TIPOLOGIA DI ATEI – Marina Romano

TIPOLOGIE DI  A T E I

(mi raccomando, sbranatemi piano piano)

Faccio una piccolissima premessa: questo mio intervento non ha la benchè minima intenzione di offendere. E’ un modo come un altro per strappare ai miei lettori (cattolici e non) un piccolo sorriso.

Questo scritto contiene solo una piccolissima parte di quella che è la categoria degli atei (forse più che atei, anticlericali), non vuole essere un discorso generalizzabile né tantomeno veritiero, per cui prendete ciò che scrivo per quello che è: uno scherzo!

Se invece avete voglia di offendervi…mi dispiace per voi! Posso dirvi solo di consolarvi con gli insulti che diranno a me e ad altri cattolici dopo aver letto questo scritto. Ma ora cominciamo!

Presenta questa relazione l’esimia, chiarissima, illustrissima, egregissima e rompicazzissima

futura Dott.ssa

Marinija Romanevskiy

Laureanda (oso sperare) in Strizzacervellologia (ossia Psicologia)

INTRODUZIONE:

La tematica intorno alla quale ho sviluppato la mia ricerca con un approccio di tipo quanti-qualitativo parte dal desiderio di rompere le balle agli atei. Scopo del presente lavoro è quello di catalogarli, per dare al lettore cattolico una piccola linea guida sui tipici comportamenti di questi simpaticissimi e affascinanti signori… La relazione non contiene solo la loro “catalogazione”, ma anche un numero (seppur limitato) di possibili risposte che desidero comunicare loro.

TIPOLOGIE:

ATEI-GIUDICI: Diciamo che appena li incontri sei subito tentato di chiamarli “vostro onore”. Ti aprono letteralmente la mente, credimi. Quando li ascolti ti senti un emerito deficiente. Ma in fondo hanno ragione, diciamoci la verità, orsù! Ma come fai tu, cattolico oscurantista, a seguire un’istituzione così stracolma di errori?  Sveglia tesorooo! La Chiesa sbaglia! Sbaglia sempreeeeeeee! Sbaglia sia se parla sia se tace. Ha fatto errori madornali nella storia…ma che dico? Errori? ORRORI! Ma stiamo scherzando? Eddai apriamo gli occhi, prestiamo attenzione, proprio come fanno loro! Ebbene si, la loro attenzione si attiva tantissimo appena sentono le parole: Dio, clero, Chiesa, Cattolico, e via dicendo… Vi faccio un piccolo esempio, mostrandovi il tipico pranzo di un ateo-giudice che mangia mentre guarda il telegiornale (o guarda il telegiornale mentre mangia, come preferite):

Si apre la scena. Siamo in cucina. L’ateo è seduto al tavolo, mangia avidamente il suo cibo e non dà importanza al telegiornale…

Tg: E’ saltato in Aria tutto il continente Asiatico senza che ci fosse nessuno, nemmeno un morto, erano tutti in vacanza in Europa….

Ateo: capirai…gnam.

Tg: Berlusconi ha proposto un decreto legge che rende legale il furto…

Ateo: crunch…roba di tutti i giorni….

Tg: Scoop sensazionale: in realtà Nicole Kidman è un uomo…

Ateo:..nessuno è perfetto…gnam gnam

Tg: Stamane il Santo Padre Joseph Ratzingher ha annunciato al mondo che non esiste il limbo…

(Ecco che l’ateo si attiva, si blocca immediatamente nel mangiare, gira lentamente il viso verso la televisione, dopodichè si alza in modo quasi isterico, prende a camminare intorno al tavolo, sul suo volto si fa strada un’espressione sempre più rabbiosa, sullo sfondo si ode la colonna sonora di Profondo Rosso)

Ateo (camminando e gesticolando con furia): e io lo sapevo…lo sapevo…non poteva che essere così. Cosa c’era da aspettarsi del resto? Cioè..cioè…se io solo ci penso….! (reprime un insulto): adesso hanno tolto anche di mezzo il limbo! Non ci bastavano i miliardi che già avevano! Pure quello si sono fregati i pretiii!!! Maledetti!

Fine della scena. Lascio a voi il compito di intuire il seguito… Nel frattempo vi lascio alcune espressioni che di solito mi hanno comunicato per giustificare il loro ateismo (come se l’ateismo si giustificasse). Dicono pressappoco così: “la Chiesa sbaglia”, “ha fatto/fa questo e quest’altro” (mi menzionano di tutto, dalle Crociate, all’ Inquisizione, alla ricchezza del clero, ai preti pedofili, ai preti semplicemente pessimi o poco accoglienti, alle informazioni, non sempre vere, che circolano su internet, per approdare poi ai pericolosi film di don Camillo, che in realtà non sono altro che un modo per plagiare la gente…ehm…quest’ultima parte dei film di don Camillo l’ho aggiunta io, sempre per scherzo, ovviamente).

Dichiarazioni del genrere sono molto frequenti, e non molto difficili da contestare. Alle persone che credono in Dio ma che si allontanano dalla Chiesa a causa dei suoi errori io suggerisco semplicemente di ricordare i rimproveri delle nostre mamme e delle nostre maestre, quando ci sorprendevano a seguire il cattivo esempio dei nostri fratellini o dei nostri compagni di giochi: ” E se Carletto si butta fuori dalla finestra? Che fai? Ti ci butti anche tu?”. o meglio, ricorderei ciò che Gesù disse ai suoi discepoli mentre parlava dei pastori:

Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perchè dicono e non fanno” (Mt 23.3).

Ragazzi, saranno passati anche più di 2000 anni, ma quel simpatico Signore con il pizzetto e i capelli lunghi è attualissimo! Voglio anche aggiungere che, se io non sono perfetta, non posso di certo obbligare gli altri ad esserlo al posto mio! Non è infrequente che la “logica del capro espiatorio” (o del “nemico comune”), tipica di molti anticlericali, parta da una frustrazione ( e non vi offendete, che ce l’abbiamo tutti).

Funziona così:

  • io non sto bene con me stessa, mi friggo il cervello perchè non riesco a raggiungere un mio ideale di perfezione!

  • E cosa posso mai fare?

  • Posso mai prendermela con me stessa?

  • Non è sicuramente la via più facile. Meglio avanzare pretese verso individui, gruppi o istituzioni esterne.

  • E tra le tante persone con le quali posso prendermela, ecco che spunta la Chiesa! Chi meglio di questa? Posso insultarla senza che nessuno mi dica niente! Ti applaudono anche!

  • Se invece qualche cattolico oscurantista risponde per difenderla, ecco che è subito tacciato di intolleranza!

  • Ecco la situazione: in fondo chi si accanisce contro la Chiesa, non fa altro che desiderare la perfezione da essa. Questo è un argomento che andrà sicuramente approfondito, magari con qualche lettura di tipo psicoanalitico, o di psicologia sociale (per quelli più interessati alle influenze esterne) che consiglio vivamente…

Riprendendo il discorso, dico che la Chiesa non batte di certo gli atei-giudici in quanto a purezza o perfezione, ma li batte sicuramente sul piano dell’umiltà! Perchè la Chiesa Cattolica si riconosce limitata (e soprattutto) peccatrice. Per cui, se questa tipologia di amichetti atei e/o anticlericali crede che noi cattolici ci crogioliamo nella nostra convinzione di essere perfettini o immacolati perchè andiamo a messa e rispettiamo i comandamenti, allora sono completamente fuori strada.

Noi cattolici, a differenza loro, non possiamo permetterci il lusso di giudicare. Al massimo possiamo difenderci dalle accuse. E se giudichiamo, è per quella stessa debolezza e frustrazione che prende anche loro (non siamo così diversi… siamo tutti figli di Caino, obbedienti alla logica del nemico comune).

In ultimo faccio una piccola provocazione a coloro che giudicano la Chiesa Cattolica, ma che riescono ancora a stimare Cristo (altri commenti che di solito spuntano sono:” poverino, così denigrato e usato da questi preti!”):  un po’ anche lo stesso Cristo è stato colpevole degli errori della Chiesa. Eh si! Perchè al suo seguito ha scelto sempre persone piccole, umili, peccatrici.

E’ con i peccatori che voleva avere a che fare, non con quei bellissimi sacerdoti (di cui tutti siamo spesso ottimi eredi) che altro non facevano che puntare il ditino contro tutto e tutti. Ha scelto i peccatori, non i giusti. Se ci facciamo caso, i giusti e le brave persone, non hanno bisogno di Dio. Sono i pezzettini di merda come me che necessitano della Sua presenza.

ATEI-ECONOMISTI:   Questo è un gruppo che potrebbe rientrare perfettamente negli atei-giudici, diciamo pure che ne è una sottocategoria.

“La Chiesa ha i soldi” è il tipico concetto espresso in questi casi, se tutto va bene. Ma solitamente devi solo aprire l’ombrello, perchè devi ripararti dalla pioggia di veleno che ti arriva addosso. Ma sono proprio incazzati neri quando associano le parole soldi-Chiesa. Avviene una completa metamorfosi! Dal colorito roseo, albino, olivastro o bronzeo che di solito hanno passano ad un rosso porpora (o viola, a seconda dell’intensità dell’incazzatura).

Se sentono parlare di un prete che ha fatto qualcosa di male e che non riguardi il denaro, qualche volta (ripeto…QUALCHE VOLTA) succede che lo giustifichino…ma appena sanno che è “attaccato” ai soldi o che se li è fregati….Apriti cielo! C’è quasi da chiedersi come mai tutto questo accanimento.

Da quanto in qua essere ricchi significa essere cattivi? Anche perchè certi ragionamenti o certe incazzature provengono da persone che indossano le magliettine “Primo Emporio”, “Nike”, che hanno anche le mutande firmate, una discreta automobilina, il cellulare di ultima generazione (e io che ho le magliette firmate “made in China” e non ho automobile che dovrei fare? Andare in Vaticano con l’autobus “Dio non esiste” e gettare le bombe a mano?). Non che giudichi queste persone, per carità! Vorrei evitare di fare questo errore… Ma vediamo cosa avvenne 2000 anni fa circa quando qualcuno avanzò per primo questi ragionamenti:

“Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento. Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che doveva poi tradirlo, disse: <Perchè quest’olio non si è venduto per trecento denari per poi darli ai poveri?>. Questo egli disse non perchè gli importasse dei poveri, ma perchè era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. Gesù allora disse: < Lasciala fare, perchè lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me. “

Io inviterei ad analizzare a fondo la lettura (che si presta sicuramente a tantissime interpretazioni, ma cerchiamo di attualizzarla). A quanto sembra, Cristo ci esorta a smettere di giudicare e di fare i conti nelle tasche della gente e di come usa i soldi. Analizzando la figura di Giuda Iscariota, il Vangelo ci fa comprendere che se lui giudicava, era semplicemente perchè era il primo ad avere una forte avidità nei confronti del denaro.

Guagliù, diciamoci la verità, se giudichiamo i sacerdoti è perchè sotto sotto proviamo un pò di invidia, oppure semplicemente perchè ci riteniamo migliori. Ma io mi chiedo: se tu, mio carissimo ateuccio, ti ritieni talmente bravo rispetto a questi mariuoli cattolici, perchè non fai tu ciò che dovrebbero fare loro?

Esempio: la Chiesa dovrebbe dare tutto ciò che ha ai poveri? Allora tu vendi le tue ricchezze, tutte, e danne a chi ne ha bisogno! Così dimostreresti di essere veramente santo, e tutti seguirebbero il tuo esempio…diventeresti Sant’ Ateo da UAAR….Orbene, se non si ha intenzione di mettersi in gioco in questo senso, allora credo che sia meglio tacere, per semplice coerenza, non per altro. Poi, se dovessimo accusare la Chiesa della sua ricchezza, dovremmo puntare il dito anche contro coloro che devolvono soldi ad essa (sempre per coerenza…).

E poi sfiderei chiunque a fare ciò che fa la Chiesa Cattolica con le missioni, Caritas e con la manutenzione che fa sulle opere d’arte, che sono un patrimonio abbastanza consistente, e che ci permette (forse in modo indiretto) di campare ancora.

Se questa carretta di nome Italia va ancora un pò avanti, forse è proprio grazie alla presenza della Chiesa. Per meglio darvi un’idea vi cito un piccolo episodio: una volta, andando a Santa Maria degli Angeli, ascoltai un simpaticissimo anticlericale che, con molta sicurezza (convinto di dire una cosa intelligente) affermò: “se io potessi, butterei giù tutto quello che c’è intorno alla Porziuncola, per lasciare solo la Chiesa originaria.”

(Per chi non lo sapesse, la Porziuncola è una minuscola Chiesa molto importante in quanto a S. Francesco d’Assisi apparve Gesù Cristo, il quale chiese a Francesco cosa desiderasse. Lui chiese l’indulgenza plenaria per tutti coloro che fossero giunti lì. Gesù acconsentì a patto che andasse a parlare con il suo Vicario in terra, ossia il Papa. Per farla breve, il Papa acconsentì e da allora gente da tutto il mondo si reca  in Porziuncola. Ovviamente, un pò per proteggere la piccola chiesetta, che è grande pochi metri, un pò per contenere i milioni di pellgrini che si recano lì, è nata la necessità di costruire attorno una Chiesa più grande. E il genialoide voleva buttare giù quella, che con la sua struttura e con gli affreschi, le statue e gli oggetti contenuti, è un patrimonio artistico). Quando lui terminò la sua asserzione, avevo una voglia matta di fargli un applauso scrosciante, magari con l’ausilio di qualche migliaio di altri ascoltatori, per l’emerita genialata.

Gli avrei risposto: ” E bravo l’intelligentone, butteresti giù una chiesa di un valore inestimabile, per poi far si che vada perduto il turismo che essa comporta, e ti fotti tu con il tuo negozio e tutti gli altri commercianti della zona, bravo! Bravo!”. Ma siccome sono una persona educata, e quel giorno ero serena, gli ho detto la stessa cosa, ma in maniera mooooooooooolto più velata… Purtroppo lui non l’ha compresa, ed è rimasto fiero, tutto pompato dalle sue stesse teorie. Beh, per chi vuole sapere altro, io gli suggerirei di dare un’altra occhiata al blog di Ettore, in merito a questo argomento.

ATEI-VITTIME: Una personcina del genere magari ti racconta della sua tragica storia, del commovente episodio in cui il suo parroco chiese un’ingente somma per il matrimonio della sua vecchia prozia di quindicesimo grado (che nemmeno conosce o che addirittura detesta, o che l’ha vista solo il giorno del matrimonio). Ho desiderato ironizzare anche stavolta, non perchè volessi prendere in giro chi è stato vittima di qualche cattiveria di alcuni sacerdoti, ma perchè spesso c’è davvero gente che si allontana dalla Chiesa per motivi banali. Spesso, infatti, si raccontano cose molto più serie, talvolta dolorose, ed io non posso dire niente su ciò, se non “mi dispiace”.

Non nascondo che anch’io ho avuto esperienze molto negative con alcuni sacerdoti, e posso anche capire. Tuttavia, avrei da dire che, se io ho un’esperienza negativa con un medico che mi ha imbrogliata o che mi ha fatto del male, non credo che sia costruttivo per me detestare tutta la categoria dei medici. Potrei un giorno averne bisogno, però mi lascerei logorare da malanni per le mie vecchie esperienze.

Questo (per quanto possa sembrare assurdo) è valido anche per i sacerdoti o ancora, per Dio. Spesso ci si sente vittima di Dio, qui il discorso si fa molto più serio, e qui mi fermo, perchè se difficilmente riesco a parlare dei preti, parlare di Lui mi diventa praticamente impossibile. E non lo dico per incapacità o per stupidità, ma semplicemente perchè è un qualcosa che è  più grande di me, ed ho timore di dare alle persone un messaggio sbagliato.

ATEI-SCIENTISTI: Sono i miei preferiti. Sono quelli che, anziché l’immagine dei santini , possiedono nella loro cameretta un trittico su cui ci sono raffigurati (a mo’ di icone)  Nietzsche, Darwin e Piergiorgio Ordifreddi (a questo punto sulle icone aggiungerei un cartello con su scritto: “indovina l’intruso”). Sono quelli che predicano la Resurrezione. Di Cristo? No…di Gabriele d’Annunzio! Anzichè indossare il Tau o la croce recano al collo la sigla dell’ UAAR. Sono quelli che parlano ancora di causa ed effetto e nemmeno sanno che siamo passati da una vita al principio di Indeterminazione (per info leggere “il punto di svolta” di Capra, è formativo e da un quadro completo, anche se compendiario, della storia di alcune scienze come la fisica e la chimica).

Sono quelli che credono che Scienza e Fede siano inconciliabili (poi noi saremmo i chiusi). Sono quelli per cui la non esistenza di Dio è un dato oggettivo, normalissimo. Chi lo ha mai visto? Qualcuno ogni tanto lo vede, ma gli viene detto che è pazzo (spesso ci sono persone che hanno problemi mentali e che vedono Dio dapperttutto, è vero, ma non possiamo di certo generalizzare, soprattutto dopo i risultati di controlli medici che provano fatti straordinari).

Io vorrei chiedermi una cosa:  ma chi è che ha mai sentito gli ultrasuoni? Io no di certo… Non li percepisco con il mio udito, ma non per questo posso negare la loro esistenza. Se dovessimo negare ciò che la nostra percezione non capta, dovremmo negare l’esistenza di un sacco di cose, e dubitare di tutto. Dovremmo anche negare la storia. Chi mi garantisce che Napoleone sia realmente esistito se non l’ho mai visto con i miei occhi?

Qualcuno avrà sicuramente da dirmi che, per molti fenomeni presenti in natura che non riusciamo a percepire con i nostri sensi, la scienza ha ricavato dei mezzi, degli strumenti per “sentirli” e misurarli. Io accetto volentieri quest’ affermazione, dicendo che appunto, forse ciò che ci manca sono proprio gli strumenti per “percepire” e “misurare” Dio.

Gli strumenti che al momento abbiamo a disposizione sono la Sua Parola e la Fede. Per quanto questi mezzi possano risultare per nulla oggettivi agli occhi di chi osanna la scienza, forse è comunque il caso di prenderli almeno in considerazione, per conoscerli e valutarli, prima di rifiutarli a priori.

Ciò che vedo molto frequentemente in certe persone, è che rifiutano e parlano di Dio o della Chiesa, ma (almeno da quanto vedo) non conoscono né l’uno né l’altra. E se si sono concessi il lusso di conoscerli, o lo hanno fatto per cercare conferma di quei preconcetti che già recavano dentro di sé, o perchè si sono fermati semplicemente alle loro primissime esperienze, pensando che il cattolicesimo sia tutto in ciò che hanno visto o vissuto.

ATEI-STATT ZITT!: Ho utilizzato una tipica espressione partenopea che significa: ATEI-STA’ ZITTO! Ti zittiscono letteralmente. Ti accusano di essere intollerante, incapace di ascoltare, bigotto, pieno di pregiudizi, chiuso, aggressivo, ecc. Parlano tre quarti d’ora, non ti fanno dire una miseria di parola, e se li interrompi per chiedere loro una cosa, ti sbranano dicendoti che sei incapace di ascoltare, bigotto, pieno di pregiudizi, chiuso, aggressivo…Alla faccia della coerenza!

ATEI-IOHOSTUDIATOTUNOPERQUESTO STATT ZITT: molto simili agli atei precedenti, solo che sono molto preparati. Ammirevoli, per carità. Hanno la pretesa di zittirti perchè magari hai solo un misero diplomino in agraria e preferisci leggere romanzi fantasy piuttosto che fare una spremuta di cervello sui libri di teologia e di filosofia. Per quanto possa ammirare chi fa questi studi ( e per quanto io stessa stia cominciando a studiacchiare qualcosina da autodidatta), dubito che la sapienza di Dio si possa carpire solo attraverso uno studio approfondito del Qoelet letto in lingua originale e in chiave teoretica, o con un corso di Cristologia applicata. Credo che una piccola ignorantella come me abbia la possibilità di cogliere qualcosa che un cervellone non è riuscito a perseguire con le sue montagne di libri.

“Ti rendo lode, Padre, Signore del Cielo e della Terra,

che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti

e le hai rivelate ai piccoli.”

Questo lo diceva San Paolo…Ed io sono piccolaaaaaaaaaaa! Sono più piccola di un atomo, gli elettroni in confronto a me sono dei grattacieli!

ATEI-FILOSOFI: Quasi uguali ai cervelloni che ho menzionato prima. Con la differenza che sono molto più umili, spesso non sono nemmeno anticlericali…Ma non capisco un cacchio quando parlano. Usano paroloni giganti, possiedono un linguaggio molto articolato, tipico dei filosofi, che io (ahimè) non possiedo.

Per cui sento frasi tipo: l’epistemologia applicata alla criticità del discorso cattolico, inerente alla teoretica, bla bla bla… maieutica che possiamo cogliere…bla bla bla…bla bla…bla bla… Capito?

Ed io: “ehm…si…”

Per cui vorrei fare un appello a queste persone:

PARLATE  POTABILEEEE!

ATEI-FISSATI COL POTERE: Una volta, andando all’università, seguivo le mie belle lezioncine di una prof che non faceva altro che parlare male del Dio Cattolico e della Chiesa (c’è da aggiungere che in sede d’esame ti chiede se condividi simili asserzioni o meno, mettendoti in soggezione. Alcuni prof ti fanno scordare gli esami se non fai il pappagallo e non ripeti ciò che loro affermano, non so come agisca lei, sinceramente, ma vista la situazione generale che si respira alla mia università…).

Dopo le mazzate che subisco da lezioni del genere, vado in bagno (i bagni da me sono molto rinomati, se tutto va bene nuoti in un mare di liquame). Raggiungo con molta difficoltà la tavoletta del cesso, in quanto quel giorno il mare di liquame era in tempesta, e la zattera che avevo trovato non era un granché…

Mentre faccio ciò che devo fare, getto una svogliatissima occhiata alle pareti e alla porta del bagno, che hanno riempito di scritte (in modo particolare la porta, che è diventata un blog). Ad un certo punto leggo a caratteri cubitali:

- BASTA CON LO STRAPOTERE DELLA CHIESA CATTOLICA!

Più in basso leggo una risposta che dice più o meno così:

- I PRETI SONO CITTADINI ITALIANI, ED HANNO IL DIRITTO DI ESPRIMERE LE PROPRIE OPINIONI. POI LA CHIESA NON FA ALTRO CHE DARE CONSIGLI IN CAMPO ETICO, MORALE.

C’ è il contrattacco:

- “CONSIGLI”? MA FAMMI IL PIACERE… ALLORA PERCHE’ IL TUO AMATO PAPA NON PARLA ANCHE DELLA MAFIA?

- LO FA, INFORMATI BENE PRIMA DI SCRIVERE STUPIDAGGINI.

In ultimo leggo:

- MA VAFFANCULO TU E QUELLO SPORCO FASCISTA!

Citandovi questo avvenimento, citando anche:

- che se voglio garantirmi un pò di tranquillità (al lavoro e all’università) devo nascondere il mio cattolicesimo,

-ciò che è avvenuto l’anno scorso alla Sapienza di Roma,

- il fatto che su tanti siti trovo parolacce rivolte a Dio e alla Chiesa, tipo che il papa è definito come un essere che si nutre di sterco e sperma, o di qualche dolce fanciullino che ci dice di fotterci noi e… (vi lascio immaginare il resto dei complimenti rivolto ai santi, alla Madonna, a Dio…),

- che se parli con qualcuno, questo ha da fare continue accuse alla Chiesa, spesso augurandoci un’atrocissima morte,

-che vengono oscurati siti cattolici, mentre altri siti che sparano minchiate su noi e sui papi (non hanno risparmiato nemmeno Giovanni Paolo II) sono ancora in circolazione,

-che di tutte le cose buone che la Chiesa ha proposto o ha fatto nessuno sa niente, mentre ricordano tutti gli errori (veri o presunti) punto per punto,

-che ci stanno a fare l’elenco continuo delle persecuzioni messe in atto da noi, mentre ne subiamo di tutti i colori da 2000 anni ma nessuno lo vuole vedere, nè tantomeno noi stiamo a ricordarlo ogni minuto e quarto d’ora.

-che se stai a sputtanare la Chiesa ti approvano, mentre se dici qualcosa contro altre istituzioni sei tacciato di intolleranza o di razzismo,

- che se la Chiesa dice qualcosa, non va bene, se dice l’esatto opposto, nemmeno va bene. Se invece non parla proprio, ancora peggio,

citando (ripeto) tutta questa roba e tanto altro ancora che non mi viene in mente, mi chiedo:

La Chiesa ha potere?

Vabbè…è una domanda inutile…dopo quello che ho scritto, mi diranno: “MA SI CHE HA POTERE !”

Aggiungo ancora che, spesso parlano di potere quando c’è una buona fetta degli italiani che sceglie di agire e pensare secondo la dottrina cattolica,  e che condivide ciò che dice il Papa. Avrei dei dubbi a riguardo, anche perchè trovo la cosa leggermente contraddittoria: cioè… se io la penso come il Papa, allora succede che:

1) Il Papa ha potere

2) Io sono soggiogata e non sono in grado di pensare, perchè la penso come il Papa…

Invece, se c’è uno che ragiona alla maniera opposta:

1) Finalmente uno che si ribella al potere della Chiesa!

2) E’ un uomo libero, perchè va contro il pensiero del Papa.

Strana come cosa, eh?

ATEI-FISSATI CON LA COSPIRAZIONE:  Il ” Codice da Vinci” è un documentario. Il resto è frutto di una cospirazione, di qualche complotto, di qualche arcana e sporca macchinazione che la Chiesa Cattolica ha messo in atto. C’è un libro idiota che non interessa a nessuno? Perchè mai nessuno lo legge? Ve lo dico io…perché la Chiesa ha complottato affinchè nessuno lo leggesse…oooooooh! Ma che schifo…. Già la parola cospirazione, per come è conformata, fa mettere i brividi…Immagini che ci sono tantissimi omini vestiti in abiti da vescovo, da papa e da prete che stanno a bisbigliare e a complottare, in poche parole, a….cosssssssssssspirare!

Cossssssssssssssssp….cosssssssp…

cooooooossssssssssssssssssp….

sssssssssssss…psssssssssssssssss…

psssssssssssssssssssssssssss…

pssssssss…ssssssssspssssssssssssssspssssssssssssss…..


OOOHH! I SO’ LASCH E’ RIN! (tipica espressione partenopea che significa “i miei reni sono deboli”, indica lo stato di coloro che soffrono di una leggera o acuta forma di incontinenza, per cui se ascoltano sibili come quelli appena accennati, rischiano di farsela addosso). Qualche volta ho avuto a che fare non solo con gli atei, ma anche con degli gnostici (non quella pasta morbida che si fa al sugo, quelli sono gli gnocchi…mi riferisco a quella specie di corrente filosofica che ci vorrebbe vedere tutti morti scamazzati come lombrichi da un certo Marduk…

Nooooooo! Non il padrone di Sky, è un altro…). Devo dire che sono preparati, e sono fissati, forse più degli atei, con la cossssssssssssssspirazione! Specie per quanto riguarda il discorso Vangeli canonici-Vangeli apocrifi. Anche qui c’è tutto un discorso di cospirazione: tipo che sono state omesse e modificate molte cose, che i Vangeli apocrifi sono quelli buoni mentre i canonici sono superfalsi, perchè c’è alle spalle una cosssssssssspirazione durata 2000 anni, che la verità è un’altra, ecc ( ma quanto mi piacciono tutti questi portatori di verità assoluteee!).

Ora, non voglio lasciare argomentazioni di tipo teologico in merito a certe cose, ma visto che stiamo cossssssssspirando tutti quanti, e certe cose non sono venute alla luce perchè c’è di mezzo la Chiesa Cattolica, che ha potere e cosssssspira, mi chiedo: se c’è tutta sta cosssssssssssspirazione contro i Vangeli apocrifi, come mai roba come “il Vangelo di Giuda” , studi a vantaggio dei Vangeli Apocrifi e affini sono vendutissimi, mentre roba di Teologia (quella seria) la trovi solo nelle librerie cattoliche? Booooooooooh!

Secondo me è la Chiesa, che a furia di cossssssspirare, si è cospirata da sola! Eh si, perchè Piergiorgio Ordifreddi lo conoscono tutti, Dan Brown lo conoscono anche i neonati, però se pronunci il nome Jean Carmignac, ti guardano smarriti e ti chiedono: “Chiiiiiiiii?”.

Per trovare “Nascita dei Vangeli Sinottici” ho dovuto girare in lungo e in largo, e mi son dovuta far spedire questo benedetto libro da Milano…poverino, era anche tutto impolverato…cucciolo…Tornando a noi, dico semplicemente che è un tantino inappropriato parlare di cospirazione, visto che accadono episodi come questo appena accennato, i quali mettono leggermente in discussione la bellissima idea che i preti stanno sempre a complottare, anzi no, a…cosssssssssssssspirare! Ora però devo andare in bagno, tutte ste “sssssssss” mi hanno veramente…ehm…”stimolata”!

Mmmh….con le categorie direi di aver termintato qui…Se approfondirò i miei studi, magari ne aggiungerò altre…però vorrei essere neutrale. Ora ho torturato gli ateucci, ed è giusto che prossimamente scriva qualcosa anche sui cattolici (non siamo stinchi di santi…hihihhi). Spero di avervi fatto sorridere (anche un po’ riflettere).  Un abbraccio a tutti quanti, specialmente ai miei fratellini atei! Che mondo noioso sarebbe senza di loro! Tutti che sono d’accordo…pensa un po’ che palle…hihihi!

TIPOLOGIE DI CATTOLICI – Marina Romano

15 maggio

TIPOLOGIE DI CATTOLICI

Salve a tutti, miei carissimi colleghi di cattolicesimo oscurantista. Come qualcuno ben saprà, mi ero proposta di scrivere qualcosa per la nostra misera categoria di persone. Purtroppo dovrete accontentarvi di una mera introduzione, in quanto non ho molto tempo in questo periodo, per cui scriverò poco per volta…Ora cominciamo con le mie memorie!

 

02 Novembre 2009

 

E’ buio, una notte tempestosa e tetra mi rende compagnia. Un lampo improvviso squarcia il cielo a metà. La sua terribile luce penetra nella mia stanza. Sono china sulla mia relazione, la più importante della mia vita, non mi accorgo di nulla. Il tremendo tuono che segue mi fa sobbalzare, mi guardo intorno, prendo la candela dalla mia scrivania, con la sua luce fioca mi faccio strada nella mia camera, per assicurarmi che sia tutto a posto. Ho un brutto presentimento, sento di non essere sola. Con timore mi risiedo e mi accingo a riflettere sui miei appunti sparsi qua e là. Comincio a tranquillizzarmi, ma il mio senso di inquietudine mi accompagna ancora. Un brivido improvviso percorre il mio corpo: sento dei sospiri dietro di me, non ho il coraggio di voltarmi, non ce la faccio! Sono letteralmente paralizzata: la candela si spegne. Una folata di vento? Impossibile, la mia finestra è chiusa… Improvvisamente altri lampi e tuoni illuminano la mia camera a giorno. Tutto intorno a me trema, mi volto di scatto e….Oh mio DIO!

 

Mi metto a gridare con quanto fiato ho in gola!

In quel preciso istante entra mia sorella nella mia stanzetta, accende la luce e mi dice con molta finezza:

< Marì, ma ch cazz è succies? (tipica espressione anglo-francese che significa: Marina, che acciderbolina è accaduto?)>

Io la guardo con due occhi sbarrati, tremo come una foglia.

< L….l….lo….lo…ha…ai…vis..to? Dico io ancora terrorizzata.

< Visto cosa?> Ribatte lei, guardandomi come in genere si guarda un maniaco omicida imbottito di psicofarmaci…

< N…n…niente…> le dico.

< Mm…non fare casino che voglio dormire>. Poi getta l’occhio sulla mia scrivania.

< Mi spieghi perché cacchio usi quella candela quando hai un lampadario che ti può illuminare una cattedrale?>.

La guardo smarrita, effettivamente non so perché la stessi usando prima.

< Marina, tu hai qualcosa che non va…> Mi dice affranta e ironica.

Dimenticando momentaneamente lo spavento di prima, le dico: < Và a dormire và, e non rompere le scatole>.

Lei (ormai arresa, visto che, poverina, ha me come sorella): < Vabbè, buona notte, scè!>

Io: < Buona notte, idiotessa!> (io e mia sorella ci salutiamo con questi vezzeggiativi…ovviamente scherzando!)

 

Resto immobile, in piedi, nella mia cameretta, come un’ebete. Dopo qualche secondo cerco di tornare in me. Torno alla mia scrivania, do un’ultimo sguardo a ciò che ho scritto, spengo la luce e vado a letto, cercando di dimenticare ciò che è accaduto poco fa. Mi giro e rigiro irrequieta. Mi dico che è stata un’acclucinazione, che sono flesciata, che ho un’immaginazione troppo fervida, che sto vedendo troppi film di Don Camillo in questo periodo…Subito dopo penso: “e se fosse vero?”

I miei tormenti durano finchè non odo scoccare 12 rintocchi: è mezzanotte!

Il brivido che mi ha pervasa prima si fa di nuovo strada…

Stringo a me le coperte quasi come a volermi proteggere.

Davanti a me…nella penombra, osservo due occhi che mi fissano…o cacchio! Comincio a tremare, vorrei poter fare qualcosa, ma il terrore mi paralizza. Odo di nuovo quegli strani sospiri di poco fa, che aumentano sempre di più… Mi sembra di sentire un sussurro… Una voce fioca che articola parole troppo basse perché io riesca a sentirle…

Mi sento male, che cacchio succede? Il sussurro si fa sempre più forte…finchè non riesco a sentire chiaramente la parola: Marina…

Mi sta chiamando… Il volume della voce aumenta…

< Marina…Marinaaa….Marinaaaaaaaaaa…>

Annaspo, mi sento soffocare, cerco di articolare qualche suono, quand’ecco che un lampo illumina di nuovo la mia stanza…e lo vedo!

Vorrei gridare, ma non mi riesce! Il terrore è al  massimo!

Mi chiama ancora:

< Marinaaaaaaaa….>

Finalmente riesco a dirgli: < C….c…c…chi…sei?>

E lui: < sono lo spirito di Piergiorgio Ordifreddiiiiiiii….>

< Cheeeeeeeeee?>

< Si, sono io.>

Io perdo in quel preciso istante tutto il mio terrore, che fa spazio a un sospiro di sollievo: tanto è uno spirito pericoloso quanto un piatto di pasta e patate.

< Sei proprio tu?> Gli chiedo per accertarmi che sia lui.

< Si!> Risponde lui, in modo solenne.

< Ah…>

Nel frattempo accendo la luce del lume sulla mia scrivania, e lo vedo chiaramente: è proprio lui!

Ha una tunica bianca addosso, come un vero spirito…solo che all’altezza del petto vedo stampata sulla stoffa una scritta strana…UAAR….

Riprendo il discorso dicendo: < Ma proprio te come spirito mi doveva capitare?>

< Se vuoi ti vado a chiamare lo spirito di Luigi!>

< Luigi chi?>

<Cascioli!>

< Nooooooooooooooooooooooooooooooooooo! Lui noooooooooo! Abbi pietà di meee! T…tu vai benissimo!>

< Ok!>

Dopo un po’ riprendo: < Comunque, Piergy, io credevo che tu fossi ancora vivo!>

< E lo sono, infatti!> Risponde lui, leggermente irritato.

< Allora mi spieghi cosa fai qui?>

< Aaaah! Voi catto-cretini non capite mai niente! Non ci sei arrivata? Io sono solo frutto della tua immaginazione!>

< Credevo fossi presente solo nei miei sogni erotici però…>

< E invece sono presente anche in altri momenti! E comunque se fossi un fantasma non mi farei certo vedere da voi cattolici! Ogni 3 secondi gridate al miracolo!>

< Allora, Piergiorgino, cosa vuoi? Perché mai avrei prodotto una simile visione?>

< Sono qui per comunicarti che che devi assolutamente pubblicare quello scritto!> Mentre dice ciò indica i miei appunti sulla scrivania.

< Quello?>

< Si! Hai rotto fin troppo le balle a noi! Adesso occorre che siano quelli della tua specie a patire!>

< Ma io…> mi accingo ad obiettare timidamente, ma lui mi interrompe:

< Basta! Non voglio sentire scuse! Altrimenti la prossima volta vengo in compagnia di Cascioli e della Guzzanti!>

< Ok…ok…lo pubblico…il tempo di dargli il titolo e lo pubblico!>

< Bene! Ti do tempo 3 giorni, non uno in più!>

< Ok!>

Dopo un po’ la sua immagine svanisce, tutto sembra essere tornato alla normalità. Mi siedo allo scrittoio, penso un po’, e finalmente il titolo:

 

TIPOLOGIE DI CATTOLICI!

 

CATTOLICI ANTICLERICALI: Sono meravigliosi! Sono quelli che, a furia di avere una mentalità aperta, danno perennemente ragione agli atei, anzi, provocano proprio loro certi ragionamenti. Magari ne incontri uno, che sta lì a dirti che la Chiesa fa schifo, che ha potere, che la odia, che è bigotta, attempata, che ogni suo dogma è un’assurdità…

Ad un certo punto gli chiedi: < Ma quando hai scelto di essere ateo?> e lui ti risponde: < Macchè ateo, io sono cattolico praticante!> guardandoti con quell’espressione di meraviglia, come a dirti: “ma come, non l’hai capito che sono devotissimo?”

Tu continui il discorso, cercando ti trovare una spiegazione razionale a simili asserzioni, e dici:

< Aaah…ma forse in Chiesa non ci vai mai…>

< Ma nooooo! Io a messa ci vado sempre, seguo 10 messe al dì!>. Magari si è fatto l’abbonamento al giornalino della parrocchia, oppure usufruisce dell’offerta 3 x 2 (3 omelie al prezzo di 2).

Tu resti sotto shock, non capisci niente, perdi ogni cognizione, non riesci più a definire niente…Ti risvegli solo dopo qualche ora, e ti accorgi che sei rimasto un sacco di tempo paralizzato, con la bocca aperta, tanto che una famiglia di rondini nel frattempo ha nidificato nella tua gola.

Questi cattoliconi sono straordinari, credetemi. Ma io chiedo loro una piccolissima cosa: se tu vai in chiesa, ci sarà un motivo… Forse mi risponderai: “ma io ci vado per il Signore, mica per quel vecchio scofanato del mio parroco, il quale ha la cazzimma che se lo mangia?”. D’accordo. Ci vai per il Signore, ma se hai scelto di frequentare un ambiente cattolico e non il Regno dei Testimoni di Geova ci sarà una ragione, un piccolo punto, una parte della Chiesa che è a te è piaciuta e che ti spinge ad andarci. E se un ateozzolo ti si avvicina e sputtana il clero, non ti dico di difenderlo ad oltranza e negare gli errori fatti da esso, ma credo sia anche opportuno dirgli: “senti, mio caro, hai tutte le ragioni del mondo, però sappi che c’è dell’altro nella Chiesa, che forse non hai visto…” e condividi con lui ciò che di bello c’è stato, senza aggredirlo o altro.

Poi si da per scontato che noi dovremmo fare nostro quel “non giudicare” che Gesù Cristo ci ha insegnato. E’ assurdo per me dire che bisogna perdonare tutti, anche il più grande criminale del mondo, per poi non essere in grado di usare misericordia per l’istituzione che hai scelto di seguire.

 

CATTOLICI-FAI DA TE: Sono un pizzichino meno aggressivi dei cattolici anticlericali. Seguono volentieri tutti i dogmi cattolici, tranne quelli che a loro non piacciono. Spesso e volentieri dicono di credere ai vangeli apocrifi, ma in realtà l’unico Vangelo che seguono è il “Vangelo Secondo Me”. Vorrei tanto entrare nell’evolutissima mente di queste persone… Forse credono che il Padre Eterno si sia fatto vecchio, perciò è un pochino più fessacchiotto di prima…Poi lodano la Chiesa finchè essa non va contro i loro interessi,  solo allora la giudicano male. Ma non è questo il punto che voglio farvi cogliere: io premetto che ognuno di noi ha il sacrosanto diritto di seguire ciò che vuole, siamo liberi!  Nessuno ci fulmina! Possiamo scegliere di non condividere le posizioni di Ratzingher, ma non trovo giusto criticarlo come persona sbagliata in quanto pensa determinate cose. Faccio un esempio concreto:

c’è una differenza quando dico: < Non vado a messa perché è una scelta che ho fatto IO> e quando invece dico: < Non vado a messa perché penso che la Chiesa sia bacchettona >. Spesso ragioniamo attraverso questi parametri, motiviamo le nostre scelte attraverso le critiche, ottenendo solo che ci deresponsabilizziamo. Forse il mio ragionamento è un po’ astruso, però spero di rendere bene l’idea…

 

CATTOLICI-PERPETUI:  Sono quelli che dormono in parrocchia. Li trovi a qualunque orario, e se vai la mattina presto li trovi in pigiama. Sono come il Signore: onnipresenti (almeno in chiesa)! Disponibili sempre, dovunque e comunque. Spesso sono madri e padri di famiglia, le cui case sono piene di munnezza, i cui figli trascorrono il tempo a rapinare i supermercati o a violentare i porcospini, e i cui mariti/mogli sono scappati con qualche cubano/cubana da anni, ma ancora non se ne sono accorti, perché a furia di seguire il parroco, non hanno tempo per sé stessi o per le loro famiglie. Lungi da me giudicarli, per carità: è bellissimo fare qualcosa per la propria parrocchia (fossi io più attiva), ma credo che assistere il proprio coniuge e i propri figli sia ancora più bello. Portare avanti una famiglia, un matrimonio, non è per nulla facile, e i propri affetti richiedono tempo, pazienza, dedizione. Credo sia sufficiente stare giusto qualche ora in parrocchia, per il resto c’è il parroco, la cui famiglia per lui è la comunità che serve (ecco, non volendo, abbiamo scoperto uno dei motivi per cui non facciamo sposare i nostri sacerdoti, e non facciamo ordinare i nostri ammogliati…hihihi!)

 

CATTOLICI-ATEI: Quello che fa parte di questa categoria ti dice: vado in Chiesa ma non credo. La mia perplessità è allo stato puro, forse uno così va a messa perché spera di non sbagliarsi… io qui da dire ho solo una cosa: BOH!

 

CATTOLICI-FEROCI:  Anche loro, sotto sotto, sono cattolici-fai da te, perché a prima vista sembrano i nipotini di Ratzingher! Sono d’accordo col papa in tutto e per tutto…seguono tutto della Chiesa, ogni precetto, ogni dogma, ogni regola…tranne una: quella di usare misericordia nei confronti dei fratelli non credenti!

Il che è abbastanza serio come problemino… Quando parlo di misericordia non parlo di quel sentimento super-presuntuoso che mi fa credere migliore di chi non crede: misericordia in linguaggio cattolico significa amore! L’altro è sacro quanto Dio, dal momento che vale il sangue divino di Cristo, proprio come me. Purtroppo avviene, nell’arco della vita, che non sempre riesco ad amare colui che non crede, perdo la pazienza, il che può anche essere normale, ma si trattano di momenti di debolezza, capitano come tutte le cose che ho appena elencato. Ma se ciò diventa un vizio, o peggio, l’unica via di approccio verso gli altri, allora c’è da preoccuparsi.

Faccio un esempio concreto: ci sono siti internet che difendono il cattolicesimo, lottando contro le blasfemie e le bestemmie. Fin qui tutto bene, è giusto difendere ciò in cui si crede, fino in fondo (specie quando succede che viene a mancare il rispetto per ciò che è sacro, sia per i cattolicesimo che per qualunque altra religione). Ma non mi puoi di certo definire “idiota”, “imbecille”, “cretino” o “demoniaco” una persona che bestemmia o che si accanisce contro la Chiesa (magari si scrivono certe cose in maniera premeditata). Leggendo uno di questi siti, che sembravano scritti da Osama Bin Laden, trovavo le risposte degli anticlericozzi, non proprio carucce, ci attaccavano amareggiati usando i soliti argomenti, però nei limiti del rispetto, devo ammetterlo. Uno di loro (giustamente) disse che se fino ad allora aveva odiato la Chiesa, adesso la odiava ancora di più, e che avrebbe lottato contro di essa, dal momento che eravamo apparsi ai suoi occhi come un gruppo di integralisti. Io non so se dal profondo del cuore questa persona sapesse quanto di cristiano ci fosse in quegli insulti, fatto sta che certe dichiarazioni così impregnate di giudizio e di offese gratuiti non avevano nulla di cattolico (a mio parere, ovvio). Sinceramente, non ce lo vedo Gesù Cristo o il papa offendere una persona perché bestemmia. Alcuni amici miei, anche dopo la conversione, hanno continuato ad avere questo problema, perché ormai quella di bestemmiare era diventata un’abitudine consolidata, e soffrivano molto per questo. Hanno dato una svolta perché i sacerdoti e le suore li hanno accolti con misericordia, e non con quell’atteggiamento di superiorità. Pensate se li avessero chiamato cretini: questi ragazzi avrebbero incrementato il disprezzo verso loro stessi o avrebbero preso in odio il cattolicesimo.

Poi, uno dei frati che mi ha seguita, mi ha detto che è un errore madornale allearsi con Dio, bisogna sempre stare dalla parte dell’uomo, in qualunque momento! Perché, mettendomi dalla parte di Dio, io gli dico: < Hai visto, Signore? Quello ha sbagliato, ha fatto questo e quest’altro!>, lui mi risponde: < Bene, Marina,hai ragione! Passiamo a quello che hai fatto tu, ora>. E lì so’ cazzi!

 

 

CATTOLICI-PAUROSI: Faccio parte di questa categoria, e sto lottando per uscirne. Sono l’esatto contrario dei cattolici feroci. Il tipico cattolicozzo cacasotto si trova in mezzo ad una comitiva di gente che parla male della Chiesa, di Dio, del papa. E che fa? Tace e abbassa la testa, sperando che nessuno si accorga del Tau che porta al collo, o del fatto che sia cattolico. Persone di questa categoria parlano male della Chiesa, ma non per convinzione (come fanno i cattolici fai da te o quelli anticlericali). Lo fanno par paura che gli altri possano giudicarli, ritenendoli bigottoni o altro. Effettivamente il cattolicesimo non è proprio una religione di moda. Anzi, spesso le parrocchie sono vissute come il rifugio degli sfigati. Chi ha paura di mostrarsi, forse non è convinto di portare avanti una cosa bella, ma una specie di struttura fatta di doveri.

Come ripeto, anche io ho vissuto una cosa del genere, e ne ho sofferto un pochino, quasi come se il mio essere cattolica fosse una vergogna, e mi sono ritrovata a dire (a me stessa):

“Marina cara, non ti dico che devi diventare una specie di Hannibal The Cannibal del cattolicesimo, ma spendila una parolina per il tuo Signore… Una, piccola piccola, senza mangiare nessuno, al limite dando le tue opinioni, almeno per farti conoscere e far sapere come la pensi…è importante conoscersi e farsi conoscere, anche nei propri difetti cattolicosi!”

Cosa dite? Mi chiedete se sono pazza? Beh…si…lo sono…

 

CATTOLICI-MISTICI: Diciamo che appena li vedi ti fai il segno della croce. Non per ammirazione, ma per paura! Ti verrebbe da chiamare l’esorcista. Il gruppo delle Bestie di satana sembra più equilibrato al loro confronto. Questi cattoliconi hanno apparizioni dappertutto! In bagno, in cucina, in camera da letto, oppure in comitiva, quando fumano quelle sigarettine magiche che hanno fabbricato con gli amici e che cacciano un odorino particolare…avete presente? (beh dopo quelle è normale che avvengano certe visioni). Per quanto esistano i miracoli, e per quanto ci siano effettivamente persone che hanno esperienze mistiche o possessioni demoniache, non credo bisogni gridare al miracolo soltanto perché Manuela Arcuri è riuscita a fare equazioni… (o forse si?)

Oppure dire che Pamela Anderson sia posseduta dal demonio solo perché l’ abbiamo vista senza trucco…

Sentii parlare di uno che aveva sempre visioni della Madonna, la quale una volta gli consigliò addirittura come fare il sugo… O di un altro che la mattina, appena sveglio, vedeva un fuoco ai piedi del letto. E che dire delle possessioni demoniache? Ne escono di tutti i colori.

Chiamatemi vigliacca o miscredente, ma io credo ai miracoli accertati dalla Santa Sede, la quale ci pensa migliaia di volte prima di accertare un miracolo. Affida a commissioni scientifiche (e atee) i presunti miracoli. Poi, al di là di quanto possiamo credere ad effetti straordinari o meno, bisogna avere sempre gli occhi aperti e saper discernere… Il confine tra Fede e fanatismo è moooooooolto sottile.

 

CATTOLICI-FRAVCATUR: Li adoroooooooo! Specie quando sono sacerdoti e ti fanno il sermone in napoletanoooooooooooooo! Hanno una semplicità straordinaria, ti sbattono la verità in faccia senza mezze parole, facendoti divertire e riflettere. Domenica ad un ritiro ho conosciuto don Enzo, e ho saputo che era un prete soltanto perché lo ha detto lui durante l’omelia…E cosa dire della mia guida spirituale, Damiano? Ti accorgi che è un frate solo perché ha il saio…hihihi! Non voglio fare pubblicità a loro, né dire che i sacerdoti e i cattolici più dolci siano di serie B, li ho solo catalogati, in quanto studiosa ho il dovere di elencare anche loro! Ehehe!

 

CATTOLICI-FILOSOFI: “Salve….vorrei esporre il motivo del mio cattolicesimo in chiave filologico-teoretico-gnostico-filosofica, specialmente se ci atteniamo ad un ottica di tipo Cristologica”…. AIUTOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!

 

 CATTOLICI-CAMORRISTI: Sono il più alto esempio di cristianità. I più grandi santi, durante il loro operato, si sono ispirati a loro… Il papa si consulta con loro prima di scrivere le sue omelie. La  loro coerenza è alle stelle. Come mi ha suggerito il mio amico Dayan, fanno edificare edicole, mettono nei palazzi o agli angoli dei vicoli la statua della Madonna o di San Pio a grandezza naturale, ovviamente tutta ricoperta di fiori, candele e ceri votivi. A vedere certe strutture pensi che il santuario di Pompei sia più semplice, e che a costruirle sia stato un mansuetissimo e devotissimo cattolicone che non ha mai fatto male ad una mosca, e invece… Alla mosca forse no, ma agli esseri umani si! Sono coloro che hanno concretizzato nella loro vita il messaggio evangelico di Gesù Cristo: “fai agli altri prima che essi lo facciano a te”! Diceva proprio così, vero? Almeno nel loro caso si. Il libro di Saviano rende molto bene il rapporto religione-camorra. Non voglio giudicarli, per carità, però questa forma di cattolicesimo fai-da-te non è di certo cattolicissimo… Non riesco a figurare nella mia mente Gesù che va in giro con un bazooka, o con una bomba a mano… Immagino la scena: < Ama il prossimo tuo….(prima di dire il “te stesso” fa esplodere una sinagoga…)>… è Cristo questo? Mmmm…io direi di no…

 

Ecco, ho finito con le catalogazioni. Se dovessi aggiornarmi, aggiungerò sempre su questo blogghettino. Come per gli anticlericozzi, il mio intento è quello di scherzare un poco (e di riflettere), quindi spero che non si sia offeso nessuno…Forse con i cattolici oscurantisti sono stata un po’ più noiosa, la maggior parte delle cose le ho dette già nel precedente blog…In effetti certi argomenti affrontati già per gli atei valgono anche per i credenti….

Un bacione a tuttiiiiiiiii! Ziaoooooooo!

CULTO SACRIFICIO SACERDOZIO – Don Enrico Ghezzi

 CICLO DI CATECHESI SULL’ANNO SACERDOTALE – tenute presso la nostra parrocchia nell’anno PASTORALE 2009/10

 

Culto,Sacrificio,Sacerdozio”

 

di  don Enrico Ghezzi,

 

Lasciarsi conquistare pienamente da Cristo! Questo è stato lo scopo di tutta la vita di san Paolo, al quale abbiamo rivolto la nostra attenzione durante l’Anno Paolino dello scorso anno; questa è stata la meta di tutto il ministero del Santo Curato d’Ars, che invocheremo particolarmente durante l’Anno Sacerdotale; questo sia anche l’obiettivo principale di ognuno di noi. Per essere ministri al servizio del Vangelo, è certamente utile e necessario lo studio con una accurata e permanente formazione teologica e pastorale, ma è ancor più necessaria quella “scienza dell’amore” che si apprende solo nel “cuore a cuore” con Cristo. È Lui infatti a chiamarci per spezzare il pane del suo amore, per rimettere i peccati e per guidare il gregge in nome suo. Proprio per questo non dobbiamo mai allontanarci dalla sorgente dell’Amore che è il suo Cuore trafitto sulla croce.

Solo così saremo in grado di cooperare efficacemente al misterioso “disegno del Padre” che consiste nel “fare di Cristo il cuore del mondo

 novembre 2009

Questi incontri avvengono nello spirito dell’ ’Anno sacerdotale’ indetto dal Papa Benedetto XVI: noi parleremo di due grandi Pontefici che lo hanno preceduto sulla cattedra di Pietro, in anni di straordinario fermento religioso e spirituale della Chiesa come sono stati gli anni del Concilio Vat.II, celebrato nella seconda metà del secolo XX.

Ritengo però utile, prima di affrontare la figura dei due grandissimi Pontefici come Giovanni XXIII e Paolo VI, fare un breve punto su cosa noi intendiamo per ‘sacerdozio’, indicando, anche solo di passaggio, altre grandissime figure sacerdotali: a Milano personaggi, oggi beati, come il card. Ferrari e il Card. Schuster; a Firenze il Cardinal Elia della Costa, a Bologna il  Card. Lercaro; e con la loro testimonianza, spesso profetica, sacerdoti come don Mazzolari, don Milani, e  santi come don Orione, don Guanella, don Gnocchi ecc.

 

Per comprendere la realtà del sacerdozio bisogna prima tener presenti due fondamentali punti di partenza che incontriamo nel progredire del cammino biblico del VT: già nell’antichissima storia del diluvio, quando Noè ‘uscito dall’arca.con i figli, la moglie e le mogli dei figli  edificò un altare al Signore.. con ogni sorta di animale, e offrì olocausti al Signore.’(Gen.8,18-20).

 Seguirà una lunga evoluzione che troverà  pieno superamento degli antichi riti soltanto, nel NT  nel compimento del  sacrificio sacerdotale di Cristo (lettera agli Ebrei): il sacerdozio è il momento culminate di due eventi che in qualche modo lo precedono, e che nella Bibbia possono essere indicati con il nome di‘culto’ e di ‘sacrificio’.

Debbo assolutamente sintetizzare, perché ci vorrebbero serate intere solo per illustrare il significato di”culto” e di “sacrificio” a cui segue il “sacerdozio”.

 

Il culto.

Diciamo soltanto che presso tutti i popoli antichi, anche quelli non biblici, esiste il ‘culto’ alle divinità: Egitto, Babilonia, Assiria, Persia, la terra di Canaan verso cui era diretto Abramo, tutte queste grandi civiltà conoscono e praticano il ‘culto’ agli dei: i popoli offrono sacrifici alle divinità.

Il culto è perciò ‘ un insieme di relazioni tra Dio e l’uomo.

Nella Bibbia è Dio che si ‘rivela’ all’uomo; in risposta l’uomo ‘adora’ Dio con il culto in forma ‘comunitaria’. Nella Bibbia inoltre, il popolo sente il bisogno di culto verso Dio, perché questo popolo è stato ‘eletto’, scelto da Dio  per cui  lo deve ‘servire’ e diventare ‘testimone’ di Dio.(In ebraico la parola culto deriva dalla radice  abad  che significa servire). Elementi del culto, per Israele, saranno: i luoghi, oggetti e persone sacre, santuari, arca, altari, sacerdoti;  ci saranno tempi sacri: feste, sabato, purificazioni, consacrazioni, circoncisione, sacrifici, offerte, profumi e prescrizioni come digiuni, proibizioni ecc.

Inoltre, dopo il peccato, il ‘culto’ è apparso come ‘sacrificio’: i patriarchi (Abramo, Isacco, Giacobbe) erigono ‘altari’ (Gen.,4,26; 8,20; 12, 8): Dio però esclude ‘sacrifici umani’ (ricorda il sacrificio di Isacco dove Dio interviene a proibire il sacrificio della sua vita Gen.22 ).

Dopo l’Alleanza di Dio con Mosè sul Sinai (Es.19,3-8), Israele diventa <un regno di sacerdoti e una nazione santa>(Es,19,6) e il suo ‘culto’ ha una legislazione sempre più esigente.

Il centro di questo culto è l’arca, simbolo della presenza di Dio in mezzo al suo popolo.  Il re Davide la stabilisce in Gerusalemme (2Sam.6) dove Salomone costruisce il ‘tempio’ ( 1Re 6) che diventerà l’unico luogo del culto sacrificale.

Dopo l’esilio (538 a.C.), il  culto si celebra nel‘tempio’ facendo risalire ad Aronne la genealogia dei sacerdoti.

Il culto, in Israele è soprattutto una ‘memoria’ dei fatti passati dove si attualizzano la ‘fede’ in Dio, un Dio che è presente come nel passato (Sal. 81) e dove si rinnova l’Alleanza (Gios,.24) in attesa  del tempo nel quale Dio inaugurerà il  ‘nuovo regno’ e le nazioni saranno unite. Prospettiva futura di cui in Geremia (31,31) annuncia la ‘nuova alleanza’. In seguito, attraverso i Profeti, il ‘culto’ diventerà spirituale;  l’alleanza come fatto interiore: fedeltà a Dio del cuore.

 

Nel NT  Gesù, come i profeti, esigerà la fedeltà allo spirito del culto (Mt. 23,16-23), per cui senza purezza del cuore, i riti di purificazione sono vani (Mt.23,25; 5,8).

Col suo sacrificio Gesù va oltre il culto antico: in Gv. 2,14; Gesù purifica il tempio e ci sarà un ‘nuovo tempio’ col suo corpo risorto(Gv.2,19). Allora avrà fine il tempio di Gerusalemme (Gv.4,21).

Nella chiesa nascente, il vero culto è quello in cui abita Dio e regna Gesù, come proclama Stefano (Att.6,13; 7,48).

 Anche Paolo predica continuamente che la ‘circoncisione è priva di valore e che il cristiano non è più soggetto alle osservanze antiche. Il cristiano è nuovo (Gal.5,1.6).

Con Gesù il nuovo culto è quello che annuncia, ed è il ‘culto‘spirituale’: <Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità>(4,24).

 Il sacrificio di Gesù è la ‘ nuova alleanza’ (Mc.10,45; 14,22) di cui i riti antichi erano immagini e che son ormai superati  Eb.10,1-8.

Gesù è il ‘nuovo culto’ perché il ‘suo  sacrificio ha veramente espiato  i peccati e dà la ‘vita eterna’ a coloro che mangiano e che comunicano con la ‘carne’ e il ‘sangue’ di Cristo (Gv.6,51) e che nella ‘cena’ ha inaugurato egli stesso nel banchetto sacrificale, e ha comandato di rinnovarlo (Lc.22,19 ss.).

 

La Chiesa   ha obbedito alle parole di Gesù, e nelle loro preghiere e riunioni cultuali i primi discepoli celebrano la frazione del pane’ come raccontano gli Atti ( 2,42; 20,7.11), e come tramanda anche Paolo nella 1Cor.10,16; 11,24.

 Per partecipare al banchetto dell’eucaristia bisogna aver ricevuto il battesimo ordinato da Gesù (Mt. 28,19) condizione della nuova vita (Mc.16,16, Gv.3,5); infine, con l’atto  delle imposizione delle mani, gli apostoli danno lo Spirito santo ai battezzati  (At. 8,15ss.).

Infine, il ‘culto’ cristiano, come quello di Israele, ha un triplice aspetto: 1) Commemora un’opera divina del passato; 2) L’attualizza; 3) Permette al cristiano di vivere  nella speranza del giorno in cui Cristo manifesterà la  gloria di Dio. 

 

1.Commemora  un’azione del passato. Il culto che il cristiano commemora, è l’offerta di Cristo per la nostra salvezza  i cui frutti sono la ‘risurrezione e il dono  dello Spirito.!

Questa azione pone termine al culto antico perché ormai la salvezza si è consumata in Cristo (Eb.7,18-28). Con l’eucaristia Cristo ci dà la possibilità di ricevere il frutto del sacrificio che ha offerto sull’altare della croce.

 

2. Attualizza con questo rito, la presenza di Cristo glorioso: misteriosamente, Cristo si rende presente perché noi ci uniamo al suo corpo e al suo sangue che ha offerto per diventare con lui un solo corpo, glorificando il Padre  sotto la mozione dello Spirito Santo (1Cor.10,16s; 11,24 ss; Fil.3,3).

Con questa comunione noi abbiamo accesso al santuario celeste (Eb.10,19ss), dove Cristo dimora come sacerdote eterno (Eb.7,24s,9,11s.24); qui è celebrata l’adorazione del Padre in ‘spirito e verità’che è il solo culto degno del Dio vivente ( Gv.4,23; Eb.9,14).

Questa adorazione  è celebrata dall’agnello immolato dinanzi al trono di Dio, nel cielo, vero tempio di Dio, dov’è la vera arca dell’alleanza (Apoc. 5,6; 11,19). Gli eletti glorificano Dio con il Sanctus (Ap.4,2.11; Is.6,1) e glorificano pure l’agnello che è il suo Figlio (Apoc.4,1) e che ha fatto di essi un regno di sacerdoti per unirli al suo culto perfetto (Ap.5,9-13).

 

3. La speranza della gloria.

Nell’ultimo giorno finiranno i riti che lo annunziano e che noi celebriamo ‘finchè venga’ l’Agnello, rispondendo alla invocazione della sua sposa ‘Marana tha=Vieni, o Signore! (Apoc. 19,7; 22,17; 1 Cor.11,26, 16,22). Allora non ci sarà più il tempio per indicare la presenza di Dio; nella Gerusalemme celeste la ‘gloria’ del Signore non si manifesterà più mediante segni (Apoc. 21,22). Infatti nella città santa dell’eternità, i servi di Dio gli renderanno un culto non più come peccatori ma come figli: vedranno il padre faccia a faccia e berranno alla sua fonte  l’‘acqua viva dello Spirito’ (Apoc. 21,1-7).23, 22,1-5).   

 

Il sacrificio

 

1.Tutta la Bibbia è attraversata dall’idea di sacrificio.

In Gen 6,2 ancora una umanità primitiva: Noè edifica un altare per ‘sacrificare ogni sorta di animali e uccelli’.

Gen. 15,9 Dio ad Abramo: ‘Prendimi una giovenca…’

Es. 5,3. Epoca mosaica: ‘Mosè ed Aronne vennero dal faraone e gli annunciarono:

<Così vuole il Signore, il Dio di Israele. Lascia partire il mio popolo, perché mi  celebri una festa nel deserto’.

Così in  seguito, nel periodo dei Giudici (1200-931 a.C)  e dei Re (931-731 a.C) (Giud. 20,26; 1Re 8,64) e nell’età post-esilica (538-333 a.C: restaurazione dell’epoca persiana Esd.3,1-6). 

Nell’epoca ellenistica (333-63 a.C quando  Pompeo  occupa Gerusalemme : 1Mac.; 2 Mac.; Dn 11

Epoca romana: 63 a.C -135 d.C, Adriano rioccupa Gerusalemme (134).

 

Fino al tempo di Gesù e alla distruzione del tempio di Gerusalemme (70 d.C), ad opera di Tito,

il sacrificio  ritma l’esistenza dell’individuo in Israele e della comunità.

Ma anche fuori dal popolo eletto il sacrificio con il misterioso episodio di Melchisedec (Gen. 14,18), in cui la tradizione vede un pasto sacrificale, il sacrificio esprime la pietà personale e collettiva.

Anche Isaia  56,7; 66,20 ricorda le offerte dei pagani-

Nel VT gli scrittori non concepiscono vita religiosa senza sacrificio. Il NT preciserà questa situazione. 

 

2. VT. Sviluppo dei riti sacrificali:

.

1.Dalla semplicità originale.

Nell’epoca più lontana della storia biblica c’è il rituale del sacrificio dei nomadi o seminomadi: erezione di altari, invocazione del nome divino, offerta di animali o di prodotti del suolo (Gen.4,3; 12,7s)., Senza posto fisso: si sacrifica dove Dio si manifesta. L’altare di terra primitivo, la tenda mobile (Es.20,24; 23,15) indicano il carattere occasionale dei luoghi di culto. Non ci sono ancora ministri specializzati: il capo di famiglia o della tribù, e sotto la monarchia il re, immolano vittime. Ben presto però uomini più qualificati assumono questo ufficio (Deut.33,8ss Giud.17).

Sotto Giosia (640-609 a.C)  il tempio diventerà il centro unico di ogni attività sacrificale, così i sacerdoti riserveranno a sé il monopolio dei sacrifici.

 

2. Alla complicità dei riti.

Nella storia di Israele c’è una evoluzione: sviluppo causato dal passaggio dello stato nomade e pastorale alla vita sedentaria e agricola, sia dall’influsso cananeo e crescente importanza del sacerdozio. Elementi presi dai vicini (cananei) ma filtrati e purificati: viene escluso il sacrificio umano (Deut.12,31).

  

3. Aspetti diversi del sacrificio.

Olocausti con vittime: (Gen.8,20= Noè), con tori, agnelli, capretti, uccelli interamente bruciati per esprimere il dono totale.

Presso i ‘Semiti’ è diffuso il pasto sacro (zebah selamim): il fedele mangia e beve  <davanti a Jahvè> (Deut.12,18);   anche l’Alleanza del Sinai è suggellata da un sacrificio del genere. Una parte della vittima (bestiame grosso o minuto) spettava di diritto a Dio, che è padrone della vita  Il sangue  effuso e i grassi consumati sono ‘alimento di Dio’,  cibo di Jahvè, mentre la carne serviva da cibo ai commensali. Secondo una forma arcaica  (Gen.8,21), Dio gradiva offerte <dal profumo soave> (Lev.1,9, 3,16).  

 

Sintesi del Levitico.

Il Levitico,  con linguaggio tecnico espone i ‘doni’ offerti a Dio (Lev.1,7; 22,17-30) che siano cruenti o incruenti: olocausto, offerte  di cibo, sacrifici di comunione (eucaristico), sacrificio per il peccato (hatta’ah), sacrificio di ‘riparazione’ (asam) . Atti minuziosi assumono un senso  sacro.

Il ‘ringraziamento’ ed anche il desiderio di ‘espiazione’ (Lev.1,4; Giob.1,5) ispirano l’olocausto.. Dietro una termini ligia fredda,  si scopre un senso affinato della ‘santità’ di Dio, l’ossessione del ‘peccato’’ un bisogno forte di ‘purificazione. In questo rituale la nozione di  sacrificio tende a concentrarsi intorno all’idea di ‘espiazione’.

Il  ‘sangue’ vi ha una grande parte (Lev.17,11; Is.43,25), e suppone sentimenti di  ‘penitenza’.

I riti di purificazione iniziavano i fedeli  alla purificazione del cuore.

 

4. Dai riti al sacrificio spirituale.

 1. I riti come segno del < sacrificio spirituale>

Il Dio della Bibbia non trae profitto dai sacrifici. I riti rendono visibile i sentimenti interni: adorazione (olocausti), intimità con Dio (selamim), confessione del peccato, desiderio del perdono (riti espiatori). Il sacrificio interviene nelle cerimonie di  alleanza con la divinità(cfr. Gen.8,20 ss), specialmente al Sinai (Es.4,24,5-8); consacrala vita nazionale, familiare, individuale, soprattutto in occasione dei pellegrinaggi e delle feste (1Sam.1,3; 20,6; 2Re 16,15), secondo Gen. 22 , che è forse la carta dei sacrifici del tempio, Dio rifiuta le vittime umane, accetta l’immolazione degli animali; ma gradisce questi doni soltanto se l’uomo li offre con cuore nella fede, sull’esempio del patriarca  Abramo.

2. Primato della religione interiore.

C’era il pericolo di  attaccarsi al rito, trascurando il significato del ‘segno. Da qui le ammonizioni dei ‘profeti’’. Essi non condannano il sacrificio in quanto tale, ma le sue contraffazioni, soprattutto le pratiche cananee (Os. 2,15; 4,13). Senza disposizioni del cuore , il sacrificio è un atto ‘ipocrita’e dispiace a Dio (Am.5,25; Is.43,23).

I profeti insistono sul primato dello ‘spirito’ (anima) (Am.5,24; Os. 6,6: Mi.6,8). Il sacrificio interiore non è succedaneo ma l’essenziale (Sal.51,18ss). Questa corrente spirituale, riappare in Qumran, che denunciava  la pietà superficiale e infine, chiamava in causa i riti stessi.

In questo senso i profeti anticipavano la rivelazione del NT sull’essenza del sacrificio.

3. Il vertice della religione interiore del VT.

Il  servo di Jahvè, nel profeta Isaia 53, è il vertice della di questa religione dell’interiorità: egli offrirà la sua morte in sacrificio di espiazione. E’ un progresso notevole rispetto le concezioni di Lev.16. Qui, il capro espiatorio,  nel giorno della ‘espiazione’ portava via i peccati del popolo, ma non si identificava con la vittima del suo sacrificio. Il servo invece di Is.53, si sostituisce liberamente ai peccatori. La sua oblazione per la <moltitudine> è secondo il disegno di Dio.

Qui il massimo di interiorità si unisce  al massimo del dono con il massimo di efficacia.

 

IL NT.

 

Gesù riprende l’idea profetica del primato dello spirito sul rito (Mt.5,23s; Mc.12,33).

Tra i due Testamenti (testamento = alleanza), c’è continuità e superamento: continuità con l’applicazione alla morte di Cristo del vocabolario sacrificale nel NT; superamento con l’assoluta originalità dell’offerta di Gesù.

 

1.Gesù si offre in sacrificio. 

Gesù annuncia la sua passione  servendosi degli stessi termini che caratterizzavano il sacrificio espiatorio del ‘servo di Dio’. Gesù viene per ‘servire: ‘dà la sua vita’, muore  in riscatto’ a vantaggio della ‘moltitudine’ (Mc.10,45, Lc.22,37; Is.53,10ss).

Inoltre la cornice ‘pasquale’ del ‘pasto d’addio’ (Mt.26,2: Gv.11,55ss; 12,1…;13,1) stabilisce una relazione intenzionale precisa, tra la morte di Cristo e il sacrificio dell’agnello pasquale .

Infine, Gesù si richiama espressamente a Es. 24,8, facendo sua la formula di Mosè: ‘il sangue dell’alleanza’ (Mc.14,24 par.).

Il triplice riferimento all’agnello il cui sangue libera il popolo giudaico, alle vittime del Sinai che suggellano l’antica alleanza, fino alla morte espiatrice del servo, dimostra con chiarezza il carattere sacrificale della morte di Gesù: essa procura al popolo la remissione dei peccati, consacra l’alleanza definitiva e la nascita di un popolo nuovo e assicura la ‘redenzione’.

Ciò indica l’aspetto  fecondo del sacrificio del Calvario: la morte diventa fonte della vita.

La formula pregnante di Gv.17,19  riassume questa dottrina: ‘Per essi io consacro me stesso, affinchè anch’essi siano consacrati nella verità’.

L’eucaristia  destinata a rendere presente ‘nella memoria’ (cfr. Lev. 24,7), nella cornice di un pasto, l’unica oblazione della croce (Gesù), collega il nuovo rito dei cristiani agli antichi sacrifici di comunione .Così ‘offerta di Gesù, nella sua realtà cruenta e nella sua espressione sacramentale, ricapitola e compie l’economia del VT: è, insieme, ‘olocausto’, ‘offerta espiatrice, sacrificio di comunione.  La continuità dei due  Testamenti è innegabile. Ma per la sua unicità, a motivo della  dignità del Figlio di Dio e della perfezione della sua offerta, per la sua efficacia universale, l’oblazione di Cristo supera i sacrifici vari e molteplici del VT.  Vocabolario antico, contenuto nuovo.

La chiesa riflette sul sacrificio di Gesù.

1.Dal sacrificio del Calvario al pasto eucaristico.

Gli scritti apostolici, sviluppano, sotto forme diverse, queste idee.

Gesù diventa < la nostra Pasqua> (1Cor. 5,7; Gv. 19,36);  <l’agnello immolato> (1Piet. 1,19; Ap.,5,6)  inaugura nel suo sangue la nuova alleanza (1Cor. 11,25), realizza l’espiazione dei peccati  (Rm.3,24s), la riconciliazione tra Dio e gli uomini (2Cor.5,9ss; Col.2,14). Come nel Levitico si insite sulla funzione del sangue  (Rom. 5,9; Col. 1,20; Ef.1,7;  1Pt.1,2.18s;  1Gv.1,7;  5,6 ; Ap. 1,5).

Gli apostoli tracciano un accostamento tra il sacrificio di Isacco (Gen.22) e quello di Gesù. Parallelo che mette in risalto la perfezione dell’offerta di Cristo al Calvario: Cristo agapetòs (‘rediletto)(cfr. Mc,12,6; 1,11; 9,7), si offre alla morte, e il Padre, per amore degli uomini, non risparmia il suo proprio Figlio (Rom.8,12; Gv,.3,16). Così, la croce rivela la natura intima del sacrificio: nella sua sostanza spirituale, il sacrificio è un atto d’amore.

Ora nel tempio era prevista una ‘mensa’ per i pani della proposizione, anche nella comunità cristiana esiste la ‘mensa del Signore’ Paolo paragona espressamente l’eucaristia ai banchetti sacri di Israele (1Cor.10,18). I cristiani non partecipano più soltanto a cose <sante’, ma comunicano con il corpo ed il sangue di Cristo (1Cor.10,16), principio di vita eterna (Gv.6,55-58). Questa partecipazione significa e produce l’unione dei fedeli, in un solo corpo (1Cor.10,17). Di fatto, si realizza così  il sacrificio ideale previsto da Malachia (1,11), valido per tutti e per tutti i tempi.

 

2.Figure e realtà.

La liturgia antica del VT preparava e prefigurava il sacrificio di Cristo. La lettera agli Ebrei rende esplicito questa dottrina mediante il paragone continuo tra le due economie. Nella lettera agli Ebrei Gesù è chiamato ‘sommo sacerdote’ e vittima, e come Mosè sul Sinai, crea un’alleanza tra Dio e il suo popolo. Ora questa ‘alleanza’ è definitiva e perfetta (Ebr.8,6-13; 9,15.10,18).

Come il ‘Sommo sacerdote’ nel giorno della espiazione, Cristo compie un’azione purificatrice: elimina il peccato con l’effusione del suo sangue, e i fedeli ottengono così la ‘ purificazione delle coscienze ’. (Ebr.9,12ss).

Questo sacrificio, a differenza degli altri sacrifici che erano soltanto l’ombra della realtà, non ha bisogno di essere reiterato (Ebr.10,1.10). La liturgia che secondo l’Apocalisse (5,6..) si svolge in cielo attorno all’Agnello immolato, si ricollega alla rappresentazione della lettera agli Ebrei.

Come già nei profeti, dove l’atto rituale si rinnovava nella vita quotidiana,  anche nel NT si ritrova la stessa applicazione spirituale alla vita cristiana ed apostolica (Rom.12,1; 15,16; Fil.2,17; 4,18; Ebr.13,15). 

I credenti, con l’azione dello Spirito che li anima, in comunione col Signore, formano ‘un sacerdozio santo, allo scopo di offrire sacrifici spirituali, bene accetti a Dio per mezzo di Gesù Cristo’ ( 1Pt. 2,5).

 

3. IL SACERDOZIO.

Nella lettera agli Ebrei, Gesù ‘possiede un sacerdozio immutabile’(Ebr. 7,24).

La lettera agli Ebrei, volendo definire la ‘mediazione’ di Cristo,l’accosta ad una funzione che esisteva nel VT come in tutte le religioni vicine: quella dei sacerdoti.  Per capire perciò il sacerdozio di Cristo, bisogna comprendere il sacerdozio del VT che lo ha preparato e prefigurato.

 

1 VT.

 

1. Storia della istituzione sacerdotale.

 Es.32,

1. Presso i popoli civili che circondano Israele, la funzione sacerdotale è assicurata dai re, specialmente in Mesopotamia e in Egitto. Esiste una vera casta sacerdotale, divisa in gerarchia.

Questo non avviene presso i  patriarchi (Abramo- Isacco-Giacobbe).

In quel tempo, non esistevano né tempio, né sacerdoti specializzati del Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Le tradizioni della Genesi piuttosto, mostrano gli stessi patriarchi che costruiscono altari in Canaan (Gen.12,7s, 13,18, 26,25), ed offrono sacrifici (Gen.22,31,54; 26,25). Essi esercitano un sacerdozio familiare, praticato dai popoli antichi. I soli sacerdoti che compaiono sono stranieri: il sacerdote-re di Gerusalemme Melchisedec (Gen.14,18ss) ed i sacerdoti del Faraone (Gen.41,45; 47,22).

La tribù di Levi non ha ancora funzioni sacre (Gen.34,25-31).

 

2. A partire da Mosè, egli stesso levita, sembra farsi strada la specializzazione della tribù di Levi, nelle funzioni cultuali. Es.32,29: <Mosè disse:’Ricevete oggi l’investitura dal Signore…>

Il racconto arcaico di Es.32,25.29, esprime il carattere essenziale del suo sacerdozio: essa è eletta e consacrata da Dio stesso per il suo servizio, e la benedizione di Mosè  attribuisce i compiti specifici

dei sacerdoti (Deut.33,8-11).

I leviti sono sacerdoti per eccellenza (Giud.6,18-29; 13,19; 1Sam.7,1).

 

3. Sotto la monarchia  (c.1000-700 a.C.), il re esercita parecchie funzioni del sacerdote: Saul offre sacrifici (1Sam.13,9); David offre sacrifici (2Sam.6,13.17; 24,22-25) fino ad Achaz (736-716 a.C:) (2Re,16,13). Tuttavia il re riceve il titolo di sacerdote soltanto nell’antico salmo 110,4 che lo  paragona a Melchisedec. La casta sacerdotale diventa una istituzione organizzata specialmente nel santuario di Gerusalemme, che -dall’epoca  di David-  è il centro cultuale di Israele.

 Da  Sadoq (2Sam.8,17), di origine sconosciuta, saranno i suoi discendenti a dirigere il sacerdozio del tempio fino al II sec.a.C.: Genealogie ulteriori lo collegheranno  alla discendenza di Aronne (cfr. 1Cron.27.34)  come già Abiatar, sacerdote, discendente di Eli, che amministrava a Silo (2 Sam.8,17). Leggiamo in Ezechiele: <I sacerdoti leviti figli di Sadoc…>

4. La riforma di Giosia  nel 621 a.C., sopprimendo molti santuari, consacra il monopolio levitico del sacerdozio di Gerusalemme e riserva l’esercizio delle funzioni sacerdotali ai soli discendenti di Sadoq (2 Re  23,5.9). La simultanea rovina del tempio e della monarchia (587 a. C) pone fine alla tutela del re sul sacerdozio e conferisce al sacerdozio stesso una autorità maggiore sul popolo.

Liberato ormai dal potere politico (che passa ai dominatori pagani: epoca persiana 538-333 a.C., epoca ellenistica 333-63 a.C.;  63-135 d.C., dominazione  romana), il sacerdozio diventa guida religiosa della nazione.

Il progressivo scomparire del ‘profetismo’ a partire dal secolo V accentua ancora la sua autorità. Già nel 573 i progetti di riforma di Ezechiele escludono ‘il principe’ dal santuario. (Ez.44,1 ss; 46). La casta levitica possiede ormai un monopolio incontestato (la sola eccezione Is.66,21 non concerne che ‘gli ultimi tempi’). Le raccolte sacerdotali del Pentateuco (sec. V e IV), poi l’opera del Cronista (sec.III), danno un quadro particolareggiato della gerarchia sacerdotale.

Essa è rigorosa. Al vertice, c’è il ‘sommo sacerdote’, figlio di Sadoq, successore di Aronne. Il titolo di sommo sacerdote appare in un momento in cui l’assenza del re  fa sentore il bisogno di un capo per la teocrazia.  L’unzione che egli riceve, a partire dal IV sec. (Lev.8,12; Dan.9,25), ricorda quella che un tempo consacrava i re. Sotto di lui stanno i sacerdoti, figli di Aronne.

Infine i leviti, clero inferiore, sono raggruppati in tre famiglie, alle quali vengono aggregati i cantori e i portieri (1Cron.25-26). Queste tre classi (sommo sacerdote, sacerdoti, leviti) costituiscono la tribù sacra, tutta votata al servizio del Signore.

 

Ormai la gerarchia non conoscerà più variazioni. Nel 172 a.C., l’ultimo sommo sacerdote discendente da Sadoq, Onia III, è assassinato per intrighi politici. I suoi successori vengono designati fuori dalla sua casata, dai re della Siria.

La reazione dei Maccabei (I-2) termina con la investitura di Gionata, uscito da una oscura famiglia sacerdotale. Il fratello Simone che gli succede (143 a. C), costituisce il punto di partenza  della dinastia degli Asmonei , sacerdoti e re (143-37 a. C.).

Capi politici e militari più che religiosi, provocano l’opposizione dei farisei. Dal. canto suo, il clero tradizionalista, rimprovera loro l’origine non sadoquita, mentre la setta sacerdotale  di Qumran, passa persino allo scisma. A partire dal regno di Erode (37 a. C), si sommi sacerdoti sono designati dall’autorità politica, che li sceglie tra le grandi famiglie sacerdotali, le quali costituiscono il gruppo dei < sommi sacerdoti >,  più volte nominati nel NT.

 

II. Le funzioni sacerdotali.

Nelle religioni antiche i sacerdoti sono i ‘ministri del culto’ i custodi delle tradizioni sacre, i portavoce della divinità.

In Israele il sacerdozio esercita sempre due ministeri fondamentali: il servizi del culto e il servizio della parola. 

1. Servizio del culto.

Il sacerdote è l’uomo del santuario. E’ custode dell’arca nell’epoca antica (1Sam.1-4;2 Sam.15,24-29)., accoglie i fedeli nella casa di Jahvè (1Sam.1), presiede alle liturgie in occasione delle feste dei popolo (Lev.2311,20). Il suo atto essenziale è il sacrificio.

In esso egli appare nella pienezza della sua funzione di mediatore : presenta a Dio l’offerta dei suoi fedeli e trasmette loro la benedizione divina. Così Mosè  nell’alleanza sul Sinai (Es. 24,4-8); così Levi, capo di tuta la dinastia sacerdotale (Deut.33,10).

Dopo l’esilio (538 a.C.), i sacerdoti svolgono questo ufficio, ogni giorno, nel sacrificio perpetuo (Es.29,38-42). Una volta all’anno  il sommo sacerdote appare nella sua funzione di mediatore supremo officiando nel giorno della espiazione (Yom Kippur), per il perdono di tutte le colpe del suo popolo (Lev.16).

E’ pure incaricato dei riti di consacrazione e di  purificazione: l’unzione regale (1Re,1,39; 2 Re 11,12), la purificazione dei lebbrosi (Lev.11,12) o della puerpera (Lev.12,6ss).

 

2.Il servizio della parola.

In Mesopotamia e in Egitto, il sacerdote esercitava la divinazione; in nome del suo dio, rispondeva alle consultazioni dei fedeli. Nell’antico Israele il sacerdote svolgeva una funzione simile usando l’efod (1Sam. 14,36.42; Deut 33,89 ( efod = paramento sacro usato nel culto dell’antico Israele, una specie di sopravveste indossata dal sommo sacerdote, cui veniva legato il pettorale con gli Urim e i Tummim, oggetti usati come strumenti divinatori –Es. 28,30; Lev. 8,8 ; pare si tratti di due pietre o di due tavolette);  questi oggetti non si ritrovano più dopo David.

In Israele però  la ‘parola’ di Dio  giungeva al popolo attraverso i profeti  mossi dallo spirito.

Tuttavia la tradizione,  che cristallizza i grandi avvenimenti della storia sacra come  l’alleanza sinaitica o i grandi ricordi del passato che si rispecchiano nella ‘legge’ , in questo caso i ministri della parola sono i sacerdoti come Aronne in Es.4,14-16.

Nella liturgia delle feste, essi ripetono ai fedeli i racconti su cui si fonda la fede. (Es.1-15 ;  Gios.2-6 sono echi di queste celebrazioni). Proclamano la Torah, (Es.24,7; Deut.27; Neem.8), ne sono interpreti ordinari, (Deut.33,10; Ger. 18,18; Ez.44,23) ed esercitano una funzione giudiziaria (Deut.17,8-13; Ez.44,23).

In questo modo i sacerdoti assicurano la redazione scritta della legge nei diversi codici: Deuteronomio, legge di santità (Lev.17-26), torah di Ezechiele (40-48), legislazione sacerdotale (Es,. Lev., Num.), compilazione finale del Pentateuco (cfr. Esd. 7,14-26; Neem.8).

Negli ultimi secoli aumenta l’autorità degli scribi laici, collegati, per lo più, alla setta dei farisei, che al tempo di Gesù saranno maestri principali in Israele.

 

III. Verso il sacerdozio perfetto.

Il sacerdozio del VT, in complesso, è stato fedele alla sua missione: con le sue liturgie, il suo insegnamento e con la redazione dei libri sacri, ha conservato viva in Israele la tradizione di Mosè e dei profeti e ha assicurato di età in età, la vita religiosa del popolo di Dio. Alla fine però, doveva essere superato.

 

1.La critica del sacerdozio.

I profeti hanno spesso stigmatizzato i limiti dei sacerdoti, inferiori al loro compito.

Deficienze maggiori: contaminazione del culto di Jahvè con gli usi cananei nei santuari locali di Israele (Os.4,4-11; 5,1-7; 6,9); sincretismo pagano a Gerusalemme  (Ger.2,26ss; 23,11; Ez. 8); violazione della torah (Sof.3,; Ger.2,8;  Ez. 8); opposizione ai profeti (Am.7,10-17; Is.28,7-13; Ger.20,1-6); interesse personale (Mic.3,11; cfr. 1Sam.2,12.17; 2Re,12,5-9); mancanza di zelo per il culto del Signore (Mal.2,1-9..).

Bisogna tuttavia ricordare che Geremia ed Ezechiele erano sacerdoti; così pure sacerdoti erano quelli che hanno redatto il Deuteronomio e la legge di santità, cercando di riformare la propria casta; negli ultimi secoli poi del giudaismo, la comunità di Qumran, si stacca dal tempio opponendosi al <sacerdozio empio >, ed era una setta sacerdotale.

 

2.L’ideale sacerdotale.

L’interesse principale di queste critiche  e di questi disegni di riforma erano ispirati da un ideale sacerdotale. I profeti ricordano ai sacerdoti contemporanei i loro obblighi : esigono da essi il culto puro, la fedeltà alla torah. I legisti sacerdotali, da parte loro, definiscono la purità , e la santità dei sacerdoti (Ez. 44,15-31; Lev. 21,10)-

Si attendi il sacerdote fedele a fianco del Messia figlio di David (Zac.4; 6,12;Ger. 33,17-22), in alcuni testi  biblici (Zac.3,8, 6,11), come negli scritti di Qumran, il messia sacerdotale prende il soppravvento sul  messia regale. Questo primato del sacerdote è in armonia con un aspetto essenziale della dottrina dell’alleanza:

Israele è il ‘popolo-sacerdote’ (Es.19,6; Is.61,6;  2Mac.2,17s), il solo popolo al mondo che assicuri il  culto del vero  Dio e renderà al Signore il culto perfetto  (Ez. 40,48, Is.60-62; 2,1-5).

Nel VT tra Dio e il popolo ci sono diverse  mediazioni: il re guida il popolo di Dio  come capo istituzionale; il profeta porta personalmente la parola di Dio originale, adatta a una situazione particolare in cui egli è responsabile  della salvezza dei suoi fratelli.

Il sacerdote, come il profeta, ha una missione strettamente religiosa, ma la esercita nella cornice delle istituzioni;  è designato dal diritto ereditario, è legato al santuario e alle sue usanze. Porta al popolo la ‘parola di Dio’ in nome della ‘tradizione e non di sua testa; commenta i grandi ricordi della storia sacra ed insegna la legge di Mosè. Porta a Dio le preghiere del popolo nella liturgia e risponde a questa preghiera  con la benedizione divina.’

 

NT.

I valori del VT  assumono tutto il loro senso soltanto in Gesù che li compie e li supera.

Questa legge si applica per eccellenza nel sacerdozio.

 

1 Gesù, sacerdote unico.

 

1 Vangeli sinottici.

Gesù non si attribuisce mai il titolo di ‘sacerdote’. Ciò è comprensibile perché, nel suo ambiente, questo titolo designava una funzione riservata ai membri della tribù di Levi.

Gesù vede il suo ufficio ben diverso dal loro e tanto più ampio. Preferisce chiamarsi ‘figlio’ e ‘figlio dell’uomo. Per definire la sua missione, si avvale di termini sacerdotali.

Il fatto è chiaro quando parla della sua morte.  Per lui è un sacrificio che descrive con le figure del VT

E’ come il sacrificio espiatorio del servo di Dio  (Mc.10,45; 14,24; cfr. Is.53).

O come il sacrificio di alleanza ai piedi del Sinai (Mc.14,24; cfr. Es. 24,8); il sangue che egli dà nel tempo della Pasqua evoca quello dell’agnello pasquale (Mc.14,24; cfr. Es.12,7.13.22). Accetta questa morte e la offre come il sacerdote offre la vittima; ne accetta l’espiazione per i peccati per instaurare la nuova alleanza per la salvezza del popolo.

Egli perciò è il sacerdote del  proprio sacrificio.

La seconda funzione del sacerdote  nel VT era il servizio alla torah. Gesù è chiaro davanti alla legge di Mosè: viene a compierla (Mt.5,7); anzi supera la legge  (Mt.5,20.48), e ne mette in luce il valore profondo, incluso il primo comandamento e nel secondo che gli è simile (Mt.22,34-40).

 

2. Da Paolo a Giovanni.

Paolo spesso ritorna alla morte di Gesù, sotto le figure dell’agnello pasquale (1Cor. 5,7), del servo (Fil.2,6-11), del giorno della espiazione (Rom.,3,24s). Questa interpretazione sacrificale appare ancora nelle immagini della comunione col sangue di Cristo (1Cor.10, 10,22), della redenzione in virtù del sangue (Rom,5,9; Cil.1,20; Ef.1,7; 2,13). Secondo Paolo, la morte di Gesù è l’atto supremo della sua libertà, il sacrificio per eccellenza, atto propriamente sacerdotale che egli ha offerto personalmente. Ma come già fece Gesù, anche Paolo non dà  a Gesù il titolo di sacerdote.

La stessa cosa vale per tutti gli altri scritti del NT, salvo la lettera agli Ebrei: essi presentano la morte di Gesù come sacrificio del servo (Att.3.13.26; 4,27.30; 8,22s; 1Pt.2,22ss), dell’agnello (1Pt.1,19). Evocano il suo sangue (1Pt.1,2.19; 1Gv.1,7). Ma non lo chiamano mai sacerdote.(attribuito alla tribù di Levi).

Giovanni 17: nella preghiera sacerdotale, nel racconto della passione, Gesù si presenta come il sacerdote che sta per offrire un sacrificio: Gesù <si santifica>, cioè <si consacra> mediante il suo sacrificio ( Gv.17,19), ed  esercita così una mediazione efficace alla quale aspirava invano il sacerdote antico.

(Ancora meglio per Gv.17,19: <Per loro io consacro (santifico) me stesso, perché siano anch’essi consacrati (=santificati –hegiasmenoi- ) nella verità>. Gesù diventa il  mediatore  della santificazione: santifica (= consacra ‘hagiazo’) se stesso perché siano santificati (= consacrati=hagiasmenoi ) in lui i discepoli. Se i discepoli devono continuare  la sua opera, devono essere anch’essi santificati: Gesù diventa mediatore: consacra-santifica se stesso (come sacerdote) per santificare-consacrare i discepoli.

Santifico.-consacro: è da intendere  <io mi offro in sacrificio>  <è il sacerdote che offre se stesso come vittima per quelli che Dio gli dà>  (Qui  ‘yper’, non lascia dubbi della dedizione di Gesù alla morte espiatrice=sacrificio pasquale)

(NB. Ogni sacerdote – come ogni cristiano-, vive la sua vocazione quando ‘santifica-consacra la sua vita per  il  popolo di Dio=santificare-testimoniare. Servire è quello che si chiede al sacerdote).

Ancora Gv. (cfr. Come abbiamo ascoltato Gesù.., p-1088).Questa visione di Gesù come sacerdote vittima sacrificale  (offre il suo sacrificio), si trova nella lettera agli Ebrei, In Eb.  9,12.24 troviamo che Gesù offre se stesso come vittima sacrificale; un pensiero che può corrispondere a Gv.17,19. l’idea è ripetuta in Eb 10,10: <Noi siamo stati santificati per mezzo della offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre>.

 

3. La lettera agli Ebrei.

Svolge, sola, il sacerdozio di Cristo, con ampiezza.

Concentra la sua attenzione sulla funzione personale di Cristo nell’offerta di questo sacrificio. E questo perché Gesù come Aronne, e ancora di più, è chiamato da Dio ad intervenire a favore degli uomini e a offrire sacrifici per i loro peccati (Eb.5,1-4). Il suo sacerdozio era prefigurato in quello di Melchisedec  (Gen,.14,18ss) , conformemente all’oracolo del salmo 110,4. Gesù è il sacerdote santo, il solo (7,26ss). Il suo sacerdozio segna la fine del sacerdozio antico. Gesù ha compiuto il suo sacerdozio una volta per sempre nel tempo (7,27; 9,12.25.28, 10,10-14). Ormai egli è per sempre l’intercessore (7,24s), il mediatore della nuova alleanza (86-13; 10,12-28).

(Ricorda anche il testo di Eb.1,5. Chi è oggi il sacerdote’. Il testo dice: < Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati>. Questa è l’immagine del prete: essere ‘scelti’ da Dio ‘per’ il servizio agli uomini nell’apostolato).

 

II. Il popolo sacerdotale.  

 1.Gesù, come non attribuisce  mai a se stesso il sacerdozio, così non lo attribuisce al suo popolo. Gesù però non ha mai cessato di agire come sacerdote e sembra di aver concepito il popolo come popolo sacerdotale. Gesù si rivela sacerdote mediante l’offerta del suo sacrificio e  mediante  il servizio della parola. Gesù chiama a prendere parte delle funzioni del suo sacerdozio anche i suoi discepoli.

Ogni discepolo deve prendere la sua  croce (Mt.16,24par.); deve bere il suo calice  (Mt.20,22; 26,27); ciascuno deve portare il suo messaggio (Lc.9,60; 10,1-16), rendergli testimonianza fino alla morte (Mt.10, 17-42).  Gesù facendo partecipare tutti gli uomini ai suoi titoli di Figlio e di Messia, li fa sacerdoti assieme a lui.

 

2.Gli apostoli prolungano questo pensiero di Gesù, presentando la vita cristiana come una liturgia, una partecipazione  al sacerdozio unico.

Paolo considera la fede dei cristiani come un <sacrificio di oblazione> (Fil.2,17); per lui tutta la vita dei cristiani è un atto sacerdotale ; li invita a offrire i loro corpi <come ostia vivente, santa, gradita a Dio; questo è il culto spirituale che voi dovete rendere> (Rom.12,1; cfr. Fil.3,3; Eb.9,14; 12,28).

La lettera di Giacomo, enumera gli atti concreti che costituiscono il vero culto: la visita agli orfani e alle vedove, l’astensione dalle sporcizie del mondo (Gc.1,26s.).

La prima lettera di Pietro e l’Apocalisse sono esplicite: attribuiscono al popolo cristiano il <sacerdozio regale> di Israele (1Pt.2,5.9; Ap,1,6; 5,10; 20,6; cfr.Es.19,6). Con questo titolo, i profeti del VT annunciavano che i profeti del VT dovevano portare in mezzo ai popoli pagani la parola del vero Dio e assicurarne il culto; ormai anche il popolo cristiano assume questo compito, dal momento che Gesù lo ha reso partecipe della sua dignità messianica di re e di sacerdote.

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III, I ministri del sacerdozio di GesùC. Gesù però fa partecipare il suo popolo al suo sacerdozio; nel NT come nel VT : questo sacerdozio del popolo di Dio non può essere esercitato se non da ministri chiamati da Dio.

 

1.Di fatto Gesù ha chiamato i Dodici per affidare loro la responsabilità della Chiesa: con il servizio della parola, nell’ultima cena ha affidato loro l’eucaristia (Lc.22,19).

 

2. Gli apostoli a loro volta stabiliscono dei responsabili per continuare la loro azione. Alcuni sono chiamati ‘anziani’, origine del nome attuale di ‘sacerdoti’ (presbiteri: Att.14,23, 20,17; Tit. 1,5).

La riflessione di Paolo sull’apostolato e sui carismi si orienta  verso il sacerdozio dei ministri della Chiesa.

Dà titoli sacerdotali ai responsabili delle comunità: ‘amministratori dei misteri di Dio’ (1Cor.4,1s); ‘ministri della nuova alleanza’(2Cor.3,6); la predicazione apostolica come servizio liturgico (Rm.1,9, 15,15s). Questo sacerdozio non è perciò una casta, ma è al servizio del popolo di Dio.

  


[Approfondimenti]

Sito gestito dalla Parrocchia Santa Melania.

 

LA PROFEZIA E’ IL VANGELO CHE E’ POTENZA DI DIO – Don Enrico Ghezzi

Santa Maria dell’Orto – Roma  

Vi partecipo la lettera di un amico carissimo – Don Enrico Ghezzi – pervenutami oggi da questa chiesa dove risiede dopo aver lasciato la Parrocchia.  Profuma di primavera ed ha i sapori della Città Eterna. E’ di alto spessore ma può arrivare anche alla gente di  Trastevere, alle borgate, come le lettere di Paolo che non le ha scritte per i teologi ma per i semplici cristiani. 

In realtà si tratta di un progetto di vita condivisibilissimo. E spero proprio di poterlo condividere con lui e con quanti vorranno aderirvi, per dono che viene dall’alto e “potenza della ‘profezia’ evangelica”. Filo conduttore anche per la nostra Compagnia… perché resti fedele al progetto di Dio che ci vuole Chiesa e non una degenerazione. Il rischio che Don Enrico evidenzia è vero: fare della Chiesa ‘popolo di Dio’ una chiesa di gruppi o addirittura di ‘sette’. 

  La ‘profezia’ è il ‘vangelo’ che è ‘potenza di Dio’ dove sappiamo ‘di essere amati da Dio’ ( Rm 1,7).   

 

 

 
 

  

Di Don Enrico Ghezzi ho a portata di mano solo questa foto che lo ritrae  davanti all’urna di Santa Teresa di Gesù Bambino, ricevuta in visita quand’era parroco di Santa Melania.  

  Roma, Pasqua 2010.  

Cari Amici,   

                   Buona Pasqua!   

Passano’ anche i miei anni, come le infinite Pasque della storia umana, tutte segnate dal ‘fulgore di luce (cfr. Lc.24,49) che riempì Gerusalemme in quel mattino del nuovo ‘eone’ (mondo).  

Il ‘giardino’ (Gv.19,41) dov’era il ‘sepolcro’ di Gesù, è il nuovo ‘eden’, l’habitat della nuova creazione.  

Vi scrivo, cosa piuttosto rara, volendovi comunicare i miei pensieri e i sentimenti circa la potenza della ‘profezia’ evangelica, che ora sembra muta, sostituita da una specie di ‘agenzia dell’etica’.   

Nella Pasqua, finalmente risentiamo la voce potente della profezia che riempie il cuore di luce e di speranza; come scrive Giovanni, lo splendido interprete dei ‘sentimenti’ di Gesù, davanti alla passione-morte-risurrezione-glorificazione di Gesù:   

<Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine> (13,1).  

Come vedete il passaggio’ (Pasqua) tra’ la morte e la gloria’, Gesù lo vive in una totale donazione di amore.  

L’amore è la ‘profezia’ che ha realizzato la chiesa fin dalle sue origini.   

Possiamo ancora oggi essere chiesa nel mondo, perché siamo stati amati ‘fino alla fine’: è l’amore di Gesù verso gli uomini, che continua ad essere la profezia, la forza e l’energia profetica che ci fa essere nel suo amore come suoi discepoli.  

Cari amici: è questa dunque la vera e unica speranza che ci unisce nel cammino quotidiano e ci rende vivi all’interno della storia umana. La ‘parola di Dio’ annunciata in Gesù e dolcemente affermata nel ‘passaggio’ pasquale, dell’ultima cena, è quella realtà che indichiamo come ‘profezia’, e che Paolo scrivendo ai Romani, a proposito del vangelo, chiama <potenza di Dio>(Rm.1,16).   

Laprofezia’ è il ‘vangelo’ che è ‘potenza di Dio’

 dove sappiamo ‘di essere amati da Dio’ ( Rm 1,7). 

 L’essere nell’amore di Gesù è la nostra fede e la nostra ‘profezia’ che non può venire meno.  

Leggendo e contemplando il ‘testamento’ di Gesù, come Giovanni ci tramanda nei capitoli 13-17, noi possiamo ‘affidarci’ alla Parola che in noi si trasforma in ‘profezia’: un annuncio pieno di speranza.   

Scrive dunque Giovanni, raccontando anche a noi, le parole e i sentimenti di Gesù:   

  • <Non sia turbato il vostro cuore…>(14,1),
  • <Non vi lascerò orfani, verrò di nuovo>(14,18),
  • <Pregherò il Padre, ed egli vi darà un altro Paraclito, perché rimanga sempre con voi, lo Spirito della verità>(14,15-16), <rimanete nel mio amore>(15,9>,
  •  <Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati>(15,12).

Mai così apertamente Gesù, come in queste ‘parole’ di addio, ci comunica il dono della nostra partecipazione alla stessa vita trinitaria: comunione in Gesù e nel Padre mediante l’amore dello Spirito.   

Quale altra energia divina e profetica poteva trasmetterci Gesù? Entriamo, con le sue ‘parole’, nell’intimo del mistero di Dio!  

Quello di Gesù poi, è un amore che ‘arde e non si consuma’ ( Li amò fino alla fine’), come nell’esperienza di Mosè, davanti al roveto ardente del Sinai( Es.3,2) dove il nome di Dio è rivelato come ‘Essere (Es.3,14); ora anche Gesù, nella sua comunione con Dio, ce ne rivela la sua intima natura: Dio è Padre, e noi siamo messi in comunione di amore col Padre:  

<Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui >(14,23).    

Cari amici, è questa la ‘nostra Pasqua’.    

Questa verità è la nostra profezia, cioè la presenza in noi della Parola di Gesù, che può trasformare la vita da pigra, inquieta, informe e stanca della nostra quotidianità, anche quando facciamo parte della chiesa, in una nuova rinascita di grazia e di speranza.   

La Pasqua dunque, è questo nostro ‘passaggio’ dalla sfiducia alla speranza, dalla banalità di gesti e parole, alla luce della grazia che si rinnova nella gioia della fede, dallo smarrimento alla bellezza della contemplazione, dall’inerzia della mediocrità alla passione della verità vissuta nella carità e nella misericordia.   

Ecco perché non possiamo stare nella chiesa con un atteggiamento che sia soltanto di rimorchio e di accondiscendenza alla gestione clericale della vita sacramentale, dove spesso anche la Parola è piuttosto balbettata o maltrattata o piegata a fini particolari e rimane Parola senza speranza.  

Se così avviene, dove poter fondare la certezza e la ragione della nostra fede, della nostra conversione, della nostra permanenza nella grazia della Parola di Gesù?  

Come vivere concretamente in noi l’immagine di comunione tra la vite e i tralci’, descritta ancora con tanta intensità nelle parole del ‘testamento’ di Gesù?   

<Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena> (15,11).   

Tutto questo per dire che la nostra fede e la speranza nel vangelo debbono avere risposte e testimonianze autorevoli a partire da coloro che Gesù, nella liturgia del ‘giovedì santo’ che stiamo vivendo proprio in queste ore, ha scelto perché siano al servizio di tutta la comunità cristiana:   

< Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi.> (Gv..13,14.15).    

Perché dunque continuare ad essere dubbiosi, incerti, scontenti, stanchi, indifferenti, arrabbiati con la nostre chiese o con la società, quando troviamo nel messaggio pasquale di Gesù tutta la forza, l’energia divina, la potenza che danno <ragione alla nostra speranza>(1Pt. 3,15), come ricorda la lettera di Pietro ai primi cristiani?  

E’ lo stesso Gesù che nel suo grande testamento ci dona le ragioni della ‘nostra speranza’: mai infatti, come nei capitoli di Giovanni che abbiamo continuamente indicato, Gesù ci dà la ragione della profezia che dobbiamo testimoniare: ci è stato infatti donato il dono del Paraclito, dello Spirito di verità, dello Spirito che è amore:  

<Quando verrà il Paraclito che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli vi darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me, fin dal principio>(15,26-27).  

  • Non è forse questo il dono trinitario della Pasqua che ci è dato come ‘pienezza e compimento’ di tutta la rivelazione cristiana e della nostra fede?
  •  Perché nascondere o vanificare i doni di Dio seminati nel nostro cuore?
  •  Perché trascinare spesso una vita cristiana o parrocchiale senza dare un senso o una progettualità alla nostra fede?
  •  Perché sopravvivere interi anni nella indifferenza o nella stanchezza di una vita spirituale che non abbiamo mai vissuto? 
  • Ci sarà data allora una speranza che la festa pasquale’ sulla quale si è formata e cresciuta la chiesa, possa passare’ trascinandoci fuori da una vita spirituale mediocre e insignificante?
  • Continuando a restare nelle nostre case, gestendo la nostra vita quotidiana nel lavoro, nella professione, nella famiglia e nella società, potremo mai arrivare a condurre anche per noi stessi, una vita cristiana nella speranza, nella pace e nella gioia di una esistenza religiosa che non sia mortificata, o limitata dagli schemi prefabbricati, dall’esercizio un po’ logoro delle messe, dei sacramenti e dalle attività che ci vorrebbero coinvolgere ma che restano prive di interessi, di motivazioni interiori, infarciti da quel devozionalismo religioso su cui sembra sempre più scivolare la pratica delle nostre comunità religiose?
  • C’è insomma una possibilità di ridare vita, profondità, entusiasmo al nostro contenuto della fede?

Questo potrebbe essere il nucleo di un mio progetto che vorrebbe indicare nella potenza della Parola’ la riscoperta delle radici della nostra fede e del nostro continuare ad essere credenti al messaggio del vangelo di Gesù.   

Ritornare ad essere il ‘popolo della Parola’.  

Ricordo qui che la Parola   

  • è il Verbo di Dio nella carne,
  • è Gesù Cristo Figlio di Dio,
  • è l’Eucaristia,
  • è il Cristo nella liturgia,
  • è lo Spirito di Dio in noi e nella chiesa.

La riscoperta nella vita e nella nostra pratica religiosa, di questo ‘fuoco divino’ donato da Dio durante il progredire del suo disegno nella storia degli uomini e di tutto il cosmo, attraverso il Verbo che è Gesù, può aiutarci a uscire dall’incertezza e dall’indifferenza che sta avvolgendo una grande parte anche del mondo cristiano.   

L’alternativa sembrano gruppi e movimenti che invadono la chiesa con fanatismo e intolleranza, togliendo libertà ad altre esperienze religiose e personali, arrivando perfino ad escludere intere parti del popolo dalla fraternità e dalla carità.   

Una situazione questa che ormai, per molta gente, sta diventando intollerante. Col tempo rischia di fare della chiesa ‘popolo di Dio’ una chiesa di gruppi o addirittura di ‘sette’.   

Vorrei con tutto il cuore, che i Vescovi, proposti dalla tradizione a vegliare sulla genuinità delle fede, aprissero gli occhi a tali deformazioni del popolo di Dio: già Paolo fece una triste esperienza delle divisioni nelle comunità che lui stesso aveva fondato come appare chiaro nella chiesa dei Galati: <O stolti Galati, chi vi incantato>?(Gal.3,1).   

Vorrei continuare su queste riflessioni che sono nate in me nel mattino del Giovedì santo (1° aprile) e trascritte prima della messa ‘nella cena del Signore’, qui in questa chiesa della Madonna dell’Orto che molti di voi ormai conoscono.  

Cosa dunque vorrei proporre alla fine di questi pensieri?  

Cerco di sintetizzare in qualche punto.  

  1. Allargare quello che già facciamo negli incontri del lunedì dei tempi forti, a nuove persone interessate, usando gli strumenti moderni di Internet per diffondere la ‘notizia’. 
  2. Comunicare ad amici e conoscenti che trovano difficoltà nel rapporto con le chiese o sono delusi dalla presentazione della parola sul Verbo di Dio, la possibilità di un ascolto attento e condiviso. 
  3. Ridonare luce e potenza alla parola di Dio, a quanti avvertono con sofferenza la monotonia delle celebrazioni, sempre più infarcite da gestualità formali e da un apparato esteriore che rasenta la spettacolarità teatrale. 
  4. Riscoprire nella Parola celebrata e annunciata la presenza della Sapienza di Dio e dell’unzione dello Spirito. 
  5. Ritrovare nella Parola il ‘fuoco’ divino già presente in ogni persona mediante la potenza creatrice di Dio e ora rivelata nel Verbo per il quale < tutto è stato fatto> e <In lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini> (Gv 1,3.4). 
  6. Essere al servizio della Parola per tutti coloro che chiedono di ‘ascoltare’ la voce di Dio, senza gli estremismi del radicalismo esasperato, dove alla grazia viene spesso ribadita soltanto l’assoluta pesantezza del peccato, come se Gesù ancora non fosse venuto in mezzo a noi con la sua misericordia (cfr. Lc 15). 
  7. Stabilire, in un tempo breve, una domenica pomeridiana per una ‘assemblea’ che indichi i nostri scopi e il nostro servizio.  

L’invito è rivolto a tutti, come faceva Gesù: ai piccoli, ai poveri, ai malati, ai peccatori, ai dubbiosi, ai delusi della chiesa, ai lontani indifferenti, ai non-credenti, ai praticanti abituali che non provano nessuna emozione, ai periferici stanchi e demotivati da ogni speranza, ai devozionisti ai quali manca il Cristo nella loro vita.  

Ho scritto questi appunti, oggi giovedì santo, ripensando a Gesù presente tra noi nell’eucaristia e nel sacerdozio, di fronte ormai alla passione del venerdì santo di domani che vede le sofferenze di tutti gli uomini riunite nella croce e nel corpo di Cristo confortato dalla madre, dalle altre donne e da Giovanni, il discepolo amato (cfr. Gv.19,25-27).  

Ora, ripensate con calma e sapienza le proposte che ho suggerito.   

Vi ringrazio e vi rinnovo la speranza della Pasqua, l’annuncio del sepolcro vuoto nel racconto di tutti i quattro evangelisti, con le apparizioni del Signore risorto.   

Con affetto. Don Enrico.  

Il mio indirizzo elettronico: donenrico.ghezzi@libero.it In attesa di risposte e proposte.  

 

I COLORI DELL’ANIMA – LUGLIO-AGOSTO-SETTEMBRE 2009

1 LUGLIO

I MIEI RAGAZZI

Siamo in estate ed il mio timore più grande è che ci si lasci troppo trasportare dall’euforia che è propria di questa stagione, finendo per trascurare quelle che sono le cose più importantPensando a voi, sempre, ed avendo a cura la vostra formazione, ho deciso di non andare in vacanza e di continuare la mia missione di catechista, inserendo qui proprio per voi (e so che mi leggete!!!) dei pratici consigli di comportamento in famiglia per non perdere mai di vista il fine della vostra vita, quello di essere felici…

Vi auguro un’estate serena, con la speranza che sia piena di esperienze che possano arricchirvi.i per la nostra vita umana e spirituale…


08 Luglio

LA CAPANNA DEL SORRISO RITROVATO


“Sono qua!”


“Son giunta!”


La stella cometa era finalmente giunta alla capanna sacra.


“Eccomi!!!” Disse accendendosi come non mai.


“Ma nessuno mi VEDE???”


Ai suoi gridolini di gioia nessuno prestò attenzione, gli occhi di chi l’aveva seguita nel corso del suo lungo volo nell’oscurità del cielo, ora erano tutti fissi all’interno della povera capanna.


E la stella incuriosita decise di sporgersi un pochino per vedere cosa attirasse a quel modo la loro attenzione.


Fece per affacciarsi incuriosita con il suo musetto buffo e colse gli occhi di una minuscola creaturina e, quando per un istante furono occhi negli occhi, il paffuto frugoletto sembrò illuminarsi di una luce grandiosa.
Fu in quell’istante che la stella cometa comprese il perché di quel suo lungo viaggio in quel cielo nero come la pece. Il perché era ora dinnanzi ai suoi occhi, in quella modesta mangiatoia, era quel meraviglioso bambino.
La stella cometa sentì il fuoco del suo cuore divorarla alla vista del piccolo e desiderò ardentemente unirsi al popolo della notte per adorarlo.
Si vestì allora dei suoi abiti umani divenendo una bambina e, come la più piccola delle creature, si avvicinò alla capanna in punta di piedi. Improvvisamente il brusio delle persone in rispettosa adorazione cessò e il silenzio fu rotto da una piccola voce che disse:


“Vieni avanti!”


La stella bambina si guardò attorno, era convinta che quelle parole non fossero per lei, ma alle sue spalle non c’era più nessuno e nella capanna era rimasto solo il piccolo nella sua mangiatoia piena di paglia. Fece un timido passo in avanti e guardandosi intorno con circospetta abnegazione, disse:


“Posso?”


E la voce piccina ripetè di nuovo:


“Vieni avanti!”


La bambina lentamente si accostò alla culla e vide il bambino sorriderle, tanto era bello da non riuscire a trattenere le lacrime di gioia.


“Eri tu piccino che mi parlavi?”


“Si stella ero io, sei la benvenuta ti aspettavo.”


“Ma sei sicuro di non sbagliare, aspettavi proprio me?”


“Non sbaglio aspettavo proprio te, ho un messaggio per il tuo cuore.”


La stella non riusciva a fermare le lacrime e prese ad asciugare il pianto con la paglia della piccola culla e il bambino, ridendo, disse:


“La smetti di bagnarmi il giaciglio di lacrime? è giunta l’ora di sorridere, ma ancora non te ne sei accorta che è sorto il sole?”


La bambina fece per girarsi e vide il sole più grande che i suoi occhi ricordassero e, nel tornare a guardare il piccolo, disse:


“Ma come è potuto accadere, se sino a qualche istante fa era notte?”


“La notte precede sempre il giorno e ci sono giorni che durano per sempre…ora chiama alla vita il tuo sogno, allunga le tue mani e raccoglilo!”

La bimba uscì saltellando felice dalla capanna e gridò al sole il suo sogno:


“Voglio il Sorrisooooooo!”


Poi allungò le mani tra le quali aveva conservato tutte le sue lacrime, così come le aveva detto il bambino e un raggio di sole scese asciugandole tutte.
Tornò piena di gioia verso il giaciglio e stavolta fu il bambino a guardarla commosso per quanto era bello quel suo sorriso ritrovato, e una lacrima lucente prese a scendergli dagli occhi.


La piccola non voleva che il bambino piangesse per lei, raccolse con premura la sua lacrima e, di nuovo, corse fuori dalla capanna e, sollevandola alla luce del sole, disse:


“Voglio il Sorrisooooooo!”


Ma stavolta quella lacrima non fu asciugata dal sole e, delusa, tornò dal bambino conservando la preziosa lacrima tra le mani.


“Stavolta non ci sono riuscita, perdonami!”


Disse colta da profonda delusione, ma il bambino era pacifico e colmo d’amore, con voce serena e giuliva disse:


“Ci sono lacrime che il sole non asciugherà mai, sono le lacrime sciolte nel cuore della gioia, sono quelle che stringi tra le mani ma hanno dimora nel cuore della gente, quelle lacrime non le cancella niente, perché della vita sono la sorgente. Di questa lacrima inebrierai i sentieri del tuo cuore, vivi con amore!”
La bambina raccolse altra paglia per rendere il giaciglio del piccolo più comodo, sapeva che doveva andare via, gli coprì un piedino che era inavvertitamente uscito fuori dalla copertina e gli depositò un bacio sulla fronte.
“Vado?”
Disse poi guardandolo con nostalgia…sperando ardentemente d’esser fermata.


“Io non vorrei andare!”


Poi confessò e il piccolo, guardandola con amore, disse:


“Lo sai che devi andare, è giunto il tempo di dire alle stelle del cielo di non aver paura del buio, tu sai dove sono attese, avvisale, ti crederanno!”
La Bambina piangeva non sarebbe andata via per niente al mondo da lì, ma ormai il sole era alto le lacrime asciugate e nel suo cuore la sorgente viva scorreva fluida.


Era giunto il tempo di raccontare cosa l’oscurità della vita nascondeva. Nascondeva il suo cuore semplice e puro, nascondeva l’umile sentiero della gioia, nascondeva la luce di un sorriso che riempie il cuore e sana le profonde ferite dell’esistere.


La capanna era ancora lì, e lì sarebbe rimasta per sempre, sino a quando la più piccola delle stelle non fosse giunta a casa e per ognuna di loro ci sarebbe stata una lacrima d’amore, per ognuna un sole pronto ad asciugare il dolore.
Il bambino le avrebbe aspettate tutte e sarebbe rimasto in quella umile mangiatoia in attesa di un altro prezioso sorriso ritrovato.

(Grazie Paola, per questa meravigliosa storia!!!

I COLORI DELL’ANIMA – APRILE-MAGGIO-GIUGNO 2009 – Deborath Greco

APRILE 2009

12 aprile

PASQUA DI RESURREZIONE

Si è compiuto il grande miracolo della salvezza, Gesù ha sconfitto la morte!

Custodisci questo mistero nel tuo cuore, fonte d’amore, gioia e speranza!

Buona Pasqua.

13 aprile

VIDEOCHIAMATE

Sensazioni strane e contrastanti: da un lato la gioia di guardare in faccia la persona con cui stai parlando, sorridere con lei e gioire per le sue facce buffe;

dall’altro la tristezza data dall’impossibilità di penetrare nello schermo per poterla abbracciare e sentire il suo profumo.

16 aprile

RICORDI DEI TEMPI ANDATI

Mi guardo allo specchio e, in questo periodo, faccio molta fatica ad accettarmi: vorrei essere più magra, ma forse non è solo questo…

Mi guardo dentro e vedo che rimpiango tante cose che appartenevano al passato e che ho lasciato correre via, come il tedesco, ad esempio: mi piacerebbe tanto riuscire a parlarlo come allora ed avere la stessa naturalezza di dieci anni fa…

Nostalgia o semplice angoscia dovuta all’inizio della dieta?

E sì, ho ricominciato, senza troppi entusiasmi e senza aspettarmi grandi cose, purtroppo, so già che quello che è stato un tempo non tornerà…

19 aprile

19 aprile 1999 – 19 aprile 2009

Sono passati 10 anni, 10 lunghissimi anni e tu non sei più con me…

Mi hai lasciata quando ero ancora troppo piccola, incapace di affrontare la vita a muso duro, così come deve essere presa, e sono crollata, annientandomi prima e trasformandomi poi, così tanto che sono arrivata al punto di non riuscire più a riconoscermi…

Ho dovuto ricominciare tutto da capo ed esplorare dentro me stessa per cercare di capire chi ero diventata e poi ho dovuto fare un lavoro enorme per fare pace con me stessa e, forse, non ci sono ancora riuscita totalmente…

E’ vero, ci sono stati altri 9 anniversari prima ed è proprio per questo che non mi aspettavo che questo mi facesse un effetto del genere: la mia mente ha iniziato a tornare indietro già da ieri sera ed ho rivissuto tutto sentendo dentro un vuoto enorme che mai niente e nessuno riuscirà a colmare…

Ti amavo con tutta me stessa e ti stimavo: adoravo le tue capacità intellettive, il tuo riuscire bene in tutto ciò in cui ti cimentavi; sei sempre stato un modello irraggiungibile per me, ma questo non te l’ho mai detto…

Spero che almeno ora tu sia in grado di leggere nel mio cuore per capire cosa ho dentro e perchè tu sappia che ti amerò fino all’ultimo mio respiro…

Mi manchi papà, da morire.

20 aprile

La Provvidenza aiuta anche me…

Mi sono sempre chiesta perchè la gente abbia una manina lunga lunga e l’altra corta corta cortissima.

Ovviamente quella lunga è quella del ricevere, ma quando si tratta di dare, ecco che si riscoprono storpi…

Perchè nessuno si rende conto che c’è molta più gioia nel dare che nel ricevere?

Povera umanità, destinata alla tristezza eterna…

26 aprile

IL COLORE DI OGGI ?   NERO !!!

Odio sentirmi così, perchè mi rendo conto di fare solo del male a me stessa e di annullare gran parte del cammino che così faticosamente mi sono sforzata di percorrere…

Però oggi è così che mi sento: avrei una gran voglia di prendere a pugni qualcuno e, dopo averla lasciata per terra, passarci sopra con i piedi.

Riesco ad accettare facilmente un’umiliazione rivolta a me, sopporto con pazienza chi tratta male me, ma non posso accettare lo stesso trattamento sulle persone che amo…

A quel punto viene fuori il peggio di me ed arrivo a pensare le cose peggiori…

Dio mio, sono così arrabbiata, sento dentro di me un vulcano pronto ad esplodere…

Odio la maleducazione, odio l’arroganza, odio la presunzione di chi crede di poter trattare la gente come gli pare, odio le persone che credono di poter governare il mondo intero e di poter passare sopra a tutti come se niente fosse, odio chi ferisce gratuitamente qualcuno e vive felice e sereno come se niente fosse.

Odio troppe cose…

Odio sentirmi così.

MAGGIO 2009

06 maggio

PRIMA ESPERIENZA…

Posso dire che come prima esperienza di lezioni private, tra l’altro d’inglese, mi è sembrata abbastanza soddisfacente…

Credevo andasse molto molto peggio, invece sono contenta e spero di cuore di riuscire ad ottenere i risultati sperati: sarebbe una bella soddisfazione, visto e considerato che non è neanche la mia materia…

17 maggio

DELUSIONE AMARA…

Sono proprio a terra in questo periodo, ho miseramente fallito e, probabilmente, ho sbagliato tutto, illudendomi, come al solito che quello che stavo facendo era giusto ed avrebbe portato a qualcosa di bello, di grande, di irripetibile e di indimenticabile…

Invece è bastato un giorno a spazzare via tutto ed ora sono qui, da un pò di tempo a chiedermi il perchè di tutto questo.

Non riesco a trovare una risposta e Tu non me la dai, non mi aiuti a capire come sia stato possibile ed in cosa ho sbagliato…

Pensavo bastasse crederci profondamente e fino in fondo, ma mi accorgo che il mio sforzo ed il mio impegno non sono stati sufficienti: è vero, tutto dipende dalle scelte personali ed individuali, me lo hai sussurrato più volte, ma io niente, non lo voglio capire, non lo voglio accettare…

Io, comunque, Ti ringrazio per la magnifica esperienza che mi hai voluto regalare venerdì, per ripagarmi delle sofferenze e della delusione ricevuta la settimana prima.

Ancora una volta mi hai fatto sperimentare che quel che conta è amare, sempre e comunque e che il linguaggio dell’amore è in grado di oltrepassare tutte le barriere, fisiche, mentali e spirituali, e che, se è vero, arriva sempre dritto al cuore e ti cambia, cambia te e tutto ciò che ti circonda e riesce a farti immergere completamente in un caldo tramonto arancione dopo una triste e grigia giornata.

28 maggio

PERCHE’ ?

  • Perchè si è sempre un peso per tutti?
  • Perchè qualsiasi cosa che fai è sbagliata?
  • Perchè dai fastidio se fai il tuo lavoro?
  • Tutti sembrano grandi amici, ma appena dici qualcosa di semplice, di ingenuo ed innocuo ti tirano delle frecciate che rimani senza parole e con le lacrime agli occhi che per trattenerle quasi ti strozzi per quanto fanno male…
  • Perchè la tua gentilezza ed il tuo bisogno di essere ascoltata viene sempre visto come pesantezza?
  • Perchè continuo a rimanerci male?
  • Perchè il callo sul mio cuore non si forma mai?
  • Perchè non imparo mai a fregarmene?
  • Perchè l’indifferenza non diventa un sentimento centrale nella mia vita?
  • Perchè non imparo ad adeguarmi agli altri  e ad agire di conseguenza?
  • Perchè?
  • Perchè anche le persone a te più vicine e che dovrebbero proteggerti, amarti e sostenerti fanno di tutto per farti sentire così?
  • Perchè nessuno ti capisce?
  • Perchè è così difficile intuire che basta poco per ferirmi? Eppure mi conoscono, hanno avuto modo di sapere come sono fatta e che, anche se sembro così forte, in realtà sono fragile come un cristallo…
  • Perchè è così difficile amare?
  • Perchè è così difficile amarmi?
  • Perchè?

29 maggio

SE OGNI GIORNO

Se saprai starmi vicino,
e potremo essere diversi,
se il sole illuminerà entrambi
senza che le nostre ombre si sovrappongano,
se riusciremo ad essere “noi” in mezzo al mondo
e insieme al mondo, piangere, ridere, vivere.

Se ogni giorno sarà scoprire quello che siamo
e non il ricordo di come eravamo,
se sapremo darci l’un l’altro
senza sapere chi sarà il primo e chi l’ultimo,
se il tuo corpo canterà con il mio perché insieme è gioia…

Allora sarà amore

e non sarà stato vano aspettarsi tanto. (Pablo Neruda)

31 maggio

BASTA POCO

Basta il calore di un amico, basta un pensiero inaspettato, basta un sorriso sincero, basta uno sguardo trasparente per farti stare meglio e per farti capire che qualcuno ti vuole bene…

Grazie.

TUTTO PER IL MEGLIO

Oggi sono proprio felice, è andato tutto bene, devo dire quasi perfetto, quasi come me lo ero immaginato e voglio ringraziare tutte le persone che si sono impegnate per questo scopo, soprattutto la mia amica “meravigliosa”…

Sarebbe necessario impegnarsi sempre così e sarebbe bello riuscire in tutte le nostre imprese, soprattutto quando le nostre imprese hanno come fine il Suo annuncio…

GIUGNO 2009

03 giugno

HO FATTO UN SOGNO

Ho sognato che un mio amico sacerdote veniva diritto verso di me per regalarmi una croce…

Chissà che cosa vorrà dire e se è una premonizione per una croce nuova oltre a quelle che tento già a fatica di trascinare ogni giorno…

Speriamo che almeno questa sia quella della salvezza.


STUPIRSI OGNI GIORNO

“La matematica non è un’opinione”, recitava un antico proverbio… Io ho sempre creduto che neppure l’italiano lo fosse, invece ho capito che non è così… Che le studiamo a fare le regole grammaticali a scuola se poi ognuno può fare liberamente come gli pare?

Boh… veramente incredibile…

04 giugno

LEGGENDO…

TIENITI FORTE

Come ti sei conciato?

Hai dato al vento i tuoi capelli?

Che ci sta a fare la stellina al lobo dell’orecchio?

Nessuna risposta!

Avrei fatto bene a non mettermi di traverso, avrei ottenuto qualche monosillabo in più. Questi interrogativi inopportuni mi fanno sentire bigotto. Mi rendo conto che avere 18 anni e più non è uno scherzo, non è un semplice passaggio da un’età all’altra. Attraversare il ponte dell’adolescenza indenni da brufoli, da piercing, orecchini, ombelico al vento e tatuaggi in ordine sparso, non è semplice. Tieniti forte! Mi sento di farti alcune confidenze, a tu per tu, senza erigermi a giudice e arbitro delle tue scelte.

L’accettazione di sé, la stima di sé passa attraverso il riconoscimento non sempre pacifico del proprio corpo: adorato, ignorato, esaltato, esibito, tenuto nascosto, misterioso.

Il corpo, come la psiche, è messo alla prova a ogni tornante della sua evoluzione.

Sul corpo si leggono risentimenti, gelosie, rancori, delusioni, desideri.

Il corpo lancia in tempo reale messaggi su messaggi: “sono immamorato”, “sono scoppiato”, “schizzato…”.

Il corpo ha sensori affettivi: i sentimenti vanno e vengono e lasciano le tracce del loro passaggio.

Il corpo svolge un ruolo seduttivo: invoca, chiama, invita, supplica, parla, alza la voce, va sopra le righe. Il corpo va costruito di giorno in giorno (body-building), non è mai contento di sé (lifting), ama decorarsi (boby-art) quasi fosse una tela.

Arriva il momento in cui lo stesso corpo vuole scrollarsi di dosso tutte queste ambiguità.

Il corpo è corpo quando supera se stesso: è più di se stesso. Non è ostile, in conflitto con l’interiorità. Non si sente duale nel rapporto con la psiche. Fa da spartitraffico quasi fosse un semaforo. Conosce i segnali che portano a esperienze negative, senza futuro e senza vita.

Quanti pasticci, quante avventure, quante solitudini può fermare sul nascere.

Se lo aiuti i suoi occhi diventano luminosi, le sue mani stringono e danno calore, le sue labbra fanno sentire il fuoco della vita.

Se lo rispetti ti fa entrare nel mistero dell’anima e ti apre le porte della trascendenza.

Se lo ami dai ospitalità all’Amore, alla Verità, alla Vita.

Dio si è fatto corpo perchè il corpo senta la voglia di tornare a casa e ritrovare il suo Paradiso.

(Carlo Terraneo)


05 giugno

CASA DOLCE CASA…

Non c’è niente di più bello che tornare a casa ed infilarsi in un comodo pigiamino rosa dopo una giornata intensa come questa…

Sono esausta…


06 giugno

SABATO POMERIGGIO

Ci sono giorni in cui non vedo l’ora che arrivi e giorni in cui non vedo l’ora che passi in fretta…

Mi sento tanto sola, mi annoio da morire e non so come riempire queste ore vuote che percepisco come infruttuose…

Sento che mi mancano tante cose e chi mi cammina accanto ogni giorno non lo capisce e scambia spesso i miei sorrisi per felicità, non sapendo che cerco di distribuirli anche quando avrei una gran voglia di piangere.

E’ un periodo strano questo, un periodo che non riesco a capire bene e a decifrare: passerà come tanti altri e spero non lasci una cicatrice troppo evidente.


7 Giugno

PRIMA COMUNIONE

Oggi i miei 15 piccoli angeli hanno ricevuto per la prima volta l’Eucaristia…

Quanto erano belli, tutti vestiti di bianco: mi sono commossa a vederli ed è stata un’emozione fortissima quella di sapere che per la prima volta entravano in contatto diretto con il Tutto.

Lui entrava in loro e loro entravano in Lui e tutti siamo diventati una cosa sola…

Non so descrivere bene cosa ho provato, so solo che è stato molto bello e che oggi nella nostra comunità sono piovute grandi grazie…

Buona domenica a tutti e auguri di cuore bambini.


09 giugno

UFO

Ho visto un UFO…

Mai vista una cosa del genere in tutta la mia vita!!!

Una grandissima luce fissa nel cielo che aumentava e diminuiva di intensità, poi si è mossa velocemente a zig zag e, nel giro di pochissimi secondi, si è ritirata fino a sparire…

Starò impazzendo?

Forse…

Per fortuna non l’ho vista solo io, c’era mia mamma con me e stavo parlando al telefono con una mia amica alla quale ho detto di guardare dalla finestra e…

… non ci crederete: l’ha visto pure lei!!!

O è stata follia collettiva o era tutto vero…

Chi può dirlo…


11 giugno

CHE TRISTEZZA


TELARAÑAS CUELGAN DE LA RAZÓN

Telarañas cuelgan de la razón
en un paisaje de ceniza absorta;
ha pasato el huracán de amor,
ya ningún pájaro queda.

Tampoco ninguna hoja,
todas van lejos, como gotas de agua
de un mar cuando se seca,
quando no hay ya lágrimas bastantes,
porque alguien, cruel como un día de sol en primavera
con su sola presencia ha dividido en dos un cuerpo.


Ahora hace falta recoger los trozos de prudencia,
aunque siempre nos falte alguno;
recoger la vida vacía
y caminar esperando que lentamente se llene,
si es posible, otra vez, como antes,
de sueños desconocidos y deseos invisibles.


Tú nada sabes de ello,
tú estás allá cruel como el día;
el día, esa luz que abraza estrechamente un triste muro,
un muro, ¿no comprendes?,
un muro frente al cual estoy solo.

(Luis de Cernuda)


13 giugno

ISTRUZIONI

Se chiediamo le istruzioni per vivere pienamente la nostra vita, Dio avvicinerà la sua voce al nostro orecchio e ci dirà:

  • Sii come il sole: alzati presto e non fare le ore grandi,
  • Sii come la luna: brilla nell’oscurità, sottomettiti però alla luce maggiore,
  • Sii come gli uccelli: mangia, canta, lavora e vola,
  • Sii come i fiori: innamorati del sole, però rimani fedele alle tue radici,
  • Sii come il buon cane: obbediente, però al suo padrone soltanto,
  • Sii come la frutta: bella di fuori, nutriente di dentro,
  • Sii come il giorno: arriva e se ne va senza vantarsi,
  • Sii come l’oasi: dà acqua all’assetato,
  • Sii come la lucciola: piccola ma con luce,
  • Sii come l’acqua: buona e trasparente,
  • Sii come il fiume: sempre in avanti,
  • Sii soprattutto come il cielo: la dimora di Dio…

(Consigli presi in prestito dal blog del caro Padre Gabriel… Grazie!!!)


17 giugno

CIAO SIGNORA ANNA…

Che brutta giornata quella di oggi, ho dovuto salutare per l’ultima volta una persona cara, la mamma della mia compagna di banco del liceo.

E’ stato straziante. Quanto dolore nell’universo, quanto dolore nell’umanità, quanto dolore nelle famiglie e mi chiedo sempre perchè ad alcuni così tanto? Perchè alcune famiglie sono chiamate, a più riprese, a prove così dure e forti, a prove che non si sa mai fino a che livello possano arrivare a distruggerti, ad annientarti?

Durante la messa pensavo che solo l’anno prima ero in quella stessa chiesa a gioire per il matrimonio di Caterina ed oggi ero lì a piangere disperatamente per un dolore così forte ed inatteso…

Del resto nel Vangelo c’è scritto che bisogna piangere con quanti sono nel pianto e che bisogna ridere con chi è nella gioia ed io oggi pensavo che con Caterina è successo sempre così: abbiamo sempre pianto e gioito insieme, ci siamo trovate nei momenti belli così come in quelli brutti ed oggi è stata una giornata che non dimenticheremo mai…

Non dimenticheremo il nostro abbraccio ed i nostri cuori che si sono uniti in un’unica grande sofferenza…

Della sua mamma ricorderò sempre i sorrisi immensi che mi faceva e gli abbracci forti forti che mi dava ogni volta che mi vedeva…

Mi voleva un mondo di bene ed io ne volevo tanto anche a lei, era una donna meravigliosa.

Ciao Signora Anna, ora siete già in braccio a Gesù, a quel Gesù al quale avete donato vostro figlio Don Oreste e che ora vi sta guardando negli occhi con immenso amore e riconoscenza per tutto ciò che avete fatto nella vostra vita…

Salutatelo da parte mia e ditegli che gli voglio bene e che ora deve aiutare Caterina, Oreste e Matteo a superare questa prova immane…

Voi pregate dal cielo per noi, finchè non potremo vederci di nuovo e finchè non mi riabbraccerete nuovamente così come avete sempre fatto dal primo giorno che vi ho conosciuto.

Grazie per il vostro affetto, grazie per Caterina.

Ciao signora Anna, vi voglio bene.

D.


24 giugno

SOSPIRATO LAVORO

Periodo questo di compilazione domande. Tanti dubbi, una sola certezza: andar via di qui. Tanta tristezza…

Dopo anni e anni di studio fuori, sono nuovamente costretta a spostarmi, a lasciare la mia casa, le mie cose, la mia mamma per andare alla ricerca della mia strada… E chissà, poi, se sarà quella giusta. Tante sono le strade della vita, tante le difficoltà da superare, tanti i punti interrogativi che, probabilmente, rimarranno tali e tanta la speranza in un futuro così incerto…

Bisognerebbe riuscire a vivere il presente con più serenità, perchè, in fondo, è l’unica dimensione del tempo che ci appartiene. Il passato non c’è già più, persino il nostro ieri non è più in nostro potere e ciò che non è stato fatto non si può recuperare; ed il futuro? Il futuro non sarà mai in nostro possesso, perchè quando lo sarà, sarà già presente e dovremo essere preparati a poterlo affrontare nel migliore dei modi…


28 giugno

PARLARE DI LUI ?  SEMPRE E COMUNQUE…

Oggi è domenica, ma che razza di domenica è senza la messa?

A me è toccato lavorare e mi è toccato anche andare a messa di sabato, ma chi lo avrebbe mai detto che anche questo era compreso nel Suo piano? Tutto si svela lentamente, bisogna solo avere la pazienza di aspettare e la costanza di ricercare le risposte al perchè di certe cose, anche di quelle che, a volte, possono sembrare insignificanti, ma che poi si rivelano fondamentali per certe persone…

Oggi, a lavoro, ho avuto modo di conversare con una vecchia amica e non so come, discutendo del più e del meno, siamo finite a parlare del mio argomento preferito: Gesù, e della sua costante presenza nella mia vita, di tutti i segni che giorno dopo giorno semina sulla mia strada perchè io Lo possa riconoscere e ritrovare in ogni angolo. Lei mi ascoltava ammirata ed alla fine della conversazione mi ha ringraziato perchè ha detto che dopo il nostro confronto sente ancora più forte ed impellente la necessità di avvicinarsi ancora di più alla fede, a Dio…

E chi lo avrebbe mai detto che questa giornata avrebbe avuto questa finalità? Che il mio saltare la messa domenicale sarebbe servito per far capire a qualcuno l’importanza del contatto quotidiano con il Tutto?

Ancora una volta sono stata chiamata a dare la mia testimonianza, ma è decisamente una delle rarissime volte che qualcuno si commuove fino alle lacrime per quello che dico…

E’ strano, ma più passa il tempo, più mi rendo conto di essere chiamata per qualcosa di grande, credo che Dio voglia qualcosa da me ed io sono sempre più convinta ad accontentarlo, anche perchè ogni qualvolta io “svolga” questa missione, poi mi sento bene, sono felice e mi sembra di toccare il cielo con un dito…

E’ troppo bello servirLo e rispondere a Lui con un sì quando ci chiama a collaborare al suo progetto d’amore…

E’ in quei momenti che ti senti veramente bene, ti senti piena, realizzata e felice, di quella felicità che sai che non ti abbandonerà mai, perchè stai costruendo qualcosa che non è passeggero o corruttibile, ma stai collaborando all’edificazione del Suo regno e la tua opera non passerà mai, durerà per sempre…

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DEBORA, LA PROFETESSA GIUDICE

DEBORA, LA PROFETESSA GIUDICE

 

 Quando il popolo di Dio entrò nella terra promessa si trovò nella condizione di esprimere un’obbedienza difficile. Si affacciarono presto le tentazioni presagite da Mosè, il fascino del benessere, l’autosufficienza e l’oblio del Signore: «Quando avrai mangiato e ti sarai saziato, quando avrai costruito belle case e vi avrai abitato… il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto» (Dt 8,12-14).

 La storia raccontata dal libro dei Giudici mostra la fondatezza di quei timori. Il popolo si dimentica del Signore e volge il cuore alle divinità pagane. Ma sperimenta nuove forme di oppressione. Allora torna al Signore invocando liberazione. E il Signore si lascia commuovere dal grido del popolo, ne ascolta il lamento e fa sorgere dei liberatori.

 I «giudici» sono figure carismatiche che Dio suscita per ristabilire le sorti di Israele. Si tratta di capi polit ico-militari piuttosto improvvisati, dei «salvatori» che fanno fronte alla situazione politicamente e socialmente difficile. Essi non praticano attività di tipo forense, come la designazione a prima vista lascerebbe intendere. Ma c’è un caso in cui questo si verifica, è il caso di Debora.

 

1. IN ASCOLTO

Stupisce di trovare una donna alla guida del popolo eletto, una donna che assomma i ruoli di profetessa, giudice e guerriera. Tale è Debora, la «madre di Israele» (Gdc 5,7). Una che indubbiamente non brilla per riflesso di luce maschile, quale moglie o sorella di un uomo illustre. Semmai è lei che getta luce sugli Israeliti, compreso il generale Barak, il «raggio» di sole.

 

1.1. Sotto la palma di Debora

Il libro dei Giudici introduce Debora, il cui nome significa “ape”, come la moglie di

Lappidot (Gdc 4,4). Ma del marito non sappiamo altro che il nome. Egli non ha un particolare ruolo da giocare, mentre lei è una donna famosa prima ancora di prendere in mano le redini del governo e diventare madre di Israele», salvatrice della patria. È famosa anzitutto come profetessa e donna saggia che giudica e dirime le controversie degli Israeliti. Debora anticipa Salomone: è la sapienza che stabilisce la giustizia.

È una donna ispirata, in un rapporto di particolare intimità con il Santo d’Israele: è la

«profetessa», bocca di Dio per il suo popolo. E gli Israeliti andavano numerosi a consultarla.

 Salivano sulle montagne di Efraim, tra Rama e Be tel. Essa li accoglieva all’aperto, seduta sotto una palma che portava il suo nome: la Palma di Debora. La palma, come è noto, è un albero carico di simbolismo; nell’antico oriente era anche un albero sacro, indicante la glo ria di Dio. Le pareti e i battenti del Santo dei santi nel tempio di Salomone erano ornate da palme (1 Re 6,29-35). Ed ecco che in prossimità del santuario di Betel, sotto la palma, Debora rivela la gloria di Dio. Quella che si manifesta nelle trame complesse della storia come giustizia e liberazione degli oppressi. Sotto la palma di Debora la gloria di Dio illumina la vita quotidiana.

1.2. Se vieni con me andrò

Debora è una profetessa audace che non teme il confronto con i potenti. Prende l’iniziativa di convocare Barak e gli espone l’oracolo divino: dovrà arruolare diecimila uomini e affrontare coraggiosamente l’esercito nemico. Il generale tentenna, paventa un eventuale fallimento, e avanza un’ardita richiesta: «Se vieni anche tu con me, andrò; ma se non vieni non andrò» (Gdc 4,8). Si accaparra così la possibilità di consultare Dio mediante la profetessa anche durante la battaglia, e soprattutto conta sull’appoggio carismatico di Debora. Sarà lei a dare coraggio ad un esercito improvvisato che deve affrontare le truppe di Sisara e il poderoso armamentario (ben novecento carri da guerra!) della potente città cananea di Cazor.

 Debora accetta. Andrà con Barak alla battaglia. Ma annuncia una conclusione sorprendente: la palma per l’uccisione di Sisara non andrà al generale, sarà gloria di una donna. Ed eccola al fianco di Barak sulla cima del monte Tabor, certa dell’intervento divino. È lei che decide il giorno della battaglia (Gdc 4,14). Il Signore uscirà davanti a Barak come nell’esodo è uscito davanti al suo popolo.

 1.3. Destati, Debora, e intona il canto!

Infine la nostra profetessa, come Maria sorella di Mosè sulle rive del Mar Rosso, canta a Dio la vittoria:

 «Io voglio cantare in onore di Yahweh.

Io voglio sciogliere un canto a Yahweh,

al Dio d’Israele» (Gdc 5,3).

 

Sulle rive del torrente Kison si è ripetuto il grande prodigio. Ancora una volta il Dio d’Israele ha capovolto le sorti: il torrente Kison, come un tempo il Mar Rosso, ha travolto i potenti.

 Debora si alza, risveglia tutta la forza e l’ardore profetico e canta la mirabile vittoria che l’ha vista protagonista. «Destati, destati, Debora, e intona il canto!». Oltre i prodi d’Israele e il generale Barak, è Dio stesso che ha mirabilmente trionfato. E c’è qualcosa d’inedito in questa vittoria, qualcosa che non ha precedenti nella storia d’Israele: Dio ha agito per mano di donna!

 Con acuta finezza psicologica Debora chiude il suo cantico contrapponendo due donne: Giaele e la madre di Sisara. La prima è benedetta fra le donne per aver giocato d’astuzia e di coraggio: si è premurata di accogliere nella sua tenda il generale nemico e poi, durante il sonno, lo ha conficcato a terra. Ed ecco la madre di Sisara, intravista dietro le cortine della finestra in attesa impaziente, quasi presagendo il pericolo.

 Come mai ritarda? Cercano di consolarla le damigelle: il ritardo è dovuto alla spartizione di un ricco bottino: una, due fanciulle per guerriero, e vesti variopinte e ricami per il collo vincitore! Non sanno, povere illuse, che in Israele si è alzata una donna, si è alzata Debora. Si è alzata per risvegliare le coscienze assopite e ristabilire la giustizia, per vincere il nemico e impedire che le donne d’Israele fossero ancora umiliate e spartite come bottino di guerra!

 PER APPROFONDIRE L’ASCOLTO

Debora offre al suo popolo un miele tratto da molti fiori… Nel suo canto profetico il dolce ricordo delle gesta passate si fonde con l’esperienza attuale della salvezza. È il miele della terra promessa che ape-Debora ha pazientemente elaborato sotto la sua palma.

 

c Testi biblici

- Debora è la donna saggia che sa risolvere le controversie e ristabilire la giustizia; in

questo precede il re Salomone, cf 1 Re 3,16-28;

- la parola di Dio è dolce come il miele: Ez 3,1-3; Sal 19,10-11; 119,103; ma è anche

amara: Ap 10,8-11;

- Debora canta: «Sia benedetta fra le donne, Giaele» (Gdc5,24); espressione che ritorna sulle labbra di Elisabetta nel suo saluto a Maria: «Benedetta tu fra le donne» (Lc 1,42).

 

2. IN DIALOGO E CONFRONTO

Passiamo dall’ascolto alla meditazione con l’aiuto dì alcune domande. Ci lasciamo

interpellare personalmente dalla Parola e confrontiamo la nostra vita con Gesù Cristo, Verbo del Dio vivente.

2.1. Debora è donna di pace perché ristabilisce la giustizia.

Ø Sono consapevole che sono chiamato anch’io ad essere profeta?

Ø Come è la mia profezia? In quali gesti e scelte si esprime?

Ø È posta al servizio degli altri o è per la mia affermazione?

2.2. Essere donne e uomini di pace non significa essere solo miele. Ape-Debora è anche pungente… si schiera in battaglia.

  • Sono costruttore di vera pace nella vita quotidiana?

  • In quale ambito avverto di dovermi impegnare di più per la pace?

  • Mi coinvolgo a difesa dei deboli con scelte concrete e coerenti?

 

2.3. La profetessa Debora manifesta in modo eminente la logica di Dio, che sceglie i deboli – una donna! – per confondere i forti. Facciamo memoria delle volte in cui il Signore si è valso della nostra piccolezza per realizzare cose che non avremmo mai pensato.

 

  • Mi fido veramente di quel Dio che sceglie i piccoli per confondere i potenti?

  • La mia vita poggia sulla potenza di Dio o faccio affidamento alle mie qualità, alla mia forza economica, intellettuale, morale?

 3. IN PREGHIERA

  • Contempliamo Dio che sceglie ciò che è piccolo e debole per manifestare la sua potenza.

  • Ringraziamolo anche della nostra debolezza.

  • Preghiamo per crescere nell’obbedienza della fede e nella gioia di annunciare la Parola di Dio. Invochiamo il dono della sapienza e il coraggio della profezia per essere, come Debora, strumento di liberazione.

 Facciamo nostro il suo canto:

 “Ci furono capi in Israele per assumere il comando;

ci furono volontari per arruolarsi in massa: Benedite il Signore!

Ascoltate, re, porgete gli orecchi, o principi;

 io voglio cantare al Signore,voglio cantare al Signore,

 voglio cantare inni al Signore, Dio d’Israele!

 Signore, quando uscivi dal Seir,

quando avanzavi dalla steppa di Edom,

la terra tremò, i cieli si scossero,

le nubi si sciolsero in acqua.

 

Si stemperarono i monti

davanti al Signore, Signore del Sinai,

davanti al Signore, Dio d’Israele.

Ai giorni di Samgar, figlio di Anat,

ai giorni di Giaele, erano deserte le strade

e i viandanti deviavano su sentieri tortuosi.

 

Era cessata ogni autorità di governo,

era cessata in Israele

fin quando sorsi io, Debora,

fin quando sorsi come madre in Israele.

… Dèstati, dèstati, o Debora,

dèstati, dèstati, intona un canto!» (Gdc 5,2-7.12).

 

Don G. Alberione invitava a rivolgere a Maria le parole di Barak a Debora:

 

  • «Maria, se vieni con me, andrò; se non vieni con me, non andrò».

  • Andrò ai bambini, alla gioventù, alle opere parrocchiali… se tu Maria, mi accompagni; diversamente, non mi sento di andare sola.  

  • Maria, copritemi col vostro manto; infondetemi fede e coraggio; mettetemi sopra le labbra le parole… Allora Maria risponderà: « Verrò con te: ibo quidem tecum». (Prediche alle Suore Pastorelle, I, Albano [Roma] 1961, 16).

 

Affidiamo a Maria l’impegno in ordine all’agire, la parola che con il suo aiuto vogliamo praticare nella vita.

 

TORNA A:  BENVENUTA DEBORATH !

 

 

04 – REGOLA DI VITA DELLA COMPAGNIA

Capitolo quarto

REDDITIO:
LA RESTITUZIONE DEI BENI ACCOLTI

39. Comunicare quanto ci è stato dato

Quanto abbiamo gratuitamente ricevuto da Dio attraverso la tradizione vivente dei nostri Padri e abbiamo assimilato mediante l’ascolto della Parola e la celebrazione dei Sacramenti, dobbiamo a nostra volta offrirlo gratuitamente a coloro a cui il Signore ci manda, e attraverso di essi restituirlo a Lui, il Padre da cui viene ogni dono, meta vera del nostro cammino. Siamo tutti chiamati a “comunicare”, mossi dall’amore comunicativo della Trinità. La gioia che il Risorto ci fa provare spiegandoci le Scritture e rompendo il pane ci spinge a “partire da Emmaus” per ridare a molti altri quel senso pieno della vita che ci è stato donato.

40. Accoglienza e dialogo

Potremo vivere questa Redditio cominciando dalla accoglienza fraterna, anzitutto fra i credenti. Ci accogliamo gli uni gli altri come figli di questa Chiesa ambrosiana, nella sua realtà di Diocesi e nelle sue diverse articolazioni, che raggiungono ciascuno nell’ambito della propria parrocchia. Questa appartenenza ci allarga il cuore e ci apre anche a molti altri. Il cristiano radicato nella propria Chiesa locale non fa preferenza di persone, ma a tutti mostra l’accoglienza che mostrerebbe al Signore Gesù, se questi in persona si presentasse a lui. Per questo ama e coltiva il dialogo ecumenico e il dialogo interreligioso, a partire da una coscienza della propria identità che è così certa e serena da lasciarsi volentieri arricchire dai tesori degli altri.

41. Farsi prossimo

La tradizione della Chiesa ambrosiana è ricchissima di testimonianze di accoglienza, specialmente nei confronti dello straniero, del più povero e del più debole. Anche per la sua posizione geografica, il nostro territorio ha accolto e ospitato nei secoli genti delle più diverse provenienze. Pertanto, dare il giusto posto nel cuore e nei propri doveri a chi ci è affidato anzitutto dal Signore non potrà mai significare chiudersi agli altri, dovrà anzi coniugarsi allo sforzo di farsi prossimo a ogni uomo o donna, facendo spazio nella casa, nella comunità ecclesiale e nel cuore a chi ha più bisogno di accoglienza, a cominciare dalla vita nascente. Forme come l’affido familiare o l’adozione, scelte di solidarietà e di condivisione con lo straniero, l’emarginato, il malato, l’indifeso, il debole, l’anziano, il bambino solo, esperienze di volontariato vissute con piena gratuità e dedizione, sono urgenze di una vita cristiana che tenda alla santità nel quotidiano.

42. Coscienza vigile della società

Nella varietà delle situazioni della vita il cristiano è chiamato a scegliere sempre ciò che più piace a Dio. Nell’ascolto perseverante della Parola, aiutato dal dialogo della fede nella comunione della Chiesa, il credente impara ad essere coscienza vigile della società, critico della miopia di tutto ciò che è meno di Dio, pronto alla denuncia di quanto offenda o manipoli la dignità dell’essere umano, sciolto e deciso nell’annuncio della fede, pagato anche a caro prezzo, perché si promuova tutto l’uomo in ogni persona umana. In una società segnata dalla comunicazione di massa il discernimento di queste scelte non è sempre facile: richiede che si tenga davanti agli occhi il modo di fare di Gesù, che è venuto non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita per noi.

43. Nel campo sociale e politico

In modo particolare questa coscienza critica, nutrita dalla contemplazione della croce e ispirata alla speranza che non delude, dovrà guidare i cristiani ambrosiani che si impegneranno nel servizio della cosa pubblica, in campo sociale e politico. Ad essi è specialmente domandato di imitare Gesù nella propria vita, non solo nel rispetto della legalità e nella disponibilità a spendere la propria esistenza secondo la volontà del Signore e il bene più grande del prossimo, ma anche fino al punto di seguire Gesù nella via della solitudine e dell’abbandono, se egli lo chiedesse. Non sarà possibile realizzare queste forme di carità politica e sociale se non ci si eserciterà nella quotidiana rinuncia a se stessi, nell’accoglienza e nel servizio generoso e fedele degli altri.

44. Spiritualità del lavoro

Nell’esercizio della propria attività lavorativa il cristiano si sforzerà di avere sempre l’intenzione di fare tutto per la gloria di Dio e il maggior bene del prossimo: perciò si verificherà spesso con chi nella comunità o nell’ambiente di lavoro possa aiutarlo, e soprattutto con il Signore nell’ascolto della Parola e nella preghiera, perché il lavoro sia luogo di grazia e di santificazione per sé e per coloro che incontra e siano superate le contraddizioni, le sofferenze e le povertà che pesano sull’esperienza del lavoro umano. Questa spiritualità del lavoro diventa un modo concreto per rendere grazie a Dio dei Suoi doni e vivere il ritorno a Lui di tutto quanto gratuitamente Egli ci ha dato, chiamandoci alla vita e alla fede.

45. Restituire i beni educando

Anche educare significa dare gratuitamente ad altri ciò che gratuitamente ci è stato donato: l’educazione è una forma alta della restituzione dei beni ricevuti, e perciò la Chiesa si riconosce chiamata ad essere comunità educante nella gratitudine a Dio, datore dei doni, e nell’impegno prioritario del servizio alle nuove generazioni. Agli stessi ragazzi e ai giovani è giusto chiedere di essere protagonisti attivi del processo educativo mediante un’accoglienza e una risposta libera, creativa e generosa di fronte a quanto viene loro offerto. Il significato e il valore educativo degli strumenti della comunicazione sociale dovrà essere sostenuto e promosso.

46. La famiglia

La famiglia è un luogo altissimo della realizzazione del progetto di Dio su ciascuno. Nei rapporti quotidiani non ci sono maschere che tengano: ciascuno è chiamato ad essere vero davanti alla propria coscienza e davanti al Signore. Sforzarsi di andare incontro agli altri senza aspettare che siano essi a fare il primo passo, rispettare la dignità di coloro che vivono con noi, privilegiare il dialogo, anche nei momenti di stanchezza e di delusione, vincere la tentazione del mutismo e dell’isolamento, sono modi concreti, possibili, anche se a volte difficili, di seguire Gesù nella propria vita quotidiana. La fedeltà coniugale e il mutuo sostegno diventeranno un riflesso della fedeltà e amorevolezza di Dio. Tanto più forte sarà l’unione di ciascuno con Dio, tanto più facile sarà il vivere la carità e l’umiltà necessaria a fare della famiglia una Chiesa domestica, dove regni l’amore. La preghiera in famiglia, anche nella forma semplice e breve che precede i pasti, è un aiuto grande per vivere tutti insieme alla presenza di Dio.

47. Lo stile della sobrietà

La sobrietà come stile di vita personale e familiare, oltre che come caratteristica dell’agire ecclesiale, è non solo una forma di imitazione di Gesù povero e crocifisso, ma anche la contestazione più credibile dei falsi modelli della società consumistica e dell’edonismo diffuso. Essa si coniuga ad una precisa gerarchia di valori, in base alla quale la vera felicità e il vero bene non consistono nel possedere di più, ma nell’essere di più nella verità e nell’amore, cioè nel dono di sé, davanti a Dio. L’uso maturo e responsabile del proprio tempo, la vigilanza nei confronti dei “media”, tesa a non farsi dominare dai persuasori occulti della propaganda per mantenere vigile e libero il cuore, specialmente nella sfera dei sènsi, sono aspetti importanti di questa sobrietà di vita, di cui altissimi esempi ci hanno dato i santi della Chiesa ambrosiana.

48. La comunione ecclesiale

«Il sacrificio più grande da offrire a Dio è la nostra pace e la fraterna concordia, è il popolo radunato dall’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (San Cipriano, Sul Padre nostro, 24). L’accoglienza e il dono di sé al prossimo non possono essere vissuti pienamente se non si è in piena comunione con i propri fratelli e le proprie sorelle nella fede: la comunione ecclesiale (specialmente tra gli operatori pastorali) è richiesta da Gesù come condizione della credibilità del nostro annuncio: “Da questo sapranno tutti che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). Non fare mai della propria esperienza spirituale o di gruppo un assoluto è condizione per vivere in comunione con tutti: in particolare a ogni battezzato è richiesta una docile obbedienza di fede al Vescovo e a colui che lo rappresenta nella comunità territoriale, a partire dalla parrocchia. Vivere il senso della Chiesa nel dialogo, nella pace, nell’accoglienza reciproca, nell’umile disponibilità ai diversi ministeri e servizi, dà forza alla testimonianza e allontana le insidie dello spirito di divisione e di sopraffazione degli altri.

49. La missione

Chi ha incontrato il Signore nella comunione della Chiesa non può non sentire il bisogno di annunciare ad altri la buona novella dell’amore di Dio di cui ha fatto esperienza. La Chiesa ambrosiana ha dato nel tempo straordinarie testimonianze di generosità missionaria, non solo all’interno del suo territorio, ma anche inviando numerosi suoi figli quali missionari del Vangelo alle genti. Nutrire lo spirito missionario, favorire le vocazioni per la missione, accompagnare con la preghiera e la vicinanza attiva e solidale chi parte e lavora lontano per la causa del Regno, è segno di maturità nella fede e di crescita nella qualità della vita ecclesiale. Ad ogni cristiano ambrosiano domando di verificarsi nella sua partecipazione all’azione missionaria della Chiesa e di investire tempo ed energia perché la Parola del Dio vivo sia annunciata a tutti e raggiunga tutto l’uomo in ogni uomo, come offerta di senso e di vita piena e vera.

50. Preghiera della Redditio

Signore Gesù, mia vita, mio tutto,
Tu mi chiedi di dare gratuitamente
quanto gratuitamente mi hai donato
in questa Chiesa ambrosiana
dove mi hai chiamato a seguirTi.


Aiutami a condividere con gli altri i doni ricevuti
nello spirito del dialogo
e dell’accoglienza reciproca.
Fa’ che io riesca a farmi prossimo
per tutti coloro cui Tu mi invii,
specialmente i più deboli e bisognosi
e quelli che sono più difficili da amare.


Mi stimola in questo l’esempio di tanti santi
che nella storia hai dato
a questa nostra Chiesa:
anche alla loro intercessione mi affido
perché sia vigile e responsabile
nella lettura dei segni del tempo
e testimoni il primato del Padre
nel mio lavoro quotidiano
e nei rapporti familiari e sociali.


Aiutami ad essere sobrio
cercando in tutto l’essenziale,
che piace a Te e mi fa vicino ai Tuoi poveri,
liberandomi da maschere e difese tranquillizzanti.
Dammi amore vero alla Tua Chiesa,
che riconosco mia Madre nella grazia,
perché mi ha generato alla fede in Te
e nel Padre Tuo
mediante il dono del Consolatore.


E fa’ che da una viva e forte esperienza
di comunione ecclesiale
scaturisca nel mio cuore il bisogno
di testimoniare ad altri
con generosità e passione
la bellezza del dono che Tu hai fatto a me,
insieme a tutti coloro che vivono l’ansia missionaria
per il Tuo Regno.


E Tu, Vergine Madre Maria,
che ti sei fatta terreno dell’avvento di Gesù
nell’ascolto umile ed accogliente dell’Angelo
e sei stata attenta, tenera e concreta
nel comunicare ad Elisabetta la gioia
di quanto avevi ricevuto,
aiutami ad essere come Te
vigile ed impegnato nell’accoglienza
e nella trasmissione del dono
che viene da Dio.
Amen. Alleluia!

CONCLUSIONE

Nel consegnarTi questa regola di vita, perché possa accompagnarTi nel cammino dei giorni come costante richiamo al dono di Dio e alla risposta che Lui Ti chiede, vorrei ripetere con Te le parole di gioia, di lode e di speranza con cui la Vergine Maria cantò le meraviglie del Signore in Lei. Maria fa parte dei doni più preziosi che Gesù ha lasciato al “discepolo dell’amore” (cf. Gv 19,25-27), e la familiarità con Lei, nella meditazione dei suoi misteri e nella preghiera perseverante con cui ci affidiamo alla Sua intercessione materna, aiuta ognuno di noi a vivere la “traditio”, la “receptio” e la “redditio” dei beni divini a noi confidati nella Chiesa, come Lei, Vergine e Madre, accolse gratuitamente e gratuitamente trasmise il dono divino. Già Sant’Ambrogio invitava a far esperienza di questa intimità con Maria, che riempie di esultanza e di pace: «Sia in ciascuno l’anima di Maria a magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria ad esultare in Dio» (Expositio evangelii secundum Lucam, 2,26).
Certo, come insegna Ambrogio, «Maria era tempio di Dio, non il Dio del tempio», ma è proprio così che ella rinvia all’Unico da adorare, il Signore che ha operato in Lei («Maria erat templum Dei, non Deus templi. Et ideo ille solus adorandus qui operabatur in templo»: De Spiritu Sancto 3, 11,80: PL 16,829). Con Maria, allora, sul Suo esempio e con il Suo
aiuto, rendiamo grazie all’Eterno che ci ha chiamati alla fede nella sua Chiesa ed ha operato in noi con la grazia del battesimo e dei sacramenti, e con Lei, che ci ha preceduto e ci accompagna, apriamoci a cantare nella vita, con le parole e con l’eloquenza dei gesti, il “Magnificat” della speranza e dell’amore operoso, sforzandoci di vivere con umiltà e fiducia questa regola di vita, che nella fede abbiamo ricevuto:

“L’anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni
mi chiameranno beata.


Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente
e Santo è il suo nome:
di generazione in generazione
la sua misericordia
si stende su quelli che lo temono.


Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato a mani vuote i ricchi.


Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre».

O1 – REGOLA DI VITA DELLA COMPAGNIA

03 – REGOLA DI VITA DELLA COMPAGNIA


Capitolo terzo


RECEPTIO:


L’ACCOGLIENZA DEI DONI RICEVUTI


21. Il soggetto della “Receptio”

Chi sono io che ricevo questi doni di Dio? Un uomo che sente la fatica della condizione umana, segnata dall’ingiustizia e dalla fragilità, dall’inadeguatezza e dall’incompetenza; un essere fragile e in ricerca, che ho descritto nella prima parte di questa Regola (Interrogatio) e che sempre ha bisogno di essere sostenuto, nutrito, rianimato dalla misericordia e dalla salvezza che ci sono date in Gesù Cristo.

22. La “Receptio” anzitutto nella preghiera

Questi doni, ricevuti nella Traditio, sono gratuiti, immeritati e inattesi. Il luogo in cui questa gratuità si manifesta, in cui i doni di Dio ci raggiungono nell’oggi e cambiano il nostro cuore è anzitutto la preghiera, sia personale che liturgica. Bisogna però cominciare con qualcosa di molto semplice: le preghiere del mattino e della sera e quelle brevi invocazioni durante la giornata C’Signore, aiutami!”; “Signore, abbi pietà di me!”…) che ci “attaccano” a Dio quando stiamo scivolando sulla parete ripida della quotidianità.

23. Che cosa è la preghiera?

La preghiera è anzitutto risposta alla Parola di Dio che per prima mi interpella e che mi raggiunge nella mia debolezza, ma anche nel mio silenzio e nella mia disponibilità all’ascolto. La preghiera è lasciarsi accogliere nel mistero santo, andando per Cristo nello Spirito al Padre: il cristiano più che pregare un Dio, straniero e lontano, prega in Dio, prega nascosto con Cristo nella Trinità, sorgente e grembo di vita. Quando preghi, allora, più che pensare di essere tu ad amare Dio, lasciati amare da Lui, docilmente, ciecamente, tutto abbandonandoti in Lui, tutto affidando a Lui, in spirito di lode e di rendimento di grazie. Chiediti con me: trovo dei momenti in cui mi metto a tu per tu con Dio, lo ascolto, mi apro a Lui?

24. Preghiera, Sacramenti, Parola, Carità

Da sempre, e sul modello ispirato da Sant’Ambrogio, la Chiesa milanese ha dato grande importanza alla celebrazione dei divini misteri, preceduta e seguita dalla proclamazione del messaggio di salvezza nell’annuncio e nella catechesi e al tempo stesso ricca di frutti di carità vissuta. Preghiera, Parola, Sacramenti, esercizio della carità costituiscono così il tessuto della Receptio, il terreno nel quale riceviamo ogni giorno nella Chiesa i tesori della rivelazione divina e li accogliamo nel nostro cuore inquieto e resistente.
In particolare, l’unità del Mistero proclamato, celebrato e vissuto viene sperimentata attraverso la preghiera della liturgia delle ore, “diurna laus” ricevuta dalla ininterrotta testimonianza della fede dei nostri Padri, in cui tutta la vita del cristiano è custodita con Cristo in Dio e il tempo santificato in ogni sua espressione. Questa preghiera liturgica della Chiesa è nutrimento prezioso del cammino della santità, da raccomandare ad ogni battezzato.

25. La Parola accolta nella “Lectio divina”

Aiuto indispensabile per vivere nella concretezza del nostro tempo la vocazione cristiana è l’ascolto perseverante della Parola di Dio, che apre il cuore a ringraziare Dio dei Suoi doni nel dialogo della fede, fa riconoscere e discernere nel pentimento i peccati che appesantiscono la vita quotidiana e consente di riconoscere le vie di Dio per noi e di rinnovare il nostro sì alla Sua chiamata. Nasce così la Lectio divina che riceve con attenzione e riverenza le parole e i gesti del Figlio (lectio: lettura), in essi ricerca il messaggio perenne che viene dal silenzio del Padre (meditatio: meditazione) e si offre all’azione dello Spirito per entrare nel cuore della Trinità (contemplatio: contemplazione) e imparare a vivere e a scegliere secondo Gesù Cristo, Parola del Padre, Unto dallo Spirito (actio: azione). Sarai felice se ti impegnerai a fare la Lectio possibilmente ogni giorno.

26. La Scuola della Parola

La Scuola della Parola è stata voluta per aiutare in particolare i giovani a fare la Lectio divina e così ad accogliere il grande dono che il Signore ci ha fatto comunicandosi a noi nella rivelazione e a discernere la Sua volontà sulla nostra vita.

27. La vita sacramentale

«Tu ti sei mostrato a me faccia a faccia, o Cristo: io ti trovo nei tuoi sacramenti» (Sant’Ambrogio, Apologia del profeta Davide, 12, 58): nei Sacramenti è Cristo che si fa presente e viene ad incontrare la vita dei cristiani e la storia in cui essi sono posti. Nella parte precedente (Traditio) abbiamo già ricordato il posto fondante del battesimo e la posizione centrale dell’Eucaristia. Qui richiamerò brevemente qualche altro aspetto della vita sacramentale.

28. Il sacramento della penitenza

Decisiva per il discernimento della volontà di Dio su ciascuno è la purezza di cuore: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8). Chiedo perciò a te che leggi questa Regola di vita di celebrare con fiducia il sacramento della riconciliazione o penitenza, nel quale riconoscere gli innumerevoli doni del Padre nel cammino della tua esistenza (confessio laudis), confessare umilmente ciò che non va nella tua vita, ciò che tu vorresti che non ci fosse stato e che non ci fosse oggi (confessio vitae) e professare la tua fede nella infinita e sempre presente misericordia del Padre che ti perdona per la parola della Chiesa (confessio fìdei). Ti consiglio di rinnovare frequentemente questo incontro con il Padre della misericordia attraverso il ministero di riconciliazione nella Chiesa.

29. L’accompagnamento spirituale

L’incontro costante con una guida spirituale, saggia ed esperta nelle cose di Dio, anche al di là del sacramento della penitenza, è sostegno prezioso nel cammino di santità vissuto nel quotidiano. La vita di tanti nostri santi ambrosiani lo dimostra.

30. La confermazione

Se la regola di vita del cristiano è anzitutto il dono dello Spirito, si comprende quanto sia importante il sacramento della confermazione, in cui il sigillo del Consolatore rende il credente capace di testimoniare in pienezza il dono di Dio nelle diverse situazioni della vita: “Hai ricevuto il sigillo spirituale, lo spirito di sapienza e di intelletto, spirito di consiglio e di virtù, spirito di conoscenza e di pietà, spirito del santo timore: conserva quanto hai ricevuto. Ti ha segnato Dio Padre, ti ha confermato Cristo Signore e lo Spirito come pegno si è dato al cuore del tuo cuore.- (Sant’Ambrogio, Sui misteri, 7, 42).

31. Vita secondo lo Spirito

Chiedo perciò a tutti i figli della Chiesa ambrosiana di valorizzare al massimo nella loro vita questo sacramento dello Spirito, sia che lo abbiano già ricevuto, sia che si stiano preparando ad esso. Vivere secondo lo Spirito significa lasciarsi guidare dal dono di Dio, confortati e sostenuti in ogni situazione dalla cel1ezza della presenza fedele di Gesù, che non viene mai meno alle Sue promesse. Lo Spirito Santo attualizza nel tempo la vicinanza del Signore Gesù e lo fa vivere per la fede nei nostri cuori, aiutandoci ad esprimere la conformità a Cristo ricevuta in dono nel battesimo.

32. La Messa domenicale

Chi ascolta fedelmente la Parola e si lascia condurre dallo Spirito si dispone a celebrare con frutto nel giorno del Signore l’Eucaristia, che ci fa Chiesa, perché riattualizza nella nostra vita e nella storia il dono della nuova alleanza. Questo incontro domenicale è stato vissuto come fondante, e perciò come indispensabile, fin dalla Chiesa degli Apostoli: oggi, in un contesto di secolarizzazione, è più che mai necessario.
E una più frequente partecipazione, anche durante la settimana, alla mensa della Parola e del Pane di vita aiuterà straordinariamente la crescita della fede, della speranza e della carità e ci farà passare attraverso il deserto dell’incredulità contemporanea con animo sereno e volto gioioso.

33. I sacramenti della comunione ecclesiale

All’esigenza di porre la propria vita al servizio della comunità risponde in modo particolare il dono che il Signore ci ha fatto nei sacramenti del servizio della comunione, che sono l’ordine e il matrimonio. Attraverso di essi la grazia divina soccorre e consacra i vincoli che si stabiliscono nell’ambito della comunità. Perciò questi due sacramenti conferiscono una missione specifica al servizio dell’edificazione del popolo di Dio.

34. Il discernimento vocazionale

Al discernimento della vocazione di ogni battezzato in rapporto sia a queste due forme sacramentali sia a ogni scelta significativa e seria della vita la Chiesa ambrosiana dedica particolari energie. Ogni persona infatti si realizza se riesce a capire e a vivere il disegno unico che Dio ha su di lei. È necessario perciò che tutti i fedeli riconoscano l’importanza decisiva del discernimento vocazionale e si adoperino perché ciascun battezzato possa crescere nella comprensione della chiamata di Dio e nella realizzazione fedele del progetto del Signore, nella scelta della vocazione alla famiglia o della vita consacrata o della missione presbiterale.

35. Scambio tra le diverse vocazioni

Ritengo una vera grazia, da coltivare e promuovere, lo scambio di doni e di ricchezze spirituali che si può realizzare tra diverse vocazioni nella Chiesa, in particolare tra le varie forme di vita consacrata mediante la professione dei consigli evangelici e gli altri ministeri presbiterali, diaconali e laicali. Questo scambio si attua nel dialogo, nella collaborazione e nella preghiera comune.

36. Il sacramento dei malati

Alla debolezza e fragilità della creatura umana nel tempo della malattia grave e dell’infermità prolungata viene incontro ancora una volta il Signore nel sacramento dell’unzione degli infermi. Esso manifesta la vittoria del Signore sul peccato e sulle sue conseguenze. Gesù infatti «andava attorno per le città e i villaggi… curando ogni malattia e infermità” (Mt 9, 35). Anche agli Apostoli è dato il potere di «scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d’infermità” (Mt 10, 1).

37. Il valore salvifico del dolore

Riscoprire nella nostra vita ecclesiale il significato di questo sacramento porta anche a riflettere più in generale sul valore salvifico del dolore, vissuto in Cristo e con Lui per la salvezza del mondo. La compassione fattiva e discreta verso i sofferenti, la solidarietà per aiutarli a vivere essi stessi con fede il loro dolore sono aspetti decisivi di questa riscoperta della nostra crescita nella sequela di Gesù umile, povero e crocifisso.

38. Dalla “Receptio” un modo di essere Chiesa oggi

Così la nostra Chiesa di Milano si sforza di recepire i doni del Signore per mostrare che anche in una società tecnicizzata e urbanizzata è possibile promuovere comunità che vivano il Vangelo nella semplicità e nella gioia. Questi doni sono per tutti i nostri battezzati, ai quali dobbiamo offrire cammini semplici di vita secondo lo Spirito perché continui a fiorire quella “santità popolare” che tanti frutti ha dato e continua a dare fino ai nostri giorni. Ti invito perciò a pregare così con me:

Signore Gesù,
Tu sai come io avverto
la fatica della condizione umana,
il peso dell’ingiustizia e della fragilità,
dell’inadeguatezza e della paura di amare:
grazie per essermi venuto incontro
nella Tua Parola e nei Sacramenti;


grazie per avermi accolto con Te
nel cuore del Padre,
attirandomi nello Spirito
a vivere il deserto fecondo della preghiera,
dove parli al cuore del mio cuore.


Fa’ che io sappia ricevere sempre
con attenzione e riverenza le Tue parole,
per entrare attraverso di esse
nel mistero santo di Dio,
e camminare nei sentieri del silenzio,
sotto la guida e nel conforto dello Spirito.


Aiutami ad attingere continuamente
l’acqua viva della Tua grazia
alle sorgenti sacramentali della Chiesa,
e donami l’umiltà e la docilità di cuore
perché accetti di lasciarmi guidare
con fiducia e con amore
da chi mi offri come maestro e pastore
nelle vie della fede.


Rendimi vigile e attento
nel discernimento della volontà del Padre,
perché io possa in tutto
portare a compimento
la vocazione con cui da sempre Lui
mi ha voluto
e mi ha amato.


Nell’ora del dolore e della prova
donami la certezza di non essere solo,
ma di saperTi e volerTi vicino,
per vivere con Te la mia offerta
nella sequela umile e fiduciosa di Te.


E fa’ che da questa accoglienza
perseverante e fedele dei Tuoi doni
io sia generato sempre di nuovo
come figlio della luce,
e sappia percorrere
con i miei compagni di fede e di vita
cammini di santità,
che facciano di noi il Tuo popolo
risplendente di luce e di speranza.

O1 – REGOLA DI VITA DELLA COMPAGNIA

02 – REGOLA DI VITA DELLA COMPAGNIA

Capitolo secondo


TRADITIO:
I DONI DI DIO
CHE CI SONO TRASMESSI NELLA CHIESA

12. Il Vangelo e lo Spirito, regola di vita

La regola di vita del cristiano è il Vangelo del Signore Gesù, vissuto nella grazia dello Spirito Santo effuso nei nostri cuori, a gloria di Dio Padre: «Tutto è Cristo per noi” (S. Ambrogio, La verginità, 16, 99), «Finché sono in via, sono di Cristo; quando sarò giunto, sarò del Padre; ma dappertutto per mezzo di Cristo e sotto di Lui” (Id., La fede, V, 12, 150). In quanto è lo Spirito a rendere presente in noi il Signore Gesù, è anche lo Spirito – Maestro interiore – ad insegnare a ciascuno che lo ascolti la regola del cammino d’ogni giorno: «Siamo segnati da Dio nello Spirito. Come infatti moriamo in Cristo per rinascere, così anche siamo segnati dallo Spirito per poterne portare lo splendore, l’immagine e la grazia” (Id., Lo Spirito Santo, I, 6, 79). Alle domande vere non rispondiamo noi, ma ci è data risposta lì dove Dio ha parlato nel silenzio, cioè nella croce di Cristo.

13. L’evento del battesimo

La regola di vita semplice e grande, che è il Vangelo del Signore Gesù, ci viene consegnata nel momento del battesimo e viene accolta da noi in quello stesso momento mediante la professione di fede, con cui noi, o i nostri genitori, padrini e madrine, a nome nostro, abbiamo dichiarato di credere in Dio Padre, nel Figlio Suo Gesù Cristo, morto per i nostri peccati e risorto per la nostra salvezza, e nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita e ci aiuta a camminare in Dio finché il Suo volto sia pienamente manifestato in noi nella Sua gloria. È dunque nel battesimo che veniamo accolti nel cuore della Trinità e la vita e l’amore dei Tre sono comunicati al nostro cuore.

14. La Tradizione vivente

L’evento del battesimo ci inserisce così al tempo stesso nella vita della Trinità e nella Tradizione vivente della Chiesa, che per noi è quella della Chiesa di Sant’Ambrogio e di San Carlo, identica a quella di tutte le altre Chiese. La fede ricevuta e professata nel battesimo illumina le domande vere del cuore e ci permette di trovare risposte capaci di sostenerci nella vita e di fronte alla morte. In questa fede possiamo comprendere qual è la vocazione profonda di ciascuno di noi, quali le condizioni per discernere e vivere la volontà di Dio. Questa stessa fede ci fa capire che siamo chiamati a essere figli di Dio e a vivere come tali, ci insegna il cammino delle beatitudini evangeliche, che ci rendono simili a Gesù, Figlio del Padre.

15. La “Traditio Symboli”

Nel Simbolo della fede noi professiamo di credere in Dio: il “credere in” vuol dire l’atto dell’incondizionata adesione e dedizione della vita e del cuore a Lui, l’affidamento senza riserve alle tre Persone divine che sono l’unico Dio, l’ingresso vitale e trasformante nel dialogo del loro eterno amore. Ogni volta che nella liturgia professiamo il Credo siamo chiamati ad affidare incondizionatamente al Mistero santo di Dio le nostre domande, le nostre inquietudini, la nostra fatica di vivere e la nostra paura di morire. In modo particolare la nostra Chiesa ambrosiana rinnova questa solenne accoglienza della fede nella celebrazione annuale della Traditio Symholi, nel sabato precedente la Domenica delle Palme.

16. Il tesoro delle Scritture

Insieme con il Simbolo il battezzato accoglie la pienezza dei tesori della Chiesa contenuti nelle Sacre Scritture, ispirate dallo Spirito Santo, «che ha parlato per mezzo dei profeti». Tutte le Scritture danno testimonianza su Gesù e vanno interpretate a partire dal mistero della Sua morte e risurrezione. La venerazione e la conoscenza amorosa delle Scritture, insegnata da Sant’Ambrogio a Sant’Agostino, fa parte dell’identità di ogni battezzato e cresce con lui per tutta la sua esistenza. La Parola di Dio sta al principio della nostra vita di fede e continuamente la nutre e la rinnova. Essa è la sorgente che illumina le domande del cuore e rigenera le forze nel cammino. Da essa estraiamo continuamente “cose nuove e cose antiche» (Mt 13, 52), in essa penetriamo “le cose nascoste fin dalla fondazione del mondo» (Mt 13, 35), perché: “in principio è la Parola».

17. Il silenzio contemplativo

Per accogliere la Parola occorre coltivare il silenzio contemplativo, la capacità di rientrare nel nostro intimo, di ritrovare il centro di noi stessi, vincendo l’ansietà e la fretta che ci divorano e fermandoci ad ascoltare le domande vere per ricevere su di esse la luce del Dio che parla. Così faceva Maria di fronte agli eventi sconcertanti e imprevisti che la coinvolgevano. La “dimensione contemplativa della vita” ci è necessaria per cominciare un autentico cammino di fede e perseverare in esso in mezzo alle vicende tumultuose che segnano la nostra esistenza, ai turbamenti e alle contraddizioni che attraversano il nostro cuore.

18. La liturgia e l’Eucaristia, “culmine e fonte”

La Parola si fa carne del Signore nell’Eucaristia, centro di tutta la nostra comunità e della sua missione. Il Signore Gesù, che ha detto «Attirerò tutti a me”, continua ad attrarre a sé l’universo e tutti gli uomini e le donne della nostra terra per unirli a sé nel suo dono al Padre. Egli si offre a noi sotto le specie della debolezza e dell’insignificanza come pane di vita che ci sostiene nel cammino, facendosi compagno compassionevole della nostra fatica di vivere: «non temete… io sono con voi tutti i giorni”.
È nella liturgia che la Chiesa, accogliendo il dono di Dio, si lascia accogliere nel seno del mistero trinitario. Nella celebrazione liturgica tutto viene ricevuto dal Padre per il Figlio nello Spirito ed insieme tutto è offerto al Padre per Cristo nell’unità del Consolatore. La “liturgia delle ore”, fedelmente ricevuta e trasmessa nella tradizione ambrosiana come “diurna laus”, santifica il tempo, riconducendolo alla sorgente eterna, grembo e patria di ogni nostro agire, mentre nella celebrazione dei sacramenti è l’intero scandirsi della vita e della storia umana che viene raggiunto e plasmato dalla Grazia che salva. In particolare, la Parola si fa carne del Signore nell’Eucaristia, culmine e fonte di tutta la vita della Chiesa, centro della comunità e della sua missione…

19. Il senso della vita

Dalla fede professata, nutrita dalla Parola di Dio e dall’Eucaristia, emerge quel senso della vita, che si può sintetizzare nella frase di Sant’Ambrogio: «Tutto è Cristo per me”. Il cristiano è colui che sempre e dappertutto si sforza di essere con Cristo e di vivere per Cristo nella sequela di Lui. Questo significa vincere il senso di vuoto e di insignificanza che tante volte ci tenta e confessare con la vita Colui che sconvolge continuamente le nostre attese e proprio così dà pace al nostro cuore inquieto. Egli ci sussurra dalla croce: “Sarai con me in Paradiso!” e ci dà così la speranza certa che un giorno saremo con Lui.

20. Tu sei il mio tutto!

Accogliendo sempre di nuovo il dono di Dio, vorrei confessare insieme con te la gratitudine e la gioia che esso suscita in me, nonostante me stesso e tutte le mie povertà:

Mio Dio, tu sei il mio tutto!
Ti adoro,
Ti amo con tutto il cuore,
Ti ringrazio di avermi creato
e di avermi chiamato
ad essere Tuo figlio in Gesù Cristo
per mezzo del battesimo,
facendomi membro vivo di questa Chiesa ambrosiana,
conservandomi fino a questo momento nel
Tuo amore
per la grazia dello Spirito Santo.


Ti offro la mia confessione di lode,
piena di gratitudine e di speranza,
e desidero vivere
secondo la fede ricevuta nel battesimo,
pregando, amando, soffrendo e morendo
come ha vissuto, amato, pregato, sofferto
ed è morto per noi
il Tuo Figlio Gesù Cristo,
nel quale anch’io sono Tuo figlio,
come Tu mi sei Padre in Gesù, mio Signore,
nello Spirito di verità e di amore,
nella comunione della Chiesa cattolica,
vissuta in questa Chiesa di Milano.

01 – REGOLA DI VITA DELLA COMPAGNIA


O1 – REGOLA DI VITA DELLA COMPAGNIA

LA MIA REGOLA DI VITA

E’ GESU’ DI NAZARETH

DETTO IL CRISTO

(Gv 15,15)


“Vi ho chiamati amici,

perché tutto ciò che ho udito dal Padre

l’ho fatto conoscere a voi”

PREMESSA

Domani ( 28 Agosto 2008 ) si celebra festa liturgica di Sant’Agostino, Vescovo d’Ippona e Dottore della Chiesa.

Fra la mole dei suoi scritti, ve n’è uno di poche pagine, titolato ”Regula ad servos Dei”, un progetto di vita adottato nei secoli da tanti Ordini e Congregazioni religiose.

In tale circostanza oso proporre alla COMPAGNIA DEI GLOBULI ROSSI, una REGOLA equivalente, scritta dal Card. Carlo Maria Martini ad usum Christifideles laici del nostro tempo, nello spirito della tradizione patristica.  Pensata per i giovani, è piena di sapienza e va benone anche per chi ha i capelli grigi ma ha perso lo smalto degli ardori giovanili.

Anche San Riccardo Pampuri, da giovane medico condotto, scrivendo alla sorella missionaria al Cairo esprimeva il bisogno di avereva di una “regola” per non perdersi. Questo è il motivo per cui s’è fatto religioso dei Fatebenefratelli che vivono secondo il modello di vita comunitaria proposto da Sant’Agostino.

Il vescovo e monaco non ha inventato niente; si è rifatto semplicemente agli Atti degli Apostoli che descrivono la comunità di Gerusalemme:

  • Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere”.

  • “La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune.

  • Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia”.


Anche oggi la tentazione subdola è quella di dire: “Ma non basta il Vangelo?”. Certo che basta. Ma la REGOLA giova ancora. E’ uno strumento con una precisa funzione pedagogica:

  • impedirmi  di smarrirmi in un cristianesimo solitario, individualista, fantastico,

  • farmi sentire di non camminare da solo ma in Compagnia…ossia di appartenere all’Ekklesìa, il Popolo di Dio, a una Fraternità di amici: “Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15, 15).

Dunque, Fraternità di “pietre vive” che si tramandano le ardenti parole dell’Amico. Le stesse che l’Arcivescovo Martini ci propone, con lo sguardo sempre rivolto a Gerusalemme e attento alla primitiva comunità descritta dall’evangelista Luca.

Suscita sempre nella tua Chiesa, Signore,

lo spirito che animò il tuo vescovo Agostino,

perché anche noi, assetati della vera sapienza,

non ci stanchiamo di cercare te,

fonte viva dell’eterno amore. (Dalla Liturgia)

E concedi un giorno al Pastore,

estensore di questa REGOLA,

la vita eterna,

premio delle fatiche apostoliche

nella Chiesa Ambrosiana

per la fede cattolica. AMEN.

PRESENTAZIONE

Nel 1996 l’Arcivescovo, Cardinale Carlo Maria Martini, indirizzava ai fedeli della sua diocesi la lettera pastorale “Parlo al tuo cuore” che aveva come sottotitolo “per una regola di vita del cristiano ambrosiano”.
I contenuti di quella lettera pastorale vengono ora ripresi in una nuova edizione e presentati come “regola di vita del cristiano”.
L’intenzione è di affidare questa “regola” soprattutto ai giovani, ai diciottenni, agli adolescenti cresimati e cresimandi, a tutti coloro che aprendosi alla vita con scelte ricercate e volute, sentono l’importanza dell’indicazione di una via per accogliere la Parola di Gesù e vivere in comunione con Lui.
È significativo che ciò avvenga oggi, all’inizio del nuovo millennio, in un clima sociale dove si ha l’impressione che le domande creino smarrimento e dove sembra forte la paura di prendere decisioni impegnative per la propria vita.
Questa “regola di vita” prende sul serio gli interrogativi dell’uomo. Non intende offrire risposte facili, invita piuttosto ad un cammino spirituale, interiore e aperto, che domanda innanzitutto di creare lo spazio per lasciare parlare il Signore; aiuta ad affinare lo sguardo per “vedere” Dio vicino all’uomo con diversi segni e molti doni; incita alla testimonianza feconda per la quale ognuno, insieme con tanti fratelli, può essere portatore della speranza che viene da Dio e di un seme di vita in questo mondo.
È certamente una “regola” da meditare lungamente.

Don Gianni Zappa

INTRODUZIONE

La “regola di vita” del cristiano è già tutta nel Vangelo ed è resa vivibile dal dono dello Spirito Santo, che ci è dato nel battesimo e negli altri sacramenti.
Il Signore, però, ha voluto salvarci non isolatamente, ma come popolo radunato intorno ai Pastori e chiede loro di interpretare i segni e i bisogni dei tempi. Pertanto, stimolato dall’esempio di chi mi ha preceduto nel servizio della Chiesa di Milano e dai tanti figli di questa Chiesa che sono stati modelli sulla via della santità, ho pensato di stilare questo breve testo perché possa aiutare chi ha intrapreso il cammino difficile e meraviglioso della fede a progredire in esso in obbedienza alla volontà del Padre.
Ciò che vi chiedo è allora semplicemente di meditare questa Regola. Essa parte dalle domande che sono nel cuore di ognuno di noi (Interrogatio) e si sforza di indicare un itinerario credibile e percorribile di risposta nella sequela di Gesù, attraverso il triplice momento della Traditio (i doni a noi trasmessi nella Chiesa ambrosiana), della Receptio (l’accoglienza e la coltivazione di questi doni) e della Redditio (il ridistribuire questi doni
ad altri).

Ascoltami, ti prego, con lo stesso cuore aperto con cui ti parlo, cominciando dalle domande che entrambi abbiamo dentro.

Capitolo primo

INTERROGATIO:
L’INQUIETUDINE DEL CUORE

1. Ascoltare le domande vere

Vorrei farmi tuo compagno di strada: ascoltare le domande vere del tuo cuore, confessarti le mie. Questo è importante: non è possibile trovare e dare risposte, se non si sono riconosciute le domande. Una “regola di vita” vorrebbe anzitutto essere un tentativo di dare risposte a domande vere (o forse, più modestamente, l’indicazione di un tracciato, lungo il quale cercare e incontrare risposte vere).

2. La domanda radicale: la morte

Provo a mettere in gioco fino in fondo me stesso, ad aprire il mio cuore: se vi guardo dentro, trovo tante gioie e dolori e tante domande aperte, che forse sono anche le tue.
Come stanno insieme i dolori e le gioie della vita? Quando si pensa a tante sofferenze della gente Ce me ne giungono gli echi ogni giorno e ogni ora), qualunque godimento, anche il più legittimo e semplice, sembra scolorire, appare come stonato. Perché invece ha senso? come si conciliano le gioie autentiche di questo mondo con le prospettive di morte? perché la morte nel mondo? perché, se è vero che Dio ci ha salvato, non ci ha liberato dalla necessità di morire? e, dietro la morte, tutti i dolori e le angosce dell’esistenza umana: perché questo immenso cumulo di violenze, ingiustizie e solitudini? Sembra che il non senso l’abbia vinta su tutti i fronti: fare i conti con la miseria che copre la terra significa riconoscere la grande difficoltà che tutti incontriamo nel renderci padroni della complessità, nel trovare ragioni che giustifichino la fatica di vivere.

3. Il silenzio di Dio Perché il Signore sembra tacere? perché Lui, che è l’Onnipotente, non si manifesta con lo splendore della Sua verità e lo sfolgorio della Sua onnipotenza? perché quella Sua apparente indifferenza davanti alla quotidiana commedia e tragedia della nostra vita? è proprio vero che Gli stiamo a cuore? che siamo importanti per Lui? tutti e ciascuno? Non stupirti che sia anch’io a farmi queste domande: me le porto dentro e ogni giorno inquietano la mia fede e mi rendono pensoso e in ricerca. Anche nel cuore del Vescovo abitano gli interrogativi che ci fanno umani, così fragili davanti alla vita, alla malattia, alla morte.

4. Dall’interrogare all’essere interrogati

A pensarci bene, tutte le domande che ho ricordato sono rivolte a Dio: è per noi quasi spontaneo chiederGli conto e ragione di questo mondo.
Se Dio c’è, è Lui che lo ha voluto, così come esso è. E tuttavia, non è forse la critica smaliziata del pensiero moderno che si è abituata a chiamarLo in giudizio davanti alla clamorosa smentita che il dolore del mondo darebbe della Sua provvidenza e del Suo amore? In questo siamo un po’ tutti figli dell’epoca moderna, della sua ragione cosiddetta “adulta ed emancipata”. E se provassimo a capovolgere la domanda, a passare dall’interrogare all’essere interrogati? e se consentissimo a Dio di porci Lui le Sue domande?

5. L’invadenza dell’Io

Mi chiedo allora quali potrebbero essere le domande di Dio: se penso al Suo
giudizio, se mi immagino davanti a Lui, al Suo sguardo penetrante e creatore, non posso non riconoscere come il mio cuore sia mosso tante volte da motivazioni spurie, o, per dirla tutta,
da un’invadenza dell’Io, che vuole stare al centro e misurare su di sé tutte le cose, e perfino l’agire di Dio! Anche per un’epoca come la nostra, che non percepisce la consistenza e la drammaticità del peccato, non dovrebbe essere difficile riconoscere le conseguenze di questa invadenza nella vita degli uomini: penso alla fatica che tutti facciamo ad uscire dalle pastoie delle nostre motivazioni egoistiche; penso alla facilità con cui ci lasciamo prendere da logiche particolaristiche, incapaci come siamo di guardare al di là del nostro piccolo calcolo. Le domande che Dio ci fa sono spirito e vita, perché ci invitano a riconoscere le ragioni del nostro disagio di vivere e della nostra mancanza di felicità e di pace anzitutto in noi stessi, nella fatica e nella paura di amare che ci portiamo dentro, nel sospetto di non essere amati, nella diffidenza di fronte a ogni atteggiamento di amore gratuito.

6. La perdita dell’ingenuità È così che capisco la verità su me stesso: è come un prendere coscienza del proprio egoismo e della propria fragilità, che fa cadere l’ingenua magia di pensare che bastino le buone intenzioni per cambiare il mondo e la vita. C’è veramente una differenza stridente fra l’altezza dei buoni propositi e la presenza del male e dell’egoismo in ciascuno di noi: forse è questo ciò che Dostoievski chiamava “l’abisso dei doppi pensieri”. Fai qualcosa di bene e t’accorgi che dentro il tarlo del tuo lo non ti abbandona. T’accorgi che è sempre grande la potenza del peccato. Gli alti e i bassi si susseguono con un’impressionante frequenza: e non solo sul piano psicologico, ma su quello più profondo delle scelte del cuore, degli orientamenti della vita.

7. La via più difficile

Certo, occorre imparare a convivere con noi stessi, ad accettare questa permanente instabilità psicologica e spirituale. Ma ciò esige di capirne il perché, domandandoci come anche attraverso questo cammino contorto Dio ci ami e voglia farci suoi figli. Accettare che dalla morte venga la vita ci ripugna: eppure deve essere proprio così, se il Signore ci lascia in questa lotta, che sembra pervadere l’universo intero. Forse, però, è proprio questa ripugnanza ad accettare e scegliere la via dell’amore fino alla morte che mostra al tempo stesso la condizione tragica del peccato e il bisogno che noi tutti abbiamo di imparare ad amare con un aiuto che ci venga dall’alto: in questo senso, la fatica a credere che un Dio sia morto in croce è la riprova della necessità di questa morte. Il cristianesimo non è la risposta banale alla domanda del dolore e della morte, una risposta che giustifichi tutto o tutto copra sotto l’incomprensibile giudizio divino. Il cristianesimo è la “lectio difficilor”, la via più difficile, che prende sul serio la condizione universale di morte e di peccato, e proprio così annuncia la compassione di un Dio che si fa carico di questa morte e di questo peccato per sollevare e salvare ciascuno di noi.

8. Il Dio “sofferente” e la legge della Croce

Il passo ulteriore è dunque arrivare a intuire che Dio sta dalla nostra parte e partecipa al dolore per tutto questo male che devasta la terra. Egli non se ne sta come uno spettatore disinteressato o un giudice freddo e lontano, ma “soffre” per noi e con noi, per le nostre solitudini incapaci di amare, perché Lui ci ama. La “sofferenza” divina non è incompatibile con le perfezioni divine: è la sofferenza dell’amore che si fa carico, la “com-passione” attiva e libera, frutto di gratuità senza limiti. Sempre più, nel cammino della vita, sotto i colpi di luce del Vangelo, il Dio di Gesù Cristo mi è apparso come il Dio capace di tenerezza e di pietà fino al punto da “soffrire” per i peccati del mondo. Un Dio tenero come un Padre e una Madre, che non rinnega mai i suoi figli. Un Dio umile, che manifesta la Sua onnipotenza e la Sua libertà proprio nella Sua apparente debolezza di fronte al male. Un Dio che per amore accetta di subire il peso del nostro peccato e del dolore che esso introduce nel mondo. Proprio così, però, nella morte di Gesù sulla croce, Dio ci insegna a trarre il bene dal male, la vita dalla morte. Appare allora contraddittorio il nostro continuo voler essere gratificati da tutti e da tutto, a cominciare da Dio, mentre lo contempliamo crocifisso.

Come vorrei che tutti a questo punto capissero che il mistero di un Dio morto e risorto è la chiave dell’esistenza umana e il succo del Vangelo e della nostra fede! Eppure contro questa roccia del “mistero pasquale” vanno a cozzare tutte le onde delle nostre resistenze, mentre diciamo con Pietro: «Dio te ne scampi, Signore: questo non ti accadrà mai!» (Mt 16,22). Eppure proprio qui si ricongiungono i nodi del rapporto che lega morte e vita, dolore e gioia, fallimento e successo, frustrazione e desiderio, umiliazione ed esaltazione, disperazione e speranza. Quando la “legge della Croce” ci tocca, ci sconvolge e ne siamo profondamente turbati: ma solo qui si attua la piena liberazione dal male, fino ad accettarne le conseguenze su di sé per perdonarlo e superarlo, come ha fatto Gesù sulla croce.

9. Arrendersi a Dio

Per sciogliere l’apparente assurdità della vita non c’è allora che una via possibile: rimettermi continuamente di fronte ad essa, senza sfuggirvi, e arrendermi contemporaneamente senza riserve nelle mani del Dio umile e sofferente, del “Dio crocifisso”. Solo abbandonandomi perdutamente a Lui, solo capitolando nelle Sue mani potrò riprendere nelle mie il bandolo della matassa intricata della vita. Dio è il Mistero santo, Gesù Cristo in croce è la Custodia silenziosa, in cui riposa il senso della vita e della storia, il senso del mondo.

10. Dal riconoscimento alla riconoscenza

Come arrivo a questa conclusione così certa e definitiva? come la luce del Vangelo raggiunge e afferra quotidianamente la mia vita? come avviene che ancora e sempre di nuovo questa luce getti sprazzi sulle mie domande, e mi aiuti a vivere e ad illuminare per me e per gli altri la fatica di vivere? Posso rispondere solo così: io mi sento amato, sommamente, da Qualcuno piÙ grande di noi tutti. Mi sento chiamato e attratto, come uno che non può fare a meno di Dio, del Dio di Gesù Cristo. Anche se difficile e contrastata, sento e so che questa scelta è l’unica valida. Non è volontarismo: è riconoscimento.
Riconosco che al termine di tutte le mie domande senza risposta c’è il suo Mistero santo, e c’è precisamente come il Signore Gesù ce lo ha rivelato sulla croce: mistero di amore infinito che si consegna, Trinità dell’Amante, dell’Amato e dell’Amore, che ci accoglie nel Suo grembo, e ci custodisce negli abissi di amore della Sua vita. E il riconoscimento si trasforma in riconoscenza: sono grato al mio Dio perché mi so amato da Lui, «nascosto con Cristo in Dio» (Col 3,3), anche quando non riesco a sentirlo con i miei poveri sensi umani.

11. Nella Chiesa

Mi potresti obiettare: “Ma questa è la tua esperienza, non la mia. Tu sei un privilegiato. Per me non è così. Se puoi, insegnami come si fa a vivere la propria vita in Dio”. Vorrei allora risponderti che proprio per questo ho scritto questa Regola di vita, per dirti in forma semplice e breve dove è possibile incontrare il Dio che è il nostro Tutto, il Dio della compassione e della misericordia, il Dio che si fa compagno del nostro dolore e ci aiuta a portarne il peso, dandogli senso. Questo Dio puoi trovarLo nella Chiesa: nel suo annuncio, che è il Vangelo di Gesù e dei fatti storici e indubitabili della sua vita; nei suoi Sacramenti, che sono la presenza sensibile di Lui, che si è offerto per noi alla morte e ci ha donato la vita; nella compagnia di quanti, credendo, sono stati resi fratelli e sorelle nello Spirito di Gesù e - pur con tutti i loro limiti – si sforzano ogni giorno di imparare a credere, sperare ed amare. Il dono di Dio è ricevuto e trasmesso nella Chiesa, Suo popolo: ed è in essa che ci si accorge che la vita vera viene dal di fuori, da Dio, in un contesto ragionevole, serio, segnato dalla fragilità, ma significativo e liberante. Nella Chiesa mi riconosco amato e reso capace di amare, nonostante me stesso, le mie contraddizioni e paure. Credo veramente che anche per te possa essere così. Perciò voglio parlarti di ciò che questa Chiesa – la nostra, cattolica e ambrosiana al tempo stesso – ci trasmette (traditio); di come noi riceviamo in essa il dono dall’alto (receptio); di come a nostra volta possiamo trasmettere ad altri con gratuità quanto gratuitamente abbiamo ricevuto (redditio). Prova ad ascoltarmi: rivolgo anche a te la parola di Gesù ai primi due discepoli: «vieni e vedi»…

LA CHIESA AL SERVIZIO DELL’AMORE PER I SOFFERENTI – A cura di Fra Salvino Zanon oh

XVIII Giornata Mondiale del Malato

«La Chiesa a serviziodell’amore per i sofferenti»


Il documento “La Chiesa a servizio dell’amore per i sofferenti” ripropone, commentandolo e approfondendolo, il Messaggio che il papa Benedetto XVI ha scritto in occasione della XVIII Giornata Mondiale del Malato.

Nella prima parte è richiamato il mistero pasquale di Cristo, mistero di passione, morte e risurrezione dal quale la sofferenza umana attinge senso e pienezza di luce. Questo mistero sintetizza e rappresenta il culmine di quella che fu la missione di Gesù, ossi annunciare la buona novella del Regno di Dio, attraverso parole e gesti di amore, di perdono, di misericordia e di offerta della propria esistenza a beneficio di tutti coloro che lo accostavano. In questo modo, Gesù ha dimostrato di essere il Servo di Dio (cfr. Is 53) che prende su di sé ogni infermità, la sopporta e dà ad essa un valore di redenzione, di salvezza, liberando l’uomo dal male e indirizzandolo verso una meta di gioia e di felicità.

Così, inoltre, Cristo manifesta in modo concreto l’amore e la vicinanza di Dio stesso all’umanità, l’interessamento per la sua creatura. Una percezione che, però, sembra venir meno in molte persone che soffrono e non accettano la loro condizione di fragilità e vulnerabilità e domandano ragione del male e della sofferenza. Riferendosi a questa comprensibile difficoltà il documento annota: “Attraverso ogni tappa del cammino della vita, imprevedibile e spesso tortuoso, il Padre vuole farci suoi figli. Lo Spirito Santo plasma in noi la forma del Figlio, donandoci la fecondità del chicco di grano (Gv 12,24) e aprendoci a comprendere che dalla morte viene la vita”.

Per questo il cristianesimo non nega la sofferenza e la morte, ma annuncia la compassione di Dio che si fa vicino ad ogni uomo per dimostrare che Lui sta dalla sua parte e partecipa al suo dolore. È un Padre colmo di tenerezza e amore, di umiltà e di bontà che proprio nella croce del suo Figlio trae il bene dal male, la vita dalla morte, la gioia dal dolore, il successo dal fallimento, la speranza dalla disperazione, l’esaltazione dall’umiliazione.

La seconda parte del Documento, prendendo in considerazione la parabola del buon Samaritano (Lc 10,25-37), presenta il servizio della Chiesa verso i sofferenti, un servizio costante ed instancabile, creativo e premuroso che, lungo i secoli, ha visto impegnate persone e istituzioni caritative e religiose. Anche oggi, come nel passato, questo servizio deve essere compiuto con umiltà e attenzione, nella disponibilità all’ascolto e nella consapevolezza che nel sofferente Cristo è realmente presente e in lui si identifica (cfr. Mt 25,36).

Da qui nasce l’impegno di imitare il Samaritano che, nel suo farsi accanto a chi è nel bisogno per prestargli un soccorso efficace, mostra chi sia il “prossimo”, del quale nel testo viene data una chiara definizione: “Il prossimo è il farsi discepolo (…); non solo tutti gli uomini sono da amare, ma tutti gli uomini possono diventare discepoli facendosi prossimo accanto ai propri fratelli”, purché questa “prossimità” non sia episodica o dettata dal semplice sentimentalismo, ma perseverante e motivata da un amore vero.

Questo essere prossimo si manifesta, quindi, in modi concreti, riconducibili agli stessi gesti del Samaritano, che vengono proposti e attualizzati. Innanzi tutto occorre conoscere la situazione, “vedendo” e scorgendo le reali esigenze della persona malata. Serve, poi, vivere la compassione, quale coinvolgimento totale di se stessi nell’amore di Dio, un amore che fa vedere l’uomo bisognoso in una luce diversa e che aiuta a comprendere quali siano i veri valori della vita. Questo porta ad avvicinarsi al malato con un atteggiamento anche ricettivo, perché, pur nella sofferenza, il malato può comunicare e testimoniare grandi valori umani e cristiani. Ancora, occorre compiere un servizio umanizzante e qualificato, impegnandosi nell’educazione e nella promozione della salute, perché le strutture sanitarie garantiscano la tutela della dignità di ogni persona, nella giustizia e nel rispetto dei diritti umani.

Fondamentale è pure la dimensione ecclesiale del servizio al malato per aiutarlo a vivere la sua condizione non in solitudine, ma accompagnato dalla presenza delle persone della sua stessa comunità.

Nella terza parte si richiama l’importanza del servizio sia dei pastori che degli operatori sanitari, ma anche della famiglia e di coloro che fanno parte di associazioni di volontariato verso la persona malata, che deve occupare sempre un posto centrale nella vita e nell’attività della Chiesa. Si sottolinea la necessità che la comunità ecclesiale compia il suo servizio mediate la sua secolare “prassi”, sempre attuale, di formazione, celebrazione e testimonianza (catechesi, liturgia e carità).

Questa prassi ricorda che nessuno è escluso dall’impegno di accostare la persona che soffre, nei diversi modi più appropriati e congeniali alla propria personalità, come, ad esempio, la pratica delle opere di misericordia corporali e spirituali, l’accompagnamento, l’amicizia, la consolazione, il sostegno alle famiglie dei malati, il servizio della parola detta e scritta per far conoscere agli altri i problemi di chi è in difficoltà.

Per realizzare in modo adeguato ed efficace il servizio accanto alla persona ammalata, è indispensabile la formazione che verte ad aiutare a conoscere il mondo della sofferenza, le dinamiche umane e psicologiche che possono caratterizzare e segnare l’esistenza e il comportamento della persona che soffre, poiché il malato vive situazioni non sempre facili, avverte la precarietà della sua esistenza e sperimenta in modo tutto speciale la relazione con gli altri.

In fine, il proprio servizio accanto alla persona bisognosa va realizzato in un sincero spirito di comunione (insieme si può fare molto di più e meglio), di missione (si è “inviati” e si agisce a nome della comunità) e di profezia (sia nell’essere voce delle persone che potrebbero essere inascoltate, sia nell’annunciare a chi soffre la costante e fedele presenza di Dio e per richiamare in modo efficace i valori evangelici a tutela della vita umana in tutte le sue fasi).

In questo anno sacerdotale vi è pure un invito ai cappellani ospedalieri perché, con competenza e professionalità, accompagnino anche gli operatori sanitari e siano consapevoli che “il tempo trascorso accanto a chi è nella prova si rivela fecondo di grazia per tutte le altre dimensioni della pastorale”.

CONFRONTO CON LE DIVERSE CULTURE PER ARMONIZZARE RAGIONE E FEDE – Ravasi – Benedetto XVI

Confronto con le diverse culture per armonizzare ragione e fede

 

Udienza del Papa alle Pontificie Accademie, ricevute in udienza giovedì mattina, 28 gennaio, nella Sala Clementina, in occasione della quattordicesima seduta pubblica.

All’inizio dell’udienza, l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e del Consiglio di Coordinamento tra Accademie Pontificie, ha rivolto un breve saluto a Benedetto XVI, nel quale ha evidenziato come l’incontro avvenga nella memoria di san Tommaso d’Aquino. Era stato proprio il grande domenicano nella Summa Theologiae a definire lo studio teologico come “un’impronta in noi della scienza divina”.

“Le Accademie Pontificie – ha detto il presule – già attraverso il loro numero settenario, simbolo biblico di perfezione, desiderano esprimere il loro anelito alla ricerca di una pienezza spirituale e intellettuale. L’immagine con cui potrebbero essere raffigurate – ha aggiunto – è quella dell’arcobaleno multicolore così come lo descriveva un sapiente biblico, il Siracide”. “In esso – ha spiegato – le iridescenze sono molteplici e variegate, ma insieme creano armonia. Tre, però, sono le principali fasce di colore che spiccano nell’arco simbolico di queste sette istituzioni pontificie”.

Ecco allora che monsignor Ravasi ha presentato al Papa le sette realtà da lui coordinate:  “C’è innanzitutto la teologia, che anima ben quattro Accademie:  da quelle di san Tommaso d’Aquino e di Teologia – quest’ultima sta celebrando proprio in questi giorni il suo quinto Forum Internazionale sul tema della luce, Lumen Christi – alle due che si collegano più specificamente alla mariologia. C’è, poi, l’orizzonte delle Accademie che risalgono alle nostre radici storiche e spirituali attraverso l’archeologia e la memoria dei martiri cristiani delle origini. Infine, ecco l’arte in tutta la ricchezza delle sue forme espressive, esaltata dalla più antica Accademia presente, quella dei Virtuosi al Pantheon”.

Riferendosi nuovamente al Dottore Angelico, l’arcivescovo ha ricordato come “egli confessava che “tra gli impegni a cui si possa dedicare un uomo, nessuno è più perfetto, più sublime, più fruttuoso e più dolce della ricerca della Sapienza”. Ed esortando al rigore dell’analisi, ammoniva che ”il sapiente onora l’intelletto perché, tra le realtà umane, è quella a cui Dio riserva l’amore più intenso”. Per questo invocava Dio di “penetrare le tenebre del mio intelletto con un raggio della tua luce, allontanando da me le doppie tenebre in mezzo alle quali sono nato, quelle del peccato e dell’ignoranza”".

Da qui la conclusione di monsignor Ravasi che “per rendere più viva, creativa e feconda questa ricerca della Sapienza, che è frutto di intelligenza, di fede e di amore”, le Accademie attendono la parola del Papa per “ispirare” un nuovo “inizio, guidarne il progresso e coronare la fine”.

(©L’Osservatore Romano – 29 gennaio 2010)

BENEDETO XVI

 

In un’epoca come quella attuale, fortemente segnata dal relativismo e dal soggettivismo, è necessario entrare in dialogo con le diverse culture, per armonizzare ragione e fede e costruire un autentico umanesimo cristiano. È quanto in sostanza ha detto il Papa alle Pontificie Accademie, ricevute in udienza giovedì mattina, 28 gennaio, nella Sala Clementina, in occasione della quattordicesima seduta pubblica. 

Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
illustri Presidenti e Accademici,
Signore e Signori!

Sono lieto di accogliervi e di incontrarvi, in occasione della Seduta Pubblica delle Pontificie Accademie, momento culminante delle molteplici attività dell’anno. Saluto Mons. Gianfranco Ravasi, Presidente del Consiglio di Coordinamento fra Accademie Pontificie, e lo ringrazio per le cortesi parole che mi ha rivolto. Estendo il mio saluto ai Presidenti delle Pontificie Accademie, agli Accademici e ai Sodali presenti. L’odierna Seduta Pubblica, nel corso della quale è stato consegnato, a mio nome, il Premio delle Pontificie Accademie, tocca un tema che, nell’ambito dell’Anno Sacerdotale, riveste particolare importanza:  “La formazione teologica del presbitero”.

Oggi, memoria di San Tommaso d’Aquino, grande Dottore della Chiesa, desidero proporvi alcune riflessioni sulle finalità e sulla missione specifica delle benemerite Istituzioni culturali della Santa Sede di cui fate parte e che vantano una variegata e ricca tradizione di ricerca e di impegno in diversi settori. Gli anni 2009-2010, infatti, per alcune di esse, sono segnati da una specifica ricorrenza, che costituisce ulteriore motivo per rendere grazie al Signore. In particolare, la Pontificia Accademia Romana di Archeologia ricorda la Fondazione avvenuta due secoli fa, nel 1810, e la trasformazione in Accademia Pontificia, nel 1829.

La Pontificia Accademia di San Tommaso d’Aquino e la Pontificia Accademia Cultorum Martyrum hanno ricordato il loro 130° anno di vita, essendo state fondate entrambe nel 1879. La Pontificia Accademia Mariana Internazionale ha celebrato, poi, il 50° della propria trasformazione in Accademia Pontificia. Le Pontificie Accademie di San Tommaso d’Aquino e di Teologia hanno ricordato, infine, il decennale del loro rinnovamento istituzionale, avvenuto nel 1999 con il Motu proprio Inter munera Academiarum, che reca proprio la data del 28 gennaio.

Tante occasioni, dunque, per rivisitare il passato, attraverso la lettura attenta dei pensieri e delle azioni dei Fondatori e di quanti si sono prodigati per il progresso di queste Istituzioni. Ma lo sguardo retrospettivo e la memoria del glorioso passato non possono costituire l’unico approccio a tali eventi, che richiamano soprattutto il compito e la responsabilità delle Accademie Pontificie di servire fedelmente la Chiesa e la Santa Sede, rinnovando nel presente il ricco e diversificato impegno, che già ha prodotto preziosi frutti anche nel recente passato.

 La cultura contemporanea, e ancor più gli stessi credenti, infatti, sollecitano continuamente la riflessione e l’azione della Chiesa nei vari ambiti in cui emergono nuove problematiche e che costituiscono anche settori in cui operate, come la ricerca filosofica e teologica; la riflessione sulla figura della Vergine Maria; lo studio della storia, dei monumenti, delle testimonianze ricevute in eredità dai fedeli delle prime generazioni cristiane, a cominciare dai Martiri; il delicato ed importante dialogo tra la fede cristiana e la creatività artistica, a cui ho voluto dedicare l’Incontro con personalità del mondo dell’arte e della cultura, svoltosi nella Cappella Sistina lo scorso 21 novembre. In questi delicati spazi di ricerca e di impegno, siete chiamati a offrire un contributo qualificato, competente e appassionato, affinché tutta la Chiesa, e in particolare la Santa Sede, possa disporre di occasioni, di linguaggi e di mezzi adeguati per dialogare con le culture contemporanee e rispondere efficacemente alle domande e alle sfide che l’interpellano nei vari ambiti del sapere e dell’esperienza umana.

Come ho più volte affermato, l’odierna cultura risente fortemente sia di una visione dominata dal relativismo e dal soggettivismo, sia di metodi e atteggiamenti talora superficiali e perfino banali, che danneggiano la serietà della ricerca e della riflessione e, di conseguenza, anche del dialogo, del confronto e della comunicazione interpersonale. Appare, pertanto, urgente e necessario ricreare le condizioni essenziali di una reale capacità di approfondimento nello studio e nella ricerca, perché ragionevolmente si dialoghi ed efficacemente ci si confronti sulle diverse problematiche, nella prospettiva di una crescita comune e di una formazione che promuova l’uomo nella sua integralità e completezza. Alla carenza di punti di riferimento ideali e morali, che penalizza particolarmente la convivenza civile e soprattutto la formazione delle giovani generazioni, deve corrispondere un’offerta ideale e pratica di valori e di verità, di ragioni forti di vita e di speranza, che possa e debba interessare tutti, soprattutto i giovani. Tale impegno deve essere particolarmente cogente nell’ambito della formazione dei candidati al ministero ordinato, come esige l’Anno Sacerdotale e come conferma la felice scelta di dedicargli la vostra annuale Seduta Pubblica. 

 Una delle Pontificie Accademie è intitolata a San Tommaso d’Aquino, il Doctor Angelicus et communis, un modello sempre attuale a cui ispirare l’azione e il dialogo delle Accademie Pontificie con le diverse culture. Egli, infatti, riuscì ad instaurare un confronto fruttuoso sia con il pensiero arabo, sia con quello ebraico del suo tempo, e, facendo tesoro della tradizione filosofica greca, produsse una straordinaria sintesi teologica, armonizzando pienamente la ragione e la fede. Egli lasciò già nei suoi contemporanei un ricordo profondo e indelebile, proprio per la straordinaria finezza e acutezza della sua intelligenza e la grandezza e originalità del suo genio, oltre che per la luminosa santità della vita. Il suo primo biografo, Guglielmo da Tocco, sottolinea la straordinaria e pervasiva originalità pedagogica di San Tommaso, con espressioni che possono ispirare anche le vostre azioni:  Frà Tommaso – egli scrive – “nelle sue lezioni introduceva nuovi articoli, risolveva le questioni in un modo nuovo e più chiaro con nuovi argomenti. Di conseguenza, coloro che lo ascoltavano insegnare tesi nuove e trattarle con metodo nuovo, non potevano dubitare che Dio l’avesse illuminato con una luce nuova:  infatti, si possono mai insegnare o scrivere opinioni nuove, se non si è ricevuta da Dio una ispirazione nuova?” (Vita Sancti Thomae Aquinatis, in Fontes Vitae S. Thomae Aquinatis notis historicis et criticis illustrati, ed. D. Prümmer M.-H. Laurent, Tolosa, s.d., fasc. 2, p. 81).

Il pensiero e la testimonianza di San Tommaso d’Aquino ci suggeriscono di studiare con grande attenzione i problemi emergenti per offrire risposte adeguate e creative. Fiduciosi nella possibilità della “ragione umana”, nella piena fedeltà all’immutabile depositum fidei, occorre – come fece il “Doctor Communis” – attingere sempre alle ricchezze della Tradizione, nella costante ricerca della “verità delle cose”. Per questo, è necessario che le Pontificie Accademie siano oggi più che mai Istituzioni vitali e vivaci, capaci di percepire acutamente sia le domande della società e delle culture, sia i bisogni e le attese della Chiesa, per offrire un adeguato e valido contributo e così promuovere, con tutte le energie ed i mezzi a disposizione, un autentico umanesimo cristiano.

Ringraziando, dunque, le Pontificie Accademie per la generosa dedizione e per l’impegno profuso, auguro a ciascuna di arricchire le singole storie e tradizioni di nuovi, significativi progetti attraverso cui proseguire, con rinnovato slancio, la propria missione. Vi assicuro un ricordo nella preghiera e, nell’invocare su di voi e sulle Istituzioni a cui appartenete l’intercessione della Madre di Dio, Sedes Sapientiae, e di San Tommaso d’Aquino, di cuore imparto la Benedizione Apostolica.(©L’Osservatore Romano – 29 gennaio 2010)

 

L’UOMO DI FRONTE AL MALE – Bruno Forte

L’uomo di fronte al male (di Bruno Forte)

La ricerca di una speranza dalla filosofia  alla letteratura


Nella serata di giovedì 29 gennaio al Teatro Argentina di Roma si svolge un colloquio  organizzato dall’Ufficio di pastorale universitaria del Vicariato. Al tavolo dei relatori Pierluigi Celli, direttore generale dell’università Luiss Guido Carli, e l’arcivescovo di Chieti-Vasto. Dell’intervento di quest’ultimo anticipiamo ampi stralci.

di Bruno Forte

Di fronte al male si misura l’impotenza dell’uomo, la condizione tragica del suo esistere. Tragico è il non poter fare il bene che vorremmo e il non riuscire a impedire il male. L’apostolo Paolo ha descritto con incisività la condizione tragica dell’essere umano sfidato dal male nel capitolo settimo della Lettera ai Romani:  è la condizione dell’”io”, impotente di fronte al bene che non fa e al male che fa.

Per Paolo è questa impotenza che il Figlio di Dio ha fatto propria, per la forza di un amore senza misura, grazie al quale il tragico viene a essere accolto negli abissi della divinità. È l’inquietante rivelazione di Romani:  Dio “non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi” (8, 32), costruita sul modello del sacrificio che Abramo si dispone a fare del suo figlio amato, Isacco (Genesi, 22).

Abissalmente proiettato in Dio, il tragico è abitato dal suo Spirito, i cui gemiti – descritti in Romani – segnalano la distanza fra il male presente e il promesso bene, fra l’esperienza e l’attesa. Il tragico in Dio diventa così la vera rivelazione di ciò che siamo:  solo grazie a questa rivelazione è possibile percepire in tutta la sua tragicità la contingenza del mondo.

Proprio così, però, la redenzione è possibile:  se Dio abita l’impotenza, questa è redenta. Solo l’infinita compassione riscatta la scena di questo mondo che passa, senza indebolirne la contingenza, esaltandola anzi nella sua dignità perché fatta propria dal Redentore.

Un’attenta lettura della Lettera ai Romani dimostra che il messaggio cristiano è tutt’altro che la distruzione del tragico attraverso un moralismo a buon mercato, bensì l’evoluzione del tragico nella condizione stessa di quanti sperimentano la debolezza e la sofferenza, pur essendo stati giustificati per la loro adesione a Cristo.

Il tragico cristiano coinvolge non soltanto il Figlio, ma anche Dio che non lo ha risparmiato per noi, e lo Spirito che condivide il nostro gemito e quello di tutta la creazione. Solo un Dio che abita la tragicità porta in essa la buona novella della grazia:  solo il Dio umano, che si carica del peso del male che devasta la terra, può liberarci e liberare il mondo.

Il male è stato assunto in Dio, l’unico che così poteva vincerlo. Questo dice la Lettera ai Romani, di così bruciante attualità di fronte al nostro presente e alla sua condizione di naufragio, che non cerca salvatori a buon mercato, ma una prossimità altra e profonda capace di restituire il senso del cammino comune. È Paolo a dirci che in Cristo Dio si è fatto compagno del dolore umano, e proprio così fondamento della speranza possibile:  in questa “follia” il suo messaggio.

Nel paradosso di questo “vangelo tragico” sta tutta la sua provocatoria attualità:  è qui che la speranza cristiana si mostra per quello che è, non evasione consolatoria, ma anticipazione militante dell’avvenire entrato in questo mondo nel Figlio, che ha abitato il nostro dolore, il male che ci ferisce e la morte.

Alla condizione “tragica” dell’esistere umano ha dedicato la sua attenzione più alta Fëdor Dostoevskij:  scavando nelle profondità del cuore umano, da vero “psicologo del sottosuolo”, egli ne scopre le ambiguità strutturali, l’abisso dei “doppi pensieri”. “Chiunque sia passato per Dostoevskij e abbia sofferto con lui – afferma Nikolaj Berdjaev – ha conosciuto il mistero dello sdoppiamento, ha ottenuto la conoscenza degli opposti, si è armato nella lotta contro il male di una nuova potentissima arma, la conoscenza del male”.

E proprio in questo Dostoevskij è cristiano, in quanto unisce in maniera inseparabile, e al tempo stesso carica di eccezionale tensione, il problema di Dio e il problema dell’uomo, che solo nel cristianesimo si sono incontrati fino all’abissale esperienza del Dio crocifisso nelle tenebre del Venerdì Santo:  “Dostoevskij è lo scrittore più cristiano in quanto al centro della sua opera c’è sempre l’uomo, l’amore umano e la rivelazione dell’anima umana. Egli stesso è la rivelazione del cuore dell’essere umano, del cuore di Gesù”.

Pellegrino nei meandri dello spirito, Dostoevskij ne esprime la radicale e costitutiva ambiguità. Attraverso paradossi spinti fino all’estremo, in cui esercita tutta la sua potenza di negazione, egli scopre la tragicità dell’esistenza nel suo essere permanentemente assediata dal nichilismo:  il nulla fascia lo spirito nella sua conoscenza del vero, nella sua volontà del bene, nel suo sentimento del bello.

Lungo le vie della conoscenza del vero, la questione del male si presenta come la sfida alla fede in un Dio, che sia la verità eterna e assoluta del mondo. Il ragionamento è stringente, terribile:  se Dio esiste, l’orrore del male che devasta la terra è senza fine. Ma questo orrore è infinito:  dunque, Dio esiste.

Al tempo stesso però l’argomento si rovescia nel suo contrario:  se Dio esiste, non può essere ammesso l’orrore di un male infinito. Ma questo orrore c’è:  dunque, Dio non esiste. Dal paradosso non si esce che per una radicale conversione del concetto di Dio:  solo se Dio fa sua la sofferenza infinita del mondo abbandonato al male, solo se egli entra nelle tenebre più fitte della miseria umana, il dolore è redento ed è vinta la morte.

Questo è avvenuto sulla Croce del Figlio:  perciò Cristo è la verità, alternativa alle presunte verità che la ragione è capace di costruirsi con le sue dimostrazioni. La “singolarità del Vero”, la verità incarnata in un Singolo, identificata con la sua persona, è quanto di più lontano possa esserci rispetto a un pensiero euclideo.

È quanto Dostoevskij sceglie, precisamente in alternativa all’esito nichilista della metafisica occidentale:  “Se mi si dimostrasse che Cristo è fuori della verità ed effettivamente risultasse che la verità è fuori di Cristo, io preferirei restare con Cristo, anziché con la verità”.

La verità che dà ragione di tutto e tutto organizza in un’armonia universale, l’”apoteosi della conoscenza” di cui parla Ivan Karamazov, non vale il suo prezzo:  al Dio di questa verità lo stesso Ivan non esita a restituire il biglietto d’ingresso nel suo regno. Solo la verità che è passata attraverso il fuoco della negazione e si è lasciata lambire dal nulla, solo quella verità salverà il mondo:  è la risposta di Alësa a Ivan. “Fratello (…) tu mi hai chiesto dianzi se esiste in tutto il mondo un essere che possa perdonare e abbia il diritto di farlo. Ma questo essere c’è, e lui può perdonare tutto, tutti, e per tutti, perché lui stesso ha dato il suo sangue innocente per tutti e per tutto”.

Solo dal suo interno, insomma, il nichilismo si lascia confutare:  dalle tenebre del Venerdì Santo, dove Dio soffre e muore per amore del mondo, è possibile proclamare la vittoria della vita, perché quella morte è la morte della morte. Il Dio che è morto non è che la verità concepita metafisicamente come ragione e fondamento del mondo, garante di questa totalità, tutta pervasa dall’orrore dell’infinita sofferenza umana.

Sta qui appunto la tragicità ineliminabile dalla conoscenza del vero:  non si arriva alla luce che attraverso la croce; non si entra nella vita che conoscendo la morte. Perciò la fede deve passare nel travaglio del dubbio, l’affermazione nella notte della negazione, e la verità farsi strada nello scandalo e nelle tenebre più fitte, dove ci aspetta il Dio vivo. Anche per questo “è terribile cadere nelle mani del Dio vivente” (Ebrei, 10, 31).

La tragicità dell’esistenza umana si affaccia non di meno sul piano etico:  la dignità del patire – che pure appare fra le forme più alte di purificazione e di accesso al bene – si rivela anch’essa ambigua all’uomo del sottosuolo! Egli non esita a smascherare le torbide delizie e l’equivocità della volontà, che si accompagnano tanto spesso alla sofferenza:  “Il godimento proveniva dalla troppo chiara coscienza che avevo della mia bassezza (…) non c’era scampo, non potevo diventare un altro uomo:  che se anche fossero rimasti ancora tempo e fede per trasformarmi in qualche cosa di diverso, io non avrei potuto mutarmi”.

Ma è appunto in questa affermazione tragica di sé, nutrita dei godimenti più ardenti della disperazione, che il nulla s’affaccia:  “Noi siamo nati morti, e già da molto nasciamo da padri che non sono vivi; e ciò ci piace sempre di più. Ci prendiamo gusto”.

Ed è qui che la volontà di vivere impone un rovesciamento morale, un atto coraggioso, che si esprime in un’etica della decisione. L’alternativa è fra l’abbandonarsi al nulla e il reagire. Ma essa può porsi soltanto a chi ha toccato il fondo disperante del nichilismo:  è lì che l’espiazione diventa possibile, precisamente per chi si pone davanti al Dio entrato nell’abisso, come compagno del dolore umano e insieme supremo e misericordioso giudice del peccato del mondo. Solo chi accetta di fare compagnia alla sofferenza di Dio di fronte al male per amore del mondo, può sperare di vincere il male.

È infine sulla via del sentimento, che anela alla gioia e alla bellezza, che si sperimenta la tragicità dell’esistenza umana e possibilità di una via di uscita:  pochi, come Dostoevskij, hanno percepito la rilevanza del piano estetico in ordine alla redenzione del mondo. È al principe Myskin – il protagonista de L’idiota, enigmatica figura dell’innocente che soffre per amore del mondo – che il giovane nichilista Ippolit pone la domanda:

“È vero, principe, che una volta diceste che il mondo sarà salvato dalla bellezza?”. E il giovane – condannato a morte dalla tisi – si sente in diritto di aggiungere: “Quale bellezza salverà il mondo?”.

Lo spettacolo della sofferenza è tale che nessuna redenzione può essere cercata nella direzione di un’armonica conciliazione, che salti sullo scandalo del dolore del mondo. Ecco perché la bellezza deve essere altra rispetto a tutti i sogni e i desideri possibili di armonia:  senza passare attraverso la sua negazione – che è lo scandaloso spettacolo del male che copre la terra – nessuna bellezza potrà salvarsi e salvare.

Ed ecco che è proprio l’avvicinarsi della fine che rivela la bellezza nascosta:  il tempo rimanda all’eternità proprio perché passa con tanta, inesorabile fugacità. Solo la morte conferisce all’attimo la profondità di una totalità e di un’eternità raggiunte:  solo se ci si approssima al nulla del morire si percepisce la meraviglia del tempo, la gioia della vita.

Anche la bellezza si offre allora nel segno dell’ambiguità, sulla frontiera fra l’essere e il nulla, carica di un’aura tragica:  “La bellezza – dice Dmitrij Karamazov – è una cosa terribile e paurosa, perché è indefinibile, e definirla non si può, perché Dio non ci ha dato che enigmi. Qui le due rive si uniscono, qui tutte le contraddizioni coesistono (…)

La cosa paurosa è che la bellezza non solo è terribile, ma è anche un mistero. È qui che Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini”. Solo alla fine la bellezza si manifesterà vittoriosa:  “Quando sarà passato il presente e sarà venuto il futuro, allora il futuro artista troverà forme bellissime anche per la rappresentazione del trascorso disordine e caos”.

Nel presente resta aperto verso la bellezza l’approccio della conversione del cuore, del “dono delle lacrime”, di cui parla lo starec Zosima:  “La natura è bella e innocente, solo noi siamo empi e sciocchi, e non vediamo che la vita è un paradiso! Perché basterebbe che noi volessimo capire, e subito avremmo il paradiso in tutta la sua bellezza, e allora ci abbracceremmo piangendo”.

Il piano del vero si congiunge così a quello del bene, e questo alla ricerca della bellezza. Se è la decisione di fede che apre alla singolarità del vero, rivelata nel Dio crocifisso, la via della verità si incontra con quella della decisione morale; e se è la conversione del cuore che apre al riconoscimento della bellezza che salva, la via estetica si congiunge a quella etica.

La rilevanza della dimensione morale emerge in primo piano:  in realtà è proprio in essa che si gioca più intensamente il conflitto fra nichilismo e redenzione. Ed è qui che si rivela il livello più profondo della tragicità dell’esistenza umana, quello che maggiormente è in gioco nell’eticità dell’atto:  il livello della libertà.

In questo senso, la Leggenda del grande inquisitore è il grande apologo dell’eterno conflitto che rende tragica la vita umana:  il conflitto fra l’audacia della libertà e la tentazione rassicurante della rinuncia a essa. Il cardinale inquisitore di cui narra la Leggenda è la figura di chi ha sacrificato la libertà alla felicità; il Cristo, che gli sta davanti come imputato, è invece il paladino della libertà a prezzo anche della felicità.

Il conflitto fra i due è insanabile:  essi rappresentano l’alternativa radicale che si annida nel cuore di ogni uomo. Fra le due opzioni non c’è via di mezzo, soluzione conciliatoria:  l’aut aut è senza remissione, totale. Ecco perché è in ultima analisi nel mistero del Dio crocifisso che la profonda tragicità dell’esistenza umana è rivelata e redenta:  se Dio ha fatto sua la morte, pagando fino in fondo il prezzo della libertà, la via della croce resterà per sempre su questa terra la via della libertà. E, proprio perché l’amaro calice è stato bevuto fino all’ultima goccia dal Figlio eterno, sarà questa anche la via che porterà alla vita.

Della tragicità dell’esistenza sfidata dal male è consapevole anche un genio speculativo come Immanuel Kant. Nel rigore della sua onestà intellettuale egli non esita a riconoscere le aporie della ragione:  idee, ad esempio, come quelle di Dio e della vita futura, non suscettibili di dimostrazione per via speculativa, costituiscono per lui presupposti inseparabili degli obblighi morali che la ragione ci impone.

Ciò che viene a mostrarsi nell’opera sulla religione entro i limiti della semplice ragione è però tutt’altro che la constatazione pacifica del limite della ragione, quanto piuttosto il quadro di una lotta, il disegno di quelle che potrebbero definirsi le “agonie della ragione” lungo il cammino della libertà:  “La lotta che in questa vita ogni uomo moralmente predisposto al bene deve sostenere, sotto la guida del principio buono, contro gli assalti del principio cattivo, non può procurargli, per quanto si sforzi, un vantaggio maggiore della liberazione dal dominio del principio cattivo. Il guadagno più alto che egli può raggiungere è quello di diventare libero, “di essere liberato dalla schiavitù del peccato per vivere nella giustizia” (Romani, 6, 17).

Nondimeno, l’uomo resta pur sempre esposto agli attacchi del principio cattivo, e per conservare la propria libertà, costantemente minacciata, è necessario che egli resti sempre armato e pronto alla lotta”.

In questo quadro, “quello che meraviglia non è che il filosofo prenda in generale in seria considerazione il male (…) bensì il fatto che egli parli di un principio malvagio, e dunque di una origine del male nella ragione e in questo senso di un male radicale”. “Radicale” è tale male “perché corrompe il fondamento di tutte le massime e a un tempo perché, essendo una tendenza naturale, non può essere sradicato da forze umane”.

Il fondamento del male radicale è presentato da Kant come in qualche modo intrecciato con l’umanità stessa e, per così dire, radicato in essa. Al tempo stesso Kant muove dalla considerazione che non può darsi male morale senza libertà:  il fondamento del male, allora, “dev’essere necessariamente un atto di libertà”.

Ciò che emerge è una vera e propria aporia:  come può la libertà essere al tempo stesso la fonte della moralità e il luogo e principio della sua negazione? È giocoforza cercare la causa altrove, fuori del soggetto. Lo ammette lo stesso Kant:  “Risulta facile capire come dei filosofi, poco inclini ad ammettere un principio esplicativo eternamente avvolto nell’oscurità (ma indispensabile), abbiano potuto misconoscere il vero avversario del bene, pur credendo di combatterlo”.

Quest’avversario  il  pensatore  di Königsberg non esita a chiamarlo Spirito maligno (böser Geist), ricorrendo per descriverlo alle parole dell’apostolo Paolo lì dove egli presenta la condizione umana come lotta contro i principati e le potestà. A presentare il principe di questo mondo, il Satana, quale coprotagonista del dramma del male, è dunque il razionalissimo Kant.

Lontano da ogni spirito illuministico accecato, il filosofo descrive con rara efficacia la tragicità della condizione umana facendo ricorso a Paolo:  “La fragilità della natura umana ha trovato espressione anche nel lamento dell’apostolo:  “Io ho senz’altro la volontà, ma mi manca l’esecuzione” (cfr. Romani,in thesi), è un movente invincibile – soggettivamente (in hypothesi), quando la massima dev’essere applicata, è invece il movente più debole (nei confronti dell’inclinazione)”. 7, 18); vale a dire:  io accolgo il bene (la legge) nella massima del mio arbitrio, ma questo bene – che oggettivamente, nell’idea (

Le sorprese, però, non finiscono qui:  l’alterità irriducibile e inspiegabile che si affaccia nel volto conturbante del male radicale, proprio a partire da questa esperienza si affaccia anche in un altro volto, quello della grazia del Dio onnipotente e misericordioso. La domanda che porta Kant a riconoscere quest’altra forma dell’esperienza dell’Altro è l’antica domanda della salvezza, che nasce dalla conoscenza del male:  come essere liberati dal principio maligno?

La risposta del filosofo si muove all’interno della tradizione teologica cristiana:  “Se in virtù di quel bene che è nella fede siamo esonerati da ogni responsabilità, ciò avviene sempre e soltanto per un decreto di grazia pienamente conforme alla giustizia eterna”. La formulazione che Kant dà all’idea della giustificazione per fede giunge a identificarsi alla lettera con quella della più pura ortodossia luterana:  “Certo, si tratterà pur sempre di una giustizia che non è la nostra”.

Non mancano, però, passi in cui la sintonia con la teologia cattolica della giustificazione sembra evidente:  “La ragione non ci lascia del tutto senza consolazione. Essa ci dice infatti che l’uomo che, animato da una sincera intenzione verso il dovere, fa tutto il possibile per adempiere ai propri obblighi (…) può lecitamente sperare che quanto non è in suo potere verrà in qualche modo completato dalla saggezza suprema”. Lo stesso Barth, riscontrando l’ambivalenza delle posizioni, conclude che Kant risulta più vicino all’anima cattolica, che a quella protestante del cristianesimo.

Al di là dell’interesse teologico che queste tesi comportano, ciò che le rende significative è che esse fanno proprio dell’etica senza trascendenza di Kant la testimonianza dell’impossibilità di una simile etica:  mai si affronterà il male e lo si potrà superare senza la presenza dell’Altro, trascendente e sovrano! Negli abissi della stessa forma “a priori” della moralità – il mondo dell’arbitrio libero e della legge morale – è innegabile la presenza conturbante di un’alterità negativa, cui Kant riconosce la dignità di “princi”.

Proprio l’esperienza e il riconoscimento di questo “male radicale” appellano a un più grande bene, che non può esser frutto solo della carne e del sangue, ma viene da altrove. Le kantiane “agonie della ragione” sono così una sorta di prova sub contraria specie della necessità ineliminabile della trascendenza per la vittoria sul male in questo mondo. Il “razionalista puro” in campo etico-religioso riconosce nelle “agonie della ragione” le sorprendenti, ineliminabili e inquietanti “tracce dell’Altro”. Dal male solo Dio ci può salvare:  non un qualunque Dio, ma quello che ha abitato nella nostra condizione tragica, e l’ha fatta sua, per vincerla al posto nostro e per noi. Il Dio della carità infinita:  il Dio di Gesù Cristo.

(©L’Osservatore Romano – 29 gennaio 2009)

SCUOLA MEDICA SALERNITANA

(LAT)

« Si tibi deficiant medici,
medici tibi fiant haec tria:
mens laeta, requies, moderata diaeta. »

(IT)

« Se ti mancano i medici,
siano per te medici queste tre cose:
l’animo lieto, la quiete e la moderata dieta. »

(Scuola Medica Salernitana, Regimen Sanitatis Salernitanum)

La Scuola medica salernitana è stata la prima e più importante istituzione medica d’Europa nel Medioevo (X secolo); come tale è considerata da molti come l’antesignana delle moderne università

I fondamenti e l’importanza della scuola

La Scuola si fondava sulla sintesi della tradizione greco-latina completata da nozioni provenienti dalle culture araba ed ebraica. Essa rappresenta un momento fondamentale nella storia della medicina per le innovazioni che introduce nel metodo e nell’impostazione della profilassi. L’approccio era basato fondamentalmente sulla pratica e sull’esperienza che ne derivava, aprendo così la strada al metodo empirico ed alla cultura della prevenzione.

Di particolare importanza, dal punto di vista culturale, è anche il ruolo svolto dalle donne nella pratica e nell’insegnamento della medicina.

I principi ed il metodo

Le basi teoriche erano costituite dal sistema degli umori elaborato da Ippocrate e Galeno, tuttavia il vero e proprio bagaglio scientifico era costituito dall’esperienza maturata nella quotidiana attività di assistenza ai malati. Con la traduzione dei testi arabi, si aggiunse a questa esperienza una vasta cultura fitoterapica e farmacologica.

La leggenda della fondazione

La fondazione della scuola risale ai secoli bui dell’Alto Medioevo e non vi è nessun documento che possa certificare con precisione una data di riferimento. La tradizione tuttavia lega la nascita della scuola all’evento narrato da questa leggenda:

Si racconta che un pellegrino greco di nome Pontus si fermò nella città di Salerno e trovò rifugio per la notte sotto gli archi dell’antico acquedotto dell’Arce. Scoppiò un temporale ed un altro viandante malandato si riparò nello stesso luogo, si trattava del latino Salernus; costui era ferito ed il greco, dapprima sospettoso, si avvicinò per osservare da vicino le medicazioni che il latino praticava alla sua ferita. Nel frattempo erano giunti altri due viandanti, l’ebreo Helinus e l’arabo Abdela. Anche essi si dimostrarono interessati alla ferita ed alla fine si scoprì che tutti e quattro si occupavano di medicina. Decisero allora di creare un sodalizio e di dare vita ad una scuola dove le loro conoscenze potessero essere raccolte e divulgate.

 La storia

Nella storia della Schola Medica si possono distinguere tre periodi:

IX-X secolo

Le origini della Scuola dovrebbero risalire al IX-X secolo, anche se su questo primo periodo la documentazione è piuttosto scarsa. Poco si sa della natura, laica o monastica, dei medici che ne facevano parte e non è chiaro se la Scuola avesse già un’organizzazione istituzionalizzata.

Fin dal IX secolo vi era a Salerno una grande cultura giuridica nonché l’esistenza di maestri laici e di una scuola ecclesiastica. Accanto ai maestri del diritto vi erano però anche quelli che curavano il corpo e insegnavano i dogmi dell’arte della salute. I nomi di questi medici partono dalla seconda metà dell’VIII secolo quando Arechi II fissò la sua dimora a Salerno fino all’ XI secolo quando il nome di questa città si diffuse in Europa. La venuta a Salerno di Adalberone di Laon, nel 984 per curarsi, ci fa capire la fama dei medici di Salerno.

Di sicuro è noto che nel X secolo la città di Salerno era già molto famosa per il clima salubre e la sapienza dei suoi medici. Di essi si racconta che «erano privi di cultura letteraria, ma forniti di grande esperienza e di un talento innato». Infatti in questo periodo la natura degli insegnamenti era fondamentalmente pratica e le nozioni venivano tramandate oralmente

XI-XIII secolo

La posizione geografica ebbe sicuramente un ruolo fondamentale nella crescita della Scuola: Salerno, porto al centro del Mediterraneo, subisce e metabolizza gli influssi della cultura araba e greco-bizantina. Dal mare arrivano i libri di Avicenna e Averroè, e dal mare giunge a Salerno anche il medico cartaginese Costantino l’Africano (ossia dell’Ifrīqiya) che visse nella città per diversi anni e tradusse dall’arabo molti testi: gli Aphorisma e i Prognostica di Ippocrate, Tegni e Megategni di Galeno, il Kitāb-al-malikī (ossia “Liber Regius”, o Pantegni) di Alī ibn ˁAbbās (Haliy Abbas), il Viaticum di al-Jazzār, il Liber divisionum e il Liber experimentorum di Rhazes (Razī), il Liber dietorum, il Liber urinarium e il Liber febrium di Isacco da Toledo.

Nell’ Alto Medioevo non vi è giurista o medico che sia un ecclesiastico. La chiesa impediva che avvocati o medici fossero ecclesiastici perché presso le chiese l’insegnamento era solo religioso e dogmatico. Nei Cenobi Benedettini, in obbedienza alla regola, che disponeva l’assistenza agli infermi, era necessario che uno dei monaci attendesse a questo ufficio e raccogliesse piante di riconosciute virtù medicinali: ma non poteva esercitare la sua opera fuori dal Monastero. Ciò ci sta a dimostrare che pur non trovando nell’ Alto Medioevo monaci-medici, i Cenobi Benedettini fossero centro di una vasta cultura medica. Perciò nell’ Alto Medioevo vissero a Salerno due centri di cultura l’uno nel monastero l’altro nel territorio cittadino.

Sotto questa spinta culturale si riscoprono le opere classiche a lungo dimenticate nei monasteri. Grazie alla Scuola Medica, la medicina fu la prima disciplina scientifica ad uscire dalle abbazie per confrontarsi di nuovo con il mondo e la pratica sperimentale.

A tale proposito notevole importanza ebbero i monaci: i monasteri di Salerno e della vicina Badia di Cava dovevano avere una certa importanza nella geografia benedettina, infatti notiamo nella città nell’XI secolo la presenza di tre importanti personaggi di quest’ordine: il papa Gregorio VII, l’abate di Montecassino Desiderio (futuro papa Vittore III) ed il vescovo Alfano I (personaggio eclettico: medico, architetto e poeta).

In questo contesto la Scuola di Salerno cresce e si sviluppa fino a raggiungere il massimo del suo splendore tra il X ed il XIII secolo: Salerno ottiene il titolo di “Hippocratica Civitas” (Città Ippocratica), titolo di cui ancora oggi la città si fregia.

A quell’epoca giungevano alla “Schola Salerni” persone provenienti da tutta Europa, sia ammalati che speravano di essere guariti, sia studenti che volevano apprendere l’arte della medicina. Il prestigio dei medici di Salerno è largamente testimoniato dalle cronache dell’epoca e dai numerosi manoscritti conservati nelle maggiori biblioteche europee.

Nel 1231 l’autorità della scuola veniva sancita dall’imperatore Federico II: nella sua Costituzione di Melfi si stabiliva che l’attività di medico poteva essere svolta solo da dottori in possesso di diploma rilasciato dalla Scuola Medica Salernitana.

XIV-XIX secolo

Con la nascita dell’Università di Napoli, la Scuola cominciò a perdere via via importanza. Col tempo il suo prestigio fu oscurato da quello di università più giovani: Montpellier, Padova e Bologna in primo luogo. L’istituzione salernitana tuttavia rimase in vita per diversi secoli finché, il 29 novembre 1811, fu soppressa da Gioacchino Murat in occasione della riorganizzazione dell’istruzione pubblica nel Regno di Napoli. L’ultima sede fu il Palazzo Copeta.

Le rimanenti “Cattedre di Medicina e Diritto” della Scuola Medica Salernitana operarono nel “Convitto nazionale Tasso” di Salerno per un cinquantennio, dal 1811 fino alla loro chiusura nel 1861, avvenuta per ordine di Francesco De Sanctis, ministro del Regno d’Italia.

Sedi

La scuola, nonostante ci siano al riguardo notizie non suffragate da riscontri documentari, ha avuto varie sedi per l’insegnamento e il conferimento delle lauree. Secondo l’illustre storico salernitano Riccardo Avallone, le sedi d’insegnamento, in ordine cronologico e spesso in contemporaneità, furono: la reggia di Arechi o le sue adiacenze; la cappella superiore e inferiore di S. Caterina, nell’atrio e ai piedi della scalinata marmorea del duomo (le odierne sale San Tommaso e San Lazzaro).

A causa dell’inagibilità della cappella di S. Caterina, la principale sede della scuola fu in seguito il palazzo dell’antica pretura, ubicato in via Trotula De Ruggiero. L’ultima sede della scuola fu l’ex seminario arcivescovile.

La nuova facoltà di Medicina

Il 18 ottobre 2005, il ministro dell’istruzione Moratti, il presidente della Regione Bassolino, il presidente della Provincia Villani, il sindaco di Salerno De Biase e il rettore Pasquino hanno firmato il protocollo d’intesa per l’istituzione della facoltà di medicina nell’Università di Salerno.
La nuova facoltà si pone come continuazione ideale della millenaria tradizione della Scuola Medica Salernitana.

L’ordinamento

Il curriculum studiorum era costituito da:

Era inoltre prevista, ogni 5 anni, l’autopsia di un corpo umano.

Da notare che nella Scuola, oltre all’insegnamento della medicina (dove le donne erano ammesse sia come insegnanti che come studenti), si tenevano anche corsi di filosofia, teologia e legge ed è per questo che alcuni la considerano anche come la prima università mai fondata. Si badi bene, però: non fu mai chiamata “università”, giacché fu proprio con la scuola salernitana che nacque la parola.

Materie di insegnamento

Le materie di insegnamento nella Scuola medica salernitana sono a noi note attraverso uno speciale statuto. I docenti della scuola distinguevano la medicina in teoria e pratica. La prima dava gli insegnamenti necessari per conoscere le strutture del corpo, le parti che lo compongono, le loro qualità, la seconda dettava i mezzi per conservare la salute e per combattere le malattie. E, in conformità di tutte le scuole, che anche a Salerno seguirono, i dogmi della medicina i quali avevano il loro fondamento nei principi di Ippocrate e Galeno, che costituiscono le basi dell’insegnamento medico. I testi più antichi dei maestri di Salerno non si discostano da questa tradizione.

Testi antichi ci informano della diffusione in regioni lontane delle dottrine mediche salernitane. Siffatti cimeli sono compresi in un codice che è conservato nella Capitolare di Modena proveniente dall’Abbazia di Nonantola. L’esistenza di tali documenti, mentre ci conferma l’antichità dell’insegnamento medico a Salerno, d’altra parte ci dà la prova che la tradizione della cultura latina non si era spenta e centro di diffusione di essa era Salerno.

Riguardo poi , alla filosofia aveva un dominio assoluto Aristotele. La Scuola, immobilizzata nelle sue teorie, nacque ippocratica e morì tale, senza seguire le nuove correnti mediche e filosofiche, che avevano portato un profondo rinnovamento nel campo scientifico. Le lezioni consistevano nell’interpretazione dei testi dell’antica medicina. Ma mentre la medicina, procedeva lenta, in Salerno una nuova arte si affacciava nel campo scientifico. Questa arte è la chirurgia che per prima in Salerno si eleva alla dignità di una vera e proprio scienza per opera di Ruggiero di Fugaldo. Egli scrive il primo trattato di chirurgia nazionale che trova la sua diffusione in tutta Europa. Perciò fin dal XII secolo Salerno era meta di studenti stranieri specialmente tedeschi. Ma con la diffusione dei libri arabi, l’influenza scientifica della scuola, che si riteneva attaccata alle tradizioni latine andò diminuendo, mentre nelle principali università dell’Italia Settentrionale ebbero notevole sviluppo le dottrine arabe. Di queste era un seguace e divulgatore un alunno della scuola di Salerno, Bruno da Longobucco.

L’Almo Collegio Salernitano

Il Collegio Medico era un corpo accademico indipendente della Scuola. Esso aveva lo scopo di sottoporre gli scolari che avevano compiuto gli anni di studio richiesti ad un rigoroso esame per ottenere il privilegio dottorale, non solo per esercitare la medicina ma anche per insegnare.

Il Collegio Medico era un’organizzazione professionale per la difesa dei propri interessi e della propria dignità e anche per porre un freno all’opera nefasta dei medicastri.

Il primo atto sovrano che convalidò le prerogative del Collegio dando il riconoscimento giuridico ai titoli accademici da esso rilasciati, risale all’imperatore Federico II nel 1200. Tutti i medici della città erano Alunni e anche essi gradualmente avevano il diritto di entrare nel Collegio. Per consuetudine la funzione del conferimento delle lauree si svolgeva nella Chiesa di San Pietro a Corte, o in San Matteo o nella Cappella di Santa Caterina.

Ma all’inizio dell’anno 1000 il conferimento ebbe luogo nel palazzo di città. Il giuramento rappresentava la più alta concezione morale della funzione del medico, il quale giurava di porgere il suo aiuto al povero senza chiedere nulla e nello stesso tempo era una sublime affermazione dinanzi a Dio e agli uomini di serbare una vita onesta e severità di costumi. Per conseguire la licenza all’esercizio della farmacia, cioè in arte aromatariae si richiedevano al candidato qualità morali spiccatissime, onestà e illibatezza di costumi, qualità queste che la Scuola tenne sommamente in pregio. I diplomi di laurea molto spesso rappresentavano la manifestazione più evidente dei sentimenti religiosi dei giovani, che conseguirono il titolo di dottorale in Salerno. L’autenticità dei privilegi dottorali era attestato dal notaio. Il privilegio dottorale, rilasciato dal Collegio di Salerno, aveva valore dovunque il laureato in Salerno si presentasse per predicare l’esercizio professionale. Nei privilegi dottorali non solo era segnata la data in cui il candidato aveva sostenuto l’esame ma anche l’anno del pontificato di chi era stato elevato al seggio pontificio. Il calendario civile, variava secondo i diversi stati ma non variava ovviamente l’anno di elevazione al pontificato. Onde per la stessa universalità della Chiesa cattolica era logico che si tenesse in conto l’anno di riferimento del pontificato, tanto più che il privilegio assai spesso era destinato ad assicurare la capacità scientifica del laureato in paesi stranieri. Ai diplomi non mancava mai il sigillo del Collegio in ceralacca. In questi sigilli di forma circolare è ben visibile nel mezzo lo stemma della città rappresentato dal patrono San Matteo in atto di scrivere il Vangelo.

I docenti della scuola

Occorre fare una distinzione tra il medicus e il medicus et clericus perché segnano due periodi distinti della medicina salernitana. Il medicus rappresenta le origini in cui l’arte è empirismo ed egli ricorre ad espedienti per porgere aiuto al sofferente. Il medicus et clericus si distingue per la conoscenza dell’arte e per dottrina perciò è un dotto. Con Garioponto (che esamina gli antichi scrittori latini prendendo Ippocrate e Galeno a modello) la medicina salernitana comincia il suo periodo aureo. Con Garioponto vediamo la per la prima volta una donna, la famosa Trotula de Ruggiero che ascende agli onori della cattedra, detta preziosi dogmi di medicina e dà istruzioni per le partorienti. All’inizio dell’anno mille a Salerno c’era una scuola ben ordinata la quale sorse per opera di cultori delle discipline mediche. Si ritiene che l’epoca della fondazione della scuola risalga alla comparsa della Societas forse intorno alla prima metà dell’XI secolo. La prima costituzione della Societas si formò per opera di quei jatrophisici, che presero sede sul colle Bonae diei e Salernitam Scholam scripsere. Furono essi che gettarono le basi di quella scuola e di essa tramandarono il ricordo dettando il Flos medicinae, monumento di grandezza e di pietà che parla al popolo con la parola del cuore e ad esso corre incontro per dargli il farmaco che lo sollevi.

L’insegnamento della medicina a Salerno nel Medioevo era esercitata da privati docenti cui veniva dato l’appellativo di medici. All’epoca scarso era il numero dei medici e molti erano avviati all’arte salutare per tradizione di famiglia e ciò perdurò per varie generazioni. La Schola era un istituto con un’organizzazione indipendente, costituita da insegnanti con particolari meriti e di essa era responsabile il Praeses. Fu titolo di merito l’anzianità quando fu creato il Prior come suprema dignità del Collegio. Ma il Praeses non aveva nulla in comune col Prior poiché la sua autorità si svolgeva nell’ambito del collegio sorto più tardi. La Scuola medica salernitana può contare numerosi maestri. Le dottrine mediche diffuse da Garioponto e dai suoi contemporanei non si estinsero con essi; altri maestri seguirono le loro orme. Nella seconda metà del XII secolo tre illustri maestri onorarono i loro predecessori: maestro Salerno, Matteo Plateario junior e Musandino. Notevoli furono del maestro Salerno le sue Tabulae Salernitanae in cui riunì i semplici secondo le loro virtù, Il Compendium che completa le Tabulae e forma con esse un trattato di terapia generale e di preparazione dei farmaci. Matteo Plateario junior apparteneva ad una famiglia di insigni cultori dell’arte medica. Nelle sue Glosse Plateario junior descrive piante e dà cognizioni intorno alla sofisticazione di vari prodotti medicinali. Musandino è il celebre maestro, il Praeses, la somma autorità di quel consesso di dotti, destinati a divulgare i dogmi della medicina. Un eminente figura di prelato, ben degno di stare accanto all’Arcivescovo Alfano, fu Romualdo II Guarna che ebbe una speciale predilezione per l’arte medica. Egli fu chiamato due volte al capezzale di Guglielmo I di Sicilia. Un altro maestro tenuto in gran conto dalla regina Giovanna II di Napoli fu Antonio Solimena che fiorì alla fine del XIV secolo. Egli si distinse per la sua dottrina e per le grandi prove da lui date di sapere. Perciò egli fu elevato all’alto ufficio di Maestro Razionale della Magna Curia. Altra figura nobilissima di patriota e di scienziato fu Giovanni da Procida. Non mancano nei secoli precedenti maestri salernitani che prestarono la loro opera ad operazioni belliche. A servizio dell’esercito di Roberto d’Angiò, duca di Calabria, operante in Sicilia nel 1299 si trovano Bartolomeo de Vallona e Filippo Fundacario. Molte opere di maestri salernitani andarono perse. Ai maestri della scuola spetta il grande merito di aver dettato per la prima volta le norme che il medico deve seguire, quando egli si trova presso il letto del malato. Esse sono un documento prezioso, da cui si rivela quanta importanza quei maestri attribuissero alla missione del medico e quale fosse il loro spirito di osservazione e la profonda conoscenza del corpo umano.

Il Regimen Sanitatis Salernitanum

Per approfondire, vedi la voce Regimen Sanitatis Salernitanum

 

DON VINCENZO CIMATTI SDB

Vincenzo Cimatti, chi era costui?

           Un missionario, un salesiano, un musico, laureato in scienze naturali e filosofia, ma sopratutto un santo. Lui diceva che voleva diventarlo, ma non pensava di esserlo. 

           Lo chiamano il Don Bosco del Giappone. Lui Don Bosco lo vide coi suoi occhi quando aveva tre anni. La mamma gli disse: “Vicenzino, guarda Don Bosco!” E lui lá, in una chiesa di Faenza lo guardò, e se lo ricordò per tutta la vita. Cercò di imitarlo e ci riuscì. Lo amava e aveva un cuore grande come quello di Don Bosco.

           Amò la musica. Suonò e compose per tutta la vita: 950 composizioni musicali e 2000 concerti in Giappone , in Manciuria, nella Corea del Nord e del Sud. 

           Tutti gli volevano un gran bene e conservarono le sue lettere: sono più di 6000. Diceva che voleva bene a tutti, adulti e bambini, uomini e donne e doveva frenare il suo cuore troppo sensibile. Ma più di tutto amava Gesù e “la Mamma”, Maria, come la chiamava lui. 

           Non gli piacevano le cariche, ma dovette sempre accettarle.

           Gran lavoratore, diceva: “Il lavoro è la mia salute” . Ma i soldi furono la sua croce. 

           Era l’uomo più naturale del mondo, nell’agire, nel parlare, nel pregare, con quel suo atteggiamento senza pose che incantava tutti, adulti e piccoli, con un sorriso indimenticabile.

            La sua passione fu il Giappone. Ma quanto ebbe a soffrire…! Nessuno se ne accorgeva, perchè non voleva essere di peso a nessuno.

            Il suo corpo, dopo 12 anni dalla morte fu trovato intatto, ancora soffice e flessibile.

            Per farlo Santo ora ci vuole un miracolo.

Vuoi conoscere don CIMATTI attraverso le sue lettere?

Ecco le prime raccolte:

  1. Lettere 1896 – 1903

  2. Lettere 1904 – 1919

  3. Lettere 1920 – 1922

  4. Lettere 1923 – 1925

  5. Lettere 1926

- Possibilità di ricerca nella raccolta completa delle oltre 6.000 lettere

Raccolta completa delle oltre 6.000 lettere (occorre attendere qualche istante per il caricamento della pagina)

Chi avesse da segnalare grazie ricevute può rivolgersi a:

Don Gaetano Compri  -  Giappone 

 Missionario in Giappone, vice-postulatore della causa del Ven. Don Vincenzo Cimatti. Veronese di nascita, partì per il Giappone nel 1955 a 25 anni.

 Don Compri spera che presto Don Cimatti sia dichiarato Beato, e per questo domanda a tutti di pregarlo affinché interceda presso il Signore che ci conceda il miracolo richiesto per la sua beatificazione. Sente però che Don Cimatti, avendo lavorato per 40 anni nel lontano Giappone, in Italia non è ancora abbastanza conosciuto. Eppure è una figura straordinaria di santità moderna, che non si deve dimenticare. È sicuro che se si leggono le sue lettere, sarà per molti una grande scoperta.

 Indirizzo: Salesian Seminary, Fujimi-cho 3-21-12, Chofu-shi  182-0033 TOKYO  JapanE-mail di Don Compri: compri@v-cimatti.com Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.www.v-cimatti.com

FATEBENEFRATELLI: I CAMPIONI DELL’OBSEQUIUM PAUPERUM – Antonio Scarcello

I campioni dell’obsequium pauperum:

i Fatebenefratelli


Nel periodo compreso tra la fine del Medioevo e gli albori dell’Evo Moderno, lungo le principali arterie di transito, una fitta e consolidata rete di strutture ricettive assicurava assistenza e protezione a pellegrini e  viandanti, oltre che ai diseredati e indigenti del circondario in cui sorgevano. Anche in Calabria, lungo la via Popilia, vi erano edifici – ospedali, magioni, ospizi – adibiti a tale funzione, soprattutto nei tratti più impegnativi: «le nuove realtà dei monasteri, urbani ed extraurbani, di tradizione greco-basiliana o latino-benedettina – scrive Marco Tangheroni – avevano nell’apertura all’ospitalità dei pellegrini una delle loro caratteristiche fondamentali e potevano perciò costituire – nei casi più importanti anche con appositi xenodochia – una buona alternativa per i viaggiatori»[1]. Più tardi la definizione di xenodochium fu affiancata da quelle di hospitale e hospitium, ed i termini divennero intercambiabili[2]. Nella maggior parte dei casi questi luoghi di assistenza erano retti dai grandi ordini Ospedalieri come quello di S. Giovanni di Dio, detto Fatebenefratelli (dall’intercalare dei questuanti), o come quello del Santo Sepolcro.

Accanto a queste strutture tradizionali adibite all’ospitalità, erano attive anche le diaconie monastiche, «edifici destinati ad accogliere poveri, pellegrini, infermi…»[3], la cui opera contribuiva ad alleviare le mortificazioni della miseria e i disagi di quanti s’incamminavano sull’impervia strada della redenzione, verso le mete di culto di breve percorrenza e in direzione delle cosiddette peregrinationes maiores (Roma, per ammirare la famosa Veronica; Gerusalemme, per visitare i luoghi della predicazione e della passione di Cristo; Santiago di Compostela, per prostrarsi sulla tomba dell’apostolo Giacomo).

Nella rigogliosa fioritura di Ordini religiosi che nel corso del XVI secolo fecero la loro comparsa nella città di Cosenza e nei casali viciniori, una menzione particolare spetta appunto ai Fatebenefratelli, preposti alla cura degli ammalati e a dare sollievo ai bisognosi di assistenza. Fondati nel 1537 dal portoghese S. Giovanni di Dio, divennero presto un punto di riferimento importantissimo per la società coeva, svolgendo una funzione sociale di primo piano, attraverso le opere di carità e la gestione di ospedali e ospizi attivi fuori e dentro la città.

Gli Ospedalieri di S. Giovanni di Dio vennero a Cosenza nel 1593. In un protocollo è riportata la notizia del consenso alla venuta de «li fili de Giovan de Dio per far hospitali et carità alli infermi»[4]. Ad essi fu assegnato il vecchio monastero di S. Chiara, a Portapiana, che divenne casa e ospedale e che prese il nome di S. Maria della Sanità[5]. Con questo titolo liturgico venivano indicate strutture – generalmente monasteri, chiese, diaconie monastiche, ecc. – adibite alla cura degli infermi e all’accoglienza dei forestieri.

Nel piccolo casale di Laurignano, nella seconda metà del XVI secolo, i malati, gli indigenti, i trovatelli, gli orfani, gli emarginati beneficiavano di oboli, elemosine e della munificenza di qualche ricco benefattore. In un atto del notaio Giordano, rogato a Cosenza il 28 settembre 1569, è riportata la notizia che la nobildonna Caterina Sersale lasciò 200 ducati ai poveri di Laurignano e 20 libbre di cera alla chiesa parrocchiale di S. Oliverio[6]. Ma la grave e diffusa situazione di pauperismo che colpiva ripetutamente la Calabria, causata dalle carestie, epidemie, terremoti e altre calamità, non poteva risolversi attraverso slanci di generosità isolati. Occorreva ben altro.

Ed è proprio in un contesto così difficile che s’innesta, a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, la presenza nel territorio di Laurignano dei Fatebenfratelli e dei Francescani, la cui attività era mirata a prestare assistenza a poveri, infermi e bisognevoli di cure. Scopo fondamentale della loro missione era l’impegno caritativo quotidiano, l’obsequium pauperum che esercitavano principalmente nei confronti di viandanti e pellegrini e di tutta quella vasta umanità di sofferenti – i pauperes Christi – che popolava la società del tempo.

Sul finire del XVI secolo, come notato in precedenza, un monasterium dedicato a S. Maria della Sanità venne fondato  nella località S. Basilio, l’attuale Turra ‘e Santi, nella zona di Granci, dai Conventuali Francescani. La struttura, con ogni probabilità, oltre che luogo di culto, fungeva anche da struttura di accoglienza per indigenti e bisognosi di cure. Ed è proprio in questo monasterium, verosimilmente, che i Fatebenefratelli svolsero la loro attività a sostegno dei poveri. Hans Conrad Peyer ha scritto che «il ricovero per pellegrini, mercanti e poveri veniva anche indicato con i termini di ecclesia, oratorium, e monasterio, ma spesso non si capisce se queste definizioni si riferissero alla non rara usanza di alloggiare gli ospiti nella chiesa stessa, o invece nei dormitori ad essa connessi»[7].

Il monastero della Stozza, fondato ex-novo o ampliato dai Francescani nel 1591, con il titolo dedicato a S. Maria Assunta, venne indicato successivamente con il termine «romitorio», mantenendo la stessa insegna liturgica. La struttura, trovandosi a ridosso della via Popilia, svolse la funzione di luogo di accoglienza per pellegrini, viandanti in genere e poveri del luogo. Nei Registri parrocchiali di S. Oliverio Martire relativi a tutto il Settecento la struttura è attestata come Romitorio della Stozza o di S. Maria Assunta.

Gli ospizi monastici e le case di accoglienza per malati e indigenti sorgevano spesso, come abbiamo visto, grazie alla generosità di benefattori occasionali, ed erano soggetti al diritto ecclesiastico e alla giurisdizione episcopale[8]. Normalmente erano collegati ad una chiesa o ad un monastero e affidati a religiosi di provata probità. I Conventuali vennero a Laurignano e chiesero la licenza di «pigliare casa» per prendersi cura degli infermi e per compiere «santa opera pia», secondo la rigida applicazione dei decreti tridentini inaugurata da Pio V e proseguita dai suoi successori[9]. Non bisogna dimenticare che gli uomini di chiesa avevano il dovere dell’hospitalitas, in ragione di «precisi codici di comportamento che facevano leva sull’imitatio Christi»[10]. A cavallo tra il XVI e il XVII secolo, quando l’arcivescovo di Cosenza Costanzo chiamò i Fatebenefratelli da Laurignano, per favorire gli ordini regolari nella città[11], le due strutture rimasero attive. Il monastero della Stozza continuò la sua attività sotto il controllo di una piccola comunità di Eremiti.

Al confine tra i territori di Cosenza e Laurignano, nelle vicinanze della via Popilia, sorgeva un ospedale che assicurava la cura agli infermi e assistenza ai viandanti. Nel Liber emortualium della parrocchia di S. Oliverio Martire ricorre frequentemente un «hospedale» e lo «molendino dell’ospedale»[12]. La stessa fonte ci dà la conferma che la struttura esisteva ancora nella prima metà del Settecento. Nicola Valentini, rector della parrocchia, nel 1719, registrò la morte di una certa Perpetua Mauro in «domo ubi dicitur lo molendino dell’Hospedale» e quella di Giulia de Orangis avvenuta nel 1726 nello stesso luogo[13]. L’ospedale era la casa dei poveri – la domus pauperum –luogo dove accogliere e nutrire gli indigenti.

Lungo le principali vie di transito sorgevano anche ospizi, che esplicavano normalmente le stesse mansioni degli ospedali. In prossimità del fiume Busento, a ridosso della via Popilia, nella zona denominata oggi Molino Irto, è probabile che vi fosse un ospizio – o comunque una pertinenza di una struttura ricettiva – adibito a luogo di accoglienza per viandanti e pellegrini, oltre che per i diseredati delle zone limitrofe. La conferma ci è data dal Libro dei morti della parrocchia di S. Oliverio, nel quale sono registrati due atti assai significativi. Nel 1721, il parroco Valentini annotò la morte del ventitreenne Costantino Aiello, avvenuta «in ospitio», mentre dieci anni più tardi, nel 1731, nel Liber è riportato il decesso di Ursula Cubello «in feudo cujus Venerabile Hospitius», gestito «in emphjteusim in loco ditto il Ponte di Basento»[14].

Fino a quasi tutto il Settecento, i Registri parrocchiali ci danno la conferma che anche la struttura posta sul versante del Busento era attiva, abitata e gestita dai monaci Riformati, al servizio di quanti transitavano lungo la via pubblica che costeggiava il fiume. Gli ospedali e gli ospizi del Medioevo e dell’Età Moderna erano bettole di infima qualità, senza i comfort e le comodità di oggi. Le osservazioni del Russo in proposito appaiono quanto mai significative: «quando si parla di ospizi o ospedali o infermerie [...], bisogna allontanare l’idea che se ne ha oggi. In quei tempi infatti si trattava di ben misera cosa: due o tre stanzucce, generalmente addossate alla chiesa , maltenute, con tre o quattro letti, custodite da un salariato, che non si potrebbe nemmeno chiamare “infermiere”. Vi venivano ricoverati i poveri, i nullatenenti, i miserabili, che vi andavano malvolentieri, preferendo morire a casa propria, quando l’avevano. L’attrezzatura poi era poverissima e raramente apprestava rimedi alle malattie. Si capisce perciò come fino ai tempi moderni la mentalità popolare calabrese fosse quanto mai contraria al ricovero nei così detti ospedali»[15].

Il termine hospedale indicava l’edificio ove venivano ospitati poveri e pellegrini in transito. «L’ospedale – ha scritto Bronislaw Geremek – svolgeva la funzione di alloggio temporaneo degli stessi mendicanti e di punto di distribuzione delle elemosine»[16]. Essi avevano il compito del ricovero: offrire un posto per dormire e per la distribuzione periodica o giornaliera dei viveri. Oltre ai poveri itineranti – in primo luogo i pellegrini – gli ospedali e i ricoveri ospitavano i poveri che vi abitavano in pianta stabile[17].

Le rendite dell’ospedale derivavano da fitti di piccole case, da vigneti, dalla vendita di foglie di gelso. Nella “guida” più famosa di tutta la letteratura odeporica del Medioevo, il cosiddetto Liber Sancti Jacobi o Codex Calixtinus, si fa riferimento anche a pellegrini calabresi che si recavano a Compostela, in Galizia, per pregare dinnanzi alle reliquie di S. Giacomo[18]. In tale documento gli ospedali sono attestati come «luoghi santi, case di Dio, riconforto dei santi pellegrini, riposo degli indigenti, consolazione dei malati, salvezza dei morti e soccorso dei vivi»[19].  Edificare questi luoghi santi significava assicurarsi il regno di Dio. Grazie ad essi, i viaggiatori morti di fatica lungo la strada o uccisi dai briganti potevano godere di una sepoltura in terra benedetta, desiderio ardente fino all’ossessione nelle generazioni medioevali[20]. Non bisogna dimenticare che, nei secoli passati, le vie di comunicazione erano insicure, irte di difficoltà e di pericoli, popolate da malfattori che depredavano e razziavano quanti vi transitavano.

Le strade percorse dai pellegrini per raggiungere i luoghi di culto, per tutto il Medioevo, in Calabria, rimasero sostanzialmente gli antichi tracciati romani, la Popilia e le litoranee tirrenica e jonica.  Nella Capua-Reggio si immettevano numerose strade secondarie ed anche semplici diverticoli: insomma, un reticolo viario di adduzione sia ai centri abitati sia ai luoghi di culto, quindi funzionale alle pratiche votive e devozionali assai in voga nella regione e nel territorio laurignanese.

Non a caso i monasteri francescani della Stozza e di Granci vennero fondati a ridosso della «via publica», indicata per lo più come linea confinaria tra varie proprietà e attestata nelle fonti documentarie del ‘500. La via Popilia, viceversa, non compare in nessuno degli itineraria conosciuti, pur essendo tra gli assi viari più transitati di tutto il Medioevo[21]. Il territorio di Laurignano, per il fatto di essere un passaggio obbligato lungo l’importante arteria romana, non fu certo estraneo a queste dinamiche cultuali e religiose. Ma anche su questo fronte, purtroppo, siamo costretti a registrare una carenza di fonti sconfortante, che rende assai arduo il compito di collocare al posto giusto i tasselli di un mosaico tanto suggestivo quanto difficile da comporre.


[1] M. Tangheroni, Forme di insediamento e comunicazioni terrestri, in Le vie del Mezzogiorno. Storia e scenari, Roma 1998, p. 45

[2] M. Salerno, Domus degli Ospedalieri di S. Giovanni di Gerusalemme e vie di pellegrinaggio nel Mezzogiorno d’Italia, in Viaggi di monaci e pellegrini, a cura di P. De Leo, Soveria Mannelli 2001, p. 80

[3] N. Ferrante, Santi italo-greci in Calabria, Roma 1992, p. 37, nota 10

[4] F. Russo, Storia dell’Arcidiocesi…cit., p. 220

[5] Ibidem, p. 220

[6] ASCS, notaio Giordano, anno 1569, sch. 862

[7] H. C. Peyer, Viaggiare nel Medioevo. Dall’ospitalità alla locanda, Bari 2000, p. 130

[8] P. Dalena, Dagli Itinera ai Percorsi. Viaggiare nel Mezzogiorno medievale, Bari 2003, p. 148

[9] F. Russo, I Francescani Minori…cit., p. 84

[10] M. Salerno, Domus degli Ospedalieri…cit., p. 129

[11] F. Russo, Storia dell’Arcidiocesi…cit., p. 489

[12] ASCS, Liber emortualium

[13] Ibidem

[14] ASCS, Liber emortualium

[15] F. Russo, Medici, chirurghi e assistenza sanitaria in Calabria nel medioevo, in Mestieri, lavoro e professioni nella Calabria medievale: tecniche, organizzazioni, linguaggi, Atti dell’VIII Congresso Storico Calabrese, Palmi (RC) 19-22 novembre 1987, Soveria Mannelli 1993, p. 410

[16] B. Geremek, La pietà e la forca…cit., p. 36

[17] Ibidem, p. 34

[18] Per il pellegrinaggio compostellano dei calabresi si rinvia all’ottimo saggio di P. De Leo, Per un’indagine sul pellegrinaggio dei Calabresi a Santiago de Compostela, in Viaggi di monaci e pellegrini…cit., pp. 69-76

[19] P. Caucci von Saucken, Guida del pellegrino di Santiago, Milano 1989, p. 73

[20] R. Oursel, Pellegrini del Medioevo: gli uomini, le strade, i santuari, Milano 1979, p. 66

[21] G. Roma, Le vie dei pellegrini verso la Terra Santa: la via Annia o Popilia, in La via Popillia. Una strada da ripercorrere, Atti del convegno di studi Scigliano-Morano Calabro28-29 settembre 1996, Castrovillari 1999, p. 35

12 – PADRE NOSTRO – LA CONSOLAZIONE NELLE TRIBOLAZIONI – Luca Beato oh

XII 

LA CONSOLAZIONE NELLA TRIBOLAZIONE

( ma liberaci dal male )

 

Di Luca Beato oh

 

L’idea della consolazione richiama per contrapposizione quella della tribolazione e della sofferenza. Si consola chi soffre e chi piange non chi sta bene.

Nell’Antico Testamento ci sono due libri di consolazione. Il primo in ordine di tempo è quello del profeta Geremia, si trova nei capitoli 30 e 31 e si rivolge agli Ebrei del Regno del Nord, deportati dagli Assiri nel 722 a.C. Il Profeta promette loro a nome di Dio il ritorno in Patria. Il secondo è opera del profeta Isaia, più precisamente il secondo Isaia, dal capitolo 40 al 55 e si rivolge al popolo del Regno di Giuda, deportato a Babilonia nel 587 a.C. La Consolazione del ritorno in patria si realizza con l’editto di Ciro, re dei Persiani nel 538 a.C. e culmina con la ricostruzione del tempio di Gerusalemme nel 515 a.C.

 

Le immagini usate dai profeti sono di due tipi: negative se riguardano la schiavitù e positive se riguardano la liberazione. “In quel giorno romperò il giogo togliendolo dal suo collo, spezzerò le sue catene” ( Ger 30,8 ). “La tua ferita è incurabile” ( Ger 30,12.15 ). “Farò cicatrizzare la tua ferita e ti guarirò dalle tue piaghe” ( Ger 30,17). “Essi erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni” ( Ger 31,9 ) … “perchè io sono un padre per Israele, Efraim è il mio primogenito” ( Ger 31,9 ). “Per questo le mie viscere si commuovono per lui, provo per lui una profonda tenerezza” ( Ger 31,20 ). Il lutto verrà cambiato in gioia. Il popolo sarà felice senza afflizioni. La gioia riempirà il cuore dei giovani e dei vecchi e si esprimerà nel canto e nella danza. Godranno tutti dell’abbondanza dei frutti della terra: grano, mosto, olio; e dei frutti del gregge e degli armenti ( Ger 31,12-13 ).

 

L’azione consolatrice di Dio viene espressa con diverse immagini. Dio è per il suo popolo un pastore molto premuroso “che porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri ( Is 40,11; Ger 31,10 ). E’ come lo sposo che gioisce per la sua sposa ( Is 62,5; 61,10 ), è come la madre che consola il proprio figlio ( Is 66,13 ).

 

Nella terra d’Israele ci sarà gioia e pace perfetta. Verrà eliminato il pianto e l’angoscia di mezzo al popolo, che godrà il frutto del proprio lavoro senza pericolo di razzie; godranno tutti buona salute e vita lunga ( Is 65,19-25 ). Gerusalemme sarà nell’abbondanza e tutto il popolo ne potrà godere. Per esprimere questa realtà viene usata l’immagine del bimbo che succhia felice il seno materno ripieno di latte. “Succhierete deliziandovi all’abbondanza del suo seno”( Is 66,11). Oppure l’immagine del bimbo portato in braccio e coccolato da sua madre. “I suoi bimbi saranno portati in braccio, sulle ginocchia saranno accarezzati ( Is 66,12 ).

 

Il profeta Ezechiele paragona il ritorno del popolo ebreo dalla schiavitù di Babilonia a una “risurrezione”. E’ la famosa visione delle ossa aride, che riprendono vita per la forza di Dio, descritta con straordinario verismo ( Ez 37, 1-10 ) e poi spiegata in questa maniera: “ Queste ossa sono tutta la gente d’Israele. Ecco, essi vanno dicendo: Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti. Perciò profetizza e annunzia loro: Dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nel vostro paese; saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò” ( Ez 37,11-14 ).

 

Risorgere vuol dire riprendere a vivere come popolo libero nella propria terra, dove poter crescere, moltiplicarsi, godendo dei frutti di questa terra, il grano, il mosto e l’olio, ecc. Per gli Ebrei vale sempre il trinomio: Dio – popolo – terra. La salvezza di Dio consiste nell’assicurare una terra al suo popolo.

Più tardi, al tempo dei Maccabei ( Mac 12, 38-45) nel 160 ca. a.C. troviamo una chiara affermazione della fede degli Ebrei nella risurrezione dei morti. Ma al tempo di Gesù i Sadducei non ci credevano ancora ( Mt 22,23 ss; Mc 12,18 ss; Lc 20,27 ss ).

 

Il Consolatore

 

Il consolatore d’Israele è Dio stesso che libera il suo popolo dalla schiavitù e gli permette di vivere una vita serena e pacifica nella sua patria. Ma anche i profeti hanno un compito importante nella consolazione del popolo. “Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio, parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la sua schiavitù, è stata scontata la sua iniquità” ( Is 40,1-2; cfr 61,1-9 ).

 

Ma il tanto auspicato ritorno in patria è stato alla lunga piuttosto deludente. Il popolo si trova ridotto a due tribù e mezza ( Giuda, Beniamino e mezza Levi ) quindi molto debole ed esposto alle invasioni. In questa situazione critica i profeti tengono accesa la speranza di un futuro migliore per opera di Dio. Le speranze del popolo si coagulano attorno alla figura del Messia, che avrebbe riportato il Regno di Giuda alla grandezza e allo splendore del tempo di Davide. Col tempo la speranza di salvezza del popolo viene proiettata verso orizzonti inaspettati: non più soltanto un popolo, una terra, una potenza politico-religiosa, ma una nuova èra messianica rivolta a tutti i popoli, perchè il Messia farà “cieli nuovi e terra nuova”.

 

E’ il grande sogno del profeta Isaia ( Is 2,2-4 ). Infine il profeta Daniele nelle sue visioni apocalittiche attribuisce al Messia i poteri divini di governare su tutte le genti e di giudicarle. Egli infatti vede “il figlio dell’uomo” salire sulle nubi del cielo e ricevere da Dio il regno universale ed eterno. “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo serviranno; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà distrutto” ( Dan 7,13-14 ).In conclusione si può dire che nell’A.T. appare chiaro che è Dio che prende l’iniziativa di liberare il suo popolo, stringere con lui un’Alleanza, promettergli una terra feconda dove possa crescere, moltiplicarsi e vivere in pace. E’ Lui che castiga il suo popolo, quando infrange l’Alleanza, ma lo fa per correggerlo e quindi alla tribolazione – che dura poco – fa seguire la consolazione che è destinata a durare per sempre, mediante la risurrezione alla fine dei tempi.

 

I profeti hanno un compito importante in mezzo al popolo. Infatti l’azione salvifica di Dio normalmente non si verifica in modo evidente, bisogna che qualcuno la sappia rilevare e riesca a farla risaltare davanti agli occhi del popolo. Il profeta è la persona capace di fare una lettura teologica della storia, facendo risaltare l’azione salvifica di Dio in mezzo al groviglio delle vicende umane, nel passato e nel presente con proiezioni cariche di speranza nel futuro.

 

Gesù consola e risuscita

 

Al centro della predicazione di Gesù sta l’annuncio dell’avvento del Regno di Dio ( Mc 1,14-15 ). Dio intende realizzare il suo progetto di salvezza per il suo popolo, affermando la sua Signoria, assumendo le funzioni dirette di governo e di direzione del mondo. Questo Regno realizza le promesse profetiche e messianiche, quindi segna il tempo della salvezza, del compimento, del perfezionamento della presenza di Dio nel mondo.

 

La predicazione del Regno di Dio si colloca in un orizzonte apocalittico. Gesù, come tutta la generazione apocalittica giudaico-cristiana ( specialmente S. Paolo ) attendeva l’avvento del Regno di Dio in un futuro imminente. In questa luce si spiega l’insegnamento di Gesù sulla noncuranza della propria vita, del vitto, del vestiario, ecc. E’ in questa luce che vanno interpretate le parabole del Regno: esso è la cosa più importante, per esso si deve sacrificare tutto. C’è grande contrasto tra i suoi umili inizi e il suo grandioso compimento finale. E’ la potenza di Dio che realizza tutto ciò, sconfiggendo le forze del male. Gesù non è soltanto l’annunciatore del regno di Dio come imminente, ma ne è anche il realizzatore nel presente. E’ Lui il seminatore che semina la parola di Dio. E’ Lui che guarisce i malati, risuscita i morti e perdona ai peccatori. E’ Lui che inaugura la realizzazione del Regno di Dio.

 

Gesù si occupa contemporaneamente del già e del non ancora. Tramite Gesù, il Regno di Dio del futuro è già una forza operante nel presente. Il Regno di Dio non è una promessa consolatoria che riguarda il futuro escatologico, una proiezione dei desideri inappagati, come volevano i filosofi “del sospetto” Feuerbach, Marx e Freud. Il futuro è appello di Dio al presente. Già ora bisogna strutturare la vita secondo la prospettiva del futuro assoluto. Il presente è il tempo della decisione alla luce del futuro assoluto di Dio.

 

Anche le beatitudini ( Lc 6,20-2; Mt 5,3-12 ) vanno interpretate alla luce del Regno di Dio. Ci riferiamo alle beatitudini “nuove” di Gesù, non a quelle di tipo sapienziale, che c’erano già nell’A.T. Quando Gesù dice ai poveri, ai sofferenti e ai perseguitati: “Beati voi!” significa che Dio, instaurando il suo Regno, si ricorda di loro per tirarli fuori dalla situazione di sofferenza in cui si trovano, come ha fatto con gli Ebrei quando erano schiavi in Egitto o a Babilonia.

 

La beatitudine è quindi una promessa di Dio che genera gioia subito in chi la ascolta e la fa fiduciosamente propria. Già irrompe nella vita di costui il futuro di Dio, portando con sè subito consolazione. Infatti la presa di coscienza che Dio gli sta innanzi, lo precede, comunica al credente una forza trasformante, anche nelle situazioni più difficili e tribolate.

 

San Luca, già all’aurora della redenzione, nel canto del Magnificat, mette in risalto il modo in cui Dio intende realizzare il progetto di salvezza mediante il Messia, riagganciandosi ai gesti liberatori di Dio a favore del suo popolo nell’A.T. “…ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi; ha soccorso Israele suo servo, ricordandosi della sua misericordia…” ( Lc 1, 52-54 ).

 

Gesù nella Sinagoga di Nazaret fa il suo discorso programmatico, con la citazione del profeta Isaia, che si ispira all’anno sabbatico. “ Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore” ( Lc 4,18-19 ; cfr Is 61,1-2 ).

 

Agli inviati di Giovanni Battista, che voleva sapere con certezza se era Lui il Messia, Gesù dà questa testimonianza: “Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri viene annunziata la buona novella” ( Lc 7, 22-23 ). Tra i miracoli che il Messia compie a favore del suo popolo S. Luca mette espressamente anche la risurrezione dei morti e per avvalorare le parole di Gesù ai discepoli del Battista, immediatamente prima narra la risurrezione del giovane figlio della vedova di Naim ( Lc 7,11-17 ).

 

Anche i miracoli vanno interpretati alla luce dell’avvento del Regno di Dio: sono dei “segni” della sua realizzazione. Le guarigioni e gli esorcismi non sono fine a se stessi, ma sono al servizio del Regno di Dio. Per Gesù infatti l’avvento del Regno di Dio rappresenta la sconfitta di Satana, che perciò vede cadere dal cielo come un fulmine ( Lc 10,18 ). I miracoli illustrano e confermano la parola di Gesù. Un paralitico viene guarito proprio per convalidare la legittimità del perdono dei peccati, pronunciata da Gesù ( Lc 5,24 ). Essi hanno la funzione di segno: il Regno di Dio, attraverso l’azione di Gesù, comincia a realizzarsi ( Lc 11,20 ). Con le sue azioni Gesù non ha ancora edificato il Regno di Dio. Ha posto però dei segni nei quali già splende il Regno che viene: prefigurazioni emblematiche, tipiche, corporee, di quel bene psicofisico completo e definitivo che chiamiamo “ salvezza” dell’uomo.

 

 

Risurrezioni di morti

 

I tre Vangeli sinottici riferiscono della risurrezione di una bambina figlia di Giairo, uno dei capi della Sinagoga, della quale Marco ci conserva anche la frase usata da Gesù: “Talita kum, fanciulla alzati” ( Mc 5,21 ss; Mt 9,18 ss; Lc 8,40 ss ). Luca narra la risurrezione di un giovane, figlio unico di una vedova di Naim ( Lc 7, 11ss ). Giovanni narra la risurrezione di Lazzaro, amico di Gesù, fratello di Marta e di Maria ( Gv 11, 1 ss). Questa narrazione mostra chiaramente, perché è proprio nell’intenzione dell’autore, che la risurrezione di Lazzaro è un segno della risurrezione definitiva; essa offre l’occasione a Gesù di autorivelarsi come colui che risuscita i morti per la vita eterna: “ Io sono la risurrezione e le vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno” ( Gv 11,25-26 ).

 

La risurrezione di Gesù Cristo

 

La risurrezione di Gesù è prima di tutto un fatto storico, nel senso che si è veramente verificato, anche se non è stato un fatto verificabile come gli altri avvenimenti della storia. Nessuno infatti è stato testimone oculare della risurrezione. Le testimonianze degli Apostoli riguardano Gesù Cristo già risuscitato, fanno riferimento alle sue apparizioni. D’altra parte Gesù dopo la risurrezione non ha più un corpo materiale come prima, ma un corpo spiritualizzato. Egli è entrato nella dimensione spirituale, trascendente, incommensurabile di Dio. Tutto ciò viene descritto con un linguaggio immaginoso. La parola “risurrezione”, richiama alla mente il ridestarsi dal sonno, il rialzarsi, ma – nel nostro caso – non per un ritorno alla condizione antecedente, bensì per il radicale trapasso a una condizione totamente diversa, a una vita nuova, divina, immortale.

 

La fede degli Apostoli e la prima predicazione ( kérigma ) si fondano sull’avvenimento sconvolgente della risurrezione di Gesù Cristo. La più antica testimonianza del Nuovo Testamento è quella di San Paolo, riportata nella prima Lettera ai Corinzi, scritta negli anni 56/57 d.C. ma formulata dalla Chiesa primitiva molti anni prima e ricevuta da Paolo stesso forse già al momento della sua conversione nel 36 d.C. Vi è riportato un elenco di apparizioni, senza narrarne alcuna.

 

Vi rendo noto, fratelli, il Vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale state saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l’ho annunziato. Altrimenti avreste creduto invano! Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli Apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me… Pertanto, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto”( 1 Cor. 15,1-11 ).

 

La risurrezione degli uomini

 

La risurrezione di Gesù riguarda anzitutto la sua persona, il suo “Io” che entrando nella dimensione di Dio ne esce glorificato, spiritualizzato, completato. Ma da questo fatto riceve luce e significato tutta la sua vita terrena, la causa per cui è vissuto ed è morto. La sua risurrezione, perciò, è anche un fatto salvifico per noi, è un Vangelo, un lieto annuncio per l’umanità.

E’ così infatti che si esprime San Pietro nel suo discorso agli abitanti di Gerusalemme il giorno di Pentecoste: “ Uomini di Israele…Gesù di Nazaret…uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni…voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Questo Gesù Dio l’ha risuscitato dai morti e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che Egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire…Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso” ( At 2,22-23.32-34.36 ).

 

Qui occorre fare una precisazione. L’evento pasquale nella sua globalità comprende non solo la risurrezione, ma anche l’Ascensione al cielo, cioè l’intronizzazione di Gesù alla destra di Dio Padre, e la Pentecoste, cioè l’effusione dello Spirito Santo sugli Apostoli. Anche se l’Evangelista San Luca per ragioni liturgiche distribuisce questi avvenimenti nell’arco di cinquanta giorni, essi sono aspetti particolari dell’unico evento salvifico della risurrezione. Del resto l’Evangelista San Giovanni fa concludere tutto il giorno di Pasqua.

 

La risurrezione di Gesù e la sua intronizzazione rappresentano il riconoscimento ufficiale da parte di Dio Padre che Gesù è il Cristo (= Messia ), non solo, ma anche il Signore, cioè condivide con Dio Padre la vita divina e la gloria ed ha il potere di effondere lo Spirito Santo e di giudicare le genti nell’ultimo giorno.

 

La risurrezione di Gesù come fatto salvifico per noi è il fondamento della nostra fede nella risurrezione di tutti gli uomini nell’ultimo giorno. Il messaggio che ci viene dalla Pasqua è essenzialmente questo: “ Il Crocifisso vive per l’eternità presso Dio, come impegno e speranza per noi… La vita nuova ed eterna dell’Uno è stimolo e speranza reale per tutti”.

 

Questa affermazione della connessione essenziale tra la risurrezione di Cristo e la risurrezione degli uomini appartiene al patrimonio della fede cristiana fin dalle origini. Il più vigoroso assertore ne è San Paolo. “Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede…E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini” ( 1 Cor 15,12-19 ). Perciò San Paolo definisce Gesù: La primizia dei morti ( 1 Cor 15,20 ), il primogenito di coloro che risuscitano dai morti” ( Col 1,18; cfr Ap 1,5 ).

 

Certo la nostra mente a questo punto è portata a pensare: “Troppo bello per essere vero!”. Allora sarà utile fare un’altra considerazione: tutto ciò che esiste è stato tratto dal nulla dalla potenza, sapienza e bontà infinita di Dio. La nostra stessa vita è un dono gratuito di Dio! La fede nella risurrezione dei morti è una radicalizzazione della fede nel Dio creatore. “Chi comincia il suo Credo con la fede in un Dio Creatore onnipotente, può tranquillamente concluderlo con la fede nella vita eterna. Il Creatore onnipotente che dal non essere chiama all’essere, è anche in grado di chiamare dalla morte alla vita”.

 

I cristiani sono risorti con Cristo

 

La caratteristica dei cristiani non è semplicemente la fede in Dio, ma la fede nel Dio che ha risuscitato dai morti Gesù Cristo. Questa fede, unita ai Sacramenti della iniziazione cristiana ( Battesimo – Cresima – Eucaristia ), configura il cristiano al Cristo risorto, già fin d’ora, sul piano oggettivo, in maniera spirituale, misteriosa, ma reale ( mistica ), come anticipazione nel tempo presente di quella partecipazione piena alla gloria del Cristo risorto che avverrà alla fine dei tempi.

 

Questa è la fede della Chiesa apostolica, che troviamo splendidamente esposta nelle Lettere di San Paolo. Per la precisione, il mistero pasquale del Cristo è di morte e risurrezione e così anche la nostra partecipazione. Siccome però la novità appare più evidente nel risultato finale, allora si accentua la configurazione con il Cristo risorto. Citiamo un passo significativo della Lettera ai Romani: “O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del Battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a Lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” ( Rom 6,4 ). Il battezzato, risorto con Cristo, è una nuova creatura, un uomo nuovo, membro dell’unico Corpo di Cristo animato dall’unico Spirito, cioè la Chiesa di Cristo ( 6 ).

 

Sul piano operativo i cristiani manifestano di essere dei risorti in Cristo modellando la propria vita su quella di Gesù. “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con Lui nella gloria”( Col 3,1-4 ).

Dalle apparizioni del Cristo risorto la Chiesa riceve la vocazione alla missione, il mandato di continuare nel mondo l’opera redentrice iniziata da Gesù ( Gv 20,19-23; Mt 28,18-20; Mc 16,15-18; At 1,8 ). Essa è il popolo messianico che partecipa dell’ ufficio sacerdotale, profetico e regale del Messia (= Cristo ). Gode di molti carismi dello Spirito Santo per il bene unitario dell’intero organismo, il Corpo di Cristo e per portare la salvezza a tutte le genti.

 

L’attesa della parusia

 

Le comunità cristiane postpasquali hanno visto in Gesù risorto il Messia ( di qui il titolo di Cristo ) che portava a compimento la profezia di Daniele 7,13 ss. Non per nulla le dichiarazioni sul ritorno sono messe in bocca proprio a Lui e riprendono tutte le figure del Figlio dell’uomo che verrà sulle nubi ( Mc 13,18 e paralleli ). Come Figlio dell’uomo, ma seduto alla destra di Dio ( = Signore ), Gesù concluderà lo svolgimento della vicenda umana e si imporrà anche ai suoi avversari.

 

L’attesa della venuta del Signore glorioso si esprime nella acclamazione liturgica MARANA’ THA , Signore, vieni! ( 1 Cor 16, 22; Cfr Ap 22,20 ).

All’inizio l’avvento del Signore risorto era creduto imminente. San Paolo pensa di essere ancora in vita quando verrà il Signore a portare a compimento la vittoria sulla morte ( 1 Tess 4,17; cfr 1 Cor 15,51-52 ). Talvolta l’attesa ansiosa e spasmodica dava luogo a disordini, episodi di fanatismo e abbandono del lavoro ( 2 Tess 3,10-12 ). Per cui l’Apostolo deve intervenire per esortare i cristiani a una vita attiva e pacifica. Però Paolo dichiara con profonda convinzione la provvisorietà di tutte le cose: il tempo si è fatto breve, per cui non vale più la pena di sposarsi o impegnarsi negli affari ( 1 Cor 7,29-31 ).

 

Pian piano si assume un atteggiamento più sereno, di vigilanza nella preghiera, nell’astensione dal male ( Lc 21,34-36; cfr 17,26-30 ) e nell’attività a servizio dei fratelli, come il servo di famiglia in attesa del padrone che tarda a venire ( Lc 12,35 ss ). San Giovanni nel suo Vangelo introduce una novità di rilievo. Egli pone in risalto la presenza attuale del Cristo risorto nella comunità cristiana mediante il suo Spirito, definito l’altro Consolatore ( Gv 14,16 ) (mentre era in vita era Gesù il Consolatore dei suoi discepoli ). Lo Spirito Santo ci conferisce la capacità di conoscere Dio mediante il dono della fede, di amarlo sopra ogni cosa e di testimoniare l’amore fraterno fino a dare la vita per gli altri come ha fatto Gesù ( Gv 14,15-25 ). Egli è il conferitore di tutti i doni o carismi che noi possediamo per il bene del Corpo di Cristo che è la Chiesa, compreso il carisma della cura dei malati e il dono delle guarigioni ( 1 Cor 12,4-11).

 

In altre parole, San Giovanni mette in rilievo quello che Gesù ha “già” attuato con la sua passione-morte-risurrezione ed effusione dello Spirito Santo, cominciata sulla croce e completata il giorno di Pasqua. E’ come se la parusia ( avvento finale del Cristo glorioso ) fosse già in qualche modo attuata. Ora è il giudizio di questo mondo ( Gv 16,11 ); la vita eterna comincia qui ( Gv 5,24 ) e si manifesta nei gesti di bontà che il cristiano compie animato dallo spirito dell’amore.

Tutto questo viene affermato senza togliere nulla alla venuta finale del Signore, come viene detto molto bene nell’Apocalisse, un libro di consolazione indirizzato ai cristiani perseguitati: alla fine Cristo vendicherà il sangue dei martiri con il giudizio di condanna dei malvagi e la premiazione dei giusti ( Ap 11,15 ss; 12,10 ss; 15,3 ss; 19,6 ss). La Gerusalemme celeste è piena di luce e di gioia, “ non ci sarà più la morte, nè lutto, nè affanno, perchè le cose di prima sono passate”( Ap 21,4; 22,4-5 ).

 

Nell’attesa che tutto ciò si compia, bisogna armarsi di pazienza ( Ap 6,10-11 ). Il Signore è fedele alla sue promesse e “verrà presto”, perciò la Chiesa continua a pregare con fiducia: “Vieni, Signore Gesù” ( Ap 22,20 ).

Concludiamo con una citazione di San Paolo, che sottolinea il compito di noi cristiani che proprio perché consolati da Dio, dobbiamo farci consolatori dei fratelli in nome di Dio. “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio” ( 2 Cor 1,3-4 ).

 

FATEBENEFRATELLI = CONSOLATORI

 

La Spiritualità dei Fatebenefratelli si può trovare concentrata in queste parole di San Paolo: “ Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perchè possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio” (2 Cor 1,3-4).

 

Come Istituto religioso di vita mista, non corre il rischio come il monachesimo, nato da una diffusa spiritualità di fuga dal mondo, di pensare solo alle cose dello spirito e trascurare i bisogni dei poveri. La spiritualità dei Fatebenefratelli non è assolutamente alienante: non si limita a pregare per i malati, o a organizzare pellegrinaggi ai santuari della Madonna o di Sant’Antonio o di San Riccardo, ecc. per ottenere miracoli.

 

Il voto di ospitalità ci impegna qui e adesso alla cura e all’assistenza dei malati e dei bisognosi, anche con rischio della vita. La spiritualità dei F.B.F. nasce dalla teologia della creazione e dell’Incarnazione, ben illustrata dal Concilio Vat. II, impegna alla trasformazione del mondo, quindi all’azione concreta per la cura e l’assistenza dei malati, alla lotta contro ogni forma di sofferenza che opprime l’umanità, a imitazione di Cristo e di San Giovanni di Dio ( C 21 ).

 

Il Fatebenefratello è chiamato a fare una sintesi della vita contemplativa e della missione caritativa, sull’esempio di San Giovanni di Dio, il quale “visse in perfetta unità l’amore a Dio e al prossimo” ( C 1,1 ). Si rifà allo spirito originario del cristianesimo, che con grande stupore dei pagani, a differenza di tutte le altre religioni che si rivolgevano esclusivamente ai sani, si occupava seriamente dei malati e dei bisognosi sull’esempio di Gesù, al punto che pian piano si è coniata tra i cristiani la definizione di Gesù come medico delle anime e dei corpi ( 8 ).

 

I malati, ai quali è rivolta la nostra missione in forza del carisma dell’0spitalità, sono delle persone che attraversano una fase della vita segnata dalla sofferenza, che sovente non è solo fisica ma anche psicologica, e minaccia di far crollare ogni speranza per il futuro. E’ la persona che con la malattia entra in crisi esistenziale, come Giobbe sul letamaio, abbandonato da tutti, anche dai propri cari. “Lo stato di malattia è accompagnato da intensi sentimenti di ansia diffusa, di insicurezza emotiva e di perdita di sicurezza sociale” ( 9 ).

 

Si consola curando

 

La consolazione consiste anzitutto – questo è evidente – nel restituire la salute al malato. Quindi i nostri Centri devono essere continuamente aggiornati in modo da rispondere sempre a questa esigenza fondamentale. I religiosi e il personale medico e infermieristico devono continuamente aggiornarsi professionalmente. Le strutture, le apparecchiature tecniche, ecc. vanno continuamente rinnovate.

 

Si consola con la comprensione

 

Ma il malato non è un “caso” clinico, è una persona umana, che per di più soffre e spesso nasconde in sè un dramma. Anche di questo dobbiamo farci carico, non solo il Cappellano, ma tutti, religiosi e laici, operatori sanitari e volontari che accostano i malati. Negli ospedali moderni malati di elefantiasi e di supertecnicismo il problema numero uno è quello della umanizzazione. “L’infermiere non è un metalmeccanico” ha cominciato a predicare il sottoscritto ancora negli anni ‘60. “Più cuore in quelle mani” diceva San Camillo e questo motto è ripreso da P. Pierluigi Marchesi come titolo di un articolo significativo appena pubblicato ( 10 ). Ma il problema dell’umanizzazione è stato trattato a fondo dal medesimo Padre quando era Generale dei Fatebenefratelli nel libretto:Ospitalità verso il 2.000.

 

Si consola con la speranza cristiana

 

Se l’umanizzazione deve essere l’obbiettivo di tutti, ai cristiani e ai religiosi viene chiesto qualcosa di più: l’evangelizzazione del mondo della sanità.

La recente esortazione apostolica “Vita consecrata” ricorda ai religiosi e alle persone consacrate “che fa parte della loro missione evangelizzare gli ambienti sanitari in cui lavorano, cercando di illuminare, attraverso la comunicazione del valori evangelici, il modo di vivere, soffrire e morire degli uomini del nostro tempo” ( 83,3 ). Già prima le Costituzioni dell’Ordine ospedaliero avevano recepito questo principio. “Perciò viviamo la nostra assistenza agli ammalati e il nostro servizio a favore dei bisognosi, come annuncio e segno della vita nuova ed eterna conquistata dalla redenzione di Cristo” ( C 21,2 ). E ancora meglio: “Nell’ambiente tecnicizzato e consumista della società moderna, nel quale si scoprono ogni giorno nuove forme di emarginazione e di sofferenza…noi siamo chiamati: – a realizzare la nostra missione con atteggiamenti e modi umanizzanti; – a proclamare, come Gesù, che i deboli e gli emarginati sono i nostri prediletti; – a vivere il nostro servizio come espressione del valore escatologico della vita umana”( C 44 ).

 

Ma noi Fatebenefratelli da diversi anni parliamo di nuova ospitalità per una nuova evangelizzazione. E in questo compito ci sforziamo di coinvolgere anche i nostri collaboratori laici credenti e praticanti, che condividono con noi il carisma dell’ospitalità secondo lo stile di San Giovanni di Dio. Per meglio raggiungere questo scopo sono stati istituiti dei corsi di pastorale sanitaria aperti ai collaboratori laici maggiormente sensibili ai valori dello spirito.

 

Il compito dei Fatebenefratelli e degli operatori della pastorale sanitaria è paragonabile a quello dei profeti: parlare in nome di Dio, tenere accesa la speranza anche nei momenti più duri, pensare a quello che ha fatto Cristo per noi, alla sua salvezza percepibile già ora nella nostra vita e alla salvezza eterna che Egli ha preparato per noi al termine della nostra vita terrena ( C 44 ).

 

Questo compito è certamente difficile, ma non mancano gli aiuti per impararlo. “La consolazione non è nè semplice ( poche parole convenzionali ) nè facile: è un’arte che s’impara alla scuola della vita propria ed altrui. E, come tale, è un vero mosaico, composto da tante e svariate tessere: silenzio, ascolto, rispetto, sentimento e tenerezza, attesa, sguardi, gesti… La possiamo esprimere ai malati infondendo speranza, illuminando l’interiore, facilitando una verifica, scuotendo a tempo opportuno, proponendo un cammino, pregando con formule o spontaneità”( 11 ).

 

NOTE

 

1 – G.Cionchi, Studiare Religione, vol. I , Ed. Elledici, Leuman ( Torino ), pag. 31.

2 – Id. pag. 104.

3 – H.Kueng, Essere cristiani, Mondadori, 1976, pagg.241-247.

4 – Id. pagg.297-298.

5 – Id. pag. 258.

6 – Id. pag.259

7 – AA.VV. Dossier: Celebrare l’ Avvento del Signore per essere servi della speranza, in: SERVIZIO DELLA PAROLA n. 233, 1991, Queriniana, Brescia, pagg. 5-62.

8 – J.C. Larchet, Teologia della malattia, Queriniana, Brescia, 1993, pagg.73-75.

9 – P.M. Zulehner, TEOLOGIA PASTORALE vol. III, Capitolo secondo:

La malattia, pag. 63. Tutto il capitolo è interessante: pagg.59-86.

10 – P. Marchesi, Più cuore in quelle mani, in: INSIEME PER SERVIRE n. 31, Genn/Mar 1997, pagg. 35-47.

11 – L. Di Taranto, “Consolare gli afflitti”: modelli a confronto, in: INSIEME PER

SERVIRE, n. 31, Genn/Mar 1997, pagg.17-33. Il passo citato è a pag. 30.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

 

H.Kueng, Essere cristiani, Mondadori, 1976

E.Charpentier, Cristo è risorto, Gribaudi, Torino

W.Burghardt, Invecchiamento, sofferenza e morte, in CONCILIUM, 3 / 1991, La terza età, pagg. 92 ss.

J.C.Larchet, Teologia della malattia, Queriniana, Brescia, 1993

P.M. Zulehner, TEOLOGIA PASTORALE, vol. III, Capotolo secondo: La malattia, pagg. 59 – 86

AA.VV. Dossier: Celebrare l’Avvento del Signore per essere servi della speranza, in: SERVIZIO DELLE PAROLA n. 233 / 1991, Queriniana, Brescia, pagg. 5 – 62

11 – PADRE NOSTRO – IL FASCINO DEL MALE – Luca Beato oh

XI

IL FASCINO DEL MALE

( E non c’indurre in tentazione, ma liberaci dal male )

“Il fascino del male” è il titolo della Rivista CONCILIUM n. 1 del 1998 edito dalla Casa Editrice Queriniana di Brescia. Il male ha un enorme fascino, nel senso etimologico del termine: ci incanta, ci strega. San Paolo esprime bene questa realtà drammatica dell’uomo. Vedo il bene, lo approvo e poi non lo faccio. Vedo il male, lo disapprovo e poi invece lo faccio. Chi mi libererà da questo corpo di morte? ( Cfr. Rom 14,25 ).

Noi abbiamo assistito recentemente a un fatto eccezionale nella storia della Chiesa: Domenica 12 Marzo 2000 il Papa ha chiesto perdono al mondo intero per i peccati della Chiesa contro l’umanità. Egli ne ha enucleati sette, ma si tratta solo di una indicazione che non pretende di esaurirli tutti. Eccone comunque l’elenco.

  1. Deviazioni dal Vangelo. Confessione dei peccati in generale: purificare la memoria e impegnarsi in un cammino di conversione.

  2. Crociate e inquisizione. Peccati commessi nel servizio della verità: intolleranza e violenza contro i dissidenti, guerre di religione, violenze e soprusi nelle crociate, metodi coattivi nell’inquisizione.

  3. Divisioni tra cristiani. Peccati che hanno compromesso l’unità del Corpo di Cristo: scomuniche, persecuzioni, divisioni.

  4. Persecuzioni degli ebrei. Peccati commessi nell’ambito del rapporto con il Popolo della prima alleanza, Israele: disprezzo, atti di ostilità, silenzi anche durante la Shoah voluta dai nazisti.

  5. Conversioni forzate. Peccati contro l’amore, la pace, i diritti dei popoli, il rispetto delle culture e delle altre religioni, in concomitanza con l’evangelizzazione: anche durante la conquista delle Americhe.

  6. Maschilismo e schiavismo. Peccati contro la dignità umana e l’unità del genere umano: verso le donne, le razze, le etnie.

  7. Ingiustizie sociali. Peccati nel campo dei diritti fondamentali della persona e contro la giustizia sociale: gli ultimi, i poveri, i nascituri, ingiustizie economiche e sociali, emarginazione ( CORRIERE DELLA SERA, Merc. 8 Marzo 2000, pag. 5. Per un approccio teologico cfr. TESTIMONI, Ed. EDB, Bologna, n. 6, 30 Marzo 2000, pagg.7-10 ).

Questi peccati ( ed altri non elencati, ad es. Condanna del Modernismo ) hanno un comune denominatore: la violenza, cioè la violazione dei diritti umani: guerre di religione, conversioni forzate, crociate, rogo per le streghe e gli eretici, schiavismo, razzismo, antisemitismo, inquisizione, oppressione delle coscienze, oscurantismo, ricatto morale.

Eppure quando queste cose sono state fatte nel passato, quelli che le hanno fatte credevano di fare delle cose giuste, che fosse loro diritto e dovere esercitare il potere a fin di bene: per la gloria di Dio e per la salvezza delle anime. E’ la sottile tentazione del potere, che, se non stai attento, ti strega e ti acceca così da scambiare il male per il bene e il bene per il male, come già a suo tempo diceva il profeta Isaia ( Is 5,20 ); ti fa credere di vedere, mentre sei cieco, come diceva Gesù alle autorità del suo tempo ( Gv 9, 41 ).

Le tentazioni di Gesù

Gesù viene presentato nei Vangeli sinottici come colui che sa resistere alle tentazioni, a differenza del popolo ebreo nel deserto, che invece aveva tentato Dio, mancando di fiducia e pretendendo dei miracoli. “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?” (Es 17,7 ). Nello stesso tempo Gesù diventa modello per noi cristiani come singoli e come chiesa. Matteo ha sempre davanti i problemi della chiesa del suo tempo. Le tentazioni di Gesù sono le tentazioni della Chiesa. Gesù le ha superate ma la chiesa ne è ancora soggetta.

Le tentazioni di Gesù sono messianiche, riguardano la sua missione.

Si rifanno al passato: Israele nel deserto, che non le ha superate.

Fanno riferimento alla Chiesa perché le superi, come Gesù.

Tentazioni del popolo ebreo nel deserto

1 – pane: eccessiva preoccupazione, mancanza di fede: La fame di Dio è più importante di tutto il resto.” Non di solo pane vive l’uomo…”

2 – Massa e Meriba: “C’è Dio in mezzo a noi oppure no?”. E’ volere il miracolo a tutti i costi.

3 – Mosè sul monte vede la Terra promessa. La terra come possesso, non come dono di Dio.

Adora il Signore Dio tuo…” ( Bernhard Haering, Perché non fare diversamente?, Brescia, Queriniana, 1993, pagg. 21-28 ).

Ma per non correre il rischio di false interpretazioni, ci affidiamo alla spiegazione del famoso biblista Gianfranco Ravasi ( Secondo le scritture, anno A, Ed. Piemme, 1992, pagg. 63-65 ).

«Il tentatore si accostò a Gesù e gli disse: Se sei Figlio di Dio, di’ che questi sassi diventino

pane. Ma egli rispose: Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.

Il diavolo lo condusse sul pinnacolo del Tempio e gli disse: Se sei Figlio di Dio, gettati giù…

Gesù gli rispose: Sta scritto: Non tentare il Signore Dio tuo.

Il diavolo lo condusse su un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e gli disse:

Tutte queste cose ti darò se, prostrandoti, mi adorerai. Gesù gli rispose: Sta scritto: Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto!» (Mt 4,1-11).

Il racconto delle tentazioni di Gesù è costruito da Matteo su uno spartito che sopra abbiamo cercato di mettere in luce nei suoi movimenti fondamentali: c’è una triplice tentazione diabolica a cui risponde, in contrappunto, una triplice citazione della Bibbia da parte di Gesù («Sta scritto»). Le tre scene risultanti sono accompagnate da due quinte scenografiche. La prima è nel fondale ed è il deserto che evoca allusivamente la crisi di fede di Israele pellegrino nelle steppe del Sinai. La seconda è, invece, quella dell’orizzonte palestinese, la terra promessa col «pinnacolo» ( che è lo spigolo più alto delle mura del Tempio, a strapiombo sulla valle del Cedron ) e col «monte altissimo» che la tradizione popolare ha identificato col Monte della Quarantena che incombe sulla stupenda oasi di Gerico, simbolo di prosperità e di splendore. Con questa «sceneggiatura» appare già un tema caro a Matteo: in Gesù si raccoglie il vero Israele fedele che non cede ai progetti diabolici di potenza e di trionfo. Il tentatore, infatti, fa balenare davanti al Cristo e al suo discepolo tre forme di messianismo e, se si vuole, di religiosità. La prima tentazione, quella delle pietre che diventano pani, potremmo definirla terrenista, legata alla materialità delle cose.

Certo, Cristo è stato spesso dolorosamente colpito dalla fame del mondo. Prima della moltiplicazione dei pani egli si commuove davanti alla folla degli affamati di allora e diogni tempo (Mc 6, 34). Ma, dopo averli sfamati, appena si accorge che lo scambiano per un capo di stato ideale, «sapendo che lo volevano fare re, si ritira subito sulla montagna, tutto solo» (Gv 6, 15).

La seconda forma di messianismo simboleggiata dal tentatore nel volo dal Pinnacolo potremmo definirla taumaturgica. E’ quella di una religione magica, pubblicitaria, da stella dello spettacolo sacro. Essa umilia la vera fede che, pur non essendo assurda, è rischio, è libertà, è un fidarsi della Parola divina. Gesù e Paolo al riguardo sono inesorabili: «Questa generazione adultera e perversa cerca un segno, ma nessun segno le sarà dato», si legge in Mt 16, 4, mentre nella Prima Lettera ai Corinzi Paolo scrive: «I giudei chiedono miracoli, i greci cercano la sapienza, noi proclamiamo Cristo crocifisso» (1, 22-23).

Ed ecco in crescendo la tentazione più forte, quella del messianismo politico. E’ la religione del potere e del benessere, un’ idolatria implacabile che dal suo fedele esige una totalità assoluta in dedizione, simile a quella che lega il fedele autentico al Dio vivo e vero: «Non potete servire a Dio e a mammona. O odierai l’uno e amerai l’altro o ti affezionerai all’uno e disprezzerai l’altro» (Lc 16, 13). Gesù non si compromette col potere politico, il suo non è un progetto di dominio e di possesso ma di amore e di donazione.

La «tentazione dei pani» si risolve, allora, nell’adesione al progetto di Dio che è più grande dei sistemi economico-sociali. La «tentazione del Tempio» si risolve nel rifiuto della pseudo-religione che, anziché servire Dio, pretende di servirsi di Dio. La «tentazione del monte» si risolve nel rifiuto del potere oppressivo ed egoistico e nell’adesione all’unica signoria, quella di Dio. Ora, Gesù replica alle tre sfide di Satana con un’unica arma, quella della Parola di Dio. Non usa nessuna parola sua ma solo quella «scritta» nella Bibbia. Anche il cristiano, che cammina nella foresta dantesca della vita, popolata dalle provocazioni sottili o plateali del benessere, del successo e del potere, deve avere come guida la Parola di Dio che è «come fuoco che brucia e come martello che spacca la roccia» del male (Ger 23, 29)”.

Bernhard Haering, grande moralista, spiega le tre tentazioni che Gesù ha superato, con chiaro riferimento alla Chiesa, che invece sovente non è riuscita a superarle.

Gesù ha superato le tre tentazioni come progetto subito dopo il Battesimo, inteso come consacrazione a Dio per la missione messianica, da svolgere non con la potenza e la gloria, ma con la non violenza e lo spirito di servizio, come era indicato nei quattro Canti del Servo di JHWH ( Isaia ). ( Cfr. Bernhard Haering, Perchè non fare diversamente?, Queriniana, Brescia 1993, pagg. 20 ss. ).

  1. - La religione come articolo di consumo. Il miracolo come scorciatoia per risolvere il problema dei generi di prima necessità. Chi entra nel Regno di Dio trova la soluzione di questo problema mediante la condivisione dei beni.

  2. - Comportamento sacralizzato pieno di ostentazione e di supponenza, accompagnato da pie massime in luoghi sacri. Gesù ha smascherato questo tipo di religione con il proprio esempio di religiosità vera. Egli gioisce per il fatto che il Padre rivela ai piccoli quanto rimane nascosto ai sapientoni, agli specialisti della religione, che si credono saggi e dotti ( Lc 10,21-22 ). E’ la strumentalizzazione della religione per il proprio tornaconto.

  3. - Religione al servizio del potere: appellarsi al nome di Dio, a idee e posizioni religiose per acquisire così potere sugli altri. La religione al servizio del potere, cioè della schiavizzazione e dello sfruttamento è una tentazione satanica, un inganno diabolico.

Lo stile di vita di Gesù

Le tre tentazioni di Gesù nel deserto, mentre si preparava a cominciare la sua vita pubblica, sono delle anticipazioni di quanto Egli farà effettivamente durante lo svolgimento della sua missione di Messia.

Gesù non ha simpatia per i ricchi, i potenti, le autorità religiose, economiche e politiche del suo tempo. A queste categorie di persone Gesù rivolge una serie di “guai a voi” ( Mt 23, 14-39; Lc 6,9 ). Gesù vuole la Legge a servizio dell’uomo e non l’uomo schiavo della Legge ( Mc 2,27-28 ). Gesù vuole il Tempio come casa di preghiera e non un centro commerciale ( Mc 11,15 ss ). Gesù vuole una Religione che favorisca la fraternità e non fine a se stessa ( Mt 5,23-24 ). Amore di Dio e amore del prossimo devono stare strettamente uniti. Non si può essere religiosi, compiere atti di culto a Dio e poi essere crudeli con gli uomini. La persona umana è al centro delle attenzioni di Gesù. Quindi la sua premura, la sua attenzione, la sua compassione, le Beatitudini sono rivolte a quelli che soffrono. Il popolo semplice e ignorante, i poveri, i bambini maltrattati, le donne oppresse, i malati “oppressi dal diavolo”, i peccatori pubblici scomunicati, esclusi dalla sinagoga e dal Tempio.

Gesù era di condizioni modeste, non aveva titoli di studio. Egli si è circondato di gente semplice. Gli Apostoli erano quasi tutti pescatori: gente semplice e ignorante. Egli ha messo in guardia i suoi discepoli dalla tentazione del potere ed ha insegnato loro con l’esempio e la parola lo spirito di servizio reciproco.

Il discepolato dice dipendenza spirituale verso l’unico Signore e Maestro, Gesù Cristo. Ma i discepoli, tra loro, hanno un rapporto di fraternità che chiama non al potere dell’uno sull’altro, ma al servizio reciproco. La parola più usata per indicare questo servizio è la diaconia, una parola profana che significa in senso stretto il servizio a tavola. E’ a tavola che risalta maggiormente la differenza tra il padrone, che siede a mangiare con gli amici, rivestito di vesti ampie e lunghe, e i servi che si affaccendano in vesti succinte nel servizio della mensa. “Chi tra voi vuol essere grande, sia il vostro servitore a tavola; e chi tra voi vuol essere il primo, sia lo schiavo di tutti ( Mc 10,43 s ).

Questa sentenza ricorre ben sei volte nei Sinottici. Giovanni inoltre la rincara con la narrazione della lavanda dei piedi, fatta da Gesù ai suoi discepoli nell’ultima cena ( Gv 13,1-17 ). Gesù ha compiuto questo gesto per insegnarci che i nostri rapporti vicendevoli devono essere improntati al servizio reciproco, umile, profano, modesto, richiesto dalle situazioni anche banali della vita di ogni giorno. Non era nelle intenzioni di Gesù darci l’indicazione di una cerimonia da farsi in Chiesa una volta l’anno, ma indicarci lo spirito di servizio che deve animare i rapporti interpersonali. Chi poi viene posto in autorità, deve avere uno spirito di servizio maggiore, perché si allargano i confini della sua carità.

Quindi la Chiesa voluta da Gesù non è la Chiesa del “potere sacro”, del “sapere sacro”, della “sacra dignità”, ma la Chiesa del grembiule, la Chiesa del servizio.

Le tentazioni storiche della Chiesa

Purtroppo la storia della Chiesa sta a dimostrare che il popolo di Dio nel suo cammino lungo i secoli spesso non ha saputo imitare il suo Maestro, ma è caduto nella tentazione più allettante ed ammaliante: quella del potere politico-religioso.

Fino al 313 d.C. i cristiani erano una minoranza sparuta nell’ambito dell’impero romano e subivano persecuzioni da parte dello stato pagano. Ma una volta acquistata la libertà, e diventati più numerosi e più forti degli altri, hanno cominciato a perseguitare i più deboli: gli ebrei e i pagani. Ci si aspetterebbe un rimprovero da parte delle autorità religiose, invece Sant’Ambrogio elogia i cristiani che vanno a incendiare le sinagoghe degli ebrei. ( Cfr. CONCILIUM,op. cit. pag. 37 ). E come lui fanno tanti Padri della Chiesa. Questo è solo l’inizio di una spirale di violenza che è andata sempre più sviluppandosi, man mano che aumentava il potere della Chiesa di Roma.

San Bernardo di Clairvaux, da tutti conosciuto come il cantore della Vergine Maria, si rivela sul nostro argomento un fanatico sostenitore della violenza in nome della Religione. Nel libro “A lode dei nuovi soldati” i Templari (1128-1136 ) fa una vera apologia delle Crociate e afferma categoricamente: “Uccidere un nemico per il Cristo è guadagnarlo a Cristo; morire per il Cristo è guadagnare il Cristo per sè”. Quando il soldato di Cristo uccide un malfattore non è un omicida ma un “malicida” e quindi compie un atto altamente meritorio.( AA.VV. Dio, la violenza e la pace, in: SERVIZIO DELLA PAROLA, Queriniana, Brescia n. 304 Gennaio 99 pagg.20-21 ).

I missionari Gesuiti in Brasile applicano alla lettera il testo di Luca 14,23: “Spingili ad entrare”. “Per questo tipo di persone non c’è predica migliore della spada e della verga di ferro” ( CONCILIUM, op. cit. pag. 74 ).

Le popolazioni indigene dell’America erano considerate di razza inferiore ai bianchi conquistatori, per ragioni di natura o di sangue, secondo dati desunti da Aristotele. Gli indios non discenderebbero da Adamo, come i bianchi europei.

L’autorità del Papa in questo tempo è totale, è come Dio in terra. “…nella presunzione di una sovranità vera e propria di ordine economico-politico…Alessandro VI assegnerà ai re di Spagna, per mano di Colombo, tutte le isole trovate o da trovare, scoperte o da scoprire con tutti i loro domini, città, castelli, luoghi e ville, giurisdizioni e pertinenze” e a Colombo darà il compito di indurre queste popolazioni alla professione della fede cattolica ( Ernesto Balducci, Il razzismo nella storia, in: RELIGIONE e SCUOLA, Ed. Queriniana, Brescia, n. 3 , Nov.1990, pag. 31 ).

Come mai è penetrata nel cristianesimo la sete del potere, del dominio, dello sfruttamento? come mai la Chiesa ha finito per organizzarsi in una maniera totalmente opposta all’insegnamento di Gesù e alla prassi della chiesa primitiva? quali strumenti ha adoperato, quali giustificazioni ha portato?

Il modello è quello della società civile dell’impero romano, dove l’autorità dell’imperatore veniva divinizzata. Le giustificazioni bibliche vanno cercate nell’Antico Testamento, dove vigeva quel sistema politico-religioso che va sotto il nome di Teocrazia. Gesù aveva fortemente criticato quel sistema, facendo eco alle voci dei profeti. Questo è stato uno dei capi di accusa che hanno portato Gesù sulla croce.

Quanto al metodo, siccome si tratta di cose giuridiche, per cui vale il principio: “Il diritto sta scritto”, ogni tanto si fanno scoprire nelle biblioteche dei testi giuridici, attribuiti a gente importante del passato, che creano un qualche diritto nuovo. La critica posteriore ha scoperto che si tratta di falsi storici ( Lorenzo Valla, sec. XV ). Ma intanto sono serviti allo scopo di fondare un nuovo diritto.

Lo Pseudo-Dionigi ( sec.VI ) crea la Chiesa gerarchica del Clero in contrapposizione al popolo. ( H. Kueng. Cristianesimo, Essenza e storia, Ed. Rizzoli, 1997, pag.322. Ivi si parla anche di “falsificazioni simmachiane”: prima sedes a nemine iudicatur: il Papa non può essere giudicato da nessuno ).

La “donatio Constantini” ( sec. VIII ) crea il diritto al potere temporale del Papato. ( Id. pag. 352 ). Il Papa Zaccaria consacra re Pipino il breve “gratia Dei” e questi trasforma la falsa donazione di Costantino ( 756 ) in donazione di Pipino.

Le decretali pseudo-Isidoriane ( sec. IX ) rafforzano il potere dei Vescovi e per conseguenza quello del Papa ( Id. pagg. 363-372. Di queste cose si è occupato il XVI Congresso internazionale delle scienze storiche, Stoccarda 1985: dove è emerso chiaramente l’intento di rafforzare sempre più il potere di Roma con qualsiasi mezzo, anche illecito, pag. 369 ).

Siamo al tempo della creazione del Sacro Romano Impero con Carlo Magno, incoronato imperatore dal Papa Leone III nel Natale dell’800, che rappresenta l’affermazione della superiorità di Roma sulla Chiesa d’Oriente, legata all’impero romano d’Oriente che ancora esisteva ( Id. pag. 353 ).

Con Nicolò I ( 858-867 ) mediante i falsi storici su indicati si afferma l’autorità assoluta e suprema del Papa, che la riceve da direttamente da Dio e ne comunica una parte all’Imperatore. Il Papa nomina i Vescovi conferendo l’investitura del Feudo ecclesiastico e questi nominano i preti dando loro la Parrocchia. L’imperatore concede i feudi con l’investitura laica a Vassalli, Valvassori e Valvassini. E’ la società feudale, dove l’autorità piove dall’alto; il criterio di scelta è la fedeltà, sotto giuramento. Il metodo di governo è l’imposizione. Su questa linea si organizza la famiglia e tutta l’educazione della gioventù a casa e a scuola.

Questa mentalità di violenza e di dominio è rimasta intatta, a tutti i livelli, nella società civile fino alla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo ( 1948 ) e nella Chiesa fino al Concilio Vaticano II (1961-1964 ). Nel mio soggiorno a Milano negli anni 60, subito dopo il Concilio, ho fatto a tempo a conoscere un vecchio esponente della lotta di piazza dei giovani cattolici contro gli anticlericali all’inizio del nostro secolo. Era soprannominato “Trovamala”, il che è molto significativo. Si gloriava, tra l’altro, di essere andato a fischiare la prima della Butterfly di Puccini alla Scala di Milano e di averla fatta cadere, perché esaltava il suicidio.

Veramente il nostro Papa nel suo recente viaggio in Egitto ha compiuto un gesto di coraggio profetico, dopo quello di Papa Paolo VI, quando rinunciò alla Tiara, simbolo del potere temporale, alla chiusura del Concilio. Ai rappresentanti della Chiesa Copta egiziana e di quella Ortodossa d’Oriente ha dichiarato che, se per l’unità delle Chiese occorre mettere in discussione l’autorità del Papato, egli è disposto a farlo radunando a questo scopo teologi e vescovi rappresentanti delle varie chiese. L’unità della Chiesa universale non si fa nella sottomissione a Roma, ma nella comunione della varie chiese sorelle. E’ la chiesa come comunione fortemente voluta dal Concilio Vaticano II, altrimenti detto principio della collegialità nell’esercizio dell’autorità. Il Papa ora ha accanto a sè il Sinodo dei Vescovi; i Vescovi hanno il consiglio pastorale e il consiglio presbiterale; i parroci hanno il consiglio pastorale e la commissione dei beni economici. Certo il cammino è ancora lungo, ma è stata imbroccata la via giusta e si sono fatti anche dei passi importanti, che fanno ben sperare per il futuro.

Quando parliamo dei peccati della Chiesa, di richieste di perdono, di necessità di conversione, di abbandono della mentalità di violenza, non pensiamo sempre agli altri, o alla Curia di Roma, ma a noi stessi: ognuno di noi deve diventare mite e umile di cuore come Gesù, non violento, tollerante, paziente come il Servo di YHWH.

La quarta tentazione di Gesù

L’ultima tentazione di Gesù, non è quella inventata da Scorzese nel film che porta questo titolo, cioè la tentazione del sesso. Ma è la tentazione di Gesù nell’Orto del Getsemani, quella di evitare l’insuccesso, l’umiliazione, la passione e la morte di croce. E’ la paura di essere abbandonati da Dio ( Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ). Gesù ha vinto anche questa tentazione. ( Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu. Mc 14,36 ) Egli ha affrontato la condanna a morte perdonando ai suoi crocifissori ( Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno Lc 23,34 ) e mantenendo la piena fiducia nel Padre suo ( Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito Lc 23,46 ).

“Gesù non è solo il Messia tentato, ma passa attraverso la tentazione del Messia. Si tratta della tentazione a pensare la sua missione secondo le attese predisposte in antecedenza allo svolgersi effettivo degli eventi pasquali, si tratta di vivere la propria missione secondo una logica di potenza che non lascia nelle mani di Dio la propria missione e il proprio destino. Per questo vanno segnalati i tre luoghi dove appare quest’ultima tentazione: essa è quella decisiva.

A metà del cammino verso Gerusalemme la tentazione di Pietro: il rimprovero a Gesù del primo apostolo dopo la confessione di Cesarea ( Mc 8,31-33; Mt 16,21-23 ) viene bollato con le stesse parole rivolte al diavolo: «Va’ via, dietro a me, satana! ». Si tratta della tentazione di pensare lo stile della missione di Gesù, non secondo Dio, ma secondo le attese umane, di prefigurarla secondo uno schema di potenza.

Poi al Getsemani ( Mc 14,32-42; Mt 26,36-46; Lc 22,39-46) Lc stesso presenta l’episodio incorniciandolo entro una duplice esortazione: «Pregate (Levatevi) per non entrare in tentazione» (vv. 40b. 46b.).

Similmente la sfida e lo scherno davanti alla croce ( Mc 15,29-32; Mt 27,39-44; Lc 23,35b-39) riprendono alla fine della missione di Gesù le tentazioni dell’inizio: «Ha salvato altri, salvi se stesso se è il Cristo di Dio, l’eletto» (Lc 23,35; «se sei Figlio di Dio» Mt 27,40). Il Cristo, il figlio di Dio deve salvare se stesso: questa è la suprema tentazione, questo è il nostro desiderio, questa è la lotta che gli uomini sotto il potere del principe di questo mondo ingaggiano dinanzi alla rivelazione della morte di croce. Gesù, però, non fa valere se stesso neppure col pretesto di essere il rappresentante ultimo della verità di Dio, ma si affida in radicale abbandono al Padre suo, assumendo e portando persino la violenza ed il rifiuto peccaminoso degli uomini. E’ proprio tale rifiuto che genera la morte di Gesù. E’ come se noi dicessimo: se c’è Dio – in tal modo pensano i capi del popolo, ma forse anche Giuda, e in misura diversa gli altri, la gente, il popolo, le donne, i discepoli, Pietro, noi stessi – non può agire così, non può abbandonare Gesù, deve sostenere la sua pretesa, deve dar ragione a Gesù, deve confermare lo stile della sua missione…

Il rifiuto di Dio si colloca allora nel cuore della sua manifestazione. Noi non vogliamo accettare Dio così come è in se stesso, come si rivela, vogliamo quasi insegnare il mestiere a Dio. Ma questo non pone in crisi il disegno di Dio, non lo mette in difficoltà, così che Dio debba ripensarlo e rifarlo. Dio, attraverso la dedizione di Gesù, abbraccia, perdona, salva dal di dentro il nostro rifiuto e la nostra negazione. Egli non scambia il nostro rifiuto e il nostro peccato con l’innocenza di Gesù, «facendo pagare» a Lui ciò che dovremmo pagare noi. Come è pericoloso questo linguaggio di scambio! Il Padre assume il nostro rifiuto, lo porta su di sè; mandandoci il Figlio, viene Egli stesso come il Padre suo e ci perdona, ci guarisce, ci circonda, ci fascia le ferite, ci raggiunge là a Gerico, dove ci siamo cacciati lontani da Lui, dove lo abbiamo rifiutato perché ci eravamo costruiti una maschera di Dio

La tentazione del Messia

Tutto questo, però, noi lo sappiamo perché Gesù ha superato l’estrema tentazione. Infatti, c’è un momento (oltre ai gesti e ai detti profetici di Gesù) dove questa domanda trova una spiegazione luminosa: è l’ultima cena. Nel contesto di una comunione particolarmente intima con i suoi, Gesù offre la comunione ultima e definitiva al regno di Dio, attraverso il corpo dato e il sangue versato, cioè attraverso la sua persona, proprio quando è prevedibile che egli venga tolto di mezzo in modo violento.

Egli propone un gesto sconvolgente in cui sembra tolto colui che è donato. L’ultima cena allora, prima di lasciarci un gesto in sua memoria, spiega il lato oscuro della croce. Forse proprio qui si ritrova l’abisso ineffabile di come Gesù ha compreso e spiegato la sua morte: il morire di Gesù, e il morire di croce, è il luogo di una dedizione incondizionata di sè, di una solidarietà assoluta che si realizza precisamente nel non far valere che egli è il Messia. Gesù lascia nelle mani di Dio la sua identità, perché sa che Dio è il Padre suo. E offre ai suoi discepoli il modo con cui continueranno ad entrare in comunione con il mistero di Dio, anche se in maniera così oscura. Gesù non fa valere in questo mondo, davanti agli uomini, il suo amore e la sua carità neppure con il pretesto di essere il Figlio unico; lascia tutto nelle mani di Dio e si espone ad essere frainteso e rifiutato dagli uomini.

Il Messia tentato vince la tentazione del Messia. Questo si rivela nell’eucaristia di Gesù: lì c’è un amore senza condizioni, neppure la condizione che sia accolto come l’amore di Dio. Con la morte di croce, prefigurata nel gesto della cena, egli mostra che il Regno di Dio si realizza superando tutti gli schemi, secondo un disegno che solo il Padre conosce. Possiamo così concludere che la tentazione superata alla fine della vicenda di Gesù è forse il cuore della tentazione vinta già nella lotta con satana all’inizio del ministero di Gesù. Questo spiega la scarna notizia di Marco, ma illustra ugualmente il senso della triplice tentazione di Matteo e Luca” ( Fr.G.Brambilla, Il Messia tentato, in: SERVIZIO DELLA PAROLA n. 275, Brescia, Queriniana, Marzo 1996, pagg. 16 – 19 ).

Quanto sia difficile accettare il messia crocifisso, ce lo fa capire San Luca nell’episodio dei discepoli di Emmaus ( Lc 24,25 ss : Schiocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? Cfr. v.46 ).

Sullo sterminio degli Ebrei è stato fato un film dal titolo provocatorio: “ Quel giorno Dio non c’era”. Anche noi di fronte a qualche disgrazia improvvisa e straordinaria diciamo: “ Come è possibile che Dio permetta queste cose?

La redenzione di Cristo non elimina la sofferenza. La forza dell’amore la trasforma. La risurrezione di Cristo non elimina la sua passione e morte, ma le conferisce il suo significato vero, che prima rimaneva nascosto.

La morte di croce di Gesù è scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani, ma per i credenti è potenza e sapienza di Dio ( 1 Cor 1,23 s ). Perciò San Paolo predica il Cristo crocifisso e risorto. Il risorto conserva i segni della passione non solo nelle apparizioni ai discepoli, ma anche presso il Padre celeste per intercedere a nostro favore.

La sorte dei discepoli non può essere diversa da quella del maestro. Anche noi dobbiamo abbracciare la nostra croce quotidiana e seguire Gesù.

Ma le tentazioni sono solo quattro?

Il Vangelo ci parla di queste, perché sono le più eclatanti. Ma ce ne sono altre!

Ricordiamo, per esempio, l’elenco dei vizi capitali:

1 – Superbia, 2 – Avarizia, 3 – Lussuria, 4 – Ira, 5 – Gola, 6 – Invidia, 7 – Accidia.

Noi possiamo diventare schiavi di ciascuno di questi idoli, se non superiamo la nostra vita istintiva, mediante l’uso della ragione per raggiungere la maturità umana e mediante il dono dello Spirito Santo che ci rende nuove creature capaci di vivere da figli di Dio e da fratelli tra di noi.

Gesù Cristo, crocifisso e risorto, che ha vinto per sè e per noi il peccato e la morte, ci conceda lo spirito di fortezza per resistere alle tentazioni, al fascino del male e per seguire Lui, Signore e Maestro, sulla la via della passione e della croce, per potere partecipare alla gloria della risurrezione nel suo Regno eterno.

Non lasciarci cadere nella tentazione, ma liberaci dal male”