzazione e la gestione devono essere una componente importante di questo contributo.

Un motto dei nostri Centri potrebbe essere questo: essere capaci di operare una corretta allocazione delle risorse disponibili, sapendo privilegiare gli aspetti più specifici delle nostre istituzioni. Al livello del Centro questo servirà a garantirne il futuro, a livello dei servizi e reparti sarà finalizzato a dare un’assistenza integrale al malato e al bisognoso.

La retribuzione e la formazione degli operatori, l’ottenimento dei prodotti necessari per il corretto funzionamento, l’adeguamento tecnologico e la dovuta promozione dell’umanizzazione dovranno camminare di pari passo: se una di queste parti si scompensa ci stiamo incamminando lungo la via della frattura, della rottura, della crisi.

La ricerca di equità, in una dimensione locale e regionale, senza perdere di vista la nostra vocazione universale, deve rendersi presente nel prendere le decisioni anche se in alcuni momenti o circostanze questo potrà risultare difficile.

Compito prioritario degli amministratori é l’ottenimento di tali risorse e, pertanto, una parte importante del loro tempo e del loro lavoro dovrà esser dedicata a questa mansione. Sarà loro compito individuare come difendere il lavoro che il Centro svolge e al tempo stesso promuovere l’opera e i suoi progetti.

5.3.1.2. Professionalità. Poiché aspiriamo a un’assistenza integrale e ci sentiamo chiamati a una risposta vocazionale nelle nostre opere é necessario che la nostra professionalità sia assolutamente fuori discussione.

Partendo da una risposta professionale, coerente con i principi etici della professione e animata dalla filosofia dell’Istituzione potremo realizzare l’identità che le nostre opere devono avere. La capacità tecnica e umana sono le basi imprescindibili per render possibile questa risposta professionale.

5.3.1.3. Competenza tecnica. In egual modo, il Centro dovrà vigilare perché la sua dotazione tecnica e tecnologica sia adeguata al suo livello assistenziale. Solo una competenza tecnica adeguata ci permetterà di realizzare il contributo specifico che vogliamo.

I continui mutamenti tecnologici esigono sforzi aggiuntivi per non rimanere indietro. Gli operatori dovranno impegnarsi ad acquisire una formazione tecnica sufficiente e si adopereranno per aggiornarla con le nuove conquiste della scienza.

5.3.2. Organizzazione

5.3.2.1. Corretta espressione della missione dell’opera nei mezzi organizzativi. La nostra missione in ogni nostro Centro é molto ricca e diversificata: pertanto la nostra forma di organizzazione dovrà camminare verso la pluralità. Non tutti gli ambiti della missione possono essere compatibili con lo stesso sistema organizzativo.

Nella misura in cui la nostra organizzazione si impregna della filosofia della nostra missione faciliteremo il processo comunicativo di tutto il Centro e dei suoi operatori con la medesima.

La formula, già posta in atto, di separare le funzioni di superiore e di direttore generale ha dimostrato di essere molto adeguata ed efficace e in questi momenti é imprescindibile nella gestione di molte delle nostre opere. Il Superiore della comunità e il Direttore generale dell’Opera sono chiamati a formare un’équipe, insieme agli altri membri del Comitato Direttivo.

La funzione principale di questo organo é di lavorare in modo interdisciplinare e promuovere questa modalità di lavoro anche nelle altre équipe del Centro.

5.3.2.2. Difesa del pluralismo. La diversità di opinioni e di culture sono un cammino adeguato per riconoscere la diversità dell’uomo.

Dobbiamo quindi stabilire spazi ed elementi organizzativi che consentano l’espressione di tale pluralismo e promuovere attitudini personali che rendano possibile, in tale pluralismo, la comunione.

I nostri valori, la cultura di ciascuna opera sarà lo spazio proprio in cui si potrà articolare questa dimensione pluralistica.

5.3.2.3. Delega. Partecipazione. Assunzione di ruoli funzionali. Dobbiamo lavorare con l’obiettivo di far assumere a ogni persona tutte le competenze che possiede di cui é capace, da quello che ha le più piccole responsabilità a quello che ha le più importanti.

Facciamo in modo di rendere possibile tale assunzione, poniamo gli elementi organizzativi che possano facilitarla e vigiliamo perché tale delega si consolidi in idonee espressioni funzionali per tutti coloro che costituiscono il Centro.

5.3.2.4.Decentramento / Centralizzazione . Procediamo in modo tale che la persona con un ruolo dirigente tuteli le iniziative e le aspettative dei collaboratori.

Mettiamo in opera programmi di lavoro che consentano ai collaboratori di crescere e di assumersi compiti che spesso riserviamo a ruoli superiori.

Che il professionista possa crescere nelle sue competenze, che l’équipe di lavoro veda aumentare il suo spazio di intervento, che i ruoli intermedi abbiano una maggiore capacità di iniziativa, che il dirigente possa crescere in responsabilità

Facciamo sì che la sussidiarietà, valore particolarmente legato alla tradizione cristiana, sia un elemento fondamentale nella funzionalità nelle nostre opere.

L’Ordine intende favorire un adeguato decentramento integrato con una corretta centralizzazione in sintonia con i principi e i valori che ci sforziamo di promuovere.

5.3.2.5. Nuove formule giuridiche. Il nostro punto di riferimento é stato sempre il diritto canonico. Unitamente e, al tempo stesso, al di là di esso é possibile individuare formule che permettano nuovi modi di dirigenza, di delega, di partecipazione.

Tradizionalmente le nostre opere sono state contrassegnate dalla formula giuridica del Centro come proprietà dell’Ordine Ospedaliero. I nuovi tempi che viviamo, la dimensione che vanno acquistando le opere, la dinamica di costante evoluzione in cui si trovano la Sanità e i servizi Sociali consigliano di non chiudersi alle formule passate in questo campo.

La Fondazione, la Associazione, l’Ente senza fine di lucro o gli Organismi non governativi sono formule giuridiche che possono essere più adeguate ad alcune realtà e potrebbero risultare persino più convenienti. Esperienze concrete vissute in alcune opere lo hanno già dimostrato. Sarà bene essere attenti a discernere quali siano le formule più adeguate ai diversi tempi e ai diversi luoghi.

5.3.2.6. Lavoro in équipe. Se vogliamo curare la persona e i suoi bisogni lo potremo fare solo insieme:

- Nella direzione. Quando i massimi responsabili del Centro sono capaci di strutturare una équipe di lavoro, saranno in condizione di poter ispirare ed animare le altre componenti del Centro perché lo facciano anch’esse. La tentazione di efficientismo individualista é molto grande e così pure gli effetti a catena di questa tentazione.

- Nei ruoli intermedi. Il ruolo più difficile nei Centri assistenziali é quello di coloro che stanno nel mezzo. Essi pure devono darsi una linea di lavoro in équipe che consenta loro di farsi carico delle esigenze dei subalterni per farle pervenire ai superiori: allo stesso modo devono far giungere ai subalterni i piani di lavoro della direzione.

- Nei servizi assistenziali e non assistenziali. Quando tutte le persone che curano un malato o un bisognoso sono capaci di lavorare insieme, in quel preciso momento gli diamo un’assistenza integrale.

Nei Centri più complessi non potremo far parte della stessa équipe però potremo far parte di un équipe che si senta chiamata a dare una risposta integrale alle necessità del malato e integrante per tutti coloro che la stiamo costituendo.

5.3.3. Politica delle risorse umane

5.3.3.1. Criteri generali. L’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, come organizzazione:

- é essenzialmente un’opera umana, in quanto é frutto dello sforzo umano ed é composta da persone che ne costituiscono l’elemento portante;

- é cosciente che le sue opere sono imprese con un carattere peculiare, poiché essendo un Ente senza fine di lucro, deve coniugare i suoi obiettivi imprenditoriali con la sua responsabilità sociale, economica e di istituzione ecclesiale;

- é recettivo alle correnti attuali che provengono dal mondo dell’impresa – sociologia, relazioni umane, psicologia- essendosi adattato ai tempi attuali, introducendo i necessari cambi organizzativi per la necessità di amministrare alcune opere con criteri imprenditoriali di efficacia e efficienza, ma sapendo mantenere filosofia, stile e cultura propri;

- é presente con un personale che lavora nelle sue opere e per questo si propone di realizzare una relazione tra organizzazione e lavoratori che soddisfi le necessità e i diritti di entrambe le parti, stabilendo meccanismi che facilitino l’azione congiunta di tutti per raggiungere i suoi fini e le sue aspirazioni.

Per quanto detto, é necessario mostrare apertamente una sincera disponibilità a chiarire le relazioni con il personale lavoratore sempre alla luce della legislazione vigente, della dottrina sociale della Chiesa, salvaguardando i diritti del malato e del bisognoso, fine principale delle opere.

5.3.3.2. Relazioni con i lavoratori. Tenendo presente che la persona é l’elemento fondamentale di tutta l’organizzazione bisogna far sì che la gestione delle risorse umane sia orientata a motivare, attrarre, promuovere e integrare i lavoratori in modo coerente con le loro esigenze e le finalità dell’opera, sempre con criteri di giustizia sociale.

L’azione direttiva comporta un lavoro di gestione delle persone, poiché senza di queste é impossibile venire a capo di qualsiasi impresa o azione. Per questo la gestione delle risorse umane esige attualmente alcuni ruoli direttivi con un livello adeguato di capacità professionale insieme a equilibrate competenze nell’ambito delle relazioni umane.

Un aspetto che si deve potenziare in tutti i Centri dell’Ordine sono le vie di comunicazione. Si deve tendere a stabilire una comunicazione strutturata, sviluppando strumenti comunicativi adeguati per raggiungere tutti i livelli dell’organizzazione e tutti i lavoratori. Almeno si devono predisporre specifici canali comunicativi e facilitare una informazione verace e comprensibile.

Un altro punto importante nell’Ordine e nei suoi Centri deve essere la accoglienza e l’inserimento di tutta la persona che inizia a lavorare, così come il suo accompagnamento nelle prime tappe del lavoro.

5.3.3.3. L’azione sindacale. La dottrina sociale della Chiesa, ormai da molti anni, ha riconosciuto il diritto del lavoratore a costituire associazioni per la difesa dei suoi diritti comuni o lavorativi. Il sindacalismo è una realtà sociale in ambito mondiale. In questo senso l’Ordine riconosce e rispetta il diritto all’esercizio della libertà sindacale.

La dottrina sociale della Chiesa assume e sostiene questa realtà e la considera un elemento indispensabile della vita sociale contemporanea, come forza costruttiva di ordine sociale e di solidarietà, capace di ottenere non solo che il lavoratore abbia di più ma che sia di più. I sindacati non sono solo strumenti contrattuali ma anche luoghi in cui si esprime la personalità dei lavoratori; i loro servizi costituiscono lo sviluppo di un’autentica cultura del lavoro e aiutano a partecipare in modo pienamente umano alla vita dell’impresa.

L’accettazione di questa realtà ci deve portare a trovare formule di informazione-comunicazione tra la direzione e i sindacati con un atteggiamento onesto e realista, salvaguardando sempre i diritti dei malati e degli ospiti.

5.3.3.4. Selezione e contratto del personale. Il personale sarà selezionato tenendo conto della sua qualificazione tecnica e umana, assicurandosi che le sue motivazioni, attitudini e comportamenti rispettino i principi dell’Ordine.

E’ opportuno che ogni Centro possieda norme di attuazione chiare relative alla selezione del personale essendo auspicabile che siano conoscibili da parte di tutti le procedure relative alla selezione stessa: posti in organico, atti, normative, ecc.

Si deve prestare particolare attenzione ai seguenti criteri contrattuali:

- Tecnici. Si esigerà per l’assegnazione di una persona a un posto di lavoro che questo sia in possesso del titolo professionale che la legislazione vigente esige. Indipendentemente dal titolo si curerà con attenzione che abbia adeguate capacità e competenze professionali per esercitare e realizzare quel dato lavoro.

- Profilo umano. Si devono valorizzare le qualità umane come attitudini e capacità di relazione umana, equilibrio emozionale, senso di responsabilità e capacità di prendere decisioni, vocazione sanitaria e/o sociale.

- Profilo etico. E’ necessario che le persone che lavorano nei Centri dell’Ordine promuovano i principi del codice deontologico della propria professione, rispettino e promuovano i principi dell’Istituzione, essendo il rispetto di entrambi i principi una condizione minima per lavorare nei Centri dell’Ordine.

- Dimensione religiosa. Si farà in modo che l’attitudine delle persone sia favorevole a far sì che l’attenzione religiosa nel Centro si vada potenziando.

5.3.3.5. Sicurezza di impiego. Partiamo dalla base che tutte le realizzazioni dell’Ordine nel campo del lavoro debbano adeguarsi alla legislazione vigente in ogni paese, sempre che questa non violi i princìpi dell’Ordine.

Nonostante quanto già attuato in quest’ambito (anche se condizionato principalmente dal bene dell’Ente e delle persone assistite) si devono evitare situazioni di instabilità e demotivazione nelle persone coinvolte offrendo al contrario quelle condizioni di sicurezza e stabilità di impiego, necessarie per un migliore svolgimento del lavoro personale.

Così pure é certo che la dinamica del funzionamento dei Centri sanitari e sociali con un orario permanente di apertura obbliga a una complessa rete di supplenze e sostituzioni che rende difficile la garanzia di una stabilità nell’impiego a quelle persone che occupano questo posto in modo temporaneo. Non é escluso che anche in questo campo, si studino sistemi che possano porre dei limiti alla instabilità lavorativa.

5.3.3.6. Sistema salariale. La giusta remunerazione del lavoro realizzato é un problema chiave di tutta l’etica sociale. I problemi salariali sono quelli più frequentemente rivendicati dai lavoratori.

La dottrina sociale della Chiesa considera il salario come la verifica concreta della giustizia sociale nelle relazioni lavorative. Non é l’unico riscontro ma certamente il più importante.

Non é facile quantificare il giusto salario, dato che il salario in sé é fluido a causa di fattori come la situazione economica dei vari paesi, le aspettative dei vari mercati -incluso quello sanitario e sociale- la situazione di ciascun Centro, le aspettative e i bisogni di ogni singolo lavoratore, ecc.

Tutto questo ci obbliga a remunerare i lavoratori con il salario che é possibile dar loro, per quanto coscienti che a volte possono non esaudire le aspettative. Però, al di sopra delle remunerazioni concrete esistenti, bisogna rimanere aperti a un reale atteggiamento di impegno a migliorare le condizioni sia economiche che sociali dei lavoratori. Il loro comfort e benessere sarà sempre un fattore positivo per il benessere e il comfort del malato e del bisognoso.

5.3.3.7. Motivazione. La motivazione di un lavoratore dipenderà dal grado di soddisfazione delle sue necessità fondamentali e dalla percezione delle attrattive che un’impresa o un’organizzazione offrono per consentire lo sviluppo delle sue capacità umane e professionali.

La motivazione del personale è uno strumento fondamentale per conseguire uno degli obiettivi di tutta l’organizzazione cioè lo sviluppo umano e professionale dei lavoratori.

Hanno una fondamentale incidenza sul grado di soddisfazione e motivazione nel lavoro i sistemi retributivi (salari, incentivi, premi, ecc.), le condizioni di lavoro (ambiente, sicurezza, clima, lavoro in équipe, ecc.) e gli stimoli individuali (sicurezza, stabilità nell’impiego, considerazione, realizzazione, ecc.). Si devono, quindi, realizzare gli sforzi necessari per conseguire un adeguato livello di queste tre aree fondamentali che soddisfano le necessità dei lavoratori.

Come strumento di motivazione, l’Ordine pone particolare attenzione alla promozione personale. Si tratta di un campo specifico di intervento degli organi dirigenti e in modo speciale di gestione delle risorse umane. Si deve ottenere che le persone possano intravedere una aspettativa di futuro a livello professionale e vocazionale nei nostri Centri. Per questo si dovranno individuare gli strumenti più idonei: per qualcuno sarà la formazione, per altri la ricerca, per altri ancora l’insegnamento, ecc.

5.3.3.8. Convergenza di valori tra tutti coloro che costituiscono il Centro. Una delle caratteristiche della nostra società é il pluralismo; possiamo dire che l’epoca di predominio da parte di una cultura su di un’altra volge al termine. Ormai da tempo in molte delle nostre opere si stanno realizzando forme di gestione, di direzione, di assistenza che cercano di raggruppare e integrare questa realtà multiculturale.

E’ urgente continuare lungo questa strada, che tutti ci impegniamo in questo progetto di riunificare gli sforzi e le culture, essendo capaci di integrare i diversi elementi culturali contemporaneamente presenti nei nostri Centri.Ogni progetto di convergenza comporta che si trovi una unione: i valori non si conseguono per imposizione. Probabilmente sarà necessario stabilire alcuni minimi che non possono essere modificati. Ma a partire da questi bisogna lavorare per conseguire una cultura con alcuni valori specifici, promossi e assunti da tutti.

Nella misura in cui i collaboratori dispongono di spazi per esprimere le proprie idee, i propri valori, si staranno impegnando nel conseguimento di un progetto condiviso. E’ altrettanto necessario che possano sentirsi responsabili su temi, aree e spazi che vengono loro delegati.

5.3.3.9.Creare una cultura di appartenenza al Centro, alla Provincia, all’Ordine. Le indagini attuali delle scienze amministrative hanno evidenziato l’importanza che per le istituzioni ha lo sviluppo di una “cultura organizzativa” coerente con la sua missione ed i suoi valori. L’Ordine Ospedaliero come istituzione ha sviluppato un proprio modello su questa linea sin dalla sua fondazione.0

Forse in passato, abbiamo mantenuto alcune attitudini paternalistiche, protettive nei confronti dei lavoratori come riflesso incosciente di un’attitudine difensiva di ciò che è nostro e, in particolare, della nostra cultura. Senza perdere tutti i valori che questa cultura ha, dobbiamo superare tale attitudine difensiva e uno strumento adeguato per farlo é la costituzione di un gruppo di persone professionalmente qualificate che sappia dirigere e orientare la realizzazione di una cultura comune.

Elemento ineludibile di questo processo, sarà il rispetto e la applicazione della legislazione sul lavoro vigente, in modo speciale la sicurezza sul lavoro e la salute del lavoratore, elemento dinamizzante, la difesa dei diritti dei lavoratori.

La soddisfazione personale, la gratificazione per il lavoro ben realizzato, il sollievo che si ottiene a vedere che gli obiettivi si stanno raggiungendo, insomma la serenità, la pace interiore che inonda la persona quando si sente realizzata nella sua professione, quando vede che con quello che fa, insieme ai suoi colleghi, sta contribuendo alla costruzione del nostro mondo, a una migliore sanità, a migliori servizi sociali. Tutte queste sono realtà che dobbiamo potenziare.

Un richiamo va fatto per evitare che vi siano tra di noi situazioni lavorative che siano di ostacolo per la integrazione dei professionisti. E’ certo che con il passar del tempo le persone si stabilizzano perdendo gli stimoli iniziali. Sarà responsabilità della direzione vegliare e animare le persone perché questa situazione non si verifichi e, in casi estremi, possano esser presi le conseguenti decisioni.

Ebbene, un’opera in cui non vi siano alcune garanzie di stabilità non sarà mai uno spazio adeguato per invitare i collaboratori a impegnarsi in un progetto congiunto.

L’Ordine mantiene l’appoggio e la difesa dei lavoratori in caso di intervento giudiziario, salvo in casi di manifesta negligenza professionale. Dinanzi alle denunzie, che sfortunatamente arrivano ai Centri, si richiede un principio di onestà sulla prassi istituzionale e un manifesto sostegno alle persone coinvolte.

In egual modo, se vogliamo realizzare la cultura propria delle nostre opere, sarà necessario creare forme specifiche di attuazione nei momenti di difficoltà e tensione che si possono verificare nei rapporti di lavoro. Anche nella conflittualità può esservi una forma specifica di impegno per trovare la soluzione.

5.3.4. Politica economica e finanziaria

5.3.4.1. Enti senza fine di lucro. L’Istituzione é stata definita sempre come “ente senza fine di lucro”, cioè che non ha come obiettivo di accumulare ricchezza.

I mezzi che si possono ottenere verranno destinati al proprio centro perché in ogni momento le sue attrezzature, le sue équipes, i suoi metodi di lavoro, siano coerenti e adeguati alla sua ubicazione e classificazione territoriale.

5.3.4.2. Carattere benefico e sociale. L’origine dell’Istituzione sta nella beneficenza, nella generosa collaborazione di varie persone perché l’opera realizzi la sua missione. Sarà bene che promuoviamo questa dimensione di carità cristiana per continuare con l’iniziativa originale dell’Istituzione.

E’ arrivato il momento di dare una dimensione più universale alla nostra solidarietà. Nel nostro mondo le diseguaglianze si vanno accentuando e le differenze sono ogni volta più grandi. Questa dimensione benefico-sociale delle nostre opere, potrebbe trovare uno spazio attuale di collaborazione tra i Centri o tra i paesi nel campo della salute o delle necessità sociali.

5.3.4.3. Equilibrio finanziario. L’arte della gestione é l’arte dell’assegnare risorse alle differenti necessità. Nel caso dei Centri é l’assegnazione di risorse alle diverse attività che si realizzano in quella data struttura.

Si dovrà decidere sull’assegnazione a ciascuna delle parti però garantendo il futuro del Centro o, ciò che é lo stesso, il suo equilibrio finanziario.

Se per una scorretta ripartizione delle risorse, poniamo il Centro in condizione di insussistenza economica, stiamo mettendo in pericolo il futuro dell’opera e di tutte le persone che ne fanno parte.

5.3.4.4. Trasparenza di gestione. Se l’insieme di valori che vogliamo promuovere nelle nostre opere e che danno senso alla nostra missione giungono a termine, non vi sarà nessun inconveniente a far conoscere ai professionisti, agli utenti, alla società e alla pubblica amministrazione la realtà dei nostri Centri.

La ragione si trova proprio nella trasparenza della nostra gestione: se i principi sono chiari e se intendiamo metterli in pratica, vi é un motivo in più per farli conoscere.

La quantificazione numerica del centro (attività, ricavi, spese, risultati, investimenti, disponibilità finanziarie) non é che una parte di tutta la sua realtà e pertanto può essere anch’essa conosciuta.

Un modo adeguato per far conoscere la realtà dei nostri centri, favorire la trasparenza e stimolare la corresponsabilità, potrebbe essere la pubblicazione di una memoria annuale delle attività in ogni centro.

5.3.5. Responsabilità sociale

5.3.5.1. Servizio alla società come elemento legittimante le opere. Ogni Istituzione, ogni opera, corre il rischio di chiudersi in se stessa e di entrare in una dinamica di legittimazione della sua esistenza ai margini della realtà.

Non é raro vedere enti che in questo isolamento stanno progettando un’opera che non é necessaria o che nessuno ha chiesto. Non deve esser così nelle nostre. La loro ragion d’essere sta nel servizio che offrono e, quindi, devono rimanere aperte ai mutamenti e all’evoluzione per essere attuali nel servizio.

Lungo questa direttrice le Costituzione specificano che noi siamo amministratori dei beni e non proprietari, con la missione specifica di garantire una corretta utilizzazione delle risorse nelle opere.

5.3.5.2. Rispetto e applicazione della legge. Nella nostra volontà di dare un apporto specifico alla società é imprescindibile che sia garantito il rispetto e la applicazione della legge.

Se intendiamo la legge come il minimo comune che regola tutti coloro che costituiamo la società é necessario che ci distinguiamo nell’allocazione di questo minimo comune denominatore. Ma non possiamo limitarci ad applicare questo minimo comune; nella misura delle nostre possibilità dobbiamo superarlo tentando di promuovere i nostri principi al di sopra di ciò che propone la legge.

Una situazione particolare si verifica quando la legge può esser contraria alla identità e ai valori che l’Istituzione promuove. In questo caso, riconoscendoci nel pluralismo che cerchiamo di promuovere nella nostra società ci appelliamo all’obiezione di coscienza per ciò che riguarda l’applicazione della legge nella nostra opera.

5.3.5.3. Impegno di giustizia sociale nella distribuzione delle risorse. Non é facile nella nostra società garantire un’equa distribuzione delle risorse. I gruppi di pressione da un lato e le grandi diseguaglianze dall’altro, possono far pendere il bilancio in modo poco equo.

Sarà necessario fare uno sforzo di gestione e di educazione ai valori perché non vi sia sempre la legge del più forte. Dovremo tenere presenti le diverse realtà con l’intento di una giusta ripartizione delle risorse.

In modo speciale bisogna stare attenti alla dimensione universale delle nostre vite e delle nostre opere. Dobbiamo ammettere che vi sono segni di ingiustizia nella distribuzione mondiale delle risorse: non ci rendiamo anche noi partecipi di questa ingiusta distribuzione. Vogliamo lavorare per un’azione solidale, partendo da un missione universale e da una universale visione dei problemi.

Questo deve costituire uno spazio per applicare la dottrina sociale della chiesa e nella misura in cui la sviluppiamo, la promuoviamo. E potremo contribuire a far sì che in modo pratico tale dottrina si vada estendendo, come un compendio dei valori della nostra società.

5.3.5.4. Funzione di denunzia nelle situazioni che lo richiedono. Diamo il contributo della nostra riflessione e dei nostri suggerimenti a quelle situazioni che vediamo chiaramente, essere deficitarie.

Nella nostra denunzia non ci limitiamo a lamentarci; oltre a evidenziare le deficienze diamo suggerimenti e orientamenti.

Se siamo capaci di dare soluzioni concrete e poi riusciamo a realizzarle, la nostra funzione di denunzia avrà raggiunto la sua massima espressione.

5.3.6. Presenza della società nel Centro

5.3.6.1. Gli utenti. Associazioni di malati e familiari. Tradizionalmente l’ “utente” del servizio sanitario e sociale lo abbiamo chiamato paziente ma é arrivato un tempo in cui desidera essere attivo ed é bene che assuma questo ruolo.

Due tipi di associazioni di pazienti sono presenti attualmente:

- le associazioni generiche di malati con un intento rivendicativo importante e frequentemente con una certa predisposizione a far uso delle vie legali;

- le associazioni specifiche intorno a una data malattia, in genere patologie croniche o molto gravi.

Entrambe devono avere uno spazio nei nostri Centri.

Le prime é molto probabile che si presentino con una querela o una qualche rivendicazione. Sarà nostro compito dar loro uno spazio di espressione in cui possano sentirsi interlocutori sociali validi perché in modo costante possano collaborare con il nostro modo di lavorare e noi possiamo farle partecipi del lavoro che stiamo realizzando.

Le seconde devono trovare nei Centri un sostegno privilegiato, in modo particolari ai loro inizi. Nella nostra dinamica sociale, solo un raggruppamento di persone può permettere di raggiungere certe mete e, in molti casi, é difficile costituire un gruppo iniziale. Il Centro é sempre una piattaforma che consente di superare queste difficoltà iniziali.

In entrambi i casi, il dialogo e le posizioni aperte permetteranno che le parti – Centro e Associazione – siano a conoscenza della situazione che si vive, delle possibilità, dei limiti e anche degli errori.

Purtroppo non riusciremo a evitare la dinamica della querela o della chiamata in giudizio -in molti casi con l’unico fine di lucro- ma possiamo trovare forme diverse di relazione che si basino sulla reciproca fiducia.

Il realizzare servizi di relazione col pubblico che mediante l’applicazione di diverse modalità possa esprimere la sua opinione é una via particolarmente idonea per attivare la presenza del cittadino all’interno delle opere.

5.3.6.2. I lavoratori. I lavoratori hanno alcuni organismi rappresentativi, riconosciuti dalla legge, mediante i quali si dovrà articolare il rapporto collaboratore-Istituzione.

Quindi nella misura in cui consideriamo che l’Istituzione é una realtà costruita e condivisa tra tutti sarà bene che si articolino modalità, forme e stili di legame che senza trascurare il precedente presupposto diano spazio a questo nuovo progetto che cerchiamo di fare in ogni opera di San Giovanni di Dio.

Per alcuni il legame sarà nell’ambito della relazione lavorativa in modo esclusivo. Questi troveranno la via di collegamento nel quadro del riferimento legislativo.

Altri si sentiranno motivati da una risposta vocazionale che superi quella professionale. Sarà bene che questi stabiliscano vie formali e informali perché possano far crescere il proprio impegno di solidarietà col malato e col bisognoso.

Infine alcuni vedranno la propria presenza all’interno dell’opera come espressione del proprio impegno di fede. Anche questi dovranno disporre di uno spazio in cui poter esprimere in gruppo ciò che li motiva nella loro vita a servire il malato e il bisognoso ad esser presenti in un’opera di San Giovanni di Dio.

Fatto salvo il primo presupposto che viene definito dal dettato legislativo, le altre situazioni, che dovranno essere realizzate da ogni singolo centro, sarà il modo più sicuro di esprimere questo legame che si attua nelle opere di San Giovanni di Dio.

5.3.6.3. I benefattori. Essi permisero al nostro Fondatore di portare avanti la sua opera; furono capaci di assolvere a tutti gli infiniti impegni che San Giovanni di Dio andava assumendo nei confronti dei malati e dei bisognosi.

Nel corso dei secoli essi hanno seguito e sostenuto la nostra opera; in alcuni paesi più e in altri meno. Ma fino alla costituzione dello stato sociale la maggior parte delle nostre opere é vissuta grazie alle generose donazioni di persone che hanno posto la propria fiducia nell’Ordine Ospedaliero e nel servizio all’uomo da questo compiuto.

Oggi la maggior parte dei Centri non dipende dalle loro elargizioni economiche come una volta, ma ancor oggi tutto ciò continua ed é fondamentale per ciò che riguarda l’ambito della solidarietà e della carità. Il principio persiste ed é quello dell’uomo che decide di esser solidale con un altro uomo facendolo attraverso l’Ordine Ospedaliero.

La forma potrà cambiare; di fatto é cambiata e continuerà a cambiare. Ma sta a noi la responsabilità di rendere effettiva questa solidarietà nel modo più equo possibile e, se é possibile, anche aumentarla.

Forse é arrivato il momento in cui in ossequio a una maggior efficacia della solidarietà dobbiamo dare ad essa un carattere più collettivo che ci permetta di aiutare di più dove maggiori sono le necessità.

Senza dubbio si tratta di un tema aperto alla riflessione, al dibattito e alla creatività mirata a individuare nuove vie per ottenere fondi e nuovi modi per rendere più efficace quest’opera di solidarietà.

Questo é stato ed é un tema molto radicato nella cultura di molte opere e anche di molte provincie ed é un impegno di tutti far sì che sia promosso. Probabilmente i nuovi mezzi di comunicazione saranno una via da valorizzare per questo lavoro, soprattutto con l’obiettivo di potenziare il legame di queste persone con l’opera.

5.3.6.4. I volontari. L’Ordine ha saputo sempre muoversi nel mondo della collaborazione altruista in alcuni casi come espressione di solidarietà e in altri come espressione di carità cristiana.

Il nostro fondatore poté mandare avanti la sua opera grazie alla generosa collaborazione di molte persone; alcune con il loro contributo economico, benefattori, altre con il loro lavoro gratuito e i loro sforzi, volontari.

L’Ordine ha saputo dare una risposta ai nuovi movimenti del volontariato. In alcuni paesi é stato addirittura pioniere dell’incorporazione dei movimenti di volontariato all’interno dei Centri. Tuttavia bisogna essere costantemente aggiornati e pronti all’adattamento per non rimanere attaccati a idee e strutture sorpassate.

Ogni Centro é differente e dovrebbe promuovere una creatività e una originalità nel suo volontariato. La diversità, in questo caso, sarà una prova di ricchezza.

Il processo di orientamento e selezione dei candidati, il profilo del volontario, la sua missione nel centro, il tempo che vi dedica, la formazione di cui ha bisogno, ecc. sono temi da discutere nell’Ordine, in ogni Centro.

Ugualmente, forse, é giunto il momento in cui le associazioni di volontari e i loro membri abbiano la possibilità di indirizzare le loro osservazioni agli organi di governo del Centro. Essi possono cogliere una realtà diversa da quella che si ritiene al Centro. Sarebbe bene che si potesse conoscere tale visione attraverso uno strumento appropriato.

5.3.6.5. La chiesa locale. Siamo una Istituzione esente dall’Ordinario del luogo. Questo é un punto di partenza che dovremmo tener presente ma é altrettanto certo che, se l’Ordine vuole avere una presenza significativa nel secolo che viene, deve farlo con un lavoro congiunto e coordinato con la Chiesa.

Se come Chiesa siamo il popolo di Dio e tutti siamo chiamati a far parte di questo popolo, dovremo riflettere a come realizzare questa azione di popolo di Dio. Il luogo dove più facilmente si può realizzare questa articolazione é nella diocesi e nella comunità parrocchiale.

Forse manca ancora molto perché possiamo cooperare allo stesso progetto pastori, religiosi e laici.

Non si tratta di rinunziare alle rispettive identità né di rinunziare ai progetti pastorali; ognuno dal suo posto, deve lavorare per costruire un progetto pastorale comune. In caso contrario o non sarà comune o non sarà progetto.

5.3.6.6. La pubblica amministrazione. Le nostre opere hanno un orientamento pubblico nella loro attività ed in molti casi si é fatto in modo che siano inserite nei servizi sanitari o sociali pubblici.

Questa situazione necessita un livello di relazione con la pubblica amministrazione molto fluido che ci permetta di essere informati sulla realtà del presente, sui progetti e i piani per il futuro e che ci permetta di poter informare sulla nostra situazione e le nostre proiezioni.

Bisogna continuare a percorrere questo cammino di relazione e connessione con la pubblica amministrazione. Da parte nostra questo esigerà onestà, chiarezza e trasparenza. Onestà come espressione di coerenza con i principi che difendiamo; chiarezza nella nostra posizione e nelle nostre pretese; infine trasparenza nei nostri criteri nel momento di applicare le risorse che riceviamo.

In tutto ciò che si riferisce alle relazioni istituzionali l’Ordine deve riflettere sul ruolo che deve occupare. Due sono i rischi estremi: il rimanere intrappolati in queste relazioni e per la dinamica che comportano lasciare che si diluisca, nel tempo, l’essenza della nostra identità; o l’allontanarci dalle stesse e lasciare che sia il Centro e il suo progetto assistenziale a diluirsi trovandosi disconnesso dalla realtà.

Una cosa é evidente, che l’intrattenere queste relazioni istituzionali esige una formazione professionale, umana e religiosa sufficientemente grande. In caso contrario la nostra presenza sarà controproducente; una volta di più si mette in evidenza che se vogliamo dire qualcosa dobbiamo dirlo con un linguaggio consono alla nostra società.

5.3.7. Verifica

Se vogliamo esser fedeli alla missione che si va progressivamente attualizzando e ricreando, ne consegue che periodicamente dobbiamo osservare in quale misura stiamo realizzando i nostri piani.

Dovremo valutare come stiamo applicando nella gestione, nella direzione e nella assistenza i principi filosofici dell’Ordine e i suoi criteri generali.

5.3.7.1. Attenzione ai segni dei tempi. La nostra società é una realtà molto dinamica. La scienza é in costante evoluzione e ogni giorno appaiono nuovi metodi di lavoro, nuove tecniche professionali e nuovi strumenti tecnici.

Un messaggio, un principio filosofico é attuale nella misura in cui si trasmette con mezzi, metodi e tecniche del momento. In caso contrario la nostra proposta può risolversi in un discorso inutile.

In questo processo sarà necessario valutare la idoneità dei mezzi che la società ci fornisce poiché può accadere che volendo ottenere una maggiore efficacia ci serviamo di strumenti che sono contrari alla filosofia dell’Istituzione.

5.3.7.2. Risposta alle necessità dell’uomo e della società. In questa evoluzione costante della società, anche l’uomo sta cambiando anche se non siamo in grado di distinguere se é il cambiamento della società a trascinare l’uomo o se é il cambiamento dell’uomo che conduce al mutamento della società.

Quel che é certo é che in questo comune cambiamento stanno comparendo:

- nuove infermità alle quali é necessario far fronte;

- nuovi atteggiamenti della persona di fronte alla malattia che esigono nuovi modi di prestare assistenza;

- nuovi problemi nella famiglia che dobbiamo saper affrontare, appoggiare, illuminare ed accompagnare;

- nuovi bisogni che esigono creatività e solidarietà da parte nostra se vogliamo dare una risposta coerente;

- nuove forme di egoismo che ci interpellano per trovare nuove forme di risposte di solidarietà a livello istituzionale.

Rispondere alle necessità della persona con i mezzi e le forme attuali, mantenendo lo stile e i valori dell’Ordine significa essere fedeli alla Nuova Ospitalità come sintesi del nostro progetto apostolico.

Per la riflessione:

1) Identifica successi e difficoltà “nell’applicazione a situazioni concrete” quali si presentano nei nostri Centri e nelle nostre Comunità nei seguenti ambiti:

· assistenza integrale e diritti del malato

· problemi specifici della nostra azione assistenziale

· gestione e direzione

2) Definisci le priorità che si pongono per l’Ordine in base all’analisi fatta al punto precedente nei seguenti ambiti:

· assistenza integrale e diritti del malato

· problemi specifici della nostra azione assistenziale

· gestione e direzione

NOTE DEL QUINTO CAPITOLO

(1) Alcuni preferiscono il termine privacy che costituisce un insieme più ampio, più globale, di aspetti della personalità che considerati isolatamente possono esser carenti di significato intrinseco ma che legati coerentemente tra loro riflettono un ritratto della personalità dell’individuo che questi ha il diritto di custodire riservatamente.

(2) Concilio Vaticano II, Gaudium et Spes (GS), 16.

(3) Giovanni Paolo II, Evangelium Vitae (EV), 44.

(4) Sacra Congregazione per la dottrina della fede, Donum Vitae, 22 febbraio 1987, # 2.

(5) Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Carta degli Operatori Sanitari, città del vaticano, 1995, #142.

(6) Ibid, 21.

(7) Ibid, 87

(8) Ibid, 129.

(9) Ibid, 146.

(10) Cfr. EV 57.

(11) Sacra Congregazione per la dottrina della fede, Dichiarazione sull’eutanasia, 5 maggio 1980, p. 549. Cf.

(12) Cfr. Carta degli Operatori Sanitari, 119-120.

(13) Cfr. EV 65.

(14) Cfr. Codice di Norimberga, Dichiarazione di Helsinki, Dichiarazione di Ginevra, Good Clinical Practice, ecc.. Oltre ai criteri del Magistero, vedi anche la Carta degli Operatori Sanitari, 75-82.

(15) Cfr. EV 63.

(16) Cfr. Pierluigi Marchesi, L’Ospitalità dei Fatebenefratelli verso il 2000, , Roma 1986, Appendice III

* – - – *

6.

FORMAZIONE, INSEGNAMENTO E RICERCA

6.1. Formazione

6.1.1. Formazione tecnica, umana, carismatica

Oltre a quanto detto negli capitoli del presente documento, vogliamo sottolineare qui alcuni aspetti specifici relativi alla responsabilità di formarsi che hanno i membri dell’Ordine e i Collaboratori. Non insisteremo sulla necessità di formazione umana, intesa come quella che si orienta a promuovere la conoscenza di sé e ad approfondire le modalità di relazionarsi con la persona e la società, imprescindibile per poter essere agenti di umanizzazione nelle opere dell’Ordine.

Alcune caratteristiche del nostro tempo sono determinate dalla velocità del progresso delle scienze, in generale, e della biomedicina, in particolare; dalla velocità e facilità delle comunicazioni; dalla globalizzazione dei problemi; dalla mentalità scientifico-tecnica in riferimento alla visione della realtà e alla concezione dell’uomo -riduzionismo scientifico- dal fondamentalismo religioso –riduzionismo spiritualista-; e dalla constatazione che l’unico criterio etico che possiamo considerare globalmente condiviso, per lo meno sul piano teorico, è il rispetto della dignità della persona che esige che la persona non sia strumentalizzata come mezzo per un fine, per elevato che sia o possa apparire. Questo fatto che non è nuovo, riveste un’importanza particolare nelle relazioni degli operatori sanitari con la persona malata.

A partire dagli anni 70 abbiamo in effetti assistito ad una profonda trasformazione del rapporto medico-paziente come non si era mai visto negli ultimi secoli. Il fulcro di questa trasformazione è stata la presa di coscienza che il paziente capace deve essere riconosciuto come soggetto morale autonomo nelle decisioni che riguardano la salute. L’informazione corretta del paziente passa così in primo piano. Inoltre il ruolo del medico nell’assistenza ha perso, perlomeno nel mondo occidentale, la sua funzione esclusiva e preponderante. Oggi dobbiamo parlare di rapporto tra équipe assistenziale, paziente ed ambiente sociale. Il carattere ambiguo, in quanto a progresso umano, di talune tecnologie che, anche se impiegate con la massima correttezza, presentano tremendi conflitti tra valori vitali e valori spirituali, e la crescente importanza degli infermieri nei reparti e dei tecnici di laboratorio nei processi diagnostici esigono una formazione molto più rigorosa che in altri tempi. Sia negli ospedali che nei servizi di assistenza primaria e/o centri sociosanitari il livello dell’assistenza integrale dipende in maniera determinante dal grado di formazione degli operatori sanitari.

La formazione tecnica e professionale da un lato, e la formazione umana ed etica dall’altro, devono camminare parallele nel quadro della formazione permanente. Ci saranno momenti in cui si dovrà privilegiare il primo aspetto, mentre in altri si dovrà dare una speciale enfasi al secondo, il tutto a favore di un aggiornamento continuo delle conoscenze che rendono possibile una corretta assistenza sanitaria integrale secondo criteri attuali.

Ogni centro deve impegnarsi a promuovere programmi di formazione a tutti i livelli prevedendo le necessarie risorse economiche nei preventivi.

Mentre l’attualizzazione delle conoscenze scientifiche e tecniche non richiederà, in generale, uno sforzo di motivazione eccessivo, nell’altro caso è necessario una motivazione in più per formarsi nella filosofia assistenziale e nei criteri carismatici dell’Ordine. Questo tipo di formazione deve essere occasione per accrescere il senso di appartenenza e uno strumento per attualizzare i valori che improntano la cultura e l’identità dell’Ordine e deve esser promossa dalla direzione dei Centri, pienamente integrata nel piano di formazione del Centro stesso.

E’ importante che una persona, nella misura del possibile, stia al passo con i programmi e le esperienze che si stanno realizzando nelle diverse regioni del globo per vedere se si possono adeguare al proprio luogo e centro. Dato che formatori capaci di comprendere la problematica sanitaria e di destreggiarsi, allo stesso tempo, con dominio pedagogico negli ambiti del pensiero contemporaneo filosofico, teologico, pastorale e spirituale, sono un bene raro, ci si dovrà sforzare di costituire équipes e di potenziare le qualità di diversi soggetti in ordine a elaborare un programma comune. Questo programma dovrà essere realistico, efficace ed efficiente. I comitati di etica potrebbero espletare perfettamente questa funzione.

Oggi che la Chiesa vive con particolare forza la necessità del ‘dialogo interreligioso’ affinché, seguendo il Vaticano II, si “riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socioculturali che si trovano in altre religioni per collaborare alla ricerca di un mondo di pace, libertà, giustizia e valori morali”(1), appare imprescindibile offrire, oltre alla necessaria formazione professionale e tecnica, una solida formazione nel carisma dell’Ordine, in filosofia e teologia, centrata in maniera speciale nella persona e nel mistero di Gesù Cristo.

Le grandi correnti del pensiero filosofico(2) e teologico devono fungere da pilastri fondamentali nella formazione, nella quale il carisma dell’Ordine e la sua profonda conoscenza devono ispirare gli atteggiamenti e i comportamenti a favore dei poveri e bisognosi.

In questo modo saremo in grado di stabilire il quadruplo dialogo necessario in un mondo di pluralismo religioso (3):

· dialogo di vita, in cui le persone si sforzano di vivere in uno spirito di apertura e di buon vicinato condividendo le loro gioie e sofferenze e problemi e preoccupazioni umane;

· dialogo d’azione, in cui cristiani ed altri s’impegnano a collaborare per lo sviluppo integrale e la libertà delle persone;

· dialogo d’esperienza religiosa, in cui le persone, radicate nelle proprie tradizioni religiose, condividono le loro ricchezze spirituali per quanto riguarda la preghiera e la contemplazione, la fede e i cammini di ricerca di Dio e dell’Assoluto;

· dialogo d’interscambio teologico, in cui gli esperti si sforzano di comprendere più profondamente le rispettive eredità religiose apprezzandone i rispettivi valori spirituali.

6.1.2. I Comitati di Etica quali strumenti di formazione

Anche se questo tema è stato già trattato nel quinto capitolo del presente documento, vogliamo riproporlo qui nella prospettiva della ricerca e della formazione.

Nel campo della clinica, la parola bioetica è correlata al concetto del dialogo interdisciplinare come metodologia di lavoro e, a partire dal 1978, ai principi comuni della bioetica contemporanea: autonomia, beneficio/non nocività e giustizia. Questi principi, basati sul paradigma antropologico del personalismo di ispirazione cristiana, altro non sono che la traduzione del principio del rispetto per la dignità della persona, del servizio al bene del paziente integralmente considerato e della solidarietà.

La necessità di garantire la protezione dei soggetti umani partecipanti ad una sperimentazione o ad una ricerca clinica e la rilevanza e correttezza scientifica del protocollo di ricerca dettero origine all’istituzionalizzazione di comitati appositamente incaricati di svolgere queste funzioni. Sono i Comitati Etici di Ricerca Clinica e i Comitati di Bioetica. I termini corrispondenti nella letteratura americana sono Institutional Review Boards e Institutional Ethics Committee. Questi ultimi sono denominati anche Clinical Ethics Committees.

I Comitati Etici di Ricerca Clinica si diversificano per composizione, funzionamento e riconoscimento legale a seconda dei paesi. In ogni caso devono rispettare e vigilare, affinché siano messe in pratica le cosiddette Norme della Buona Pratica Clinica. Le decisioni di questi comitati sono giuridicamente vincolanti. I membri dei Comitati Etici di Ricerca Clinica devono essere qualificati per esaminare progetti di ricerca, valutando innanzitutto se si dispongono di sufficienti dati scientifici, test farmacologici e tossicologici su animali che garantiscono che i rischi che corrono le persone implicate nella sperimentazione proposta, siano ammissibili, e che le persone interessate siano state correttamente informate e partecipino alla sperimentazione liberamente. Altri aspetti da considerare sono: soppesare se il problema che si intende indagare sia importante o banale; se il progetto sperimentale proposto sia adeguato agli obiettivi previsti; se esista un’assicurazione che copre i danni che come conseguenza della sperimentazione potrebbero derivare per le persone soggette alla stessa.

Non ci sono dubbi che la partecipazione a questi comitati riveste un grande valore pedagogico e di arricchimento. Dove il dialogo bioetico negli ospedali assume in ogni caso una importante funzione pedagogica, è la discussione di casi concreti nei comitati di etica assistenziale. Questi comitati, per la loro composizione interdisciplinare, per la loro metodologia di informazione-formazione, per il rispetto reciproco, per l’importanza dei casi da discutere, per la necessità di individuare soluzioni rispetto ai conflitti di valori che si pongono e di normare, in qualche modo, la condotta in casi simili, sono in se stessi formativi.

La funzione docente è molto importante. In primo luogo, “locus” di formazione degli stessi membri del comitato. Secondaria, ma non meno importante, è la programmazione dell’insegnamento bioetico nella Provincia, nei Centri, e la sua realizzazione. Il dialogo interdisciplinare come metodologia di lavoro è necessario. Generalmente, la presa delle decisioni deve avvenire per consenso etico e non meramente strategico. I consultori di casi concreti –medici, infermieri, psicologi…- devono essere membri “ad hoc” nelle deliberazioni del comitato, affinché le decisioni abbiano la forza del vincolo morale. La composizione dei comitati potrà variare a seconda del tipo di ospedale o centro residenziale e/o sociosanitario.

In ultima istanza, i comitati di etica assistenziale rappresentano qualcosa di antico come la consultazione collegiale e qualcosa di relativamente recente come il riconoscimento dell’équipe di salute ed una medicina orientata al paziente considerato come agente morale autonomo che non perde i suoi diritti per il fatto di essere ospedalizzato. I comitati che funzionano correttamente possono essere strumenti efficaci per definire la “lex artis” dell’ospedale con le relative implicazioni giuridiche.

I comitati devono stabilire qual è il sistema di valori di riferimento in caso di conflitto: ispirazione cristiana; diritti umani; codici deontologici professionali in ambito nazionale o internazionale, ecc. Il comitato di etica assistenziale deve passare l’esame di coerenza nelle sue decisioni.

E’ imprescindibile assicurare la funzionalità dei comitati attraverso una serie di misure, tra cui ha una particolare importanza il comitato per la soluzione di casi urgenti.

A questo punto desideriamo precisare alcuni aspetti. Riteniamo importante, in primo luogo, analizzare le premesse necessarie per affrontare correttamente la decisione etica: a) storia clinica corretta; b) competenza professionale per la discussione scientifica del caso clinico; c) controllo di qualità.

Stabiliti il problema clinico e le alternative possibili di trattamento, si passa a considerare le dimensioni etiche riguardanti i problemi collegati alla qualità di vita, dalla prospettiva professionale e dalla prospettiva del paziente e della sua famiglia, i cui sistemi di valori devono essere rispettati. I fattori non clinici, in particolare quelli economico-sociali, devono trovare una speciale considerazione in una medicina che vuole essere integrale.

Il consenso da parte di terzi, per l’incapacità del paziente, presenta problemi di difficile soluzione in neonatología, psichiatria, pazienti comatosi, disabili mentali ecc. In questi casi, in cui sovente si può parlare di problematica limite, si rivela in tutta la sua utilità la funzione dei comitati di etica assistenziale al servizio di una medicina di qualità scientifico-tecnica ed umana.

La formazione per la soluzione di conflitti nella ricerca e nella clinica richiede come elementi fondamentali: 1) capacità e competenza professionale per comprendere il problema posto dalla prospettiva in cui una persona lavora; 2) aver meditato sul proprio atteggiamento etico ed un minimo di fondamento razionale dello stesso. A questo proposito si deve distinguere tra il fatto in se stesso (atteggiamento coerente nella vita tra essere e agire) e la possibilità di concettualizzazione. Questa dev’essere sorretta da un programma di formazione in antropologia e etica filosofica e/o teologica. 3) Metodologia per la soluzione di conflitti in un clima di dialogo che non escluda il confronto.

Qui facciamo riferimento soltanto al paragrafo precedente. Non c’è dubbio che i principi bioetici precedentemente pronunciati sono strumenti pedagogici che si rivelano utili nei dialoghi dei comitati di etica assistenziale. La soluzione dei problemi può essere affrontata dal punto di vista della discussione di principi che entrano in conflitto o della loro gerarchia in un caso concreto (per esempio priorità del principio di autonomia o del principio di beneficità/giovamento) o dell’analisi casistica. Consideriamo che questa sia la più adeguata nella discussione di casi clinici.

6.2. Insegnamento

6.2.1. L’insegnamento, una costante nell’Ordine

L’insegnamento nell’Ordine affonda le sue radici nello stesso Fondatore San Giovanni di Dio, che prima di insegnare, si è fatto insegnare l’arte del guarire a Guadalupe, famosa in tutta Spagna come centro di formazione dal XV secolo, come dimostra il seguente detto: “Ni que hubieras andado toda tu vida a la práctica de anatomía en Guadalupe…”(‘Sembra che tu non abbia fatto altro nella vita che fare pratica di anatomia a Guadalupe’, detto di persona molto esperta).

“Guadalupe diede a Giovanni di Dio una visione allo stesso tempo scientifica e caritativa, grazie all’apporto della “Scuola” di Medicina, la cui qualità trova unanime elogio presso i ricercatori più recenti… Lì scoprì uno strumentario sconosciuto in tutti gli altri ospedali spagnoli e le lezioni teoriche e pratiche impartite ai principianti“ (4).

Il primo seguace di San Giovanni di Dio, Antón Martín, ebbe una sensibilità speciale per l’insegnamento. Nella cosiddetta Madrid de los Austrias, intorno al 1553, gli venne l’idea di creare la “Scuola dei Chirurgi minori” per il suo ospedale dell’ “Amore di Dio”, progetto che sarebbe poi stato realizzato dal suo successore Pedro Delgado (5).

“Questa Scuola di Chirurgia raggiunse un gran credito e presto vi accorsero, spinti dal desiderio di praticare nelle sue cliniche e ricevere insegnamento… persone che volevano acquisire i requisiti necessari per superare l’esame dinanzi al Tribunale dei Protomedici come chirurgi. L’Hospital de la Plaza di Antón Martín fu dunque il primo ospedale a Madrid a carattere docente e con un’organizzazione secondo specialità mediche” (6).

Man mano che l’Ordine si espanse dapprima in Spagna e poi in Europa e in America Latina, per diffondersi finalmente in tutti e cinque i continenti, non abbandonò mai la sua inquietudine per la pedagogia ospedaliera. Il suo insegnamento avvenne, per dir il vero, prevalentemente più per via verbale che per via scritta, con un linguaggio spiccatamente pratico ed accessibile a tutti. Inoltre elaborò importanti manuali in differenti specialità.

L’Ordine plasmò questa inquietudine pedagogica in diverse scuole con differenti livelli formativi che continua a promuovere e a sostenere.

6.2.2. L’insegnamento, un imperativo nell’attualità

Nel 1956, l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) ha definito l’ospedale, tra l’altro, come “centro di formazione del personale medico sanitario e di ricerca”.

A partire da questa data, tutti i paesi, nelle loro legislazioni sanitarie, contemplano l’insegnamento come un imperativo: non esiste modello assistenziale che non gli dedica ampio spazio. Insegnare ciò che si apprende giorno per giorno nella pratica e metterlo a disposizione della collettività attraverso i molteplici mezzi di cui oggi disponiamo, è un compito altrettanto importante come il curare, prevenire e indagare.

L’insegnamento si converte ogni giorno dentro le strutture assistenziali in una garanzia di qualità. Se non siamo capaci di dimostrare alla società quello che facciamo in forma di insegnamento, non possediamo la vitalità che la collettività s’aspetta da noi. Da qui l’impegno di contemplare nei preventivi annuali dei Centri una voce dedicata all’insegnamento e la volontà di concertare con enti pubblici e/o privati la messa in pratica della “vocazione docente” propria dell’Ordine sin dalle prime origini.

In vista del futuro l’insegnamento è una responsabilità di ogni Centro. Un accreditamento che legittimerà ed avallerà la nostra presenza nella società. Un elemento basico della qualità assistenziale che richiede impegno. Una missione di insegnare a tutti a pensare e a agire in maniera nuova per il bene della persona che soffre.

6.3. Ricerca

6.3.1. Trasmissione dell’ottica dell’Ordine

L’attività assistenziale, tecnica e scientifica dell’Ordine Ospedaliero ha prodotto lungo gli ultimi cinque secoli tutt’una serie di validi contributi a favore della salute e della vita. Lo stesso Giovanni di Dio iniziò la sua “avventura ospedaliera” andando a Baeza e a Guadalupe per formarsi, consigliato dal maestro Giovanni d’Avila. Sono oramai diversi gli autori che sostengono che il padre maestro, noto per la sua curiosità scientifica e sicuramente a conoscenza dell’alta qualità degli ospedali gestiti a Guadalupe dai frati di San Girolamo, vi abbia inviato Giovanni di Dio come pellegrino e apprendista ospedaliero per conoscere come funziona un ospedale (7). Di ritorno a Granada, ha poi messo in pratica il suo progetto di servizio agli infermi. In considerazione del suo alto contributo all’assistenza – organizzazione di due ospedali con metodi molto avanzati rispetto all’epoca – la storia lo riconosce difatti come Fondatore dell’ospedale moderno.

Durante il processo d’espansione dell’eredità dinamica di San Giovanni di Dio attraverso il tempo e lo spazio, i Fatebenefratelli e i loro collaboratori hanno perfezionato i suoi metodi, accumulando esperienze ed aumentando le loro conoscenze. “In termini generali si può dire che l’evoluzione dell’Ordine ha rispecchiato l’evoluzione della psichiatria e della neurologia”(8).

Sono stati i Fatebenefratelli a creare il primo ospedale per epilettici in Europa (9). Inoltre, già nei primi ospedali, integrarono l’attività di cura con attività di formazione: difatti già dal XVI secolo si ha notizia delle prime scuole per chirurgi installate negli ospedali dell’Ordine (10). A queste vanno aggiunte scuole di chimica, farmacia, medicina ed infermeria, di cui alcune create in epoca più recente e tuttora in funzione.

D’altro canto, ci sono stati religiosi Fatebenefratelli noti e meno noti che si sono distinti come medici, chirurgi, dentisti ed infermieri. Alcuni di loro sono stati veri esempi di come integrare col massimo profitto carisma dell’ospitalità e spirito scientifico e investigativo. (11)

L’Ordine Ospedaliero è un’istituzione con secoli di presenza nel mondo della salute e dei servizi sociali; per questo può e deve sostenere l’impegno continuo di migliorare l’assistenza attraverso la promozione della ricerca. Senza rinunciare ad alcun campo della ricerca, le aree più specifiche da promuovere dovrebbero essere l’assistenza integrale, l’umanizzazione, la bioetica nei suoi risvolti clinici, epidemiologici, gestionali e formativi, tanto nella medicina come nell’infermeria, la pastorale, il dialogo interreligioso nella predisposizione di servizi per i poveri e i bisognosi, i valori dell’istituzione in generale, ecc.

L’approfondimento creativo di questo documento, la qualità delle risorse umane di cui si dispone nei diversi centri e la motivazione dei collaboratori a potenziare la dimensione innovativa dell’Ordine Ospedaliero che è stato sempre un suo segno caratteristico, determineranno le linee di lavoro più opportune per giungere ad una proficua collaborazione in questo campo.

6.3.2. Promozione della ricerca in vista del terzo millennio

Il costante progresso della scienza e l’impegno degli operatori della salute, non solo nell’attività propriamente assistenziale, ma anche in quella di carattere sperimentale, rendono indispensabile oggi un’adeguata promozione della ricerca. Non c’è progresso della medicina che non sia stato preceduto da un’adeguata e notevole attività di ricerca (teorica, di laboratorio, su animali e sull’uomo). Pertanto, l’assistenza integrale al malato e bisognoso passa necessariamente attraverso queste fasi preliminari.

Anche se tradizionalmente l’attività dell’Ordine mirava prevalentemente all’assistenza diretta ai malati e bisognosi, di fronte ai nuovi sviluppi sociali e sanitari, la ricerca si presenta oggi come una premessa indispensabile che non ha bisogno di “altri” professionisti, ma che rientra a pieno titolo nelle attività che possono essere realizzate e promosse nei nostri centri.

Questo è già una realtà da diversi anni all’interno dell’Ordine con grande beneficio per i malati e grande gratificazione per i collaboratori, pienamente inseriti nei circuiti della ricerca internazionale e pertanto partecipi di quel “progresso della salute” a cui tutta la comunità scientifica è interessata.

I mezzi principali per realizzare tale attività saranno: la sperimentazione clinica, le convenzioni con istituti di ricerca, la partecipazione a programmi internazionali di ricerca, la specifica ed esclusiva qualificazione di alcuni collaboratori in questo settore.

Per una promozione più proficua della ricerca, si potranno costituire inoltre associazioni che abbiano come obiettivo fare ricerca in maniera più organica, coordinata e interdisciplinare, anche col contributo di professionisti qualificati “esterni” allo stesso centro.

Un particolare problema riguarda la destinazione dei mezzi finanziari. Non si tratta di risorse “sottratte” al malato, ma al contrario, impiegati per una sua migliore cura, anche quando non si vede immediatamente il “ritorno”, dato che a volte in un primo momento sembra che le risorse impiegate non abbiano dato i risultati sperati.

Proprio per questo l’Ordine non solo apprezza e favorisce la ricerca sperimentale nei suoi centri, ma si fa anche promotore della stessa di fronte agli enti che legittimamente la perseguono come campo istituzionale proprio. Di ciò si dovrà tener conto, sempre che la tipologia di un determinato Centro lo permetta, anche nel momento di stipulare le rispettive convenzioni con i governi che destinano alla ricerca una parte dei fondi (anche se modesta) dei propri preventivi.

Per la riflessione:

1) Quali sono i programmi di formazione, insegnamento e ricerca che esistono nel suo Centro o nella sua Provincia? Dai una valutazione della messa in pratica e della loro efficacia.

2) Quali dovrebbero essere le priorità per l’Ordine in questo campo?

· nella formazione

· nell’insegnamento

· nella ricerca

___________________________________

NOTE DEL SESTO CAPITOLO

(1) Concilio Vaticano II, Nostra Aetate, 2 s.

(2) Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Fede e Ragione, 1999, Capitolo 1.

(3) Consiglio Pontificio per il dialogo interreligioso e Congregazione per la Evangelizzazione dei popoli: Dialogo e Annuncio, BCDR (1991), 210-250.

(4) JAVIERRE, José María Juan de Dios, loco en Granada, Sígueme, Salamanca, 1996.

(5) PLUMED MORENO, C. “Jornadas Internacionales de Enfermería” San Juan de Dios. 1992.

(6) ALVAREZ SIERRA, José Antón Martín y el Madrid de los Austrias, 1961.

(7) JAVIERRE, Ibid., p. 413.

(8) RUMBAUT, Ruben D. John of God: his place in the history of Psychiatry and Medicine, 1978, edizione bilingue (Ing/Spa), p. 115.

(9) ALVAREZ SIERRA, José Influencia de San Juan de Dios y de su Orden en el progreso de la Medicina y de la Cirugía, Talleres Arges, Madrid, 1950, p. 148.

(10) RUSSOTTO, Gabriele OH. San Giovanni di Dio e il suo Ordine Ospedaliero, Roma 1969, volume secondo, p. 124.

(11) Nella succitata opera di P. Gabriele Russotto ci sono 73 pagine dedicate a Fatebenefratelli distintisi nei diversi campi della medicina. Le figure più conosciute tra i Medici e Chirurgi sono: Fra Gabriele Ferrara (Italia), Fra Alonso Pabón (Spagna), Fra Bernardo Fyrtram (Austria), Fra José Lopez de la Madera (Spagna), P. Costantino Scholz (Silesia, Austria), Fra Ambrosio Guivebille (Austria), P. Lázaro Nobel (Germania), Fra Matías del Carmen Verdugo (Cile), Fra Miguel Isla (Colombia), P. Probo Martini (Germania, Cechia, Silesia), P. Bertrando Schroder (Austria), P. Norberto Boccius (Ungheria, Cechia), P. Manuel Chaparro (Cile), P. Ludovico Perzima (Polonia), Fra Eliseo Talochon (Francia), P. Odilone Wolf (Cechia), Fra Justo Sarmiento (America), P. Fausto Gradischeg (Austria), P. Giovanni Luigi Portalupi (Italia), P. Benedetto Nappi (Italia), P. Celestino Opitz (Cechia), P. Prosdocimo Salerio (Italia), P. Celso Broglio (Italia), P. Juan de Dios Sobel (Silesia), P. Francisco de Sales Whitaker (Irlanda e Inghilterra). La lista termina con San Riccardo Pampuri.

Tra i Farmacisti e i Botanici più famosi della storia dell’Ordine ricordiamo: P. Augustin Stromayer (Cechia), P. Innocenzo Monguzzi (Italia), P. Ottavio Ferrario (Italia), P. Gallicano Bertazzi (Italia), P. Anastasio Pellicia (Italia) e P. Antonio Mattia dell’Orto (Italia).

Tra i Dentisti, i più famosi sono due: Fra Giovanni di Dio Pelizzoni (Italia) e P. Giovan Battista Orsenigo (Italia) che fu molto conosciuto a Roma.

In Colombia, Fra Miguel de Isla (XVIII secolo) fu medico, cattedratico di medicina e riformatore della Facoltà di Medicina dell’Università del Rosario. In Cile, Fra Manuel Chaparro introdusse il metodo dell’inoculazione (vaccino) –mai utilizzato prima e perfino sconosciuto in Europa- per domare una devastante epidemia di vaiolo che imperversava dal 1765 al 1772.

Da ricordare infine che nel 1821 il farmacista Fra Ottavio Ferrario scoprì il Iodoformio, anche se il merito fu attribuito a un francese che fece la stessa scoperta nello stesso anno. Sempre Fra Ferrario fu la prima persona in Italia ad estrarre nel 1822 chinina, isolando le costituenti attive della china.

* – - – *

7.

LA RETTITUDINE PERSONALE COME BASE PER L’AZIONE

7.1. La rettitudine come progetto esistenziale

7.1.1. Vivere in armonia con i valori che configurano la persona

Intendiamo per rettitudine personale la qualità morale della persona il cui agire é in armonia con i principi e i valori spirituali che professa: ”Operari sequitur esse” (l’operare segue l’essere). Questa rettitudine esige un cuore indiviso, correttezza nell’operare e fedeltà in mezzo alle prove e alle difficoltà. In ultima istanza bisogna dire che l’uomo retto é quello che vive in accordo con il comandamento dell’amore che ci ha dato Gesù: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato”.

L’unità di mente e di cuore, di coerenza tra il sentire e l’operare richiede un processo più o meno ampio di maturazione umana, psicologica e spirituale in rapporto ai vari individui, al loro grado di vocazione al servizio e di generosità nella risposta. Integrare l’azione e l’unione con Dio secondo il carisma di San Giovanni di Dio é compito di tutta la vita.

Se nel nostro agire noi tendiamo solo o prevalentemente all’utilità sociale, in vista dell’efficacia, eliminando la dimensione della testimonianza di amore a Cristo, secondo il carisma di San Giovanni di Dio, attentiamo alla nostra rettitudine come progetto esistenziale e le nostre opere non avranno la forza evangelizzatrice che devono avere. Se la persona é retta lo é per quello che é, non per quello che dice o fa.

7.1.2. L’uomo testimone della trascendenza e dell’amore

La vocazione dell’uomo é la vita divina: “Irrequietum est cor nostrum donec requiescat in Te” (il nostro cuore è inquieto fino quando riposa in Te) . La sequela di Gesù Cristo, pienezza di rivelazione di Dio, é il cammino dell’uomo verso la pienezza della sua realizzazione. La sequela di Gesù Cristo secondo lo stile di San Giovanni di Dio, identificandosi con i più poveri e bisognosi é il modello esemplare dell’Ordine Ospedaliero.

Il darsi incondizionatamente agli altri come segno dell’amore di Dio esige un certo grado di maturità umana e spirituale: l’esperienza intima di Dio, il sapersi amati da Dio e conoscere se stessi accettandosi come si é sono condizioni per conseguire il necessario grado di identità, fiducia e libertà necessari per l’apostolato. L’orazione é necessaria per vitalizzare, unificare e integrare la vita spirituale e l’attività.

L’esperienza della misericordia di Dio per noi e del suo amore incondizionato ci dà la misura della relazione che dobbiamo avere nei confronti del bisognoso, aiutandolo a costruire la sua vita, a valorizzare la sua dignità e a rivelargli la sua propria capacità di amare. L’esperienza dell’amore incondizionato aiuta le persone a scoprire la loro vocazione di figli di Dio.

Il Vangelo di Cristo nel rivelare all’essere umano la sua qualità di persona libera chiamata a entrare in comunione con Dio suscita la presa di coscienza delle profondità della libertà umana: la liberazione da ogni schiavitù, la liberazione dal peccato, la liberazione per proclamare il Vangelo, la liberazione per crescere in libertà secondo lo Spirito.

7.2. La coscienza come motore della nostra azione

“Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non é lui a darsi ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce, che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e fuggire il male, quando occorre, chiaramente dice alle orecchie del cuore: fa questo, fuggi quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al suo cuore; obbedire é la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato” (1) .

“La dignità della persona umana implica ed esige la rettitudine della coscienza morale. La coscienza morale comprende la percezione dei principi della moralità (“sinderesi”), la loro applicazione nelle circostanze di fatto mediante un discernimento pratico delle ragioni e dei beni, e infine il giudizio riguardante gli atti concreti che si devono compiere o che sono stati già compiuti. La verità sul bene morale, dichiarata dalla legge della ragione, é praticamente e concretamente riconosciuta attraverso il giudizio prudente della coscienza. Si chiama prudente l’uomo le cui scelte sono conformi a questo giudizio”(2).

“L’uomo ha il diritto di agire in coscienza e libertà per prendere personalmente le decisioni morali. L’uomo non deve essere costretto ad agire contro la sua coscienza ma non si deve neppure impedirgli di operare in conformità ad essa soprattutto in campo religioso” (3).

Nella formazione della coscienza, la Parola di Dio é la luce sul nostro cammino; la dobbiamo assimilare nella fede e nella preghiera e metterla in pratica. Dobbiamo anche esaminare la nostra coscienza rapportandoci alla croce del Signore. Siamo sorretti dai doni dello Spirito Santo, aiutati dalla testimonianza e dai consigli altrui e guidati dall’insegnamento certo della Chiesa.

La riflessione personale e comunitaria, una delle cui manifestazioni sono i Comitati di etica può apportare luce nei difficili problemi in cui i casi concreti sfuggono alla normativa etica dei pronunciamenti del Magistero. Competenza professionale, docilità e rispetto del Magistero, spirito di dialogo sono requisiti essenziali per discernere le condotte concrete in casi particolarmente conflittuali in cui é necessaria una gerarchizzazione dei valori che entrano in conflitto.

Posto che i problemi etici più importanti del diritto naturale non trovano una risposta esplicita nella Bibbia, bisogna insistere maggiormente in una fondazione convincente e razionale che non si appoggi sulla semplice autorità. Senza questa condizione sarà sempre più difficile che l’uomo di oggi, cosciente della sua autonomia e responsabilità, dia il suo assenso liberamente.

7.3. Coscienza e rettitudine morale

7.3.1. Il servizio all’uomo malato e bisognoso come “conditio sine qua non”

Il termine “servo” nella prima comunità ecclesiale formalizza e definisce la condizione del credente che, per amore, si mette a disposizione dei suoi fratelli. Tale attitudine é resa più evidente nella cura che la comunità ecclesiale mette in atto dei confronti dei malati e dei bisognosi.

In realtà già autorevoli testimonianze del passato (giuramento di Asaph, preghiera di Maimonide, ecc.) avevano sottolineato l’impegno etico di servizio dell’operatore sanitario e l’idea di stessa di mini­sterialità socio-sanitaria è comune a molti versanti ideologico-culturali. Tuttavia è nel Cristianesimo che tale idea assume un rilievo del tutto particolare per il riferimento alla ministerialità di Cristo, “diacono” del Padre per gli uomini, servo di Dio per essere servo dei fra­telli. Non a caso Policarpo (fine I sec.) lo chiamerà “diacono, servo di tutti”.

Proprio per questo all’interno dell’Ordine religioso che fa dell’ospitalità il suo carisma specifico la dimensione del servizio diventa assolutamente irrinunziabile ed esprime la ragion d’essere delle proprie opere e l’atteggiamento interiore dei collaboratori più coinvolti.

In tale prospettiva può inserirsi una differen­ziazione vocazionale che fa della pluralità motivo di ricchezza carismatica per cui le vicende esistenziali, gli stati di vita, l’ambito lavorativo diventano occasioni e impegni “ministeriali”. Laddove poi il proprio impegno professionale ed ecclesiale ha insita in sé una così diretta partecipazione alle necessità esi­stenziali dell’altro, come nel caso dell’Ordine Ospedaliero, il servizio diventa una vera e propria linea-guida del suo agire.

7.3.2. Gradi di coinvolgimento personale nella missione dell’Ordine

7.3.2.1. I Confratelli. Costituiscono, com’è ovvio, le persone più radicalmente coinvolte, in virtù della professione religiosa. Tale termine (professione) non a caso é identico a quello che indica l’esercizio di un’attività lavorativa. Entrambe le situazioni sono caratterizzate da tre elementi: il credere, dichiarandolo apertamente e formalmente, alla realtà esistenziale che liberamente si abbraccia; l’appartenere a un particolare gruppo sociale che fa di tale realtà la sua ragion d’essere; l’impegno a esprimere nella vita la realtà professata.

La prima dimensione, credere, riguarda la sfera intellettiva e si realizza, se così possiamo dire, nel “credere all’ospitalità”. Non si può vivere né agire secondo lo stile di S. Giovanni di Dio, cioè concretamente incarnando il carisma dell’ospitalità, se a tale ospitalità innanzitutto non si crede. Si tratta cioè di rinnovare una testimonianza che scaturisca dalle profondità della propria sorgente vocazionale, rinnovandosi quotidianamente e riformulando ogni giorno il proprio “sì” all’ospitalità.

La seconda prospettiva, appartenenza, riguarda l’ambito relazionale, cioè il senso di appartenenza e, più concretamente la dimensione comunitaria della propria vita. Questa é innanzitutto specchio di una vocazione, pur senza eliminare la dimensione personalistica di un Dio che “chiama per nome”, si attualizza all’interno di una comunità. Inoltre, nella sua risposta, comporta una specifica appartenenza comunitaria che si realizza: per ciò che riguarda il suo essere, nella struttura organica dell’Ordine; per ciò che riguarda il suo agire, nella vita fraterna e nel comune impegno ospedaliero.

Infine la prospettiva volitiva, impegno, si esprime elettivamente nella professione dei voti. A tal proposito é necessario sottolineare ancora una volta la loro dimensione oblativa più che ascetica, vedendoli cioè nella loro realtà di “dono” più che di “rinunzia”. In tale ottica, il loro significato può costituire una imitabile esemplarità valoriale anche per i collaboratori trovando una dimensione comunionale che supera l’ambito del semplice lavorare insieme. Il Confratello potrà così condividere con il laico l’obbedienza come adesione alle circostanze esistenziali dalle cui trame può trapelare la volontà di Dio; la povertà come dono dei propri averi interiori, del proprio tempo, del proprio intelletto, del proprio cuore; la castità come offerta della propria corporeità e delle risorse specifiche del proprio essere uomo o donna e l’ospitalità come espressione di accoglienza e servizio verso la persona malata e bisognosa.

7.3.2.2. I collaboratori laici. In quest’ambito possiamo includere tutti coloro che, lavorando all’interno delle Case dell’Ordine o partecipando da “esterni” a iniziative e opere promosse dall’Ordine ne attuano le finalità. “I livelli di questa partecipazione sono ovviamente vari: così ci sono persone che si sentono particolarmente legate all’Ordine attraverso la sua spiritualità; altri invece vivono la partecipazione tramite il disimpegno della stessa missione. Ma quel che conta è che il dono dell’ospitalità ricevuto da San Giovanni di Dio instauri tra Confratelli e Collaboratori un legame di comunicazione che sia per ambedue impulso e stimolo a sviluppare la loro vocazione cristiana e a essere per il povero e il bisognoso segno visibile dell’amore misericordioso di Dio verso gli uomini”. (4)

Indipendentemente dalla loro fede, i collaboratori dei nostri Centri, contribuiscono a realizzare in modo determinante l’attività dell’opera divenendo partecipi della sua missione. Essi instaurano con l’Ordine un rapporto essenzialmente basato sul lavoro essendo in gran parte artefici del servizio che l’opera rende alla collettività. Per il loro numero e per l’oggettiva promozione della struttura che essi realizzano danno un contributo significativo alle opere dell’Ordine pur senza cercare una più profonda condivisione carismatica secondo stili e modalità che, probabilmente, non trovano consoni alla propria situazione esistenziale. Nel rispetto delle loro scelte valoriali e senza alcuna forzatura delle coscienze sarà opportuno, tuttavia, dar loro tutti gli strumenti perché possano intraprendere un cammino che nel tempo possa condurli ad assumere liberamente un più diretto coinvolgimento nella missione dell’Ordine.

I collaboratori più sensibili e impegnati, che vogliono vivere una loro identificazione con la missione dell’Ordine sono pienamente partecipi del carisma di S. Giovanni di Dio che su di essi si estende e in loro vive e si diffonde non meno che nei Confratelli. Proprio per questo, nell’ambito di tali collaboratori, si sono già realizzate (ed è apprezzabile che si continui a farlo) particolari forme associative che, più direttamente, esprimono nello stile di vita secolare la testimonianza del carisma ospedaliero, contribuendo a realizzare e rivitalizzare la missione dell’Ordine. In questa prospettiva la collaborazione tra Confratelli e Collaboratori cessa di essere un fatto occasionale e spontaneo per appartenere istituzionalmente alla vita dell’Ordine nell’ottica di una vera e propria integrazione.

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Si tratta di una prospettiva oggi fortemente avvertita dalla Chiesa universale: “Di fronte alle nuove situazioni, non pochi Istituti sono giunti alla conclusione che il proprio carisma può essere partecipato ai laici. Questi sono invitati a partecipare in modo più intenso alla spiritualità e alla missione del medesimo Istituto. In continuità con le esperienze storiche dei diversi Ordini secolari o dei Terz’Ordini si può dire che sia iniziato un nuovo capitolo, ricco di speranze nella storia delle relazioni tra persone consacrate e laici”. (5)

Per la riflessione:

1) Quali risorse si stanno impiegando per promuovere l’integrità personale di cui si parla in questo capitolo?

2) Quali altre risorse bisognerebbe utilizzare?

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NOTE DEL SETTIMO CAPITOLO

(1) Concilio Vaticano II, Gaudium et Spes, 16

(2) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1780

(3) Ibid., n. 1782

(4) Curia Generalizia, Fatebenefratelli e collaboratori, insieme per servire e promuovere la vita, #. 116

(5) Giovanni Paolo II, Vita consecrata, 1997, # 54.

* – - – *

8.

CREARE IL FUTURO CON SPERANZA

8.1. Le sfide del presente

Nella riflessione sul futuro, più propriamente sul rapporto tra creatività e temporalità, dobbiamo registrare e superare una contraddizione: il tempo che vogliamo indagare non é uno spazio mentale astratto e lontano, ma é una determinazione del nostro presente.

È l’epoca in cui si vive che prepara il futuro: nei valori fondanti la nostra testimonianza risiede il seme dell’avvenire. Perché l’impegno e la testimonianza non devono essere continuamente trasferiti in un ipotetico futuro che ci priverebbe continuamente dell’assunzione delle nostre responsabilità presenti ed attuali.

Occorre entrare nel terzo millennio con il coraggio vocazionale e profetico di nuovi ruoli e di nuove testimonianze.(1) Nel mondo dell’Ospitalità, la speranza come annuncio di salvezza crea un possibile futuro solo se genera strutture di salute che accolgano l’uomo sofferente di oggi. Creare vuol dire istituire e promuovere processi in grado di fecondare il tempo in maniera da produrre iniziative fedeli al volere di Dio e ai segni in cui esso si manifesta nel tempo.

Creare in ospitalità significa generare e testimoniare costantemente un amore vivo, operante, costruttivo, per il fratello nel dolore. Fermarsi costantemente a progettare e pensare il futuro senza creare il NUOVO può mettere l’Ordine fuori dalla storia.

Il cambiamento epocale che stiamo vivendo ci impone di valutare e quindi scegliere e produrre concretamente le risposte più adeguate poste dal crescente pluralismo culturale, dal movimento dei diritti umani, dall’invecchiamento della popolazione, dalla crescita delle povertà vecchie e nuove, dal desiderio di pace e dal ridursi delle risorse economiche disponibili per la difesa dello stato sociale.

Come si dice in altra parte di questo documento, il dialogo bioetico si impone come parametro del nostro corretto agire religioso e professionale, proprio perché impone un punto di vista più universale al nostro comportamento ed alle nostre scelte, mirate sempre alla promozione dell’umanità dell’uomo.

L’uomo, come ha testimoniato San Giovanni di Dio, non é un oggetto insignificante nel panorama della natura, ma un punto di vista originale su tutta la creazione .(2) Per testimoniare il futuro orizzonte della nostra ospitalità dobbiamo considerare più a fondo le esigenze dell’uomo bisognoso collegando etica e spiritualità ad un’antropologia coerente.

Oggi, noi Confratelli e Collaboratori abbiamo il compito di essere profeti di speranza, di dignità del sofferente, di amore che viene spento dalla tecnica e dalle leggi del mercato che hanno penetrato il mondo della sanità e dell’assistenza.

Nel passato, in molte circostanze, abbiamo sostituito o anticipato l’ambito dello Stato: oggi dobbiamo entrare in questo ambito e nelle organizzazione di mercato con la cultura e lo spirito di San Giovanni di Dio a difesa del povero, degli anziani e dei cronici. L’Ordine deve realizzare un percorso che traduca l’insegnamento sociale della Chiesa, avvalendosi di tecnici competenti che lascino spazio alla creatività dell’amore e alla spiritualità dell’Ordine stesso.

Tutto questo potrebbe portare a ripensare la presenza dell’Ordine in alcune opere specifiche ma forse consentirà una rifondazione all’inizio di questo millennio.

Creare il futuro vuol dire entrare come lievito nella pasta dell’umanità rinunziando a restare muti osservatori al di qua delle nostre limitate finestre, scambiate spesso per la totalità del mondo.

Mandati ad evangelizzare il mondo sanitario, annunciamo che la salvezza é in mezzo a noi e si manifesta nell’accogliere Cristo nel fratello: ogni opera di ospitalità é segno di speranza per raggiungere la vera salute.

8.2. Forza profetica dell’ospitalità

Per vivere nella nuova ospitalità abbiamo bisogno di ridisegnare la nostra presenza nella sanità che cambia immettendoci in un movimento vertiginoso che rischia di distruggerci, a meno che non definiamo i nostri progetti e le strategie adeguate per realizzarli. Non si tratta di salvare delle “opere” ma di rendere possibile l’annunzio del Vangelo attraverso la pratica del Carisma di ospitalità quale servizio a Dio nei bisognosi. Dopo aver sentito tante invocazioni al cambiamento, oggi siamo chiamati ad andare oltre il cambiamento: dobbiamo avviare un processo destinato a reinventarci e reinventare l’Ospitalità.

Attendere o voler essere “perfetti” nel cambiamento significa non sentire Dio che pensa nella nostra storia personale e non solo nella storia delle nostre opere. Il tempo, il domani, non giocano a nostro favore se non viviamo con coraggio e con pienezza il nostro oggi.

La forza profetica, infatti, non si esprime semplicemente nella capacità di interpretare i segni dei tempi, ma anche e soprattutto nel saper andare oltre il presente e “leggere il futuro” secondo lo sguardo di Dio.

“Anche se il rinnovamento non é sparito dal lessico dell’Ordine e dai suoi progetti e viene auspicato e ricercato dai singoli e dalle Comunità, occorre che la sua necessità e i mezzi per la sua realizzazione vengano richiamati con maggiore forza”. (3)

Riflettere sul rinnovamento con spirito profetico ci fa pensare a tante cose sulle quali operare un discernimento. Rinnovare l’ospitalità significa offrire servizi di qualità per i bisogni umani, valutare correttamente le risorse economiche, considerare le esigenze di giustizia sociale, curare la formazione dei Confratelli e dei Collaboratori, adeguare le strutture organizzative.

Un vero sforzo di “formazione nuova” per i Confratelli e per i Collaboratori si impone come scelta prioritaria. Non si può più avere una formazione “provinciale”: occorre avere un respiro mondiale. E’ pertanto indispensabile una valorizzazione delle esperienze delle varie Provincie dell’Ordine, con interscambi culturali e pastorali per religiosi e collaboratori laici, per avere una nuova spinta, un nuovo entusiasmo, capaci di ispirare una nuova evangelizzazione ed una nuova ospitalità.

Ma tutto questo può non essere sufficiente a produrre un vero e proprio movimento di innovazioni durature. Perciò, ispirati da un vero amore per il nostro servizio carismatico non dobbiamo limitarci a semplici proposte correttive di situazioni che abbiamo trovato insufficienti o inadeguate. Dobbiamo andare alla radice dei problemi, rimettere in discussione ciò che costa maggiormente mettere in discussione, vale a dire noi stessi come persone, come Confratelli o come Collaboratori, la nostra mentalità, il modo di guardare la nostra comunità e i Centri da noi animati.

I Confratelli debbono costruire un tessuto nuovo comunitario nel quale il ruolo di “proprietari” delle opere sia equilibrato dalla funzione di “animatori”. Quindi, occorre che si aprano a una condivisione più convinta e coerente con quanti vogliono unirsi a loro con vincoli più stretti della pura e semplice collaborazione.

Il rinnovamento richiesto dalla nuova ospitalità, la re-invenzione della nostra esistenza in sanità consiste piuttosto nel ridisegnare non soltanto le strutture visibili ma anche quelle invisibili e quelle culturali. Dobbiamo pensare ad una trasformazione che permetta di mantenere nel tempo i miglioramenti indipendentemente dalle variazioni del contesto economico-sanitario esterno.(4)

Il fine ultimo della vita dei Fatebenefratelli é di fare presente nel loro apostolato di carità Cristo che li invita a impegnare l’esistenza nell’evangelizzazione dei poveri e degli ammalati. (5) Alla luce della nuova evangelizzazione, la Chiesa li invita a verificare:

- se il loro apostolato ha in tutte le sue espressioni una autentica valenza evangelizzatrice;

- in quale misura le comunità nella loro azione apostolica sono coscienti del loro ruolo evangelizzatore;

- fino a che punto i singoli si percepiscono e si apprezzano nella loro dimensione di testimoni del Vangelo;

- in quale misura sanno essere animatori motivati, fondati nel Vangelo ma nello stesso tempo sensibili alle scienze umane e organizzative;

- fino a che punto sono riusciti ad armonizzare la dimensione apostolica e la dimensione contemplativa nella loro vita.

In ultimo, è importante che riscoprano il senso di gioia che circonda il profeta entusiasta di aver scoperto il senso della sua chiamata: “Mi hai sedotto, o Dio, ed io mi sono lasciato sedurre!”. (Ger 20, 7)

La partecipazione condivisa della gestione, della testimonianza, della missione o della spiritualità si rivela il passaggio obbligato per realizzare il ministero di salute e salvezza che annunciamo profeticamente all’umanità sofferente.

Dobbiamo convincerci nella pratica delle cose concrete che la soluzione partecipativa coinvolge le persone e impone la revisione del sistema gerarchico che spesso ha condizionato i rapporti tra Collaboratori e Confratelli, e anche tra i Confratelli stessi.

La partecipazione deve tracciare un suo itinerario che investa sia gli aspetti culturali e di comunicazione, sia quelli organizzativi e avvia alla maturazione di più moderne relazioni nell’azienda-ospedale e nella comunità ospedaliera.

Ciò vuol dire sottomettersi tutti ad un confronto costante sui problemi concreti quali la produttività, il miglior uso delle strutture tecniche, la qualità del lavoro e del servizio, il riconoscimento della centralità dell’uomo malato. La soddisfazione del paziente va cercata in tutti i modi con la stessa intelligenza e costanza con cui va cercata la creazione di un ambiente di lavoro soddisfacente.

La partecipazione può accrescere la soddisfazione degli operatori e degli utenti se viene sostenuta dallo sviluppo professionale, da un sistema retributivo più vicino alle modalità partecipative, da un’attenta cura della formazione spirituale di tutti il fedeltà al carisma dell’ospitalità.

Ma, ancor di più, su un altro piano, la partecipazione comporta un’informazione più diffusa e una comunicazione più interattiva di quanto non sia stato fatto finora.

8.3. Vitalità umano-divina del carisma dell’ospitalità

Nulla può garantirci il successo nelle sfide future o di mantenere le eventuali conquiste se non l’Uomo radicato nella fiducia al Padre. Si può investire su tutto, ma se gli uomini non sono all’altezza non c’è niente da fare. nella risposta convinta e integrale alla chiamata di Dio noi coinvolgiamo tutto il nostro essere e tutte le nostre risorse nel servizio all’umanità.

In questo, il carisma di ospitalità é grazia riversata per mezzo nostro sugli uomini sofferenti e ci impegna a diventare guide morali Essere guide morali impone una coerenza di vita nei comportamenti quotidiani, nell’espletamento dei nostri compiti, nella nostra opera di evangelizzatori positivi e propositivi nel mondo sanitario.

Radicati nella fedeltà a Cristo uomo-Dio salvatore dell’uomo, noi dobbiamo costruire le opportunità perché sia rispettata la dignità umana, riconosciuto il senso e il destino trascendente di ogni uomo.

Emerge qui la dimensione spirituale, più propriamente teologica del nostro carisma. La vitalità umana del carisma, il visibile del nostro stile, deve essere una manifestazione dell’invisibile del nostro legame con Dio. Dal modo in cui riconosciamo e connotiamo la figura di Dio e il “senso” della sua funzione nella storia, nella natura, nell’esistenza degli uomini, noi determiniamo il Suo ruolo nella nostra vita personale.

Il modello di azione apostolica che dobbiamo formulare ed attuare deve trovare il suo fondamento nella teologia del servizio. Infatti, se la nostra scelta vocazionale é orientata al sollievo della sofferenza, noi dobbiamo determinare qual é il nostro modo di concepire tale compito come un preciso servizio reso a Dio. Sta scritto, infatti:

“Quando verrà il Figlio dell’uomo nella sua maestà…allora il Re dirà a quelli che sono alla sua destra: venite, benedetti dal Padre mio, prendete possesso del Regno preparato per voi sino dalla creazione del mondo. Perché ebbi fame e mi deste da mangiare; ebbi sete e mi deste da bere; fui pellegrino e mi albergaste; ero nudo e mi rivestiste; infermo e mi visitaste; carcerato e veniste a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti vedemmo infermo o carcerato e siamo venuti a visitarti? E il Re risponderà loro: «in verità vi dico: ogni volta che voi avete fatto queste cose a uno dei più piccoli di questi ieri fratelli, l’avete fatto a me»”. (Mt 25, 31-40)

Ma ciò che secondo il Vangelo appariva così istintualmente vicino alla mentalità della Chiesa primitiva, in seno alla quale nascono i Vangeli – lo spirito comunionale e il vivo senso della testimonianza – é più difficile da attuare nell’era moderna. Perché la nostra visione del mondo, la cultura moderna, ci hanno portato ad escludere la vitale dipendenza divina e trascendente delle cose terrene.

Quindi é necessario rivedere i nostri procedimenti di pensiero e di azione, per poter trasformare la nostra esistenza di Confratelli e di Collaboratori, ed essere veramente “trasparenti”, vivi testimoni dell’amore misericordioso.(6)

È dunque improrogabile la fondazione di un nostro modello efficace di teologia del servizio: il concetto di servizio é al centro della tradizione cristiana.

Nell’immensa complessità della società contemporanea, la ricerca di un modello di teologia del servizio deve essere compiuta quasi distaccandoci dalle abitudini dottrinali, come per un salto rischioso che ci porti alla invenzione di qualcosa di nuovo. Siamo chiamati a ripensare in maniera nuova la relazione fondamentale e fondante, sempre particolare tra la fede cristiana e le forme del servizio religioso, politico o intellettuale rese al mondo dalla prassi sociale cristiana.

Occorre un coraggio nuovo per rischiare questa apertura a doppia uscita che comprenda in un unico movimento sia Dio, il totalmente altro e l’uomo del tutto simile a noi. Una teologia dunque, centrata sull’ospitalità di Dio nell’uomo, e dell’uomo nell’uomo. Soltanto in questa rischiosa apertura, come una splendida avventura, potrà fondarsi il nostro servizio.

Così il malato, il sofferente e il bisognoso diventa per la fede in Dio, una sorgente di vita. Fare posto all’altro, esercitare il carisma dell’ospitalità significherà in certo qual senso, cedere il posto all’altro e farlo vivere con noi e in noi.

Tradurre in operosità questi principi o questi rischi avventurosi cambierebbe e rivoluzionerebbe il nostro essere, daremmo una testimonianza che potrebbe affascinare i giovani della nostra epoca e darebbe ai nostri centri una caratteristica propria che il nostro fondatore volle per il suo ospedale.

Atteggiamento di semplice disponibilità, ma anche lotta per offrire un posto “agli altri” nella nostra preghiera, nelle nostre parole, nell’esercizio concreto delle nostre professioni, nell’accoglienza, nell’assistenza e nell’accompagnamento dei malati e dei bisognosi.

E così l’ospitalità diventa luogo teologico in cui Dio che ci ha accolti da sempre e ispira gesti di ospitalità che Lo facciano sentire accolto negli uomini e Lo rendano presente al mondo.

 

Per la riflessione:

1) Quali segni attuali ci fanno guardare al futuro con timore?

2) Quali segni attuali ci fanno guardare al futuro con speranza?

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NOTE DELL’OTTAVO CAPITOLO

(1) Una prima traccia é stata indicata nel documento dell’Ordine Ospitalità dei Fatebenefratelli verso il 2000, trasmesso ai Confratelli nell’aprile 1987.

(2) Cfr. Seconda lettera di San Giovanni di Dio alla Duchessa di Sessa.

(3) LXIII CAPITOLO GENERALE, La Nuova Evangelizzazione e la Nuova Ospitalità alle soglie del terzo millennio, Bogotá, 1994, # 3.3., ultimo paragrafo.

(4) Tutta la carica propositiva di queste parole é contenuta nella pagina conclusiva del documento La Nuova evangelizzazione e nuova ospitalità alle soglie del terzo millennio, Op. Cit., 5.6.

(5) Cfr. Costituzioni n. 41

(6) Cfr. Costituzioni n. 2

(7) GIOVANNI PAOLO II, Redemptor Hominis, 1979. Vedi anche Vita Consacrata: ‘La vita consacrata epifania di Dio nel mondo’; n.73: Al servizio di Dio e dell’uomo.

FATEBENEFRATELLI – CAPITOLO GENERALE 2012 – PER UNA DIALETTICA DEI DISCERNIMENTI (02)

PER SUPERARE IL CONFLITTO DI INTERPRETAZIONI NEL DISCERNIMENTO

 

Carlo Maria Martini*

 

Nel mese di Maggio, in un’omelia nei giorni della sua visita a Milano per il 25° del suo episcopato, lei ha parlato della «dialettica dei discernimenti», una sorta di conflitto di interpretazioni nel discernimento (1).

 

In che senso è legittimo oltre che possibile questo conflitto anche nel discernimento spirituale?

 

Direi che, prima di essere legittimo e possibile, questo conflitto avviene di fatto anche nel discernimento spirituale: quindi partiamo dal fatto; e se questa possibilità è tra persone oneste e serie, ne abbiamo anche la legittimità. Pensiamo ai casi clamorosi della storia: S. Ignazio di Loyola non si trovava certamente nella stessa linea di discernimento, per esempio, del fondatore dei teatini S. Gaetano da Tiene: avevano discernimenti diversi, sia sul proprio ordine, sia sull’ordine e la spiritualità dell’altro; eppure sono ambedue santi.

 

Un altro caso più vicino a noi è quello di S. Pio X e il Beato Cardinal Ferrari: ad un certo punto non s’intesero più, e proprio S. Pio X rifiutò ogni udienza ulteriore al cardinal Ferrari. Eppure erano santi tutti e due; tutti e due cercavano la volontà di Dio e il bene della Chiesa. I conflitti sul discernimento ci sono. Bisogna aver pazienza e tenerne conto.

 

Ma come si potrebbero spiegare, stando appunto all’unico Spirito?

 

È difficile spiegarli proprio perché sono inseriti nella complessità della storia e della psiche umana. Come dice S. Ignazio di Loyola,

  • altro è quel lume, quel barlume che il Signore fa intravedere in un momento di consolazione e che può venire da Dio,
  • altre sono le conseguenze che il ragionamento umano trae da questo lume magari piccolissimo e semplicissimo.
  • Talvolta ad opporsi non sono due lumi immediati dello Spirito Santo ma due riflessioni che partono entrambi da una intuizione spirituale.

 

Quali esempi nella Scrittura le sembrano emblematici di questa dialettica di interpretazioni nel discernimento?

 

Si potrebbe citare, per partire dall’Antico Testamento, l’oracolo del profeta

  • Natan che di giorno dice a Davide «Tu vai e costruisci il tempio»,
  • e di notte, a nome di Dio, gli riferisce il contrario.
  • Qui potremmo pensare che il profeta Natan si sia sbagliato o che la prima non fosse la voce di Dio.
  • Invece, quando la voce di Dio viene colta dall’uomo non sempre viene colta adeguatamente.

 

Nel nuovo Testamento ci sono molti esempi. Uno è il diverso giudizio di Barnaba e Paolo su Marco. Barnaba e Paolo sono entrambi due uomini santi.

Barnaba, addirittura, è colui che ha chiamato Paolo al ministero, è un uomo buono, comprensivo. Però, al momento di decidere se portare o no con loro Marco i due litigano. E possiamo pensare che ambedue fossero uomini di discernimento, che avessero un desiderio sincero di obbedire allo Spirito.

Un altro caso è quello della decisione di Paolo di andare a Gerusalemme. Paolo è deciso ad andare a Gerusalemme ma gli Atti degli Apostoli ci mostrano che, cammin facendo, crescono sempre più le parole di oracoli carismatici contro questa decisione. Sembra che lo Spirito Santo – o almeno le comunità pensavano che lo Spirito Santo – dicesse loro di dire a Paolo: «Non devi salire a Gerusalemme».

 

La cosa si ripete fino a raggiungere il suo apice quando Paolo giunge a Cesarea dove la gente insorge contro questo viaggio. Addirittura un profeta di nome Agabo compie un gesto simbolico; si lega le mani e i piedi e dice: «Questo dice lo Spirito Santo: l’uomo a cui appartiene questa cintura sarà legato così dai Giudei a Gerusalemme e verrà quindi consegnato nelle mani dei pagani» (Atti 21,11). E di qui la gente deduce che Paolo non deve più andare.

La forte contrarietà viene superata dalla – potremmo dire – testardaggine di Paolo, che non vuole sentire parlare di interrompere il viaggio: decide di andare a Gerusalemme, chiede comprensione e di non continuare a fargli del male piangendo davanti a lui.

 

Anche Ignazio di Antiochia dice: «Se mi amate lasciate che io parta…» Sì, Ignazio di Antiochia ha un discernimento che lo porta a Roma verso il martirio e ritiene possibile che le comunità pensino, in buona fede e anche attraverso preghiere, di dover impedire questo martirio. I fatti sono molto numerosi e non dobbiamo stupirci del loro moltiplicarsi anche ai giorni nostri.

 

Nella decisione dell’apostolo Paolo di andare a Gerusalemme lei sostiene che la risoluzione del conflitto del discernimento si risolve sul lato affettivo. Che cosasignifica? È l’unica soluzione?

 

Ho parlato del lato affettivo per semplificare il lungo racconto degli Atti degli Apostoli dove appare, soprattutto nel finale, che le comunità pongono a Paolo una sorta di ricatto affettivo:

  • se tu vai ci fai del male, piangiamo, ci fai soffrire,
  • e Paolo prega di non continuare su questo tono e di lasciarlo andare senza farlo soffrire troppo.

Quindi, la dialettica dei discernimenti si colloca nel contesto di una forte componente affettiva, anche se non risiede qui il punto specifico del discernimento. Il punto specifico sta nel fatto che Paolo è così convinto di dover andare a Gerusalemme che non si smuove per nulla. Difatti il testo degli Atti degli Apostoli dice:

«Perché fate così – dice Paolo alla gente – continuando a piangere e a spezzarmi il cuore? Io sono pronto non soltanto a essere legato ma a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù. E poiché non si lasciava persuadere, smettemmo di insistere dicendo: “Sia fatta la volontà del Signore!”» (Atti 21,13-14). Quindi, la conclusione è che colui che ha il discernimento più forte, più deciso, la vince perché gli altri non riescono più a fermarlo.

 

Che cosa insegna il conflitto di interpretazioni a proposito delle difficili scelte che la Chiesa oggi deve prendere in riferimento alla bioetica, al matrimonio, alla sessualità, al ministero ordinato, all’impegno dei cristiani in politica…?

 

Per questi problemi molto complessi e difficili certamente non ci sono delle soluzioni ma c’è, forse, un metodo: un metodo che innanzitutto consiste nel non stupirsi se su problemi di frontiera ci sono delle diversità, perché i problemi di frontiera per loro natura sono difficili da definire e quindi affrontati da un certo punto di vista appartengono a una certa soluzione etica, ma se affrontati da un altro punto di vista ne sembrano richiedere un’altra. Non bisogna stupirsi troppo della diversità dei discernimenti.

 

Inoltre bisogna che ci siano dei discernimenti veri, cioè che non si prenda partito perché qualcuno ha gridato di più, ma si abbiano argomenti, e argomenti maturati in una coscienza cristiana che si unisce a Dio con la preghiera. Non dico che la preghiera sia il luogo dove si trova la soluzione di questi problemi, ma una coscienza cristiana unita a Dio con la preghiera certamente ha più libertà e piùscioltezza per risolvere questi problemi.

 

Bisogna anche saper dare tempo al tempo proprio perché i problemi sono complessi e spesso la soluzione buona viene dopo un certo tempo e tale si dimostra a posteriori, cioè non subito ma per gli effetti buoni che ha e non per il fatto che viene accettata tranquillamente senza più grandi resistenze.

 

Quindi, per questi casi certamente valgono alcune regole generalissime del discernimento, però bisogna ricordare che il problema è soprattutto oggettivo, tecnico, scientifico: il discernimento spirituale non può interferire nell’aspetto scientifico, ma la persona che sceglie, che cerca e che vuole risposte avrà certamente risposte più sicure se è una persona che è libera da condizionamenti, da preclusioni, da affettività sbagliate, da scelte pregiudiziali; quindi una persona che ha fatto un cammino di discernimento.

 

Quali passi e attitudini ritiene veramente essenziali perché i formatori possano stare nel «conflitto di interpretazioni» con le persone che accompagnano?

 

Ho visto dall’esperienza che è molto difficile stare nelle crisi dei discernimenti perché certe volte è soltanto l’avvenire, il futuro, il risultato dopo alcuni anni che mostra la bontà e la validità di una scelta. Però io ho sempre detto che alla fine bisogna rischiare, perché chi non rischia non vive; se uno vuole vivere deve rischiare e accettare anche che ci sia qualche errore da correggere.

 

Sono anche molto importanti due cose che ho sempre raccomandato.

 

  • La prima è la purificazione del cuore e della mente, cioè togliere tutti quei legami consci e inconsci che ci impediscono di ragionare liberamente e ci fanno già inclinare per l’una o l’altra soluzione.

  • La seconda cosa è la conoscenza della parola di Dio, perché la parola di Dio ci dà il contesto generale delle preferenze di Dio, e confrontandoci con le preferenze di Dio, con le scelte e le opzioni di Gesù, noi possiamo percepire bene ciò a cui Dio ci chiama. Però non si tratta di qualcosa di matematico: bisogna sapere che c’è sempre una possibilità di errore e che quindi bisogna andare a queste cose come a cose umane, nelle quali non si può avere una certezza matematica ma solo una certezza morale che permette di agire onestamente.

     

Possiamo dire, in sintesi, che la difficoltà nel conflitto di interpretazioni consiste nel fatto che il discernimento non è soltanto sul bene o sul male, ma su cosa è meglio?

 

Certamente, il discernimento è particolarmente delicato e difficile quando si tratta di distinguere tra due beni: il bene inferiore e il bene superiore, ed è là che soprattutto le persone buone, oneste, generose possono trovare difficoltà. Però direi che il discernimento può anche riguardare il bene o il male, come nell’esempio dei casi di frontiera di cui dicevamo prima.

Ma la grande applicazione del discernimento è soprattutto nella ricerca della volontà di Dio – generale o particolare – che riguarda me, il mio cammino e quindi anche per questo il discernimento non lo può fare uno per un altro, ma bisogna che ciascuno si assuma il coraggio e l’abbandono a Dio nel fare la propria scelta.

 

Testi significativi sul discernimento di C.M. Martini

 

La testimonianza del discernimento spirituale e pastorale (Intervento per i cristiani impegnati nel socio-politico), in C.M. Martini, Educare al servizio.

Per un’etica della pubblica amministrazione, EDB, Bologna 1987, pp. 111- 125.

Sequela Christi, , CVX, Roma 1990, pp. 36-52.

Il Vangelo per la tua libertà. L’itinerario vocazionale del «Gruppo

Samuele», Àncora, Milano 1991.

Sto alla porta. Lettera pastorale 1992-1993, Centro Ambrosiano, Milano 1992, pp. 47-63.

La situazione di pericolo e il discernimento evangelico, in C.M. Martini, Non temiamo la storia, Centro Ambrosiano-Ed. Piemme, Milano-Casale M. 1992, pp. 225-232.

Conoscersi, decidersi, giocarsi. Gli incontri dell’ora undecima, CVX, Roma 1993.

Che cosa dobbiamo fare? Meditazioni sul vangelo di Matteo, Centro Ambrosiano-Ed. Piemme, Milano-Casale M. 1995 (in particolare i capp. 5-6: Il «fare» del discernimento; Il discernimento pratico alla luce di Mt 13; pp.89-124).

Il sogno di Giacobbe. Partenza per un itinerario spirituale, Piemme, Casale M. 1998.

Il discernimento cristiano della vita quotidiana e della storia (Intervento alle scuole di formazione socio-politica), in C.M. Martini, Il Padre di tutti.Lettere, discorsi e interventi 1998, EDB, Bologna 1999, pp. 287-295.

Discernimento e decisione, Quaderni di san Pietro Martire, Seveso 1998.

Il dominio del cuore e della mente (Incontro con i seminaristi sul tema dellapurificazione degli affetti e dei pensieri), in C.M. Martini, Coraggio, nontemete! Lettere, discorsi, interventi 1999, EDB, Bologna 2000, pp. 171-183.

Notti e giorni del cuore, In dialogo, Milano 2002.

 

*(1) Cardinale, Arcivescovo Emerito di Milano. Intervista per Tredimensioni» rilasciata ad Abu Gosh(Israele) il 16 ottobre 2005.

1 «Ricordo il primo incontro con il clero di Milano, o meglio con il Consiglio Presbiterale che è avvenuto a Rho. In tale circostanza ho spiegato proprio questo capitolo ventesimo degli Atti, parlando di quella che allora definivo la dialettica delle interpretazioni, o la dialettica dei discernimenti. Infatti, abbiamo come due discernimenti opposti, ambedue riferiti allo Spirito santo: c’è il discernimento di Paolo che afferma di voler andare a Gerusalemme per influsso dello Spirito, e c’è il discernimento delle comunità.

 

Nelle singole comunità in cui Paolo passa tutti gli dicono: “Nello Spirito santo tu non devi andare a Gerusalemme”. Ecco allora la dialettica delle interpretazioni: lo Spirito dice a Paolo di andare e lo stesso Spirito dice alle comunità che non deve andare. Ci siamo interrogati su come risolvere questo dilemma che è molto istruttivo perché questa dialettica delle interpretazioni percorre la storia della Chiesa e ci insegna a trovare la complementarità tra quelle cose che a prima vista ci appaiono distanti, o contrarie, o diverse.

 

Nel libro degli Atti la soluzione avviene sul lato affettivo. Paolo dice: “Voi mi fate piangere con queste vostre predizioni, voi mi scuotete il cuore, voi mi rompete il cuore, ma io voglio andare a Gerusalemme”. Allora la gente mossa dalla compassione gli permette di andare. Ho riletto anche questa parte del brano perché c’è un po’ della mia storia, con la differenza che io ho sentito molta più comprensione per il mio desiderio di andare a Gerusalemme, e sento che questa comprensione cresce. Infatti ho la consolazione di incontrare diversi preti o laici che, dopo essere stati a Gerusalemme, mi dicono: “Adesso capiamo perché lei ha desiderato tanto di andare a Gerusalemme!».

FATEBENEFRATELLI – 68° Capitolo Generale 2012 – Appunti (01)

PREGHIERA:

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LETTERA DI CONVOCAZIONE DEL CAPITOLO GENERALE:

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INSTRUMENTUM LABORIS:

http://www.oh-fbf.it/Resource/InstrumentumlaborisITA.pdf

 

 

 

 

 

OSPITALITA’ AL FEMMINILE – MIRIAM LA PROFETESSA DELL’ESODO – Elena Bosetti

MIRIAM la profetessa dell’Esodo

Elena Bosetti

Entriamo in merito al terzo passo del nostro itinerario spirituale focalizzando il tema donna e profezia. A questo tema saranno dedicate due schede: la prima sulla figura di Maria, la profetessa dell’Esodo, la seconda sulla figura di Debora, la profetessa giudice nella Terra Promessa.

Invochiamo lo Spirito Santo, fonte di novità e di forza profetica perché ci doni di riscoprire la dimensione profetica

della nostra missione pastorale e di viverla con rinnovato slancio e vigore.

IN ASCOLTO: VERITÀ

Tutti sanno dell’importanza di Mosè nella grande avventura di liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù dell’Egitto.

Ma non è altrettanto noto che il grande condottiero dell’esodo è stato affiancato nella sua mirabile opera da una grande donna, sua sorella Maria che qui chiameremo con il nome ebraico di Miriam.

La Bibbia e le antiche fonti giudaiche le riservano un’importanza tutta particolare. La designano con il titolo di profetessa e la salutano come un autentico leader. Miriam è la donna carismatica che sulle rive del Mar Rosso prende in

mano i tamburelli e intona esultante il canto di vittoria in onore del Signore, coinvolgendo nel canto e nella danza le ragazze e le donne del suo popolo.

Ma la storia di Miriam comincia tanti anni prima. Aveva poco più di dieci anni, quando nascosta tra i giunchi che crescevano abbondanti sulle rive di quel mare, cominciava intrepida la sua avventura accanto a Mosè…

La sorella che vigila

La Scrittura non menziona il nome della fanciulla che nascosta tra i giunchi del Nilo osservava cosa sarebbe accaduto al fratellino (cf. Es 2,4). Ma la tradizione giudaica non ha esitato a identificarla con Miriam. Così, fin dal primo ricordo, Miriam è accanto a Mosè. Colui che avrebbe condotto Israele attraverso le acque del Mar Rosso, è lui stesso un “salvato dalle acque”. E in gran parte grazie a sua sorella.

Miriam è la sorella che vigila e custodisce, che fa da mamma. Si ferma a una certa distanza, nel posto che le consente di vedere, udire e aiutare. Il suo stare ad osservare cosa sarebbe accaduto al fratello è pieno di tenerezza e di responsabilità.

Il libro giudaico dei Giubilei aggiunge al racconto biblico un grazioso dettaglio:

“Tua madre veniva di notte per allattarti

e durante il giorno Miriam, tua

sorella, ti proteggeva contro gli uccelli” (47,5).

Miriam vigila perché in quel cesto c’è il fratello che ama. E per amore di lui espone al pericolo la sua stessa vita. Indubbiamente su quel bimbo veglia anzitutto il Signore il quale interviene cambiando la sorte avversa in sorte provvidenziale e fortunata.

Ma l’intervento salvifico del Signore passa concretamente attraverso l’opera di tre donne: attraverso il coraggio della madre, la pietà della figlia del faraone e l’intraprendenza della piccola Miriam.

La profetessa che fa danzare

Circa ottant’anni dopo, Mosè e Miriam sono di nuovo insieme sulle rive del Mar Rosso. Tutto il popolo ha appena

sperimentato un evento eccezionale: ha camminato sull’asciutto in mezzo al mare, mentre le acque sommergevano i carri e i cavalieri del faraone (Es 14,21-31). Pieni di gioia, Mosè e Miriam cantano e fanno cantare in onore di Yahweh. È il testo noto come ‘il canto del mare’, una delle pagine più antiche della Scrittura: “Allora Miriam, la profetessa, sorella di Aronne, prese in mano un timpano: dietro a lei uscirono le donne con i timpani, formando cori di

danze” (Es 15,20). È lei che inoltre insegna il ritornello, ripetuto dall’intera assemblea:

“Cantate al Signore perché

ha mirabilmente trionfato:

ha gettato in mare cavallo e cavaliere!” (v. 21).

Sembra nel pieno vigore della sua giovinezza questa donna che canta e danza con tanto entusiasmo, e invece ha quasi novant’anni! Suscita perciò ammirazione ancora più grande. Il suo profondo entusiasmo contagia e trascina l’intero corteo femminile. Tutte cantano e celebrano la vittoria del Signore.

Miriam, la profetessa, orienta i sentimenti di esultanza sul vero protagonista. Impedisce che la festa degeneri in auto compiacenza. Riconduce la lode al Signore, il solo maestoso in santità e operatore di prodigi, l’unico vittorioso.

Non c’è madre ebrea che non ami insegnare a suo figlio il canto di Miriam, il canto della vittoria insperata e gratuita, il canto della libertà.

La profetessa che guida il cammino

Indubbiamente non basta passare il Mar Rosso per trovarsi capaci di libertà. Per vivere da uomini e donne libere non basta sbaragliare il nemico e intonare canzoni di vittoria. La libertà la si impara con pazienza giorno dopo giorno. In tal senso i 40 anni di cammino nel deserto costituiscono una specie di apprendistato della libertà. Il popolo deve imparare a fidarsi di Dio anche nelle avversità, quando manca il pane e l’acqua. Cosa tutt’altro che facile!

Puntualmente, quando manca l’acqua o il cibo, il popolo si lamenta e rimpiange l’Egitto. Per quanto sembri paradossale, la schiavitù riesce a dare infatti una certa sicurezza, mentre la libertà comporta rischio e avventura. In questo contesto si rivela assai preziosa la guida carismatica di Miriam. Essa è attivamente al fianco di Mosè e di Aronne e sostiene il popolo con il suo carisma profetico.

Nel libro dei Numeri troviamo un racconto che a prima vista non fa onore a Miriam. Si tratta di un incidente di gelosia. Insieme ad Aronne mormora contro Mosè e causa di ciò viene colpita da lebbra. Paga le conseguenze del peccato

anche per il fratello Aronne, che viene risparmiato dall’umiliante punizione a causa della sua dignità sacerdotale.

Aronne intercede per lei presso Mosè ed egli si rivolge il Signore: “Guariscila, Dio!” (Num 12,11-13). Miriam guarirà, ma non prima di sette giorni durante i quali dovrà stare isolata fuori dell’accampamento. Nel frattempo la marcia si arresta: “Il popolo non riprese il cammino, annota la Scrittura, finché Miriam non fu riammessa nell’accampamento” (Num 12,15).

Questo particolare dei sette giorni di attesa da parte della comunità viene visto dalla tradizione giudaica come un ulteriore segno della dignità di questa donna straordinaria. L’importanza di Miriam è tale che tutti l’aspettano: dal popolo, ai sacerdoti, alla nube (ossia Dio stesso). Proprio come si aspetta una donna importante! Ebbene, concludono

i rabbini, Miriam ha meritato di essere “aspettata” quale ricompensa per avere aspettato sulle rive del Nilo, finché la vita di Mosè non fosse in salvo.

“Miriam attese un’ora … e Dio fece attendere a causa di lei, nel deserto, l’arca e la Shekinah (= la Presenza divina), i sacerdoti, i leviti e tutto Israele, con la nube della gloria per sette giorni”. Davvero importante la nostra Miriam, donna che guida il cammino (cf. Mi 6,4). È importante non perché senza difetti, ma nonostante i suoi limiti e difetti.

Senza di lei non si può partire!

La profetessa che dona l’acqua L’annuncio della morte di Miriam è seguito dalla notizia che ”mancava l’acqua per la comunità” (Num 20,1-2). Di per sé il testo sacro dà una notizia dopo l’altra, senza alcun rapporto di causa-effetto. Ma la prossimità dei due eventi ha impressionato i maestri d’Israele che vi hanno letto invece una connessione: muore Miriam e conseguentemente manca l’acqua.

Si tratta di una lettura simbolica. Il pozzo d’acqua che viene meno alla morte di Miriam è la sua profezia, l’acqua della libertà e della Parola di Dio che lei ha contribuito a mantenere viva in mezzo al popolo. Miriam è la donna che ha parlato nel nome del Signore e ha atteso il compiersi della sua profezia. Si è fidata delSignore, ha sperato sulla sua Parola. E così ha permesso all’acqua di salire dal pozzo profondo. L’acqua della Parola divina che ha vivificato Israele durante il cammino nel deserto verso la terra promessa.

Per approfondire l’ascolto

Il riconoscimento più esplicito dell’importanza di Miriam viene dal profeta Michea che l’annovera tra le meraviglie compiute dal Signore: “Ho mandato davanti a te Mosè, Aronne e Miriam” (Mi 6,4).

Un testo degli antichi rabbini afferma che Miriam “fu inviata” soprattutto per istruire le donne. Possiamo dunque salutarla come la prima donna teologa, esperta della Parola del Signore, che esercita il ministero a favore di altre donne del suo popolo.

La sua profezia si esprime attraverso la musica e il canto, quasi a dire che l’insegnamento più sublime è quello che raggiunge il cuore e fa sgorgare la lode.

Testi biblici per l’approfondimento

  • L’attesa di salvezza della profetessa Miriam si compie nell’attesa della profetessa Anna: Lc 2,36-38

  • Miriam “vigila” su Mosé come sorella-pastora: medita At 20, 28 e 1Pt 5, 2 dove le voci pascere e vigilare sono strettamente collegate.

  • Il cantico di Maria, sorella di Mosé è ripreso dal cantico di Maria, madre di Gesù: Lc 1, 46-55

  • La vocazione profetica della comunità cristiana: 1Pt 2, 9-10; 2Pt 1, 16-21

Passo dall’ascolto alla meditazione con l’aiuto di alcune domande.

  • Mi lascio interpellare personalmente dalla Parola e dalla storia del mio popolo?

  • Confronto la mia vita con Gesù Cristo Parola incarnata?

  • Miriam è la sorella che vigila. Non in maniera assillante, ma “a una certa distanza”, con discrezione. Vigila perché ama. Come realizzo la “vigilanza”, aspetto tipico della missione pastorale, verso le persone affidate alla mia cura?

  • Miriam è piena di entusiasmo per il Signore. A novant’anni trascina le giovani nella danza e nel canto. Dove trova tanta gioia ed entusiasmo?

  • Se vive in noi la passione per la vita, tutto può diventare motivo di lode e di canto!

  • * So trovare nella promessa del Signore le ragioni profonde della gioia, al di là degli umori variabili, degli alti e bassi della vita quotidiana?

  • * Come celebro gli eventi piccoli e grandi del mio popolo, della chiesa, dell’umanità?

  • * Riesco a suscitare, nel contesto feriale, sentimenti di fede, di gratitudine e di lode anche nei miei fratelli e sorelle?

  • Miriam non è senza difetti. È caduta anche lei nel tranello della critica facile e superficiale. Ma la sua presenza è indispensabile: senza di lei non si parte! Miriam è la profetessa che fa salire l’acqua per la comunità, vale a dire la Parola del Signore e la saggezza che ne deriva.

  • * Sono “dentro” i problemi che affliggono il mio popolo?

  • * So interpretare la storia del mio popolo in termini di speranza e lotto per la vera liberazione?

  • Contempliamo l’azione di Dio nella storia del nostro popolo, della nostra città e parrocchia nel corso di quest’ultimo anno.

  • Osserviamo con animo pacificato qual è stato il nostro posto in questa storia.

  • Chiediamo perdono per le nostre omissioni.

  • Invochiamo il dono della profezia, il coraggio di parlare e di agire con franchezza per il bene del popolo.

  • Miriam deve continuare a vivere in noi.

  • Oggi più che mai c’è bisogno di riscoprire il suo dono, di aiutare a fare “esodo” ai nostri fratelli e sorelle.

Facciamo nostra questa invocazione:

Miriam, sorella che vigili

sulla vita minacciata

finché il pericolo cede alla salvezza,

guida delle figlie di Israele

e interprete ardita dei loro cuori,

non morire!

Tu sciogli le lacrime in canto,

ritmi coi tamburelli

la gioia della vita,

l’alleluia per Yahweh

che ha mirabilmente trionfato.

Non morire Miriam!

Non farci mancare

l’acqua del tuo canto,

l’acqua della tua profezia.

Non morire Miriam!

Vivi in noi che ancora lottiamo

per un esodo nuovo.

Vivi in noi che sognamo la vera libertà,

l’amore senza frontiere,

il gratuito, il canto e la danza di pace.

Non morire Miriam

prima di averci indicato

i monti della Terra promessa!

Affidiamo alla Miriam della nuova alleanza, la Madre di Gesù, il proposito, suscitato in noi dall’ascolto e dal confronto con la Parola in questa giornata.

Preghiamo Maria.

SAN RICCARDO PAMPURI A 80 ANNI DALLA MORTE – Serafino Acernozzi o.h.

 

SAN RICCARDO PAMPURI

A 80 ANNI DALLA MORTE

 

Serafino Acernozzi o.h.

 

Per il mondo ospedaliero ed in particolare per i Fatebenefratelli è un onore e motivo di vera gioia ricordare la figura di San Riccardo Pampuri, medico e religioso.

 Dal 1921 al 1927 fu medico condotto a Morimondo (Milano) donandosi con tanto amore agli ammalati (veniva chiamato “il dottor carità”) e collaborando con il parroco alle varie attività della parrocchia, diede vita all’Azione Cattolica, al Segretariato per le Missioni, alla Banda Musicale per i giovani, è animatore delle funzioni liturgiche e delle varie attività parrocchiali, distinguendosi in modo particolare nel condurre giovani ed uomini agli esercizi spirituali, e si distinse per la sua vita di pietà, di preghiera e di testimonianza cristiana. Nel luglio del 1927 entra nell’Ordine Ospedaliero dei Fatebenefratelli assumendo il nome di Fra Riccardo. Muore a Milano il 1 maggio 1930.

Ora riportiamo alcune testimonianze di persone che hanno conosciuto San Riccardo e depositate nel processo di Beatificazione e Canonizzazione e che sono rimasti affascinati e colpiti dalla sua santità e carità.

 Dichiarazione di fra Cesare Gnocchi (1911-1994), teste XI, nel Processo Ordinario, fu Consigliere Generale dell’Ordine, Vicario Provinciale, Priore in diverse Case della Provincia e delle opere missionarie di Chisimaio (Somaglia) e Afagnan (Togo), compagno di Noviziato di San Riccardo Pampuri e insignito dell’onorificenza “Pro Ecclesia et Pontifice” per il servizio prestato al Santo Padre Giovanni Paolo II.

 “…era di una carità serena ed eroica, egli aveva una parola buona per tutti, e gli ammalati ricorrevano a lui direi con devozione; i medici gli affidavano gli ammalati con la massima fiducia e benché sapevano che più che l’arte del medico esercitasse la missione dell’infermiere e quanto di più umile ci fosse, ciò nonostante avevano fiducia anche come medico, perché nei loro dubbi su ammalati gravi anziché, come avviene di solito, chiamare dei luminari chiedevano il parere di fra Riccardo ed egli, dopo d’aver visitato bene bene l’ammalato, con tutta semplicità ed umiltà lo dava, lasciando qualche volta i medici stupefatti. Nel servizio degli ammalati era premuroso e puntuale e sempre ci invitava alla pazienza, alla carità e alla puntualità”.

 Dichiarazione di madre Agnese Catenacci, Domenicana del S. Rosario. Conobbe il Santo fin da bambino, frequentando insieme la scuola elementare a Casorate Primo. Ancora meglio lo conobbe quando, già suora e maestra d’asilo, si recava ogni giorno da Trivolzio all’Asilo Infantile di Torrino; e poi all’Ospedale San Giuseppe dei Fatebenefratelli di Milano, dove insieme alle sue consorelle prestava servizio.  

Depose nel Processo Ordinario teste XV:

“…Laureato tornò a Torrino, ed essendo lo zio Carlo dottore se la intendeva di più che con gli altri zii e fratello. Lo zio si era ritirato dalla condotta medica a Trivolzio, ma esercitava privatamente e gratuitamente, il nipote seguiva il buon esempio e visitava, medicava quella povera gente che da tutte le parti venivano pur di risparmiare.

 Intanto cresceva la stima e la fama, in poco tempo il dottorino superava lo zio ed ebbe molte offerte di posti, scelse Morimondo, paese un po’ sperduto nei campi e con immenso dolore degli zii partì”.

Dichiarazione del dott. Carlo Ghislanzoni, compagno del Santo all’Università di Pavia e nella vita militare, narraun episodio di sana spensieratezza goliardica dello studente Pampuri.

“Stando al 3° corso col Battaglione Studenti Universitari, richiamati dal fronte a Pavia, un giorno mentre andavamo alla lezione sul tram che portava all’Orto Botanico, essendosi allontanato un momento il tramviere, egli allegramente, si mise al posto del conducente e guidò la vettura per un certo tratto di strada. L’episodio destò ilarità in tutti. Allora era cosa rara che un giovane universitario sapesse guidare una vettura tranviaria. Oggi forse non sorprenderebbe più”.

Prof. Eugenio Curti, essendo medico nell’Ospedale Sant’Orsola dei Fatebenefratelli in Brescia, ebbe quotidiana occasione di trattare con il Santo ed ammirare le virtù e le qualità professionali. Questa sua dichiarazione è stata esibita dalla Postulazione al  Tribunale nel Processo Ordinario tra gli altri documenti probativi.

“Fra Riccardo come frate infermiere: dimentico volontariamente e per modestia, della qualità sua di medico. Sempre pronto, giorno e notte a qualunque richiesta sia dei medici, sia dei malati, incurante delle fatiche, dei disagi, del sonno pur essendo a lui ben nota la gracilità della propria costituzione, la debolezza dei propri polmoni. Incurante di sé, anche quando seppe che una grave malattia minacciava la propria esistenza. Aveva per tutti i malati una parola buona, un sorriso, una carezza di incoraggiamento.

 Sapeva essere il conforto nei momenti di dolore, sapeva portare la parola di Fede, di speranza ai malati gravi, ai moribondi presso i quali passava le notti perché loro non mancasse la parola buona, la Fede in un Dio che tutto vede, che sa premiare i buoni e perdonare i colpevoli. E tutti volevano fra Riccardo, e tutti hanno sofferto quando egli dovette lasciare l’Ospedale, tutti hanno pianto quando è morto. E anch’io ho sofferto perché mi è mancato l’aiuto prezioso, il consolatore dei miei malati, e perché no, perché a me è mancata la guida spirituale, l’Uomo a cui guardavo con ammirazione, con stima, con devozione”.

 Mons. Roberto Cerri dal 1909 al 1914 fu Padre spirituale del Collegio Sant’Agostino di Pavia e confessore del convittore Erminio Pampuri, col quale si tenne in continui paterni ed amichevoli rapporti anche quando il pio ed ottimo sacerdote venne successivamente nominato Prevosto, prima di Mirabello di Pavia, poi di Corte Olona. Fu testimone al Processo ordinario, teste XIX. 

“… Non ometteva mai il preparamento alla Confessione, che, a differenza degli altri alunni del Collegio, faceva con tanta serietà e raccoglimento che non avrei pensato che fosse lì fuori nell’anticamera ad aspettare se non avessi avvertito la sua presenza dal suo passo nel corridoio. Spesso era solo e talvolta accompagnato da un condiscepolo, che seguiva il suo esempio e condivideva la passione allo studio e l’amore alla pietà. L’abitudine però non gli faceva dimenticare che si accostava a un Sacramento. E inginocchiato davanti a me, non mi pareva un penitente, ma un piccolo santo che pregava quando, colle sue mani giunte, guardava con i suoi occhi sereni e belli il Crocifisso che gli stava innanzi.

Tutte le mattine si accostava alla mensa eucaristica e gli antichi compagni e i Superiori possono attestare con quale fervore riceveva la S. Comunione. Nessuno dei compagni vicini lo disturbava: un senso di rispetto li tratteneva. Nessuno osava distrarlo dal suo profondo raccoglimento: spesso alcuni lo guardavano stupiti e con ammirazione”.

Padre Dionisio del Beato Redento, Carmelitano Scalzo, malato all’Ospedale Sant’Orsola di Brescia, fu assistito da San Riccardo, rimanendone grandemente confortato ed edificato. La presente dichiarazione venne esibita dalla Postulazione al Processo Ordinario.

“…La presenza di Fra Riccardo al mio letto era per me un balsamo. Sentivo vero sollievo nei miei atroci dolori, solo a sentirmelo vicino. La sua dolcezza, il suo garbo, la sua umiltà, gli davano un fascino eccezionale.

Umile così da nascondere la perizia della sua professione medica, nello stesso tempo che la faceva valere in pratica in favore dell’ammalato. Paziente, anche quando la pazienza era messa a duraprova. Portava con il refrigerio materiale, il conforto spirituale: parlando di cose sante e rivelando un gusto spiccato d’intrattenersi in tali discorsi. Alcuni miei Confratelli: anziani e altri, che allora erano studenti conservano ancora il ricordo di fra Riccardo, anche per averlo visto una sola volta”.

Mainetti Angelo, ragioniere, era Podestà – ossia Sindaco – di Besate (Milano) al tempo in cui il dott. Pampuri era medico condotto di Morimondo, che include anche Fallavecchia. Questa è la sua testimonianza:

 “…Visitava gratuitamente i poveri. Potendo portava loro anche le medicine. Diceva a tutti di aver fiducia in Dio. Benché la condotta fosse vasta, composta tutta di cascinali,

con strade tutte di campagna, egli si recava a visitare i poveri, anche sotto le intemperie, svolgendo la sua opera come una missione, portando a tutti una parola di fede e di speranza. Non aveva rispetto umano nel professare pubblicamente la sua fede in qualunque parte ed in qualunque ambiente, specialmente in quei primi anni di lotta tra fascisti e socialisti”.

 Prof. Antonio Tunesi, radiologo dell’Ospedale Sant’Orsola dei Fatebenefratelli di Brescia, conobbe il Santo nell’ultimo suo anno di vita e ne ammirò specialmente la carità verso i malati e la grande ed edificante serenità cristiana durante la malattia che lo condusse precocemente alla morte.

Il Prof. Tunesi depose nel Processo Apostolico ed esibì al Tribunale come documento la presente dichiarazione scritta.

 “… Ho conosciuto fra Riccardo dott. Pampuri nell’ultimo anno della sua vita quando faceva servizio nel reparto di Chirurgia dell’Ospedale Sant’Orsola di Brescia: nella mia qualità di radiologo in questo stesso Ospedale ho avuto modo di collaborare con lui e ho potuto così personalmente vedere di quanto scrupolo e di quanta dedizione fosse animata la sua opera: non vi era grave operazione in cui egli non prestasse il suo aiuto di diligente collaborazione ai Primari Chirurghi che più di una volta ho sentito dire che quando Fra Riccardo si era assicurato della sterilizzazione dei ferri ed aveva preparato l’altro materiale chirurgico non c’era da dubitare sulla possibilità di una negligenza o di una disattenzione.

Esemplare anche il suo spirito di Carità verso i malati ai uali prestava con amorevole disinteresse le sue cure. Ho avuto poi il modo di vederlo a più riprese durante la sua malattia e ricordo che egli voleva ogni volta osservare nelle radiografie praticategli il progresso del male che inesorabilmente lo portava alla fine; non ho mai udito parole di recriminazione ma solo le espressioni di una rassegnazione che stupiva i Medici curanti e tutti quanti lo avvicinavano: in questo ultimo periodo della sua vita egli ha dimostrato, secondo me, una forza di carattere e una convinzione di un superiore destino che facevano porre il dott. Pampuri molto al di sopra di chiunque altro avesse dovuto superare il suo doloroso calvario”.

 Si è voluto mettere in luce i tratti concreti del santo, la statura umana e spirituale, anche se ha avuto i suoi limiti. Ed è provvidenziale e molto importante per i nostri giovani di oggi vedere che 33 anni sono sufficienti per andare in cielo se vengono utilizzati bene.

SARA , LA MADRE DEL POPOLO DI DIO – Elena Bosetti

SARA, LA MADRE DEL POPOLO DI DIO

 
 
 

 

Di Elena Bosetti

C i lasciamo introdurre da un bel testo della Lettera agli Ebrei che presenta Abramo e Sara come il padre e la madre che ci hanno preceduto nella fede: «Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso.

Per fede anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre perché ritenne fedele colui che glielo aveva promesso. Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia innumerevole che si trova  lungo la spiaggia del mare. Nella fede morirono tutti costoro, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati di lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra» (Eb 11, 8-13).

Abramo e Sara sono la prima coppia che la Scrittura racconta in forma particolareggiata, dopo quella di  damo ed Eva. Nei capitoli che seguono la cacciata dei due progenitori dall’Eden troviamo  elenchi di genealogie, ma non storie di coppie. Della moglie di Noè non sappiamo neppure il nome.

Abramo e Sara segnano un nuovo inizio. Siamo al primo tornante della storia di salvezza! È la coppia che Dio sceglie e benedice, è la coppia che inizia il ritorno, il movimento di conversione al Signore che si esprime nella totale obbedienza alla sua parola e nella fiducia incondizionata.

Questo inizio è registrato in maniera eminente al capitolo 12 della Genesi con la chiamata di Abramo. Ma è già anticipato in Genesi 11, 27-32, nella sfida tra la morte e la vita che accompagna la prima uscita di Abramo dalla sua terra, la migrazione da Ur dei Caldei a Carran.

Una carovana segnata dalla morte

Il testo presenta la famiglia di Terach e la sua decisione di emigrare: «Questa è la posterità di Terach: Terach generò Abram, Nacor e Aran: Aran generò Lot. Aran poi morì alla presenza di suo padre Terach nella sua terra natale, in Ur dei Caldei. Abram e Nacor si presero delle mogli; la moglie di Abram si chiamava Sarai e la moglie di Nacor Milca, ch’era figlia di Aran, padre di Milca e padre di Isca. Sarai era sterile e non aveva figli.

Poi Terach prese Abram, suo figlio, e Lot, figlio di Aran, figlio cioè del suo figlio, e Sarai sua nuora, moglie di Abram suo figlio, e uscì con loro da Ur dei Caldei per andare nel paese di Canaan.  Arrivarono fino a Carran e vi si stabilirono» (Gn 11, 27-32).

Abramo e Sara sono dunque già inseparabili Quando da Ur dei Caldei parte una carovana di gente segnata dalla morte. Capo della carovana è il padre Terach. Doveva essere vicino ai cent’anni (secondo Gn 11, 26 era diventato padre a settant’anni!) ma più che l’età doveva pesargli il dolore per la morte del figlio Aran, avvenuta misteriosamente alla sua presenza. Le ragioni della migrazione sono taciute. Invece si sottolinea che a partire con il vecchio Terach sono i congiunti segnati dall’esperienza di morte.

C’è Lot, il nipote che gli ricorda il figlio morto, e c’è Abram il cui futuro sa già di morte poiché sua moglie Sarai “è sterile e senza figli” (si noti la ripetizione del concetto, con valore rafforzativo). Tra i componenti della carovana non risulta invece il figlio Nacor e sua moglie Milca, una coppia feconda, l’unica umanamente parlando che ha il futuro aperto alla vita. Con il vecchio Terach partono soltanto i segnati dalla morte. Una sfida alla vita. Di fatto quella carovana di gente segnata dalla morte andava aprendo un futuro di salvezza per l’intera umanità.

Il fascino di Sara

Di Sara è proverbiale la stupenda bellezza. Si racconta che ci fu una carestia in terra di Canaan dove Abramo soggiornava con le sue greggi e perciò il patriarca decise di scendere in Egitto. Strada facendo, si rivolge alla moglie e le fa questo ragionamento: «Vedi, tu sei una donna di aspetto avvenente. Quando arriveremo in Egitto, gli Egiziani se ne accorgeranno subito e, sapendoti mia moglie, finiranno per uccidermi pur di averti! Facciamo così: non dire che tu sei mia moglie, presentati come mia sorella… » (cf. Gn 12, 11-13).

Abramo gioca sul doppio senso che la parola “sorella” poteva avere per gli egiziani: oltre il senso di sorella anche  quello di “sposa” (vedi il Cantico dei Cantici e le canzoni di amore egiziane). Sta il fatto che Abramo viene “trattato bene per riguardo di lei”. Emerge così un primo contrasto tra la figura di Sara e quella di Eva: mentre Eva fu causa di male per Adamo, Sara fu causa di bene per Abramo! Oltrettutto ci si potrebbe interrogare su questa irresistibile bellezza di Sara. Quale fascino poteva esercitare una bellezza di 65 o addirittura 90 anni? (la storia di Genesi 12 si ripete in Gn 20 quando Sara, stando ai dati della Bibbia, doveva avere ormai 90 anni!).

C’è chi ha letto in questo fascino di Sara un’allusione all’irresistibile fascino della elezione (così Israele e il Cristo, il “più bello tra i figli degli uomini”). Sara, come madre, incarna e anticipa la sorte del popolo  letto: scende in Egitto, suscita attrazione e irresistibile fascino, viene presa dal faraone, ma poi liberata e riconsegnata al vero marito (Abramo in tal caso rappresenta Dio stesso).

Sara anticipa come madre la vicenda del popolo di Dio, di Israele e della Chiesa.

I limiti di Sara

La Bibbia non racconta storie di eroi, ma di uomini e donne reali, con i loro difetti, limiti e pecche. E il limite di Sara è la sua gelosia. Prima spinge il marito verso la schiava al fine di avere un figlio almeno attraverso di lei, ma poi si trasforma in aguzzina della povera Agar e giunge fino ad obbligare il marito a cacciare di casa il figlio Ismaele. Tuttavia Dio si avvale anche di questo limite per il suo piano di salvezza. Sara mediante la sua gelosia diviene, inconsapevolmente, la custode dell’elezione. Infatti Dio dice ad Abramo: “ascolta la parola di Sara in quanto ti dice, ascolta la sua voce” (Gn 21, 12). Benché esprima gelosia, la voce di Sara va ascoltata; Dio stesso la utilizza per il suo concerto di amore, di gratuita elezione.

Quando Dio sceglie immancabilmente separa: Abramo deve separarsi dalla  sua gente, Isacco da Ismaele, Giacobbe da Esaù… così il popolo di Dio sarà separato da tutti gli altri popoli della terra.

Il sorriso di Abramo e di Sara

Abramo aveva creduto alla parola del Signore e si era messo in viaggio. E con lui la nostra Sara. Ma gli anni passavano, Sara invecchiava, la sua bellezza avvizziva e il suo grembo restava chiuso. In Genesi 17 Dio rinnova ad Abramo la promessa: “sarai padre di una moltitudine di popoli” e lega tale promessa a un’alleanza perenne. Un’alleanza che Abramo e i suoi discendenti porteranno nella loro stessa carne, mediante il rito della circoncisione: «Quanto a Sarai tua moglie, non la chiamerai più Sarai, ma Sara. (Cambiamento di nome come era avvenuto per Abramo: 17, 5). Io la benedirò e anche da lei ti darò un figlio; la benedirò e diventerà nazioni e re di popoli nasceranno da lei» (Gn 17, 15-16).

L’autore sacro ci riserva qui una sorpresa. Come è noto, Abramo è l’uomo della fede incondizionata. Non obietta mai, tace e obbedisce, anche quando Dio gli chiederà di offrirgli Isacco. Ma qui non può trattenersi dal riso. E proprio mentre è prostrato fino a terra, cioè in adorazione del suo Dio! Fede e incredulità convivono: «Allora Abramo si prostrò con la faccia a terra e rise e pensò: “Ad uno di cento anni può nascere un figlio? E Sara all’età di novanta anni potrà partorire? (Gn 17, 17).

La notizia è così “strana” e inaudita che subito Abramo avanza l’intercessione per il figlio già avuto: «Abramo disse a Dio: “Se almeno Ismaele potesse vivere davanti a te!”. Ma Dio disse: “No, Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio e lo chiamerai Isacco. Io stabilirò la mia alleanza con lui come alleanza perenne, per essere il Dio suo e della sua discendenza dopo di lui. Anche riguardo a Ismaele io ti ho esaudito: ecco, io lo benedico e lo renderò fecondo e molto, molto numeroso”» (Gn 17, 18-20).

La scena del sorriso si ripete anche per Sara. Un giorno, nell’ora più calda, mentre Abramo faceva la siesta all’ingresso della sua tenda, giunsero tre uomini. Abramo li accolse con squisita ospitalità. Preparò per loro un succulento banchetto e mentre mangiavano lui “stava in piedi presso di loro” (Gn 18, 8) come uno che serve.

I tre chiesero: “Dov’è Sara, tua moglie?”  E Abramo rispose: “È là nella tenda”. A questo punto il testo sacro passa dal plurale al singolare, come se i tre fossero diventati uno (i Padri della chiesa vi scorgono un’allusione all’unità e trinità di Dio). Dice dunque quell’Uno ad Abramo: “Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio” (Gn 18, 10).

Sara stava dietro la tenda ad origliare. All’udire quelle parole le scappò da ridere. Non un riso di gioia, ma un riso amaro che appena si dispiega sulle labbra e resta propriamente dentro. “Sara rise dentro di sé” (Gn 18, 12). È il riso della totale disillusione. Ormai Sara aveva perso la speranza, era già vecchia. E non solo lei, ma anche Abramo. Ride dunque nel suo cuore, ma forse preferirebbe piangere… Il Signore che legge i cuori, vede anche il triste riso di Sara e si rivolge ad Abramo con queste parole: “Perché Sara ha riso dicendo: Potrò davvero partorire, mentre sono vecchia? C’è forse qualche cosa impossibile per il Signore? Al tempo fissato tornerò da te alla stessa data e Sara avrà un figlio” (Gn 18, 13-14). Davvero “nulla è impossibile a Dio” (le stesse parole sono dette a Maria dall’angelo Gabriele: Lc 1, 37). Come Dio aveva annunciato così avvenne. La vecchia Sara concepì e partorì un figlio.

Allora il suo riso fu veramente pieno e liberatorio. Le uscì di bocca un grido di gioia e di meraviglia: “Motivo di     lieto riso mi ha dato Dio!” E con sottile ironia, pensando al suo incredulo sorriso di un tempo, immagina ora un riso collettivo, che contagia di meraviglia l’intero vicinato: “Chiunque lo saprà sorriderà di me!” “Chi avrebbe mai detto ad Abramo: Sara deve allattare figli! Eppure gli ho partorito un figlio nella sua vecchiaia!” (Gn 21, 6-7). Abramo chiamò quel figlio “Isacco”, che significa un “riso di gioia”.

Per approfondire l’ascolto

Sara è la “sterile graziata”, una caratteristica che ritroviamo in Rebecca, moglie di Isacco, e in Rachele, la più amata delle due mogli di Giacobbe. Il diventare madre è “grazia” invocata umilmente nella preghiera. Dio è vincitore della sterilità. Egli ha il potere di aprire il grembo sterile, come di suscitare vita dalla morte (cf. Rm 4, 17-21; Eb 11, 19).

Testi biblici

  • La sterilità-maternità di Rebecca: G25, 21

  • La sterilità-maternità di Rachele, la madre che muore donando la vita: Gn 29, 31; 30, 1-2; 35, 16-20

  • La sterilità-maternità di Anna, la madre del profeta Samuele: 1Sam 1, 4-20

  • La sterilità-fecondità di Gerusalemme e del popolo di Dio: Is 54, 1-3; Sal 113, 9

  • La rilettura paolina della figura di Abramo e Sara: Rm 4, 18-25; Gal 4, 21-31

In dialogo e confronto

Passiamo dall’ascolto alla meditazione con l’aiuto di alcune domande.

* Ci lasciamo interpellare personalmente dalla Parola e confrontiamo la nostra vita con Gesù Cristo, Verbo del Dio vivente.

  • Da Ur dei Caldei parte una carovana di gente segnata dalla morte, tra cui Sara, la “sterile e senza figli”. Eppure è con questa carovana che Dio traccia il nuovo futuro dell’umanità!

* Cosa comporta questo evento per la mia vita, per quella della mia famiglia e della chiesa?

* Credo davvero che Dio sa trarre vita da situazioni di morte?

  • Anche noi, come Sara, per il fatto di aver accolto la grazia del battesimo, benedizione spirituale in Cristo Gesù, nuovo Abramo e sposo della Chiesa. Questa nostra “bellezza” non conosce l’usura del tempo. 

* Sono consapevole di tale bellezza? I doni di grazia e benedizione mi sostengono nelle difficoltà?

  • Sara è una donna con limiti, difetti e gelosie. Dio non ha paura dei nostri difetti. Chiede però la nostra fede per realizzare, anche attraverso di essi, il suo piano di amore: “C’è forse qualche cosa di impossibile per il Signore?”.

* In chi credo davvero: in me, nella mia preparazione, nel mio impegno, oppure nel Signore? Mi fido di Dio? Invoco umilmente il suo aiuto?

* Come è stato il mio cammino di fede fino ad oggi? Vivo l’obbedienza della fede?

  • Anche la nostra vita può rimanere sterile per lungo tempo come quella di Sara. Si fanno tante cose, tanta applicazione, lavoro, organizzazione… ma non si genera alla fede! Eppure il Signore ha in serbo anche per noi figli e figlie, partoriti magari nella vecchiaia… Siamo chiamati a generare vita.

* Come vivo la dimensione apostolica della mia fede negli ambienti di vita come la scuola, il lavoro, la famiglia?

*  Cosa può essere in me causa di “sterilità”: l’attaccamento alle mie abitudini, la paura di non riuscire, la poca generosità?

* Il Signore mi chiama a diventare padre/madre: sono disponibile a dare la vita, a donarmi fino all’oblazione, come Rachele, la madre che muore donando la vita?

In preghiera

Alla luce dello Spirito che feconda la nostra umanità, contempliamo la bellezza e i limiti della nostra comunità e della Chiesa.  Chiediamo il dono della paternità e maternità spirituale. Facciamo nostra la preghiera di Anna, la madre del profeta Samuele:

  • Il mio cuore esulta nel Signore, la mia fronte s’innalza grazie al mio Dio.

  • Si apre la mia bocca contro i miei nemici, perché io godo del beneficio che mi hai concesso.

  • Non c’è santo come il Signore, non c’è rocca come il nostro Dio.

  • Non moltiplicate i discorsi superbi, dalla vostra bocca non esca arroganza;perché il Signore è il Dio che sa tutto e le sue opere sono rette.

  • L’arco dei forti s’è spezzato, ma i deboli sono rivestiti di vigore.

  • I sazi sono andati a giornata per un pane, mentre gli affamati han cessato di faticare.

  • La sterile ha partorito sette volte e la ricca di figli è sfiorita.

  • Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire.

  • Il Signore rende povero e arricchisce, abbassa ed esalta.

  • Solleva dalla polvere il misero, innalza il povero dalle immondizie, per farli sedere insieme con i capi del popolo e assegnar loro un seggio di gloria (1Sam 2,1-8).

Prolunghiamo con le nostre parole questa preghiera celebrando la potenza e misericordia di Dio per noi.

Affidiamo all’intercessione di Maria il nostro proposito, quella particolare parola che ci impegniamo a vivere.

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“HANS URS VON BALTHASAR E MARIA, ICONA DELLA CHIESA”

“HANS URS VON BALTHASAR

E MARIA, ICONA DELLA CHIESA

(Conferenza 6 febbraio 2010 – Centro Culturale Mariano Mater Ecclesiæ)

 

Luca di Girolamo

 

INTRODUZIONE

1. BREVE CENNO BIOGRAFICO

2. LE DIMENSIONI DEL «FIAT» MARIANO

3. IL POSTO DI MARIA NELLA COMMUNIO SANCTORUM

4. MARIA TIPO E MODELLO ORIGINARIO CONCLUSIONE …………………….

INTRODUZIONE

Non poche volte in questi incontri dei sabati mariani ci siamo soffermati sulla figura di H. URS VON BALTHASAR (1905‐1988), teologo svizzero di lingua tedesca (anche se ha scritto, talvolta, in francese) forte di una cultura enciclopedica che ha condensato tutta la sua visione nella Trilogia (Gloria, Teodrammatica e Teologica) nonché in piccoli saggi e volumi nei quali ha affrontato non solo temi teologici, ma anche argomenti relativi alla struttura della Chiesa in rapporto con il mondo in un momento di rinnovamento come è stato il Concilio. Non è, diciamo subito, un teologo semplice da leggere e ciò per almeno tre motivi: ‐ non è sistematico nel senso comune del termine; ‐ ha una grande e varia cultura che presuppone anche nel lettore; ‐ da buon linguista egli conia addirittura alcune parole tedesche rendendo così ardua un’eventuale traduzione. Per questa nostra riflessione su alcuni temi mariani presenti in questo autore, tenendo conto dell’anno sacerdotale, ho pensato di attingere non tanto ai suoi densi volumi teologici, quanto piuttosto a tutta una sua attività di predicatore che egli ha esercitato anche in occasioni di trasmissioni alla radio svizzera e a quella vaticana, a raccolte di meditazioni sulla Parola di Dio distribuita lungo l’anno liturgico, nonché a piccole operette di meditazione in cui la densa teologia del grande pensatore svizzero si veste di un linguaggio a noi più vicino ed immediato.

I. BREVE CENNO BIOGRAFICO

Nato a Lucerna il 12 agosto 1905 da nobile famiglia,1 von Balthasar ha una formazione iniziale segnata da due esperienze religiose/educative molto diverse tra loro, dapprima quella benedettina ad Engelberg che gli fa scoprire le lettere, le arti e la musica (von Balthasar sarà anche un valente pianista e un conoscitore di musica sinfonica ed operistica e drammaturgia) quindi quella dei gesuiti a Vienna dove si laurea in filosofia e germanistica nel 1928. Nel 1929 entra nella Compagnia di Gesù. Pur dotato di una immensa cultura, formatasi alla scuola di Guardini e De Lubac, la sua esistenza è contrassegnata da un’impronta pastorale molto forte. Difatti pur venendogli offerta, alla fine degli anni ’30, la cattedra di teologia alla Gregoriana egli preferisce l’assistenza spirituale degli universitari a Basilea in quanto giudicava molto più importante la cura d’anime che l’insegnamento. Ma è chiaro che quest’ultima attività non viene del tutto disertata.

Numerose sono le sue presenze a conferenze ed incontri. Difatti essere assistente spirituale degli 1 Per questa sezione ci siamo rifatti alle preziose notazioni di P. HENRICI, Primo sguardo su von Von Balthasar, in K. LEHMANN‐W. KASPER (a cura di), Hans Urs von Von Balthasar, Figura e opera, Piemme, Casale Monferrato 1991, 25‐85. 2 universitari significava attorno al 1940 un lavoro culturale cattolico molto forte in una terra come la Svizzera culla di alcuni riformatori protestanti.

I due grandi personaggi che dominano la vita di von Balthasar sono H. De Lubac, grande teologo e patrologo e A. von Speyr, dottoressa protestante poi convertita al cattolicesimo nel 1940 e dotata di doni mistici. Con la von Speyr, von Balthasar inizia un sodalizio spirituale molto forte in cui proponeva una visione trinitaria della vita cristiana nonché un’attiva presenza nel mondo. Von Balthasar è fondatore di iniziative culturali ed editoriali come le edizioni Johannes Verlag e l’Istituto secolare S. Giovanni che, alla fine della guerra, vide il sorgere del ramo femminile. Proprio questa nuova famiglia religiosa determina l’uscita di von Balthasar dalla Compagnia di Gesù avvenuta nel 1950.

Si tratta di un passo sofferto motivato dal fatto che i Gesuiti rifiutarono di accogliere nel loro statuto la nuova forma di vita consacrata fondata da von Balthasar. Tale uscita pone von Balthasar in stato di grave indigenza aggravata da certa insofferenza in quanto il Vescovo di Basilea non ne tollerava la presenza in città.

Si tratta di un periodo abbastanza tormentato durato 6 anni in cui a von Balthasar solo gradualmente viene dato il permesso di celebrar Messa e confessare. Si mantiene perciò tenendo corsi di esercizi spirituali; finalmente nel 1956 viene incardinato a Coira. Da tener conto che von Balthasar doveva far fronte anche alle spese della sua casa editrice.

In virtù dell’uscita dalla Compagnia, von Balthasar si ritrova nel mondo e senza strutture. Pur dotato di un’enorme cultura nella quale convergevano i Padri della Chiesa, la letteratura mondiale e alcuni filosofi, von Balthasar non viene invitato al Concilio per almeno due motivi: per la sua uscita dalla Compagnia di Gesù e per il suo pensiero giudicato, al tempo, troppo avanguardista e non estraneo a elementi modernisti.

Sta di fatto che da teologo progressista in un primo tempo, von Balthasar è passato, nel giudizio di certa parte di Chiesa, ad essere reazionario. In realtà egli ha avuto il pregio (e non il torto) di mettere in guardia da un’interpretazione libera e non rispettosa della tradizione del portato del Concilio. Questo gli ha provocato non poche antipatie ed insofferenze.2

Accanto alle fondazioni di vita consacrata, von Balthasar fonda la rivista Communio che viene pubblicata a partire dal 1973. Questo ci porta a considerare la notevole produzione teologica di von Balthasar che comprende circa 85 volumi, oltre 500 articoli e quasi 100 traduzioni accanto a moltissime note e lavori minori. Questo, senza contare i 60 volumi della von Speyr ai quali ha collaborato attivamente. Nonostante le critiche di cui era oggetto, proprio per questo amore e servizio alla Chiesa, come era avvenuto per il suo maestro De Lubac, Giovanni Paolo II nel 1988 lo ha creato cardinale, ma il Signore ha disposto diversamente. Due giorni prima dell’elevazione cardinalizia, a S. Pietro nella Solennità dei SS. Pietro e Paolo, von Balthasar muore: era il 26 giugno 1988.

Sullo scrittoio, nota Mons. P. Henrici, era pronto l’annuale dono natalizio per i suoi amici: il volumetto “Se non diventerete come bambini”, ancora una volta una riflessione sul mistero dell’Incarnazione al quale il nostro autore ha dedicato tanto spazio nella sua teologia.

Proprio da questo mistero occorre partire per tracciare un ritratto non completo, ma esauriente della Madre del Signore.

2. LE DIMENSIONI DEL «FIAT» MARIANO

Il ritratto che von Balthasar ci offre della Madre del Signore si caratterizza per un ritorno costante al centro costituito dalla persona di Cristo nel suo farsi uomo. In questo grande evento si esige la collaborazione dell’uomo che Maria offre al piano di Dio con la prontezza di quell’«Eccomi 2 Su questo tema si veda la lunga intervista fatta a von Balthasar da Mons. Angelo Scola, attuale patriarca di Venezia, nel 1985 dal titolo Viaggio nel post‐Concilio e pubblicata nel volume La realtà e la gloria. Hans Urs von Balthasar.

Articoli e interviste 1978‐1988, ed. EDIT, Milano 1988, 163‐184. 3 sono la Serva del Signore» che sappiamo essere dal testo originale di S. Luca una manifestazione gioiosa. Un Sì – quello della Madre del Signore – illimitato, ci dice von Balthasar in un’omelia nella festa dell’Immacolata Concezione che ne determina il suo statuto. Il Sì a Dio che Maria pronuncia nell’evento dell’Incarnazione è il medesimo Sì senza barriera costituita da quel peccato che segna l’uomo dalla sua nascita.

Scrive il nostro autore: Cosa significa «concepita senza peccato» o come pure si dice «concepita senza macchia di peccato originale»? Significa, con parole brevi ed essenziali, che quella persona in cui venne al mondo il Figlio di Dio ha accolto in sé questo dono del Cielo con (…) un Sì senza alcuna limitazione, nemmeno nascosta, senza quel «Si, però…», «Si, se…», «Si a condizione che…», «Si, vedremo…». Si potrebbe chiamare questa festa anche la festa del Sì a Dio senza macchia.3

La macchia è quella del peccato originale. Ma cosa è questa realtà ? Alla domanda, trattandosi di un’omelia, von Balthasar non fa speculazioni, ma preferisce toccare l’uomo da vicino: Cos’è il peccato originale ? L’insufficienza morale di ogni uomo che viene al mondo come membro della razza umana. Ognuno ne sa qualcosa: sa che non è come dovrebbe e potrebbe essere. Egli assolve forse i suoi doveri alla meno peggio, ma appunto: in parte bene, in parte male. (…) Ora egli si consolerà perlopiù dicendo «Sbagliare è umano, e non si può nemmeno pretendere più dagli altri, ed io faccio in effetti quello che posso». Ma proprio così dicendo, sente che dovrebbe potere di più. La carenza personale che ognuno avverte nel suo più intimo è allo stesso tempo una carenza universale, sociale.4

Tornando all’Incarnazione, è importante e significativa la precisazione che il nostro autore fa circa il termine tedesco impiegato Empfangen che significa accogliere, ma anche concepire. Tali verbi non denotano passività: «davanti a Dio, se compiuti con fede, sono sempre la massima attività. Se nel Sì di Maria – prosegue von Balthasar – ci fosse stata anche solo l’ombra di un’esitazione (…) alla sua fede sarebbe rimasta attaccata una macchia e il bambino non avrebbe potuto prendere possesso dell’intera umanità».5 Questo atteggiamento è vero e proprio insegnamento che ci aiuta a riaffermare l’unità esistente tra azione e contemplazione che solo in epoca moderna è stato drasticamente scisso, ma che S. Tommaso († 1274) affermava con un paradosso secondo il quale la creatura, quanto più riceve da Dio, tanto più partecipa del suo fare.6 Tale Sì mariano va a toccare perciò una incondizionatezza che affonda le sue radici nella libertà propria della Vergine; una verginità, nota ancora il nostro autore, in funzione della maternità. Tutto ciò tocca da vicino l’identità del Bambino che dev’essere concepito e deve nascere. Se Egli prende la totalità dell’umanità, il Sì di Maria deve comprendere tutta la sua integrità psico‐fisica.

Perché questo ? Il motivo è da ricercarsi nella missione che questo Bambino deve portare avanti e che può solo Lui portare a compimento. L’uomo pronuncia il suo “Si però…”, ecc., ma Dio vuole eliminare quest’oscillazione: il suo Sì all’umanità è la ragione di fondo per cui Maria può pronunciare un’analoga risposta positiva al piano di Dio, senza oscillazioni. È vero – potremmo aggiungere – che Maria è esente dal peccato che fa inclinare pericolosamente verso l’abisso, ma 3 H. U. VON BALTHASAR, Tu coroni l’anno con la tua grazia (Salmo 65,12), Jaca Book, Milano 1990 (or. ted. 1988), 205. 4 Ibidem. 5 H. U. VON BALTHASAR, Maria icona della Chiesa, S. Paolo, Cinisello Balsamo 1998, 12. 6 Cf. TOMMASO D’AQUINO, De Veritate 22, 4. Testo citato da von Balthasar nel suo saggio Azione e contemplazione, (risalente al 1946) contenuto nel volume Verbum Caro, Morcelliana, Brescia 1970,253. 4 ciò non ci deve dispensare dal notare come, attraverso di lei, troviamo la manifestazione del Dio uno e trino diversa – ma non opposta – a quella sul Sinai dove ci si fermava alla enunciazione verbale della Legge. Ora la realizzazione è esistenziale in un essere umano che si colloca nella scia dei grandi dell’AT a partire da Abramo: È proprio la fede veterotestamentaria da Abramo in poi – nota ancora von Balthasar – a prendere parte (…) a questa esperienza trinitaria che necessariamente dovrà diventare punto di partenza per un’esistenza di fede neotestamentaria ed ecclesiale. (…) Per cui c’è parallelamente alla vita di Gesù anche una vita di Maria in cui tramite suo Figlio ella viene educata (…) al ruolo che dovrà esserle affidato ai piedi della Croce: essere il prototipo della Chiesa.7 Ma parlare di Trinità significa risospingersi all’interno della scena lucana dell’Annunciazione dove appunto viene proclamata la venuta di un Figlio che come la Madre è sotto l’egida dell’obbedienza: «la traiettoria dal seno del Padre eterno al grembo della Madre temporale – nota ancora il nostro autore – è un cammino nell’obbedienza, il più difficile e ricco di conseguenze, ma che viene percorso nella missione da parte del Padre: «Ecco io vengo per fare la tua volontà» (Eb 10,7). Chi porta e lo sospinge è lo Spirito. Lo Spirito del Padre, che manda, e del Figlio, che obbedisce, e quindi lo Spirito che nel portare e nel sospingere, è tanto attivo quanto obbediente».8 Perché allora, potremmo chiederci, sussiste questo sì dell’uomo a Dio pronunciato da Maria ? Potremmo rispondere facilmente citando il titolo di una piccola operina che è un commento all’enciclica Redemptoris Mater scritta da von Balthasar insieme ad un altro grande autore, oggi particolarmente noto, cioè J. Ratzinger: perché Maria è il Sì di Dio all’uomo.9 Un Sì che passa per l’umanità e la coinvolge (del resto è lo statuto più profondo della Rivelazione nella sua duplice dimensione di manifestazione divina e coinvolgimento dell’uomo10) e che dall’Annunciazione si estende fino ai minimi dettagli della vita comune che Maria intrattiene con il Figlio. Citiamo qui due eventi: lo smarrimento nel Tempio dove le parole di Gesù spingono l’umanità ad un oltre («Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio»), ad un’apertura totale. In secondo luogo: la vicenda nuziale di Cana: il «Fate quello che vi dirà» assume per von Balthasar una valenza eucaristica («Fate questo in memoria di me») che passa anche per la moltiplicazione dei pani.11 In entrambi i casi abbiamo la richiesta dell’uomo nei confronti di un Dio che, in Cristo, dà risposte che disorientano e generano non comprensione. Riprendiamo le scene: al «Tuo padre ed io ti cercavamo angosciati» corrisponde il «Non sapevate che io debbo occuparmi delle cose del Padre mio», in secondo luogo: al «Non hanno più vino» segue il «Che ho da fare con te o Donna. Non è ancora giunta la mia ora». Proprio in questo contesto di apparente confusione, ancora una volta si staglia l’atteggiamento sapienziale di Maria che nulla getta e tutto conserva (cf. Lc 2,19.51), fa memoria, è Ella stessa memoria della Chiesa secondo una felice immagine di Giovanni Paolo II che von Balthasar commenta,12 rilevando come la comprensione graduale alla quale Maria perviene è un lavoro instancabile che inizia proprio da quell’evento incarnatorio in cui è presente 7 Ibidem, 14. 8 H. U. VON BALTHASAR, Il Rosario, Jaca Book, Milano 1984 (or. ted. 1977), 17. 9 J. RATZINGER‐H. U. VON BALTHASAR, Maria il Sì di Dio all’uomo. Introduzione e Commento all’Enciclica Redemptoris Mater, Queriniana, Brescia 1987 (or. ted. 1987). 10 Cf. CONCILIO VATICANO II, Dei Verbum nn. 2.4. in Enchiridion Vaticanum (= EV), EDB, Bologna 1981, 1/873.875. 11 H. U. VON BALTHASAR, Maria icona della Chiesa, cit., 15. 12 H. U. VON BALTHASAR, Maria memoria della Chiesa, in La realtà e la gloria, cit., 101‐105. 5 l’intera Trinità. «La Trinità – dice il nostro autore – è all’interno dell’evento che le capita».13 E potremmo aggiungere all’interno della vita stessa di Maria muovendo proprio da quel custodire e mantenere in sé stessi parole ed opere. In merito, von Balthasar osserva che Maria: ha spazio sufficiente per nascondere in se stessa tutte le parole di Dio: le parole che l’angelo le disse, poi le parole dette ai pastori i quali d’ora in poi raccontano quanto è stato detto loro a riguardo del Bambino. Le parole si accordano tra loro sono tutte in fondo parole di Dio, ricapitolantisi nel Bambino che Maria ha portato nel suo grembo e che adesso è posato davanti a lei senza ancora poter parlare. Le parole di Dio che ella custodisce nel suo cuore fanno tutt’uno con la Parola di Dio che lei ha portato al mondo.14 Maria quale luogo della memoria prende forza proprio da quel Sì assoluto tanto della Madre quanto del Figlio che servono, ognuno per la propria specificità, ad abbattere ogni divisione tra terra e cielo, per accogliere il cielo in terra.15 Tutto questo dice fecondità tanto per Maria quanto per la Chiesa, fecondità che non è solo il generare figli (il Cristo carnalmente e i fratelli del Figlio a livello spirituale), ma permettere all’eternità e all’assolutezza del Dio trascendente di entrare nel limitato e nel contingente e trasfigurarlo. In merito von Balthasar nota che il Sì di Maria, che la rende Sede della Sapienza in forza dell’accoglienza della Parola e con l’illuminazione dello Spirito Santo, si viene a completare nel mistero della gloriosa Assunzione dove «ella ha consegnato questa conoscenza ai credenti».16 Ma che tipo di conoscenza è, potremmo chiederci, quella che Maria affida ai cristiani ? La risposta di von Balthasar è molto precisa: «Ciò che Maria desidera lungo le epoche della Chiesa non è che noi la onoriamo come singola persona, ma che riconosciamo la profondità dell’amore di Dio nell’opera della sua incarnazione e liberazione».17 Da tutto questo scaturisce perciò un vero e proprio percorso di santità che Maria indica nella sua umiltà che non è quella della peccatrice pentita, ma quella di una persona che considera tutto ciò che le capita come dono di Dio.18 Santità che è riconoscersi dono di Dio e, come tali, adeguati recipienti della grazia di Dio per poter compiere esattamente il nostro ruolo nella Chiesa.19 3. IL POSTO DI MARIA NELLA COMMUNIO SANCTORUM Più volte von Balthasar nella sua opera teologica si sofferma sul tema della santità e lo fa con un ampio ventaglio di specificazioni e sfumature. Possiamo dire che tutta la sua teologia è inclusa in questo status di santità e che il teologo, proprio perché è tramite e esegeta della Rivelazione, deve essere santo. Tale aspetto singolare emerge soprattutto nel commento a Gv 15 dove troviamo la nota figurazione della vite e dei tralci contrassegnata da quella famosa frase del v. 5: «Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» che von Balthasar applica alla teologia in nome di una semplicità che coincide con l’inclusione paolina “en 13 Ibidem, 102. 14 H. U. VON BALTHASAR, Tu hai parole di vita eterna (Gv 6,68), Jaca Book, Milano 1992 (or. ted. 1989), 79. 15 Cf. H. U. VON BALTHASAR, Tu coroni l’anno con la tua grazia, cit., 208. 16 H. U. VON BALTHASAR, Maria memoria della Chiesa, cit., 104. 17 Ibidem. 18 Cf. H. U. VON BALTHASAR, Maria icona della Chiesa, cit., 28. 19 Cf. H. U. VON BALTHASAR, Maria memoria della Chiesa, cit., 105. 6 Christo” (cf. Gal 1,16. 2,19‐20; II Cor 12,9).20 Non è possibile far teologia se non si torna al centro che è il Cristo giovanneo, Rivelatore del Padre (cf. Gv 1,18). Solo in tal inserimento è possibile rendersi conto in modo concreto del fatto che tale santità che è una forma di fecondità antropologica (che riguarda cioè tutto l’uomo) attuata in una missione possiede un principio sempre divino, non umano. Per questo motivo, osserva von Balthasar: La santità cristiana qualificata comincia con il libero sì dell’uomo alla sua elezione e con la sua fedeltà nell’esecuzione del compito. In nessun caso si può dire il sì sia in tutti i chiamati egualmente debole e impotente; al contrario alcuni dicono un sì pieno, altri un chiaro no, altri un «forse» un «adesso no, ma dopo»… (…) Quelli che dicono un sì pieno talvolta incespicheranno o esiteranno o rimarranno indietro rispetto al loro primo ideale, ma la grazia li aiuta. (…) Non solo loro a possedere una missione, ma è la missione a possederli. Non importa quale essa sia (…) importante è che l’uomo le rimanga fedele.21 Accanto a questo tratto dell’accoglienza di una specifica missione bisogna aggiungercene un altro non meno importante, quello che von Balthasar chiama anonimità proprio della fecondità. Ma anonimità non è un tratto dispregiativo quanto piuttosto rinvia all’universalità: Ogni uomo che si lascia espropriare da Dio e dal suo incarico – nota ancora von Balthasar – è una pietra d’angolo di comunione, uno spazio in cui gli altri possono prosperare, crescere e procurarsi materiale per costruire se stessi. Ogni santo è essenzialmente tale non per se stesso, ma per Dio e per i fratelli. Un santo che lavorasse all’edificazione della propria santità sarebbe una contraddizione in sé. Egli non sarebbe acceso e reso incandescente dal fuoco di Dio, che è sempre amore purificante, ma brucerebbe nel proprio fuoco, che ultimamente può soltanto essere preso a prestito dall’inferno.22 Come si colloca la Madre del Signore in tutto questo contesto apparentemente lontano e diciamo pure al plurale rispetto ad un’esistenza singola come la sua ? La risposta va ricercata proprio nell’entità stessa della missione che non viene solo posseduta dal credente, ma possiede il credente. Questo lo vediamo in Maria e nella Visitazione: ricevuta e concepita la Parola, Maria la porta all’anziana parente, ma in realtà è portata da questa Parola, vive l’espropriazione (cioè l’esser fatta cosa propria da Dio) ma essa si veste di gioia perché sa di essere glorificata da Colui che in lei si sta formando. Tutto questo senza paura: nel momento in cui ha accolto la missione è Serva della Parola, ma ne è anche portatrice. «Nel suo Magnificat – ci dice ancora von Balthasar – questi due elementi si unificano: tutte le genti la loderanno e non cesseranno di guardare a lei, ma, da parte sua, ella guarda solo a Colui «che ha soccorso Israele suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e a tutta la sua discendenza».23 Sempre nel contesto dell’Immacolata Concezione, von Balthasar è memore del nome che la Chiesa orientale dà alla Madre del Signore, la Panaghia (= Tutta Santa): è chiaro che questo derivi dal suo particolare statuto creaturale di estraneità personale dal peccato. Ma von Balthasar non 20 Cf. H. U. VON BALTHASAR, La semplicità del cristiano, Jaca Book, Milano 1987 (or. ted. 1983), 85. 21 H. U. VON BALTHASAR, Tu coroni l’anno, cit., 158. 22 Ibidem, 159. 23 H. U. VON BALTHASAR, Il Rosario, cit., 22. 7 esita a dire che, pur Immacolata, Maria vede il peccato nella società ebraica di cui fa parte, sperimentandone gli effetti altrui in sé stessa, in quanto è parte di quegli uomini che non possono sussistere chiusi in se stessi e proprio perché aperta come ogni essere umano all’altro dinanzi a questo male ne soffre, ma non cerca rivalsa.24 Ancora una volta, il porgere l’altra guancia (cf. Mt 5,39) non è limitabile ad una regoletta di buona condotta, ma rinvia a quell’amore che contraddistingue il Servo Sofferente (cf. Is 50,5‐6; 53,7 e I Pt 2,23) che vedrà in Cristo il compimento: tutto questo dice conformazione che se per Maria è totale, per il credente può tradursi con disponibilità ad una totalità donata. Proprio tenendo conto di questo legame il ritratto di Maria viene a precisarsi come segue: La madre Maria non pretese altro che di essere «Ancella del Signore». Suo figlio, sebbene nostro Signore e Maestro, non volle essere altro che un servo fra noi. Egli infatti si presenta al Padre stando dalla parte degli uomini, cioè dei servi. Inoltre nella sua funzione di «servo di Dio», egli si addossa tutte le colpe del mondo.25 C’è una profonda diversità tra Maria e noi, ma non separazione che von Balthasar illustra in un’omelia della Solennità di Tutti i Santi non partendo da Maria, ma dalla Trinità, nei seguenti termini, attuali e realistici: Sostenere il mondo e le sue contraddizioni fino alla fine (e anche oltre), sopportare e resistere fino in fondo, lo può soltanto Dio e quell’Unico nel cui cuore il Padre ha infuso tutto il suo amore e al quale ha affidato il suo Spirito. Ma l’uomo finito, limitato, ha però ricevuto dal Signore crocifisso (…) una dote infinita, che si esprime nella frase della Vergine e Madre «Ecco, io sono l’ancella del Signore; avvenga di me secondo la tua Parola», secondo la sua «parola di croce», la sua Parola crocifissa. L’intera prestazione è impossibile all’uomo, ma la disponibilità, senza porre barriere o scuse, questo gli è possibile. E quando lo Spirito stende la sua ombra sulla Vergine, e geme nel cuore dell’Ancella e con lei grida nelle doglie del parto, allora diventa certamente visibile che la sua prontezza a soffrire tutto val di più ed è più divina di ogni capacità operativa dell’uomo che se la vuole cavare in fretta. Dio stesso si comporta nei confronti del mondo non solo in modo maschile come Deus faber, ma anche in modo maternamente femminile soffrendo le doglie per la redenzione dell’universo intero.26 Attraverso la Vergine Santa abbiamo perciò manifesta una maternità universale nei confronti dell’umanità che la Chiesa è chiamata a testimoniare. In tal senso, il discepolo può ispirarsi alla Madre del Signore che conserva e fa collegamento solido degli eventi salvifici facendone una memoria e perciò simile al mercante evangelico che estrae dal suo tesoro cose nuove ed antiche (cf. Mt 13,52). Il Concilio ha ritradotto in termini dottrinali questo aspetto al n. 65 della Lumen gentium affermando che Maria «entrata intimamente nella storia della salvezza, riunisce in sé e in qualche modo riverbera i massimi dati della fede».27 Di qui l’ultimo passo verso ciò che per la Chiesa rappresenta la Madre del Signore. 24 H. U. VON BALTHASAR, Tu coroni l’anno, cit., 210. 25 H. U. VON BALTHASAR, Il principio mariano, in ID., Punti fermi, Rusconi, Milano 1972, 126. 26 H. U. VON BALTHASAR, Tu coroni l’anno, cit., 171‐72. I corsivi sono nel testo. 27 CONCILIO VATICANO II, Lumen gentium n. 65, in EV 1/441. 8 4. MARIA TIPO E MODELLO ORIGINARIO Ciò che si nota nel capitolo VIII della Lumen gentium è un forte equilibrio nell’uso di aggettivi e sostantivi riferiti alla Madonna. Uno di essi è typus (modello) che compare al n. 63 e al n. 65. Tale aggettivo si è costituito nel corso del tempo come vera e propria categoria teologica che non si è potuta sottrarre a critiche di coloro che ne hanno visto il limite soprattutto perché categoria sotto la corrosione della storia. Però occorre ricordare che se, da un lato, questa storia effettivamente va a toccare le coordinate teologiche che si esprimono attraverso un linguaggio ed una cultura, per altro verso, il modello rinvia ad un Assoluto al quale non soltanto ci si cerca di avvicinare, ma si partecipa. Resta sempre valido, in tal senso l’asserto di Gaudium et spes n. 62: altro è il depositum fidei che resta inalterato, altro i modi con i quali esso viene espresso. Per von Balthasar – uomo che non partecipa al Concilio, ma che di esso respira l’aria innovatrice – la trattazione di Maria quale modello parte da molto lontano e si colloca nel campo della grazia, così come essa rappresenta un tipo di fecondità parallela a quella matrimoniale tra uomo e donna modellata su Ef 5,21ss. Proprio da questo testo paolino, nota il nostro autore sono sorte due linee di pensiero, due filoni teologici: anzitutto il tema della nuova Eva senza la quale non poteva darsi il nuovo Adamo; concetto che troviamo nel II secolo con Giustino ed Ireneo. Successivamente, quello dell’anima ecclesiastica modellato su quel bellissimo poema d’amore biblico che è il Cantico dei Cantici commentato con questo taglio da Origene (al quale von Balthasar ha dedicato non pochi scritti). Se il primo tema quello della nuova Eva è di facile comprensione, il secondo va a toccare in profondità l’uomo in quanto consiste in un’elevazione della sua anima (e chiaramente di tutta la sua persona) ad una dimensione ecclesiale e comunitaria. Appare chiaro come il rapporto tra Maria e la Chiesa si colloca su questo terreno. Al centro ritroviamo Cristo in comunione con la Madre, ma anche con la Sposa‐Chiesa. Un Cristo che esprime un grazie ad entrambe ma in modo diversificato: ma «qui – nota von Balthasar ponendosi sulla scia di Agostino – Maria sembra possedere una priorità insuperabile non a motivo di una maternità fisiologica, ma a motivo del suo atteggiamento profondamente personale di una fede perfettamente servizievole».28 Tale servizio esplicato da Maria, che è una vera e propria mediazione all’interno di quella potente del Figlio, si colloca per la Chiesa come modello. Von Balthasar qui tiene a precisare come nella scena della donna anonima di Lc 11,27‐28 che alza la voce per proclamare la beatitudine della madre, la risposta è al plurale: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica». Il motivo è molto profondo e ci conduce al modello che Maria rappresenta e a quella priorità che non può essere ristretta solo alla sfera fisica della maternità, poiché la fede è connessa indissolubilmente al dato fisiologico. Un doppio volto di un unico evento e che forma l’identità unica della persona Maria. Riecheggiando il testo lucano: Nessuno come lei ha ascoltato e messo in pratica la parola di Dio, fin nelle ultime fibre del corpo, cosicché in lei la fede‐di‐Abramo nella promessa divina fu portata a compimento: la sua fede compì l’incarnazione della parola di una promessa: naturalmente solo perché Dio stesso, nella sua sovrana libertà, volle diventare uomo in lei, l’umile serva.29 28 H. U. VON BALTHASAR, Maria icona della Chiesa, cit., 45. 29 Ibidem, 46 9 A questo punto ci si potrebbe chiedere con un’espressione immediata: e la Chiesa quale vantaggio trae da tale rete di rapporti? Il rapporto è analogico (unisce cioè somiglianza a diversità): da un lato Maria è livellata, all’interno del corpo ecclesiale perché ognuno, in forza dell’ascolto, dell’obbedienza e della prassi, può divenire Madre di Gesù permettendo alla Parola una successiva incarnazione, per altro verso, però Maria si distacca dai credenti in quanto lei sola è madre corporea di Cristo e perciò redenta anticipatamente, realizzazione della Chiesa senza macchia e senza ruga.30 È quindi tipo della Sposa, ossia di quel «popolo di Dio» che per largo tratto manifesta ma in ciò non si distingue dalla Sinagoga. La distinzione ha inizio con Maria, nella quale il Verbo si fa carne, con l’Eucaristia, carne e sangue di Gesù donatie offerti per unirci alla sua sostanza, con lo Sprito Santo, che viene spirato nell’armonia ecclesiale dal Figlio dell’uomo risorto.31 Si è dinanzi ad un modello femminile che, tuttavia, ingloba quello maschile, laddove ricettività ed iniziativa vengono a coesistere. Qui von Balthasar inserisce il famoso principio mariano che vive in tensione positiva con quello petrino (del governo) e quello giovanneo (dell’amore) in quanto saldamente connesso con Cristo e con la Chiesa. Ma anche qui i concetti di matriarcato e patriarcato, osserva il teologo svizzero, sono da prendere con molta attenzione, perché si tratta pur sempre di categorie sociologiche che portate all’estremo rischiano di eliminare il mistero della reciprocità dei sessi invece di portarlo alla fecondità completa. Per questo motivo il teologo svizzero è contrario al conferimento del sacerdozio ministeriale alle donne. In sintesi questa è la sua posizione articolata in 4 punti: a) essendo Cristo il rappresentante più eloquente del Dio nel mondo è anche l’origine del principio maschile e del principio femminile; b) da Cristo, Maria viene pre‐redenta e Pietro e i suoi discepoli vengono costituiti nel loro ministero; c) essendo Cristo uomo egli rappresenta l’origine in quanto la fecondità della donna è sempre rinviata ad una fecondazione originaria. d) La polarità uomo‐donna non può però essere relativizzata al pari della rappresentazione dell’origine ad opera del ministero ecclesiastico. Questi i punti, ma a partire da essi Balthasar fa un’affermazione molto forte: una donna che volesse appropriarsi del ministero, si approprierebbe di funzioni specificatamente maschili, ma dimenticherebbe quale preminenza ha l’aspetto femminile della chiesa rispetto a quello maschile (…) Ogni invasione di un sesso nel ruolo dell’altro riduce l’estensione e la dinamica dell’amore umanamente possibile anche quando questa estensione oltrepassa la sfera della sessualità, della nascita e della morte nel campo dei rapporti verginali tra Cristo e la sua chiesa, che non si realizzano nei singoli atti distinti di particolari organi, bensì nella donazione totale di tutto il suo essere».32 30 Cf. Ibidem. 31 H. U. VON BALTHASAR, Sponsa Verbi, Morcelliana Brescia 1985, 7. 32 H. U. VON BALTHASAR, Nuovi punti fermi, Milano 1980, 110‐11. 10 E conclude con il riferimento a Maria: «l’elemento mariano nella Chiesa abbraccia il petrino senza pretenderlo per sé. Maria è “Regina degli Apostoli” senza pretendere per sé poteri apostolici. Essa ha altro e di più»33 Il modello che ne emerge è di accoglienza della Rivelazione e parte integrante di essa: Maria, nella visione balthasariana, non soffre riduttivismi, perché con essi si rompe l’unità e la varietà della Rivelazione e si rischia anche di deformare l’identità e la vocazione specifica di ogni cristiano. CONCLUSIONE A conclusione di questa serie di riflessioni possiamo sottoporre il titolo Maria icona della Chiesa ad un interrogativo. Perché ? La risposta la troviamo proprio nell’articolazione dei dogmi mariani fatta dallo stesso von Balthasar: Maria è creatura in relazione, potremmo dire, dottrinale con i capisaldi di quella fede definita e proclamata dalla Chiesa nel tempo: ‐ La sua maternità è affermazione cristologica; ‐ La sua esenzione dal peccato è affermazione antropologica che riguarda l’uomo e la redenzione data per grazia; ‐ La sua verginità è affermazione essenzialmente ecclesiologica che porta a compimento la teologia dell’Alleanza; ‐ La sua assunzione è affermazione escatologica che va a toccare cioè gli ultimi eventi.34 Questo non è senza conseguenze: commentando il pensiero mariano di von Balthasar, Mons. R. Fisichella in modo diretto osserva: «Maria o resta all’interno del mistero di suo Figlio o si autodistrugge. Non è possibile alcuna scappatoia. Per la teologia si impone la stessa prospettiva: o la mariologia si concepisce e sviluppa organicamente all’interno della cristologia e dell’ecclesiologia oppure perde significato. Per la pietà e la prassi di fede vale la stessa regola: o Maria è pregata come madre che conduce al Figlio e a lui si indirizza per la mediazione di grazia da parte del Padre oppure la preghiera non è fatta «secondo lo Spirito» e resta senza risposta».35 Icona della Chiesa e luogo del tutto umano dove la Rivelazione, nel suo svolgersi, si ri‐propone e manifesta quella che è la sua finalità che coincide, in ultima analisi, nella volontà di Dio, lungo la storia. Volontà che è essenzialmente dono che come costitutivo essenziale passa da Dio alla Vergine: non privilegi personali – nota von Balthasar – ma qualità che «tornano a beneficio di tutti i suoi figli nella Chiesa».36 Su questa nota il nostro autore ci dona una ritratto della Madre modellato però sul Figlio: «ogni figlio – egli scrive – prende dalla propria madre. La madre Maria non pretese altro che di essere «ancella del Signore». Suo figlio sebbene nostro Signore e Maestro, non volle altro che essere un servo fra noi. Egli, infatti si presenta al Padre stando dalla parte degli uomini, cioè dei servi. Inoltre nella sua funzione di «servo di Dio», egli si addossa tutte le colpe del mondo».37 Tenendo conto di tale rete di rapporti, al di là del pensiero di von Balthasar, appare chiaro come tanti concetti di passività e remissività che vengono attribuiti alla Vergine non hanno motivo di essere ripresi. Maria come modello ci insegna davvero – come ricorda S. Paolo – a combattere la buona battaglia della fede (Cf. I Tm 6, 12) e questa lotta non è certo indice di debolezza. 33 Ibidem, 112. Si tratta di un testo rifluito nell’enciclica Mulieris dignitatem di Giovanni Paolo II al n. 27, ma errato al numero di pagina. 34 Cf. H. U. VON BALTHASAR, Il principio mariano, cit., 121. 35 R. FISICHELLA, Maria nella teologia di von Von Balthasar, in Communio 189 (mag.‐giu. 2003), 62‐63. 36 H. U. VON BALTHASAR, Il principio mariano, cit., 129. 37 H. U. VON BALTHASAR, Punti fermi, Rusconi, Milano 1972, 127.

LA SPERANZA – Don Enrico Ghezzi

LA SPERANZA

La sensazione che porto dentro di me, sulla chiesa di nostri giorni, afflitta da divisioni e sofferenze per il comportamento di cardinali, vescovi, sacerdoti, religiosi , mi fa pensare  alle facciate delle nostre chiese, delle cattedrali, delle basiliche comprese le più importanti: è  come se si stiano sfaldando a poco a poco; cadono pezzi di pietra antiche, di torrioni, lastre di marmi, cementi ecc., e restano gli scheletri delle nostre bellissime chiese e cattedrali.

Sembra di  aver subito un terremoto, o, come ormai si dice , uno ‘tsunami’. Restano gli scheletri dei nostri templi come quando, nei secoli passati, le nostre città erano state invase dalle orde di popoli che mettevano a ‘fiamme e fuoco’ le più belle basiliche di Roma e delle nostre città. Oggi, lo ‘tsunami’ siamo noi: i nostri templi, simbolo di accoglienza dei popoli, sono logorati  dalle nostre mani,  dalle nostre opere sporche: mi è venuto da pensare all’invito di Gesù a Francesco, nella chiesetta di S. Damiano: ‘vai a ricostruire la mia chiesa’, come poi Giotto dipingerà tra i pannelli della vita del santo, nella Basilica superiore di Assisi.

Chi ci ridarà lo splendore spirituale delle nostre chiese? Chi rifarà le facciate con i suoi splendidi ‘rosoni’ delle nostre basiliche, dall’antico stile romanico o gotico?

E poi, non credo che la causa principale di tanta decadenza, sia soltanto il problema clericale del ‘sesso’ (omosessualità, pedofilia, violenze ecc), già di per sé dolorosi e drammatici e che spinge un’altra volta, a riflettere   sul  tema del celibato.

Il tema del ‘celibato’, io penso già da molto tempo, nella chiesa si risolve anche abbastanza  facilmente ed evangelicamente (S. Pietro e altri), portando nella chiesa i  ‘cosiddetti’ ‘probati viri’:  uomini sposati, di età matura e saggi genitori, che possono offrire servizi sacerdotali di straordinaria esperienza alla chiesa e alle parrocchie. Senza escludere il ‘celibato’ generoso e volontario.

Quando questo ‘movimento’ di opinioni sarà vincente nella chiesa, i seminari stessi verranno ripensati: non si potranno più accettare, come spesso avviene oggi, ‘tutti’ quelli che chiedono di essere ammessi al sacerdozio, pur avendo gravi carenze sul piano della maturità affettiva, soltanto perché spinti dalla necessità di avere sacerdoti.

Ma forse, io credo, che  il danno più grave alla chiesa, non viene soltanto  dal problema affettivo e sessuale che sta intaccando il celibato: la crisi è più profonda e tocca la sostanza del vangelo: nella chiesa è scomparsa la ‘povertà evangelica’: sacerdoti, religiosi|e,  e fedeli, hanno smesso di praticare la sequela a Gesù, identificandosi completamente con la società secolare, sempre più desiderosa di danaro, potere, e successi. Spesso i preti-religiosi sono assai più ricchi dei nostri fedeli, per non dire dei poveri.

La sofferenza della nostra chiesa è soprattutto aver smarrito la ‘sequela’ a Gesù: potere, potenza, ricchezza sono diventati gli strumenti delle nuove evangelizzazioni, in conformità con la trasformazione della società: la trasformazione della ‘sequela’ in costumi  totalmente mondani, ci rende poi incapaci di ‘celibato’ e di testimonianza di un dono totale al vangelo. La crisi cosiddetta del ‘celibato’ , è la conseguenza e non la causa della decadenza della chiesa. Più o meno come la crisi che si viveva al tempo di Francesco, agli albori del Medio Evo. In questo contesto la crisi ‘terrificante’ (come la chiama ormai da tempo il Papa Benedetto XVI), non è soltanto la ‘pedofilia’  e  ‘ l’omosessualità’ esercitata da parte del clero e di religiosi: la crisi investe radici più profonde e va nella direzione della perdita di senso del vangelo.

In questi ultimi decenni si è visto usare il vangelo più spesso come una clava di battaglia per temi di puro ordine ‘morale-etico’ che non di annuncio del vangelo della misericordia, dell’amore, della verità, della carità. Si difendono con veemenza  ‘tesi’  tutte vicine alle problematiche della ‘bioetica’, ma non si indica  la ‘grazia’ che ci rende capaci di vivere nel mondo la testimonianza  del vangelo. Le prospettive del vangelo vengono vissute quasi esclusivamente in chiave ‘moralistica’ piuttosto che di impegno  alla testimonianza delle beatitudini. Risulta apparire continuamente la ‘condanna’ al mondo, piuttosto che l’amore al mondo e all’umanità che chiedono di essere amati e compresi attraverso il ‘vangelo’.

Dalla prassi di questa chiesa, da alcuni anni, il mondo si sente escluso, giudicato e condannato, piuttosto che amato e salvato.

Ci si difende, ci si protegge, ci si ritira dentro i bastioni della cittadella invece che andare nel mondo, sull’esempio del Concilio Vati.II, a portare nelle nuove società trasformate, il carisma della carità e della speranza.

In questa ‘difesa’ della cittadella, in molte parti del mondo, la chiesa si è schierata spesso con gli ambienti più conservatori e repressivi del potere civile: trova facilmente accordi con paesi e partiti conservatori, e intrattiene rapporti stretti con personaggi che hanno una morale personale imbruttita dagli egoismi,  potenti e attentissimi, a loro volta, a difendere i ‘valori’  cristiani, per avere favori politici dalla stessa chiesa.

Non intendeva forse anche a questo,  il card. Ratzinger, quando parlò della famosa ‘sporcizia nella chiesa’?

Non è quindi soltanto il ’sesso’ il problema principale che affligge e si abbatte sulla chiesa (il dramma  della pedofilia è ora riconosciuto più una malattia che un atto di volontà: è ovvio  che non si può accedere in queste condizioni, al sacerdozio, o, ancora peggio diventare vescovi o cardinali: qui è prevalsa la menzogna!).

Invece, nella chiesa,  è venuto meno Cristo, il vangelo e la sequela: il resto è conseguenza.

Infatti la novità di questo sconquasso di fiducia tra i fedeli, non è tanto il male o il peccato di qualche singolo sacerdote, ma l’essere coinvolti vescovi e cardinali: come hanno fatto a raggiungere quelle responsabilità nel popolo di Dio? Chi li ha ‘scelti’, con quali ‘criteri’, con quali ‘cordate’,  per quali  simpatie,  sono stati scelti a rappresentare e guidare la chiesa dei nostri fedeli?

Perché mai, santi sacerdoti,  pastori, uomini di Dio, testimoni di verità e carità non hanno mai potuto essere ordinati vescovi del popolo di Dio? In quale momento, sotto quale pontefice è incominciata la discesa verso il basso, nella scelta dei pastori a servizio delle nostre comunità?  Perché certi privilegi sono stati offerti a persone prive  di carità, di esperienza  e di zelo pastorale?

Vedo che oggi alcuni di questi personaggi, dietro l’impulso dei media, trovano la dignità di ‘dimettersi’: io credo che molti, vescovi e cardinali, esaminando i criteri della loro elezione,  dovrebbero ‘dimettersi’, proprio per fare un servizio  alla chiesa e al popolo di Dio.

Nonostante le critiche a volte aspre, dobbiamo riconoscere al Papa Benedetto XVI, il coraggio e la forza di mettere in discussione i ‘peccati’ della chiesa allontanando le persone più indegne. La chiesa, potrà così  apparire  come uno scheletro, una volta caduti  gli intonaci e i marmi che nascondevano le crepe e le sporcizie: una chiesa che finalmente potrà rimettersi in cammino alla sequela di Cristo, con gioia, entusiasmo, povertà e limpidezza come è stato per tanti servitori della chiesa: basti la memoria di Giovanni XXIII, il Papa buono.

Allora la chiesa potrà nuovamente rivestirsi di santità ed essere riamata dal popolo: ci farebbe bene una lettura del profeta Osea, sul suo amore verso la donna prostituta, immagine del popolo di Dio e della fedeltà di Dio nel suo amore verso il popolo.

Per questo siamo tutti attenti alle nuove nomine di vescovi e cardinali, che saranno il  futuro della chiesa: vogliamo santi e pastori, non banchieri, politici, affaristi, perché questa è la vera radice dei mali che poi influiscono anche sulla educazione alla sessualità dei preti. Se non c’è santità nelle motivazioni del sacerdote e se non  c’è un amore dichiarato verso il popolo, come ha fatto Gesù, non ci può essere fedeltà né al celibato, né restare immuni dalle sue perversioni.

Non si può guarire la malattia, se non si parte dalle cause  del corpo malato.

Nel Con. Vat. II, subito all’inizio della grande Costituzione sulla Chiesa, si dichiara che lo Spirito Santo  <santifica incessantemente la Chiesa> in modo che (v.4): qui viene posto un principio di santificazione che non ha origine negli uomini, nemmeno in quelli della Chiesa: la Chiesa è opera di Dio, per mezzo di Gesù e animata dallo Spirito Santo; neanche i peccati dei preti o dei cristiani possono eliminare il dono di Dio all’umanità che è la Chiesa. Chi si opponesse a questa regola, resta fuori dalla Chiesa, anche se è una persona religiosa. Per questo il ‘popolo di Dio’ deve vigilare sui pastori se restano fedeli all’azione dello Spirito, avendo il coraggio di denunciare quando questo non avviene. Mi ha sempre fatto impressione la citazione di S. Ireneo nello stesso paragrafo (4)  della Lumen Gentium (4):  Ireneo, vescovo di Lione, morto appena all’inizio del formarsi della Chiesa, nel 202 d. C, parlando sempre dell’anima della Chiesa che è lo Spirito Santo,  dice : Lo Spirito,  < con la forza del vangelo, fa ringiovanire la chiesa (iuvenescere facit Ecclesiam), continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione con il suo Sposo>(4).

Sempre la Chiesa ha bisogno di ‘rinnovarsi’, addirittura di ‘ringiovanire’ (e si era soltanto all’inizio della sua storia!),  perché la realtà dell’uomo è fragile e peccatrice: soltanto la sicurezza della presenza dello Spirito ci consola e ci dà speranza. Ma questo rinnovamento del Concilio bisogna volerlo anche oggi:  diversamente subentra la pesantezza del potere, e ritorneremmo nei tempi bui della Chiesa. Proprio per questo viene ancora detto più avanti al numero 8: <La Chiesa che comprende nel suo seno i peccatori, è santa e insieme bisognosa di purificazione  (sancta simul et semper purificanda) (L.G.,8).

Questo sembra il momento di realizzare le profezie del Concilio, troppo presto abbandonate e che ora ci trova nella miseria del nostro peccato; ma da questa situazione di peccato nasce una straordinaria possibilità di risurrezione, di grazia: è il tempo della speranza, è il tempo di rinascere e far sorgere nuovi orizzonti di luce per il mondo intero, come lo fu quel   mattino di Pasqua nel giardino di Gerusalemme.

Dio non abbandona la sua chiesa nelle mani di chi ha rinunciato alla sequela di  Gesù.

Ora i nostri templi, smascherato il ‘male’ , ‘rinnovati’   e ’rigenerati’  dalla santità del nostro popolo   (l’essenza della Chiesa), possono ritornare a risplendere: la chiesa infatti è il progetto trinitario voluto da Dio, come ha ricordato  l’ultimo Concilio  (LG. 2-3-4 ): Dio ha la forza di eliminare le sette e i gruppi di potere che oggi dominano nella chiesa, per ridare ’al popolo di Dio’ la sua autentica ‘soggettività’, perché la chiesa-popolo di Dio’   è  il volto del  ‘suo’ Cristo,  ‘nostra speranza’ (1Tm1,1; Col.1,27; cfr. Rm 5.5).

Don Enrico Ghezzi

Via Anicia, 10. Chiesa di S. Maria dell’Orto.

DALL’OSPITALITA’ DELLE SCRITTURE AD UNA SOCIETA’ OSPITALE – Card. Dionigi Tettamanzi

Festival Biblico
Lectio Magistralis
Cattedrale di Vicenza – 28 maggio 2010




DALL’OSPITALITA’

DELLE SCRITTURE

AD UNA SOCIETA’ OSPITALE



Card. Dionigi Tettamanzi

DALLA BIBBIA ALLA NOSTRA SOCIETA’

Vi è un’icona singolarmente evocativa da cui vorrei partire per questa mia riflessione sull’ospitalità. Un’icona che illustra bene anche l’etimologia del nostro vocabolo ospite, che deriva da due radici delle lingue indoeuropee: la radice hos/host ovvero «pellegrino, forestiero» e la radice pa-/pati cioè «sostenere, proteggere». L’ospite sarebbe dunque «colui che sostiene o dà da mangiare ai pellegrini, ai forestieri».

L’ospitalità di Abramo


L’icona biblica che ci svela il senso profondo e insieme originale e affascinante dell’ospitalità (secondo il disegno di Dio e quindi secondo la natura e il dinamismo stessi dell’uomo) si trova nel capitolo XVIII di Genesi, dove Abramo viene presentato nella sua generosità di ospite (Gn 18,1-8).

Nell’ora più calda del giorno Abramo vede passare tre personaggi sconosciuti, che il narratore ci fa intuire essere un “signore” e due accompagnatori. Corre loro incontro, si prostra e li accoglie con tutte le premure nella sua tenda. Dal momento che i tre acconsentono di fermarsi da lui, Abramo organizza – da efficiente capo-famiglia – l’ospitalità. Alla moglie Sara dà ordini di cuocere il pane, all’armento corre egli stesso e prepara un vitello prelibato che offre agli ospiti con panna e latte fresco.


Dopo aver mangiato, il personaggio – che rimane senza nome –, quasi come ricompensa dell’ospitalità ricevuta, fa questa promessa ad Abramo: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio». Quel figlio dovrà essere chiamato Isacco. Per questo il narratore annota che Sara, stando a origliare all’ingresso della tenda, essendo ormai oltre l’età di partorire, sorride (“isaccheggia” dovremmo dire in italiano, coniando un neologismo per richiamare in questo sorriso il nome stesso di Isacco).


A questo punto il narratore lascia cadere ogni indugio e dà il nome a quel signore con i suoi due accompagnatori: è il Signore stesso, Adonài, che conferma ad Abramo: «Perché Sara ha riso (“isaccheggiato”) dicendo: “Potrò davvero partorire, mentre sono vecchia”? C’è qualche cosa d’impossibile per il Signore (Adonài)? Al tempo fissato tornerò da te tra un anno e Sara avrà un figlio».


Con questo stupendo quadro narrativo, l’autore del libro di Genesi porta a perfezione il tema della promessa del figlio e introduce, in antitesi, l’esito catastrofico della città inospitale di Sòdoma, ove due degli ospiti di Abramo scendono, dopo essersi fermati da lui. Dice il midrāsh: uno per distruggere Sòdoma, l’altro per proteggere Lot.

Vorrei rilevare come la singolarità e la bellezza della pagina di Genesi stanno proprio nell’incontro, nella fusione di questi due motivi: l’ospitalità e la promessa di un figlio, l’accoglienza dell’altro e il dono che si riceve, come a dire che la “fecondità” (che possiamo intendere nel suo senso più vasto di vita e di pienezza di vita) è il frutto dell’ospitalità.


I due motivi e il loro intrecciarsi – che peraltro sono presenti anche in non poche tradizioni extra-bibliche – avranno una singolare eco nel seguito della rivelazione biblica, giungendo sino alla loro straordinaria interpretazione cristologica: con l’ospitalità il discepolo – e in un certo senso ogni uomo – accoglie Cristo stesso.


Così la prima parte del racconto di Genesi, che presenta l’ospitalità di Abramo (vv.1-8), offre alla lettera agli Ebrei questo spunto esortativo: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli» (Eb 13,2). Il midrāsh dice qualcosa di analogo, annotando che Abramo considerava il dovere dell’ospitalità più importante del dovere di accogliere la shekinà (ovvero la presenza di Dio stesso).


E’ quanto afferma in modo sorprendente il vangelo di Giovanni: «Chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato» (Gv 13,20). E, più in generale ma nello stesso tempo in maniera più significativa e stimolante, prendendo come esempio il “nulla” in cui era considerato il bambino piccolo nella cultura di quel tempo, il vangelo di Marco afferma: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (Mc 9,37).


Potrebbero aprirsi qui riflessioni interessantissime, suscitate sempre dalla luce dei testi biblici.

Mi limito ad un accenno telegrafico, capace però di far intuire a quale densità spirituale e religiosa può giungere l’ospitalità. Secondo il Vangelo l’accoglienza del fratello – in specie del fratello bisognoso di cibo e bevanda, di vestito, di salute, di patria, di libertà, ecc. – è una specie di “sacramento”, ossia segno visibile e luogo vivo e concreto di accoglienza di Cristo stesso. E’ lo straordinario e inaudito messaggio che ci viene dalla parola stessa del Signore, che Matteo situa nel racconto del giudizio finale: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25.40).

Questa pagina – scriveva papa Wojtyla (Novo millennio ineunte, n. 49) – non è un semplice invito alla carità: è una pagina di cristologia, che proietta un fascio di luce sul mistero di Cristo. Su questa pagina, non meno che sul versante dell’ortodossia, la Chiesa misura la sua fedeltà di Sposa di Cristo”.

L’ospitalità, l’accoglienza è questione di fede, e non semplicemente questione di carità!


Possiamo riprendere la riflessione sull’accoglienza del fratello spostando il nostro sguardo dal “frutto” che essa produce alla “radice” da cui essa è generata e alimentata. In questo senso l’accoglienza dell’altro da parte del discepolo – anzi di ogni uomo – ha la sua radice prima e la sua stessa possibilità di realizzarsi nel fatto che Dio stesso – con la creazione e con il mistero del Verbo che si fa carne umana – “accoglie”, genera uno “spazio di ospitalità” nei riguardi del discepolo, dell’uomo: questi può accogliere l’altro perché lui stesso è stato e viene accolto da Dio!


Ma ancora più interessante si presenta la seconda parte del racconto di Genesi (vv. 9-16), centrata sul “sorriso” di Sara. Questo sorriso è il simbolo narrativo dell’incredulità che respinge la promessa come assurda o meglio come impossibile. Come leggiamo nel testo sacro: “Allora Sara negò: ‘Non ho riso!’, perché aveva paura; ma egli disse: ‘Sì, hai proprio riso’” (v.15).
E invece, proprio quando l’indispensabile per la nascita di un figlio è umanamente indisponibile, Dio vuole dimostrare il suo “possibile”. E così, con l’affermazione del Signore stesso, l’interpretazione teologica della narrazione tocca il suo vertice: «C’è forse qualcosa di impossibile per il Signore?».

Queste parole stanno all’insieme del racconto come una gemma alla sua preziosa incastonatura e, come dice G. von Rad, «nella loro portata altissima si levano al di sopra del modesto ambiente familiare del racconto, per testimoniare l’onnipotenza del valore salvifico di Dio e orientarvi il lettore».

L’evangelista Luca coglie nel segno quando cita questo racconto nella cornice della vocazione di Maria alla maternità (Lc 1,37 cita il v. 14). Infatti, con la nascita di Gesù si compie pienamente la promessa fatta ad Abramo e potremmo dire che il dono di Gesù è la risposta più sublime di tale promessa, davanti alla quale anche noi dobbiamo affermare il mistero e smorzare sulle nostre labbra il sorriso incredulo: rimanere, dunque, ripieni di stupore e di gratitudine perché anche nella nostra vita quotidiana questo mistero di fecondità trova la sua eco – in qualche modo una sua partecipazione – nell’ospitalità che ci conduce, mediante l’incontro con l’altro, ad essere noi stessi incontrati da Dio e dal suo amore.


L’ospitalità nella sua anima biblica


A questo punto possono sorgere, spontanee e immediate, molte domande: come questi e tantissimi altri riferimenti alle Scritture possono rispondere realisticamente – e dunque in modo significativo ed efficace – alle problematiche dell’ospitalità che tanto inquietano e impegnano oggi la nostra società e i nostri territori?


La Bibbia è un testo lontano millenni dal nostro tempo: quale attualità può rivendicare? E’ lontano il testo biblico non solo cronologicamente, ma anche e non meno nelle forme della vita sociale e della sensibilità culturale: quale sintonia può esserci con noi?


La Bibbia poi ha la specificità di essere un testo religioso, che presenta la storia dell’umanità come storia dell’alleanza tra Dio e l’uomo. Non diciamo che tra il religioso e l’umano, tra il trascendente e ciò che riguarda l’esperienza terrena dell’uomo si dà estraneità o incompatibilità. Ma non c’è dubbio che i problemi umani – soprattutto sotto il profilo di una convivenza che necessita di leggi e di precise norme positive – non possono trovare nel testo sacro indicazioni specifiche e regolamenti immediatamente applicabili alle nostre situazioni storiche.


Sono consapevole della vastità e della complessità del fenomeno dell’immigrazione oggi, che comprensibilmente genera non pochi problemi di ordine pubblico, di risorse, di integrazione… Mi domando: sta davvero qui il cuore della questione? Per la nostra società gli immigrati sono un problema solo perché sono troppi? Oppure ci fanno paura in quanto “stranieri”? Confessiamolo: quanti italiani teniamo ai margini perché in qualche modo “stranieri”, diversi da noi? Penso ai malati gravi – e tra loro a quelli che soffrono patologie psichiche -, ai carcerati, ai barboni, ai portatori di handicap, agli anziani… Circa queste persone la Bibbia ha una parola preziosa e ci aiuta ad andare alla radice: l’immigrato è per noi un problema perché è uno “straniero”!


Una lettura più penetrante delle sacre Scritture ci sospinge nello spazio della coscienza morale, dell’ethos inteso come intenzionalità, sentimento, adesione alla verità e ai valori veramente e pienamente umani.


E’ a questo livello più profondo e più personale e personalizzante che ci rimandano le Scritture e così esse diventano, anche per noi oggi, un richiamo originale e forte alla “norma fondamentale”, quella che sta alla base di tutti i comportamenti di una ospitalità che vuole e deve essere coerente con la persona umana.


Ora possiamo dire, in termini estremamente sintetici, che questa norma riposa: 1) sulla dignità personale di tutti gli esseri umani e di ciascuno di essi, dappertutto e sempre; 2) sulla relazionalità come DNA strutturale-dinamico-finalistico della persona, quale “io” aperto al “tu” nel duplice senso dell’essere “con” e “per” l’altro; 3) sulla moralità secondo le esigenze della giustizia e della carità.


Una simile norma, che di per sé è conoscibile e riconoscibile dalla ragione e dalla libertà umane, trova la sua illuminazione compiuta nella rinnovata lettura che proviene dalla rivelazione biblica e dalla fede cristiana: la dignità personale è quella propria della persona come “immagine di Dio”; la relazionalità interpersonale si radica e fruttifica sulla comunione che esiste in Dio, nel mistero della sua Unità e Trinità; la moralità è quella che riposa sulla “carità”, sulla partecipazione cioè mediante lo Spirito all’amore stesso che Dio in Cristo ha per noi.


Non posso tralasciare, al riguardo, uno dei testi più splendidi del Concilio Vaticano II che, nella sua ispirazione biblica, ritengo essere “l’anima” che deve illuminare e vivificare i rapporti di un’ospitalità “cristiana” e, proprio per questo, autenticamente “umana”.

Leggiamo nella Costituzione Gaudium et spes:

  • Dio, che ha cura paterna di tutti, ha voluto che gli uomini formassero una sola famiglia e si trattassero tra loro con animo di fratelli…

  • Perciò l’amore di Dio e del prossimo è il primo e più grande comandamento…

  • Ciò si rivela di grande importanza per uomini sempre più dipendenti gli uni dagli altri e per un mondo che va sempre più verso l’unificazione.

  • Anzi il Signore Gesù quando prega il Padre, perché ‘tutti siano uno, come anche noi siamo uno’ (Gv 17,21-22) mettendoci davanti orizzonti impervi alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l’unione delle persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nella carità.

  • Questa similitudine manifesta che l’uomo il quale in terra e la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa, non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé” (n. 24).


E’ con questa “anima” che siamo chiamati a costruire una società ospitale. L’appello che viene dalle Scritture – e in termini vivi e personali dalla Parola di Dio – è rivolto a tutti, ai cristiani in primo luogo e ad ogni uomo. Si tratta di “onorare” questa “norma fondamentale” con le nostre decisioni, scelte e azioni coerenti e in tal modo a forgiare dal di dentro la società come società ospitale, ossia aperta, accogliente, disponibile al dono, armonica nelle diversità, capace di fraternità e di amicizia, solidale, civile, veramente e pienamente democratica (di tutti, a cominciare dai più deboli e dagli “ultimi”): una vera “famiglia umana”, più precisamente umana e umanizzante. E’ questo il “sogno” di Dio. E’ questo il desiderio più profondo di ogni cuore.

CHIAMATI A COSTRUIRE UNA SOCIETA’ OSPITALE

Alla luce dei testi biblici vorrei ora approfondire alcuni aspetti che la condizione sociale contemporanea e la cultura occidentale rischiano di oscurare, non tanto a livello personale, quanto piuttosto – lo richiede il tema di questa conferenza – a livello di percezione collettiva. Abbiamo grande bisogno di essere positivamente invogliati a costruire una società nuova: una società veramente ospitale.


Prendo lo spunto da alcune riflessioni di Luigi Zoia, noto psicanalista di fama mondiale, che ha recentemente pubblicato un volume stimolante su La morte del prossimo.[1] Potremo così verificare meglio le condizioni di possibilità perché la società contemporanea possa ritornare ad essere ospitale nei riguardi di tutti, abbattendo i muri di divisione. Ritengo poi utile uno sguardo alla storia, la cui memoria è vitale per il nostro bene presente e futuro.

Il migrante


Come mai oggi non avviene più questo prodigio: che un viaggiatore che giunge da lontano, come Ulisse ai piedi di Nausicaa (Odissea VI, 201-222), si trasformi in un prossimo che ha bisogno di aiuto e per il quale si diventa subito ospiti, ovvero «sostegno dei forestieri»?


Vi fu un tempo in cui il viaggiatore tormentato dal­la sorte, il naufrago appeso ai resti di una imbarcazione, suscitava pietà, curiosità, accoglienza… Per rimanere ancora nell’ambito delle Scritture vorrei qui ricordare, tra gli altri, il tragico naufragio dell’apostolo Paolo e dei suoi compagni di viaggio, che si concluse con un gesto di grande ospitalità da parte della gente di Malta.
Così leggiamo negli Atti degli Apostoli: “Una volta in salvo, venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta. Gli abitanti ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti attorno a un fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia e faceva freddo”.


Ma ecco un pericolo imprevisto e una reazione inaspettata: “Mentre Paolo raccoglieva un fascio di rami secchi e lo gettava sul fuoco, una vipera saltò fuori a causa del calore e lo morse a una mano. Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli abitanti dicevano fra loro: «Certamente costui è un assassino perché, sebbene scampato dal mare, la dea della giustizia non lo ha lasciato vivere». Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non patì alcun male. Quelli si aspettavano di vederlo gonfiare o cadere morto sul colpo ma, dopo avere molto atteso e vedendo che non gli succedeva nulla di straordinario, cambiarono parere e dicevano che egli era un dio”.


Il seguito del racconto ci parla ancora di ospitalità, di un’ospitalità che viene ricambiata con l’inaspettato dono di un “miracolo”, la guarigione di persone malate: “Là vicino vi erano i possedimenti appartenenti al governatore dell’isola, di nome Publio; questi ci accolse e ci ospitò con benevolenza per tre giorni. Avvenne che il padre di Publio giacesse a letto, colpito da febbri e da dissenteria; Paolo andò a visitarlo e, dopo aver pregato, gli impose le mani e lo guarì. Dopo questo fatto, anche gli altri abitanti dell’isola che avevano malattie accorrevano e venivano guariti”.


Il racconto si conclude con un rinnovato accenno all’ospitalità: “Ci colmarono di molti onori e, al momento della partenza, ci rifornirono del necessario” (At 28,1-10).


Nella cultura antica, il forestiero e l’ospite diventavano subito un prossimo che ha bisogni concreti: dargli una mano voleva dire muovere subito le mani in suo aiuto. Il viaggiatore giungeva sì da lontano, ma si trasformava subito in vicino: oggi questo “prodigio” non avviene più. Nell’antichità l’ospite non solo era accolto, ma addirittura diveniva qualcosa di superiore al cittadino normale. In una società quasi priva di mezzi di comunicazione, egli era anche un messaggero di un altro mondo e aveva sempre qualcosa da insegnare.


Certo vi erano, anche nell’antichità, dei casi in cui lo spostamento di gente numerosa poteva dar luogo a difficoltà e conflitti: pensiamo anche solo al racconto biblico dell’insediamento di coloro che sarebbero diventati i padri d’Israele nel territorio occupato dai Cananei. Ma, nel complesso, una certa quantità di nomadi era considerata normale in tutte le terre.


Anche l’Italia, guardando alla storia degli ultimi anni, fino a poco tempo fa accoglieva gli stranieri più da visitatori che da immigranti. La diversità destava stupore e permetteva di imparare qualcosa di nuovo. Incontrare un cinese o un indiano risvegliava curiosità più che diffidenza. Era un atteggiamento comune tra la nostra gente, parte della nostra cultura, che non fu quasi per niente intaccato dal breve periodo di colonialismo italiano (“Italiani, brava gente!”) e da quello ancor più breve e meno condiviso del razzismo fascista.

Possiamo ora considerare, in particolare, la figura del naufrago e il trattamento riservatogli in passato e oggi. “Lo stesso naufrago era un caso estremo di viaggiatore, colpito dalla sorte. Nella tradizione europea, la guerra sul mare era crudele come tutte le guerre, ma fra i comandanti dei vascelli vittoriosi esisteva l’uso di non infierire sui naufraghi e, se possibile, di aiutarli. Questo storico patrimonio di umanità nella disumanità è sparito da poco. Con la Seconda guerra mondiale, la nave che è riuscita ad affondare quella nemica, se può, si ferma ancora a controllare se ci sono sopravvissuti: non per raccoglierli, però, ma per mitragliarli.

Oggi gli immigranti giungono per mare su imbarcazioni che sono praticamente relitti. Tuttavia, vengono sempre meno percepiti come viaggiatori e sempre più come invasori. Con la nuova immigrazione l’Occidente, che temeva di divenire apatico dopo la fine delle ideologie e la scomparsa del Muro di Berlino, ha scoperto il centro emotivo di una nuova politica e una ragione per edificare nuovi muri. Sempre più spesso, del resto, gli immigranti non sono come Ulisse, che si vergogna e dice che farà da solo: hanno richieste fin dal momento dello sbarco”.[2]

Muri vecchi e nuovi


È davvero strano che il nostro tempo tecnologico, tempo di viaggi interplanetari e di possibilità di comunicazione in un certo senso infinita, segni il primato delle spese legate all’immigrazione per una realtà inventata ancor prima della scrittura: il muro. Sì, il muro!


Il muro, che nell’antichità era costruito per difesa, oggi è costruito per circoscrivere e impedire l’accesso di coloro che abitano vicino. Così negli Stati Uniti, alla fine delle guerre contro le tribù autoctone, si costruirono riserve per rinchiudervi gli indiani. Così, ancora, il nazismo cominciò la sua Endlösung «soluzione finale» contro gli ebrei, richiudendoli tutti nei ghetti. E lo stalinista Ulbricht cancellò il mondo capitalista dietro al muro di Berlino. E il Sudafrica sigillò i confini dell’apartheid con una barriera elettrificata ad alta tensione.


È interessante che, mentre nel mondo di internet, nei social network non esistono barriere che impediscono l’incontro e la relazione virtuale tra persone di etnie e culture differenti, nel mondo reale si costruiscono dei muri per impedire ai vicini di incontrarsi. Se con un “click” un giovane italiano può stringere amicizia su Facebook con un coetaneo africano, dall’altra parte si impedisce a chi vuole guadagnarsi onestamente da vivere di potersi applicare al lavoro che sta oltre il confine, in quei paesi dove a tante occupazioni quasi nessuno vuole applicarsi.


Il vallo di Adriano e la Grande Muraglia cinese avevano il compito di difendere l’Impero Romano e il Celeste Impero da invasioni militari. Molti muri che sono stati costruiti di recente proteggono invece dalle povertà altrui: cercano di trasformare in fortezze quelle che sono state chiamate le «frontiere più disuguali del mondo». Se per un breve periodo sembrano riuscire a tener lontano qualche immigrante illegale, col tempo irrigidiscono proprio quella disuguaglianza economica che è causa dell’immigrazione e presto porteranno la sproporzione al collasso.


I muri creano separazioni non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Non solo nella geografia, ma anche nella storia. Ma soprattutto il muro non solo «chiude fuori» il forestiero e il meno fortunato, il muro «chiude dentro» il privilegiato e lo condanna all’asfissia. Proprio come l’avaro, che muore d’inedia per non consumare a vantaggio di tutti e anche a vantaggio proprio quei beni che possiede. Quanto è vero ciò che diceva Hans Magnus Enzensberger (1929): «Quanto più un paese costruisce barriere per “difendere i propri valori”, tanto meno valori avrà da difendere».

Distanza del prossimo, vicinanza del lontano


Come sappiamo, per le società arcaiche era naturale la coesistenza di una dialettica tra il bene e il male, in quanto la interpretavano come una lotta intrinseca al mondo divino. È stato il monoteismo – necessariamente! altrimenti l’unico Dio sarebbe diventato la causa anche del male… – a gettare tutto il suo peso sulla bilancia per farla pendere dalla parte del bene.
“L’alternarsi di prossimità e distanza corrisponde alla lotta tra il bene e male, binomio centrale in ogni religione.

Le società arcaiche accettavano rassegnate la coesistenza dei due: solo in certe circostanze esorcizzavano il male col sacrificio o la cacciata di un capro. Di regola, solo il dio sapeva quanti, in quella società, erano gli uomini. Quali erano gli uomini. Quanto e perché erano diversi tra loro. Quali erano buoni e quali cattivi.

Raramente gli umani si prendevano il diritto di parlarne a suo nome. Il monoteismo per primo getta tutto il suo peso sulla bilancia per farla pendere dalla parte del bene. E, sapendo che la psiche costruisce l’equazione io = bene, altro = male, si fa esigente: dice ai fedeli di non escludere l’altro come nemico, ma di includerlo come prossimo”.[3]


Gesù chiede di dilatare a tutti atteggiamento dell’inclusione e amplia questo principio sino all’estremo. Infatti, a quel dottore della Legge che voleva giustificarsi: «E chi è mai il mio prossimo?», egli – dopo aver raccontato la parabola del buon Samaritano -, conclude: «Sii tu il prossimo di chi incontri» (Lc 10,29-37).


Così ai tempi di Gesù, così anche ai nostri giorni. Con gioia possiamo rilevare che sono molti quelli che – più o meno consapevoli, per motivazioni religiose o semplicemente filantropiche (interessantissime al riguardo sono le parole di Cristo nel giorno del giudizio universale: cfr. Mt 25,31ss) – si impegnano nelle più diverse forme di aiuto per gli altri.


C’è però il rischio di un fraintendimento nel nostro modo di impegnarci per gli altri. Guardiamo, ad esempio, a certi eventi lontani, su cui siamo informati dai mass media. Al momento siamo molto coinvolti e commossi per quanto stiamo ascoltando o vedendo e siamo disposti ad aiutare, anche concretamente, le sfortunate vittime di una qualche catastrofe. Ma la notizia diventa presto una semplice «informazione» e velocemente invecchia.

Il punto allora è quello di mantenere «caldo» il coinvolgimento emotivo insieme al coraggio di decisioni morali capaci di trasformare la nostra vita nel quotidiano. Si tratta di riconoscere nella persona viva che mi si fa incontro il prossimo da aiutare, al quale rivolgersi, farsi umanamente presenti con la disponibilità e a cui prestare concretamente aiuto. La tentazione cui siamo oggi esposti è quella di distanziare il prossimo rendendolo “lontano” e di avvicinare il lontano rendendolo “prossimo” solo emotivamente, fintanto che egli non diventi davvero un insopportabile “vicino”.


Vorrei riprendere il senso di questa tentazione applicandolo alla società ormai globalizzata nella quale vengono profondamente modificati i rapporti tra le persone, i gruppi, le nazioni… In questo contesto si fa inevitabile che il “lontano” diventi “prossimo” e viceversa.


E’ perlomeno antistorico nel terzo millennio pensare di interrompere la libera comunicazione e lo spostamento delle persone. I nostri giovani, viaggiando, arricchiscono la loro cultura e l’esperienza di vita, sempre più considerano il mondo loro casa. E noi oggi vogliamo costruire argini al migrare delle persone?


In particolare i flussi di stranieri che bussano alle porte delle società occidentali sono mossi soprattutto dalla povertà e dalla persecuzione politica.
La loro condizione di debolezza mette noi in posizione di maggiore forza ed efficacia qualora decidessimo di impegnarci tutti – e tutti insieme – a governare responsabilmente il fenomeno. Spesso invece l’uso strumentale del problema, le politiche di corto respiro, la fatica a considerare questa realtà a livello globale impediscono un serio e risolutivo intervento.
Cosa capiterà – provo ad immaginare – quando non saranno più gli immigrati poveri a bussare alle nostre porte? Cosa capiterà quando saranno tra noi molti immigrati in condizione di “forza” (lavorativa, economica, culturale, scientifica…) e ci chiederanno di confrontarci con loro?


Corriamo il rischio di smarrirci nella nostra identità se – mossi dalla paura e chiusi in noi stessi nell’illusoria convinzione di essere protetti dalle barriere economiche, sociali e religiose che a fatica ci stiamo costruendo – non ci educhiamo al confronto, al dialogo, alla relazione profonda con lo “straniero”.


E’ tempo di vivere sempre più le nostre radici cristiane: quando sono autenticamente nutrite dalla sapienza biblica – così come hanno mostrato a noi le divine Scritture – ci sospingono a vedere l’altro come risorsa e dono e ci rendono capaci di affrontare anche i non piccoli problemi che ogni confronto porta con sé.

Conclusione: “Il problema è anzitutto umano!”


Desidero concludere queste mie riflessioni – che solo con spunti parziali hanno affrontato il problema della costruzione di una società ospitale – invitando all’ascolto di una duplice parola di papa Benedetto XVI.


  • La prima si trova nell’enciclica sociale Caritas in veritate, in particolare al n. 62 interamente dedicato alle migrazioni come “fenomeno sociale di natura epocale”. Lascio a voi la lettura personale di un testo molto energico, coinvolgente, profetico sui diversi aspetti delle migrazioni nel mondo attuale.

  • La seconda parola rientra nel breve discorso all’Angelus del 10 gennaio di quest’anno. Ricordando “il caso della condizione dei migranti, che cercano una vita migliore in paesi che hanno bisogno, per diversi motivi, della loro presenza”, il Santo Padre ci richiama ad alcune consapevolezze e responsabilità fondamentali:

  • Bisogna ripartire dal cuore del problema! Bisogna ripartire dal significato della persona!

  • Un immigrato è un essere umano, differente per provenienza, cultura e tradizioni, ma è una persona da rispettare e con diritti e doveri, in particolare, nell’ambito del lavoro, dove è più facile la tentazione dello sfruttamento, ma anche nell’ambito delle condizioni concrete di vita.

  • La violenza non deve essere mai per nessuno la via per risolvere le difficoltà. I

  • l problema è anzitutto umano!

  • Invito a guardare il volto dell’altro e a scoprire che egli ha un’anima, una storia e una vita e che Dio lo ama come ama me”.

+ Dionigi card. Tettamanzi

Arcivescovo di Milano

L’ESERCIZIO DEL RACCOGLIMENTO – Romano Guardini


L’ESERCIZIO DEL RACCOGLIMENTO
(Audio 14)

Riepiloghiamo di nuovo.

Abbiamo cercato di conoscere ciò che è il bene e ciò che è la coscienza. Abbiamo anzitutto concepito il bene nella sua pura essenza, come infinito nel suo contenuto e semplice nella sua struttura. La coscienza poi come quell’organo interiore, mediante il quale io conosco che il bene esiste; del quale questo bene si serve per spingermi ad attuarlo; il quale mi fa sentire la responsabilità che il bene venga attuato. Siccome però questo bene è infinito e semplice ad un tempo, io non posso comprenderlo immediatamente come dovere pratico. Bisogna che si specifichi; che si scomponga in singoli doveri di contenuto parziale, affinché io possa attuarlo. Ora questo avviene nella situazione, nell’intreccio della realtà e degli avvenimenti, quale si rinnova continuamente intorno a me, e a me guarda, e da me vuol ricevere interpretazione e forma.

Quello che di volta in volta mi viene indicato come giusto dalla situazione oggettiva – ecco il bene. Coscienza poi significa la facoltà di riconoscere quello che vien così presentato e di concretarlo per l’azione.

Già a questo stadio il concetto della coscienza aveva qualche cosa di profondo e di intimo. Lo abbiamo espresso nella proposizione: «Io son consapevole a me stesso del bene». Questa interiorità proveniva dal fatto che il bene coinvolge il senso supremo di tutto, compreso il senso supremo della mia esistenza. La salvezza dunque, l’eterno destino. E precisamente il mio destino, di cui nessuno può alleggerirmi e che nessuno può rapirmi.

Questo carattere d’interiorità si è approfondito maggiormente nella seconda conferenza. In essa abbiamo seguito la coscienza giù giù fino al suo fondo religioso. «Coscienza» non significa affatto soltanto un organo etico; a ciò l’ha ridotta appena l’età moderna e più che altrove, a quanto sembra, nei paesi di lingua tedesca. In sé e per sé «coscienza» significa l’organo che coglie il dover essere in genere, ciò che è degno di essere, con manifesta tendenza all’aspetto religioso. Si può dimostrare storicamente che parola e significato di «coscienza» sono in rapporto con gli ultimi strati della coscienza religiosa: col« fondo dell’anima» e con l’acies animae.

Vedemmo inoltre, che il bene, in fondo, è la vivente santità di Dio stesso; aver cognizione del bene quindi e della sua esigenza, è aver cognizione della santità di Dio e della sua legge. L’organo ne è la coscienza. E la situazione, dalla quale il bene viene specificato, è disposizione dello stesso Iddio, il quale con il suo comando sollecita il cuore, affinché voglia accogliere in sé ed attuare il bene-santità. Fin dall’eternità il mondo è nelle mani di Dio. Dall’eternità Egli coordina il tutto e il singolo. Il singolo, affinché con altri singoli costruisca il tutto; questo tutto poi, perché diventi fondamento, contenuto, compito per il singolo. Noi abbiamo rassomigliato il rapporto di ogni singolo con l’universo ad un’ellisse. Essa ha due fuochi: uno sta in me, l’altro nel tutto, davanti e intorno a me. Ogni qualvolta v’è un uomo che dice « io », si tende un nuovo rapporto fra i due fuochi. Che in tal modo l’universo e il singolo entrino in vicendevoli rapporti, che l’edificarsi dell’universo e il mio sviluppo siano posti in relazione strettissima, per disposizione della sapienza e dell’amore di Dio, – questo e non altro è la Provvidenza. E la Provvidenza di Dio entra in azione, continuamente, nella situazione. In essa si specifica l’infinita esigenza della sua santità.

La coscienza poi è la cognizione di questo rivelarsi e specificarsi del volere divino nella disposizione della Provvidenza.

Io non sono un « caso» fra tanti, ma qualche cosa di unico. Non sono soltanto individuo, ma anche persona. Non porto in me soltanto un’essenza generica, ma un’essenza che ha l’impronta dell’unicità: porto un nome. Questo nome l’ho da Dio. Sono nel mondo, ma non mi confondo con esso. Con ciò che ho di intimo vengo immediatamente da Dio e sto in rapporto diretto con Lui. Egli mi ha creato come questa determinata persona. Questo nome che mi ha imposto non è racchiuso nella natura generica «uomo ». Non si sperde nell’articolazione dell’universo, e Dio solo lo sa. Perciò io posso conoscere il mio nome, conoscere cioè quello che ho di più mio, solo ricavandolo di là, dove è custodito, cioè da Dio. I vari strati del mio essere possono essere portati alla condizione di realtà cosciente con maggiore o minore facilità. Quanto più nobili e più profondi, tanto più difficilmente. L’ultimo diventa reale soltanto nell’incontro con Dio. Questa cognizione intorno a Dio; questa cognizione di ciò che intercede tra Lui e me soltanto; questo rivelarmi a me stesso al suo cospetto, è la coscienza nella sua ultima profondità religiosa. Io debbo fare la mia parte nel mondo in corrispondenza al nome che da Lui ho ricevuto. E tale divento solo a patto di compiere la volontà di Dio a mio riguardo. Ma questa volontà mi vien presentata, di volta in volta, dalla situazione.

Ciò trova la sua piena espressione cristiana nella rivelazione della nostra dignità di figli di Dio. Come questa determinata persona, io vengo creato e ricevo un nome; come questo «tal dei tali» vengo rigenerato e ricevo un nuovo nome; vengo battezzato per divenir figlio del padre. L’Apocalisse esprime ciò che qui mi viene dato, che rimane ancora occulto, ma un giorno diverrà manifesto, nella proposizione: «Voglio dargli un sasso bianco con su scritto il nuovo nome, che nessuno conosce, se non colui che lo riceve ».

 

 

 

(Audio 15) Ora dobbiamo domandarci: Tutto questo è forse la cosa più naturale del mondo? È cosa ormai attuata e assicurata? che va avanti automaticamente? 
Evidentemente no; come risulta da tutta la nostra considerazione. Più di una volta abbiamo rilevato che la coscienza non è un apparato perfetto che funzioni senza bisogno d’altro, bensì qualche cosa di vitale, che diviene e cresce, come tutto quello che vive in noi. Noi stessi vi siamo dentro, con tutte le nostre manchevolezze. Perciò essa può divenir quello che deve essere solo a poco a poco.
Di qui la nostra odierna domanda: Questo divenire procede da sé? Ovvero possiamo contribuirvi in qualche modo? Poiché se lo possiamo, in tal caso anche lo dobbiamo.

Vorrei fissare un primo concetto: Ciò che ne è l’estremo fondo e la proprietà intrinseca non può venir fatto. Il perfezionamento intrinseco della coscienza, dal punto di vista naturale, è cosa degli anni e dell’esperienza; dal punto di vista della fede, è cosa della grazia. 
Anche per la coscienza si tratta in fondo di un processo di maturazione. Che la nostra sensibilità per il bene diventi più robusta e più chiara; che la coscienza della responsabilità in questo riguardo diventi più precisa; che la nostra sagacia nel cogliere la molteplicità di valori della situazione si affini; che lo sguardo sul suo significato definitivo e la capacità di ridurne il molteplice contenuto all’unità della sua esigenza e la forza di decidere e di mantenere la decisione presa diventino più sicuri – il progresso in tutto ciò dipende da maturazione interiore. E dall’esperienza. Poiché quanto importa l’aumento della sensibilità interiore, il raccoglimento e il consolidamento interiore, altrettanto importa che noi rinnoviamo continuamente il nostro contatto con la molteplicità delle cose e degli avvenimenti. Con ciò noi veniamo in possesso di una gran quantità di immagini, immagazziniamo dei fatti e allarghiamo le possibilità di confronto. I nostri criteri di misura, i nostri punti di vista, le nostre abitudini, attraverso la nostra esperienza, vengono passati continuamente al vaglio della critica, analizzati e corretti.

Maturazione interiore ed esperienza esteriore si aiutano a vicenda.

Lo stesso vale anche per la vita cristiana: l’avvicinarsi a Dio; la disposizione a lasciarci istruire da Dio; la serietà dell’intesa con Lui; il comprender sempre più profondamente se stessi nel dovere, che ci è imposto – tutto questo è frutto di maturazione e dell’esperienza ad un tempo. Frutto della crescita naturale della vita, ma soprattutto dono della grazia. E la grazia dobbiamo tenerci pronti a riceverla e ad impetrarla con incessante preghiera. Né dimentichiamo che vi è un sacramento della coscienza cristiana: la Cresima. Nella Cresima veniamo dichiarati maggiorenni nel regno di Dio – lo schiaffo è appunto l’antico simbolo giuridico, col quale il giovane veniva liberato dalla tutela. E i doni dello Spirito Santo ci vengono dati, affinché nel mondo impegniamo la nostra responsabilità per il regno di Dio.

Che cosa dobbiamo fare dunque, da questo punto di vista?

Dobbiamo purificare il nostro intimo. Dobbiamo diventare attenti e pronti. Dobbiamo fare il nostro dovere. Interpretare la situazione e corrispondervi nel modo migliore possibile. Dobbiamo tener l’anima aperta all’esperienza. Vivere con vigile solerzia la nostra vita. Non sfuggire l’evento che ci viene incontro; a meno che la nostra coscienza non ci dica che in questo caso la soluzione della situazione consiste appunto nella fuga. Dobbiamo accettare i casi lieti e tristi; anche i tristi e proprio quelli. In poche parole dobbiamo aprirci alla vita, quale Dio ce l’ha destinata. Dobbiamo trar profitto da questa vita – dalla nostra vita; dilatando, correggendo, illuminando noi stessi.

E non stancarci mai di impetrare la chiarezza della coscienza. Cosi pregava Newman: «Ho bisogno che Tu m’istruisca, giorno per giorno, su ciò che è l’esigenza e la necessità di ogni giorno. Concedimi, o Signore, la chiarezza della coscienza, la quale sola può sentire e comprendere la Tua ispirazione. I miei orecchi sono sordi; non so percepire la Tua voce. I miei occhi sono offuscati; non so vedere i Tuoi segni. Tu solo puoi affinare il mio orecchio, acuire il mio sguardo e purificare e rinnovare il mio cuore. Insegnami a star seduto ai Tuoi piedi e a prestar ascolto alla Tua parola. Amen ».

(Audio 16) E allora l’una cosa riceverà luce dall’altra.

Oltre a questo è però possibile un’altra cosa: l’esercizio.

Sull’argomento ci sarebbe molto da dire. Tutto il problema della formazione della coscienza, il problema della formazione della vita interiore, sta qui. Tutte le questioni: come render l’occhio capace di distinguere la varia molteplicità del reale e dei suoi valori? Come svegliare e irrobustire la forza di penetrare e d’imprimere una forma alla situazione? Come educarmi alla larghezza e nello stesso tempo alla precisione? Come allentare a poco a poco dai loro vincoli gli strati profondi del mio essere, affinché diventino liberi ed entrino in azione?… Qui si tratta dei compiti più importanti dell’educazione.

Da questo vasto campo scegliamo una cosa sola: l’esercizio del raccoglimento.

Tutti i maestri della vita interiore ne parlano. Si può dire che, sotto un certo aspetto, tutta la formazione morale e spirituale si riassume nell’esercizio del raccoglimento. Su che si basa questo esercizio?

Si basa sul fatto che il nostro essere vivente è costruito in due direzioni: dall’interno all’esterno e viceversa. Sulla cognizione, dunque, che vi è in esso superficie e profondità, moto di espansione verso la periferia e di concentramento verso il centro. Sulla conoscenza inoltre, che quello che è interiore, profondo, al centro, è più importante; che l’uomo però inclina all’esteriorità, alla superficialità, alla distrazione; che perciò il compito più urgente sta dalla parte, dove maggiore è il pericolo.

E si tratta di un compito veramente grande, che decide di interessi supremi. Di che si tratti qui possiamo forse esprimerlo nei termini seguenti: Si tratta anzitutto della cella interiore.

Questa cella interiore esiste; la sfera interiore, nella quale posso ritirarmi, nella quale mi posso occupare degli oggetti, e dove sono, da solo a solo, con me stesso; là dove vengon prese le decisioni vitali, dove mi trovo con Dio, alla Sua presenza, sotto il Suo sguardo… Questa cella esiste e può diventare più ampia, più profonda, più viva, più tranquilla, più sicura.

Tutto ciò non è così naturale, come potrebbe apparire. Se ci chiedessimo con sincerità: Ho io in me tale «cella interiore»? Ho io questa sfera opposta alla semplice esteriorità, nella quale posso esistere e vivere? – credo che dovremmo spesso rispondere negativamente. Dovremmo confessare di avere la sensazione che in noi tutto sia chiuso, compatto e impenetrabile. Comunque non riconosceremmo certo il caso nostro in ciò che i maestri dicono del mondo interiore: della sua segretezza e tranquillità, dei suoi vari piani in profondità, della pienezza della sua vita intima, della sua potenza; della grandezza delle sue decisioni… Ecco qui dunque un compito da assolvere.

Bisogna creare, ampliare, munire di volta la cella interiore. Il mondo interiore deve venir dischiuso.

Quello che abbiamo detto della cella interiore include già un secondo concetto: la profondità.

Che cosa significa il dire: un uomo è «profondo»? Non vuol dire che i suoi pensieri siano complicati e difficili da capire; nemmeno che i motivi del suo agire siano occulti e le sue mète nascoste, o alcunché di simile. La profondità è una proprietà singolare. Possiamo esprimerla soltanto metaforicamente, ma abbiamo la sensazione precisa di che si tratta. Profondità significa una dimensione speciale, diversa da «quantità», o «estensione», o «complicazione». È stratificazione “verso l’intimo”, e precisamente in maniera, che gli strati, quanto più sono interiori, tanto più diventano preziosi, nostri, delicati, viventi. Il pensiero più semplice può esser più profondo, e i sentimenti più complicati, superficiali; il sentimento più forte può esser superficiale e la più lieve impressione, profonda.

Anche questa profondità va conquistata, e chi l’ha ricevuta in dono deve coltivarla. Quando conosciamo un uomo da bambino e poi lo seguiamo nella sua gioventù e così avanti secondo che procede negli anni; se egli vive onestamente e fa il suo dovere, allora notiamo che la qualità, di cui si è parlato sopra, si afferma in tutto il suo carattere, nelle sue parole, nelle sue azioni.

(Audio 17) Facciamo un passo innanzi: la vigilanza interiore. La sensibilità e la perspicacia per ciò che è giusto; per la pienezza e la varietà dell’essere e della situazione; per le gradazioni e le sfumature della realtà e di valori. Di nuovo anche qui una cosa non è così naturale, come potrebbe sembrare. Quasi quasi può dirsi naturale il suo contrario: la cecità e l’angustia dello sguardo, l’ottusità della sensibilità interiore, l’indolenza del cuore. Quella vigilanza importa che si avverta la potenza e la pienezza dell’esistenza, che si nutra in sé la passione per il bene e per il dover-essere, che si soffra sotto il peso dell’imperfezione; significa che interiormente qualche cosa sia sempre pronto a uno slancio verso ciò che è giusto e buono… Anche questa piena chiarezza, sensibilità, tesa prontezza è un compito.

Ed eccoci al raccoglimento nel senso più stretto: Che tutta la molteplicità delle forze venga energicamente disciplinata da un punto interiore; che tutta l’attività abbia un solo punto di partenza e, per vie spesso nascoste, ad esso ritorni; che la vita abbia un centro e perciò un ritmo. Anche qui, se ci chiediamo: «Ho io ciò? Ha la mia vita qualche cosa che assomigli a un centro? Ed è ordinata verso questo centro?» – la risposta difficilmente sarà soddisfacente. La nostra vita è tutta esteriorità. Nella nostra vita domina il caso. Le cose esteriori, secondo che ci si avvicinano, ci attirano a sé. Noi siamo in balia di quello che ci tocca di bene e di male. Le nostre forze si disperdono in mille oggetti. Anzi molti uomini non hanno nemmeno la più lontana sensazione di un «centro». L’esperienza del proprio centro è ben determinata e non vive certo in molti, altrimenti la nostra civiltà avrebbe un altro aspetto. Dunque un altro compito anche qui.

E finalmente si potrebbe accennare anche alla spiritualizzazione: Che in noi si irrobustisca lo spirito; lo spirito, che è qualche cosa di diverso dalle cose materiali; di diverso da ciò che è solamente corporeo; di diverso dalla vita puramente sensitiva. Quello che sta in rapporti speciali col bene, con ciò che deve essere, con la verità, con l’amore, con la purità, con Dio. Che questo spirito cresca nell’uomo, ecco ciò che determina il nostro valore umano. Che lo spirito tutto compenetri; signoreggi la vita dell’istinto e la passione; che si esprima in tutto – se guardiamo attentamente, è proprio da ciò che dipende tutto quello, di cui abbiamo parlato or ora. Cella interiore, profondità, vigilanza, raccoglimento e centro – sono espressioni diverse per dire che in noi lo spirito è vigoroso. Anche questo però non è cosa che venga da sé. Pronunciamo una volta attentamente la parola «io»! Se da questo io, da quello che io ho e sono venissero eliminate le cose che posseggo, gli organi del mio corpo, le sensazioni dei miei sensi; se cancellassi i miei concetti, le mie cognizioni, le mie abilità – al di fuori di tutto questo resterebbe ancora qualche cosa? La domanda è fatta molto all’ingrosso, ma il senso è chiaro. Se cancello tutto questo, mi rimane ancora quel resto, per il quale tutto ciò che si è prima nominato è soltanto materia strumentale e mezzo di manifestazione? Quell’entità intima che in tutto ciò vive, che in ciò raggiunge il suo destino, decide della sua sorte, si afferma o fallisce? Ciò, da cui, in definitiva, dipende la mia dignità e la mia salvezza? Certo, lo so, questa entità esiste, è lo spirito, la mia anima spirituale… Ma forse non è vero appunto che per lo più ciò lo so soltanto, ma non lo vivo? Che l’anima spirituale dorme con quello che ha di più intrinseco? Deve pur esser così, altrimenti gli uomini sarebbero diversi da quelli che sono.

Molto di quello che possiamo fare, per tradurre in atto tutto questo, è espresso nella parola: esercizio del raccoglimento.

Vogliamo parlarne alquanto a lungo, prendendo le mosse dall’esterno, per addentrarci poi sempre più verso l’essenziale. Ma qui poco ci gioverebbe, se dovessimo limitarci a pensieri generali. Al principio del nostro incontro ci siamo accordati di voler parlare di « ciò che dobbiamo fare ». Perciò vorrei venire al pratico. Spetterà poi a voi di prender posizione in questo campo. Vorrei però ricordarvi che qui si tratta di cose dell’esperienza, delle quali, a sua volta, si può giudicare soltanto in base all’esperienza. Che dunque premessa per un retto giudizio è il fare.

(Audio 18) La forma più ovvia del raccoglimento sarebbe certo l’ordine. Ordine della vita e del lavoro quotidiani, degli oggetti in camera e in casa, delle occupazioni nel corso della giornata e dei giorni; della lettura, dei pensieri e così via.

L’ordine raccoglie.

Ma di ciò basti un cenno.

Più profonda è l’efficacia di quella che si potrebbe chiamare l’educazione dei sensi e dell’attenzione.

Socrate ad un padre, che veniva a chiedergli consiglio riguardo ad un suo figliuolo, disse una volta, sembrargli strano che gli uomini, mentre si guardan bene dal mangiare cibi guasti, sapendo che non è indifferente quello che introducono nello stomaco, non si facciano poi alcuno scrupolo di riempirsi l’anima di pensieri perversi. Questo è strano davvero. Noi abbiamo un’igiene del mangiare, ma non dubitiamo neppure che vi possa essere anche un’igiene del vedere, dell’ascoltare, del leggere. Dobbiamo lasciar entrare in noi proprio tutto? Facciamo una volta la prova: dopo aver attraversata la città, passando per vie frequentate, davanti a persone e a vetrine, esaminiamo il nostro interno per vedere che aspetto abbia. Che guazzabuglio di impressioni! Che disordine di pensieri! Che altalena di emozioni e di desideri! Che inquietudine e che malcontento! Ed anche quante brutture! È proprio necessario che sia così? Qui è al suo posto ciò che l’ascetica chiama la «custodia dei sensi», la disciplina dell’attenzione.

Esercitare il raccoglimento vorrebbe dunque dire che qui si intervenga. Che non si lasci entrare tutto quello, che batte alla porta dei sensi e dell’attenzione; che si sappia distinguere fra il bene e il male, fra ciò che è nobile e ciò che è ignobile, fra quello che ha valore e ciò che non val nulla, fra quello che porta consapevolezza e ordine e ciò che crea soltanto confu

Esercizio del raccoglimento sarebbe anche il non permettere che un giornale riversi nel mio interno tutto quel guazzabuglio di ciarpame politico, di quisquilie spirituali, di cronaca nera e sensazionale, di vero e di falso, di bello e di volgare, di pettegolezzo e di altro ancora! Dovrei dunque apprendere a sceglier dal giornale solo quello che mi riguarda, con rapidità e con sicurezza, e non appena esso mi ha reso questo servizio assolutamente non importante, buttarlo via e metter mano a qualche cosa che meriti maggiormente il nostro scarso tempo e le nostre scarse energie.

Si potrebbe così esemplificare a lungo. Esercizio del raccoglimento significherebbe dunque che di fronte al disordine del caso, alle pressioni da destra e da sinistra, alla folla delle impressioni e delle vicende, a tutto ciò che ci turba, ci eccita e ci inquina, sappiamo diventare indipendenti. Che di fronte a tutto impariamo a conservar la nostra calma. Che sappiamo passare al vaglio le nostre impressioni. Che troviamo un piacere, anzi direi uno sport molto nobile, nell’impegnar la lotta contro la prepotente barbarie che ci circonda; la lotta per non essere lo zimbello del caos culturale che ci attornia, e per diventare al contrario liberi padroni di noi stessi.

E non soltanto col vagliare le cose e coll’eliminare tutto ciò che non è né utile né buono. Ma anche e innanzi tutto col rivolgere la nostra attenzione interiore a qualche cosa di essenziale: ad un pensiero che va approfondito, ad una questione che va chiarita; ad un uomo, o ad una cosa che vogliamo capire… Ma di ciò diremo di più fra poco.

(Audio 1Ora facciamo un passo avanti e più addentro: eccoci alla solitudine e al silenzio.vata spiritosa, o una osservazione calzante, che corra alla mente. Tutto ciò può costare un buon sacrificio. Ma superando questo istinto sfrenato di correre da altri, di parlare o di ascoltare a parlare, si guadagna in profondità interiore.
Noi siamo schiavi non soltanto delle impressioni, ma anche degli uomini. Abbiamo istinti gregari. So che esiste anche la misantropia e, certo, non è il caso di coltivarla. C’è il destino della solitudine, che non trova nessuno con cui possa convivere. Nemmeno di questo intendiamo parlare. Parliamo di qualche cosa che non ha nulla di tragico, ma è invece estremamente da commiserare, dell’istinto gregario, troppo diffuso fra gli uomini; di quel bisogno di sentire intorno a sé sempre del chiasso; di voler sentir sempre chiacchierare; di non saper riservar nulla per noi soli e di non saper da noi stessi venir a capo di nulla.

Il raccoglimento sarebbe qui l’esercizio della solitudine e del silenzio.

Come sarebbe dunque a dire: non correre subito da altri, ma saper rimaner soli. E non per altro motivo che per cavarsela una buona volta da soli. Sbrigare una faccenda da soli, pur avendo alla mano qualcuno da poterne discorrere; e ciò all’unico scopo di acquistare una maggior indipendenza di giudizio e di deliberazione. Esercizio del raccoglimento sarebbe il tener per sé una storia o un avvenimento, o una tro

Poi la ricerca della quiete e della solitudine: scegliere la via più modesta, anziché quella ricca di vetrine e di lampioni, fare un passeggio da solo, anziché in compagnia; rimanersene una sera tranquilli a casa, invece che andare in visita; rimaner soli una giornata intera, a casa, oppure, ciò che è particolarmente bello, all’aperto. Forse addirittura alcuni giorni di ritiro. Tali periodi portano refrigerio e concentrazione. Se ne esce del tutto purificati.

E, a sua volta, che questa quiete sia riempita con qualche cosa di positivo: con un buon pensiero, con un buon libro, con un problema. Teniamo presente tutto questo. Torneremo sull’argomento, per spiegarne l’importanza.

Al di là di quello che si è detto conduce la tacita attenzione rivolta al proprio intimo.

Essa non è altro che un’inclinazione generale a sostare di tanto in tanto e a riflettere sulla portata delle cose, a sottrarsi talvolta all’incalzante tumulto delle cose che passano, e a tender l’orecchio a ciò che sta avvenendo. È un assuefarsi a gettare sguardi retrospettivi, per esaminare il proprio operato; a riguardare il passato non come definitivamente liquidato, per la sola circostanza esteriore ch’è trascorso, ma a farlo agire su di noi dai suoi strati più profondi…

Wilhelm Raabe dice una volta quali lettori egli desideri per sé: «Ecco, egli dice, che si sta fabbricando una casa, e la gente che osserva fa i suoi commenti. L’uno critica, l’altro loda, un terzo pensa come l’ammobilierebbe se fosse sua. Ognuno considera la fabbrica in pietra e in legno e la valuta dal gusto e dall’utile che potrebbe cavarne. Ma c’è anche uno, il quale pensa quale vita si svolgerà in quelle camere, quale destino, quali dolori, quali gioie vi passeranno. Costui – dice il grande novelliere – che vede le cose in tal modo, è il lettore che desidero per me ».

Qualche cosa di simile intendiamo esprimere anche qui. Una specie di gravitazione, vorremmo dire, verso l’intimo; la quale non deve però ostacolare e all’azione un valore e un legame con l’intimo.

In altri termini si potrebbe dire: una specie di attenzione rivolta all’al di là. Rainer Maria Rilke esce una volta in questa profonda invocazione: 
«Tu, o Dio vicino…
Sono in continuo ascolto, dammi un segno, 
Io sono assai vicino.
Solo una parete sottile ci separa…»

 

Anche questo serve a render chiaro quello che intendiamo dire. Si può viver senza dubbio anche altrimenti. Si può vivere assorbiti nell’attualità che si tocca con mano, affidati alle sue ben note forze, nella chiusa cerchia delle cose visibili e dei fatti dell’esperienza, e con ciò punto e basta. Si può però anche mantener vivo in noi il pensiero che non è tutto qui. Che attiguo a noi, separato da una sola parete, abita l’Altro. Che lungo tutti i confini del nostro essere Dio ci è d’accanto. Si può tener desta la consapevolezza che nel nostro proprio intimo, là dove confiniamo col nulla, sta il Dio vivente.
Qui non c’è nulla di particolare da «fare»; non riflessioni e non sforzi speciali. Basta lo star sempre e tranquillamente in ascolto, un esser presenti a se stessi e un mantenere lievemente i contatti.

Esso può consistere in quanto segue:
Nelle nostre azioni e aspirazioni di tutti i giorni noi siamo trasportati dalla corrente impetuosa degli avvenimenti. «Raccoglimento» significa qui l’uscire da questo vortice e mettersi in pace. Portar calma nel nostro essere, nelle nostre forze, nella nostra volontà. Far penetrare la pace sempre più profondamente in noi stessi. Noi facciamo sempre questo o quello, siamo sempre in attività, progettiamo, vogliamo, organizziamo, facciamo. Quando non facciamo niente, diventiamo nervosi e intorno a noi sentiamo il vuoto. La voce ha come un’eco cupa; ci si sente a disagio e ci si annoia. E al di là di tutto l’agire e il fare, noi non siamo, non esistiamo. Idolatriamo l’attività e perdiamo l’uomo.

Raccoglimento significa qui che sappiamo, una buona volta, non tanto fare, quanto vivere. Avere un’esistenza tranquilla. Un’esistenza piena, libera dall’ossessione del fare e del volere.

Noi tendiamo sempre ad una mèta, poi ad un’altra ulteriore, e così di seguito. Sempre verso qualche cosa che non esiste. Sbrighiamo una cosa e la gettiamo dietro le spalle. Viviamo gli avvenimenti, rapidamente e già essi non sono più. Cosi viviamo sempre scivolando fra quello che non è più e quello che non è ancora.

Raccoglimento significa qui creare il presente, sostare e divenir presenti. Presenti in noi stessi, realizzare l’«oggi» per quanto è concesso alla nostra instabilità; almeno averne l’intenzione e la disposizione.

Vivere tranquillamente l’attimo fuggente è appunto raccoglimento.
Le nostre forze sono disperse fra molti oggetti. La nostra attenzione viene attratta da mille cose. La nostra volontà e i nostri desideri sono incatenati in mille modi. Non siamo in possesso di noi stessi, ma in balia delle cose. La molteplicità delle cose è anzi penetrata in noi stessi, come ne fanno fede la varietà dei nostri pensieri, il contrasto dei nostri desideri, l’irrequietudine dei nostri sentimenti.

Raccoglimento vuol dire richiamare noi stessi a noi stessi; le nostre forze dalla dispersione all’unità. Superare la confusione e ristabilire una tranquilla semplicità. Sgombrare il guazzabuglio, per attenerci a pochi, forti e buoni pensieri. Semplificare i nostri desideri; imparare a riposare in noi stessi senza brame, a diventar tranquilli e sereni. Apprendere ad esser padroni di noi stessi.

Il nostro interno è spesso oppresso da preoccupazioni, agitato da passioni e accasciato dalle contrarietà e dalle sofferenze.

Qui il raccoglimento significa che interiormente torniamo a noi stessi. Che in noi si levi qualche cosa di profondo, che a tutte queste cose per noi ripugnanti dica: «Questo veramente non mi appartiene. Devo sopportarlo e lo farò lealmente, ma non sono tutt’uno con esso. C’è in me qualche cosa al di là di tutto questo. Questo qualche cosa è sereno, è forte, è l’essere vivente del mio spirito. Questo vive in sé, realmente, nella sua indistruttibile sostanzialità. Raccoglimento significa che io cerchi il contatto con questo centro spirituale vivente, il contatto da me stesso a me stesso. E che di lì attinga l’energia e la fiducia per rinnovarmi. Il Vangelo parla della luce interiore che è in noi e può « rischiarar tutto ». Questa non è immagine, è realtà. Lo spirito è luce sostanziale. E chi sa liberare lo spirito, ne rimane illuminato. «Tutto il corpo illuminato », dice il Signore. Di questo passo si potrebbe continuare un pezzo…

Ma non ci rincresca di venire al concreto. Come possiamo compiere quest’esercizio?

La sera, quando abbiamo finita la nostra opera quotidiana, potremmo ritirarci. Potremmo metterci a sedere. Meglio ancora se in ginocchio; perché lo stare in ginocchio esprime riposo e insieme contegno. Poi potremmo creare il silenzio; attorno a noi e in noi. Potremmo poi dirci: «Ora sono tranquillo; perfettamente tranquillo; fino nel più intimo della mia anima ». Potremmo cercar di sgombrare del tutto il nostro intimo e di metterci in una calma assoluta. Quando facciamo così, ci accorgiamo, e solo allora adeguatamente, quanto sia profonda l’irrequietudine dei nostri nervi. Mille cose si affacciano e vogliono essere fatte. Cose dimenticate urgono per essere riprese in considerazione, preoccupazioni si affacciano, progetti si incalzano… Via tutto questo! Bisogna acquistar la calma e non con uno sforzo di volontà, ma con una lenta liberazione interiore. E lasciar discendere il silenzio, sempre più in giù, nel profondo dell’io. I pensieri di tutte le specie – via! I desideri senza pace – via! Non con un atto imperioso della volontà, bensì mettendoli silenziosamente e insieme però anche risolutamente alla porta. Non pensare né all’ieri, né al domani. Essere del tutto presente, del tutto qui. E così sostare un po’; questo solo porta già risveglio interiore, padronanza di sé, freschezza e rinnovamento.

Ma poi, a misura che la nostra padronanza interiore diventa più sicura, dobbiamo portare in questo silenzio, in questa presenza a noi stessi, in questo raccoglimento, qualche cosa che venga dalla sfera del bene. Riflettiamo al significato di una nostra azione passata: che senso può veramente aver avuto? E vi abbiamo fatto buona prova? O avremmo dovuto agire altrimenti? L’azione cattiva può venir riparata, in certo modo rigenerata, nel pentimento e nella sincerità della conversione. Oppure in questo silenzio portiamo qualche cosa che è ancora da fare: un dovere, un problema. Apriamoci al bene: «Lo voglio, sono pronto, sinceramente, fino nelle profondità del mio essere! Che debbo fare? ». In certe perplessità, nelle quali non si sa a che santo votarsi – quando internamente ci si mette in calma, e si supera la ribellione contro il bene, non con la violenza, ma con una liberazione interiore e ci si mette con sincerità in buone disposizioni – allora, spesso tutto d’un tratto, si sa che cosa convenga fare. Poiché quello che cagionava l’incertezza, non erano in fondo solidi argomenti in contrario, ma una riluttanza della volontà. Oppure portiamo con noi nella nostra quiete una parola profonda, un pensiero sostanziale, una limpida lettura.

(Audio 21) Questa è la cella conveniente soprattutto alla Sacra Scrittura: la cella della meditazione.

Qui è la «dimora» per Iddio. Quando mi metto in pace e dico: Io sono qui, pienamente presente – - allora si affaccia quasi spontaneo il pensiero: È qui Dio, il Dio vivente. Pregare significa elevare il cuore a Dio, significa cercare il cospetto di Dio, con lo sguardo interiore, affinché il movimento del nostro cuore e la parola del nostro spirito trovino il loro posto. Questa cosa profonda, che consiste nell’orientamento verso Dio, nel muoversi verso di Lui, e nel giungere presso di Lui, nel parlarGli a tu per tu – tutto ciò è frutto di un tal raccoglimento. «Quando tu preghi, prepara il tuo cuore, e non essere come un uomo, che tenta Dio », dice la Scrittura. Chi si prepara in tal modo, sente sgorgare quasi spontanea la preghiera dal suo cuore.

Qui convien fare attenzione ad una cosa importante. Dell’esercizio del raccoglimento si può anche abusare. Qui si tratta di realtà, di forze reali, di profondità reali. Queste forze possono venire evocate e cagionare anche danni; le profondità possono venir spalancate ed esporre a pericoli. Ciò può avvenire perché tali forze non vengono dirette ad uno scopo e allora cagionano rovina, come avviene di una sorgente che si faccia scaturire, senza poi incanalarla. Ovvero perché tutto vien fatto per vanità; per dilettantismo, per capriccio, per avidità di sensazione, per qualche desiderio di potenza. Le correnti occultistiche e parapsicologiche sono spesso un criminoso gioco con tali forze… Quello che qui facciamo, dobbiamo farlo con moderazione e con calma. E – ciò che è di importanza decisiva – farlo con intenzioni rette e pure. Quello stesso raccoglimento, che rivolto, ad esempio, ad una parola della Scrittura, è sorgente di vita santa, cagiona gravi malanni, quando è ozioso e vano, oppure ha mire false e capricciose. La stessa concentrazione, che è fattore di ordine e di risveglio, quando, ad esempio, è unita al pentimento per un errore commesso e alla sincera disposizione di compiere un dovere futuro, crea invece della confusione, quando mira a qualche scopo di« potenza spirituale» o a conseguire effetti fantastici.

Questo raccoglimento è proprio il vero luogo per la parola di Dio, la quale deve appunto essere ascoltata in silenzio e in adorazione, accolta nella quiete profonda del cuore. Perché la parola di Dio non è una semplice comunicazione, ma anche una forza generatrice di vita santa.

Il raccoglimento è la dimora per Iddio stesso.

Così possiamo fare la sera. Così anche al mattino.

Qui dieci minuti possono far molto. Tutto quello che si fa e si sopporta durante il giorno riceve l’impronta di tutt’altra fiducia e purezza, quando promana da un tal raccoglimento.

Così al mattino è bene riflettere: «Eccomi qui! Proprio io; con le mie forze; con la vigilanza del mio spirito; col calore e con la prontezza del mio cuore. Dio pure è qui presente. Io vengo da Lui ed ho la Sua grazia in me. La Sua chiamata alla santità mi incalza nel mio interno, perché la traduca in atto… Io so che mi accadrà questo o quello… ed ora affronto la mia giornata armato di quella forza interiore. Voglio far bene la mia parte».

Poi, a sua volta, la sera, la resa dei conti innanzi al Bene vivente, al Dio Santo: «Come ho passato la giornata? Ho dato ascolto alla voce del bene? Vi ho corrisposto? »… Rendiconto, pentimento, rinnovamento del cuore… E poi abbandono totale nelle mani di Dio, che è il padrone di ogni riposo.

E sarà bene che anche durante la giornata si torni a prender contatto, di tanto in tanto, con l’ambito interiore, che si rinnova ogni mattina e ogni sera. Anteo, figlio della terra, era invincibile, perché, ogni qualvolta toccava la madre, acquistava nuove forze. Così è anche dello Spirito. Sia come un tocco leggero alle porte di quel mondo interiore; specialmente quando ci si imbatte in qualche cosa di difficile e di imbarazzante, che esige il massimo sforzo. Ciò porta ogni volta ad un rinnovamento del nostro slancio e delle nostre energie. 

“Altre cose di questo genere rimarrebbero ancor da dire. Tuttavia quanto si è detto potrà bastare. Tutto questo – e aggiungo a questo ancora ciò di cui abbiamo parlato al principio: l’interno e segreto processo di maturazione del nostro essere, l’incessante lavorìo dell’esperienza, l’accettazione coraggiosa della vita quotidiana e di ciò che essa ci porta – tutto questo fa sbocciare a poco a poco dentro di noi il centro vitale; fa sì che lo spirito si rinvigorisca e compenetri tutto il nostro essere; che la cella interiore si apra, che il fondo del nostro io si rischiari; e l’energia si concentri e diventi efficace.

E così la « coscienza» diviene a poco a poco quello che deve essere secondo la sua essenza: la voce vivente della santità di Dio in noi.

(Audio 20) Fin qui si trattava di premesse del raccoglimento. Veniamo ora al suo esercizio nel senso più rigoroso della parola. Esso può assumere varie forme, che però in fondo riescono tutte alla stessa cosa.9) sione e trascina in basso. Un simile esercizio potrebbe dunque essere, a mo’ d’esempio, questo: Quando vado per le vie voglio rimanere padrone di me stesso e non permetto che ogni manifesto attragga il mio sguardo. Conservo la mia indipendenza e non mi lascio attirare da ogni vetrina. Mi rendo interiormente indipendente da tutto quel tramestio di gente, di veicoli, di figure, di chiasso e di calca, e non permetto che il mio interno venga distratto da ogni cosa che in qualche modo colpisca. In ciò mi esercito, e torno ad esercitarmi continuamente. Con tale esercizio apprendo l’arte di compiere un giro in città senza danno e di arrivare alla mia mèta con coscienza incolume e tranquilla.

 

L’INTESA CON DIO – Romano Guardini

L’INTESA CON DIO (Audio 9)

Abbiamo parlato della coscienza e abbiamo cercato d’intenderla come la conoscenza del bene; di ciò che forma il compendio supremo di ogni valore e significanza, ed è degno di avere in sé e non d’altronde la sua ragione d’essere. Questo bene si rivolge a me con l’intimazione che io lo riconosca, lo accolga e lo attui. La coscienza è appunto la consapevolezza di questa esigenza e della sua legittimità.

Abbiamo visto che si tratta di una conoscenza di natura speciale. Essa ha un carattere di intimità, significa un ripiegarsi su se stessi, un abbracciare e un custodire. L’abbiamo espresso nella proposizione: « Sono conscio a me stesso del bene ». Questa interiorità sta in relazione col valore infinito del bene, col fatto che il bene è in se stesso il fine ultimo, il significato più profondo di tutto. Essa dipende però insieme dal fatto che qui si tratta anche del fine ultimo di me stesso e del senso supremo del mio essere. Perciò è un « sapere intorno a (qualche cosa) »; un abbracciare ciò che è nascosto; un accostarsi a quello che è principio e fine, origine e mèta.

Abbiamo visto inoltre che il bene è al tempo stesso infinito e semplice. Se ci domandiamo quindi: «Che cosa è il bene?» e « Che cosa debbo fare per attuarlo? » – la risposta a questa domanda non viene così alla spiccia. Esperimentiamo anche qui quello che è espresso nella proposizione agostiniana: «Se tu non mi interroghi, lo so. Ma se mi interroghi ed io devo dirlo, allora non lo so ». Il fondo del nostro essere è in comunicazione col bene. Quanto più pura si fa sentir la voce del nostro intimo, tanto più esatta riesce la nostra conoscenza del bene. Ma dare senz’altro un nome a questo bene ed esprimerlo per l’azione non ci è possibile, appunto perché esso è il termine finale, infinitamente ricco di contenuto e ad un tempo semplicissimo. La risposta reale e vivente alla domanda: « Che cosa sei, o bene? e come ti debbo attuare? », ci viene solamente dalla situazione; da quello cioè che di volta in volta ci sta d’intorno e ci viene incontro. Quello che da questo insieme emerge, come comando a noi rivolto, è appunto il bene. Il bene semplicissimo eppur ricco di contenuto infinito, si manifesta e si specifica incessantemente nella situazione. Ma la situazione è sempre presente; essa si produce continuamente; per il fatto che io, come persona capace di responsabilità, vengo a contatto con cose e avvenimenti. Così il bene si concreta, passo per passo, lungo il corso della mia vita, ricevendo la sua forma da ciò che di volta in volta, secondo la situazione, è il giusto e il retto – il che naturalmente non significa una superficiale utilizzabilità; giacché quello che noi chiamiamo « situazione» abbraccia la realtà fino nelle sue estreme profondità, quindi l’uomo come spirito e persona, compreso il suo eterno destino. Tommaso d’Aquino dice: Che cosa dobbiamo fare? Il bene. Ma che cosa è il bene? Quello che di volta in volta è ragionevole; quello che è giusto secondo la situazione. Ma la coscienza è l’organo col quale, di mezzo alla situazione che continuamente si forma di nuovo, contemplo il bene; arresto in certo modo la sua parola che fugge; le dico il mio: «sì» e il mio « no » – per poi passare da esso all’azione.

Ma anche questo è un « conoscere intorno », e un « esser consci a se stessi»; qualche cosa di racchiuso nell’intimo della persona. Poiché quando si tratta di attuare quello che forma il supremo senso della situazione, cioè il bene, è in gioco l’ultimo significato della mia vita, la mia salvezza. Qui io sono, da solo a solo, con me stesso. A me spetta agire, non ad altri. Io devo rispondere della mia azione e nessun altro può sgravarmi dalla mia responsabilità. Ma ciò costituisce la mia dignità, che non può essermi tolta da alcuno.

Coscienza significa quindi qualche cosa di grande; una potenza creatrice, capace di vedere e di attuare qualche cosa che prima non esisteva ancora; di inserire il bene eterno nel corso del tempo; di generare in certo modo qualcosa di infinito e semplice insieme nella forma limitata dell’azione. E a ciò tutto si presta come materia: tutto il contenuto della vita, ogni cosa, ogni avvenimento.

Così a un dipresso abbiamo cercato di capire la coscienza; ed ora dobbiamo scavare più a fondo.
Questa coscienza è ciò che abbiamo di più nostro. Non che per questo la intendiamo così facilmente. Non è uno strumento meccanico, un ago magnetico che si metta in posizione da sé, bensì qualche cosa di vivo, e tutto ciò che è vivente è soggetto ad errori. Così anche la coscienza. Il rimettere l’uomo semplicemente alla «sua coscienza» e fermarsi lì, è prova di scarsa conoscenza dell’uomo e del suo intimo. La nostra coscienza è la nostra suprema bussola; ma, se è lecito esprimersi così, questa stessa bussola può a sua volta perdere la bussola (1).

In tre modi anzitutto l’atto vivente della coscienza può soffrire pregiudizio. Accenniamoli brevemente: la coscienza può diventar superficiale, frivola, ottusa. La coscienza ci rende la vita più pesante. Più ricca di contenuto, più degna – ma anche più pesante. Ora in noi vive la tendenza a cercar le vie facili e a liberarci dai pesi. Donde un lavorìo interno, che mira ad attutire la voce della coscienza. Non si tratta sempre di una volontà consapevole; può darsi che agisca la sfera del subcosciente. Ciò può avvenire in mille modi: facendo sì, ad esempio, che lo sguardo venga distratto dalle linee spiacevoli di ciò di cui propriamente si tratta; che il punto più importante rimanga velato; che la situazione con la sua affaticante unicità e irripetibilità venga ridotta ad uno schema generale più comodo. Altre volte il monito della coscienza viene tacitato e ci si rassicura, dicendo che alla fin fine non si tratta poi di cosa « tanto cattiva ». Vengono messi in rilievo punti di vista atti a contestare. Ci si richiama a quello che fanno gli altri; si cerca per il proprio giudizio e la sensibilità personale uno sgravio di responsabilità col richiamo all’andazzo tradizionale, che « è stato sempre così »; all’ambiente che « è pure in buona fede »; al « sano buon senso» e simili, e così l’esigenza morale, che ha in sé sempre qualche cosa di duro, viene svigorita.

La coscienza può venir anche affinata eccessivamente. Può veder dei doveri là dove non ce ne sono; sentire delle responsabilità, che evidentemente non esistono; esagerare gli obblighi oltre i limiti del giusto e del possibile. (È specialmente l’uomo di tendenze sociali, che è in pericolo di sovraccaricare la sua coscienza). Sì, la coscienza può andar soggetta a vere malattie. Il puro e chiaro dovere che, per quanto difficile, solleva sempre in alto, può trasformarsi in ossessione. Il comando della coscienza deve essere percepito nella libertà. Ma quando la coscienza è ammalata questa libertà sparisce e dal suo comando deriva una vera schiavitù: la coscienza angosciata, lo scrupolo. Nell’uomo infatti è profondamente radicato l’istinto segreto di tormentarsi, e in taluni temperamenti questo istinto opera con forza particolare. Se non viene guarito con cura prudente, può degenerare in malinconia. Ora questo istinto si serve spesso della coscienza come di un’arma terribile contro la propria esistenza. Nessun modo di tormentarsi è peggiore di questo.

(Audio 10) La coscienza può venire alterata anche in un terzo modo, cioè nel suo contenuto. La nostra conoscenza non è uno specchio, che riproduca semplicemente quello che si para innanzi ad esso. Noi non apprendiamo la situazione, come una macchina fotografica coglie l’oggetto. Nel nostro sguardo siamo presenti noi stessi. Noi stessi, col nostro temperamento, coi nostri desideri, coi nostri motivi palesi e segreti siamo già contenuti nello sguardo, che dirigiamo sulle cose: così, guardandole, le modelliamo. Non le prendiamo come sono in se stesse, ma come vorremmo che esse fossero, cioè tali da trovarvi un ambiente ospitale per i nostri desideri e per i nostri sentimenti. Noi desidereremmo di veder nella situazione la conferma di quello che siamo. Vorremmo che da essa ci venisse incontro quello che portiamo in noi stessi, come aspirazione. Così noi interpretiamo la situazione secondo i nostri desideri coscienti ed inconsapevoli. Questi ultimi specialmente esercitano una grande influenza. La moderna psicologia ha dimostrato quanto profonda sia l’influenza della volontà incosciente sugli atti della percezione. Il calcolo delle misure, l’attenzione alle differenze, il senso dell’urgente e del meno urgente, del principale e dell’accessorio, – tutto questo subisce tali influenze. Anzi l’esperienza dimostra che spesso noi sopprimiamo addirittura degli oggetti che ci riescono molesti. La psicologia del dimenticare, del perdere, dell’omettere, ci dimostra che noi possiamo andar cercando per ore ed ore oggetti, che pure abbiamo sul tavolo dinanzi a noi, perché un qualche occulto motivo non vuole che li vediamo; ma non appena il motivo cessa o non è più così urgente, l’oggetto ci capita subito sotto mano. Il giudizio sulle persone e la valutazione del loro modo di agire, dei loro sentimenti e delle loro intenzioni, dipendono moltissimo dalle nostre disposizioni interne, dalla simpatia o dall’avversione. Così si dica anche della comprensione di rapporti e di molte altre cose.

Tutto questo richiama alla nostra attenzione importanti problemi pedagogici: quelli della formazione della coscienza nell’educazione degli altri e di noi stessi. Ma non possiamo addentrarci in questa materia.
Qui ci occupiamo d’altro.
Se guardiamo più esattamente, finiamo qui col trovarci evidentemente in un circolo. Capitiamo cioè nel
circolo dell’io: nella coscienza io devo afferrare il giusto, anche contrariando il mio stesso desiderio. Ma la coscienza è un atto vitale, in cui opera ed influisce tutto quello che io sono, anche il mio stesso desiderio. Un motto spiritoso dice: «La memoria afferma: questo l’hai fatto tu. L’orgoglio dichiara: questo non posso averlo fatto io. E la memoria cede! ». Così si chiude il circolo dell’io. Da questa prigionia in me stesso io mi libero soltanto se trovo un punto, che non sia il mio «io »; una «altezza al di sopra di me ». Un qualche cosa di solido e operante che si affermi nel mio interno. Ed eccoci arrivati al nocciolo della nostra odierna considerazione, cioè alla realtà religiosa.

Quel « bene », del quale abbiamo parlato, che cos’è veramente?

Non una « legge », che penda affissa da qualche parte. Non una semplice idea. Non un concetto campato in aria. No, esso è qualche cosa di vivo. Diciamolo senz’ambagi: è la pienezza di valore dello stesso Dio vivente. La santità del Dio vivente: ecco il bene.

Un maestro di spirito, per esprimere il valore assoluto della verità, affermò una volta: «Se Dio potesse staccarsi dalla verità, abbandonerei Dio e aderirei alla verità ». La proposizione è indirizzata a credenti, alla cui coscienza essa vuol dimostrare in forma drastica di che si tratta quando è in gioco la «verità ». Perciò incomincia col proporre loro un assurdo mostruoso: col metter cioè, per un momento, questa verità in contraddizione con ciò che per loro è pure il fine ultimo e il compendio di tutte le cose, col Dio vivente. Ma questo assurdo non può che provocare il grido irrefrenabile: La verità? Ma la verità è pur Dio!… In mille e mille sfumature il contenuto del bene può venir determinato mediante la multiformità della situazione che continuamente si rinnova. Si può dire: il bene è far questo lavoro; mostrarsi benevolo verso quell’uomo; rinunciare a questo piacere; difendere una determinata convinzione e cosi via. In questo primo momento il nome « Dio» non è necessario che apparisca. Ma quando vien posta l’ultima domanda: Dove ha tutto questo le sue radici? Che cosa si nasconde dietro tutta questa varietà di cose? Che cos’è quell’uno, quell’infinito, quel semplice, che noi abbiamo chiamato « il bene», e che trova la sua espressione in tutte quelle singole specificazioni – che cos’è propriamente? Allora la risposta suona: È la santità vivente di Dio.

Mi ricordo ancora il luogo, ove un bel mattino mi si affacciò questo concetto così semplice e pur così celato e sottile: Quando io dicessi: «l’amore »… e questo amore divenisse pieno e perfetto in forza, in purezza, in misura, in durata e profondità e quanto al suo oggetto; ed ora, assolutamente pieno e perfetto incominciasse ad esistere in sé, divenisse persona; diventasse l’amore stesso per essenza – che sarebbe questo amore? il Dio vivente! Questa intuizione mi rese raggiante di gioia!… Il valore, la fedeltà, l’onore, la bontà, la giustizia, la misericordia… in una parola: «il bene », nella sua infinitezza e nella sua pura semplicità – tutto ciò è la santità vivente di Dio e nient’altro.

Aver cognizione del bene significa dunque in definitiva aver cognizione di Dio. E percepire il comando del bene significa, in ultima analisi, udire il comandamento del Dio santo.

(Audio 11) La coscienza è l’organo per il bene; ed è l’organo per Iddio. Non appena scrutiamo un po’ a fondo il sentimento del dovere, la consapevolezza dell’obbligatorietà, le nostre deliberazioni e quanto altro abbiamo chiamato coscienza, giungiamo su terreno religioso.

Quello che alla superficie significa coscienza morale, nelle sue ultime radici è il «fondo dell’anima», la «scintilla dell’anima». Possiamo prendere anche la direzione inversa e dire che quello che nel suo fondo significa coscienza morale, al suo vertice è la « punta» o la «lama» dello spirito. Ma questi sono organi ed atti che hanno per oggetto la realtà religiosa e spirituale.

La coscienza è dunque l’organo per la realtà vivente e per il contatto con Dio; per il volere di Dio.

Nell’Antico Testamento torna spesso una parola, nella quale il dovere morale trova la sua espressione religiosa: «Camminare sotto gli sguardi di Dio », oppure più semplicemente: «Camminare alla presenza di Dio ». Nel Nuovo Testamento Paolo parla dell’agire « in onore di Dio »; del « vivere in Dio ». Queste parole dicono, in termini diversi, che il comandamento del bene giunge al nostro orecchio dal Dio vivente e che l’azione è diretta a Lui.

Noi abbiamo espressa la natura singolare della coscienza nella proposizione: «esser consci a se stessi del bene ». Poi ci siamo accorti che questo non basta ancora. Con questo solo noi rimaniamo ancor sempre prigionieri nel circolo vizioso del nostro « io », poiché quel bene resta in balla delle illusioni del nostro desiderio. Ora diciamo: aver coscienza significa esser consci a se stessi del bene - ma al cospetto di Dio, la cui santità è appunto il bene stesso. Con la serietà di chi è parte interessata, con la serietà singolare che deriva dal sapere che si tratta della nostra salvezza. In modo però, che quella serietà possa uscire dal labirinto della prigionia soggettiva e conoscere il dovere impostole, come è in se stesso. Il termine « al cospetto di Dio» indica una misura della chiarezza. Significa che in me si afferma una realtà assoluta, la quale mi apre gli occhi per farmi vedere quei comandamenti e mi rende capace di prendere innanzi a lei liberamente, le mie decisioni.

Ma qui sorge la domanda: Quel traviamento dell’« io» non coinvolgerà forse anche questa realtà assoluta? Non ha forse la sua verità quel terribile capovolgimento della parola della Genesi, per cui « l’uomo si crea Dio a sua immagine e somiglianza? » No! Questa parola nasce dall’assenza di fede. La fede sa meglio le cose. Dio non è un concetto, un’idea, un sentimento, un’esigenza sociologica. Dio esiste veramente ed è la realtà assoluta. E nella coscienza di quelli che gli si accostano sinceramente, egli non mancherà di rendere testimonianza di sé. Dio farà sì che al suo cospetto la coscienza sincera acquisti la libertà di vedere senza abbagli e di decidere giustamente. A chi prega: «Sia fatta la sua volontà come in cielo così in terra», Dio darà la grazia di una coscienza chiara.

Partendo da queste premesse quello che abbiamo chiamato « situazione» acquista il suo significato ultimo nella Provvidenza. L’interna pressione del bene, che vuol essere attuato, sulla nostra coscienza, è il comando del Dio santo, che « sia fatta la sua volontà ». 
La situazione poi, dalla quale la coscienza attinge il contenuto specifico di quel comando, è disposizione voluta dal medesimo Iddio.
Il credente vive di un ricco tesoro di precetti, di esperienze, di insegnamenti, religiosi e morali: di un ordine. Egli cerca di giungere alla comprensione, alla sintesi, alla unità teoretica. Tutto questo però rimane necessariamente nella sfera dell’universale. Comandamenti, dottrine, ordinamenti riguardano sempre ciò che torna di continuo, il caso tipico. La loro ultima e vivente specificazione la raggiungono solo quando il monito interno del bene è precisato dalla situazione, che, in forma sempre nuova, ci viene incontro di volta in volta.

Ma questo significa: Dio ci circonda, ci avvolge, ci penetra. Egli è presente nel più profondo del nostro intimo. Là, dove il nostro essere confina, quasi a dire, col nulla, sta la mano di Dio e ci regge. Là egli ci parla. Non come una forza indeterminata o una semplice legge. Non come alcunché di impersonale, ma come un «io», al quale è possibile rispondere con un « tu ». Dio parla dunque dentro di noi. Ma questo stesso Dio è il Creatore e il Signore del mondo. Fin dall’eternità il mondo e quanto in esso avviene sono nelle sue mani. Il mondo non è un meccanismo perfetto che giri da sé, ma è sorretto e guidato continuamente da Lui. Quello che avviene, avviene per volontà di Dio – anche se avviene secondo le leggi della natura e per mezzo delle sue forze, poiché queste sono strumenti nelle mani di Dio. E in questo divenire il singolo è per il tutto, come del pari il tutto è per il singolo. L’uomo sta nel tutto come membro, come parte, parte minima, sul punto di svanire – e tuttavia questo tutto mira a lui; «è creato per lui ». Ovunque viva un uomo, ivi, in lui, è il centro del mondo. Nello stesso tempo però il centro è « di fronte» a quest’uomo, nel tutto. Uomo e mondo esteriore nei loro reciproci rapporti, sono come una ellisse, la quale ha appunto due fuochi; l’uno nell’interno del singolo, come termine della totalità, che a lui si riferisce; l’altro al di fuori, nella totalità, al quale si riferisce il singolo. Ma l’insieme di questi rapporti è opera del Dio vivente, ispirata da eterna sapienza e da eterno amore. La Provvidenza sta in ciò: nel come la vita del singolo, in funzione di membro, con molti altri membri, costruisca il tutto; e a sua volta nel come il divenire di questo « tutto» sia ordinato alla vita del singolo, di ogni singolo, sempre di nuovo, per servirgli di fondamento, di compito, di dovere, di prova. La tensione vivente fra questi due fuochi si rinnova continuamente nella situazione. Essa è la Provvidenza che si attua incessantemente. In lei il tutto diventa, qui, adesso, in questo modo, espressione della volontà di Dio, che tutto subordina alla mia salvezza; e con ciò stesso mi viene indicato in qual modo io, il singolo, debba essere, secondo la volontà di Dio, membro del tutto.

In entrambi parla Iddio: dall’interno coll’incalzare della coscienza, dall’esterno con la disposizione delle cose. La parola dell’uno è chiarita dalla parola dell’altro. L’impulso sempre nuovo di questa relazione sprona continuamente la vita morale dell’uomo religioso. Di qui noi comprendiamo la parola di Cristo: «Non preoccupatevi del domani. Ogni giorno ha la sua pena» e l’altra: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», che esprimono profondissima dipendenza e vincolo e insieme perfetta apertura e disponibilità.

(Audio 12) Ora abbiamo un concetto più chiaro della coscienza. Essa significa: esser consapevoli a se stessi, al cospetto di Dio, del bene, inteso come un comandamento della santità di Dio; con se stessi, al cospetto di Dio, comprenderlo, traendone il senso della situazione, che si presenta di volta in volta, considerata come disposizione provvidenziale dello stesso Iddio.

Se l’uomo comprende e vuole tutto ciò; se si mette in quest’ordine di idee; se lo accoglie dentro di sé come la forma non più discutibile della sua vita – allora ne nasce qualche cosa di mirabile, quello che costituisce appunto il gran mistero della coscienza: l’intesa con Dio. Voi avete la sensazione, nevvero, che qui si spalanca un regno di intimità, profondità e ricchezza infinita! È l’intesa dell’uomo internamente vigile e pronto col volere divino, quale si precisa continuamente nell’attimo che passa. Scrutiamo l’intimo senso della parola: «intesa» (Einverständnis )… «intendere» (Verstehen); già di per sé più che un semplice « conoscere» (Wissen); è piuttosto un penetrare, un avanzar in profondità e in interiorità; un esser dentro fino in fondo. Ma si tratta inoltre di un’intesa con Dio; di un’intesa che è frutto di una relazione sempre più intima e più profonda con Lui. Il termine significa dunque non soltanto che l’uomo stia in ascolto, accetti ed obbedisca, perché quello che gli vien comandato è giusto; ma significa che l’uomo si è inteso con Dio, che Questi gli faccia sapere che cosa è il bene, dichiarandosi da parte sua pronto ad ascoltare e ad agire. Questa è un’alleanza fra Dio e l’uomo, che ha per scopo l’attuazione dell’unum necessarium. Ora, qui, così, in virtù di ciò che va nominato soltanto nell’umiltà e nello stupore dell’adorazione, la volontà di Dio, la quale è lo stesso bene, che comanda. Quale preziosissimo e profondissimo significato acquista qui la coscienza!

Ma tutto questo raggiunge la sua pienezza nel mistero della nostra elevazione a figli di Dio: l’uomo viene rigenerato; da Dio Padre, in Cristo, per opera dello Spirito Santo; per partecipare alla vita divina. Tra lui e il suo Dio vi è ora il rapporto amoroso da figlio a padre, da fratello a fratello, da amico ad amico; il Padre vostro che è nei cieli sa di che avete bisogno… non cade capello dalla vostra testa, ch’Egli non lo sappia… Cristo non ci chiama più servi, ma amici… Egli è tra noi come il primogenito tra molti fratelli… il suo Spirito è fra noi per assisterci e consolarci… Egli ci insegna tutta la verità… In Lui noi diciamo «Padre », diciamo «Signore Gesù», preghiamo e rendiamo testimonianza… e, per dir tutto in una parola: chi ama Cristo, a lui vengono i sommi « Noi », i santissimi Tre, e stabiliscono in lui la loro dimora, in una inesprimibile comunanza di vita divina.

Nel Padre nostro poi questo rapporto e il suo contenuto diventano preghiera.

A questo punto un moralista potrebbe obbiettare: Identificando il bene con Dio e pretendendo che l’intelligenza del bene da parte della coscienza derivi da Dio, tu hai abbandonato ciò che è specifico della morale, vale a dire il principio dell’autonomia e della responsabilità soggettiva. Kant ne ha fatto uno dei cardini del pensiero moderno: morale, secondo lui, è quell’azione, che prende per norma la legge del nostro «io », del «soggetto assoluto », trascendentale. La vera morale è dunque autonoma. Se vincolo il rapporto morale ad una realtà fuori di me, lo inquino; divento schiavo d’altri, eteronomo e perciò immorale. Il nostro pensiero filosofico è in procinto di spezzare su tutta la linea il predominio di Kant. Lo romperò anche in questo punto. La legge morale non è una legge del mio «io ». Ciò è un’illusione ottica interiore, anche se dicendo « io» si intenda il « soggetto trascendentale », cioè il complesso dei giudizi umani in generale. Inderogabile ed essenziale caratteristica della legge morale si è che mi «venga incontro »; che non sia dunque per me l’« io » stesso. Già dal punto di vista filosofico dunque la proposizione di Kant è falsa. Ma è falsa anche religiosamente parlando. Anzi in fondo essa è di una superficialità religiosa singolare, che si comprende soltanto, sapendo che Kant, in fatto di religione, era piuttosto freddo. Egli dice: Dal momento che identifico il bene con Dio e concepisco la legge morale come comando di Dio, è un « altro» che mi comanda e vado soggetto ad altri… Ma chi viene da un ambiente strettamente religioso deve rispondere meravigliato: Ma Dio non è punto un « altro»! Come si possono confondere in tal modo cose e concetti? Un uomo accanto a me è un altro, un’autorità dello Stato è un altro. Ma Dio non è «un altro» in questo senso! Dio è Dio! Egli non può assolutamente venir incluso in tale categoria. Evidentemente Lui non è me. Tra Lui e me vi è un abisso immenso. Ma Dio è il Creatore, nel quale io ho la causa del mio essere e della mia esistenza; nel quale io sono più me stesso, che in me stesso. Il mio rapporto religioso con Dio è determinato appunto da quel fenomeno unico che non si ripete altrove, cioè che quanto più profondamente io mi abbandono a Lui, quanto più pienamente io lo lascio penetrare in me, con quanta maggior forza Egli, il Creatore, domina in me, tanto più io divento me stesso. Quel mio « io », che si sforza di comprendere il bene al cospetto di Dio, come comando della sua santità, traendone il significato dalla realtà disposta dalla Provvidenza, è ben più profondo, anzi ben altrimenti profondo che quell’« io », il quale ossessionato dal pensiero della propria autonomia, si irrigidisce in se stesso.

(Audio 13) Ma questo ci spinge ancora una volta verso le profondità del nostro essere, cioè verso ciò che forma il segreto principale della persona.

Il bene che debbo fare, debbo farlo in nome di colui che sono. Non come un « soggetto» qualsiasi, che si può scambiare, ma in quanto sono io, nella unicità della mia persona.

Un pezzo di una macchina può sempre venir sostituito da un altro. Non è esso, come oggetto tale, che abbia importanza, ma la sua funzione. Anche una pianta, un animale, possono venir sostituiti da un altro essere della medesima specie, poiché il centro di gravità, in definitiva, non sta nell’individuo, ma nella specie. Quello che importa soprattutto è che sia un individuo, nel quale si esprime la specie; non che sia proprio questo o quello. Nell’uomo la cosa è ben diversa. Nell’uomo parla un «io». Nell’uomo quello che importa è l’individuo, perché è un «io ». Un uomo non può in definitiva venir surrogato da un altro, perché egli è persona. Le cose hanno un’essenza: l’archetipo del loro essere e del loro operare, che è comune a tutti i soggetti della medesima specie.

L’uomo non ha soltanto un’essenza, comune a tutti i suoi simili; egli ha di più. L’essenza dell’uomo porta in ogni singolo l’impronta terminale di unicità: è «nome». Tutte le altre cose si trovano già nel tipo della specie. L’uomo solo è a priori «singolo». Ma lo è, perché ha rapporto immediato con Dio. Tutte le cose del mondo sono intrecciate nel contesto dell’universo e negli ordinamenti della specie; e anzi, in misura totale. Anche l’uomo vi è inserito, ma solo con una parte del suo essere. L’uomo ha qualche cosa che sta a sé, perché viene immediatamente da Dio. Il mio spirito vivente è stato creato immediatamente da Dio; non come « caso », ma come « questo ». L’uomo dunque non ha soltanto un’essenza determinata, ma porta anche un nome. L’atto divino della creazione, dal quale ho ricevuto la mia realtà, fu un atto di denominazione. « Io ho scritto il tuo nome sulla mia mano », dice Dio nell’Antico Testamento. Questo mio nome lo trovo soltanto presso Colui «che lo sa», poiché me lo ha imposto nell’atto di crearmi; presso Dio. Soltanto presso Dio io imparo a comprendere e a conoscere il nome, che esprime la mia essenza. E precisamente cercando di conoscere la sua volontà, poiché questa non è una « legge» astratta per l’« umanità », ma un comando vivente di Dio. Diretta certo a tutti gli uomini, ma anche ad ogni singolo, così come egli è, quasi dal Padre a questo suo figlio. Nella misura in cui io conosco la volontà del Padre, vi riconosco quello che io sono. Poiché quello che sono è contenuto in questa volontà. Il mio nome è la sua volontà a mio riguardo. Con questa egli si rivolge a me, « chiamandomi ». E per il fatto che io adempio questa volontà e traduco in atto il mio nome, nasce e cresce il mio più vero « io », e « di fatto e in verità» io divento colui, che come tale sono chiamato da Dio.

Non bisogna prendere tutto questo come una semplice figura retorica. Si tratta di verità, delle quali uomini, che le hanno esperimentate, rendono viva testimonianza. Su certi settori del mio essere io esercito un dominio immediato; io cammino, mangio, guardo. Altri mi si di schiudono a poco a poco: sono i recessi più profondi del mio interno, le energie creatrici, le forze dell’amore. Ma gli ultimi, gli intimi, sfuggono affatto al mio immediato potere. Sono nascosti in Dio e mi si scoprono solo per dono di Dio. Ci sono in me delle zone che diventano realtà, soltanto se messe in rapporto con Dio. Il fondo del mio essere vive soltanto nello sguardo d’amore che Iddio posa su di me. Solo in questo sguardo esso è reale ed io divengo padrone della sua realtà.

Ed ora rifacciamoci ancora una volta a quello che abbiamo appreso intorno alla coscienza. Io ho cognizione del bene infinito e semplice, so come esso si rivolge a me e da me vuol essere attuato; come esso si specifica nella situazione, che continuamente si rinnova e mi parla. Ho cognizione di questo bene al cospetto di Dio, riconoscendolo come un comando della sua santità. Solo così il mio sguardo e il mio giudizio diventano liberi. Solo così acquisto il possesso di me stesso, del mio « io » intimo, del mio nome, che sta tra me e Dio e prende vita non appena io « compio la sua volontà» e «santifico il suo nome ». Questo mio nome essenziale s’immedesima in ciò che ho da fare e lo rende insurrogabilmente mio proprio. Con ciò io divento nel senso più vero della parola « personalità ». Questo mistero, nel cui « contesto », se è lecito esprimersi così, è presente Dio; e il bene proveniente da Lui; ed io in quanto io e col nome ricevuto da Dio – questo mistero, dico, è ciò che forma l’interiorità della coscienza.

Forse tutto questo vi sembra complicato. Ma è tale soltanto nel pensarlo. In realtà è semplice. Vera complicazione in questo complesso viene introdotta soltanto dalla volontà negativa dell’uomo, dal fatto ch’egli voglia cose contrarie alla volontà di Dio, dal male. In sé quest’articolazione è il semplice segreto della nostra vita interiore, nei suoi rapporti con Dio. Alla fine del libro dell’Ecclesiaste si legge: «Meditiamo dunque insieme la conclusione di tutto il discorso: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, poiché questo è tutto l’uomo ».
Il Nuovo Testamento lo esprime nella semplice esortazione a « fare la volontà del Padre », e nel Padre Nostro prega che questa volontà sia fatta, poiché in ciò è il compendio di tutto.

Partendo da qui si superano anche le possibili deviazioni della coscienza dianzi accennate. 
Se l’educazione naturale vuol formare l’uomo in modo da dargli uno sguardo limpido e una sensibilità delicata per comprendere uomini e cose; un giudizio sicuro e uno slancio creatore per l’azione; in modo da renderlo fiducioso, serio e capace di responsabilità; in grado di vedere chiaro attraverso le proprie limitazioni psicologiche e di liberarsi da coazioni spirituali – tutte queste cose sono importanti, e qui non solo riconosciute, ma anzi presupposte. Per noi tuttavia rimane di particolare importanza quel punto d’Archimede, che affiora nel nostro interno, non appena ci mettiamo alla presenza di Dio, e facendo leva sul quale noi possiamo sollevare dai cardini il nostro mondo interiore.

Solo in questa prospettiva il dovere morale ci appare nella sua portata ultima; acquista la sua reale e non soltanto mentale «eternità ». Ora si comprende il senso più profondo dell’atto morale, considerato come realtà vivente. Il mettersi alla presenza di Dio è il mezzo per giungere alla sincerità interiore; alla libertà, spezzando pastoie psicologiche ed oggettive. Qui si spezza anche la schiavitù morale. L’adempimento della legge morale non è più soltanto il compimento di un dovere astratto, ma edificazione della nostra salvezza.

 

[1] Noti il lettore il metodo suggestivo con cui il G. prima ricostruisce il dramma della coscienza «autonoma» dal punto di vista meramente psicologico descrittivo, rilevandone la debolezza, per poi arrivare al «nocciolo» del problema della coscienza ch’è la realtà religiosa (n. d. t.).

 

IL BENE E LA COSCIENZA – Romano Guardini

IL BENE E LA COSCIENZA (Audio 2)

L’uomo vive e cresce. Intorno, attraverso e dentro di lui si compiono continuamente dei processi, per i quali egli viene per così dire contessuto nella natura, come avviene anche della pianta e dell’animale. Per altri riguardi invece se ne distingue. Per una cosa innanzitutto: egli non solo cresce, non solo si muove, non solo opera per l’istinto di conservare e dilatare la propria vita, ma agisce. Ora agire significa che io faccio una cosa, che non è semplicemente posta in me stesso; esercito un dominio in me e intorno a me su ciò che è « dato »; che plasmo, produco qualche cosa e me la pongo innanzi; che tendo verso mete e creo opere.

In questo agire v’è un’importante distinzione da fare: ben altro è se agendo voglio soltanto attuare un «fine »; e ben altro, se adempio un «dovere ».

Dei fini ne attuo continuamente. Se voglio trovar qualcuno, devo recarmi da lui; per andarci devo sceglier la via o usare i mezzi di trasporto che mi vi conducono ecc. La vita famigliare, professionale e pubblica costituisce un intreccio di scopi e di azioni ad essi ordinate. Il senso di queste azioni è tutto qui: che venga attuato il loro fine. Ma il fine voglio raggiungerlo, perché lo vedo necessario o utile alla mia esistenza.

Diversa è la cosa quando si tratta di adempiere un dovere: di dir la verità, perché è giusto il dirla; di lavorare, perché ne ho l’obbligo; di essere giusto, perché ne riconosco il debito. Il dovere lo adempio non già perché con esso voglia raggiungere un fine, – benché in fondo ci sia anche questo, perché il dovere è sempre collegato con dei fini – ma perché è giusto intrinsecamente. Il carattere comune di tutte le azioni tendenti ad un fine sta nell’«utile»: si tratta di cosa necessaria o utile alla mia esistenza. Al contrario il carattere comune di ogni dovere; ciò che rimane, se astraggo da tutti i contenuti particolari, sta nella parola: è bene; bene in sé.

Qui trattiamo appunto del bene. (Audio 3)

Concentriamo dunque la forza del nostro sguardo e la nostra sensibilità su ciò che significa la parola «il bene ». Incontreremo in questo studio ogni sorta di ostacoli. Oggi siamo alquanto scettici e a chi ci parla del bene ci vien voglia di rispondere con la domanda di Pilato: «Che cosa è il bene?» – una domanda che non aspetta alcuna risposta, perché chi la pone è persuaso in anticipo di non riceverne alcuna. Certo questo scetticismo ha anche un significato e importa molto che lo si avverta. Ma qui non possiamo addentrarci in questa indagine senza perderci in un labirinto. Dobbiamo andare al di là dello scetticismo, attraversandolo, e superarlo. Dobbiamo superare anche le tristi e accascianti esperienze che ci ha forse procurate il nostro sforzo verso il bene… tutti gli smarrimenti del pensiero, della parola e della letteratura della nostra epoca… tutto questo incalzare e tramutarsi intorno a noi spesso così caotico e così impenetrabile alla sguardo, che ci sembra impossibile di raccapezzarvisi… questo e altro ancora dobbiamo superare.

Noi dobbiamo far parlare quello che in noi v’è di intimo. Esso ci dice: il bene esiste! Esiste quel carattere supremo che può posarsi sull’azione meno appariscente e conferirle il suggello di un’assolutezza, superiore ad ogni scopo particolare. Esiste quel qualche cosa di definitivo, che non può più venir discusso ed ha in sé la nota della grandezza genuina. Esiste quel vertice supremo, sul quale, quando tutto si sconvolge e va alla deriva, posso rifugiarmi dicendo: «Ho voluto il bene ». Questo esiste. Quel qualche cosa che non dipende da nulla d’altro ma esiste in sé; che non riceve la sua giustificazione dal di fuori, ma porta la sua dignità in se stesso, quel qualche cosa, davanti al quale non è lecito restare indifferenti, se non si vuol mettere a repentaglio con leggerezza la propria intima dignità.

Il bene è quell’ultima cosa non più discutibile, alla quale è legato il mio supremo e non più discutibile destino.

Ora questo bene non è campato in aria, quasi estraneo, in uno spazio inaccessibile. Il bene è in relazione con me; mi tocca. C’è in me qualche cosa che per sua natura risponde al bene, come l’occhio alla luce: la coscienza.

E qui di nuovo dobbiamo superare un impedimento. Fra le tendenze dell’età moderna v’è quella di negare radicalmente l’assolutezza della coscienza. Di ridurre la coscienza ad una questione di temperamento, e quindi contrapporre all’uomo «morale» un uomo «amorale», oppure ridurre la coscienza a un prodotto della storia o dell’ambiente sociale. Così essa sarebbe qualche cosa che è maturata a poco a poco, che si è acquistata con l’educazione e che potrebbe anche scomparire di nuovo. Bisogna anche qui farsi largo attraverso un intrico di semiverità sociologiche, psicologiche e storiche fino al fatto elementare: la coscienza esiste! Esiste in noi quel supremo qualche cosa, che è in relazione col bene, che risponde al bene come l’occhio alla luce.

(Audio 4) La forza di questa risposta può venire infirmata; può, per atavismo o influsso dell’ambiente, venire attutita e tratta in errore da esperienze personali. Ma quando vogliamo vedere una cosa, dobbiamo cercarla là dove si presenta nella sua piena luce; allora siamo in grado di giudicarla, anche quando è offuscata. E allora siamo costretti a dire: la coscienza esiste. La portiamo viva in noi. Essa si fa sentire; nel bene come nel male.

E per comprenderne subito la natura particolare, cerchiamo di penetrare un po’ la parola: coscienza. È qualche cosa di più che il puro «sapere qualche cosa». Significa consapevolezza di qualche cosa. Vi è incluso dunque un carattere di interiorità; significa un aver presso di sé; un trovarsi, da solo a solo, con qualche cosa; un abbracciare e un penetrare. Racchiude una profondità che si esplica nella proposizione: « Sono conscio, a me stesso, che ciò è bene ». Qualche cosa di intimo dunque; qualche cosa che sta in rapporto con quello che esprime l’antico concetto di «fondo dell’anima», di scintilla animae.

Ma la cosa che si conosce in tal modo è appunto il bene.
Lasciamo stare, ora, per un momento tutto questo e procediamo nelle domande.
Il bene – che cos’è il bene?
Se ci riflettiamo, rispondiamo interiormente con un atteggiamento stranamente contraddittorio: abbiamo la sensazione di trovarci davanti a qualche cosa che ci è molto familiare. Ci sembra di conoscerlo; di avere chiara la percezione del suo carattere e della sua natura. E al tempo stesso rimaniamo sospesi, disorientati, incapaci di formulare e di concretare. Questo qualche cosa, che pur conosciamo, sembra scivolarci di mano, non appena lo vogliamo afferrare. Ricorre alla mente la parola di Agostino: «Se non me lo chiedi, lo so. Ma se me lo chiedi ed io debbo dirlo, allora non lo so ». Che significa questo?

Dapprima e innanzi tutto: il bene è qualche cosa. È non soltanto un «come», una forma, come, ad es., sarebbe espressa nella proposizione: «Importa non tanto quello che si fa, quanto che nel fare si abbia intenzione». Il «fare con buona intenzione» potrebbe essere una pura forma capace di ogni contenuto. Tutto potrebbe «venir fatto con buona intenzione». Ma non è così. Ciò sarebbe relativismo, scetticismo. Se consideriamo a fondo, avvertiamo esattamente che il bene è un qualche cosa che bisogna volere; un contenuto. Ma che cos’è dunque?

Il bene è il bene.

È però sempre un contenuto; qualche cosa di positivo; più ancora: è positività pura e semplice. Compendio ideale di dignità, di grandezza, di valore. Qualche cosa, oltre la quale non posso spingermi; che esiste in sé, appunto perché è una totalità ideale infinita (unendlicher Inbegriff).

Ma non basta ancora: il bene è qualche cosa di vivente. Non un’idea astratta, non una semplice «legge», ma qualche cosa di spiritualmente vivo. Me lo dice l’esperienza. Tale mi si presenta interiormente, e come tale tocca la mia coscienza.

Io non posso ridurre il bene ad altra cosa, poiché esso stesso è un termine ultimo. Ma non ne ho nemmeno bisogno, come se per comprenderlo dovessi ricorrere all’aiuto di altri concetti; perché la forza del suo contenuto, del suo « Sì », del suo: «Così », del suo « Questo» è intuitiva. Lo si comprende direttamente.

Inoltre: il contenuto del bene è infinito, come del pari la sua validità è assoluta. Quando cerchiamo di afferrarlo nella sua purezza, sentiamo che la profondità di questo contenuto è insondabile, la sua ampiezza incommensurabile, la sua pienezza inesauribile, la ricchezza delle sue qualità e del suo valore incalcolabile. L’infinità del contenuto appartiene all’essenza del bene. Nello stesso tempo però il bene è affatto semplice. La filosofia greca, per misurare il grado di nobiltà di un essere, conosce un criterio che dice: un essere è tanto più elevato, quanto più ricco contenuto abbraccia e al tempo stesso quanto più è semplice. Ecco dunque: il bene è contenuto infinito e semplicità perfetta.

Ma è appunto di qui che deriva la difficoltà di rispondere alla domanda: che cosa è il bene? Lo sguardo si smarrisce nella pienezza del contenuto; e la semplicità fa sì che questo sfugga all’occhio.
Tuttavia la domanda rimane: Che cosa è il bene?

Per mio conto ho cercato di rispondervi nel seguente modo:
Il bene vivente batte alla mia coscienza. Accolto dalla mente e dal cuore, esso preme per essere tradotto in azione umana. Il primo e più importante compito della coscienza consiste nell’avvertire la voce imperiosa del bene, che vuol essere attuato in modo degno dell’uomo. Il bene dunque domanda e insiste: «Accoglimi! Intendimi! Voglimi! Attuami!». La coscienza risponde – supponiamo che risponda così! certo può opporre anche un rifiuto o schermirsi – essa risponde dunque: «Voglio! Tu, o bene…». Ma qui si arresta e riflette: «Se ti voglio tradurre in atto… che devo fare? Tu, bene – che cosa sei tu? ». In un primo momento non segue risposta alcuna. Non è infatti possibile esprimere senz’altro ed esaurientemente il bene in contenuti concreti e realizzabili. A tale domanda il bene tace. Ma la cosa non finisce lì. Nell’istante che segue, supponiamo, dev’esser fatto qualche cosa per dovere professionale. Ed ecco venire la risposta: «Ciò che qui va fatto; che venga fatto in retta conformità alle esigenze delle cose, – ecco quello che sono », dice il bene.

In altre parole: che cosa sia il bene, che domanda di essere tradotto in atto, risulta chiaramente da ciò che di volta in volta deve compiersi.

(Audio 5) Qui abbiamo da chiarirci un concetto importante: quello della situazione.

Noi distinguiamo fra « situazione» e « caso ». Vorrei mettere in evidenza questa distinzione con un aneddoto. In un crocchio si racconta la storia di due mercanti che attraversano il deserto. Un giorno l’acqua accenna ad esaurirsi. La provvista basta ancora appena per uno. Ora i presenti discutono intorno a quello che debbono fare i mercanti. Spartire l’acqua e poi morire? Oppure è il caso che il più anziano beva e il giovane si sacrifichi? O deve cedere il più anziano per amore della vita del giovane? Ma ecco un vecchio signore alzarsi e dire: «Il vostro discorso è ozioso. Nel caso, che noi consideriamo, manca quello che è decisivo, cioè manchiamo noi stessi! Si tratta di un caso puramente teorico, che non ci riguarda. Fossimo noi stessi in quella situazione, allora sì sapremmo quello che ci toccherebbe fare ». Ora la distinzione ci balza negli occhi: «caso» significa una combinazione di uomini, di circostanze e di fatti, nella quale non c’entro. Non mi impone doveri. Posso considerarlo da un punto di vista puramente teorico. «Situazione» invece vuol dire un complesso di uomini, di circostanze e di fatti, dei quali io faccio parte; che mi riguardano; che esigono da me qualche cosa. Del caso posso non curarmi, ma della situazione no. Essa esige che io prenda posizione, che mi decida, che agisca.

Ora, è appunto la situazione a dirmi che cosa sia il bene. Il comando di esser tradotto in atto da parte del bene, comprensivo di tutto e al tempo stesso affatto semplice, riceve di continuo, ad ogni passo che faccio, un nuovo significato dalla situazione sempre nuova, che si riproduce intorno a me. Il rapporto col bene può essere considerato sotto vari aspetti. Il punto di vista che noi abbiamo scelto potrà aver naturalmente le sue deficienze; esso ci svelerà però sempre qualche cosa di molto importante: la grandezza di quel rapporto e il fatto ch’esso è vivo e concreto.

Il rapporto morale è qualche cosa di grande. Prendiamo la parola nel suo significato più ovvio. Lo scardinamento morale della nostra epoca deriva pure in buona parte non già dal fatto che il dovere morale venga sentito come un peso troppo grave, ma che lo si vede come troppo meschino; dal fatto che lo si degna appena di uno sguardo superficiale e svogliato. Il dovere morale non è una forma vuota, ma pienezza di contenuto; non è povertà, ma ricchezza infinita. Esso batte alla mia coscienza, al mio cuore e vuol esser compreso, affermato, attuato. C’è qualche cosa di inesprimibilmente grande nella consapevolezza di essere quasi un ambasciatore del bene nel mondo, un esecutore della sua missione. Di esser colui, al quale è affidato il destino del bene – che è pur la cosa più sublime, ma anche, appunto per questo, la più delicata, e, in questo mondo di violenze, la più debole. Il bene non diventa realtà, se non lo attuo. Meditiamo tutto ciò col più nobile orgoglio del nostro cuore!

(Audio 6)  Il bene non è una legge morta. È la vita infinita che vuol essere inserita in questa realtà. Nella sua pura essenza questa vita è per noi inesprimibile; appunto perché è infinita e nello stesso tempo semplicissima. Ma essa vuole assumere una figura terrena, umana. È ciò che avviene nell’azione morale. L’attività morale ha in sé qualche cosa di misterioso. Non è soltanto adempimento di una legge, esecuzione di una norma, ma donazione di vita. È una generazione e una immissione di nuova vita nella realtà finita, realtà finita ed umana che con ciò consegue una pienezza di senso eterna.

Il fare il bene equivale perciò ad una vera creazione. Non è semplice esecuzione di un ordine, ma attuazione creatrice di qualche cosa che ancora non è. La nostra vita morale s’impoverisce perché diventa noiosa. Perché per lungo tempo, sotto l’influsso di un’etica razionalistica, sotto l’influsso del formalismo kantiano e di una morale schematizzata, venne concepita come semplice esecuzione di ordini. Ma non è così. Dobbiamo accostarci una volta con orecchio intento a Platone, in cui per primo si fece strada la coscienza del problema, per sentir tutta la passione creatrice dell’azione morale. Nell’attività morale si tratta di render reale, umanamente reale quello che ancora non lo è. Si tratta di dar forma terrena a qualche cosa di eterno e di infinito.

Ma ciò importa due cose: anzitutto, che noi afferriamo quella cosa grande ed eterna, che è il bene. Come? Con qual mezzo? Con l’unica forza che può afferrarlo: con la libertà della nostra volontà, o meglio del nostro cuore, la quale dice: «Sì, sono pronta al bene»; la quale si erge e vuole e si protende verso il bene, ne «sente la fame e la sete», e lotta per raggiungerlo col sentimento profondo, che si apre, accoglie, ospita, «fino che tutto è lievitato», tutto purificato e nobilitato. E quanto più pura la prontezza, quanto più risoluta la volontà; quanto più profondo e più forte il desiderio; quanto più aperto, più puro e più pienamente disposto il nostro intimo, tanto più saldamente e pienamente possediamo il bene, nel nostro spirito e nel nostro cuore.

 (Audio 7) Ma poi, con le opere, dobbiamo trasfondere il bene nella realtà, altrimenti esso resta aspirazione infeconda. Bisogna che ne imprimiamo la forma nella materia della realtà che ci circonda: nella situazione. Ciò vuol dire che dobbiamo afferrare ciò che è nuovo; quello che qui mi sta attorno: uomini, avvenimenti, cose, circostanze. Tutto ciò arriva, diviene, si articola, qui, adesso – e in questo momento bisogna che lo afferri. Devo vedere: che cosa importa per me tutto questo che mi circonda? A quali cose devo rivolgere il mio sguardo? Il mio giudizio? Che cos’è qui il bene? Vedere, giudicare, deliberare, fare tutto ciò; chiaramente, magnanimamente, ponderatamente, risolutamente; con atto energico e netto, che abbia sangue e colore, lo slancio del cuore e la sicurezza della mano – questo significa fare il bene.

Agire moralmente significa quindi creare qualche cosa; non in pietra o in colore o in suono, ma nella materia reale della vita. Il mondo è sempre incompiuto. Esso ci viene incontro incessantemente sotto forma della situazione, affinché, con l’attività morale, lo portiamo a compimento, dandogli l’impronta del bene. La vita morale è disertata su larga scala. Le forze creatrici si sono trasferite al servizio di un’arte raffinata, di un’attività politica sfrenata, di un’economia pura o di qualsiasi altra cosa. È tempo che riconosciamo di nuovo che l’attività morale è una creazione e vi convogliamo di nuovo le vive energie morali.

La moralità non è un affare speciale, accanto ad altri, poiché essa si estende a tutta la realtà. Il suo contenuto si estende a tutto ciò che esiste. Tommaso d’Aquino dice: «Bisogna fare il bene. Ma che cos’è il bene? Quello che di volta in volta si presenta come ragionevole, conforme all’essere ». Ma questa «cosa di volta in volta conforme all’essere» è appunto la situazione con tutta la pienezza del suo contenuto; la vita che nella situazione mi viene incontro in forma sempre nuova, con tutto quello che in essa si contiene. Tanto più grande è il valore dell’atto morale, quanto più pienamente io afferro il ricco contenuto della situazione dal fatto che io veda la pienezza di contenuto della realtà, affinché il bene, semplice e comprensivo, possa manifestarvi la sua ricchezza.

Ma con ciò torniamo alla questione del disorientamento morale del nostro tempo. Questo disorientamento esiste. E non soltanto perché manca la gioia della creazione morale, ma anche perché, in mezzo a tutte le trasformazioni della nostra epoca, si sono perse di vista le linee fondamentali della morale. Hanno preso campo la confusione nella terminologia morale stessa e la diffidenza contro le forme morali correnti. Non investighiamo le cause di questo fenomeno. Saranno da ricercarsi nel soggettivismo, nell’insofferenza di freni e nella sbrigliatezza, che sono la caratteristica della nostra età. In parte dovranno attribuirsi anche al pensiero morale tradizionale, che per molti riguardi si è fossilizzato in forme lontane dalla viva realtà. Ognuno la pensi come vuole. In ogni caso sta il fatto che ci troviamo di fronte ad un disinteressamento e ad un disorientamento morali assai diffusi. A giudizio di molti l’atto morale non compensa il serio sforzo che esige. Altri a loro volta, che sarebbero pronti a tale sforzo, non sanno da che parte incominciare. Si sentono come sperduti nel caos, non vedono chiaro circa le norme e non sanno mettersi d’accordo.

Qui si vuol stimolare al lavoro; della ricerca, del pensiero, dello scambio d’idee. Importante soprattutto però ci sembra che vengano incoraggiate in tutti i modi le energie dell’attività morale; che l’uomo comprenda il dovere morale nella sua grandezza e nella sua pienezza. Che acquisti consapevolezza delle sue forze. Che purifichi sinceramente i suoi sentimenti e poi si metta all’opera con fiducia. Bisogna che sorga l’uomo, che compie con gioia e con serietà il dovere morale; che brama il bene; che si sente incalzato, eccitato e intimamente assorbito dal dovere morale; che ha gli occhi aperti per quello «che deve fare» e per quello che gli uomini, avvenimenti e cose reclamano; che sa volere e sa impegnarsi a fondo. Che quest’uomo sorga, che si metta all’opera e poi il ristagno morale sarà superato. I doveri allora si presentano da sé e le mète diventano chiare. Le parole vengono senza fatica, e si ricostituisce la comprensione e l’unione delle volontà. Allora tutta la pienezza della verità e della sapienza, contenuta nella morale cristiana, verrà di nuovo sentita e sarà accolta con rispetto.

Se questo è importante per l’uomo, è importante anche dal punto di vista della donna, la quale oggi ha una larga parte nel pensiero e nell’azione. L’uomo in fin dei conti può anche vivere sotto una ferrea disciplina; diciamo meglio: lo può meglio d’altri. Ma la donna intristisce in tale condizione. Tutta la sua attività in prima linea è diretta non ad un lavoro. Anche al lavoro; ma in prima linea e più propriamente alla vita. La donna non attua delle norme, ma a quello che interiormente incalza dà corpo e terrena esistenza. La via dalla ricchezza infinita alla forma particolare: ecco il suo compito più profondo. La realtà dell’essere e della vita, ovunque si manifestino e in tutta la loro ricchezza, è ciò che la sostanzia. Questa realtà deve accostarsela al cuore e metterla in contatto con la sua vita, affinché diventi materia capace di quella forma.

(Audio 8)  Ed ora ritorniamo al concetto della coscienza. Coscienza è, anzitutto, quell’organo, per mezzo del quale io rispondo al bene e divento consapevole di questo: « Il bene esiste; ha un’importanza assoluta; il fine ultimo della mia esistenza è legato ad esso; il bene bisogna farlo; questo fare decide di un destino supremo ». La coscienza però è anche l’organo, mediante il quale dalla situazione ricavo il chiarimento e la specificazione del bene; mediante il quale posso conoscere che cosa sia il bene in questo determinato luogo e in questo determinato momento. L’atto della coscienza è dunque quell’atto, col quale penetro di volta in volta la situazione e intendo che cosa sia, in tale situazione, il giusto, e per ciò stesso il bene (1).

Così la coscienza è anche la porta, per la quale l’eterno entra nel tempo. È la culla della storia. Solo dalla coscienza sgorga « storia », la quale significa ben altro che non un processo naturale. Storia significa che, in seguito a libera opera umana, qualche cosa di eterno entra nel tempo.

Ma ciò non corre così liscio e cozza contro difficoltà.

Anzitutto la «situazione» è spesso tutt’altro che semplice. Esigenze molteplici e perfino contraddittorie vi trovan luogo. Le più diverse relazioni d’uomini e di cose vi si collegano, si incrociano e si contraddicono a vicenda. Quanto più desta è la sensibilità per le esigenze degli uomini, delle cose e delle circostanze, tanto più difficile diventa il riconoscere quello che in definitiva si debba fare. Formare la coscienza vuol dire appunto allargare l’angustia dello sguardo per abbracciare la molteplicità delle forme, superare l’ottusità della sensibilità ai molteplici valori che ci rivolgono il loro appello, significa che l’uomo affini la sua sensibilità per comprendere a pieno e nelle loro sfumature le esigenze morali. Ma nella misura in cui questo avviene, cresce il pericolo opposto: che egli si perda in questa molteplicità e che a furia di voler vedere, capire e rettificare, non arrivi alla decisione e all’azione.

In secondo luogo: ogni situazione, che mi si presenta, arriva un’unica volta. Essa non è mai esistita e non tornerà più. Vi sono, è vero, delle somiglianze. Non è la prima volta che un uomo viene e chiede di essere aiutato. In realtà però esiste, non « un uomo », ma sempre solo « quest’uomo ». E che « egli» com’è, si presenti a me, come sono, in queste determinate circostanze e con questa domanda, avviene quest’unica volta. E se tornasse anche domani con la stessa preghiera, e per il medesimo favore, si sarebbe modificato in noi almeno questo, che la nostra età avrebbe fatto un passo innanzi e che si sarebbe accumulato in noi tutto quello che dopo l’ultimo incontro avremmo fatto ed esperimentato. Ogni situazione si presenta una unica volta. Per cui anche quello che deve avvenire in essa non è mai avvenuto e non tornerà più. Bisogna dunque che venga divinato e plasmato per la prima volta. Certo ci giova l’esperienza del passato; ci giovano gli educatori, gli amici, l’ambiente, con princìpi generali e con esempi analoghi. Ci soccorrono il comandamento positivo divino e il precetto dell’autorità legittima posta da Dio. Ma con ciò non veniamo esonerati dal compito di afferrare questa situazione nelle sue specifiche particolarità, di interpretarla e di decidere quello che debba esser fatto, per corrispondere appieno alle sue esigenze. E il grado di perfezione dell’azione morale dipende appunto dalla misura, nella quale vien capita la situazione nella sua unicità. Certo abbiamo bisogno della regola. Essa ci mostra quello che vi è di tipico nella situazioni e ci aiuta così a comprenderle. Ma quanto più nell’agire badiamo a ciò che è tipico, tanto più ci accorgiamo di svuotare la situazione,e ci sentiamo spronati ad attendere al momento contrapposto, vale a dire, a ciò che è specifico, anzi unico.

E ancora una terza cosa: ci fosse pure concesso di volere inequivocabilmente il bene in tal modo comandato! Ma purtroppo non è così! In verità noi siamo spesso ricalcitranti, se non proprio con la nostra volontà consapevole, almeno con una resistenza incosciente. Quello che la dottrina della fede ci insegna del male nascosto nell’uomo, e cioè della sua resistenza al bene, trova nella psicologia moderna il suo fondamento scientifico formale. Questa ci mostra infatti che noi non siamo mai senza impulsi della volontà e senza tendenze. Anche quando crediamo di esaminare senza prevenzioni e di agire oggettivamente, stiamo sotto l’influsso di impulsi positivi o negativi. Questi in certe circostanze sono del tutto inconsci e perciò inaccessibili alla nostra consapevole esperienza; ovvero provengono dalla subcoscienza e balenano appena…, e così attraverso tutte le gradazioni di parziali consapevolezze fino alle intenzioni chiare. Questi impulsi però non sono affatto sempre rivolti al bene. Al contrario. Ed influiscono non soltanto su quello che facciamo, ma anche sulla nostra conoscenza e sul nostro giudizio. Essi deviano lo sguardo dal suo oggetto; accentuano nell’oggetto dei lati particolari o li attenuano; lumeggiano od offuscano; alterano; anzi possono far scomparire del tutto una circostanza di fatto.

Ed ecco che appare chiaro, quale compito spetti alla coscienza.

Il suo sguardo dev’essere aperto per abbracciare pienamente tutto il contenuto della situazione; per vedere gli uomini, quali sono; per sapere quali siano le circostanze e quali i rapporti, e quali esigenze debbano venir prese in considerazione. Questo sguardo deve tenersi libero da tutto ciò che può offuscarlo, impedirlo e distrarlo. Sempre più interiormente deve compenetrarlo la limpidezza, la quale sa vedere, perché vuole veramente vedere. Tutta la molteplicità oggettiva della situazione deve venir colta e interpretata secondo la visuale definitiva, che ne dia il significato.

Significato definitivo di una situazione non ancora esistita e che non tornerà più; per la quale posso però e debbo imparare dall’esperienza dell’umanità, dall’esperienza di coloro che mi hanno educato e dalla mia stessa esperienza precedente, poiché il principio universale e l’incontro vivo e concreto si spiegano l’un l’altro reciprocamente. Tutto questo però non mi solleva dal compito di appigliarmi al nuovo che si presenta soltanto qui e di plasmarlo con gli elementi che esso stesso mi offre; dal compito di guardare e di interpretare, di ardire e di creare.

Ma quando la situazione è tale da ammettere diverse interpretazioni e da non offrire alcuna chiara direttiva per l’azione, allora è la coscienza che deve decidere. Allora essa deve dichiarare: «Il meglio è questo. Così bisogna agire! ». E tale decisione deve mantenerla ed eseguirla.

La coscienza è dunque l’organo per l’eterna esigenza del bene, che deve venir attuato: la coscienza è per l’uomo come una finestra aperta sull’eternità. Una finestra però che allo stesso tempo dà anche sul corso del tempo e sugli avvenimenti quotidiani. La coscienza è l’organo, che trae l’interpretazione del comandamento del bene, eterno e sempre nuovo, dai fatti concreti; l’organo col quale sempre di nuovo si riconosce in qual modo il bene eterno ed infinito debba venir attuato nella specificazione del tempo. È un obbedire e al tempo stesso un creare; un comprendere e un giudicare; un penetrare e un decidere.

Ma con ciò si è detto tutto?

[1] Affinché si chiarisca completamente quel che s’è detto, dovrei accennare al fatto che alla situazione appartiene tutto quello che concerne la persona la quale vi si trova, e che il suo peso si commisura al significato che ha in se stessa. La parola della Rivelazione, la dottrina della Chiesa, la tradizione cristiana perciò le appartengono ed esigono di ricevere una valutazione corrispondente al loro peso ontologico proprio nel giudizio d’essa. Una interpretazione della situazione, che prescindesse da tali elementi, non coglierebbe la realtà quale essa è.

Non lo possiamo scomporre in elementi più semplici. Non possiamo dire, a mo’ d’esempio: il bene è l’amore del prossimo; ovvero, è la fedeltà verso se stessi. Avremmo soltanto una parte, una manifestazione del bene. D’altro canto non possiamo nemmeno dire: il bene è il vero, bensì – appunto il bene. È quello che è.

LA COSCIENZA – Romano Guardini

La coscienza

MORCELLIANA – Brescia 1977

 

di ROMANO GUARDINI

ROMANO GUARDINI, nato a Verona nel 1885, studiò in Germania, dove sempre visse. Dopo aver tentato gli studi scientifici e quelli umanistici, riconobbe la sua vocazione autentica nella teologia.

Nel 1923 gli venne affidata la cattedra di ‘visione del mondo’. cattolica nell’Università di Berlino. Insegnò in seguito all’Università di Monaco; morì nel 1968.

Attento ai movimenti culturali e spirituali della Germania fra le due guerre, animatore prestigioso della Jugend-Bewegung, il Guardini concepì ognuno dei suoi libri con l’intento di rispondere ad una od altra delle esigenze più vive nell’uomo contemporaneo.

La sua presentazione delle verità cristiane è sempre tesa a un preciso riferimento critico o polemico alle esperienze culturali che hanno esercitato maggior fascino sull’europeo del nostro secolo: lo storicismo, il nichilismo, l’esistenzialismo.

Fra le numerose opere ricordiamo: Lo spirito della liturgia, Il Signore, L’essenza del cristianesimo, La figura di G. Cristo nel N. T., Il mondo religioso di Dostojevskij, Libertà Grazia Destino, Pascal, La conversione di S. Agostino, Ritratto della malinconia, La fine dell’epoca moderna, Il potere, Ansia per l’uomo, Rainer Maria Rilke, quasi tutte presentate al pubblico italiano dalla Morcelliana.

 

Titolo originale dell’opera: Das gute das Gewissen und die Sammlung 
Matthias – Grünewald – Verlag, Mainz (2. Auflage) 

Traduzione di Giulio DELUGAN

  • I edizione: 1933

  • II edizione: 1948

  • III edizione: 1961 IV edizione: 1977

PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA
(Audio 1)
 

Questo piccolo libro è uno scritto pratico, non teoretico. Esso non vuole discutere filosoficamente l’essenza della coscienza del bene, bensì intervenire in aiuto della coscienza cristiana nella lotta intorno ai fondamenti della vita morale, quale è determinata dalla situazione spirituale in Germania.

Lotta: ma chi sono i nemici?

E in primo luogo Kant e lo spirito da lui suscitato che esige l’autonomia assoluta della coscienza ed afferma che il cristiano non è una personalità morale nel vero senso, piuttosto invece è eteronomo perché egli sottopone la sua coscienza al volere di Dio… E poi il Nietzsche che assurge a potenza sempre più vigorosa. Egli esige l’assoluta creatività della personalità morale. Il cristiano, egli afferma, ha solo una morale esecutiva che è condannata all’infecondità; una morale da schiavo che lo esclude dall’ esistenza veramente grande e degna… E il bolscevismo che soffoca lo spirito vivente, e distrugge la libera personalità nella compagine del collettivo e nel processo della storia, umiliandola a mero organo per la realizzazione di necessità superindividuali. Ed esso, poi, ritiene il cristiano un individualista pieno d’egoismo, un fantasioso che si abbandona a realtà incontrollabili e trascura in tal modo l’unica realtà. Ed altri ancora si potrebbero nominare.

Di fronte a costoro, questo libro vuol mostrare quale forte indipendenza e profonda iniziativa presenti la morale cristiana; quanto grandi siano le sue possibilità creative, con quanto senso di realtà essa stia di fronte alle cose. Esso pertanto vuoi animare la coscienza cristiana ed ispirarle fiducia nella sua forza. Il lettore dovrà dunque intendere il libretto in questa prospettiva di lotta e di aiuto: non come una trattazione scientifica, bensì come una parola veniente dalla vita per la vita. Come una parola indirizzata agli uomini d’oggi, in cerca ed in lotta, per ispirar loro forza contro determinati avversari; non quindi come un trattato morale o teologico sulla natura della coscienza.

Sembra che il libretto, con questa intenzione, non abbia fatto in Germania un cattivo servizio. Così può essere giustificata la speranza che non risulti inutile nelle discussioni del pensiero italiano, in cui lo introduce l’amichevole fatica del traduttore.

ROMANO GUARDINI

Questi pensieri vennero svolti originariamente in forma di conferenza. 
Vorrei perciò lasciar loro la forma dell’allocuzione diretta; 
e quindi anche il chiarimento loro premesso.

INTRODUZIONE

Ci siamo radunati per parlare di alcuni problemi fondamentali della nostra esistenza personale. Prima però di entrare in argomento vorrei fare alcune osservazioni.

Mi sia lecito dire che questo nostro conversare intorno a tali cose, dev’esser qualcosa di diverso da una solita conferenza. Non vogliate vedere in ciò presunzione di sorta; non pretendo di fare più di colui, che espone onestamente quello che sa. Ma si tratta invece di diversità sostanziale.

È naturale che uno comunichi ad altri quello che crede di sapere. A tal fine quello che si esige da lui è che sappia veramente ed esponga con chiarezza quello che sa. Chi ascolta poi dev’esser disposto ad ascoltare, a discutere e ad imparare, con mente attenta e con animo schietto.

C’è anche un altro modo di parlare: quando uno dice non soltanto quello che sa, ma quello di cui è personalmente convinto; convinto nel senso specifico, profondo di questa parola. Egli dice dunque delle cose, delle quali si può essere veramente «investiti», delle verità che toccano da vicino. In questa convinzione è entrata la persona vivente; altrimenti non si potrebbe parlar di convinzione. Perciò, quando il discorso è di tal natura, da chi parla si esige che la sua persona si trasfonda veramente nella parola; dall’uditore invece che sappia di esser messo di fronte ad una parola personale e che egli stesso prenda un atteggiamento personale, abbia cioè rispetto e disposizione a discutere seriamente.

Più in là ancora vi è finalmente un terzo modo di parlare: quando uno dice non soltanto quello che sa; parla non soltanto di quello che forma la sua convinzione; ma parla di « ciò che dobbiamo fare ». In questa cosa si tratta del destino umano; di ciò che trova la sua ultima espressione religiosa nella parola: la salvezza dell’anima. Un tal parlare non basta che sia fatto con serietà e con senso di responsabilità. Per essere veramente alla sua altezza, dev’essere un’intesa tra chi parla e chi ascolta, nel senso che entrambi vogliano veramente trattare assieme di quello «che dobbiamo fare ».

Qualche cosa del genere è quello che qui stiamo facendo.

Noi viviamo in un’età devastata. Le cose dello spirito e le cose della salvezza non hanno più una propria sede. Tutto è buttato sulla strada. Ognuno parla, ascolta, scrive e legge di tutto ad ogni istante.

Abbiamo dimenticato che quanto riflette lo spirito è di una nobiltà molto esigente e che il comprenderlo è possibile solo a certe condizioni. Che i diversi interessi del mondo spirituale esigono di volta in volta un diverso modo di parlare e di ascoltare; richiedono uno spazio interiore diverso, nel quale possano svolgersi questo parlare e questo ascoltare.

Viviamo in un tempo, nel quale l’avvilimento dell’onore che spetta allo spirito è diventato una pratica comune, che non impressiona più in modo particolare. Per accorgersene basta dare uno sguardo attento a quanto riguarda l’educazione pubblica, con le sue conferenze, discussioni e riviste e coi suoi giornali; basta osservare l’andazzo seguito nel trattare di cose spirituali, il linguaggio che in ciò si usa… Se vi è un compito di vera formazione, è ben quello di tornare ad erigere in questo caos delle barriere, di tracciare dei confini, di separare ambiente da ambiente, di distinguere gradi gerarchici degli spiriti, di far sentire quello che di volta in volta è richiesto da chi vuol cogliere qualche cosa di spirituale.

Ebbene, un po’ di siffatta riflessione e di quest’ordine dovrebb’essere il frutto di queste parole introduttive.

Qui non si tratta di una conferenza che esponga ciò che si sa ad uditori disposti ad imparare. Non si tratta nemmeno di sostenere una convinzione davanti ad uomini disposti ad ascoltarla rispettosamente e a discuterla. Si tratta piuttosto di scambiarsi, uniti nella medesima preoccupazione per la nostra più intima esistenza, una parola su problemi che riguardano appunto questa esistenza e la sua salvezza.

L’oratore dunque intende parlare qui ad uditori che siano pronti a condividere questa preoccupazione. Soltanto con loro. Questa esclusività è necessaria per la dignità della cosa e per l’onore della propria interiorità. Con ciò è chiarito l’oggetto della nostra conversazione, definito il nostro atteggiamento, e circoscritto il suo ambito.

Se tutto ciò vi dovesse sembrare troppo esigente, eccovi la risposta: il dir questo fa appunto parte dell’argomento di cui ci occupiamo. Ne determina il carattere. Ognuno deve assoggettarsi al giudizio che venne pronunciato sopra la trascuratezza colpevole del nostro tempo. Nessun individuo è esente da quello che tocca tutti. In un punto però può differenziarsi: che egli abbia la coscienza di questa trasandatezza. Che egli non chiami ordine questa devastazione, ma sappia ben distinguere. Che egli chiami con il loro nome il disordine e l’irriverenza e abbia la volontà che le cose cambino.

E ancora un’osservazione: il discorso deve aggirarsi intorno ad alcuni problemi della vita interiore: problemi religiosi e morali dunque. Però non si intende con ciò di esporre un sistema di etica, ma soltanto di mostrare un fecondo punto di partenza; uno fra i tanti. Se qui e in tale contesto non si fa espressa parola della morale cristiana positiva, non è per escluderla, ma anzi perché viene esplicitamente presupposta.

Le tre conferenze hanno un nesso vicendevole, e pertanto sulle prime apparirà poco chiaro qualche punto, che poi troverà spiegazione nel corso della trattazione.

UOMINI MANDATI DA DIO – Don Enrico Ghezzi

UOMINI MANDATI DA DIO

di  don Enrico Ghezzi, 

 

Lasciarsi conquistare pienamente da Cristo! Questo è stato lo scopo di tutta la vita di san Paolo, al quale abbiamo rivolto la nostra attenzione durante l’Anno Paolino dello scorso anno; questa è stata la meta di tutto il ministero del Santo Curato d’Ars, che invocheremo particolarmente durante l’Anno Sacerdotale; questo sia anche l’obiettivo principale di ognuno di noi.

Per essere ministri al servizio del Vangelo, è certamente utile e necessario lo studio con una accurata e permanente formazione teologica e pastorale, ma è ancor più necessaria quella “scienza dell’amore” che si apprende solo nel “cuore a cuore” con Cristo.

È Lui infatti a chiamarci per spezzare il pane del suo amore, per rimettere i peccati e per guidare il gregge in nome suo. Proprio per questo non dobbiamo mai allontanarci dalla sorgente dell’Amore che è il suo Cuore trafitto sulla croce.

Solo così saremo in grado di cooperare efficacemente al misterioso “disegno del Padre” che consiste nel “fare di Cristo il cuore del mondo”

 23 novembre 2009

 

GIOVANNI XXIII

 

Introduzione.

Un Papa lo si può capire  a partire da due momenti della sua vita: il tempo dell’infanzia e della fanciullezza, e dal Testamento, conclusivo della sua esperienza di vita.

Per Papa Giovanni XXIII, proclamato dal popolo il ‘Papa Buono’, seguirò una traccia di vita da lui stesso indicata a partire dalla sua giovanissima età di 14, con quello che sarà chiamato ‘Il giornale dell’anima’. La storia di un’anima, non molto diversa da quella assai nota di S.Teresa del Bambino Gesù. In questi trent’otto quadernetti di scuola, il giovanissimo Roncalli, scrive tutti i suoi sentimenti umani e religiosi: segnando le preghiere, i propositi, i fioretti, le difficoltà, le gioie che una vita purissima e piena di innocenza gli veniva suggerendo di giorno in giorno.

Così mentre siamo soliti giudicare, per la storia, gli anni di pontificato dei successori di S.Pietro, con i loro interventi e gesti più solenni, in realtà io penso che uno diventi Papa prima, a partire già dalla loro fanciullezza e giovinezza, quando nella loro anima è stato seminato quel germe di fuoco e di amore con la parola del Signore, che avrebbe poi infiammato il cammino della loro vita, così da renderli idonei, con la grazia dello Spirito Santo, a diventare sommi sacerdoti della chiesa di Cristo. Senza questa attenzione allo sviluppo e alla formazione della loro anima negli anni della giovinezza, ci sarebbe difficile capire l’attività dei Pontefici, e daremmo spesso giudizi superficiali, dipendenti soltanto da scarse conoscenze storiche o da  sentimenti vaghi.

La grandezza dei pontefici del XX secolo, da Leone XIII, a S. Pio X, a Benedetto XV, papa della prima tragica guerra mondiale, fino a Pio XI e Pio XII, e ai due Papi che vogliamo ricordare Papa Giovanni XXIII e Paolo VI, Papa Montini, per coglierne almeno alcune dimensioni, bisognerà conoscere l’anima ardente della loro vita che precede la salita al soglio di Pietro.

Diventare Papa non è raggiungere una carriera, come spesso è banalmente creduto, ma significa essere scelti da Dio per portare con  Gesù la croce del sacrificio e l’oblazione totale dell’amore, secondo le parole di Gesù, prima della sua passione: “Avendo amato i suoi li amò sino alla fine”, secondo le parole di Giovanni 13,1.

Il Papa esprime l’intensità della sua identità spirituale, aderendo con pienezza alla vocazione a cui il Signore lo ha chiamato, come è ricordato dalla lettera gli Ebrei, a proposito del ‘sommo sacerdote’: “Ogni sommo sacerdote, infatti, è scelto tra gli uomini e per gli  uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati “>(Eb.5,1).

 

L’anima di Papa Giovanni

Oggi, noi veneriamo la memoria di Papa Giovanni, riconoscendo la sua santità: egli è stato già proclamato ‘beato’. Ma cosa significa essere ‘beato’ cos’è questa ‘beatitudine’ che ha sempre colmato e consolato l’anima di Papa Giovanni?

In Papa Giovanni la ‘beatitudine’ ha significato di ‘pienezza di benedizione’, di luce, vita di amore, di sentimenti teneri e generosi verso Gesù  che questo Papa ha poi profuso sul mondo e nella chiesa, durante i cinque anni del suo pontificato.

In lui, beatitudine, era innocenza, purezza, bonomia, luminosità serena, santità continuamente irradiata dalla sua vita semplice e povera. L’amore manifestato con ingenuità e pudore ha guidato il nostro Papa in qualunque momento del suo apostolato nei vari servizi alla chiesa, in Bulgaria, in Turchia, a Parigi, a Venezia e poi a Roma come successore di Pietro.

Desiderava comunicare alle nostre anime la tenerezza divina con lo stesso amore con cui il Signore aveva riempito e consolato il suo cuore dai giorni della sua fanciullezza fino alla croce delle ore finali, durante la sua malattia (un cancro allo stomaco), nella morte avvenuta il 3 Giugno 1963 alle 19,49.

In Piazza San Pietro, in quel momento, il card. Traglia suo vicario, concludeva la messa e all’ ite missa est, la stanza del ‘Papa buono’ si illuminava.

Un’altra fonte per comprendere  la vita di un Papa, è leggere il suo Testamento scritto meditando e pensando al momento della morte che mette fine alla propria esistenza e a ogni grandezza.

Dal Testamento di Giovanni XXIII, scritto mentre era ancora a Patriarca di Venezia, e dove pensava certamente di concludere la sua vita leggiamo: “Nato povero, da umile gente, sono lieto di morire povero, avendo distribuito a servizio dei poveri e della Santa Chiesa …quanto mi venne fra mano durante gli anni del mio sacerdozio ed episcopato…Alla mia diletta famiglia da cui non ho ricevuto nessuna ricchezza materiale, non posso lasciare che una grande benedizione, con l’invito a mantenere quel timore di Dio. .. semplice e modesto”.

La povertà  vissuta con  dolcezza e gioia evangelica ha caratterizzato tutta la sua vita: questa condizione non è mai stata percepita con umiliazione o sofferenza: era semplicemente l’espressione più congeniale che lo teneva unito alla sua famiglia di contadini poveri ma pieni di dignità e che ha sempre caratterizzato l’indole evangelica di Giuseppe Angelo Roncalli, da sempre disponibile alla imitazione di Gesù-povero, da testimoniare come sacerdote nella  Chiesa.

Uno dei libri semplici che papa Giovanni ha continuamente letto fin da giovane seminarista, come si trova nel suo ‘Giornale dell’anima’, è proprio il libretto di Tommaso da Kempis, ‘L’imitazione di Cristo’.

 

L’INFANZIA

Nessuno può comprendere il ‘Papa Buono’, senza rileggere la sua infanzia a Sotto il Monte.

Famiglia di contadini e mezzadri; lavoro nei campi, polenta fumante alla sera condivisa con qualche mendicante che bussava alla porta; carne solo alla domenica, e dolci nelle feste principali.

Questo modello di vita, in quegli anni, era comune alla stragrande maggioranza delle famiglie contadine e operaie: una vita che trasmetteva un profondo senso di dignità, di onestà e faceva crescere la sensibilità verso un profondo bisogno di giustizia e di uguaglianza che presto si diffonderà nella società contadina e operaia, dando origine poi all’inizio del secolo XX a manifestazione e a creazione di cooperative diverse.

Nella famiglia Roncalli, il lavoro della terra era accompagnato sempre da una intensa devozione religiosa; santo rosario intero ogni sera, qualche lettura della Bibbia. Lavoro, preghiera, miseria,  e grande fierezza.

Intanto, il piccolo Angelo  leggeva con avidità e manifestò subito a 10 anni, il desiderio del sacerdozio, ma la famiglia non aveva soldi per pagare il seminario.

Aiutato da un canonico, entra in seminario nel 1892 a ottobre, all’età di 11 anni. Studio e preghiera: a 14 anni incomincia a scrivere i suoi pensieri, un diario che sarà chiamato ‘Il giornale dell’anima’ (38 quaderni).

E’ un vero ‘diario’, che annota tutti i piccoli sentimenti, i desideri del giovanissimo Angelo, ma soprattutto elenca una lunga serie di doveri a cui non vuole mai venire meno.

Oggi noi forse facciamo un po’ fatica a comprendere la minuziosità e l’impegno di un ragazzo già così teso ad essere fedele alla sua formazione spirituale, fin dalle cose più piccole: penseremmo che non c’era abbastanza libertà interiore, e che le regole sembravano una gabbia che limitava la sua libertà.

In realtà, Angelo Roncalli, fin da questa giovinezza, era guidato dal desiderio della perfezione e della santità; tuttavia, crescendo negli anni, il ‘diario’ si fa più robusto e concreto, manifestando meglio l’ardore e la purezza di costumi del giovane prete.

Tipo di vita descritto: preghiera, propositi, confessione settimanale, esercizi spirituali, visite al sacramento, giaculatorie, assoluta purezza di gesti e comportamenti, umiltà, studio. Devozione al Sacro cuore di Gesù, alla Madonna e a S: Giuseppe, all’angelo custode.

Nel 1901, a Roma da un ritiro: ‘O Signore, il mio cuore voi lo vedete…preghiera e santa letizia’.

Studio di teologia con successo. Tornando per le vacanze a casa scrive in anticipo alla mamma: ‘Vedete io sono quello di prima…non dovete mantenermi come un signorino…’.

In quegli anni, i genitori circondavano i figli chierici di grandi attenzione: di ritorno a casa, pur continuando a collaborare un po’ nei campi, era però necessario che i chierici potessero aver una vita raccolta e serena.

1902: Esperienza militare, e trascrive con inquietudine: <quante bestemmie…devo ringraziare il Signore della tenerezza che mi hai  usato…Gesù ti ringrazio, ti amo>

Negli anni di studio a Roma, avendo particolare capacità di apprendimento, doveva però constatare: <sono schiavo del mio amor proprio>, perché si sentiva bravo negli studi.

 

1904: Prete ordinato a Roma: < se voglio essere un grande sacerdote, mi devo spogliare di tutto, come Gesù in croce>.L’antica disciplina a cui si era sottoposto, ora deve portare frutti nel suo lavoro di sacerdote. Essere sempre più vicino a Gesù, tenere sempre il vangelo come modello di vità

 

1905-1914: Segretario del grande vescovo Radini Tedeschi a Bergamo, suo maestro di vita; da lui imparerà ad essere pastore donato al servizio del popolo, dei poveri e della Chiesa. (Insegna in Seminario e inizia a scrivere la Storia delle visite di S. Carlo Borromeo a Bergamo. Nel 1914, in ottobre, assiste alla morte del Vescovo, raccogliendo le sue ultime parole sulla ‘pace’: stava scoppiando la prima tragica guerra mondiale.

 

1915-18: Richiamato cappellano militare. Incontra  migliaia di ragazzi militari feriti e moribondi che riempivano il seminario di Bergamo diventato ospedale militare; conosce gli orrori della guerra con la morte di tanti ragazzi e il dolore di tante giovani famiglie.

 

Nel 1925 a Roma è fatto vescovo. E’ un giorno  importante della sua vita, che, improvvisamente, cambierà corso.

La dignità episcopale lo rende cosciente dei suoi carismi, ma subito annota: <Non ho cercato o desiderato questo nuovo ministero…Quale motivo per tenermi umile! Voglio essere solo di Dio, splendente di carità verso la Chiesa e le anime>.

Il suo motto episcopale  è: <Oboedientia et pax>, a cui cercherà di essere fedele per tutta la vita.

 

1925-34 (in Bulgaria)- 1934-44 ( in Turchia).

Il primo decennio in Bulgaria: carità e disponibilità con tutti, in un paese di forte presenza della chiesa ortodossa. I cattolici sono una minoranza abbandonata ai margini della cristianità. A dorso di mulo raggiunge i più sperduti villaggi cattolici, ai confini della Tracia e della Macedonia.

 1834-1944: in Turchia, pochi cattolici e ortodossi, prevalenza mussulmana.

 Anni difficili di silenzio, di carità, di preghiera. Scrive nel suo diario < con cattolici e ortodossi cercherò di esprimere sempre bontà, bontà luminosa, dignità amabile>.

Avverte però di essere dimenticato da Roma e scrive: < Non farò mai un passo per provocare cambiamenti nella mia situazione…lasciando passare davanti a me chi vuole>.

<O Gesù ti ringrazio di questa solitudine >.

Sempre in questo ritiro parla di <pene…angustie.. vita da perfetto eremita>.

2Negli anni della Turchia, parlando ancora delle difficoltà con Roma, annota nei suoi quaderni con amarezza: <ciò mi fa male, è la sola mia vera croce. Voglio portarla con umiltà . Dirò sempre la verità, ma con mitezza…>. (La vera diplomazia è la verità).

 

6 Dic. 1944: finita la guerra, è promosso, con sua grande meraviglia e incredulità, a Parigi come Nunzio; incarico prestigioso . Incontro con il generale De Gaule, rigido e severo che si scioglie davanti alla semplicità di questo diplomatico sorridente, affabile e sereno.

Riuscirà a conquistare la simpatia del socialista Auriol, o del radicale e  anticlericale Herriot, mentre il cattolico Schuman dirà <E’ il solo uomo a Parigi in compagnia del quale si abbia una sensazione di pace >.

 Ci sono grossi problemi tra la Chiesa di Francia e Roma: conosce il grande Card. Suhard, vescovo di Parigi, e con lui partecipa alla  ‘Mission de Paris’: la situazione cristiana del proletariato è quella di lavoratori e operai ormai lontani dalla Chiesa e dalla fede.

Scoppia il problema dei ‘preti operai’ a cui Roncalli mostrò particolare attenzione e riguardo, riuscendo a convincere Roma della opportunità di quella esperienza. Ripeteva il futuro Papa del Concilio: <Senza un po’ di follia, la chiesa non ha mai allargato i suoi padiglioni>.

1953-1958 Patriarca a Venezia e cardinale.

Era il traguardo finale del Pastore sempre in cerca di un popolo a cui donare amore e carità evangelica. di una-

A nov. 1952, il Sostituto di Stato, Mons. G.B. Montini, gli comunica l’intenzione di Pio XII di mandarlo a Venezia:

<il Papa disponga della mia umile persona, in piena libertà> è la risposta di Roncalli. A gennaio 1953 ancora Montini, gli fa sapere che sarebbe stato nominato cardinale. A Parigi lascia il ricordo di <un prete leale e pacifico>.

Salutando Parigi dirà; < Spero che direte di me: era un prete leale e pacifico…>.

 A Venezia giunge con queste parole:

  •  < Vengo con una  disposizione all’amore degli uomini che mi tiene fedele al Vangelo…mi impedisce di fare del male a chicchesia: mi incoraggia a fare del bene a tutti>

  • <Vengo dall’umiltà e fui educato ad una povertà costante e benedetta>.

Popolo e sacerdoti trovarono in lui un amico e un padre. Qui incontra don Loris Capovilla che gli sarà fedele segretario fino agli ultimi istanti della sua vita.

9 Ott.1958 muore Pio XII.

25 Ott. 1958 si apre il Conclave e il 28 Ottobre diventa Papa col nome di Giovanni XXIII.

Giovanni dirà, perché è il nome del mio papà, della chiesa parrocchiale dove sono stato battezzato, ed  è il nome di S. Giovanni in Laterano. (Aggiungerà con l’ironia che spesso lo accompagnava: <Ci sono 22 papi eletti regolarmente col nome di Giovanni…Quasi tutti ebbero un breve pontificato>.

IL Concilio

Tutta la vita di Papa Giovanni XXIII fu una testimonianza dell’amore del vangelo.  Questo amore volle portare nella Chiesa con il Con. Vat. II, appena tre mesi dopo la sua elezione, che sorprese la Chiesa e il mondo: mostrò la sua personalità energica e sicura di sé, lucida e capace.

Improvvisamente, la domenica 25 Genn.1959, accompagnato dai cardinali di curia (17 in tutto), ignari di quello che sia stava svolgendo, dalla Basilica di S. Paolo, varcato il convento e venuto nella sala dove erano convenuti i cardinali, tirò fuori dalla tasca della sottana un foglietto, messi gli occhiali,  con voce emozionata, proclamò: <Per venire incontro alle presenti necessità del popolo annunciamo la celebrazione di un Concilio Ecumenico, per la Chiesa universale…in cerca dell’unità >.

Tutto il mondo fu preso da  stupore: se ne parlò nei bar, sui tram, in fabbrica, al mercato ecc., con un certo silenzio da parte di cardinali di curia, imbarazzati da quell’improvviso annuncio.

Ma il Papa era convinto che il suggerimento veniva dallo Spirito Santo.

 11 Ott. 1962: Inizia il Concilio; 2400 padri da Oriente a Occidente, da tutto il mondo: cattolici, ortodossi, protestanti; <Oggi  –dirà- la santa madre Chiesa gioisce…>.

Inaspettatamente, la sera si raduna  a S. Pietro, sotto la finestra del Papa  una folla di circa 500.000 persone. In un discorso non preparato, il Papa appare alla finestra, e parlando col cuore dirà parole che hanno una freschezza evangelica anche oggi:

<Cari figlioli, cari fedeli…

Sento la vostra voce!… Si direbbe che perfino la luna si è affrettata stasera. Guardate la luna, figlioli, osservatela in  alto a guardare questo spettacolo.

Figlioli la mia persona non conta niente, è un fratello che vi parla, un fratello diventato padre per volontà del Signore. Continuiamo a volerci bene. Guardiamoci così, nell’incontro, per cogliere quello che ci unisce tralasciando quello che ci divide…

E ora figlioli, vi do la mia benedizione…E tornando a casa  troverete i bambini. Allora date loro una carezza e dite. Questa è la carezza del Papa>.

E’ stata la comunicazione più alta e più umana che mai un Papa aveva usato nel rivolgendosi ai fedeli: con quel figliuoli, ripetuto più volte, a parlare era  un padre e un fratello che voleva raggiungere e  penetrare il cuore di tutti. Come Gesù.

25 Ottobre 1962: crisi terribile tra Russia e America per la Baia dei Porci a Cuba. Possibile terza guerra mondiale. Il 25 ottobre il Papa fa un accorato appello al mondo: <I potenti ascoltinoil grido di angoscia che sale da ogni parte  della terra. Pace, pace…>.

Passò due notti a pregare: il 28 Ott. ‘62  Kruscev toglie le basi missilistiche da Cuba. Dirà più tardi lo stesso Kruscev: <l’appello del Papa è stato per noi un raggio di luce…>. 

Il Papa buono verso la morte.

Ritiro spirituale del 1959: <Tutto il mondo è la mia famiglia>.

 La sua vita spirituale come Papa raccoglie nella sua semplice preghiera tutti gli uomini: <la mia costante e ininterotta preghiera quotidiana: breviario, santa messa, rosario completo, visita a Gesù nel tabernacolo, unione con Gesù  familiare  e confidente>.

Ritiro 1960. <Devo tenermi pronto a morire anche subito. Alla porta dei miei 80 anni devo tenermi pronto a morire o a vivere e provvedere alla mia santificazione>.

< La santa confessione  ben preparata, ripetuta ogni settimana, il venerdì o il sabato, resta sempre un bene solido della santificazione >

Negli ultimi giorni della sua vita, davanti al crocifisso: <Questo letto è un altare. L’altare vuole una vittima. Offro la mia vita per la Chiesa, la continuazione del Concilio Ecumenico, la pace nel mondo, l’unione dei cristiani> .

Qui dobbiamo necessariamente ricordare le parole di Gesù e della sua ‘consacrazione’ prima della sua morte: offerta del suo sacrificio, Gesù è il ‘sacerdote’, è colui che offre al Padre, come ogni sacerdote, il sacrificio di sé:  ‘Per loro io consacro me stesso’Gv.19,19).

E’ iniziato il Concilio, intanto però il Papa comincia a stare male. Si notano sul suo viso smorfie di dolore intenso, e bruciori allo stomaco. I primi sintomi si fecero sentire già nel’61: il Papa si offre per la riuscita del Concilio, ma in quei mesi fine ’62  inizio 1963, il Papa è conscio della sua malattia.

Un giorno, impressionato dal volto segnato dal dolore, il segretario mons. Capovilla gli chiede: <si ente male, Santo Padre?>.  Il Papa mortificato per essere stato sorpreso in quell’atteggiamento rispose: <Mi sento come san Lorenzo sulla graticola: sono tutto un bruciore>.

Volge alla fine: il 30 maggio 1963, nella notte, un dolorosissimo attacco emorragico ne affrettò la fine. Ricevette i sacramenti e dirà : “voglio morire da vescovo, con semplicità. Aiutatemi a morire come si deve a un Papa”.

Sera  del 3 giugno ’63: grande veglia di preghiera in Piazza S: Pietro, celebrata dal card. Traglia, vicario del Papa per la diocesi di Roma: conclude la messa con le parole tradizionali: ‘la messa è finita’. Nello stesso momento la finestra lassù si illuminata e si spalanca eloquentemente: Papa Giovanni è volato in Paradiso! Sono le 19,49.

 Come scrive l’Apocalisse 21,23: <Et lucerna eius est Agnus> <la sua lampada è l’Agnello>.  Il ‘sommo sacerdote’ ha offerto il suo sacrificio, come Gesù per amore del mondo e della Chiesa.  

Conclusione.

Subito il popolo chiamerà Giovanni XXIII, il Papa Buono. E’ entrato nelle famiglie come un fratello e un padre. La sua bonomia, la sua sapienza antica, la dolcezza calda e modesta ha saputo trasmettere l’idea di Chiesa umile, madre, dove si può vivere al vertice del potere religioso, ma da ‘servo, da fratello di tutti.

L’amore delicato, casto, pudico, dell’animo di Papa Giovanni sapeva suscitare in tutti, anche nei lontani e non-credenti, il senso della pacatezza e dell’armonia.

Ha vissuto fin da bambino nel fuoco dell’amor del cuore di Gesù e dello Spirito santo, e la sua vita ha ripercorso  le strade della santa famiglia di Nazaret, nella completa fiducia al Padre, come Maria e Giuseppe e Gesù. Così alla fine poteva sperimentare nell’agonia e nella morte, le parole dell’evangelista più amato: <..amò sino alla fine>(Gv.13,1).

Papa Giovanni, è  stato questa luce delicata di amore che illumina e conforta la nostra umanità e rinnova la nostra speranza.’

GIOVANNI BATTISTA MONTINI

 PAOLO VI

 

Papa bresciano, non lontano da Bergamo, città di Papa Giovanni XXIII.

Se Papa Giovanni ha seguito una ispirazione interiore dettata dallo Spirito Santo, fin dalla sua fanciullezza, esprimendo la grazia di Dio nella bonomia, semplicità, dolcezza e umiltà, tali da comunicare al mondo intero un profondo senso di fiducia, di pace e di consolazione, Papa Paolo VI, G.B. Montini, vive e comunica una passione spirituale irripetibile, in un tempo della storia che lo vedrà assoluto protagonista del Concilio Vat.II, lasciato aperto da Papa Giovanni, e che il nuovo Papa porterà a compimento con straordinaria luminosità intellettuale, coraggio e amore per la Chiesa.

Montini intellettuale e di animo sensibilissimo, di estrazione familiare borghese, lo troviamo fin da giovane sacerdote, servitore della Chiesa, accanto ai Papi Pio XI e Pio XII, durante il secondo conflitto mondiale, che porterà milioni di morti e vedrà l’Europa distrutta.

Se Papa Giovanni comunicava una specie di ‘tenerezza divina’ di cui il Signore lo aveva gratificato, Paolo VI ha vissuto il vangelo con la stessa ‘passione e urgenza’ dell’apostolo Paolo.

Sembrava voler prendere su di sè il mondo e la Chiesa, volendo come ‘cristificare’ l’intero cosmo trasmettendogli la passione e l’energia divina della salvezza, così cara a Theillard de Chardin, l’antropologo gesuita che vedeva nel cuore del mondo, l’amore infuocato del cuore di Cristo.

E’ un Papa che, con Giovanni XXIII, ho sentito particolarmente vicino, in quella primavera della Chiesa degli anni ‘60|’80 dove la forza rinnovatrice del Concilio nella Chiesa voleva essere una energia  cristica piena di speranza  da comunicare al mondo intero.

Indicato da alcune critiche, come un ‘papa enigmatico’ (così anche Pio XII), indeciso, sofferente, in realtà <la sua segreta angoscia nasce dal constatare il disordine, il dolore, la cecità umana> (Guitton), da cui spesso la nostra umanità è in preda.

 Da qui il suo impegno assiduo e quotidiano  rivolto <specialmente ai lontani, agli apatici, ai dubbiosi >(14 dic.1975, alla fine dell’Anno santo1975).

Una tensione interiore che lo rivelava come il papa che vuole incontrare e annunciare il vangelo a tutti gli uomini, nella dimensione universale dei continenti: da qui i suoi viaggi intensi e impegnativi che lo vedevano parlare, incontrare le popolazioni più lontane e più povere; voleva far comprendere a tutti il ‘riscatto’ civile della dignità e della bellezza della vita, attraverso la persona di Gesù Cristo e del suo < vangelo, che è potenza di Dio>( Rm.1,16), come ha scritto l’apostolo Paolo presentandosi ai cristiani e ai cittadini di Roma.

Con la stessa forza interiore dell’apostolo delle genti, anche Paolo VI sentiva di essere <Apostolo per vocazione, scelto ad annunciare il vangelo di Dio> (Rm.1,1), e ancora, come Paolo,  di dover essere <in debito verso i Greci, come verso i barbari, verso i dotti come verso gli ignoranti>(v.14) per indicare l’ampiezza della sua missione di Pastore del mondo.

E’ in questa forza interiore radicata nella fede in Cristo, una fede attinta e convinta già dalle radici della famiglia nella testimonianza cristiana del padre e della dolcissima madre, che  Paolo VI riuscirà, con grande coraggio e senza incertezza o dubbio, a trasmettere  nei documenti del Concilio che portano il sigillo della sua sapienza: la costituzione sulla Chiesa la ‘Lumen Gentium’ (Chiesa Luce dei popoli), e la costituzione del dialogo permanente della Chiesa col mondo, la ‘Gaudium et spes’.

Sembrano descrivere perfettamente l’anima e il carattere di Papa Montini le parole che aprono la costituzione sul mondo della Gaudium et spes: <Gioie e speranze, tristezze e angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, son pure le gioie e le speranze, le angosce e le sofferenze dei discepoli di Cristo>(GS,1).

Anche oggi, rilette e meditate, basterebbero queste semplici parole per ridare alla nostra Chiesa un entusiasmo rinnovato e una passione missionaria che forse si è spenta.

Tutti i documenti del Concilio, che avrebbero dato nuovo impulso all’apostolato dei cristiani nel mondo, questi documenti portano impresso il sigillo dell’amore per la carità e la verità di PaoloVI.

Ricordiamone solo alcuni: la costituzione Dei Verbum (la Parola di Dio), guida illuminata e lungamente attesa dagli studiosi della Scrittura, principio di apertura scientifica che darà grandi frutti sulla conoscenza della Parola di Dio, arricchendo la spiritualità di ogni cristiano attento a percepire il ‘linguaggio’ di Dio. Così tutti i documenti che riguardano la vita religiosa e sacerdotale, la partecipazione attiva dei laici alla missione della Chiesa, la vocazione missionaria della Chiesa verso tutte le genti, i documenti sulla libertà religiosa, il dialogo con i fratelli separati mediante l’ecumenismo, il riconoscimento delle religioni non cristiane, i problemi riguardanti l’educazione cristiana dei giovani fino ai temi, divenuti inseguito essenziali, come l’uso dei mezzi di comunicazione.

Nulla è sfuggito alla Chiesa conciliare, nel tentativo di riallacciare il mondo al dialogo con Dio-Padre nostro. In questo sforzo, i Padri presenti al Concilio, hanno riconosciuto l’intelligenza illuminata e l’anima ardente del Papa che li guidava. Alla sua morte, molti riconobbero la sua grandezza accostandolo ai grandi pontefici della Chiesa, come San Leone magno e S. Gregorio magno. Grandezza e santità  che gli fu riconosciuta dai successori come il santo papa Giovanni Paolo I, il Papa dei 33 giorni, e Giovanni Paolo II, il polacco che durò a lungo.

Per cogliere la grandezza di Papa Montini, occorre, anche per lui, ritornare agli anni della sua formazione giovanile, nella sua città di Brescia.

 

La sua storia.

G,.B. Montini nasce a Brescia nel 1897, il 27 Sett., da Giorgio e Giuditta Alghisi. Famiglia, borghese, radici cattoliche profonde, colte. Il padre medico e parlamentare popolare, agli inizi del secolo scorso. Il giovane  Montini ha una grande stima e ammirazione verso il padre, e una dolcissima venerazione verso la madre, dedita in casa, alla educazione dei tre figli. Donna di delicati sentimenti e di viva pietà, che univa alle opere di carità. Dirà il futuro papa della madre: <devo a mia madre il senso del raccoglimento>.

 La famiglia incide profondamente sull’anima sensibilissima di  G.Battista e sulla sua straordinaria intelligenza.

Studia a Brescia nel Liceo dei gesuiti Cesare Alici.  Frequenta la chiesa di S Maria della Pace, dove i pp. Filippini Caresana e Bevilacqua cureranno la sua formazione religiosa e culturale. P. Bevilacqua, sacerdote discepolo di S. Filippo Neri, e uomo di eccellenti doti intellettuali e spirituali, seguirà praticamente per tutta la vita, lo sviluppo e il cammino del futuro Paolo VI.

Diploma liceale nel 1916, ordinato sacerdote nel 1920, studi ecclesiastici a Roma tra il 1920-24; a ottobre del 1924 entra nella Segreteria di Stato in Vaticano, dove nel 1937 diventa Sostituto della stessa Segreteria con Pio XI e poi nel 1939 con Pio XII.

 

1939-45: seconda guerra mondiale: anni intensi di lavoro per Montini, nell’Ufficio di Informazioni del Vaticano <per lo scambio e la ricerca di molti soldati prigionieri e  civili>.

Nel 1952 Pio XII lo promuove Segretario di Stato; nel 1954 è Arcivescovo di Milano: sceglie come programma della nuova missione il motto ‘In nomine Domini’ a indicare la sua radicale dedizione al popolo di Dio. Il Signore, nel cuore di Montini, ‘è la  roccia’ su cui fonda il suo impetuoso slancio missionario, il Signore è la certezza che ogni giorno lo conduce e lo conforta nell’immenso lavoro che lo attenderà nella grande chiesa ambrosiana.

Nel 1958 programmò la ‘Missione di Milano’ con il tema ‘Dio è Padre’, <per richiamare alla vita religiosa sincera e autentica una intera città>. Fabbriche, operai, imprenditori, intellettuali, parrocchie urbane e suburbane. A Milano incontra la collettività, l’umanità ammassata nella grande periferia dove arrivavano immigrati dal sud in cerca di lavoro, incontra il mondo moderno che ha abbandonato la fede. Descrive questo mondo con accenti di un profeta di Israele:< la nostra città sta diventando atea…ieri intellettuali atei…oggi diventa una malattia diffusa…il peccato moderno è l’apostasia, l’abbandono della fede..>(1959). Si parla di indifferenza e di ateismo collettivo: l’indifferenza non combatte la fede, non la contesta, perché ormai sembra vuota…senza significato.

In questi anni, negli incontri quotidiani, usò parole ‘insolite sulla bocca di un vescovo’: una commovente umiltà che si ritroverà nel Con Vat.II, parole alte e nobili, mai prima pronunciate da un  capo religioso: <Quale solitudine nella casa di Dio! Vi chiedo perdono, figli lontani. Perché questo fratello è lontano? Perché non è stato amato! Per i nostri difetti ha imparato ad odiare la religione…Ebbene fratelli lontani, perdonateci! Se non siamo stati capaci di parlarvi di Dio…ma ascoltateci!>(1958)

Questa passione per il vangelo nuovamente portato ai poveri, ai giovani agli operai, ai carcerati, agli ultimi, ai lontani, bruciava l’anima religiosa di Montini, vescovo di Milano.

Nel dicembre 1958, Papa Giovanni lo crea cardinale.

Il 3 Giugno 1963 muore il Papa buono, Papa Giovanni XXIII; lo sguardo del mondo intero è puntato sull’Arcivescovo di Milano;   il 21 giugno G.B.  Montini, al quarto scrutinio,  viene eletto Pontefice col nome di Paolo VI.

 

Papa Paolo VI 21 Giugno.1963- 6 Agosto 1978.

 

La scelta del nome dell’apostolo Paolo indica chiaramente gli intenti del nuovo Papa: ardore e passione evangelica; santità di vita  spesa per Cristo e il vangelo; equilibrio tra le varie posizioni contrastanti all’interno della chiesa.

Per spiegare quest’anima ardente di Cristo e di amore alla Chiesa che ha guidato il nuovo Papa negli anni del Concilio, bisogna ricordare l’affermazione che troviamo all’inizio della Costituzione sulla Chiesa la ‘Lumen Gentium’ dove, ricorrendo ad una antica espressione del vescovo di Lione S. Ireneo,  si dice : <  Lo Spirito Santo, con la forza del vangelo, fa ringiovanire (iuvenescere)  la Chiesa e la rinnova continuamente e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo> (LG.4).

Qui trovo tutta l’anima e l’intenzione di Papa Montini per la Chiesa spese nel Concilio: rendere ‘giovane’ la Chiesa, renderla cioè sempre capace di annunciare con modernità ed efficacia il vangelo di Gesù Cristo, restando fedele alla ‘tradizione’ della sua Parola. I poveri, i lontani, gli esclusi da ogni speranza, gli uomini di scienza, gli artisti, tutti devono poter sentire l’amore dello Chiesa e dell’avvento nel mondo della persona di Gesù.

 

I viaggi.

A Concilio aperto, il Papa iniziò una serie di viaggi, assolutamente nuovi, proprio sulle orme di quel fuoco missionario che aveva guidato l’apostolo Paolo.

E’ il Primo Papa dopo S: Pietro, a ritornare in Palestina nei primi giorni di gennaio 1964, il paese di Gesù: Gerusalemme, Nazareth, Betlemme, l’Israele di Gesù, la Palestina, a lungo percorsa nella sua vita pubblica. Viaggio carico di significato simbolico e spirituale: come riportare nel mondo le beatitudini, l’esempio di Gesù, la sua vita, la memoria della sua passione, e l’annuncio carico di speranza che è la sua risurrezione. Il ritorno al dialogo, dopo il dolore delle morti e dei campi di concentramento, con il popolo di Gesù, gli ebrei, gli ortodossi delle chiese orientali e le diverse culture religiose.

 

Dicembre 1964, in India conosce la sofferenza per la povertà, delle sterminate popolazioni non cristiane dell’Asia, venute ad acclamarlo; in attesa di riscatto sociale e civile.

  •  Ottobre 1965. Parla al’ONU:  il grido di speranza : <Mai più la guerra, mai più!>

  • Luglio 1967  viaggio in Turchia.

  • Agosto 1969  in Colombia.

  • Dic. 1970  viaggio in Africa.

In pochi anni visita popoli e nazioni e contempla le miserie della povertà di molti e della ricchezza di pochi e dell’uso del danaro in armamenti invece del pane e dell’istruzione.

Carattere e spiritualità

Alla semplicità e carità comunicativa di Papa Giovanni, rispondeva un altro modo di essere di Papa Montini: Riscontra J. Guitton:

  • tendenza alla solitudine,

  • interiorità profonda,

  • rispetto per ogni persona,

  •  intelligenza intuitiva e artistica,

  •  emozioni intense e controllate,

  •  colloqui della interiorità,

  •  rispetto per ogni persona: < vive in lui un tormento generato dal bisogno di perfezione e percezione viva delle condizioni degli altri coi quali intesse un dialogo pieno di rispetto.

  •  Conosce la ‘complessità’ dei problemi che sono la complessità dell’uomo moderno> (Guitton).

  • Silenzio unito a una memoria intelligente che lo rende partecipe al destino di ogni uomo: come un padre silenzioso, che ascolta la storia del figlio.

Sul piano umano la chiave di comunicazione è il dialogo: come Gesù ascoltava e interrogava.

  • Mettere in luce ciò che si nasconde nel cuore dell’uomo: con i suoi occhi verdi e chiari, Papa Montini sapeva penetrare nell’anima dell’interlocutore.

  • C’era in lui un ‘quid’ di candore, di audacia, di utopia: bisogno di prendere parte al dolore, alle pene e alle difficoltà degli uomini, andando al centro delle lotte dove si grida.

  • Rivela un’anima nobile con cui raggiunge i malati, il candore dei bambini che ricorda forse la fragilità della sua salute che lo aveva segnato dall’età della sua infanzia, protetto  dalla dolcezza della  madre.

Nella memoria di questa età che accompagna anche ciascuno di noi, nella sua vita, anche il Papa  confessa il bisogno di affetto e di tenerezza; nel 1965 dice: “anche il papa ha bisogno di conforto: nonostante il conforto spirituale che al Papa gli viene da  Dio, il papa ha le sue pene…”.

 Personaggio somigliante a S. Paolo che si sentiva lacerato, tentato, debole: per questo ha una profonda analogia con l’uomo  moderno: ne ha le aspirazioni e i tormenti.

Quale spiritualità?

Papa Montini  non avrebbe mai potuto portare il peso per tanti anni di pontificato (15), se non fosse stato realmente sostenuto dal fuoco di amore donato dallo Spirito Santo; è stato un pastore carismatico nel senso genuino del termine: ha vissuto in sé il carisma dello Spirito ricevuto nel battesimo.

Da secoli, la Chiesa non aveva mai ricevuto tante spinte al rinnovamento, come in questi anni del Concilio. Questo lavoro di fatica, di attenzione e di equilibrio, richiedeva anche la presenza di una guida assolutamente immersa nella grazia dello Spirito.

Così testimonia l’arcivescovo di Rabat (Marocco) nell’incontro col Papa del 26 Ott. 1976, appena due anni prima della morte del Papa:  “Una mezz’ora passata con lui, parlando dei problemi della Chiesa in Marocco. Fummo pervasi da una vera effusione dello Spirito della quale ricordo la forza, la dolcezza il fuoco… Offerta di due vite per la Chiesa e il mondo”

“Il passaggio dello Spirito  aveva bruciato le nostre parole nella fiamma dell’Amore puro e ci sentimmo invasi da una tenerezza inesprimibile”.  (Jean Chabbert, arciv. Di Rabat).

Papa dello Spirito; nessun Papa si è rivelato come Paolo VI il Papa dello Spirito: nessuno ne ha parlato come lui. E’ stato maestro di fede “che sapeva presentare in maniera attraente le rivelazioni di Dio” dirà Papa Luciani. Il suo è un profondo equilibrio teologico fondato sulla persona di Cristo.

Alcuni temi della sua spiritualità.

Aveva un volto cesellato dal Fuoco: fuoco di sofferenza, fuoco d’amore, fuoco dello Spirito.

Dal suo Testamento affiora questa interiorità accesa di amore: “Sento il dovere di celebrare il dono, la felicità la bellezza di questa esistenza fugace “(Testamento).

Una vita piena del valore dell’amicizia: poco prima di morire, il 26 aprile 1978 : “amicizia sublimata in Gesù nell’amore fraterno, consumata nell’amore trinitario”.

Sente in sé l’ardente desiderio di ‘vedere’ il volto di Dio, nel volto di Gesù: “vedere Gesù… se lo potessimo vedere, noi immersi nella ‘civiltà dell’immagine’, vorremmo riempire i nostri occhi dell’aspetto fisico del nostro Salvatore…” ( 13 genn.1971).

Volto di Cristo che si ritrova nei poveri e dirà a circa 2000 carcerati di Regina Coeli : ” Vedo in voi  l’immagine che vado cercando…voi producete davanti a me Gesù Cristo: per questo sono venuto, per mettermi in ginocchio davanti a voi…”.

Ai campesinos della Colombia il 23 Ag. 1968: “voi siete un segno, siete un’immagine, voi siete un mistero della presenza di Cristo…siete un’immagine sacra del Signore…Voi siete, fratelli carissimi, il Cristo per noi…”.

Paolo VI ha avuto particolare attenzione e affetto per i ‘bambini malati’, chiedendosi spesso il ‘senso’ del mistero del dolore: “Il dolore innocente…Cristo era il perfetto innocente, l’Agnello di Dio… Questi sono come gli agnelli di Dio…”

Il mistero del dolore che spesso appare insolubile pensando all’Amore di Dio, riceve in Paolo VI il tentativo di una risposta nella persona di Gesù, innocente e in croce.

Stesso intenso amore e comprensione il Papa aveva parlando ai giovani: “gemito esistenziale della loro innata volontà di vivere”(23 Ott.1974).   

Ciò che colpisce e impressiona nelle parole di Papa Montini, è questo suo linguaggio fortemente ‘personalizzato’ che imprime in ogni discorso. La potenza e la grazia del vangelo hanno realmente attraversato il cuore e la mente di questo pontefice, e bruciano le sue labbra.

Papa Montini, non racconta, non descrive, ma vive, sperimenta e trasmette ciò che viene dal cuore e dalla mente, sotto l’azione dello Spirito Santo che nella Pentecoste si manifesta con l’immagine del fuoco ( At. 2,3).

A quanti nei mass-media volevano descrivere Paolo VI come un uomo triste,  diceva ai cardinali : “siamo felici di rispondere alla volontà di Dio che ci ha scelti per annunciare il suo regno”, e denunciando una presenza de male che c’è anche nella Chiesa, soggiungeva: “la beatitudine è il nostro vangelo”.

Il suo amore alla Chiesa, nel linguaggio e nel cuore di Paolo VI, è pressocchè perenne e si sviluppa spesso come un canto, un inno: “La Chiesa ha bisogno di una perenne Pentecoste. Ha bisogno del fuoco nel cuore e sulle labbra, di profezia nello sguardo. Ha bisogno dello Spirito Santo in noi tutti insieme, in noi-Chiesa” (29 novembre 1972), potendo dire di sè di  aver gustato “le sorprese della gioia date dallo Spirito” (Ag.1976).

I  maestri più ricordati nella formazione teologica di Papa Montini possono essere indicati in S. Agostino, Ambrogio, Caterina da Siena, e nella modernità Bossuet, Newman, Maritain, ben sapendo però che si illuminava ai Padri della Chiesa, alla teologia medioevale con Bernardo, Tommaso, Bonaventura, Teresa d’Avila, avendo poi una profonda conoscenza di Dante che spesso citava a memoria, di Sakespeare, Dostojevski, e della letteratura francese. Il teologo moderno, Yves Congar, amico del Papa, potrà indicarlo come “un dottore e un poeta”.

Da ultimo ricorderemo le sue grandi encicliche:

  • Ecclesiam suam (1964): visione programmatica della Chiesa nel mondo;

  • la Populorum Progressio (1967), una grande enciclica sociale;

  • la Humanae vitae  (1968) che tanto fece discutere sul sistema di difesa della vita;

  • l’esortazione sulla gioia cristiana con la Gaudete in Domino (1975)

  • e infine il gioiello sulla evangelizzazione con la Evangelii nuntiandi (8dic.1975).

La morte è avvenuta nella festa della trasfigurazione di Gesù il 6 Agosto 1978, verso le 21,30.

Scriverà mons. Macchi, suo segretario, sulla morte di Paolo VI. “E’ morto in una tensione di amore (una morte rapida) e di fiducia in Dio”.  

Ricevette la comunione nella festa della Trasfigurazione e l’unzione dei malati: ripete le preghiere Pater noster, Ave, Salve regina, Magnificat, Anima Christi.

Nelle ultime ore, verso il tramonto di un giorno estivo d’Agosto, a Castel Gandolfo, il Papa morente, ripeteva continuamente ‘Pater noster..’, Pater noster…qui es in coelis…la preghiera che lo consegna nelle braccia del Padre.

Dio Padre era stato il tema della grande missione di Milano del 1958. 

Testamento e Pensiero sulla morte.

Paolo VI aveva  già scritto un Testamento per la sua morte e una lunga meditazione sul Pensiero della morte ( 30-6-1965 con aggiunte 16 sett.1972 e 14 luglio 1973).

E’ una ‘contemplazione’ sul senso della vita e il suo mistero e sulla fugacità di ogni illusione o ricchezza.   

In questi due testi, capolavori di ogni letteratura, da confrontare con le pagine più alte delle Confessioni di S. Agostino, le sue parole e i suoi pensieri si rincorrono quasi come un inno tra lo stupore innocente della vita e l’immagine della morte che mette fine a questa esperienza della nostra esistenza.

Scrive: “Ora la giornata tramonta e tutto finisce e si scioglie di questa stupenda e drammatica scena temporale e terrena;  come ancora ringrazio Te, o Signore, per il dono della vita, della fede e della grazia di essere stato inserito nel mondo ineffabile della Chiesa cattolica, iniziato al sacerdozio di Cristo ed aver avuto il gaudio e la missione di servire le anime, i fratelli, i giovani, i poveri, il popolo di Dio…

A te, Roma…dilettissima la mia ultima benedizione perché tu sia sempre memore della tua misteriosa vocazione…spirituale e universale…

Chiudo gli occhi su questa terra dolorosa, drammatica e magnifica, chiamando ancora una volta su di essa la benedizione della divina Bontà!”.

 Con questa ultima riflessione sulla grandezza della vita e la certezza della fede cristiana, nel Signore risorto, conclude  il cammino umano di Papa Paolo VI: il suo ritorno nel cuore del Padre, ardentemente desiderato.  


Sito gestito dalla Parrocchia Santa Melania.

CULTO SACRIFICIO SACERDOZIO – Don Enrico Ghezzi

CULTO SACRIFICIO SACERDOZIO

Di   don Enrico Ghezzi

 

Lasciarsi conquistare pienamente da Cristo! Questo è stato lo scopo di tutta la vita di san Paolo, al quale abbiamo rivolto la nostra attenzione durante l’Anno Paolino dello scorso anno; questa è stata la meta di tutto il ministero del Santo Curato d’Ars, che invocheremo particolarmente durante l’Anno Sacerdotale; questo sia anche l’obiettivo principale di ognuno di noi.

Per essere ministri al servizio del Vangelo, è certamente utile e necessario lo studio con una accurata e permanente formazione teologica e pastorale, ma è ancor più necessaria quella “scienza dell’amore” che si apprende solo nel “cuore a cuore” con Cristo.

È Lui infatti a chiamarci per spezzare il pane del suo amore, per rimettere i peccati e per guidare il gregge in nome suo. Proprio per questo non dobbiamo mai allontanarci dalla sorgente dell’Amore che è il suo Cuore trafitto sulla croce.

Solo così saremo in grado di cooperare efficacemente al misterioso “disegno del Padre” che consiste nel “fare di Cristo il cuore del mondo”

 

23 novembre 2009

   

Questi incontri avvengono nello spirito dell’Anno sacerdotale indetto dal Papa Benedetto XVI.

Noi parleremo di due grandi Pontefici che lo hanno preceduto sulla cattedra di Pietro, in anni di straordinario fermento religioso e spirituale della Chiesa come sono stati gli anni del Concilio Vaticano II, celebrato nella seconda metà del secolo XX.

Ritengo però utile, prima di affrontare la figura dei due grandissimi Pontefici come Giovanni XXIII e Paolo VI, fare un breve punto su cosa noi intendiamo per ‘sacerdozio’, indicando, anche solo di passaggio, altre grandissime figure sacerdotali:

  • a Milano personaggi, oggi beati, come il card. Ferrari e il Card. Schuster;

  • a Firenze il Cardinal Elia della Costa,

  • a Bologna il  Card. Lercaro;

  • e con la loro testimonianza, spesso profetica, sacerdoti come don Mazzolari, don Milani,

  • e  santi come don Orione, don Guanella, don Gnocchi ecc.

Per comprendere la realtà del sacerdozio bisogna prima tener presenti due fondamentali punti di partenza che incontriamo nel progredire del cammino biblico del Vecchio Testamento: già nell’antichissima storia del diluvio, quando Noè ‘uscito dall’arca con i figli, la moglie e le mogli dei figli  edificò un altare al Signore… con ogni sorta di animale, e offrì olocausti al Signore.’(Gen.8,18-20).

 Seguirà una lunga evoluzione che troverà  pieno superamento degli antichi riti soltanto, nel NT  nel compimento del  sacrificio sacerdotale di Cristo (lettera agli Ebrei): il sacerdozio è il momento culminate di due eventi che in qualche modo lo precedono, e che nella Bibbia possono essere indicati con il nome di‘culto’ e di ‘sacrificio’.

Debbo assolutamente sintetizzare, perché ci vorrebbero serate intere solo per illustrare il significato di”culto” e di “sacrificio” a cui segue il “sacerdozio”.

 

Il culto.

Diciamo soltanto che presso tutti i popoli antichi, anche quelli non biblici, esiste il ‘culto’ alle divinità: Egitto, Babilonia, Assiria, Persia, la terra di Canaan verso cui era diretto Abramo, tutte queste grandi civiltà conoscono e praticano il ‘culto’ agli dei: i popoli offrono sacrifici alle divinità.

Il culto è perciò  un insieme di relazioni tra Dio e l’uomo.

Nella Bibbia è Dio che si ‘rivela’ all’uomo; in risposta l’uomo ‘adora’ Dio con il culto in forma ‘comunitaria’. Nella Bibbia inoltre, il popolo sente il bisogno di culto verso Dio, perché questo popolo è stato ‘eletto’, scelto da Dio  per cui  lo deve ‘servire’ e diventare ‘testimone’ di Dio.(In ebraico la parola culto deriva dalla radice  abad  che significa servire). Elementi del culto, per Israele, saranno: i luoghi, oggetti e persone sacre, santuari, arca, altari, sacerdoti;  ci saranno tempi sacri: feste, sabato, purificazioni, consacrazioni, circoncisione, sacrifici, offerte, profumi e prescrizioni come digiuni, proibizioni ecc.

Inoltre, dopo il peccato, il ‘culto’ è apparso come ‘sacrificio’: i patriarchi (Abramo, Isacco, Giacobbe) erigono ‘altari’ (Gen.,4,26; 8,20; 12, 8): Dio però esclude ‘sacrifici umani’ (ricorda il sacrificio di Isacco dove Dio interviene a proibire il sacrificio della sua vita Gen.22 ).

Dopo l’Alleanza di Dio con Mosè sul Sinai (Es.19,3-8), Israele diventa <un regno di sacerdoti e una nazione santa>(Es,19,6) e il suo ‘culto’ ha una legislazione sempre più esigente.

Il centro di questo culto è l’arca, simbolo della presenza di Dio in mezzo al suo popolo.  Il re Davide la stabilisce in Gerusalemme (2Sam.6) dove Salomone costruisce il ‘tempio’ ( 1Re 6) che diventerà l’unico luogo del culto sacrificale.

Dopo l’esilio (538 a.C.), il  culto si celebra nel‘tempio’ facendo risalire ad Aronne la genealogia dei sacerdoti.

Il culto, in Israele è soprattutto una ‘memoria’ dei fatti passati dove si attualizzano la ‘fede’ in Dio, un Dio che è presente come nel passato (Sal. 81) e dove si rinnova l’Alleanza (Gios,.24) in attesa  del tempo nel quale Dio inaugurerà il  ‘nuovo regno’ e le nazioni saranno unite. Prospettiva futura di cui in Geremia (31,31) annuncia la ‘nuova alleanza’. In seguito, attraverso i Profeti, il ‘culto’ diventerà spirituale;  l’alleanza come fatto interiore: fedeltà a Dio del cuore.

Nel NT  Gesù, come i profeti, esigerà la fedeltà allo spirito del culto (Mt. 23,16-23), per cui senza purezza del cuore, i riti di purificazione sono vani (Mt.23,25; 5,8).

Col suo sacrificio Gesù va oltre il culto antico: in Gv. 2,14; Gesù purifica il tempio e ci sarà un ‘nuovo tempio’ col suo corpo risorto(Gv.2,19). Allora avrà fine il tempio di Gerusalemme (Gv.4,21).

Nella chiesa nascente, il vero culto è quello in cui abita Dio e regna Gesù, come proclama Stefano (Att.6,13; 7,48).

 Anche Paolo predica continuamente che la ‘circoncisione è priva di valore e che il cristiano non è più soggetto alle osservanze antiche. Il cristiano è nuovo (Gal.5,1.6).

Con Gesù il nuovo culto è quello che annuncia, ed è il ‘culto‘spirituale’: <Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità>(4,24).

 Il sacrificio di Gesù è la ‘ nuova alleanza’ (Mc.10,45; 14,22) di cui i riti antichi erano immagini e che son ormai superati  Eb.10,1-8.

Gesù è il ‘nuovo culto’ perché il ‘suo  sacrificio ha veramente espiato  i peccati e dà la ‘vita eterna’ a coloro che mangiano e che comunicano con la ‘carne’ e il ‘sangue’ di Cristo (Gv.6,51) e che nella ‘cena’ ha inaugurato egli stesso nel banchetto sacrificale, e ha comandato di rinnovarlo (Lc.22,19 ss.).

 La Chiesa   ha obbedito alle parole di Gesù, e nelle loro preghiere e riunioni cultuali i primi discepoli celebrano la frazione del pane’ come raccontano gli Atti ( 2,42; 20,7.11), e come tramanda anche Paolo nella 1Cor.10,16; 11,24.

 Per partecipare al banchetto dell’eucaristia bisogna aver ricevuto il battesimo ordinato da Gesù (Mt. 28,19) condizione della nuova vita (Mc.16,16, Gv.3,5); infine, con l’atto  delle imposizione delle mani, gli apostoli danno lo Spirito santo ai battezzati  (At. 8,15ss.).

 

Infine, il ‘culto’ cristiano, come quello di Israele, ha un triplice aspetto: 1) Commemora un’opera divina del passato; 2) L’attualizza; 3) Permette al cristiano di vivere  nella speranza del giorno in cui Cristo manifesterà la  gloria di Dio. 

 

1.Commemora  un’azione del passato. Il culto che il cristiano commemora, è l’offerta di Cristo per la nostra salvezza  i cui frutti sono la ‘risurrezione e il dono  dello Spirito.!

Questa azione pone termine al culto antico perché ormai la salvezza si è consumata in Cristo (Eb.7,18-28). Con l’eucaristia Cristo ci dà la possibilità di ricevere il frutto del sacrificio che ha offerto sull’altare della croce.

 

2. Attualizza con questo rito, la presenza di Cristo glorioso: misteriosamente, Cristo si rende presente perché noi ci uniamo al suo corpo e al suo sangue che ha offerto per diventare con lui un solo corpo, glorificando il Padre  sotto la mozione dello Spirito Santo (1Cor.10,16s; 11,24 ss; Fil.3,3).

Con questa comunione noi abbiamo accesso al santuario celeste (Eb.10,19ss), dove Cristo dimora come sacerdote eterno (Eb.7,24s,9,11s.24); qui è celebrata l’adorazione del Padre in ‘spirito e verità’che è il solo culto degno del Dio vivente ( Gv.4,23; Eb.9,14).

Questa adorazione  è celebrata dall’agnello immolato dinanzi al trono di Dio, nel cielo, vero tempio di Dio, dov’è la vera arca dell’alleanza (Apoc. 5,6; 11,19). Gli eletti glorificano Dio con il Sanctus (Ap.4,2.11; Is.6,1) e glorificano pure l’agnello che è il suo Figlio (Apoc.4,1) e che ha fatto di essi un regno di sacerdoti per unirli al suo culto perfetto (Ap.5,9-13). 

3. La speranza della gloria.

Nell’ultimo giorno finiranno i riti che lo annunziano e che noi celebriamo ‘finchè venga’ l’Agnello, rispondendo alla invocazione della sua sposa ‘Marana tha=Vieni, o Signore! (Apoc. 19,7; 22,17; 1 Cor.11,26, 16,22). Allora non ci sarà più il tempio per indicare la presenza di Dio; nella Gerusalemme celeste la ‘gloria’ del Signore non si manifesterà più mediante segni (Apoc. 21,22). Infatti nella città santa dell’eternità, i servi di Dio gli renderanno un culto non più come peccatori ma come figli: vedranno il padre faccia a faccia e berranno alla sua fonte  l’‘acqua viva dello Spirito’ (Apoc. 21,1-7).23, 22,1-5).   

 

Il sacrificio

 

1.Tutta la Bibbia è attraversata dall’idea di sacrificio.

In Gen 6,2 ancora una umanità primitiva: Noè edifica un altare per ‘sacrificare ogni sorta di animali e uccelli’.

Gen. 15,9 Dio ad Abramo: ‘Prendimi una giovenca…’

Es. 5,3. Epoca mosaica: ‘Mosè ed Aronne vennero dal faraone e gli annunciarono:

<Così vuole il Signore, il Dio di Israele. Lascia partire il mio popolo, perché mi  celebri una festa nel deserto’.

Così in  seguito, nel periodo dei Giudici (1200-931 a.C)  e dei Re (931-731 a.C) (Giud. 20,26; 1Re 8,64) e nell’età post-esilica (538-333 a.C: restaurazione dell’epoca persiana Esd.3,1-6). 

Nell’epoca ellenistica (333-63 a.C quando  Pompeo  occupa Gerusalemme : 1Mac.; 2 Mac.; Dn 11

Epoca romana: 63 a.C -135 d.C, Adriano rioccupa Gerusalemme (134).

 

Fino al tempo di Gesù e alla distruzione del tempio di Gerusalemme (70 d.C), ad opera di Tito,

il sacrificio  ritma l’esistenza dell’individuo in Israele e della comunità.

Ma anche fuori dal popolo eletto il sacrificio con il misterioso episodio di Melchisedec (Gen. 14,18), in cui la tradizione vede un pasto sacrificale, il sacrificio esprime la pietà personale e collettiva.

Anche Isaia  56,7; 66,20 ricorda le offerte dei pagani-

Nel VT gli scrittori non concepiscono vita religiosa senza sacrificio. Il NT preciserà questa situazione. 

 

2. VECCHIO TESTAMENTO

Sviluppo dei riti sacrificali:

1.Dalla semplicità originale.

Nell’epoca più lontana della storia biblica c’è il rituale del sacrificio dei nomadi o seminomadi: erezione di altari, invocazione del nome divino, offerta di animali o di prodotti del suolo (Gen.4,3; 12,7s)., Senza posto fisso: si sacrifica dove Dio si manifesta. L’altare di terra primitivo, la tenda mobile (Es.20,24; 23,15) indicano il carattere occasionale dei luoghi di culto. Non ci sono ancora ministri specializzati: il capo di famiglia o della tribù, e sotto la monarchia il re, immolano vittime. Ben presto però uomini più qualificati assumono questo ufficio (Deut.33,8ss Giud.17).

Sotto Giosia (640-609 a.C)  il tempio diventerà il centro unico di ogni attività sacrificale, così i sacerdoti riserveranno a sé il monopolio dei sacrifici. 

2. Alla complicità dei riti.

Nella storia di Israele c’è una evoluzione: sviluppo causato dal passaggio dello stato nomade e pastorale alla vita sedentaria e agricola, sia dall’influsso cananeo e crescente importanza del sacerdozio. Elementi presi dai vicini (cananei) ma filtrati e purificati: viene escluso il sacrificio umano (Deut.12,31). 

3. Aspetti diversi del sacrificio.

Olocausti con vittime: (Gen.8,20= Noè), con tori, agnelli, capretti, uccelli interamente bruciati per esprimere il dono totale.

Presso i ‘Semiti’ è diffuso il pasto sacro (zebah selamim): il fedele mangia e beve  <davanti a Jahvè> (Deut.12,18);   anche l’Alleanza del Sinai è suggellata da un sacrificio del genere. Una parte della vittima (bestiame grosso o minuto) spettava di diritto a Dio, che è padrone della vita  Il sangue  effuso e i grassi consumati sono ‘alimento di Dio’,  cibo di Jahvè, mentre la carne serviva da cibo ai commensali. Secondo una forma arcaica  (Gen.8,21), Dio gradiva offerte <dal profumo soave> (Lev.1,9, 3,16).   

Sintesi del Levitico.

Il Levitico,  con linguaggio tecnico espone i ‘doni’ offerti a Dio (Lev.1,7; 22,17-30) che siano cruenti o incruenti: olocausto, offerte  di cibo, sacrifici di comunione (eucaristico), sacrificio per il peccato (hatta’ah), sacrificio di ‘riparazione’ (asam) . Atti minuziosi assumono un senso  sacro.

Il ‘ringraziamento’ ed anche il desiderio di ‘espiazione’ (Lev.1,4; Giob.1,5) ispirano l’olocausto.. Dietro una termini ligia fredda,  si scopre un senso affinato della ‘santità’ di Dio, l’ossessione del ‘peccato’’ un bisogno forte di ‘purificazione. In questo rituale la nozione di  sacrificio tende a concentrarsi intorno all’idea di ‘espiazione’.

Il  ‘sangue’ vi ha una grande parte (Lev.17,11; Is.43,25), e suppone sentimenti di  ‘penitenza’.

I riti di purificazione iniziavano i fedeli  alla purificazione del cuore. 

4. Dai riti al sacrificio spirituale.

 1. I riti come segno del < sacrificio spirituale>

Il Dio della Bibbia non trae profitto dai sacrifici. I riti rendono visibile i sentimenti interni: adorazione (olocausti), intimità con Dio (selamim), confessione del peccato, desiderio del perdono (riti espiatori). Il sacrificio interviene nelle cerimonie di  alleanza con la divinità(cfr. Gen.8,20 ss), specialmente al Sinai (Es.4,24,5-8); consacrala vita nazionale, familiare, individuale, soprattutto in occasione dei pellegrinaggi e delle feste (1Sam.1,3; 20,6; 2Re 16,15), secondo Gen. 22 , che è forse la carta dei sacrifici del tempio, Dio rifiuta le vittime umane, accetta l’immolazione degli animali; ma gradisce questi doni soltanto se l’uomo li offre con cuore nella fede, sull’esempio del patriarca  Abramo.

2. Primato della religione interiore.

C’era il pericolo di  attaccarsi al rito, trascurando il significato del ‘segno. Da qui le ammonizioni dei ‘profeti’’. Essi non condannano il sacrificio in quanto tale, ma le sue contraffazioni, soprattutto le pratiche cananee (Os. 2,15; 4,13). Senza disposizioni del cuore , il sacrificio è un atto ‘ipocrita’e dispiace a Dio (Am.5,25; Is.43,23).

I profeti insistono sul primato dello ‘spirito’ (anima) (Am.5,24; Os. 6,6: Mi.6,8). Il sacrificio interiore non è succedaneo ma l’essenziale (Sal.51,18ss). Questa corrente spirituale, riappare in Qumran, che denunciava  la pietà superficiale e infine, chiamava in causa i riti stessi.

In questo senso i profeti anticipavano la rivelazione del NT sull’essenza del sacrificio.

3. Il vertice della religione interiore del VT.

Il  servo di Jahvè, nel profeta Isaia 53, è il vertice della di questa religione dell’interiorità: egli offrirà la sua morte in sacrificio di espiazione. E’ un progresso notevole rispetto le concezioni di Lev.16. Qui, il capro espiatorio,  nel giorno della ‘espiazione’ portava via i peccati del popolo, ma non si identificava con la vittima del suo sacrificio. Il servo invece di Is.53, si sostituisce liberamente ai peccatori. La sua oblazione per la <moltitudine> è secondo il disegno di Dio.

Qui il massimo di interiorità si unisce  al massimo del dono con il massimo di efficacia.

 IL NUOVO TESTAMENTO

 Gesù riprende l’idea profetica del primato dello spirito sul rito (Mt.5,23s; Mc.12,33).

Tra i due Testamenti (testamento = alleanza), c’è continuità e superamento: continuità con l’applicazione alla morte di Cristo del vocabolario sacrificale nel NT; superamento con l’assoluta originalità dell’offerta di Gesù.

 

1.Gesù si offre in sacrificio. 

Gesù annuncia la sua passione  servendosi degli stessi termini che caratterizzavano il sacrificio espiatorio del ‘servo di Dio’. Gesù viene per ‘servire: ‘dà la sua vita’, muore  in riscatto’ a vantaggio della ‘moltitudine’ (Mc.10,45, Lc.22,37; Is.53,10ss).

Inoltre la cornice ‘pasquale’ del ‘pasto d’addio’ (Mt.26,2: Gv.11,55ss; 12,1…;13,1) stabilisce una relazione intenzionale precisa, tra la morte di Cristo e il sacrificio dell’agnello pasquale .

Infine, Gesù si richiama espressamente a Es. 24,8, facendo sua la formula di Mosè: ‘il sangue dell’alleanza’ (Mc.14,24 par.).

Il triplice riferimento all’agnello il cui sangue libera il popolo giudaico, alle vittime del Sinai che suggellano l’antica alleanza, fino alla morte espiatrice del servo, dimostra con chiarezza il carattere sacrificale della morte di Gesù: essa procura al popolo la remissione dei peccati, consacra l’alleanza definitiva e la nascita di un popolo nuovo e assicura la ‘redenzione’.

Ciò indica l’aspetto  fecondo del sacrificio del Calvario: la morte diventa fonte della vita.

La formula pregnante di Gv.17,19  riassume questa dottrina: ‘Per essi io consacro me stesso, affinchè anch’essi siano consacrati nella verità’.

L’eucaristia  destinata a rendere presente ‘nella memoria’ (cfr. Lev. 24,7), nella cornice di un pasto, l’unica oblazione della croce (Gesù), collega il nuovo rito dei cristiani agli antichi sacrifici di comunione .Così ‘offerta di Gesù, nella sua realtà cruenta e nella sua espressione sacramentale, ricapitola e compie l’economia del VT: è, insieme, ‘olocausto’, ‘offerta espiatrice, sacrificio di comunione.  La continuità dei due  Testamenti è innegabile. Ma per la sua unicità, a motivo della  dignità del Figlio di Dio e della perfezione della sua offerta, per la sua efficacia universale, l’oblazione di Cristo supera i sacrifici vari e molteplici del VT.  Vocabolario antico, contenuto nuovo.

La Chiesa riflette sul sacrificio di Gesù.

1.Dal sacrificio del Calvario al pasto eucaristico.

Gli scritti apostolici, sviluppano, sotto forme diverse, queste idee.

Gesù diventa <la nostra Pasqua> (1Cor. 5,7; Gv. 19,36);  <l’agnello immolato> (1Piet. 1,19; Ap.,5,6)  inaugura nel suo sangue la nuova alleanza (1Cor. 11,25), realizza l’espiazione dei peccati  (Rm.3,24s), la riconciliazione tra Dio e gli uomini (2Cor.5,9ss; Col.2,14). Come nel Levitico si insite sulla funzione del sangue  (Rom. 5,9; Col. 1,20; Ef.1,7;  1Pt.1,2.18s;  1Gv.1,7;  5,6 ; Ap. 1,5).

Gli apostoli tracciano un accostamento tra il sacrificio di Isacco (Gen.22) e quello di Gesù. Parallelo che mette in risalto la perfezione dell’offerta di Cristo al Calvario: Cristo agapetòs (‘rediletto)(cfr. Mc,12,6; 1,11; 9,7), si offre alla morte, e il Padre, per amore degli uomini, non risparmia il suo proprio Figlio (Rom.8,12; Gv,.3,16). Così, la croce rivela la natura intima del sacrificio: nella sua sostanza spirituale, il sacrificio è un atto d’amore.

Ora nel tempio era prevista una ‘mensa’ per i pani della proposizione, anche nella comunità cristiana esiste la ‘mensa del Signore’ Paolo paragona espressamente l’eucaristia ai banchetti sacri di Israele (1Cor.10,18). I cristiani non partecipano più soltanto a cose <sante’, ma comunicano con il corpo ed il sangue di Cristo (1Cor.10,16), principio di vita eterna (Gv.6,55-58). Questa partecipazione significa e produce l’unione dei fedeli, in un solo corpo (1Cor.10,17). Di fatto, si realizza così  il sacrificio ideale previsto da Malachia (1,11), valido per tutti e per tutti i tempi.

 2.Figure e realtà.

La liturgia antica del VT preparava e prefigurava il sacrificio di Cristo. La lettera agli Ebrei rende esplicito questa dottrina mediante il paragone continuo tra le due economie. Nella lettera agli Ebrei Gesù è chiamato ‘sommo sacerdote’ e vittima, e come Mosè sul Sinai, crea un’alleanza tra Dio e il suo popolo. Ora questa ‘alleanza’ è definitiva e perfetta (Ebr.8,6-13; 9,15.10,18).

Come il ‘Sommo sacerdote’ nel giorno della espiazione, Cristo compie un’azione purificatrice: elimina il peccato con l’effusione del suo sangue, e i fedeli ottengono così la ‘ purificazione delle coscienze ’. (Ebr.9,12ss).

Questo sacrificio, a differenza degli altri sacrifici che erano soltanto l’ombra della realtà, non ha bisogno di essere reiterato (Ebr.10,1.10). La liturgia che secondo l’Apocalisse (5,6..) si svolge in cielo attorno all’Agnello immolato, si ricollega alla rappresentazione della lettera agli Ebrei.

Come già nei profeti, dove l’atto rituale si rinnovava nella vita quotidiana,  anche nel NT si ritrova la stessa applicazione spirituale alla vita cristiana ed apostolica (Rom.12,1; 15,16; Fil.2,17; 4,18; Ebr.13,15). 

I credenti, con l’azione dello Spirito che li anima, in comunione col Signore, formano ‘un sacerdozio santo, allo scopo di offrire sacrifici spirituali, bene accetti a Dio per mezzo di Gesù Cristo’ ( 1Pt. 2,5). 

3. IL SACERDOZIO.

Nella lettera agli Ebrei, Gesù ‘possiede un sacerdozio immutabile’(Ebr. 7,24).

La lettera agli Ebrei, volendo definire la ‘mediazione’ di Cristo,l’accosta ad una funzione che esisteva nel VT come in tutte le religioni vicine: quella dei sacerdoti.  Per capire perciò il sacerdozio di Cristo, bisogna comprendere il sacerdozio del VT che lo ha preparato e prefigurato.

 

1 VECCHIO TESTAMENTO

 1. Storia della istituzione sacerdotale.

 Es.32,

1. Presso i popoli civili che circondano Israele, la funzione sacerdotale è assicurata dai re, specialmente in Mesopotamia e in Egitto. Esiste una vera casta sacerdotale, divisa in gerarchia.

Questo non avviene presso i  patriarchi (Abramo- Isacco-Giacobbe).

In quel tempo, non esistevano né tempio, né sacerdoti specializzati del Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Le tradizioni della Genesi piuttosto, mostrano gli stessi patriarchi che costruiscono altari in Canaan (Gen.12,7s, 13,18, 26,25), ed offrono sacrifici (Gen.22,31,54; 26,25). Essi esercitano un sacerdozio familiare, praticato dai popoli antichi. I soli sacerdoti che compaiono sono stranieri: il sacerdote-re di Gerusalemme Melchisedec (Gen.14,18ss) ed i sacerdoti del Faraone (Gen.41,45; 47,22).

La tribù di Levi non ha ancora funzioni sacre (Gen.34,25-31).

 

2. A partire da Mosè, egli stesso levita, sembra farsi strada la specializzazione della tribù di Levi, nelle funzioni cultuali. Es.32,29: <Mosè disse:’Ricevete oggi l’investitura dal Signore…>

Il racconto arcaico di Es.32,25.29, esprime il carattere essenziale del suo sacerdozio: essa è eletta e consacrata da Dio stesso per il suo servizio, e la benedizione di Mosè  attribuisce i compiti specifici

dei sacerdoti (Deut.33,8-11).

I leviti sono sacerdoti per eccellenza (Giud.6,18-29; 13,19; 1Sam.7,1).

 3. Sotto la monarchia  (c.1000-700 a.C.), il re esercita parecchie funzioni del sacerdote: Saul offre sacrifici (1Sam.13,9); David offre sacrifici (2Sam.6,13.17; 24,22-25) fino ad Achaz (736-716 a.C:) (2Re,16,13). Tuttavia il re riceve il titolo di sacerdote soltanto nell’antico salmo 110,4 che lo  paragona a Melchisedec. La casta sacerdotale diventa una istituzione organizzata specialmente nel santuario di Gerusalemme, che -dall’epoca  di David-  è il centro cultuale di Israele.

 Da  Sadoq (2Sam.8,17), di origine sconosciuta, saranno i suoi discendenti a dirigere il sacerdozio del tempio fino al II sec.a.C.: Genealogie ulteriori lo collegheranno  alla discendenza di Aronne (cfr. 1Cron.27.34)  come già Abiatar, sacerdote, discendente di Eli, che amministrava a Silo (2 Sam.8,17). Leggiamo in Ezechiele: <I sacerdoti leviti figli di Sadoc…>

 

4. La riforma di Giosia  nel 621 a.C., sopprimendo molti santuari, consacra il monopolio levitico del sacerdozio di Gerusalemme e riserva l’esercizio delle funzioni sacerdotali ai soli discendenti di Sadoq (2 Re  23,5.9). La simultanea rovina del tempio e della monarchia (587 a. C) pone fine alla tutela del re sul sacerdozio e conferisce al sacerdozio stesso una autorità maggiore sul popolo.

Liberato ormai dal potere politico (che passa ai dominatori pagani: epoca persiana 538-333 a.C., epoca ellenistica 333-63 a.C.;  63-135 d.C., dominazione  romana), il sacerdozio diventa guida religiosa della nazione.

Il progressivo scomparire del ‘profetismo’ a partire dal secolo V accentua ancora la sua autorità. Già nel 573 i progetti di riforma di Ezechiele escludono ‘il principe’ dal santuario. (Ez.44,1 ss; 46). La casta levitica possiede ormai un monopolio incontestato (la sola eccezione Is.66,21 non concerne che ‘gli ultimi tempi’). Le raccolte sacerdotali del Pentateuco (sec. V e IV), poi l’opera del Cronista (sec.III), danno un quadro particolareggiato della gerarchia sacerdotale.

Essa è rigorosa. Al vertice, c’è il ‘sommo sacerdote’, figlio di Sadoq, successore di Aronne. Il titolo di sommo sacerdote appare in un momento in cui l’assenza del re  fa sentore il bisogno di un capo per la teocrazia.  L’unzione che egli riceve, a partire dal IV sec. (Lev.8,12; Dan.9,25), ricorda quella che un tempo consacrava i re. Sotto di lui stanno i sacerdoti, figli di Aronne.

Infine i leviti, clero inferiore, sono raggruppati in tre famiglie, alle quali vengono aggregati i cantori e i portieri (1Cron.25-26). Queste tre classi (sommo sacerdote, sacerdoti, leviti) costituiscono la tribù sacra, tutta votata al servizio del Signore.

 Ormai la gerarchia non conoscerà più variazioni. Nel 172 a.C., l’ultimo sommo sacerdote discendente da Sadoq, Onia III, è assassinato per intrighi politici. I suoi successori vengono designati fuori dalla sua casata, dai re della Siria.

La reazione dei Maccabei (I-2) termina con la investitura di Gionata, uscito da una oscura famiglia sacerdotale. Il fratello Simone che gli succede (143 a. C), costituisce il punto di partenza  della dinastia degli Asmonei , sacerdoti e re (143-37 a. C.).

Capi politici e militari più che religiosi, provocano l’opposizione dei farisei. Dal. canto suo, il clero tradizionalista, rimprovera loro l’origine non sadoquita, mentre la setta sacerdotale  di Qumran, passa persino allo scisma. A partire dal regno di Erode (37 a. C), si sommi sacerdoti sono designati dall’autorità politica, che li sceglie tra le grandi famiglie sacerdotali, le quali costituiscono il gruppo dei < sommi sacerdoti >,  più volte nominati nel NT.

II. Le funzioni sacerdotali.

Nelle religioni antiche i sacerdoti sono i ‘ministri del culto’ i custodi delle tradizioni sacre, i portavoce della divinità.

In Israele il sacerdozio esercita sempre due ministeri fondamentali: il servizi del culto e il servizio della parola. 

1. Servizio del culto.

Il sacerdote è l’uomo del santuario. E’ custode dell’arca nell’epoca antica (1Sam.1-4;2 Sam.15,24-29)., accoglie i fedeli nella casa di Jahvè (1Sam.1), presiede alle liturgie in occasione delle feste dei popolo (Lev.2311,20). Il suo atto essenziale è il sacrificio.

In esso egli appare nella pienezza della sua funzione di mediatore : presenta a Dio l’offerta dei suoi fedeli e trasmette loro la benedizione divina. Così Mosè  nell’alleanza sul Sinai (Es. 24,4-8); così Levi, capo di tuta la dinastia sacerdotale (Deut.33,10).

Dopo l’esilio (538 a.C.), i sacerdoti svolgono questo ufficio, ogni giorno, nel sacrificio perpetuo (Es.29,38-42). Una volta all’anno  il sommo sacerdote appare nella sua funzione di mediatore supremo officiando nel giorno della espiazione (Yom Kippur), per il perdono di tutte le colpe del suo popolo (Lev.16).

E’ pure incaricato dei riti di consacrazione e di  purificazione: l’unzione regale (1Re,1,39; 2 Re 11,12), la purificazione dei lebbrosi (Lev.11,12) o della puerpera (Lev.12,6ss).

 

2.Il servizio della parola.

In Mesopotamia e in Egitto, il sacerdote esercitava la divinazione; in nome del suo dio, rispondeva alle consultazioni dei fedeli. Nell’antico Israele il sacerdote svolgeva una funzione simile usando l’efod (1Sam. 14,36.42; Deut 33,89 ( efod = paramento sacro usato nel culto dell’antico Israele, una specie di sopravveste indossata dal sommo sacerdote, cui veniva legato il pettorale con gli Urim e i Tummim, oggetti usati come strumenti divinatori –Es. 28,30; Lev. 8,8 ; pare si tratti di due pietre o di due tavolette);  questi oggetti non si ritrovano più dopo David.

In Israele però  la ‘parola’ di Dio  giungeva al popolo attraverso i profeti  mossi dallo spirito.

Tuttavia la tradizione,  che cristallizza i grandi avvenimenti della storia sacra come  l’alleanza sinaitica o i grandi ricordi del passato che si rispecchiano nella ‘legge’ , in questo caso i ministri della parola sono i sacerdoti come Aronne in Es.4,14-16.

Nella liturgia delle feste, essi ripetono ai fedeli i racconti su cui si fonda la fede. (Es.1-15 ;  Gios.2-6 sono echi di queste celebrazioni). Proclamano la Torah, (Es.24,7; Deut.27; Neem.8), ne sono interpreti ordinari, (Deut.33,10; Ger. 18,18; Ez.44,23) ed esercitano una funzione giudiziaria (Deut.17,8-13; Ez.44,23).

In questo modo i sacerdoti assicurano la redazione scritta della legge nei diversi codici: Deuteronomio, legge di santità (Lev.17-26), torah di Ezechiele (40-48), legislazione sacerdotale (Es,. Lev., Num.), compilazione finale del Pentateuco (cfr. Esd. 7,14-26; Neem.8).

Negli ultimi secoli aumenta l’autorità degli scribi laici, collegati, per lo più, alla setta dei farisei, che al tempo di Gesù saranno maestri principali in Israele.

 III. Verso il sacerdozio perfetto.

Il sacerdozio del VT, in complesso, è stato fedele alla sua missione: con le sue liturgie, il suo insegnamento e con la redazione dei libri sacri, ha conservato viva in Israele la tradizione di Mosè e dei profeti e ha assicurato di età in età, la vita religiosa del popolo di Dio. Alla fine però, doveva essere superato.

 

1.La critica del sacerdozio.

I profeti hanno spesso stigmatizzato i limiti dei sacerdoti, inferiori al loro compito.

Deficienze maggiori: contaminazione del culto di Jahvè con gli usi cananei nei santuari locali di Israele (Os.4,4-11; 5,1-7; 6,9); sincretismo pagano a Gerusalemme  (Ger.2,26ss; 23,11; Ez. 8); violazione della torah (Sof.3,; Ger.2,8;  Ez. 8); opposizione ai profeti (Am.7,10-17; Is.28,7-13; Ger.20,1-6); interesse personale (Mic.3,11; cfr. 1Sam.2,12.17; 2Re,12,5-9); mancanza di zelo per il culto del Signore (Mal.2,1-9..).

Bisogna tuttavia ricordare che Geremia ed Ezechiele erano sacerdoti; così pure sacerdoti erano quelli che hanno redatto il Deuteronomio e la legge di santità, cercando di riformare la propria casta; negli ultimi secoli poi del giudaismo, la comunità di Qumran, si stacca dal tempio opponendosi al <sacerdozio empio >, ed era una setta sacerdotale.

 2.L’ideale sacerdotale.

L’interesse principale di queste critiche  e di questi disegni di riforma erano ispirati da un ideale sacerdotale. I profeti ricordano ai sacerdoti contemporanei i loro obblighi : esigono da essi il culto puro, la fedeltà alla torah. I legisti sacerdotali, da parte loro, definiscono la purità , e la santità dei sacerdoti (Ez. 44,15-31; Lev. 21,10)-

Si attendi il sacerdote fedele a fianco del Messia figlio di David (Zac.4; 6,12;Ger. 33,17-22), in alcuni testi  biblici (Zac.3,8, 6,11), come negli scritti di Qumran, il messia sacerdotale prende il soppravvento sul  messia regale. Questo primato del sacerdote è in armonia con un aspetto essenziale della dottrina dell’alleanza:

Israele è il ‘popolo-sacerdote’ (Es.19,6; Is.61,6;  2Mac.2,17s), il solo popolo al mondo che assicuri il  culto del vero  Dio e renderà al Signore il culto perfetto  (Ez. 40,48, Is.60-62; 2,1-5).

Nel VT tra Dio e il popolo ci sono diverse  mediazioni: il re guida il popolo di Dio  come capo istituzionale; il profeta porta personalmente la parola di Dio originale, adatta a una situazione particolare in cui egli è responsabile  della salvezza dei suoi fratelli.

Il sacerdote, come il profeta, ha una missione strettamente religiosa, ma la esercita nella cornice delle istituzioni;  è designato dal diritto ereditario, è legato al santuario e alle sue usanze. Porta al popolo la ‘parola di Dio’ in nome della ‘tradizione e non di sua testa; commenta i grandi ricordi della storia sacra ed insegna la legge di Mosè. Porta a Dio le preghiere del popolo nella liturgia e risponde a questa preghiera  con la benedizione divina.’

 

 NUOVO TESTAMENTO

I valori del VT  assumono tutto il loro senso soltanto in Gesù che li compie e li supera.

Questa legge si applica per eccellenza nel sacerdozio.

 

1 Gesù, sacerdote unico.

 

1 Vangeli sinottici.

Gesù non si attribuisce mai il titolo di ‘sacerdote’. Ciò è comprensibile perché, nel suo ambiente, questo titolo designava una funzione riservata ai membri della tribù di Levi.

Gesù vede il suo ufficio ben diverso dal loro e tanto più ampio. Preferisce chiamarsi ‘figlio’ e ‘figlio dell’uomo. Per definire la sua missione, si avvale di termini sacerdotali.

Il fatto è chiaro quando parla della sua morte.  Per lui è un sacrificio che descrive con le figure del VT

E’ come il sacrificio espiatorio del servo di Dio  (Mc.10,45; 14,24; cfr. Is.53).

O come il sacrificio di alleanza ai piedi del Sinai (Mc.14,24; cfr. Es. 24,8); il sangue che egli dà nel tempo della Pasqua evoca quello dell’agnello pasquale (Mc.14,24; cfr. Es.12,7.13.22). Accetta questa morte e la offre come il sacerdote offre la vittima; ne accetta l’espiazione per i peccati per instaurare la nuova alleanza per la salvezza del popolo.

Egli perciò è il sacerdote del  proprio sacrificio.

La seconda funzione del sacerdote  nel VT era il servizio alla torah. Gesù è chiaro davanti alla legge di Mosè: viene a compierla (Mt.5,7); anzi supera la legge  (Mt.5,20.48), e ne mette in luce il valore profondo, incluso il primo comandamento e nel secondo che gli è simile (Mt.22,34-40).

 

2. Da Paolo a Giovanni.

Paolo spesso ritorna alla morte di Gesù, sotto le figure dell’agnello pasquale (1Cor. 5,7), del servo (Fil.2,6-11), del giorno della espiazione (Rom.,3,24s). Questa interpretazione sacrificale appare ancora nelle immagini della comunione col sangue di Cristo (1Cor.10, 10,22), della redenzione in virtù del sangue (Rom,5,9; Cil.1,20; Ef.1,7; 2,13). Secondo Paolo, la morte di Gesù è l’atto supremo della sua libertà, il sacrificio per eccellenza, atto propriamente sacerdotale che egli ha offerto personalmente. Ma come già fece Gesù, anche Paolo non dà  a Gesù il titolo di sacerdote.

La stessa cosa vale per tutti gli altri scritti del NT, salvo la lettera agli Ebrei: essi presentano la morte di Gesù come sacrificio del servo (Att.3.13.26; 4,27.30; 8,22s; 1Pt.2,22ss), dell’agnello (1Pt.1,19). Evocano il suo sangue (1Pt.1,2.19; 1Gv.1,7). Ma non lo chiamano mai sacerdote.(attribuito alla tribù di Levi).

Giovanni 17: nella preghiera sacerdotale, nel racconto della passione, Gesù si presenta come il sacerdote che sta per offrire un sacrificio: Gesù <si santifica>, cioè <si consacra> mediante il suo sacrificio ( Gv.17,19), ed  esercita così una mediazione efficace alla quale aspirava invano il sacerdote antico.

(Ancora meglio per Gv.17,19: <Per loro io consacro (santifico) me stesso, perché siano anch’essi consacrati (=santificati –hegiasmenoi- ) nella verità>. Gesù diventa il  mediatore  della santificazione: santifica (= consacra ‘hagiazo’) se stesso perché siano santificati (= consacrati=hagiasmenoi ) in lui i discepoli. Se i discepoli devono continuare  la sua opera, devono essere anch’essi santificati: Gesù diventa mediatore: consacra-santifica se stesso (come sacerdote) per santificare-consacrare i discepoli.

Santifico.-consacro: è da intendere  <io mi offro in sacrificio>  <è il sacerdote che offre se stesso come vittima per quelli che Dio gli dà>  (Qui  ‘yper’, non lascia dubbi della dedizione di Gesù alla morte espiatrice=sacrificio pasquale)

(NB. Ogni sacerdote – come ogni cristiano-, vive la sua vocazione quando ‘santifica-consacra la sua vita per  il  popolo di Dio=santificare-testimoniare. Servire è quello che si chiede al sacerdote).

Ancora Gv. (cfr. Come abbiamo ascoltato Gesù.., p-1088).Questa visione di Gesù come sacerdote vittima sacrificale  (offre il suo sacrificio), si trova nella lettera agli Ebrei, In Eb.  9,12.24 troviamo che Gesù offre se stesso come vittima sacrificale; un pensiero che può corrispondere a Gv.17,19. l’idea è ripetuta in Eb 10,10: <Noi siamo stati santificati per mezzo della offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre>.

 

3. La lettera agli Ebrei.

Svolge, sola, il sacerdozio di Cristo, con ampiezza.

Concentra la sua attenzione sulla funzione personale di Cristo nell’offerta di questo sacrificio. E questo perché Gesù come Aronne, e ancora di più, è chiamato da Dio ad intervenire a favore degli uomini e a offrire sacrifici per i loro peccati (Eb.5,1-4). Il suo sacerdozio era prefigurato in quello di Melchisedec  (Gen,.14,18ss) , conformemente all’oracolo del salmo 110,4. Gesù è il sacerdote santo, il solo (7,26ss). Il suo sacerdozio segna la fine del sacerdozio antico. Gesù ha compiuto il suo sacerdozio una volta per sempre nel tempo (7,27; 9,12.25.28, 10,10-14). Ormai egli è per sempre l’intercessore (7,24s), il mediatore della nuova alleanza (86-13; 10,12-28).

(Ricorda anche il testo di Eb.1,5. Chi è oggi il sacerdote’. Il testo dice: < Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati>. Questa è l’immagine del prete: essere ‘scelti’ da Dio ‘per’ il servizio agli uomini nell’apostolato).

 

II. Il popolo sacerdotale.  

 1.Gesù, come non attribuisce  mai a se stesso il sacerdozio, così non lo attribuisce al suo popolo. Gesù però non ha mai cessato di agire come sacerdote e sembra di aver concepito il popolo come popolo sacerdotale. Gesù si rivela sacerdote mediante l’offerta del suo sacrificio e  mediante  il servizio della parola. Gesù chiama a prendere parte delle funzioni del suo sacerdozio anche i suoi discepoli.

Ogni discepolo deve prendere la sua  croce (Mt.16,24par.); deve bere il suo calice  (Mt.20,22; 26,27); ciascuno deve portare il suo messaggio (Lc.9,60; 10,1-16), rendergli testimonianza fino alla morte (Mt.10, 17-42).  Gesù facendo partecipare tutti gli uomini ai suoi titoli di Figlio e di Messia, li fa sacerdoti assieme a lui.

 

2.Gli apostoli prolungano questo pensiero di Gesù, presentando la vita cristiana come una liturgia, una partecipazione  al sacerdozio unico.

Paolo considera la fede dei cristiani come un <sacrificio di oblazione> (Fil.2,17); per lui tutta la vita dei cristiani è un atto sacerdotale ; li invita a offrire i loro corpi <come ostia vivente, santa, gradita a Dio; questo è il culto spirituale che voi dovete rendere> (Rom.12,1; cfr. Fil.3,3; Eb.9,14; 12,28).

La lettera di Giacomo, enumera gli atti concreti che costituiscono il vero culto: la visita agli orfani e alle vedove, l’astensione dalle sporcizie del mondo (Gc.1,26s.).

La prima lettera di Pietro e l’Apocalisse sono esplicite: attribuiscono al popolo cristiano il <sacerdozio regale> di Israele (1Pt.2,5.9; Ap,1,6; 5,10; 20,6; cfr.Es.19,6). Con questo titolo, i profeti del VT annunciavano che i profeti del VT dovevano portare in mezzo ai popoli pagani la parola del vero Dio e assicurarne il culto; ormai anche il popolo cristiano assume questo compito, dal momento che Gesù lo ha reso partecipe della sua dignità messianica di re e di sacerdote.

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III, I ministri del sacerdozio di GesùC. Gesù però fa partecipare il suo popolo al suo sacerdozio; nel NT come nel VT : questo sacerdozio del popolo di Dio non può essere esercitato se non da ministri chiamati da Dio.

 

1.Di fatto Gesù ha chiamato i Dodici per affidare loro la responsabilità della Chiesa: con il servizio della parola, nell’ultima cena ha affidato loro l’eucaristia (Lc.22,19).

 

2. Gli apostoli a loro volta stabiliscono dei responsabili per continuare la loro azione. Alcuni sono chiamati ‘anziani’, origine del nome attuale di ‘sacerdoti’ (presbiteri: Att.14,23, 20,17; Tit. 1,5).

La riflessione di Paolo sull’apostolato e sui carismi si orienta  verso il sacerdozio dei ministri della Chiesa.

Dà titoli sacerdotali ai responsabili delle comunità:

  • ‘amministratori dei misteri di Dio’ (1Cor.4,1s);

  • ‘ministri della nuova alleanza’(2Cor.3,6);

  • la predicazione apostolica come servizio liturgico (Rm.1,9, 15,15s).

Questo sacerdozio non è perciò una casta, ma è al servizio del popolo di Dio.  


Sito gestito dalla Parrocchia Santa Melania.

 

LA NUOVA ECCLESIOLOGIA – Don Enrico Ghezzi

LA NUOVA ECCLESIOLOGIA


(Cap XII-XVI e sintesi finale – Lettera ai Romani)

di don Enrico Ghezzi

L’anno paolino è una straordinaria occasione, offertaci dal Papa, per riscoprire l’apostolo delle genti e percorrere con lui il nostro cammino. Come noi, Paolo non ha conosciuto il Gesù della storia, ma lo ha creduto risorto, si può dire che ha dato alla storia il suo vero senso.

La fede nella resurrezione, l’amore di Dio, la giustificazione dalla fede in Cristo sono solo alcuni dei temi che ci accompagnano in questi testi relativi alla prima parte del ciclo di catechesi sulla Lettera ai romani (si concluderà alla fine del 2009).

L’anno paolino avrà effetti su ognuno di noi se, per intercessione di Paolo, avremo fatto esperienza della Grazia e del perdono del Signore e se avremo approfondito la conoscenza dell’epistolario paolino, fonte indispensabile per chi vuole vivere in profondità la propria adesione a Cristo.

11 maggio 2009

INCONTRO CON DON ENRICO GHEZZI A CHIUSURA DELL’ANNO PAOLINO

Don Ghezzi

Buona sera a tutti. Mi pare che ci eravamo visti qualche mese fa, a novembre, all’inizio di questo cammino  su S. Paolo:  è importante, forse siete una delle poche parrocchie che ha tenuto un cammino costante in questo anno paolino, non ho sentito altre, sì magari qualche incontro così, ma aver fatto tutto l’anno la lettura della Lettera ai Romani è stata una cosa interessante, siete stati fortunati, avete avuto un parroco che vi ha sollecitato alla parola di Paolo.

Adesso mi diceva che eravate arrivati praticamente agli ultimi 12, 13, 14, 15, 16 che è l’ultimo capitolo che forse, secondo gli studiosi, non è proprio stato scritto da Paolo ma forse dai suoi discepoli.

Forse avete sentito un po’ come le cose che Paolo ha detto durante tutto questo cammino, qualcuno dice che San Paolo è stato così profondo, così grande nelle sue lettere che addirittura sia lui il vero fondatore del cristianesimo.  Qualcuno dice che il vero papa a Roma era Paolo, non era Pietro, queste cose ve le hanno dette.  Questa figura potente che proprio ha invaso il mondo del Mediterraneo con i suoi tre viaggi, ma soprattutto con questa sua riflessione potente, che è riassunta quasi tutta nella Lettera ai Romani.

Vi ricordate all’inizio lui era un fervente, zelante giudeo, di quelli proprio, diremmo oggi, un fanatico, lui era di Tarso però aveva studiato a Gerusalemme, con questo grande maestro Gamaliele che appare anche nel Vangelo di Giovanni, grande maestro, grande uomo saggio, compare anche negli Atti degli Apostoli, quindi un grande personaggio, e lui  era un discepolo veramente pieno di questo zelo giudaico.

Guardate che lo zelo giudaico caratterizza proprio il popolo di Israele, forse fino ai nostri giorni, tanto è vero che questo benedetto popolo non accettava mai il dominio di nessuno ed era così litigioso, così forte nel difendere il monoteismo, di fronte all’Assiria, l’Egitto, Roma, era così forte nel difendere il monoteismo che pur essendo il paese più piccolo, quasi insignificante, e i romani dovevano continuamente tenerlo a bada con delle battaglie, con delle guerre che poi è sfociato nel 70 con la distruzione del Tempio, ma più avanti ancora, un altro imperatore, non so se Claudio nel 134, vengono uccisi, una shoah, 600-700.000 ebrei nel 135-140, in quei momenti lì c’è proprio la dispersione.

Ciò che rendeva così intenso il discorso ebraico era proprio il fatto che noi abbiamo un solo Dio e i primi cristiani incominceranno il martirio quando, fino ad un certo momento gli imperatori non chiedevano l’adorazione dell’imperatore, quando incominciano, lì comincia la grande crisi.

Per essere obbedienti, noi siamo obbedienti dicevano i cristiani, c’è da andare a fare la guerra, arruolati, facciamo i soldati, quando però incominciavano i primi scricchiolii all’interno dell’Impero e allora c’era bisogno di una forza ulteriore e l’imperatore doveva essere adorato come Dio, e lì allora incomincia il grande rifiuto, i cristiani non possono accettare e tanto meno Israele può accettare questa immagine di un dio in terra da adorare.

Paolo scrive questa famosa Lettera ai Romani che avete letto, facendo il compendio di tutto il grande pensiero cristiano che dura fino ai nostri giorni. Primo grande concetto: lui è il predicatore dei gentili, delle genti, non degli ebrei soltanto, dei giudei, anzi questo qui lo facciano pure gli apostoli tradizionali, io sono mandato da Gesù a fare l’annunciatore ai gentili, quindi a tutti i popoli che non si riconoscevano.  Una missione grandissima, perché poter parlare di Gesù Cristo a gente che era completamente estranea al mondo religioso dell’unico Dio, un Dio che si era fatto uomo, veramente era un discorso impossibile, ci vuole la grande forza interiore spirituale di Paolo, il suo grande coraggio e certamente l’assistenza dello Spirito Santo e quindi lui scrive, prima di arrivare, questa famosa  Lettera ai Romani che è il grande compendio della teologia.

Lì ci sarà il grande tema: come mai esiste nel mondo il male, il peccato originale, Cap. V e VI, Adamo ed Eva, il peccato originale, questo dominio, il battesimo,  fondamentale in Paolo perché è il sacramento che dà una nuova vita, essere sepolti con Cristo e co-resuscitare con Cristo attraverso il dono dello Spirito Santo, Paolo susciterà davvero la potenza, la grazia, il calore, il dono dello Spirito Santo nella sua grande predicazione.

E poi tutto il grande tema il Cap.  VIII, quello della visione, che tutto il cosmo verrà redento e tutto verrà rinnovato in Cristo risorto, nulla andrà distrutto, non solo noi, ma il mondo, il cosmo intero geme in attesa di una nuova rivelazione.  Questo grande personaggio che vede poi donato nella grazia di Dio la via veramente per la propria salvezza. Quindi Paolo farà una grande teologia che durerà fino ai nostri giorni.

Negli ultimi capitoli lui fa una specie di grande esortazione, nella Bibbia di Gerusalemme, non l’ultima ma la penultima, infatti veniva proprio chiamato come la “parenesi”, l’esortazione finale a tutti i discorsi che Paolo aveva fatto. Guardate bisogna partire da un concetto che non è così ancora chiarissimo, però poi sarà più chiaro negli Atti degli Apostoli: come si va formando la prima chiesa.

C’era la sinagoga, i primi apostoli andavano ancora a pregare nella sinagoga, però a poco a poco si accorgono che nella Sinagoga si leggeva solo l’Antico Testamento e non riconosceva il Cristo e allora, a poco a poco si forma la nuova “ecclesia”, la parola è uguale dal greco ecclesia vuol dire chiamata, essere radunati, però in un ambiente nuovo e in una situazione nuova.

Quale sarà il fondamento che deve arrivare fino ai nostri giorni della nuova chiesa, tre cose fondamentali: erano assidui nell’ascolto della parola. Paolo dirà: non ci può essere fede senza l’ascolto, fides ex auditu, la fede dall’ascolto. Negli Atti degli Apostoli le prime comunità cristiane erano assidue nell’ascolto della parola. Qual era la parola che gli apostoli annunciavano?

Era la parola dell’Antico Testamento reinterpretata nella realizzazione finale che  aveva fatto Gesù. Gesù è colui che realizza la figura di Mosè, la figura dei profeti, la figura dell’attesa del popolo d’Israele di un Messia, lui è il Cristo, il Messia nuovo. Quindi la fede nasce, guardate anche per noi, anche per i vostri figli, per i vostri nipoti, non c’è altra soluzione, bisogna ascoltare la parola: fides ex auditu, questa grande intuizione di Paolo e anche delle prime comunità cristiane, giunge fino ad oggi a noi, perché oggi noi abbiamo, non dico pochi cristiani, forse ce ne sono fin troppi, ma alle volte cattivi cristiani.

Adesso ho visto in Trastevere, da dove vengo, fuori di una chiesa antichissima, bellissima,, Santa Rita da Cascia. Ecco questo nuovo nostro popolo è un popolo pieno di devozioni, ma non sa chi è Gesù Cristo, nelle chiese che sono state fatte, prima Padre Pio, so che voi siete molto devoti di Padre Pio, poi Santa Rita, poi  la Madonna, e anche Gesù Cristo al quarto o quinto posto.

Questo è il nostro grande problema: fra venti anni avremo le chiese piene di chi sente Santa Rita, chi segue Padre Pio, chi segue un padre eterno che si sono inventati ultimamente, ma il Cristo non c’è, mentre la fede, fides ex auditu, il fondamento, se tu non leggi la parola di Dio, se tu non la commenti, ecco il senso anche di questi incontri di Don Francesco durante questo anno, se non si ascolta non saremo mai dei cristiani, saremo delle persone devozionaliste, ma i devozionalisti c’erano anche ai tempi dei romani, anche loro credevano alle loro divinità, accendevano i lumini anche loro alle divinità, il popolo ha sempre bisogno di questo, ma Cristo è venuto a fare un annuncio diverso.

Questo non era ancora ben delineato nella chiesa: gli Atti degli Apostoli dicono la fede nasce dall’ascolto. Secondo momento: si radunavano, dicono gli Atti, e il giorno in cui Cristo è risorto, la domenica e spezzavano il pane, l’eucaristia, il gesto che Gesù aveva fatto nell’ultima cena, prendete e mangiate,  questo pane è il mio corpo, viene rinnovato, i cristiani si sentono attorno all’eucaristia, perché il mangiare il pane vuol dire partecipare al Cristo risorto: chi mangia di questo pane.  Lo ha detto Giovanni nel Cap. VI “Chi mangia di questo pane ha in sé la vita eterna ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno”.

I primi cristiani ascoltano la parola spiegata dagli apostoli, l’Antico Testamento e le cose che Gesù aveva fatto ed aveva detto e spezzano il pane dell’eucaristia. Ecco la domenica. La domenica, l’andare alla messa, bisogna andare alla messa, ma non per dire sono andato alla messa, per cui se non sono andato alla messa devo andare a confessarmi perché è un peccato mortale, non è questo il problema, la domenica è il giorno in cui noi nelle nostre comunità parrocchiali celebriamo qualche cosa di più grande dell’andare a messa, celebriamo il Cristo che ogni domenica si rinnova nella eucaristia e ricorda a noi che siamo partecipi della gloria di Dio, della gloria di Cristo.

Chi mangia di questo pane ha in sé la vita eterna e allora questa comunità che la domenica si raduna e canta le lodi al Signore e continua quello che già avveniva nella sinagoga prima di Gesù, con gli ebrei, dà lode a Dio, adesso lo ritroveremo subito questo concetto, la lode nel Tempio dove si radunavano per dare la lode al Signore, e terzo momento fondamentale che anche qui Paolo poi richiamerà, è “spezzavano il pane e mettevano in comune le loro cose” in modo che le vedove, gli orfani, che erano la catena più debole erano aiutati.

Ecco i tre grandi momenti, la carità, la solidarietà. Da qui nasce la chiesa cristiana cattolica che è fondamentalmente la chiesa in cui noi ci troviamo.  Però questa va animata, perché il primo punto spesso non lo conosciamo, ascoltare la parola; il secondo punto, chi va a messa, nel passato spesso si andava a messa altrimenti se non ci andava si doveva confessare perché era peccato mortale e quindi non va con la gioia di chi risorge, di chi rinasce, ma va perché deve adempiere un mestiere, un compito.

Il terzo momento, la carità, il compito della carità è fondamentale e questo della solidarietà è fondamentale anche ai nostri giorni.  Certo la carità, la solidarietà sono difficili, però lì ama il prossimo tuo come te stesso, c’è poco da fare. Anche per i non credenti questo concetto un po’ kantiano “fa il bene che vuoi sia fatto a te e non fare il male agli altri  che non vuoi sia fatto a te”. Ama il prossimo tuo come te stesso.

Era questo che ha invaso il mondo romano, i romani che erano questo grande popolo di potenza che soggiogava e sottometteva i popoli, incominciare a dire che l’altro, il conquistato, era immagine di Dio, immagine del Cristo risorto, ha cambiato completamente la mentalità. E non per niente Gesù quando appare dice sempre, nelle sue apparizioni pasquali, dice sempre la prima parola “pace a voi”.  Non una pace/assenza di guerra, ma una pace che vuol dire una nuova creazione, dove l’uomo può vivere veramente in un sistema di non violenza, pensate quanto è moderno questo concetto che è lì nelle prime comunità cristiane.

Adesso arriviamo al nostro Paolo, al Cap. XII: “Vi esorto dunque fratelli per la misericordia di Dio a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio. E questo è il vostro culto spirituale”.  Allora dice “offrite sacrifici”.

Paolo che veniva dalla sinagoga, la sinagoga era il luogo dove gli ebrei offrivano la loro adorazione a Dio, il loro culto al Signore. Paolo qui dice “adesso c’è un nuovo culto”. Perché c’è un nuovo culto? Perché la comunità cristiana “offrite dunque fratelli i vostri corpi come servizio vivente santo e gradito a Dio. E questo è il vostro culto spirituale”.

Mentre gli ebrei nella sinagoga, nel tempio, offrivano la lode al Signore, ora per i cristiani dice Paolo, il nostro nuovo tempio è Cristo. I veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità, aveva detto Giovanni e Gesù aveva detto sempre in Giovanni “distruggete questo tempio e io lo ricostruirò” e parlava del suo corpo. Il nuovo tempio è Cristo: noi siamo in Cristo, gli adoratori del Padre.

Naturalmente le chiese non fanno altro che rappresentare Cristo che è presente e noi nel tempio possiamo lodare il Signore. Quindi questo per un nuovo culto spirituale indica come i nostri padri ebrei adoravano Dio nella santità del tempio, ora il nuovo tempio è il corpo di Cristo. Poi certamente anche il nostro corpo diventerà il corpo di Cristo perché noi siamo inseriti.

Vedete un po’ perché Paolo tira fuori questo concetto del tempio di Cristo. Guardate un po’:

per la grazia che mi è stata data io dico a ciascuno di voi non valutatevi più di quanto conviene ma valutatevi in modo saggio…perché come in un solo corpo (attenti bene qui) abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo.

E ciascuno per la sua parte siamo membra degli uni e degli altri. Abbiamo doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi: chi ha il dono della profezia la eserciti, secondo la fede, chi ha un ministero attenda al ministero, chi insegna si dedichi all’insegnamento, chi esorta si dedichi all’esortazione, chi dona lo faccia con semplicità di cuore, chi presiede presieda con diligenza, chi fa opere di misericordia le compia con gioia.

La carità sia senza ipocrisia, detestate il male, attaccatevi al bene, amatevi gli uni gli altri con amore fraterno, non siate pigri nel fare il bene, – vedete la terza parte, la carità come viene continuamente fuori,- siate lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, condividete la ….. dei santi, siate premurosi nell’ospitalità.”

Allora Paolo perché è partito e dice questo nuovo tempio dove noi possiamo rendere un culto nuovo a Dio, è il corpo di Cristo, cosa serviva questa immagine a Paolo? Paolo dirà che Cristo ormai è salito in cielo, chi rimane qui sulla terra ?

Il dono dello Spirito Santo e i credenti in Cristo che formano il nuovo tempio che è la chiesa, Cristo è il tempio nuovo, la chiesa che noi tutti formiamo è il luogo dove vive Cristo e noi Cristo possiamo adorare. Per cui guardate che concetto Paolo ha tirato fuori: che cos’è la Chiesa?

Non è soltanto l’edificio, la chiesa innanzitutto sono i cristiani, noi siamo il Cristo, è un corpo, il corpo che durerà fino alla fine dei tempi è la chiesa, la comunità dei credenti.  Per cui Paolo tira fuori: nella chiesa ci sono varie funzioni.

Ognuno di noi, anche se questo noi non siamo mai stati educati a questo, c’è il prete,  il parroco, il vice parroco, il vescovo, il cardinale e noi il gregge.

In realtà Paolo dice, scrive ai romani – siamo negli anni 53-54, ancora non conosceva questa comunità,- immaginando che a Roma c’erano i primi cristiani, che poi vedremo nell’ultimo capitolo, c’erano i primi cristiani, lo fa anche nella Lettera ai Corinti, immagina che Cristo è il capo, la chiesa è il corpo di Cristo e come nel nostro corpo, il naso, le mani, gli occhi, hanno funzioni diverse dice, così in questo corpo ci sono funzioni diverse.

Guardate che bello, dice: la profezia, la profezia è l’annuncio della parola; il ministero forse i sacerdoti, l’insegnamento, i genitori, ma guardate voi genitori chi è più chiamato ad essere nella chiesa un corpo vivo nell’insegnare ai propri bambini la parola di Dio, l’insegnamento.

Donate con gioia, una carità sincera, amore fraterno, siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera.  Vedete in questa comunità, noi lo proviamo, c’è per esempio chi è più  ottimista e chi sprizza speranza e gioia da tutte le parti: è un servizio, un dono di Dio; c’è chi è più attento, più dedicato alla carità, più attento verso i poveri, verso i deboli, verso i malati, verso gli handicappati, è un carisma, si dice, è un dono della comunità; c’è chi è più attento alla contemplazione della preghiera, chi è più attento alla profezia, dire parole di speranza, parole di salvezza, parole di gioia.

Vedete come Paolo immaginava la chiesa e come la chiesa così oggi ancora dovrebbe essere.  Non c’è che una persona dice ma io sono vecchio, no chi partecipa a questa grande comunità – e noi lo siamo attraverso il battesimo -, tutti noi, tutti voi avete un carisma. Ma pensate il carisma più grande di essere genitori.

Il matrimonio: quando il matrimonio durerà sempre e non sarà messo in crisi dopo due o tre anni? Quando gli sposi  vivranno il carisma dell’essere amanti nell’amore di Cristo, di essere capaci di testimoniare ai propri figli questa grande luce della speranza, ma quando ci sono questi valori, l’attenzione, la delicatezza verso i più poveri.

Quanti genitori oggi educano per esempio al senso della solidarietà che renderebbe meno egoisti i nostri ragazzi. Vedete siete tutti, siamo tutti profeti in questo senso e Paolo vede che questo corpo, il Cristo, il tempio antico dove gli ebrei adoravano, il nuovo tempio che è il corpo di Cristo, noi siamo in questo corpo che è il corpo di Cristo, siamo la chiesa e in questa chiesa al servizio dell’umanità e poi di Dio ci sono tutti questi grandi carismi.

Questo quindi è tutto sommato un grande identikit della chiesa.

Guardate poi più avanti cosa dice Paolo:

Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite, rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto, abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri, non nutrite desideri di grandezza, volgete piuttosto a ciò che è umile, non stimatevi sapienti da voi stessi, non rendete a nessuno male per male, cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini, se è possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti, non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare a Dio”.

Allora vedete questi verbi bellissimi:  benedite, rallegratevi, piangete, sentire comune, sentimenti comuni con chi è nella gioia o con chi è nel dolore, non fate il male ma fate il bene. Guardate come sono forti questi verbi che sono l’animazione di quella comunità che si raduna intorno e forma il corpo di Cristo.

Che comportamento deve avere questa comunità?

  • La profezia,

  • il ministero,

  • l’insegnamento,

  • la carità in modo che allora benedite e non maledite,

  • esortate, esortatevi a vicenda,

  • conforto, la luce, la speranza,

  • rallegratevi, sappiate piangere con chi piange.

Vedete che è un sistema quello che ha nutrito la prima chiesa, che ha dato la possibilità proprio di questa grande espansione perché sentiva veramente di essere nel corpo di Cristo.

Noi abbiamo l’umanità, pensate l’umanità cristiana era piena, il terrore delle potenze naturali, il terrore del fato, che cosa avranno gli dei preparato per noi, la paura delle guerre e delle malattie, arriva Cristo, supera tutto questo, non c’è più un dio che ha un fato o un destino drammatico per noi.

No, questo Dio, dice Gesù, ha il volto del Padre, Paolo dice questo: il volto di Dio è il volto del Padre. E’ lì che i romani, il mondo pagano, anche il mondo greco che era molto sofisticato, ha incominciato a capire che c’era una grande novità.

Quando Paolo andrà la prima volta all’areopago vi annuncio il Dio… Gli antichi, anche i greci, avevano l’uso di avere tanti altari ed ognuno adorava il dio che voleva e lì Paolo aveva annunciato il Dio Ignoto. Capite che per la mentalità filosofica greca dove la materia, il corpo, la materia secondo Platone era una prigione e dove la materia veniva disprezzata, dire vi annuncio il Dio che non conoscete, che ha avuto un corpo, che si è incarnato, che è morto sulla croce e che è risorto, ai greci faceva proprio girare la testa, non capivano più niente, dicevano tu sei ubriaco. Però quella semente che lui aveva buttato quando ritornerà troverà.

Ma questa è stata la novità presso i popoli pagani, questo mondo che viveva di divinità, buone o cattive, per cui ognuno doveva attendere un beneficio da quella divinità e un malificio dall’altra, l’annunciare che questo Dio era buono, per cui qui esortate, benedite, rallegratevi, piangete, abbiate un sentire comune con chi sta bene e con chi sta male, non fate male a nessuno, era un’assoluta novità. Ormai c’è qualche cosa di nuovo all’interno di questo rivelarsi di Dio che veramente ci libera finalmente dalla schiavitù drammatica di essere sempre dipendenti da qualche cosa di minaccioso e di drammatico.

Siamo al Cap. XIII.

Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti non c’è autorità se non da Dio. Quelle che esistono sono state stabilite da Dio, quindi chi si oppone all’autorità si oppone all’ordine stabilito da Dio”.

Allora guardate bene questo capitolo. Probabilmente  c’erano già delle critiche, delle crisi all’interno anche della comunità cristiana: ma se noi abbiamo un Dio che è Gesù Cristo che è risorto, dobbiamo ancora obbedire alle leggi civili, dobbiamo ancora obbedire alle leggi che sono leggi pagane secondo noi?

E guardate Paolo qui veramente trova un principio generale che vale anche nei nostri giorni: qual è il principio fondamentale? Il versetto 3 dice “chi fa il bene non deve temere”. Se io agisco bene secondo la mia coscienza illuminata dalla parola di Dio, non devo temere le leggi anche se sono fatte, perché la legge, il principio deve tendere al bene comune, non deve essere una legge che impone di fare delle cose contro il bene comune.

E Paolo dice: se la legge non ti obbliga a fare il male, ma a fare il bene, fallo, se siamo soggetti alla legge. Non c’è problema anche se la legge viene dai pagani, perché la legge deve avere come principio quello del bene comune e quindi deve essere vissuta nella mia coscienza che quando è illuminata dalla parola che ho ascoltato, mi dà una grande libertà di seguire una legge che mi impone il bene.

Nella storia guardate queste cose sono diventate importanti: quando nella storia un magistrato, un avvocato, oppure un medico, dovevano decidere questo è bene e questo è male, era tremendo.

Quando Enrico VIII al suo cancelliere Tommaso Moro che era adorato da Enrico VIII, gli dice tu mi devi permettere di ottenere dal papa il divorzio e lui gli dice guarda io ti posso fare tutto, un uomo saggio, un uomo di una famiglia felicissima, con due o tre figli, una famiglia bellissima quella di Tommaso Moro, e lui gli dice no, tu ti devi piegare alla mia legge, devi ottenere da Roma che io possa celebrare, e lui gli dice no, e viene messo là nella torre e viene ucciso.

Capite come queste parole “obbedite alla legge” poi hanno fatto veramente dei martiri. Durante le prime persecuzioni dei cristiani, come faccio ad obbedire ad una legge che mi obbliga di adorare un imperatore come Dio, non è possibile, e allora qui il martirio, come quello di Tommaso Moro. Nella storia avviene spesso: la legge quando è buona io la devo osservare, ma deve filtrare in qualche modo nella mia coscienza, la mia coscienza stabilisce, illuminata dalla parola di Dio, se quello che io faccio è veramente un bene, non solo per me ma è un bene comune.  Quindi Paolo qui dà un avvertimento fondamentale e il mezzo per,  versetti 8-10 cosa dicono:

Non siate debitori di nulla a nessuno se non dell’amore vicendevole, perché chi ama l’altro ha adempiuto la legge”.

Vedete dov’è il riassunto di tutto:  le leggi sono cose buone se propongono il bene.  Come faccio a sapere  che la legge è buona:  la legge si riassume nell’amore. Questa è stata la grande rivoluzione cristiana:

  • l’aver scoperto che non ci sono mille divinità,

  • che non ci sono influssi negativi,

  • che non ci sono zone dove il mio fato, il mio destino è già stabilito,

  • il fatto che questo Dio che Paolo annuncia, che è Dio fatto uomo in Gesù Cristo, è l’amore.

  • E allora dice: non c’è problema laddove la legge si riassume nell’amore.  Questo è un principio fondamentale per chi deve agire, le leggi che noi diamo ai nostri ragazzi, ai nostri figli, che si lamentano, ma se un papà e una mamma hanno coscienza che quello che stanno vedendo è un amore oggettivo, non un amore troppo affettivo, ma se è un amore oggettivo, allora bisogna avere il coraggio di presentare ai nostri figli la bellezza della legge, ama il prossimo tuo, rispetta il creato, come lo abbiamo distrutto questo creato, rispettare il creato, rispettare il tuo prossimo, rispettare le persone che hanno un colore della faccia diverso dal tuo.

  • Pensate quanta sapienza e quanta saggezza Paolo riassume in queste poche parole: il culmine della legge è l’amore. Dove c’è l’amore non c’è timore.

Quindi il problema la legge e l’amore.  Poi

Infatti non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai, qualsiasi altro comandamento si ricapitola in questa parola: amerai il tuo prossimo come te stesso. La carità non fa alcun male al prossimo, pienezza della legge infatti è l’amore”.

E questo voi farete consapevoli del momento. E’ ormai tempo che… perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti. La notte è avanzata e il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce.”

Ecco qua: la legge è buona quando si traduce nell’amore. Altro grande principio paolino che poi è nel Vangelo: bisogna operare, le ubriachezze, le orge sono opere delle tenebre, bisogna operare nella luce.

L’azione è quella di vivere l’amore: come faccio a sapere? Se io opero nella luce. E guardate le parole che usa Paolo, guardate come usa la parola “tempo”, che in greco era il kairos, il tempo di Dio, il tempo della pienezza, non il tempo cronologico che ci passa sotto le mani, è passato un anno, ecc. Guardate cosa usa Paolo: era ormai il tempo di conversione, adesso è la salvezza, notte e giorno, le opere della luce sono quelle del giorno, i vizi, orge, impurità ecc., dov’è il peccato, come faccio a sapere che tutto questo è peccato, se io opero fuori dalla luce.

  • Ma chi è per me la luce? E’ l’essere in Cristo.

  • Ma come faccio a sapere che è Cristo? La parola. La parola ti traduce il pensiero, il cuore, l’amore, il concetto, vorremmo dire così, di Gesù e di Dio.

Cap. XIV.  Paolo in questi capitoli riassuntivi dà un po’ una definizione generale.

Accogliete chi è debole nella fede, senza discutere le esitazioni. Uno crede di poter mangiare di tutto”

Lì c’era il grande problema: tra i primi cristiani alcuni venivano dal giudaismo, e sapete che gli ebrei, anche gli arabi, alcune carni non le mangiano, il maiale, voi sapete perché il maiale non si poteva mangiare? L’ho scoperto anche io poco tempo fa: a parte i motivi igienici, ma poi anche perché il maiale presso alcune popolazioni veniva adorato come un dio, quindi era un peccato di idolatria.

Poi si traduce in tanti modi perché appunto era un animale immondo, ma l’ultima radice diciamo più profonda era che erano ritenuti una specie di divinità. Qui Paolo scopre un grande principio: allora mangiamo io e te, uno è ebreo giudeo e io invece sono un cristiano gentile, cioè mi sono convertito dal paganesimo e ci servono la carne di maiale o altre cose. Non lo mangiare! Ma io la mangio, no non la mangiare e lì cominciano i litigi e Paolo dice principio importante: se c’è da rinunciare rinuncerò volentieri, importante lui dice sul problema dei cibi impuri, importante che in tutto ci sia la carità. Per la carità se non dovrò mangiare la carne, non la mangerò, ma se io devo scandalizzare, ecco lo scandalo.

Come potrò evitare lo scandalo di una persona più debole che crede che quella sia, ecco laddove io vivo in questa situazione il dono della carità, il dono della comprensione, allora qui Paolo dà un grande principio, pensate il problema per i giudei cristiani della circoncisione e i gentili che non si lasciavano circoncidere. Quello era il segno del popolo di Dio che Mosè aveva dato, la nostra nuova identità di popolo, per gli ebrei era proprio la circoncisione, assieme alle leggi, ma noi abbiamo Cristo, chi è in Cristo dice ha il cuore circonciso.

La circoncisione è quella del cuore, è quella di liberare il mio cuore dalle impurità, dall’avarizia, dall’orgoglio, dal male, quella è la vera circoncisione. Però pensate Paolo ha dovuto soffrire veramente, più e più volte ha dovuto soffrire con i suoi ex fratelli ebrei perché dovunque andava, lui che predicava la libertà in Cristo, è stato continuamente perseguitato.

Badate non l’hanno perseguitato i pagani o gli atei:  Paolo è stato perseguitato dai giudei convertiti al cristianesimo, dai cristiani, perché tu sei un rivoluzionario, stai portando una regola che noi non, ma le genti, i gentili, quelli di Atene, di Roma, quelli di Corinto non hanno bisogno della nostra regola.  La nuova regola è Cristo che ha portato la libertà, che ha portato l’amore.

Colui che mangia non disprezzi che non mangia, colui che non mangia non giudichi chi mangia, infatti Dio ha accolto anche lui.

Chi sei tu che giudichi un servo che non è tuo. Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone, ma starà in piedi perché il Signore ha il potere di farcelo stare.

C’è chi distingue il giorno dal giorno, chi invece li giudica tutti uguali, ciascuno però sia fermo nella propria convinzione.

Chi si preoccupa dei giorni lo fa per il Signore, chi mangia di tutto mangia per il Signore, è un momento che rende grazie a Dio.

Chi non mangia di tutto non mangia per il Signore  e rende grazie a Dio. Nessuno di noi infatti vive in se stesso, nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo viviamo per il Signore, se noi moriamo moriamo per il Signore.”

Ecco vedete il principio generale è questo in Paolo: allora nella prassi concreta come devo fare? E Paolo dice: se tu mangi, se tu dormi, se tu non mangi, se tu non dormi, se tu giochi al pallone, se tu vai a fare il Giro d’Italia, se tu corri con la Ferrari, quello che facciamo sia fatto nel  nome di Gesù Cristo.

E allora vedete non c’è più la preoccupazione, sbaglio o non sbaglio, faccio bene o non faccio bene? Attenti bene, una prassi importante che poi verrà dalla morale cristiana è questa da ricordare: non bisogna mai prendere una posizione se la mia coscienza è dubbia.

Pensate un medico che deve operare e dice: ma, faccio bene o faccio male. Ecco non si può decidere con la coscienza dubbia: debbo avere moralmente la certezza che quello che io faccio sia buono, perché altrimenti se ho la morale coscienza che può essere anche non buono, agisco male.

Paolo dice chiaramente bisogna sempre avere la coscienza, questa coscienza Paolo dove la fonda? Nella carità, nell’amore.  Se tu mangi, se tu non mangi, se è giorno, se è notte, quello che conta è vivere nella carità perché la carità è essere nel Regno di Dio.

Qui vedete quanti principi Paolo ci viene a dare: bisogna operare nella luce e non nelle tenebre, bisogna far sì che sia rispettata la coscienza di chi è più debole in modo che anche lui si senta amato.  Quello che è importante è che quando io agisco nella mia coscienza abbia una certezza di fare il bene e d’altra parte se nella mia coscienza se io voglio ammazzare una persona ma al momento il grilletto non scatta, il peccato c’è stato ugualmente, non ho commesso omicidio, però nella mia coscienza il male l’ho fatto.

E allora Paolo dice come dobbiamo agire in questa incertezza, in queste cose non chiare? Dobbiamo agire in modo che l’atto che io compio nasce dall’amore e dalla carità, non nasce da un qualunque altro pregiudizio. Perché qualunque cosa faccia, mangiamo, dormiamo, tutto sia fatto nel nome del Signore, in modo che la vita concreta, la vita di una famiglia, dove ci sono i bambini, gli anziani, i malati, quello che facciamo con amore verso i più deboli, verso chi ha bisogno, è un senso di grande comunione, di grande espressione di carità che ci rende un po’ più tranquilli, un po’ più felici, perché solo facendo il bene siamo felici, solo donando amore agli altri noi possiamo trovare in qualche modo il compimento della bellezza della parola di Dio.

Molte volte il mondo attuale va come va, proprio perché non sappiamo godere di quello che facciamo, non sappiamo godere delle cose piccole quotidiane, portare a scuola i bambini, andare a prenderli, come fanno oggi i nonni, ecco saper godere delle cose piccole perché qui c’è la presenza del Signore, è la carità quotidiana che ci manca per avere un mondo un po’ più felice e un po’ più sereno.

Siamo arrivati al Cap. XV che praticamente è un capitolo che ci parla proprio ancora della vita pratica, dice la nostra vita sia basata sulla Scrittura e sia basata sulla speranza.

Tutti abbiamo dei giorni un po’ negativi, un po’ ottenebrati, però se noi riusciamo a far nascere la nostra giornata quotidiana, per esempio prendete le beatitudini, al cap. 5 di Matteo, beati i miti, i puri di cuore, i misericordiosi, ecc., se noi riusciamo a vivere un po’ di questa beatitudine quotidiana,  ecco riusciamo a vivere nella speranza.  Molte volte siamo disperati proprio perché la nostra vita non affonda in questo dono che abbiamo in mano, che è la Scrittura del Signore, chi affonda la sua vita lì riesce a trovare una grande forza, una grande capacità di andare avanti, anche nei pericoli e nelle grandi difficoltà.

Noi che siamo i forti abbiamo il dovere di portare le infermità dei deboli, non è che chi ha la salute in genere prega, quante volte avviene questo.  Chi è nella salute pensi a chi è nell’infermità: vedete questo principio profondo di solidarietà, gli anziani, gli handicappati, le persone che sono escluse, ma se tutti ci mettessimo un po’ di carità, come sarebbe più bello questo mondo, come vivremmo tutti nella luce della grande speranza, Paolo lo dice.

Ciascuno di noi cerchi di piacere al prossimo nel bene per edificarlo, anche Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso, ma come sta scritto, gli insulti di chi ti insulta ricadono su di me.  Tutto ciò che è stato scritto prima di noi è stato scritto per nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle scritture, teniamo viva la speranza. Il Dio della perseveranza e della consolazione vi conceda…”

Guardate noi cristiani dovremmo essere veramente una chiesa, un popolo di speranza. Tante volte si sente dire che tutto va male, i ragazzi sono cattivi, il mondo è cambiato:  è cambiato, ma il Dio della speranza rimane sempre, perchè la Scrittura, la parola di Dio è sempre lì, noi siamo i fautori della speranza, noi siamo capaci di affondare la nostra vita in questa luce dell’amore di Dio e allora siamo capaci di donare davvero in un mondo che è così difficile tanta speranza.

Certo se il nostro cuore viene ubriacato, come dicevo prima, le orge dell’ubriachezza del danaro, del potere, di tutto quello che alle volte ci coinvolge e allora no, allora certo è difficile, ma se abbiamo un po’ di speranza, ecco perché poi ritorna il giorno del Signore, la messa, l’ascolto della parola di Dio, l’eucaristia, le opere della carità. Se queste entrano e formano le nostre famiglie, formano le nostre parrocchie, invece di tanti santi e di tante devozioni, ritorniamo al Cristo, la Scrittura.

Qui non dice Santa Rita, che era una grande Santa, Santa Rita è datrice di speranza: la Scrittura è fonte della speranza. Cioè i santi hanno vissuto di questo, Padre Pio, ci sono milioni di persone che vanno a trovare Padre Pio tre volte l’anno, e in chiesa non ci vanno mai:  questo è bello, come vai a trovare il santo e la chiesa, la messa domenicale? Ma vedete che cristianesimo abbiamo costruito? Perché? Perché ci siamo allontanati, la Scrittura fonte della speranza.

“Fratelli miei sono anch’io convinto, per quel che mi riguarda, che voi pure siete pieni di bontà, colmi di ogni conoscenza e capaci di proteggervi l’un l’altro. Tuttavia su alcuni punti vi ho scritto con un po’ di audacia, come per ricordarvi quello che già sapete a motivo della grazia che mi è stata data da Dio, per esser ministro di Cristo Gesù tra le genti adempiendo il sacro ministero di annunciare il vangelo di Dio perché le genti gli rendano l’offerta gradita santificata dallo Spirito”.

Allora Paolo dice:  voi sapete già tante cose, gli apostoli annunciano, a me il Signore ha fatto una grazia: di essere l’annunciatore del Vangelo non ai giudei miei fratelli, ma alle genti, ai gentili. Questa è la grazia che Cristo mi ha dato e quindi di portare le genti all’obbedienza della fede.

Cosa vuol dire l’obbedienza della fede? Ad una capacità di ascolto, di accoglienza di questo nuovo annuncio che ha riempito il mondo con Cristo,  Figlio di Dio, morto e risorto, che accogliendolo, ecco qui, noi prestiamo la nostra obbedienza, il nostro sì non ai comandi di Dio, ma al comando di Dio che è l’amore, che è la solidarietà, che è la carità, essere figli della luce, saper vivere l’amore ai propri fratelli. Questo è il grande compito di Paolo: essere l’annunciatore. E così praticamente conclude il Cap. XV

Appunto per questo fui impedito due volte di venire da voi, ora però non trovando più un campo di azione in queste regioni, avendo già da parecchi anni un mio desiderio di venire da voi, spero di vedervi di passaggio, quando andrò in Spagna e di essere da voi aiutato a recarmi in quella regione.”

Poi Paolo vi racconto ormai il finale, qui poi la storia dice che Paolo, fino a poco tempo fa si credeva che Paolo fosse venuto una sola volta verso l’anno 60 qui a Roma, sia stato due anni anche qui in prigione ma poteva parlare a Roma e molti mettevano la morte nel 63 d. C. Quest’anno avendo fatto il centenario si mette che Paolo è nato nell’8 d. C. e sia morto forse verso il 67-68.

Qui dice voglio andare in Spagna, però non lo sappiamo se poi Paolo arriverà in Spagna, certo che lui arriva avendo mandato ai Romani questo grande bagaglio della teologia, dalla creazione alla storia dell’Antico Testamento che si realizza il Messia incarnato, Gesù nuovo Adamo, e qui c’è tutta l’umanità, questa visione, si era precipitata nel peccato con Adamo ed Eva, in Cristo, nuovo Adamo, l’umanità risorge. E’ il cammino che Paolo spiega dal cap. V fino a questi ultimi capitoli, in Cristo tutto viene fatto nuovo, tutto viene portato verso la sua evoluzione, verso il suo grande rinnovamento, verso la sua risurrezione, quando anche noi risorgeremo in Cristo e ci sono poi questi ultimi capitoli.

Il Cap. XVI è molto interessante anche se non lo ha scritto forse Paolo.  Guardate questo proprio secondo me è interessante:  prima di tutto ci sono tutti i collaboratori, saluto, saluto, saluto:

Vi raccomando Febe, nostra sorella, che è al servizio della  Chiesa di Cencre: accoglietela nel Signore, come si addice ai santi, e assistetela in qualunque cosa abbia bisogno, anch’essa infatti ha protetto molti e anche me stesso. Salutate Prisca e Aquila miei collaboratori in Cristo Gesù; essi per salvarmi la vita hanno rischiato la loro testa.

… Salutate il mio amatissimo Epeneto che è stato il primo a credere in Cristo nella provincia dell’Asia, salutate Maria, che ha faticato molto per voi. Salutate Andronico e Giunia, miei parenti e compagni di prigionia, sono insigni apostoli ed erano in Cristo già prima di me Salutate Ampliato che mi è stato molto caro nel Signore,  salutate Urbano nostro collaboratore in Cristo, il mio carissimo Stachi, salutate Apelle.”

Guardate la prima cosa da notare è questa: si è parlato molto se queste donne, questa Febe per esempio non siano state addirittura delle diaconesse, questo ordine che poi scomparirà nella chiesa cattolica, ma guardate come Paolo ha saputo usare nel suo apostolato il grande ministero delle donne.  Più e più volte le donne appaiono, quindi abbiamo proprio qui una pagina dei primi catechisti, coloro che assieme al grande apostolo che era Paolo nel mondo, in tutto il mondo, lo avevano aiutato ad annunciare il Vangelo.

Se uno ci pensa, ogni cristiano nella chiesa delle origini si sentiva incaricato di essere apostolo, di annunciare Gesù. E’ avvenuta qualche distorsione radicale che poi nei secoli è stato lasciato tutto al prete: terrificante quello che è avvenuto nella chiesa.  Solo il prete e anche voi pensate che è il prete che deve fare tutto… no, qui Paolo dice che c’è una comunità di catechisti, di uomini e di donne, mariti e moglie, che sono incaricati nelle grandi città dove era passato, a Corinto, Efeso, qui a Roma, dove era andato, aveva lasciato dei catechisti che continuavano la sua opera.

Guardate che il cristianesimo, è vero che è stato iniziato dagli apostoli, ma è stato continuato da queste comunità di catechisti: i primi cristiani si sentivano incaricati, non come noi che stiamo lì ad accettare tutto dagli altri, ma si sentivano incaricati di dovere loro stessi annunciare la parola di Dio.

E’ lì che si è formato un cristianesimo pieno di vita, pieno di luce, Barnaba e poi Marco e tutti i grandi, annunciavano Gesù Cristo. Vedete, ripetono le parole di Gesù, andate nel mondo e battezzate nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Ma non solo gli apostoli, era la comunità che era chiamata ad annunciare. Pensate oggi le nostre comunità sui nostri territori: già abbiamo le famiglie chiuse nella loro casa, e anche la chiesa, perché i nostri cristiani no, per carità, abbiamo paura di dire, abbiamo paura di testimoniare.

Guardate che la testimonianza non è fanatismo, non bisogna andare in giro con la croce, no, l’annuncio viene fatto nella parola, nella comunicazione, nel saper ascoltare i problemi degli altri, nel saper far capire che Gesù è la luce, Gesù è la speranza,  nella Scrittura tu hai tutto il conforto che stai cercando nella tua vita di sofferenza, alle volte di inquietudine.

Sapere che Gesù è la luce, che la Scrittura è la fonte della nostra speranza e questo non lo ha fatto solo Paolo ma in questo lungo elenco che Paolo fa è veramente un grandissimo esempio, un grandissimo stimolo per noi.

Non facciamo delle nostre parrocchie i luoghi dove andiamo a ricevere i sacramenti.  No, i sacramenti ti importano, ricevi il dono dello Spirito Santo, lo devi portare nella tua famiglia, presso i tuoi figli, presso i malati, nel tuo ufficio, senza forme di bigottismo, ma con grande semplicità e lealtà, sapere che qui facendo così noi annunciamo a questo mondo attuale un po’ di quella speranza di cui Paolo parla continuamente e di cui tutti sappiamo che c’è una grande necessità.

Come possiamo oggi far rivivere in noi  questo entusiasmo di Paolo? Come possiamo noi oggi far rivivere questa figura? C’è la possibilità? Possiamo noi vivere un po’ la passione di Paolo:  Paolo aveva questa grande passione di annunciare Gesù Cristo.

Ma state bene attenti, perché aveva questa passione di annunciare Gesù Cristo? Perché aveva capito che il disegno di Dio eterno, e questo dobbiamo leggerlo, la dossologia, l’inno di ringraziamento, guardate il disegno che Paolo conosceva dell’Antico Testamento, che gli ebrei attendevano da millenni, come Messia, il disegno eterno di Dio di salvare gli uomini, si è rivelato in Gesù, e allora Paolo dice :  Gesù mi ha scelto di essere apostolo, io brucio di dover annunciare a tutti che il mondo è salvato, è liberato da quelle potenze, i principati, che stavano sopra agli uomini e li mettevano in una grande condizione di sofferenza, ma Cristo ha portato a ciascuno di noi, personalmente, la certezza che Dio è nostro padre e che il nostro destino, il disegno della nostra vita non è quella di scomparire e basta, ma il disegno di Dio che Paolo vuol rivelare in Gesù Cristo è quello di essere partecipi della vita eterna. Questo è il grande disegno di Paolo.

Ma pensate cosa c’è di più bisognoso oggi al nostro uomo moderno, ai nostri ragazzi, ai nostri giovani, di far capire che non vivono una morte, la droga, adesso il bere, l’andare in giro con i motorini in un modo spaventoso quasi da suicidio, tutte le cose così gravi che ogni giorno sentiamo. Questo mondo ha bisogno di sentire questa comunicazione profonda, interiore, appassionata che questo Dio ci vuole bene e guardate come Paolo conclude la lettera.

“A colui che ha il potere di confermarmi nel mio  vangelo che annuncia Gesù Cristo, secondo la rivelazione del mistero avvolto nel silenzio per secoli eterni ma ora manifestato mediante le scritture dei profeti, per ordine dell’eterno Dio, annunciato a tutte le genti perché giungano all’obbedienza della fede, a Dio che solo è sapiente, per mezzo di Gesù Cristo la gloria nei secoli dei secoli. Amen.”

Allora fatevi questa domanda:  se Gesù non fosse venuto, se qualcuno non ci avesse annunciato Gesù Cristo, il mondo sarebbe più felice, noi saremmo più felici?  Questa è una grande domanda. Perché Dio ha voluto, io lo dico sempre, ma Dio poteva benissimo andare avanti con il Dio dell’Antico Testamento, con Jahvè, ma come mai gli è venuto il pallino di mandare Gesù, suo Figlio?

Perché in Gesù suo Figlio, l’amore che non ha segreto in Dio, mistero nel silenzio dell’eternità, ad un certo momento si fosse rivelato.

Allora la domanda che dovete portare a casa questa sera nel vostro cuore: ecco se Gesù non c’era io sarei più felice, la mia famiglia, che speranza, che gioia, che prospettive darei ai miei figli e alla mia famiglia, non è allora così grande la gloria, questa gloria di Dio che si è rivelata in Gesù che è risorto e che Paolo ha voluto comunicarci?  Non è forse questa stata la grande passione di Paolo? Perché Paolo amava Gesù Cristo ma da quello che ha scritto amava ancora di più l’umanità si può dire, perché è per l’umanità che si è messo a fare  tre viaggi allora, in mille difficoltà, minacce di morte, di pestilenze, ha voluto che questa umanità, questi uomini sentissero sulla loro pelle l’amore di Dio.

Allora stasera nell’andare a casa davvero chiedetevi:

  • cosa devo fare per sentire più profondo in me l’amore che Paolo ha portato nel mondo?

  • Come faccio a comunicare nella mia vita, nella mia famiglia  questo amore verso Gesù Cristo che mi ha dato tutto, che mi ha aperto il destino della vita eterna?

  • Non sarò da questa sera più forte, più sereno, perché sento che c’è qualcuno che mi accompagna in ogni momento, la speranza che è in Gesù Cristo e che ci è stata donata?

Domanda

Lei prima ha accennato che all’origine, parlava dei catechisti delle catechiste, poi ha detto nei secoli le donne sono scomparse … poi ha concluso che oggi c’è tanto bisogno di parlare di nuovo di solidarietà verso il prossimo. Come si fa a sbloccare la situazione e a tornare  … Come ritornare un po’ alle origini?

Risposta

Io ho un mio concetto che non vi voglio dire perché vi scandalizzo. Ma vedete il problema di tutti i grandi messaggi:  quando il messaggio si traduce in religione perde il 70%.  Avete capito questo concetto?

Madre Teresa di Calcutta, Don Orione, San Camillo de Lellis, fuochi di amore per il prossimo… Quanto tempo dura?  I loro confratelli, le loro consorelle, devono cominciare a pensare alla casa, all’istituzione e si perde il carisma.  Quando – questo purtroppo credo che sia una condizione dell’uomo – quando noi trasformiamo il messaggio primitivo in regola e in legge, in religione, lì incomincia ed è per quello che già nel 200 d. C. Sant’Ireneo diceva “ecclesia sancta et amen semper reformata”. Nella chiesa, corpo di Cristo come abbiamo visto, ognuno ha le sue missioni, la chiesa è santa e tuttavia pensate eravamo ancora all’inizio del cristianesimo, la chiesa deve continuamente rinnovarsi… il Concilio Vaticano II voleva rinnovare la chiesa e bisogna cominciare sempre da capo perché gli uomini sono portati a cadere, sono portati alla stanchezza, a mancanza di entusiasmo, l’uomo fondamentalmente è tradizionalista e non vuole impegnare… questo per me è il grande problema, se troveremo un grande papa, un nuovo papa Giovanni che ci darà questo impulso, speriamo che i nostri figli possano vedere questo rinnovamento della chiesa.

Domanda

Penso che bisogna in qualche modo ritrovare il senso anche della Messa, perché la Messa è il centro della spiritualità. Molto spesso assisto, vedo gente distratta, gente che parla, gente che pensa a tutt’altro quando lì presente c’è Gesù Cristo, vivo e vero, che ci guarda, che ci osserva, che vuole parlare ai nostri cuori. Noi penso che abbiamo perso questo senso. Mi ha fatto molto riflettere una frase che ha detto Don Francesco: quando si alza l’ostia consacrata tutti dovremmo essere in ginocchio perché è Gesù che si innalza e noi stiamo in ginocchio.  Dobbiamo riscoprire questo senso di lode, … essere veramente una comunità tutta assorta a lodare Dio dall’inizio alla fine, dall’ascolto della parola alla fine.  Questo penso che si è perso nella chiesa, non capendo neanche quale sia il senso della messa, cosa succede nella messa, chi è presente nella messa.

Risposta

Mi diceva ieri una persona ucraina che suo marito, bravissimo, un ragazzo d’oro, lei molto religiosa, sta qui presso una persona malata, il marito è là con una figlia che adesso ha 18 anni, lei mantiene il marito che sta sempre molto male, gli ho chiesto  ma tuo marito ci va in chiesa, visto che sei così religiosa?  Dice: da noi la Messe durano quattro ore, incominciano alle nove e finiscono all’una!!!  Adesso io sto in questa chiesa in Trastevere, sapete che persone più autenticamente pie sono ragazze ucraine che studiano al biblico, e non perdono una Messa, con le bambine piccoline, le uniche in tutto il quartiere. Trovo una fede in queste ragazze ucraine e donne e uomini rumeni, straordinaria, perché loro hanno, mi diceva questa ragazza, noi siamo uscite da una situazione, i nostri genitori erano atei, per noi la fede è una cosa di grande gioia e di grande pace.

Domanda

Vorrei fare una domanda sulla comunicazione, sul fatto che il prete è ormai isolato rispetto agli altri che ormai non comunicano più il cristianesimo.  Una delle colpe secondo me viene proprio dalla chiesa, cioè la comunicazione che negli anni la chiesa ha fatto, ha posto un muro tra il credente e il modo in cui la chiesa si pone verso il credente. E vorrei fare una domanda, però prima voglio dire il mio pensiero: il cristianesimo ha una novità rispetto alle altre religioni, che il cristianesimo è Cristo, su questo non ci sono dubbi, però la percezione della comunicazione che arriva a tutti è che il cristianesimo sia l’etica.

Se io faccio una domanda, su dieci persone penso che cinque mi rispondono che il cristianesimo è un’etica, perché così è percepita.  Questo è il problema fondamentale oggi, i messaggi che arrivano quello che arriva alla massa, vanno sempre in questa direzione.  A me sinceramente non stupisce il fatto che ci sia idolatria, perché se ci guardiamo intorno anche la chiesa compie idolatria. Negli ultimi dieci anni le manifestazioni più importanti sono state le beatificazioni e le santificazioni.  Quindi noi la colpa noi giovani la riversiamo verso il prete tra virgolette perché è lui comunque che ormai è isolato, il mondo lo ha isolato.

Risposta

A queste domande aveva risposto bene il Concilio Vaticano II.  Il Concilio Vaticano II che io ho vissuto tutto nella mia giovinezza qui a Roma quando studiavo alla Gregoriana, dal ’61-’62, il Concilio Vaticano II, ideato da Papa Giovanni e Papa Paolo VI, aveva questa idea:

  • la chiesa deve parlare con il mondo;

  • la chiesa deve parlare con gli uomini, gli operai, allora era molto forte l’idea degli operai, l’America Latina, tutti i grandi temi dell’Africa, dell’Asia, la chiesa deve parlare agli uomini.

Tenere viva questa passione è molto arduo. Io l’ho provato sulla mia pelle quando facevo il parroco, dopo i primi dieci anni di vice parroco, sono stato quindici anni a Labaro a fare il parroco, io che arrivavo fresco di teologia. La gente è conservatrice, le processioni, la gente vuole questo.

Allora la grande tensione del Concilio a poco a poco si è frenata, perché occorre una grande passione per tenere alto un grande, ed è subentrato, allora noi eravamo tutti per gli uomini, io insegnavo, facevo il parroco al Labaro e insegnavo a un liceo dei Parioli quindi avevo in mano le due immagini… Poi ci sono state le famose lotte del ’78. Cosa è successo con i cambiamenti dei papi?

Che la chiesa ha fatto quello che dici tu: ha avuto paura del mondo, e si è ritirata. Quello che io sento oggi non è più una chiesa che va verso il mondo, anzi è una chiesa, ecco lì l’etica, che ha posto dei paletti:  tu entri soltanto se la pensi come me. Allora ci sono degli atei che entrano perché la pensano come loro, ma questa propulsione verso il mondo… Tu pensa per noi preti, per me cosa è stato dover accettare queste nuove condizioni.

Infatti io dico, adesso sto scrivendo un libro sui sacramenti e in più punti dico che la chiesa del futuro se va avanti così fra venti anni si troverà con le chiese piene, perché ricordati che la  gente con le devozioni va in chiesa, se gli parli di Gesù Cristo che fa fatica, se gli parli della Bibbia che ha problemi.

E’ sorta una tale forma di devozionalismo che non so che cosa trasmetterà alle nuove generazioni: ai tuoi figli che gli dirai di Santa Rita? Ma no bisogna parlargli di Gesù Cristo, come ha fatto Paolo, Paolo ci trasmette la passione di Gesù, poi viene anche Santa Rita.

Ma se noi non accettiamo la passione che ha avuto Gesù, avendo amato i suoi li amò fino alla fine, se non viviamo la passione di Gesù, la passione di Paolo, la passione di Francesco, di Madre Teresa, è chiaro che poi il mondo è quello che dici tu e secondo me la Chiesa qui dovrà fare una grande riflessione anche sul sacerdozio, non ci sono più preti.

I più scalmanati vanno a farsi preti, sono quattro o cinque scalmanati in tutta Roma all’anno, scalmanati che non hanno niente da fare, non sanno come sbarcare il lunario del loro futuro, ma l’entusiasmo, la gioia dov’è.  Questo è un grandissimo problema. Spero che la chiesa, – questo papa, a me piacciono molto i suoi discorsi,-  ma il papa dovrebbe stare tranquillamente tre mesi in Africa, tre mesi in Asia e tre mesi in America Latina poi a fare le vacanze viene qui a Castel Gandolfo e poi basta.  E’ vero che oggi abbiamo i mezzi di comunicazione, ma internet non ti comunica la passione, ti comunica la lettera, è questo il grande problema. La parola nella chiesa non può venire meno, non può venire solo dalla lettera scritta, ma la lettera scritta deve essere una lettera infuocata, che trovi delle persone che l’annuncino e questo è secondo me il grande problema che stiamo vivendo.



Sito gestito dalla Parrocchia Santa Melania.

PARLIAMO D’AMORE MA NON SAPPIAMO AMARE – Angelo Nocent

  

  

PARLIAMO D’AMORE  

  

MA... 

  

NON SAPPIAMO AMARE 

  

In un giorno di sole fra i tanti piovosi di Aprile, mi è capitato di buttar giù su un pezzo di carta due considerazoni sull’amore, il tema più ricorrente sul web, dove non si fa che parlare d’amore, in tutte le salse possibili ed immaginabili.

Pensavo anche di metterle in rete ma, per una cosa o per l’altra, il pezzo di carta è rimasto lì, seppellito in mezzo a tanti altri appunti, in attesa di risurrezione.

Finalmente il giorno è arrivato. Per dire cose risapute. O forse no.

  • Dicevo che l’amore è trattato in tutte le salse, espresso in tutte le lingue, dipinto con tutte le tinte, da quelle morbide a pastello,  alle infuocate, sgargianti e travolgenti…

  •  L’amore è espresso con parole povere, con immagini calde, con folgorante espressività poetica. 

  • L’amore è… L’amore fa…L’amore dovrebbe…L’amore sarà…

Diciamocelo chiaro: PARLARE D’AMORE NON SIGNIFICA AMARE.

Qualcuno ha scritto che l’amore è come il mal di denti: non lo si può nascondere a lungo. E, per esperienza, lo sappiamo bene: agli innamorati glielo si legge in faccia.

Il vegliardo San Giovanni evangelista, al quale l’argomento era molto caro per averci riflettuto a lungo durante i suoi novant’anni di esistenza, con una lettera alla sua comunità ha detto in poche righe la cosa più strepitosa che mai sia stata scritta: “DIO E’ AMORE E CHI VIVE NELL’AMORE VIVE IN DIO E DIO IN LUI” (1 Giov 4, 7-16 ss).

Converrete che una simile affermazione non può essere il risultato di un’ intuizione umana ma soltanto una Parola di Rivelazione: Dio si è S-VELATO.

Invito a leggere per intero la lettera dell’apostolo, se davvero si desidera essere sbalorditi dal profeta di Dio. E’ nel suo vangelo che troviamo riportato il pensiero sintetico di Gesù sull’amore: “In questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avrete amore gl’uni per gli altri” (Gv 13,35).

Il problema, dunque, che si pone a tutti noi, fontane inesauribili che parlano d’amore, è se amiamo davvero. E’ ancora Giovanni a dire: “«Come fai ad amare Dio che non vedi, se non ami prima il tuo prossimo che vedi?» (cfr. 1 Gv 4, 20). Interrogativo imbarazzante. E’ come un test di gravidanza: O SI’ O NO. Altalenarsi sul forse che sì, forse che no è lo sport molto in voga. Mio Dio! Come cristiano, in fatto di coerenza evangelica, la mia barca fa acqua da tutte le parti.

Gesù è tanto bello, buono e piace alle donne e agli uomini. Ma noi cristiani, suoi discepoli affasciniamo molto ma molto meno, perché lasciamo a desiderare proprio su questo aspetto.

L’antica comunità cristiana ce lo ha dimostrato in modo esemplare. Perciò i pagani potevano dire con ammirazione dei cristiani: “Guardate come si amano l’un l’altro!” (Tertullianus: PL 1, 471).

Se amo solo “sopranaturalmente”, è molto probabile che non ami affatto. Tutta la storia della Chiesa è fatta di alti e bassi. Ogni generazione l’avrebbe voluta diversa. Le inadempienze accertate nelle nostre comunità ecclesiali giustamente ci bruciano quando adiritura non ci scandalizzano. Dobbiamo concludere che l’ecclesiologia è inadeguata? E’ quanto in ogni epoca si va dicendo. Ma non è mutando l’ecclesiologia che si arriva all’amore.

L’amore cristiano è scarso perché è difficile AMARE. Oggi come ieri. E non ci sono formule che lo possano incrementare. La Chiesa ha sempre tentato di amare. Ma il vero problema sono IO, suo membro, sei TU, siamo NOI, perenni obiettori ma…inconcludenti.

Il nostro di cristiani è forse un’amore molto “rituale”, molto facile e poco impegnativo. Un continuo invitare gli altri alla coerenza e alla carità: il prete lo dice a me dal pulpito, io lo ripeto sul web per dirlo a te che lo ripeti per dirlo a un terzo che lo ripete per dirlo a me che lo ridico alla Chiesa che me lo rimanda dal pulpito…

Un circolo vizioso, se la verifica della mia effettiva capacità di amare non è riscontrabile nel quotidiano. Perché PARLARE D’AMORE NON SIGNIFICA AMARE.

Le IDEE: che meraviglia! Sono sempre belle, pulite, affascinanti. Ma, come mai i FATTI risultano troppo spesso grigi, manchevoli, sbilenchi?

Non so se è capitato anche a voi: qualche volta ho provato a confrontare le mie idee con i fatti degli altri. Ebbene; ho sempre vinto io. Come quando uno arriva primo perché corre da solo. In fatto di premi non so come stiate voi. Io ne ho una collezione da fare invidia. Ma cè un però…! Me li sono attribuiti tutti da solo.

VEDI COMMENTI:

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L A   C A R I T À

Carlo Maria Martini

“…Siamo giunti alla nostra ultima conversazione, l’ultima pennellata tra quelle con cui abbiamo cercato di delineare un poco l’immagine dell’uomo nuovo in Cristo, l’immagine del vero uomo secondo la Rivelazione.
Un’ultima pennellata molto importante, perché dobbiamo riflettere su quella virtù che, come scrive san Paolo, “non avrà mai fine”, che è “più grande di tutte le altre”: la carità.

Ma che cosa significa che l’uomo è fatto per amare?
Ci vengono subito in mente tutte le non comprensioni della parola ‘amore’, le tante forme di gelosia, di possesso dell’altro, che sono modi sbagliati di amare e anche le vere e proprie depravazioni dell’amore.
La domanda che vogliamo porci in proposito è allora la seguente:
- Che rapporto c’è tra le diverse esperienze di amore umano – positive e negative – e la carità, l’amore cristiano?
- Che cos’è, in realtà, l’amore cristiano? 

* L’amore di Dio per noi. Oltre al testo di Giovanni 15, ricordo altri due riferimenti:
- “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3, 16);
- “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi” (1Gv 4, 9). 

* L’amore di noi per Dio. A chi gli domandava qual è il primo di tutti i comandamenti, Gesù rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza” (Mc 12, 30). 

* L’amore di ciascuno di noi per il prossimo. Continua Gesù:
- “E il secondo comandamento è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Me 12, 31).
- Ma, in Giovanni 15, aggiunge: “Come io vi ho amati”.
- E, addirittura, ci chiede di “amare i nostri nemici” (Le 6, 27). 

3. Le tre forme della carità sono una sola realtà 

Queste tre forme della carità che spesso, magari per necessità di discorso, consideriamo un po’ separatamente una dall’altra, sono in realtà strettamente collegate; ed è proprio tale unità che caratterizza l’amore nel senso cristiano.

Non ci può essere amore cristiano del prossimo senza l’amore preveniente di Dio, in Gesù, per noi. Se Dio ci ha amato per primo, a lui va come risposta il nostro amore.
D’altra parte, non c’è amore autentico per il Signore se non c’è amore per il prossimo. Riferendoci a quanto abbiamo detto nelle due ultime conversazioni, possiamo dire: non c’è fede, non c’è speranza se non c’è carità; e tuttavia la carità non supplisce alla mancanza di fede e di speranza.

 

4. Amore cristiano e amore umano 

Veniamo dunque alla domanda iniziale: quale rapporto esiste tra l’amore cristiano nelle tre forme espresse (di Dio per noi, di noi per Dio, del nostro amore reciproco) e l’esperienza ordinaria delle diverse forme di amore umano che noi conosciamo ed esaltiamo?
Per esempio, quando si parla di amore umano, viene in mente, come modello da esaltare, quello della madre per il figlio, un amore che raggiunge non di rado forme eroiche: un amore incondizionato, che tutto perdona, “tutto copre, tutto spera, tutto crede, tutto sopporta” , per usare i termini con cui san Paolo parla della carità (1Cor 13, 7).
Abbiamo anche esempi straordinari di amore paterno, del padre per il figlio.

Un’altra esperienza umana straordinaria è quella dell’amore dello sposo per la sposa, della sposa per lo sposo: l’amore sponsale, coniugale, quello a cui intendiamo di solito riferirci quando usiamo la parola ‘amore’ senza aggettivi.

E poi conosciamo l’amore tra fratelli di sangue; l’amore di amicizia; le diverse forme di amore filantropico di cui, grazie a Dio, è piena la storia umana, anche al di fuori del cristianesimo e di ogni altra religione, perché si tratta di qualcosa che è insito nel cuore dell’uomo, connesso con il cuore umano.

Rispondere alla domanda, che continua a ricorrere nella storia della teologia e della riflessione filosofica, sul rapporto tra amore cristiano e amore in generale, è importante anche per aiutarci a distinguere tra le forme vere e le mistificazioni dell’amore umano, che sono moltissime.
Se ci guardiamo attorno, vediamo subito le contraffazioni che vengono fatte passare per amore anche nei mass media, nei romanzi, nelle telenovelas.

 

Cercherò di dare una risposta duplice.

 

* In parte, possiamo dire che tutte le forme positive dell’amore umano assomigliano a quanto noi esprimiamo con il termine ‘carità’, nel senso di amore verso il prossimo; quindi la carità come dono di Dio, come virtù, la carità come atteggiamento teologico entra di fatto nelle diverse forme dell’amore umano autentico per vivificarle.
Anzi, l’amore che nasce da Dio in Gesù Cristo, che nasce dalla contemplazione
del Crocifisso ed è messo nel nostro cuore dallo Spirito santo, riempie di sé tutti i comportamenti positivi dell’uomo: la fede, la speranza, la prudenza, la giustizia, la fortezza, la temperanza, l’onestà, la sollecitudine verso gli altri, la pazienza, l’equilibrio degli affetti, la diligenza.

La carità, cioè, ha a che fare non solo con tutte le esperienze di amore umano, bensì anche con ogni espressione positiva e autentica dell’essere dell’uomo e della donna.

 

* In parte, però, la carità si distingue dalle esperienze comuni, storiche, fenomenologiche, dell’amore tra gli uomini, perché è grazia, è dono dall’alto, scaturisce dalla fede e supera le connessioni umane, in particolare nel caso dell’amore per il nemico, del perdono gratuito.
Per amare i nemici, per perdonare gratuitamente occorre qualcosa di più grande, che nasce solo dalla croce di Cristo.
Dunque, l’amore divino corregge anche e smaschera tutte le deviazioni dell’amore umano, che contrabbandano egoismo e ricerca chiusa di se stessi. 

La carità, cioè, ha a che fare non solo con tutte le esperienze di amore umano, bensì anche con ogni espressione positiva e autentica dell’essere dell’uomo e della donna.

 

* In parte, però, la carità si distingue dalle esperienze comuni, storiche, fenomenologiche, dell’amore tra gli uomini, perché è grazia, è dono dall’alto, scaturisce dalla fede e supera le connessioni umane, in particolare nel caso dell’amore per il nemico, del perdono gratuito.
Per amare i nemici, per perdonare gratuitamente occorre qualcosa di più grande, che nasce solo dalla croce di Cristo.
Dunque, l’amore divino corregge anche e smaschera tutte le deviazioni dell’amore umano, che contrabbandano egoismo e ricerca chiusa di se stessi. 

5. Dove si esercita e da dove nasce la carità

 

* La carità cristiana si esercita nelle cose più semplici.
Non dobbiamo aspettare né le grandi occasioni né i grandi sentimenti, come se la carità fosse una specie di apparizione divina nell’anima.
Essa è in noi, invisibile, e ogni piccola circostanza è buona per esercitarla.

Concretamente, possiamo fare semplici atti di amore di Dio, di amore per Gesù:

- “O Gesù, voglio amarti sempre di più”;
- “Padre ti offro il mio cuore, il mio amore”;
- “Spirito santo, vieni in me e accresci il mio amore”.

In questo modo esercitiamo la carità soprannaturale, divina.

 

E poi ci sono gli atti di amore del prossimo:
- un sorriso gratuito, un gesto di comprensione, di pazienza, di benevolenza:
- la carità è eccelsa per se stessa e rende sublimi le cose più piccole, più semplici. 
* La carità, lo ripetiamo, nasce da Dio e va domandata anzitutto a Dio come dono: “Mio Dio, ti amo con tutto il cuore sopra ogni cosa, perché sei Bene infinito e nostra eterna felicità; e per amor tuo amo il prossimo come me stesso, e perdono le offese ricevute. Signore, che io ti ami sempre più”.

- La carità nasce dalla fede, dalla proclamazione dell’amore di Dio per noi;
- e la fede, a sua volta, nasce dalla parola di Dio, che la coltiva e l’accresce.

È un mezzo meraviglioso e importantissimo leggere e meditare i libri della Scrittura, leggere e meditare i Vangeli, capire il grande amore che Gesù ci ha mostrato nella sua vita, passione e morte.

La carità in noi si dilata nella misura in cui comprendiamo come Gesù ci ha amato e ci ama, come Gesù ha amato e ha trattato i piccoli, i poveri, i lebbrosi, i malati, le persone moleste, lontane, i nemici.”

 

Non appena si menziona questa parola – carità, amore – si entra in un oceano nel quale è più facile annegare che dirne qualcosa. L’uomo, infatti, è creato per amare e noi viviamo soltanto se “bruciamo”:

“Amore è il Nome non familiare
di Chi con le sue mani tessè
l’intollerabile camicia di fuoco
che forza umana non può levare.
E noi viviamo, noi respiriamo
soltanto se bruciamo e bruciamo” (T. S. Eliot).

  

Tento di rispondere attraverso cinque riflessioni progressive. 

1. L’annuncio dell’amore di Dio in Gesù Cristo

Solo l’annuncio dell’amore di Dio in Gesù Cristo è il fondamento di una concezione cristiana dell’amore.
Quindi, il fondamento di tutto ciò che si dice sull’amore cristiano è l’annuncio dell’amore che è in Dio stesso (la Trinità) e che è in Gesù Cristo (l’Incarnazione). “Come il Padre ha amato me” (l’amore tra il Padre e il Figlio) “così io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. E questo èil mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati” (Gv 15, 9-12).

In questo testo contempliamo anzitutto l’amore nella Trinità, l’amore del Padre per il Figlio, amore che è la persona dello Spirito santo. E poi l’amore del Figlio per noi, a cui risponde l’amore nostro al Figlio (“rimanete nel mio amore”); da qui l’amore con il quale ci amiamo gli uni gli altri. Tutto però parte dall’amore di Dio espresso in Gesù Cristo.
È la prima affermazione fondamentale: non è possibile parlare di amore cristiano senza fare riferimento all’amore con cui Dio Padre ci ama in Gesù, nel dono dello Spirito.

 

2. Le tre forme concrete della carità

Sono dunque tre le forme concrete della carità, per quanto ci riguarda, o i tre significati della parola ‘carità’: l’amore di Dio per noi; l’amore di noi per Dio; l’amore di ciascuno di noi per il prossimo. 

LA TENEREZZA DI DIO NELLA BIBBIA – Don Enrico Ghezzi

La tenerezza di Dio

nella Bibbia

Cari amici, ho appena ricevuto un bel regalo dall’amico DON ENRICO GHEZZI che vive a Roma – chiesa di Santa Maria dell’Orto -  e desidero rendervi partecipi, affinché ne facciate dono anche ad altri. Dell’argomento, proprio perché non se ne parla sovente, abbiamo tutti più bisogno che del pane.

Dio non si accontenta di irradiare, tramite la santità delle anime, l’influsso creatore, emanato dalla sua Potenza - direbbe Teilhard Du Chardin – Discende altresì IN PERSONA  nella sua opera per cementarne l’unificazione. Lo ha detto Lui stesso e non un altro.

Man mano che le passioni dell’anima si concentrano su di Lui, Egli le invade, le compenetra, le introduce nella sua irresistibile semplicità. Tra coloro che si amano di carità, Egli appare, nasce, in qualche maniera , quale il legame sostanziale del loro affetto” (in La vita cosmica).

Cos’è  la ‘tenerezza’ se non un sentimento profondo col quale vogliamo comunicare l’intensità e la delicatezza del nostro amore verso le altre persone? Come dirà poi il termine ebraico rahamim la tenerezza esprime “l’attaccamento istintivo di un essere ad un altro. Questo sentimento,  secondo i semiti, ha sede nel seno materno” ( Dizionario di Teologia Biblica, Marietti, Torino). 

Per questo, la tenerezza, oltre ai sentimenti, include anche delicate e intense espressioni del corpo, come le carezze, gli abbracci, i baci, che conducono al contatto fisico dei corpi: pensiamo all’importanza di questi segni affettuosi verso i bambini o i propri figli: la mancanza di questi gesti spesso possono causare dolorose carenze  affettive capaci di portare turbamenti nel nostro equilibrio anche di adulti.

Pensiamo all’attrazione dei corpi nell’amore, alla importanza dei gesti di tenerezza nella vita quotidiana del matrimonio, o al significato tenerissimo del darsi la mano fra due ragazzi o fra due coniugi  anziani, o al gesto delicatissimo del medico e dell’infermiere verso il nostro corpo malato.

Potremmo allora dire che la ‘tenerezza’ resta una componente emotiva e carnale sullo sfondo di tutta la nostra vita e che si manifesta nei segni della corporalità e della sua fisicità.

Quante sofferenze, incomprensioni, violenze o delitti potremmo risparmiare all’umanità, quando ci fosse una bella e gioiosa educazione alla tenerezza! 

Nella Bibbia c’è, dalla creazione nel libro della genesi fino ai vangeli, una costante attenzione degli autori a esprimere, con parole e gesti,  l’atteggiamento tenero e affettuoso di Dio e di Gesù.

Possiamo rileggere con emozione, nel cap. secondo della genesi, il testo più arcaico, dell’autore jahvista, quando Dio ha pensato alla creazione dell’uomo e della donna. 

E’ un concentrato di ‘tenerezza divina’ unita alla creatività dell’autore sacro.

Dopo il testo elohista del capitolo primo, dove Dio  crea l’uomo ‘a sua immagine e somiglianza’ (Gen.1,26),  dove si notano già forme di una  altissima teologia, ora in Gen. 2, in  un linguaggio che ricorda miti antichissimi, l’autore ci pone di fronte a un racconto ‘colorito e popolare’ (Bibbia di Gerusalemme), dove  Dio, secondo la mentalità ebraica, appare come un padre, un Dio assolutamente vicino e concreto che sta all’origine della storia umana.

Dio ‘plasma’ l’uomo ‘con la terra ’ e gli dà il ‘soffio’ vitale che lo fa esistere (Gen.2,7), lo pone, felice,  nel ‘giardino’ che è l’eden’.

Ma poi Dio, dopo aver creato il nostro padre Adamo, accorgendosi della sua solitudine e per non lasciarlo ‘solo’(v.18), lo fa ‘appisolare’ (v.21), e, mentre dorme, gli ‘tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore formò con la costola, che aveva tolto all’uomo, una donna e la condusse all’uomo’ v.22).

Nasce così  la nostra madre Eva, da ‘corpo a corpo’ diremmo noi oggi, quasi un anticipo del processo di trapianto! Un racconto di sapore primitivo e mitico che  anche per noi resta fantastico. 

Finalmente così, il buon Adamo, (quasi non gli bastasse l’amicizia con Dio), trovatosi improvvisamente di fronte alla donna, esclamerà:

“Questa volta è osso delle mie ossa,

carne della mia carne.

La si chiamerà  donna,

perché  dall’uomo è stata tolta”(v.23).

Questa è  la ‘radice’, io penso, di quel sentimento di ‘tenerezza’ che accompagna l’uomo e la donna per tutta la storia dell’umanità: un ‘sentimento’ carnale, che fin dalla sua origine è posto come evento intercorporale: per questo gli ebrei spiegheranno anche la natura del matrimonio come progetto indissolubile.

Ma Dio, mi sembra, si mostra ancora più tenero allorchè i nostri poveri progenitori, mangiato il ‘frutto’ di quel benedetto  ‘albero’ da cui non dovevano mangiare, a quel punto ‘conobbero di essere nudi’ (v.7) e al ritorno del Signore, andarono a nascondersi ‘in mezzo agli alberi del giardino’ (v.8).

A quel punto, il Signore venuto a passeggiare nel giardino, prima li chiama, poi li rimprovera, maledice il serpente da cui era nata la tentazione a mangiare il frutto della conoscenza, e decide di allontanarli dall’eden, il giardino della felicità paradisiaca (vv.14-19).

Tutto avviene in così poco tempo, che forse i nostri progenitori non avevano fatto in tempo a capire fino in fondo,  il disastro che avevano procurato a se stessi e a tutta la stirpe umana!

Tuttavia, l’evento dell’uscita dal paradiso per entrare nel mondo dell’umanità (come ha ben descritto Michelangelo nella Cappella Sistina), è accompagnato da un gesto tenero e dolcissimo da parte di Dio: dopo aver accolto l’istigazione del serpente, i nostri progenitori, purtroppo, sentirono la loro ‘nudità’ e, seguendo il principio del ‘pudore’ che in questo momento stava nascendo, cercavano di coprirsi, usando le ‘frasche’ prese in quel bellissimo giardino dove fino allora avevano potuto vivere.

Il Signore però, accortosi in qualche modo, di questo nuovo elemento nella vita delle sue due creature che era il ‘pudore’, non li lascia uscire ‘nudi’: ma, come avrebbe fatto in seguito ogni brava   mamma, il Signore – racconta il capitolo secondo della genesi- < li rivestì con tuniche di pelli>    (v.21).

Sembra proprio che Dio non voglia abbandonare al destino Adamo ed Eva: il Signore, li crea e li riveste per non andare nudi nel mondo: l’autore sacro incomincia così a descrivere il Signore, come poi gli ebrei sperimenteranno nella loro storia, con gesti di amore e di tenerezza assoluti.

Da questo inizio della Bibbia, si comprenderà  l’atteggiamento di Dio espresso in seguito nei vari libri.

I profeti, i salmi, la Sapienza, gli stessi libri storici, non faranno che proclamare la bontà e la tenerezza di Dio.

Voglio soltanto ricordare, prima di una analisi più dettagliata, il salmo 103(102) e il salmo 145 (144).

Il salmo103,13: <Come è tenero il padre verso i suoi figli.

                          così il Signore è tenero verso quelli che lo temono>.

Qui il ‘timore’ non è altro che l’amore che risponde alle tenerezze di Dio, come fa un bambino verso le carezze del padre. Nella tenerezza del padre verso il corpo del figlio, sta l’immagine della tenerezza di Dio verso la nostra carne e il nostro corpo.       

Così  questa tenerezza riempie l’universo delle creature:

il salmo 145,9:  <Buono è il Signore verso tutti,

                          la sua tenerezza si espande su tutte le creature>. 

Io penso che nella misura con cui noi, nella vita, possiamo usufruire e godere di una tenerezza umana e incarnata, così possiamo lasciarci attrarre dalla tenerezza di Dio, dal momento che la ‘tenerezza’ ha in se stessa una radice di affetto corporale. 

MOTIVO DI QUESTE RIFLESSIONI

Sono stato invitato da una brava signora (Rossana) del volontariato dell’ospedale dell’Isola Tiberina, dei Fatebenefratelli,  a fare una riflessione ‘sulla tenerezza di Dio’ nella Bibbia.

Dobbiamo subito constatare che questo ‘sentimento’ di Dio, ci è spesso lontano, e Dio ci appare come una esistenza astratta, assente dal groviglio quotidiano del nostro operare, amare o soffrire. Potremmo a volte dire a noi stessi: <‘Dio non c’è’, o, se c’è, è lontano dai miei problemi; ci è difficile pensare che Dio è ‘assieme’ esistenza e tenerezza, o anche coniugare ‘amore di Dio’ e ‘sofferenza’ >.

Eppure l’esperienza del pio israelita nell’AT, i profeti, i giusti, o uomini e donne come Francesco, Teresa del Bambino Gesù, Teresa di Calcutta ecc., hanno saputo sperimentare assieme

  • ‘fiducia e sofferenza’ (Giobbe),

  • ‘letizia e sequela  a Gesù in povertà’,

  • ‘passione per il vangelo e croce’,

come Paolo, e tanti missionari del vangelo, tante mamme e papà che abbiamo incontrato nel cammino della nostra esperienza. Nella nostra natura ‘creaturale’ non si dà opposizione tra ‘tenerezza di Dio’ e  la nostra ‘sofferenza’ o la nostra ‘croce’: se mai, io penso, dobbiamo trovare la strada interiore e feconda dove, anche  nel mio corpo dolorante o morente, o nel mio cuore gravato da dolori  di grandi tragedie, è ancora Dio che viene a ‘rivestirmi’ con le ‘vesti’ del suo amore e della sua dolcezza. 

Così, come il Signore si rivela nell’AT, e poi Gesù nei vangeli, la storia dell’uomo biblico è sempre accompagnata dall’amore, dalla tenerezza e dall’affetto di Dio per noi. D’altra parte, da sempre il Signore conosce il nostro cuore, le possibilità del nostro esistere e delle nostre azioni, e sa che la nostra esperienza di lui, può avvenire soltanto in una capacità di sentire e provare la sua tenerezza, di sentire in noi la gioia del suo godimento. 
 

ANTICO TESTAMENTO

Ora, uno studio biblico sulla ‘tenerezza’ ci può aiutare a scoprire e ad attingere dalla Scrittura una forza di consolazione che ci aiuti nel cammino della nostra vita.

E’ una riflessione che presento con estrema umiltà, avendo sempre cercato nei lunghi anni della mia vita sacerdotale, di unire e comporre assieme la parola di Dio e la vita concreta che ognuno di noi è chiamato a vivere.

Dobbiamo subito constatare che nell’AT la ‘tenerezza-tenero’ si coniuga quasi sempre con l’altra espressione per descrivere l’agire di Dio con le parole ‘misericordia-buono’.

Nell’ebraico ‘tenerezza’ traduce la parola ‘rahamim’ = le ‘viscere’ un plurale di intensità di

rehem = ‘ventre materno’: quindi la ‘tenerezza’,  secondo i semiti,  ha origine nel ‘seno materno’ e indica l’atteggiamento delle donne verso il frutto della propria carne;  noi oggi tradurremmo l’espressione ebraica con ‘cuore’: la tenerezza della madre verso la sua creatura, l’amore del padre.

Perciò  il termine ‘rahamin’  indica < l’attaccamento istintivo di un essere verso un altro >  (Diz. di Teologia Biblica, Marietti).

Questo ‘amore viscerale’ dall’immagine della donna o del padre verso il figlio, è l’immagine dell’amore-tenerezza di Dio verso il popolo di Israele e poi di Gesù verso l’umanità intera.

Insomma, nella Scrittura, il temine che più ci è comprensibile e reso quasi fisicamente sensibile, quando parliamo di ‘amore di Dio’ dovremmo sempre partire da questa idea di tenerezza con cui  Dio si è voluto esprimere. 

Prima di passare ai testi, voglio indicare un altro termine per esprimere ‘tenerezza-misericordia’, per cui Dio ‘tenero-buono-misericordioso’, nella Scrittura diventa il ‘Dio fedele’: Dio rimane sempre ‘fedele’ al suo amore, il suo è un amore tenero e misericordioso che non può mai venire  meno: il termine è ‘hesed’ che nella bibbia dei LXX, la bibbia tradotta dall’ebraico in  greco nel secondo secolo prima di Cristo (la stessa bibbia usata da Gesù e dagli apostoli, e tradotta poi in latino, da S. Girolamo, nel IV sec. d.C. col nome di Vulgata), il termine hesed indica entrambi i significati: tenerezza, bontà, misericordi, fedeltà.

Il già  citato Dizionario di Teologia biblica così si esprime: <Le traduzioni in lingue moderne delle parole ebraiche e greche oscillano dalla misericordia all’amore, passando attraverso la tenerezza, la pietà, la compassione, la clemenza, la bontà e persino la grazia (ebr. hen)… Nonostante  questa varietà, non è impossibile definire la concezione biblica della misericordia. Dall’inizio alla fine, Dio manifesta la sua tenerezza in occasione della miseria umana: l’uomo a sua volta deve mostrarsi misericordioso ( e tenero )  verso il prossimo, ad imitazione del suo creatore>.  

Ora voglio indicare soltanto alcuni testi, prima dell’AT e poi del NT, dove meglio possiamo cogliere l’intensità ‘viscere-tenerezza’ per poter capire la vera natura dell’amore tenero di Dio. 

I testi che indicano le viscere’ come ‘amore di tenerezza’ sono il Primo libro dei Re  nella contesa delle due madri sul figlio rimasto vivo, e la storia avvincente di ‘Giuseppe e i fratelli’:

  • 1Re 3,26: le due donne chiedono il giudizio di Salomone sul figlio vivo:<La donna il cui figlio era vivo si rivolse al re, poiché le sue viscere si erano commosse per suo figlio>.

  • Gen.43,30: Giuseppe di fronte al fratello più piccolo Beniamino: <Giuseppe si affrettò a uscire, perché si era commosso nell’intimo alla presenza di suo fratello e sentiva il bisogno di piangere>. 

  • Abbiamo già  considerato i due salmi 103 e 145, dove Dio rivela tutta la sua tenerezza di padre.

Ma Dio nella bibbia è anche ‘madre’: nel secondo canto ‘del servo del Signore’, del profeta Isaia (il deutero-Isaia), nel tripudio di gioia per il ritorno a Gerusalemme del popolo dopo la cattività babilonese (587-537 a C.), il profeta esclama:

<Giubilate o cieli, rallegrati o terra,

gridate di gioia  o  monti perché  il Signore consola il suo popolo

e ha misericordia dei suoi poveri.

Sion ha detto: ‘Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato’.

Si dimentica forse una donna del suo bambino,

così  da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?

Anche se costoro ti dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai> (Is.49,13-15).

Il cuore di Dio, le sue ‘viscere’ sono ricolme di amore come quelle delle madri, anzi assai di più, da non poterci mai dimenticare!

E alla fine del grande libro di Isaia (il Terzo Isaia), quando col ritorno del popolo a Gerusalemme, alla ripresa della ricostruzione del Tempio (520 a.C), nel cap.66, è una esplosione, un inno di amore di Dio espresso con termini totalmente materni:

< ‘Io che apro il grembo materno, non farò partorire?’,dice il Signore.

‘ Io che faccio generare, chiuderei il seno?’dice il tuo Dio>(Is.66,9).

E conclude con parole di altissima poesia e delicatezza divina:

<..Voi sarete allattati e portati in braccio,

e sulle ginocchia sarete accarezzati.

Come una madre consola il suo figlio,

così  io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati>(v.13). 

Per non tralasciare poi il libro delle Consolazioni del profeta Geremia (650-587c.d.C) nei cc.30-31: chi può consolare un popolo sempre minacciato dalle potenze esterne? Ecco allora il profeta, anche se inascoltato, a gridare al suo popolo la tenera bontà del Signore:

Ger. 31,20 < Non è un figlio carissimo per me Efraim?

                     Il mio bambino prediletto? Ogni volta che lo minaccio,

                     me ne ricordo sempre con affetto.

                     Per questo il mio cuore si commuove

                    E sento per lui una profonda tenerezza>.

 

Così  il grande profeta Osea(c.780-40, nel regno dl Nord): turbato da situazioni familiari, il suo impegno è profuso per dichiarare e gridare la passione di amore di Dio per il suo popolo:

<Come potrei abbandonarti, Efraim,

come consegnarti ad altri Israele?…

Il mio cuore si commuove dentro di me

Il mio intimo freme di compassione> (Os.11,8).

Si può  dire che tutta la storia e gli scritti dellAT, portano fremiti di amore misericordioso, di richiami alla fedeltà di Dio verso il suo popolo che spesso si lasciava smarrire dalla tentazione delle divinità straniere: così i profeti, molti salmi, la stessa figura enigmatica di Giobbe, i proverbi, i libri della sapienza: tutta l’attenzione di Dio che è ‘padre e madre’ è rivolta all’annuncio di amore, di perdono, di misericordi; perciò, tocca a noi, nella nostra quotidianità, ritornare ai testi sacri per sentire l’amore e la dolcezza ineffabile del Dio ‘tenero e buono’. 
 
 

NUOVO TESTAMENTO

Il NT, a differenza del Primo Testamento, è una intensa produzione letteraria della durata di circa 50-70 dopo la morte e risurrezione di Gesù, indicata sia nei quattro libretti dei  vangeli, sia nel seguito della letteratura neotestamentaria, comprendente le lettere degli apostoli e di Paolo in particolare, gli Atti e il libro dell’Apocalisse.

Il tema fondamentale del NT è ‘salvezza’ operata da Gesù con la sua morte in croce: questo evento straordinario è fondato sul dato essenziale dell’amore di Gesù che rivela il disegno di amore del Padre.

Il capitolo tredici di Giovanni, alla vigilia della condanna e morte di Gesù, ricapitola tutta la storia della rivelazione cristiana: <Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine..>(Gv.13,1).

Cos’è  la storia umana di Gesù, come poterla definire? E’ una ‘storia d’amore’, una storia di autodanazione vissuta alla luce del Padre che è Dio e in comunione col Padre, come dichiara Gesù nel suo ‘testamento’ al  capitolo quattordici di Giovanni.

Dichiara Gesù  a Filippo: <Chi ha visto me, ha visto il Padre…Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me..?> (Gv.14,9-10). La comunione tra Gesù e il Padre, l’intimità di tenerezza e vita che intercorre tra il Padre e il Figlio, è la tenerezza che Gesù, davanti alla sua morte, comunica e dona ai discepoli e a noi: <Chi mi ama, sarà amato dal Padre mio, e anch’io lo amerò e mi manifesterà a lui…Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a prendere dimora presso di lui..> (v-23).

Il mistero di ‘comunione’ che unisce Gesù al Padre, è una intensa, intima rivelazione di amore espresso con parole di tenerezza assoluta. Gesù cammina verso la croce, sapendo però di vivere le sue ultime ore, nella  comunione col Padre, presente in lui con  lo Spirito.

Gli ultimi giorni di Gesù sono accompagnati da un profondo ‘turbamento’(12,27) perché conosce che è giunta ‘la sua ora’ che è l’ora della morte: questi giorni assomigliano ai giorni del nostro turbamento mortale, al quale non possiamo fuggire, come non fugge  Gesù: <Adesso l’anima mia è turbata; che dirò? ‘Padre, salvami da questa ora?’ Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora!  Padre glorifica il tuo nome> (12,27-28).

Cosa rivela la morte di Gesù sulla croce, in questo vangelo di Giovanni? Perché Gesù dice al Padre‘glorificami’? Sulla croce Gesù rivela la gloria dell’amore e della tenerezza del Padre che coinvolge l’intera umanità: non siamo stati creati, come abbiamo già visto nella Genesi, per essere gettati come oggetti di peccato e di morte in questa nostra storia umana e individuale che è irripetibile: anche noi siamo stati creati per la gloria, e la presenza del Padre nella morte-glorifacazione di Gesù avvolto nella tenerezza e protezione del suo amore, è la storia e la sorte di ogni uomo: nessuno è mai stato creato per finire nella distruzione del nulla come forse si pensa in una certa teologia. Basterebbe ritornare al modo con cui Gesù, nel vangelo di Giovanni, affronta la morte come il suo passaggio alla gloria, per capire poi anche il rapporto gioioso di Francesco con la croce di Gesù che è una croce fonte di grazia.

Non dice forse Gesù agli apostoli, turbati per la sua morte vicina: <Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore…’ Vado e ritornerò da voi’…> (14,27-28) e poco prima: <Io vado a prepararvi un posto…> (v.2) ?

D’altra parte, non riusciremmo a concepire il mistero oscuro e luminoso della incarnazione di Gesù, che è l’immagine di Dio, il volto di Dio nella carne, senza il mistero rivelato da Dio in Gesù, e che rappresenta il momento più alto di tutta la storia umana, come viene folgorato da Giovanni al versetto 14 del suo Prologo: nel detto giovanneo <E il verbo si è fatto carne> (1,14) si rivela l’abisso di amore che conclude la lunga rivelazione di Dio nella storia del cosmo e si trasmette di generazione in generazione fino alla fine dei tempi (cfr. anche Rom.8).

<E il Verbo si è fatto carne

E venne ad abitare in mezzo a noi;

e noi abbiamo contemplato la sua gloria,

gloria come del Figlio unigenito

che viene dal Padre,

pieno di grazia e di verità > (14,3).

Cosa sono, biblicamente, la verità e la grazia se non la fedeltà, la misericordia, la tenerezza di Dio che hanno preso dimora nella carne di Gesù e di tutto l’uomo di cui Gesù è il primogenito’?

Inoltre, in Giovanni il termine greco sarx, carne, indica l’assunzione nel Verbo di Dio in Gesù, della fragilità e debolezza che son proprio della nostra natura umana. D’ora in poi, per sempre, Dio è anche uomo: le pelli che hanno coperto il corpo di Adamo ed Eva all’inizio della storia umana, ora in Gesù Figlio di Dio, sono diventate la nostra carne che vanno a rivestire il corpo di Dio. In Gesù il Signore ha posto la sua ultima e definitiva riconciliazione con l’uomo e il mondo. 

Nei vangeli sinottici inoltre, nella storia della ‘infanzia’ di Gesù raccontata da Matteo e Luca, Maria, la madre di Gesù nella carne, appare come la giovane fanciulla di Nazaret che accoglie con giubilo e tremore (Lc.1,29; 46-55) l’annuncio di essere madre per opera dello Spirito di Dio (1,35), di un figlio straordinario che sarà Gesù (v.31). Le sue ‘viscere’ e ‘ il suo ventre’ di giovane madre  vivono la tenerezza di ogni madre verso le proprie creature, e attraverso questa tenerezza il mondo conoscerà il volto umano del Figlio di Dio: una tenerezza, quella di Maria, la giovane fanciulla di Nazaret, che verrà a estendersi su tutti i poveri e gli ultimi della terra:

<…ha innalzato gli umili,

ha ricolmato di beni gli affamati,

ha rimandato i ricchi a mani vuote,…> (Lc.1,53).

Gioia e dolcezza che Maria con Giuseppe potranno esercitare alla nascita di Gesù, nella povertà di Betlemme, come racconta con delicata poesia il mite Luca:

<Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio> (16-7).

In questo incanto di amore e povertà, i genitori di Gesù verranno assistiti da alcuni pastori accorsi all’annuncio di ‘un angelo del Signore’ v.9), offrendo certamente alla giovane coppia, com’è nella tradizione dei contadini e dei pastori, pane, latte, formaggio e un po’ di lana per ripararsi dal freddo;  mentre dal cielo, ci racconta Luca, era apparso un coro celeste di angeli a rendere più lieto l’evento della venuta di Gesù nel mondo.(vv.13-14).

Questo incanto della nascita di Gesù, tramandato nella pittura da tutti i grandi maestri da Cimabue a Giotto all’Angelico, verrà mirabilmente annunciato da Francesco nella sua scoperta originale e serafica del presepio di Greccio (anno 1223). Come narra nella prima biografia Tommaso da Celano (Vita prima): Francesco, pieno di letizia e tenerezza, in quella notte del primo Natale offerto al mondo, cantava la sua gioia lasciandosi comprendere da emozioni fino alle lacrime: <Francesco è raggiante di letizia…il tempo della letizia e il giorno dell’esultanza…> e  canta il vangelo <con voce forte e dolce, limpida e sonora…poi parla al popolo con parole dolcissime e rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme…infervorato di amore celeste lo chiamava ‘il Bambino di Betlemme…riempiendo la bocca di tenero affetto…>  (T. da Celano, Vita prima).

Nei santi, tutto diventa primordiale, come il fuoco, l’acqua l’amore e la  tenerezza dei doni di Dio.   

E quanta tenerezza ricevette Gesù da Maria e Giuseppe, allorchè, secondo il racconto di Matteo (1,13-18), Gesù dovette essere portato in Egitto (ricordando in questo l’esilio del suo popolo).

Il bambino Gesù è un piccolo profugo, come tanti bambini profughi del nostro tempo e spesso rifiutati  dai cristiani.

Così  anche nei vangeli chiamati ‘apocrifi’ (cioè non riconosciuti canonici) l’infanzia di Gesù è descritta con tanti particolari che sono proprio della fantasia popolare, ricca  di affetto e tenerezza, un po’ come avviene nei Fioretti di  S. Francesco.  

 

Gesù, nei lunghi anni di silenzio nella casa di Nazaret con Maria e Giuseppe, vive il tempo del focolare domestico e familiare, nella crescita della sapienza e conoscenza biblica, nel lavoro, nel calore dolce e intimo circondato dalla tenerezza dei suoi genitori.

Poi, verso < i trent’anni>, come ricorda Luca ( 3,23), Gesù dà inizio a un periodo di circa tre anni di vita pubblica, con la missione di < proclamare il vangelo di Dio e il Regno di Dio> (Mc 1,14-15; Mt 3,2; 8,10), al mondo, percorrendo a lungo la Palestina, circondandosi di una famiglia di discepoli e di donne che saranno in seguito testimoni dei suoi segni, dei miracoli di guarigione, e delle parole di speranza.

Rivelerà al mondo un immenso patrimonio di misericordia e di bontà unite a dolcissima tenerezza: nell’incanto delle Beatitudini in Matteo (5, 1-12), dove ai poveri, ai miti, ai misericordiosi agli innocenti di cuore, ai combattenti per la giustizia, viene proclamata la beatitudine e la ricompensa celeste; così i malati, i ciechi, i lebbrosi, i peccatori trovano nelle parole di Gesù la salvezza e la misericordia.

In questi viaggi faticosi e spesso accompagnati da incomprensione, Gesù darà continua testimonianza del Regno di Dio con segni di tenerezza e bontà infinite: accoglie i bambini, corregge gli arroganti e i presuntuosi, dona fiducia ai disperati, usa misericordia ai peccatori, consola i poveri, gli orfani e le vedove e insegna alle folle di rivolgersi a Dio con fiducia come Padre nostro

( Abbà = papà mio) (Mt.6,9-13) manifestandogli tutte le nostre necessità: ma quanta tenerezza di Gesù nel presentarsi a Dio con l’invocazione di Padre: anche per noi, basterebbe ripetere in continuazione la parola Padre, con intimità e fiducia, per sentirci i figli di Dio!

Voglio ricordare alcuni gesti di Gesù, che ne proclamano la bontà e la dolcezza, indicando in questi segni, l’arrivo del regno di Dio.

In Matteo: Gesù, alla finita di una giornata faticosa per il cammino sulle strade polverose della Palestina: <Venuta la sera gli portarono molti indemoniati  e malati, ed gli li guarì tutti…> per adempiere le parole di Isaia: <Egli ha preso le nostre infermità e si è caricato delle malattie> (Mt.8,16-17; cfr. Is 53,4; cfr. Gv 1,29; Mc 2,32-34; Lc.4,40-41)).

Le ‘guarigioni’ nel corpo e il ‘perdono’ dei peccati restano il tratto più significativo della partecipazione di Gesù alla sofferenza e povertà dell’umanità:

  • <Coraggio, figlio, ti sono perdonati i peccati …>dice al paralitico, e aggiunge con la potenza divina della parola: <Alzati e cammina…prendi il tuo lettuccio e va a casa tua> (Mt 9,1-7);

  • alla donna malata da dodici anni che ‘aveva toccato il mantello’ di Gesù fiduciosa di guarire, Gesù <si voltò, la vide e le disse: ‘coraggio, figlia la tua fede ti ha salvata’. E da quell’istante la donna fu guarita> (Mt 9,21-22);

  • e con lo stesso amore ridona la ‘figlia morta a uno dei capi’  che lo aveva implorato di andare e ‘imporle le mani’: <…Gesù entrò, le prese la mano e la fanciulla si alzò> (v.18.25).

  • Ai discepoli di Giovanni Battista che erano andati a chiede se lui, Gesù, era il Messia, nella sua risposta Gesù rivela la sua missione:<Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete:’ i ciechi vedono’, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, ‘i sordi odono, i morti risuscitano’, ai poveri è annunciato il Vangelo…> (Mt 11,3-5).

  • Nei vangeli sinottici non c’è pagina dove Gesù non si prenda cura di annunciare il ‘regno di Dio’,  se non attraverso la partecipazione alla sofferenza dell’umanità che lo circondava.

  • Ai due ciechi di Gerico (Mt 20,29ss.), che gridavano verso Gesù e ai quali la folla rimproverava perché ‘tacessero’, Gesù, scrive Matteo: <Ebbe compassione, toccò gli occhi, e all’istante ricuperarono la vista e lo seguirono> (vv.33-34). 

‘Compassione’ che Marco descrive quando Gesù è di fronte alla ‘folla’: <Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano ‘come pecore senza pastore> (Mc.6,34 ss.). Allora Gesù, prima ‘insegna loro molte cose’, poi, sopraggiunta la sera, fa sedere la folla e moltiplica i pani: <Tutti mangiarono a asazietà> (6,42).

L’anima di Gesù, potremmo commentare, ha il potere di stringere in sé tutta la fragilità e sofferenza degli uomini, in cerca di Dio, della verità e della giustizia. Qui veramente Gesù è il profeta dei popoli  di ogni tempo e di ogni nazione: nella sua infinita delicatezza, cogliamo la profonda carità e tenerezza di Dio: essere ‘salvati’, secondo Gesù, significa essere amati e accolti, perché spesso noi uomini siamo come ‘pecore senza pastore’.

E ai bambini, una parte debole della società, Gesù dice: <Lasciate che i bambini vengano a me…a loro infatti appartiene il regno di Dio..> (Mc 10,14ss.cfr. Gv 3,4ss): così Gesù rivela il senso del ‘regno di Dio’: è il ritorno alla innocenza perché l’innocenza è lo specchio del volto di Dio presente in Gesù.

Se dunque i poveri, i malati, i peccatori, i bambini sono capaci di accogliere il ‘regno’, Gesù non esclude i ricchi e le singole persone: in Marco leggiamo quella bellissima pagina di vangelo dell’invito al ‘giovane ricco’ alla sequela del maestro: < ‘Maestro buono, che devo fare per avere in eredità la vita eterna?’… Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: ‘una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un  tesoro nel cielo, e vieni! Seguimi!…> Ma quel giovane guardato  con amore intenso di Gesù, ‘non lo seguì’ <..e se ne andò rattristato perché possedeva infatti molti beni>  (Mc.10, 17-22).

L’amore di Gesù può essere ancora rifiutato, perché la ricchezza acceca la nostra anima e ci chiude al miracolo della sua tenerezza!

Quando nella Prima Lettera di Giovanni leggiamo che ‘Dio è amore’ (1Gv.4,7), potremmo anche tradurre nel linguaggio quotidiano che ‘ Dio è tenerezza’, rivelata nel volto e nell’amore di Gesù.  

In Luca, l’evangelista mite, che ama descriverci un vangelo dei poveri che sanno accogliere il ‘regno di Dio’ nella persona di Gesù, la ‘tenerezza’ ha subito inizio nell’atteggiamento luminoso dell’annunciazione a Maria, nella soavità piena di fede di Giuseppe, nell’atmosfera biblica di Zaccaria ed Elisabetta genitori di Giovanni Battista(Lc.1,39-45); sarà proprio Zaccaria, sacerdote del tempio di Gerusalemme (1,5), a indicare, nel cantico del Benedictus la missione del Precursore:

<sarai chiamato profeta dell’Altissimo> (v.76), e a proclamare la bontà di Dio nel suo lungo piano di salvezza:

<Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio,

ci visiterà  un sole che sorge dall’alto,

per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre

e nell’ombra della mortel

e dirigere i nostri passi

sulla via della pace> (vv.78-79)-

La tenerezza di Gesù è preceduta dalla tenerezza di Dio, nel disegno di salvezza universale. 

  • Di Luca vorrei ricordare ancora due parabole: nel cap.10 il ‘Buon  Samaritano’

  • e nel cap.15 ‘Il Padre misericordioso e il figlio prodigo’.

Luca coglie la centralità  del Messia – Gesù, proprio nel Samaritano che davanti a un uomo ferito dai  briganti <vide e ne ebbe compassione…gli fasciò le ferite…> 10,33-34), contro il sacerdote e il levita, i ‘puri’ della religione ebraica, che erano passati avanti, essendo il Samaritano ritenuto un nemico!

E nel ‘figlio prodigo’ 15,11-32), la tenerezza del padre che corre ad abbracciare il figlio che si era allontanato dall’amore della casa paterna: è festa, è la musica, c’è la gioia, c’è la felicità <perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato> v.24); il figlio maggiore, rimasto in casa, obbediente ed ossequiente agli ordini del padre, non aveva saputo cogliere il senso della tenerezza e bontà del vecchio genitore, credendo che la pratica della legge fosse superiore all’amore. 

Nelle sue parabole, Gesù  sconvolge il senso della pratica puramente legalistica: è il cuore che ci guida verso il Signore, non la materialità dei nostri gesti esteriori.  

 

Infine, voglio cogliere questa immagine di tenerezza, dal vangelo di Giovanni, guardando alla morte in croce di Gesù.

Ai lettori del ‘Ponte’, questa piccola rivista che esce dall’Isola per i ‘volontari’ (ma anche per medici, personale infermieristico  e impiegati), voglio far osservare che entrando nell’ospedale, nel primo cortile a destra, sulla parete davanti alla fontanella dei pesci e delle tartarughe, ci son quattro piccoli crocifissi di autori diverse e tutti assai significativi.

Mi ha colpito però l’immagine che rappresenta Gesù, secondo il vangelo di Giovanni, dove Maria la madre, e l’apostolo Giovanni assistono alla morte di Gesù.

Gesù reclina dolcemente il capo verso la Madre, Maria, in un atteggiamento filiale tenerissimo: nell’ora della sua morte (che è anche l’ora della sua glorificazione), Gesù non rifiuta la tenerezza della madre e del ‘discepolo amato’ che lo assistono; anche Gesù ama il conforto, la tenerezza, la carezza della madre: è l’ultima immagine che abbiamo del Figlio di Dio nella sua carne, ed è una icona di amore tenero e dolce.

Morendo Gesù ‘ chinato il capo, donò lo spirito’ (Gv19,36).

Dunque nella ‘tenerezza’ si coglie l’ultima immagine di Gesù nella fragilità della sua carne: dai vangeli perciò, veniamo a sapere che la tenerezza ha un posto teologico fondamentale, che riassume l’intera storia della rivelazione come la Bibbia ha saputo raccontarci, a partire dalla creazione fino ad Abramo, ai profeti e a Gesù.

Si può  annunciare la salvezza del mondo, restando sempre aderenti al valore anche filologico del testo biblico, incontrando finalmente il volto di Dio nella bellezza, nella santità e tenerezza di Gesù.  

Tutto questo, per noi malati nel cuore o nel corpo, è una grande speranza, anzi è già  una certezza. 

 

Roma, otto maggio 2010                                    

Don Enrico Ghezzi

Via Anicia 10, tel. 334.35.99.790.