10 – PADRE NOSTRO – LA RICONCILIAZIONE FRATERNA – Luca Beato oh

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LA RICONCILIAZIONE FRATERNA

( Rimetti a noi i nostri debiti

come noi li rimettiamo ai nostri debitori )

 

La grazia di Dio

 

Dio è amore infinito, gratuito, creativo, redentivo, sanante, santificante, immortalizzante. L’uomo è colui che riceve tutto da Dio, la vita fisica, la salute, la felicità, la vita dello spirito, la promessa della vita eterna come partecipazione alla vita immortale di Dio stesso. Quello che Dio chiede all’uomo è il riconoscimento di questo rapporto creaturale e filiale nei suoi confronti. L’amore di Dio verso l’uomo, amore di benevolenza infinita, diventa amore di amicizia soltanto quando l’uomo ricambia con il suo amore, elevato al di sopra di tutte le cose del mondo, l’amore di Dio. “Ascolta Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”( Mc 12,29-30 che cita Dt 6,4-5). Questo veniva insegnato anche nell’A.T. e si pensa che queste famose parole del Deuteronomio siano state ispirate dal profeta Osea.

 

Gesù conferma che questo è il primo e il più importante dei comandamenti però vi aggiunge subito il secondo comandamento: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”( Mc 12,30 che cita Lv 19,18 ), aggiungendo: “Non c’è altro comandamento più importante di questi”, come dire che i due comandamenti dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo sono strettamente legati tra di loro da costituire una unità perfetta. Questa è la novità portata da Gesù: non si può pensare di amare Dio se non si amano gli uomini nostri fratelli perché sono anch’essi figli di Dio, oggetto del suo amore paterno.

 

Religione e morale, secondo Gesù, non possono stare disgiunte, come invece avveniva di frequente. Non si può essere graditi a Dio con l’offerta di qualche sacrificio nel Tempio di Gerusalemme, se si hanno dei conti in sospeso con qualche fratello. “Se dunque presenti la tua afferta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono” ( Mt.5,23-24 ).

 

La giustizia migliore predicata da Gesù nel discorso della montagna ha delle esigenze molto forti riguardo all’amore del prossimo. Non basta non uccidere, come impone il comandamento di Mosè; non basta quindi rispettare la vita fisica del prossimo, ma occorre avere un atteggiamento fondamentalmente benevolo verso di lui che ci fa evitare anche quelle parole offensive che facilmente ci escono di bocca quando siamo arrabbiati e che rappresentano una scarica della nostra aggressività nei suoi confronti. “Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna” ( Mt 5,21-22 ).

 

Anche la ricerca della giustizia nei confronti di chi ci fa del male, secondo Gesù non deve basarsi sui codici penali e civili, cioè non si deve rendere male per male ( occhio per occhio e dente per dente ). “…ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuole chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. Da’ a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle” ( Mt 5,38-42 ). E’ la regola della non violenza, del rendere bene per male. E questo comporta la capacità di rinunciare non solo alla vendetta, cioè al farsi giustizia da solo, ma anche al diritto di esigere la giustizia sancita nei codici civili e penali: la pena proporzionata alla colpa o il risarcimento del danno subito.

 

La misericordia deve prevalere sul diritto. “Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia ( Mt 5,7. Cfr.6,14). Non giudicate e non sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati. Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? Ipocrita…”( Mt 7,1ss ).

 

Ma le esigenze della giustizia migliore non si fermano qui. Gesù supera il particolarismo ebraico ed estende i confini dell’amore anche a quelli che non appartengono al popolo ebreo. L’amore del prossimo deve essere esteso anche ai nemici, ai persecutori, a quelli che ci fanno del male, perché Dio ama anche loro e noi dobbiamo essere imitatori di Dio. “…ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” ( Mt 5,45 ; Lc 6,27-38).

 

Il peccato

 

Il misconoscimento del nostro rapporto filiale con Dio e fraterno con gli altri figli di Dio, è il peccato. Ma Dio, che precede sempre l’uomo nell’amore, continua ad amarlo anche quando egli sbaglia allontanandosi da Lui. Dio chiama continuamente l’uomo alla conversione, al ritorno alla sua amicizia. Egli offre continuamente il suo perdono ai peccatori ed ogni volta che uno si converte si fa festa in cielo. Purtroppo, l’uomo può rimanere sordo all’invito di Dio. Questo è il peccato contro lo Spirito Santo ( Mc 3,29 ) quello che Gesù dice essere l’unico veramente imperdonabile da parte di Dio. E’ il rifiuto ostinato del perdono di Dio. Dio ti ha creato senza di te, ma non ti può salvare senza di te ( S. Agostino ).

 

La conversione

 

La predicazione di Gesù, che riguarda l’avvento del Regno di Dio e che esige dall’uomo la fede e la conversione ( Mc 1,14-15 ), si aggancia a quella del Battista e i primi discepoli di Gesù vengono dai seguaci di Giovanni.

L’annuncio del Regno di Dio si colloca in un orizzonte apocalittico, perché la tensione apocalittica giudaica raggiunge il culmine con la predicazione di Giovanni Battista. Egli predica l’avvento di Dio come giudizio per il popolo d’Israele. Per salvarsi non basta essere figli di Abramo e praticare una giustizia legale e formale. Occorre fare una penitenza diversa da quella delle pratiche ascetiche e cultuali. Occorre la conversione del cuore e la consacrazione totale della propria vita a Dio.

 

Caratteristico è il suo Battesimo di penitenza, amministrato una volta sola e offerto a tutto il popolo. Il Battesimo nel Giordano diventa il segno escatologico della purificazione ed elezione in vista dell’imminente giudizio di Dio. Anche Gesù si sottopone al Battesimo di Giovanni. Il fatto, dogmaticamente scomodo, è ritenuto, proprio per questo, veramente storico.

Ma la predicazione di Gesù si differenzia totalmente da quella del Battista per il suo contenuto. Il Regno di Dio predicato da Gesù non è un giudizio tremendo per il popolo, ma una grazia per tutti. Esso si realizza come eliminazione delle forze del male, non solo della malattia, della sofferenza e della morte, ma anche della povertà e dell’oppressione. E’ un messaggio di liberazione per i poveri, i tribolati e coloro su cui grava il peso di una colpa commessa; un messaggio di perdono, di giustizia, di libertà, di fraternità, di amore.

 

Lo sguardo di Gesù non è rivolto al passato, ma al futuro: un futuro migliore per il mondo e per l’uomo. Egli attendeva una radicale e imminente trasformazione della situazione. Credeva, come molti uomini religiosi del suo tempo, in un dominio universale di Dio che, instaurandosi in un futuro non lontano, avrebbe comportato il finale e definitivo compimento del mondo: la sovranità “ escatologica” ( = finale ) di Dio, il Regno di Dio nel tempo finale. Questo avrebbe dovuto succedere durante la sua generazione ( Mc 9,1; 13,30; Mt 10,23 ), mediante la “rivelazione” definitiva di Dio (apocalypsis, apocalisse = rivelazione ).

 

Gesù è stato un rivoluzionario, ma non come i movimenti rivoluzionari del suo tempo. Non fu un guerrigliero, un golpista, un agitatore del popolo. Non predica la violenza o il ricorso alle armi. Non fomenta gli umori antiromani. Vince le “tentazioni” di un regno umano, fugge quando vogliono farlo re. L’ingresso in Gerusalemme non è un fatto militare, ma un gesto pacifico, simbolico.

 

Gesù fu il più rivoluzionario dei rivoluzionari in questo senso: anzichè annientamento dei nemici, amore dei nemici; anzichè ritorsione, perdono incondizionato; anzichè ricorso alla violenza, disponibilità a soffrire; anzichè canti di odio e di vendetta, esaltazione dei pacifici. La lotta deve essere fatta non contro gli uomini, ma contro le forze del male: odio, ingiustizia, discordia, violenza, falsità, egoismi umani in genere; inoltre contro: dolore, malattia e morte. Per fare ciò occorre convertirsi ( metànoia = conversione), proiettarsi lontano dai propri egoismi, nella duplice direzione, verticale e orizzontale, di Dio e del prossimo.

 

Gesù e i peccatori

 

I peccatori pubblici erano segnati a dito come maledetti da Dio. Incontrandoli, non solo non si dovevano salutare, ma bisognava lanciare contro di loro una serie di scongiuri per evitare il pericolo di contrarre la loro maledizione. Chi infatti entra in contatto con una persona impura contrae la sua impurità, partecipa della maledizione divina che grava su di lei.

 

Nessun fariseo sarebbe mai andato a cena in casa di un pubblicano o di un peccatore pubblico ( Mt 9,11; Lc 19,7 ). E quando per Legge si doveva ammazzare qualcuno, lo si faceva con la lapidazione, cioè con il lancio di sassi per non toccare il condannato ( Gv 8, 5 ss ).

 

Gesù invece conduce la sua vita in mezzo al popolo, non ha paura di essere toccato da gente impura, si lascia circondare dai bambini, ha un seguito di donne quando va in giro a predicare, tocca i malati e perfino i lebbrosi, va a cena in casa di pubblicani e peccatori, si lascia toccare anche dalle prostitute. Non ha paura di diventare impuro e di cadere sotto la maledizione di Dio. Anzi, come iniziatore del Regno di Dio, Egli è portatore della grande benedizione del Padre che si traduce in forza liberatrice dell’uomo da tutte le forme di oppressione gravanti su di lui.

 

Gesù non solo si è occupato dei poveri, dei malati, degli ossessi; non solo ha avuto attenzione per le donne, i bambini e la gente semplice; ma ha avuto anche contatti con persone moralmente inadempienti, palesemente irreligiose e immorali. Questo fu il vero e autentico motivo di scandalo per le autorità religiose del suo tempo.

 

A Gesù non solo fu applicato l’epiteto ingiurioso di mangione e beone, ma anche quello più pesante di amico dei pubblicani e peccatori. Gesù ha frequentato con assiduità provocatoria individui moralmente trasgressivi.

Il vangelo attesta espressamente dei casi di peccatori pubblici, citando anche i nomi: pubblicani ( Matteo e Zaccheo ), prostitute (Lc 7,36-50), adultere (Gv 7,53- 8,11). E le sentenze di Gesù che accompagnano quegli episodi sono rimaste famose: “Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”; “le sono perdonati i suoi molti peccati perchè ha molto amato”; “chi è senza peccato scagli la prima pietra”.

 

Il predicatore del Regno di Dio non ha recitato la parte del pio asceta che evita i banchetti e soprattutto determinate persone. Gesù, contro tutti i pregiudizi e le discriminazioni sociali, si oppose a che determinati gruppi o infelici minoranze venissero squalificati socialmente. Gesù non tentò di solidarizzare a tutti i costi. Non si abbassò al livello dei peccatori, ma li innalzò al proprio.

 

Gesù inoltre non si limitò a discutere con loro, ma si sedette a tavola con loro. Essere seduti insieme a tavola non vuol dire soltanto gentilezza e affabilità, ma pace, fiducia, conciliazione, fraternità. Il capofamiglia ebreo spezza il pane all’inizio del pasto e recita una benedizione. Chi partecipa al pane partecipa alla benedizione di Dio. Gesù spartiva la mensa al cospetto di Dio con uomini peccatori. Così Egli intendeva offrire pace e riconciliazione anche ai moralmente inadempienti, che i pii ebrei invece emarginavano.

 

Il diritto della grazia

 

Anche il Giudaismo conosceva il perdono dei peccati. Ma il perdono si concedeva a chi si pentiva, faceva penitenza, dimostrava di essersi ravveduto. Si seguiva la trafila giuridica seguente: 1 ) Dichiarazione di pentimento; 2 ) Prestazioni penitenziali; 3 ) Concessione del perdono.

Ma il Dio di Gesù Cristo perdona proprio ai peccatori, gratuitamente, senza richiedere prima delle prestazioni di carattere penitenziale dimostrative del pentimento.

E’ questo modo nuovo e rivoluzionario di rimettere i peccati che genera scandalo.

 

Un tale Dio sarebbe un Dio dei peccatori, non dei giusti!

E’ la religione stessa che viene stravolta dal comportamento di Gesù.

Si dà ragione ai peccatori a scapito dei giusti ( Lc 18,10-14: pubblicano e fariseo ). Si privilegia il figlio fuggitivo a quello che resta in casa ( Lc 15,11-32 ); lo straniero eretico rispetto alla popolazione locale pia e devota ( Lc 13,30-37: buon samaritano ); finiranno poi tutti col ricevere la stessa ricompensa ( Mt 20,l-l6 ).

 

Che si faccia più festa in cielo per un peccatore pentito che per novantanove giusti, non è scandaloso ( Lc 15,7 )?

Chi si è macchiato di una colpa è forse più vicino a Dio di chi si è conservato innocente?

Che le prostitute e i truffatori precedano la gente per bene nel Regno di Dio, non è offensivo?

E che dire dei pagani che precederanno i figli del Regno ( Mt 8,11-12 )?

Non è una follia sovvertire i criteri più sacri di priorità e affermare che gli ultimi saranno i primi ( Mc 10,31 )?

 

Il perdono viene offerto a tutti, non solo agli Ebrei. Quindi cadono tutte le barriere sociali, razziali, politiche e religiose. Anzi, ognuno è già accolto prima ancora di convertirsi! Infatti, prima c’è la grazia di Dio e dopo la prestazione dell’uomo. Viene graziato il peccatore che ha meritato ogni sorta di castigo, basta che riconosca l’azione di grazia del Signore. Gli è donato il perdono: basta che lo accetti e si converta. Gli viene concessa una vera e propria amnistia gratuitamente: basta che ne tragga lo spunto per vivere pieno di fiducia. La grazia prevale sul diritto. O meglio, vale il diritto della grazia. Solo così diventa possibile la nuova giustizia migliore. L’universalità del perdono di Dio è bene illustrata nella parabola del banchetto, imbandito per tutti: accattoni, storpi, zoppi della città e della campagna ( Lc 14,15-24; Mt 22,1-10 ). E meglio ancora nei pasti consumati da Gesù con pubblicani e peccatori.

 

Dio concede il perdono senza riserve. Unica condizione richiesta all’uomo è la fede sorretta dalla fiducia in Dio, Padre misericordioso. Unica conseguenza attesa è una generosa trasmissione del perdono. Chi deve al grande perdono di Dio la possibilità di vivere, non deve rifiutare agli altri il piccolo perdono ( Mt 18,21-35 ) e questo lo deve fare non una volta, non tre volte ( Mt 18,15-18 ), nemmeno sette volte, ma settanta volte sette ( Mt 18,21-22 ), cioè sempre, senza alcun limite ( Cfr Lc 17,4 ).

 

Di fronte all’offerta generosa di Dio occorre decidersi senza dilazioni e senza mezze misure. E’ in gioco la nostra vita: occorre quindi agire con coraggio, risolutezza e intelligenza, talvolta anche in modo spregiudicato, come l’amministratore infedele che sfrutta l’ultima chance ( Lc 16,1-9 ). Chi vuole guadagnare la sua vita la perderà e chi la perde per Dio, la guadagnerà per la vita eterna ( Mt 10,39 ). La porta è stretta (Mt 7,13). Molti sono i chiamati e pochi gli eletti ( Lc14,15-24). La sa1vezza dell’uomo resta un miracolo della grazia di Dio, al quale tutto è possibile ( Mt 19,26 ).

 

Ma come si giustifica questo comportamento di Dio?

 

Risposta ad hoc: ” i giusti ” che non hanno bisogno di penitenza, sono davvero senza peccato ? Anche soltanto il fatto di essere spietatamente insensibili nei confronti degli inadempienti, li fa diventare peccatori come gli altri. Il fatto poi di ritenersi giusti impedisce loro di aprirsi alla chiamata di Dio. Ciò li pone in uno stato di ipocrisia. C’è una colpa dei giusti: credere di non essere in debito con Dio. C’è una innocenza dei colpevoli: affidarsi completamente a Dio nella consapevolezza della propria perdizione. E allora i peccatori sono più veritieri dei pii, perchè non dissimulano la propria condizione. In questo senso Gesù dà ragione a loro e torto agli altri.

 

Risposta più completa di Gesù. Bisogna perdonare, invece di condannare, perchè è Dio che agisce così: Dio non condanna, ma perdona: la grazia viene prima del diritto. Molte parabole indicano questo: il re generoso ( Mt 18,23-27 ), la pecora smarrita, la dracma perduta, il figlio prodigo ( Lc 15,1-32 ), il giudice che ascolta il pubblicano ( Lc 18,9-14 ). Ne risulta un’immagine di Dio dalla misericordia sconfinata ( Mt 20,1-15 ), che l’uomo deve imitare. Così va intesa la supplica del Padre nostro: “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori” ( Mt 6,12 ss ). Siccome Dio ha perdonato a noi, allora noi, a nostra volta, perdoniamo ai fratelli.

 

Gesù non sviluppa una teologia della grazia. Questa parola non compare neppure nei sinottici. Ma Gesù la mostra in atto, nella sua azione di perdono dei peccatori, azione che è illustrativa del comportamento di Dio verso gli uomini.

Per questo Gesù viene accusato di bestemmia ( = attribuirsi un potere che appartiene solo a Dio ) ( Mc 2,7 ). Egli si discolpa dicendo che è proprio Dio che perdona ( la forma passiva: “ sono perdonati” suppone Dio come agente ). Ma i suoi avversari non ne sono rimasti convinti ed hanno deciso di eliminarlo ( Mc 3,6 ).

 

Il perdono dei peccati nella Chiesa

 

Gli Apostoli hanno coscienza di aver ricevuto il mandato di continuare l’opera della salvezza iniziata da Gesù. Le apparizioni del Cristo risorto culminano nel conferimento della missione di annunciare il Vangelo, di rimettere i peccati e di battezzare tutti i credenti ( Mt 28,16-20; Mc 16,15-16; Lc 24,47; Gv 14,18-21 ).

Il perdono dei peccati, gratuito e generoso, senza penitenze e senza confessione dei peccati né pubblica né privata, viene concesso mediate il Battesimo a partire dal giorno della Pentecoste ( At 2,38 ). Questo è l’unico modo di rimettere i peccati nella Chiesa primitiva. Ma ben presto sorge una “seconda penitenza” ( Pastore di Erma , sec II ), per i peccatori pubblici, penitenza gravosa e da concedersi una volta sola.

 

Al tempo di San Cipriano è sorto un problema nuovo. Diversi cristiani durante una persecuzione avevano defezionato dalla Chiesa, ma cessato il pericolo chiedevano di essere riammessi. I “lapsi”(=quelli che erano scivolati ) furono riammessi nella Chiesa, alla comunione eucaristica, dopo un periodo di penitenza pubblica. Qui la Chiesa riprende la trafila ebraica per la riammissione alla Sinagoga: richiesta di perdono, penitenza, riammissione. Questa viene chiamata penitenza gravosa nei confronti della penitenza gioiosa del Battesimo. Talmente gravosa che i peccatori dei secoli posteriori la rimandavano alla fine della vita.

Ben presto ( sec. VI ) i monaci irlandesi, inventarono la penitenza privata, che si poteva anche ripetere, per secoli deprecata dai Vescovi ( dal 3° Concilio di Toledo del 589 al Concilio di Chalon dell’813 ), ma alla fine fu riconosciuta ufficialmente, mentre quella pubblica pian piano fu abbandonata.

 

Questa penitenza è detta tariffaria perché ad ogni peccato corrisponde una penitenza, secondo una tabella stabilita nel libro penitenziale. La trafila è la solita: confessione dei peccati, imposizione della penitenza, soddisfazione della penitenza e riconciliazione. Questa penitenza ebbe un grande successo.

 

Verso il Mille si ebbe un altro cambiamento: si cominciò a concedere la riconciliazione prima che il penitente avesse soddisfatto la penitenza. In questo modo la Penitenza, riconosciuta come uno dei sette Sacramenti, prima dalla Teologia Scolastica e poi ufficialmente dal Concilio di Trento, è arrivata fino a noi. Infatti la riforma liturgica seguita al Concilio Vaticano II non tocca l’essenza di questo Sacramento ma ne caldeggia la celebrazione in modo che davvero aiuti il penitente a mettersi nelle condizioni indispensabili per ricevere fruttuosamente questo Sacramento.

 

Il perdono dei peccati nel Giubileo del 2.000

 

Etimologicamente il termine giubileo si richiama al giubilo ( jubilum ): la gioia che una persona esprime canticchiando o fischiettando senza pronunciare parole precise, ma facendo capire a tutti che il suo cuore è pieno di gioia. Ne sono un esempio certi alleluia gregoriani, che…non finiscono mai.

 

Biblicamente il giubileo fa riferimento all’anno sabbatico, che ricorreva ogni 50 anni ( Lv 25 ), nel quale gli ebrei si condonavano tra loro i debiti, concedevano la libertà agli schiavi e chi aveva dovuto vendere case e campi ne rientrava in possesso. Il Servo di YHWH descrive in questo modo la sua missione: proclamare un lieto annuncio per Gerusalemme, a favore dei poveri, degli schiavi e dei malati, proclamare cioè l’anno della misericordia del Signore ( Is 61, 1-2 ). A questo passo del profeta Isaia si è ispirato Gesù quando ha inaugurato la sua missione nella sinagoga di Nazaret ( Lc 4, 16-19 ): predicare un anno di grazia del Signore. E la missione di Gesù si è svolta proprio su questa linea, perché passò facendo del bene a tutti e liberando tutti quelli che erano oppressi dal diavolo ( At 10, 38 ).

 

Storicamente il primo giubileo, o anno santo, fu indetto nel 1.300 dal Papa Bonifacio VIII ed era rivolto a tutti i cristiani, con esclusione dei Siciliani e dei Colonna. Questo Papa è stato il più grande assertore dell’assolutismo papale: sosteneva essere di diritto divino “omnes subesse romano pontifici”( tutti gli uomini sono soggetti al romano pontefice ): il Papa sarebbe come il Dio in terra. E tutto questo veniva inteso in senso giuridico. E quindi anche il giubileo veniva inteso così. Ecco in che modo.

 

Quando un condannato a morte viene graziato, non viene messo immediatamente in libertà, ma deve scontare la pena che viene subito dopo per gravità cioè l’ergastolo o moltissimi anni di prigione. Il peccatore, reo di colpa grave, sarebbe per sè condannato alla morte eterna nell’inferno, ma Dio nella sua bontà infinita gli fa grazia mediante il Sacramento della penitenza, però gli resta da scontare una pena temporanea molto lunga, mediante le penitenze: quelle inflitte dai confessori, secondo i tariffari di allora: lunghi anni di digiuno e di astinenza, nutrirsi solo di pane e acqua, astinenza dall’uso del matrimonio per tutta la vita, pellegrinaggi ai santuari della Madonna e dei Santi, a Roma sulla tomba degli Apostoli, al sepolcro di Cristo in terra santa, a S. Giacomo di Compostela, ecc. Tutte cose molto gravose.

 

Però il Diritto ammette due possibilità alternative: la procura e la sostituzione della pena. I ricchi non facevano mica le penitenze: pagavano un povero che le facesse al posto loro. E con le oblazioni in denaro si poteva ottenere la sostituzione di una pena molto severa, con una più mite.

 

Il giubileo, in questa mentalità giuridica, è la remissione totale della pena temporanea dovuta ai peccati già perdonati in confessione. Ma non viene concessa gratuitamente, bensì a fronte di determinate prestazioni: pellegrinaggio a Roma, preghiere e offerte stabilite dal Papa. Lo stesso criterio vale per le indulgenze, il cui enorme sviluppo nel tempo ha portato a delle conseguenze tremende: afflusso di grossi capitali a Roma da ogni parte del mondo, invidia degli Stati emergenti contro la potenza finanziaria del Papato, denuncia del sistema da parte di Lutero, ecc.

 

Noi, oggi, dei tempi medioevali dobbiamo imitare la fede dei cristiani, che era grande e il senso spirituale del pellegrinaggio a Roma che aveva lo scopo di andare a pregare sulla tomba Santi Apostoli Pietro e Paolo per ravvivare la fede apostolica.

Questo bisogna dirlo perché dal Concilio Vaticano I in poi, dopo la proclamazione dell’infallibilità del Papa, questi è stato posto al centro dell’attenzione dei cristiani, perciò si va a Roma “per vedere il Papa” e si dimentica troppo facilmente la fede degli Apostoli.

 

Ma dobbiamo abbandonare tutta la mentalità giuridica per far posto a quella teologica, quella evangelica, che tentiamo di illustrare brevemente qui di seguito.

La remissione dei peccati è l’aspetto negativo della vita cristiana, mentre l’aspetto positivo, quello più importante è la vita di grazia. La grazia poi non è un detersivo che toglie le macchie del peccato, ma viene intesa dalla Teologia come amicizia con Dio e con i fratelli. Nella remissione dei peccati si guarda al passato, si pensa in negativo, come punire le colpe, infliggendo pene proporzionate. La gravità della colpa poi è misurata sulla maestà della persona offesa, Dio, Maestà infinita, perciò la pena inflitta non può essere che eterna, cioè l’inferno.

 

Il Vangelo, appunto perché è una buona notizia, non parla così, ma tutto all’incontrario. E’ Dio che ci ha amati per primo, quando eravamo ancora peccatori, ed ha mandato tra noi suo Figlio, non perché venisse a giudicare e condannare il mondo, ma per salvarlo. E per questo scopo l’ha perfino sacrificato sulla croce. Gesù stesso nel proclamare l’avvento del Regno di Dio ha chiamato gli uomini ad aprirsi alla fiducia in Dio, Padre premuroso e misericordioso, sempre pronto ad accogliere il peccatore pentito, a concedere il perdono gratuito, che genera gioia e spalanca davanti un futuro pieno di fiducia e di speranza.

 

Ma come avviene la salvezza, per essere più precisi?

 

All’annuncio del Vangelo, l’uomo si apre alla fede, nel senso di fiducia in Dio e allora riceve l’effusione dello Spirito Santo, che lo rende una nuova creatura, un figlio di Dio per adozione e membro del suo popolo, la Chiesa. La grazia santificante è l’effetto che produce in noi l’azione santificatrice dello Spirito santo: l’essere cioè nuove creature.

 

Tutto questo in forza del Sacrifico di Cristo sulla croce e in linea ordinaria mediante il Sacramento del Battesimo ( e della Cresima ). Dal momento che Dio ci rende suoi figli e ci ama come figli suoi, non c’è più nulla in noi che sia odioso a Dio ( = peccato ).

All’uomo che si accinge a ricevere il Battesimo, viene chiesta la conversione, l’orientamento della propria vita verso Dio, l’abbandono del male e la scelta del bene, l’impegno di amare Dio e il prossimo, una scelta di fondo, detta perciò opzione fondamentale. Cioè si pensa in positivo, si guarda al futuro, a vivere una vita in pace con Dio e con i fratelli, a raggiungere la salvezza escatologica.

 

Ma il cristiano non è impeccabile: è sempre soggetto al limite, alla fragilità, alla tentazione di:

- vivere come se Dio non esistesse: materialismo pratico, consumismo, edonismo;

- chiudersi egoisticamente in se stesso, chiudendo gli occhi e il cuore di fronte ai fratelli che sono nella sofferenza e nel bisogno;

- o peggio ancora coltivare l’odio, la vendetta, prevaricando sugli altri, calpestandone i diritti fondamentali, ecc.

Abbiamo bisogno, quindi, di fare ogni tanto delle verifiche confrontandoci con la parola di Dio, per rinsaldare la nostra scelta di fondo, o per convertirci nuovamente, se ci accorgiamo di essere andati fuori strada.

 

Il Giubileo allora diventa un momento di grazia, in greco un cairòs, un tempo favorevole, che ci offre degli stimoli per la ripresa della nostra vita cristiana, animata da fede viva, speranza certa e carità operosa.

Giustamente il Papa ha esortato tutta la Chiesa a prepararsi spiritualmente al Giubileo in maniera positiva per tre anni, meditando:

  1. sull’azione santificatrice dello Spirito Santo
  2. sull’opera della redenzione compiuta da Gesù Cristo
  3. sull’amore misericordioso del Padre verso tutti gli uomini.

Già San Tommaso d’Aquino, pur essendo ancora nel Medioevo, insegnava che la remissione dei peccati, anche nel Sacramento della Penitenza, avviene quando il peccatore “ex attrito fit contritus”: solo se c’è l’amore di carità il peccato viene perdonato. Questo avviene sempre, sia nel Sacramento che fuori del Sacramento e quindi anche nel giubileo.

Allora vuol dire che dobbiamo usufruire dei pellegrinaggi, delle visite alle Chiese, delle cerimonie sacre, ecc. del giubileo, per conseguire una crescita della nostra fede e per un impegno autentico di vita cristiana.

09 – PADRE NOSTRO – PANE EUCARISTICO E PAMNE QUOTIDIANO – Luca Beato oh

 IX 

PANE EUCARISTICO E PANE QUOTIDIANO

E’ celebre il detto: “A tavola non si va solo per mangiare”. Sedersi insieme a tavola per prendere cibo esprime già di per sè un segno di amicizia, di amore reciproco. A pranzo si ritrovano i familiari, si invitano i parenti e gli amici. Se si invita qualcun altro, si vuol esprimere un gesto che apre all’ amicizia.

Se poi chi ci invita pranzo, o si degna di venire a pranzo da noi, è una persona importante, allora è grande la nostra gioia per l’amicizia inaspettata e inimmaginabile che ci viene offerta.

Gesù, durante la sua vita, contrariamente al Battista e ai Farisei, amava stare a tavola con la gente e non solo per mangiare, ma per esprimere il fatto che Dio si fa vicino agli uomini fino al punto di condividerne la mensa. E questo anche con peccatori. “L’essere seduti insieme a tavola non significa semplicemente gentilezza e affabilità, ma pace, fiducia, riconciliazione, fraternità. E questo…non solo agli occhi degli uomini, ma anche agli occhi di Dio” ( 1 ).

Tra gli evangelisti è soprattutto San Luca quello che mette in risalto la “pastorale conviviale” di Gesù.

Gesù, talvolta, per illustrare qualche aspetto del Regno di Dio ricorre alla parabola di un banchetto: un banchetto di nozze che Dio ha imbandito per suo Figlio, al quale tutti gli uomini, e non solo pochi privilegiati, sono invitati ( Mt 22,1-14 ). Anche la vita eterna è rappresentata talvolta come un sedere a tavola con Dio e i Patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe nel clima festoso del Regno dei Cieli ( Mt 8, 11).

I pranzi non sono tutti uguali. Ci sono quelli ordinari e quelli speciali, come il pranzo di nozze, i pranzi celebrativi di feste e ricorrenze o quelli di addio. Noi fermiamo la nostra attenzione sulla cena pasquale. Essa è anzitutto celebrativa della festa annuale della pasqua ebraica. Ma Gesù ne fa anche una cena di addio. E’ ben per questo che si chiama ultima cena.

“Che l’istituzione dell’ Eucaristia sia legata ad un clima conviviale è una delle sottolineature più significative della esegesi recente. Due tipi di banchetto sono i più quotati punti di riferimento: la celebrazione della pasqua ebraica e il banchetto d’ addio di un patriarca o di un capofamiglia” ( 2 ).

La celebrazione non è un semplice ricordo del passato, ma un memoriale, un passato che ha ripercussioni sul presente e sul futuro:

1) mentre si mangia l’agnello si benedice il Signore ricordando le gesta da Lui compiute in favore del suo popolo nei tempi antichi per liberarlo dalla schiavitù dell’Egitto e stringere con esso un’ Alleanza, sancita con un patto di sangue presso il monte Sinai.

2) Si rinnova l’impegno di osservare l’Alleanza, invocando la protezione del Signore.

3) Si guarda al futuro con fiducia perchè Dio è fedele alle sue promesse e benedice chi adempie gli impegni dell’Alleanza, cioè osserva i comandamenti.

Gesù nel contesto della cena pasquale inserisce due gesti suoi propri:

la frazione del pane e la comunione allo stesso ca1ice .

Lo spezzare il pane, all’inizio del pasto, era un gesto che il capo famiglia ebreo faceva, recitando una preghiera di benedizione: la partecipazione allo stesso pane voleva indicare la partecipazione alla benedizione di Dio ( 3 ).

Ma la frazione del pane fatta da Gesù non è quella dell’inizio del pasto.

E’ un gesto nuovo fatto da Gesù e caricato di un significato nuovo espresso dalle parole che l’accompagnano: ( Cfr. 1 Cor 11,23-25; Mt 26,26-29; Lc 22,15-20; Mc 14,22-25 ). Per l’interpretazione e l’armonizzazione dei testi dell’ istituzione si può vedere qualche testo specialistico ( 4 ). Nel Canone della Santa Messa le parole sono queste: “Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi”.

Più sorprendente è il gesto che riguarda il calice, perchè solitamente ognuno beveva al proprio calice di vino nelle tre benedizioni che si facevano durante la cena pasquale. Gesù invece fa bere ad un unico calice. Il gesto simbolico è illustrato dalle parole che 1’accompagnano, che nel Canone della Santa Messa sono queste: “Prendete e bevetene tutti: questo è il Calice del mio Sangue per la Nuova ed Eterna Alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati”.

Il pane spezzato e distribuito indica la persona di Gesù nell’ atto della donazione suprema della sua vita sulla Croce, cioè nel momento in cui spezza la sua vita per la nostra salvezza. Il calice del vino indica la persona di Gesù che versa il suo sangue per tutti sulla croce e col suo sacrificio sancisce l’Alleanza nuova e definitiva di Dio con l’umanità.

Che cosa hanno capito i commensali ?

Certamente devono aver capito:

- che Gesù alla cena pasquale aveva aggiunto il significato di una cena di addio;

- che questa cena di addio aveva un valore sacrificale, anticipatorio del suo sacrificio sulla croce;

- e che nel sangue di Gesù versato per noi veniva sancita una nuova Alleanza tra Dio e gli uomini, migliore di quella di prima.

 

Fate questo in memoria di me”.

 

Si tratta di un memoriale, non solo di un ricordo storico. Inoltre non si tratta soltanto di ripetere il gesto rituale fino al compimento del Regno di Dio. Ma è la chiamata a seguire Gesù, assumendo uno stile di vita conforme al suo: fare della propria vita un dono per gli altri, fino al sacrificio della propria esistenza.

- Il pane – dato significa la vita vissuta come dono per gli altri.

- Il sangue – sparso significa che bisogna arrivare al gesto supremo di dare la vita per gli altri.

Il Vangelo di Giovanni, che non narra l’istituzione dell’Eucaristia, inserisce al suo posto la lavanda dei piedi ( Gv 15,14 ). Esso non è un gesto rituale, ma un gesto compiuto da Gesù per indicare che la vita dei suoi discepoli, modellata sulla sua, deve essere vissuta come un servizio per gli altri. “Lavare i piedi ( la vita come servizio ), spezzare il pane ( la vita come dono ): questi i comportamenti di Gesù, che il discepolo deve imitare. Gesù ha lasciato espresso tutto questo come in un testamento” ( 5 ).

 

La cena di Agape

 

Nella prima lettera di San Paolo ai Corinzi ( l Cor 11,20 ss ) l’usanza di riunirsi per celebrare la cena del Signore viene collegata direttamente alla cena di Gesù. Nell’ambito di un pasto comune, detto agàpe, venivano ripetuti i gesti di Gesù: la frazione del pane e la comunione al calice.

Pasti rituali dello stesso tipo della cena di Gesù erano in uso presso gli Ebrei, quindi non erano una novità. La novità consisteva nel fatto che questa cena doveva essere organizzata con l’apporto di tutti, in modo che i più abbienti provvedevano anche ai più poveri. Questa cena si chiamava agàpe, un termine che corrisponde alla nostra solidarietà. “Proprio questo atteggiamento di fraterna condivisione ( agàpe ) giustificherà il fatto che fra tutto quel pane condiviso e quel vino gioiosamente versato nei calici, un pane spezzato e un calice benedetto acquistino un significato più pieno e pregnante, in virtù della memoria del gesto e delle parole del Maestro, origine e causa di quello stare e di quel mangiare insieme: “ Il calice della benedizione che noi benediciamo non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo? ” ( l Cor 10,16 ) ( 6 ).

Il pensiero di Paolo è anzitutto questo: i cristiani celebrando la Cena del Signore partecipano al mistero consumato sulla croce, il mistero della vita di Gesù immolata per la salvezza degli uomini e per la remissione dei peccati.

Ma il pensiero di Paolo è anche un altro. Il “Corpo di Cristo” non indica più soltanto la persona del Cristo storico, ma la Chiesa, il corpo di cui Cristo è il Capo. E più concretamente la comunità dei credenti radunati in Cristo per la celebrazione dell’Eucaristia. “Poichè c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane”( 1 Cor 10,17 ) E’ questo il Corpo di Cristo che bisogna riconoscere con la fede e con il quale bisogna condividere tutto, perfino il pane quotidiano.“Chi mangia e beve senza riconoscere il Corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna” ( 1 Cor 11,29 ).

Ma è più facile compiere il rito dell’Eucaristia, che vivere una vita di servizio verso il prossimo come ci ha testimoniato e insegnato Gesù. E’ per questo che sorgono ben presto le sfasature tra liturgia e vita. San Paolo rimprovera ai Corinzi il fatto di non riconoscere il Corpo di Cristo perchè celebrano la frazione del pane ( Eucaristia ) senza fare più la cena fraterna. Ognuno mangia per conto suo: così c’è chi ha troppo da mangiare e chi non ne ha a sufficienza.

Successivamente la Chiesa stessa ha visto l’opportunità di separare le due cose: la celebrazione dell’Eucaristia dal pranzo di solidarietà ( agàpe ) verso i poveri, mantenendo però vivo il significato del legame tra i due gesti, Eucaristia e solidarietà, Liturgia e vita vissuta.

Ci sono testimonianze in Tertulliano e San Giovanni Crisostomo. Dopo la Santa Messa in chiesa, si faceva un pranzo per i poveri, organizzato da persone facoltose e presieduto dal vescovo. “L’aspirazione profonda di queste riunioni agapiche è quella di riprendere l’ ideale della comunità apostolica di Gerusalemme e di anticipare lo stato della comunità messianica, nella quale tutti sono uguali e nessuno è sotto il morso della necessità” ( 7 ).

Comunione con Cristo vuol dire comunione con tutti:

- quello che si fa sacramentalmente nella Liturgia eucaristica deve poi essere realizzato nella vita quotidiana.

- ricevere Cristo, essere in comunione con Lui, vuol dire pensare e agire come Lui; fare propria l’attenzione che Egli aveva per tutte le sofferenze umane. Scrive San Giovanni Crisostomo: “Vuoi onorare il Corpo di Cristo? Non trascurarlo quando si trova nudo. Non rendergli onore qui nel tempio con stoffe di seta per poi trascurarlo fuori, dove patisce freddo e nudità. Infatti colui che ha detto “Q Questo è il mio corpo” è il medesimo che ha detto “Voi mi avete visto affamato e mi avete nutrito”… A che serve che la tavola eucaristica sia sovraccarica di calici d’oro, quando lui muore di fame?…”( 8 ).

Nella nuova celebrazione liturgica della Santa Messa, avvenuta con un tentativo di ritorno alle origini, secondo le indicazioni del Concilio Vaticano II, si sono certamente recuperati in gran parte i valori della cena del Signore e della frazione del pane. L’Eucaristia è un banchetto al quale siamo invitati dal Signore, il quale ci spezza personalmente il pane della parola, il pane eucaristico e il pane della carità.

Ecco come la Teologia spiega questi tre aspetti.

 

1) Spezzare il pane dalla parola

 

La Liturgia della parola, molto valorizzata nella riforma liturgica,

è importantissima. Non di solo pane vive l’uomo. La parola di Dio che alimenta la nostra fede è più importante del pane quotidiano. Per la nostra salvezza è indispensabile riconoscere Gesù Cristo come il pane vivo disceso dal cielo per nutrire la nostra vita nel tempo e per l’eternità ( Discorso eucaristico del Vangelo di Giovanni, cap. 6 ).

Ma non si può riconoscere il Cristo risorto, quando spezza il pane, se prima non si capisce in base alle Scritture il Cristo che soffre la passione e la morte di croce ( Cfr. Discepoli di Emmaus, Lc 24, 25 ss ).

 

2) Spezzare il pane eucaristico

.

E’ propriamente la comunione sacramentale, che tutti i partecipanti alla Santa Messa sono invitati a fare.

Chi partecipa alla Santa Messa e non fa la Comunione è come un invitato a pranzo che non mangia. Tutti si preoccupano di lui, perchè, poveretto, deve proprio star male.

La comunione sacramentale non ci mette in comunione soltanto con Cristo, ma anche tra di noi, che siamo il Corpo di Cristo.

Parecchi gesti della liturgia indicano questa realtà:

- il simbolismo del pane ricavato dalla macinatura di molti grani e del vino ricavato dalla pigiatura di molti acini.

- L’invocazione del canone: “…per la comunione al Corpo e al Sangue di Cristo, lo Spirito Santo ci riunisca in un solo Corpo”.

- Il gesto di pace prima della Santa Comunione.

- Il cibarsi del medesimo pane alla stessa mensa.

 

3) Spezzare il pane della carità ( o meglio: agàpe = solidarietà )

 

La comunione ( koinonìa ) porta alla diaconìa, al servizio degli altri, alla condivisione dei nostri beni con chi ne ha di bisogno.

E’ chiaro che la colletta che si fa all’ offertorio è solo un gesto simbolico. Quello che Gesù vuole da noi è che mettiamo a servizio del prossimo non solo i nostri beni economici, ma tutta la nostra persona, i talenti, i carismi che abbiamo ricevuto ( 1 Cor. 12-14 ). A imitazione di Gesù, la cui vita è stata definita dal Papa Paolo VI una proesistenza, un’esistenza a favore degli uomini ( 9 ).

 

Un atteggiamento di fondo

 

Il servizio reciproco, simboleggiato dalla lavanda dei piedi che Gesù ha fatto agli apostoli. La Chiesa vera, autentica, evangelica, voluta da Gesù non è quella del potere economico, politico, religioso: ( queste sono le tentazioni che Gesù ha vinto e che anche noi dobbiamo respingere ); non è quella del trionfalismo, ma quella dell’ umiltà e del servizio ; è la Chiesa del grembiule (10 ).

 

Possono, anzi devono variare le forme concrete della solidarietà

 

Non è detto che si debba restaurare il pranzo agapico…

I nostri interventi in favore del prossimo devono rispondere ai bisogni concreti dei poveri che invocano il nostro aiuto. Ecco perchè non basta fare quello che si è sempre fatto ma bisogna aggiornarci, scoprire le nuove povertà, adeguarci alle esigenze della nostra società che si avvicina al terzo millennio.

Si capisce a questo punto perchè il Concilio ha parlato dell’Eucaristia come fonte e culmine della vita cristiana.

Chi celebra bene l’Eucaristia ( leiturghìa ) cresce progressivamente nella fede e sotto l’influsso dello Spirito Santo, lo Spirito dell’amore, lavora per creare la comunione fraterna ( koinonìa ) e impegna la sua vita nel servizio verso il prossimo ( diakonìa ): compie gesti di solidarietà ( agape ), lavora per la giustizia e per la pace al fine di costruire un mondo nuovo, più giusto, più umano.

Chi vive bene la sua vita cristiana con fede viva, speranza certa e carità operosa ha tutti i presupposti per celebrare bene l’Eucaristia, la veste adatta per partecipare al banchetto ( Mt 22,11 ), la carta d’identità per essere riconosciuti davanti al Padre e collocati tra gli eletti ( Mt 25,31 ss ) e così partecipare alle nozze eterne.

Beati, quindi, noi, che siamo invitati a pranzo dal Signore!

 

 

NOTE

 

 

1 – H. Kueng, Essere cristiani, Ed. Mondadori, Segrate, l976, pag. 301

2 – AA.VV. Dossier: celebrazione e solidarietà, in SERVIZIO DELLA PAROLA, Ed. Queriniana, Brescia, n. 238, Luglio-Agosto 1992, pag. 28

3 – H. Kueng, op. cit., pag. 301

4 – La costruzione più probabile delle parole pronunciate da Gesù può essere la seguente: “Prendete, mangiate: questo è il mio corpo, che è dato per molti. Fate questo in memoria di me.

Bevetene tutti: questo è il mio sangue, della (nuova) alleanza, che è versato per molti, ( in remissione dei peccati ). Fate questo, ( ogni volta che ne berrete ), in memoria di me”. ( Cfr. E. Galbiati, L’ Eucaristia nella Bibbia, Ed. Ancora, Milano, pag. 123 ).

5 – T. Goffi e G. Piana, Corso di morale, Vol. V – Liturgia – pag. 164

6 – Id. pag. l63

7 – AA.VV. Dossier; celebrazione e solidarietà, in SERVIZIO DELLA PAROLA, Ed. Queriniana, Brescia, n. 238, Luglio – Agosto 1992, Pag. 29

8 – Cfr. G. Cionchi, Studiare Religione, vol. II, pagg. 81 – 82

9 – AA.VV. Dossier: vivere la solidarietà, in SERVIZIO DELLA PAROLA, Ed. Queriniana, Brescia, n. 206/2O7, Aprile – Maggio 1989, pag. l3

10 – G. Pasini, La Chiesa del grembiule, in RELIGIONE E SCUOLA, Ed. Queriniana, Brescia, n. 5, Maggio – Giugno 1994, pagg. 3 ss.

 

BIBLIOGRAFIA

 

 

X. Léon-Dufour, Condividere il pane eucaristico secondo il Nuovo Testamento, Ed. Elledici, Torino, l983.

T. Goffi – G. Piana, Corso di morale, vol. V – LITURGIA – Ed. Queriniana, Brescia 1986 , ( L’ Eucaristia, di A. Santantoni ), pagg. 155 – l92.

AA.VV. SACRAMENTUM MUNDI, Vol. III, Morcelliana, Brescia, l975, voce EUCARISTIA, coll. 669 – 692.

G. Florio, SHALOM, Ed. Queriniana, Brescia 1990, pagg. 323 – 338.

AA.VV. Dossier: Celebrazione e solidarietà, in SERVIZIO DELLA PAROLA, Ed. Queriniana, Brescia, n. 238, Luglio – Agosto 1992, pagg. 3 – 50.

AA.VV. Dossier: Vivere la solidarietà, in SERVIZIO DELLA PAROLA, Ed. Queriniana, Brescia, n. 206/207, Aprile – Maggio 1989, pagg. 3-15.

G. Pasini, La chiesa del grembiule, in SCUOLA E RELIGIONE, Ed. Queriniana, Brescia, n. 5, Maggio – Giugno I994, pagg. 3 – l3.

 

08 – PADRE NOSTRO – LA SOLIDARIETA’ – Luca Beato o.h.

VIII

LA SOLIDARIETA’

( Dacci oggi il nostro pane quotidiano )

 

Gesù non ha simpatizzato con i detentori del potere politico, economico e religioso. Spesso lo troviamo in polemica con i Sadducei, i principi del popolo, i dottori della Legge e i Farisei. Ignora il monachesimo degli Esseni e di Qumran e non predica ascetismo di sorta. Vive una vita normale e ama anche stare a tavola. Non ha alimentato alcun movimento di rivolta contro i Romani, ma è venuto a portare nel mondo la rivoluzione dell’amore. Ha preso le difese degli svantaggiati: la gente semplice e ignorante, i poveri, i bambini, le donne, i malati e i peccatori, con grande scandalo dei devoti e degli osservanti della Legge.

 

Dalla parte degli svantaggiati

 

Gesù ha inteso realizzare la sua Missione tra il popolo come uno straordinario giubileo, un anno di grazia del Signore a favore dei più sfortunati: liberazione degli schiavi, restituzione delle terre ai proprietari d’origine, condono dei debiti, guarigione dei malati ( Discorso di Gesù nella sinagoga di Nazaret: Lc 4,16 ss. Cfr. Is 61,1-2: la missione del Servo di Dio ).

Gesù rivolge la sua parola e la sua azione ai deboli, ai malati, ai negletti. Gesù così facendo offre una possibilità di essere uomo a chi la società riteneva ignobile e spregevole. Egli rompe il muro della loro emarginazione e apre il loro cuore alla speranza. Egli si rivolge all’uomo intero; si occupa non solo della sua spiritualità, ma anche della sua corporeità. Si mette a disposizione di tutti gli uomini: non solo dei forti, dei giovani, dei sani, ma anche dei deboli, degli anziani, dei malati, degli invalidi.

Nei Vangeli non si parla di orfani, di vedove, di ospiti da trattare con riguardo, come invece facevano i profeti. Certamente perché le comunità ebraiche erano già sensibili a questi problemi. Gesù affronta i problemi del suo tempo: i poveri, il popolo ignorante, le donne, i bambini, i malati e i peccatori. Per fare questo, Egli ha dovuto superare tutta una serie di pregiudizi derivanti dalla Legge ebraica: ha dovuto fare una vera rivoluzione.

Il popolo ignorante, quindi inosservante della Legge nelle sue minuziose prescrizioni sulle purità legali, sui cibi puri e impuri, sulla separazione dai peccatori, ecc. veniva considerato sotto la continua maledizione di Dio.

Le donne erano considerate quasi sempre impure a causa delle perdite vaginali di sangue, per le mestruazioni, per il parto, ecc.

I malati erano considerati dei maledetti da Dio per i loro peccati, o personali o dei loro antenati, specialmente infrazioni di tabù. Nei casi di epilessia si vedeva proprio il diavolo che si era impossessato del malato.

I peccatori pubblici erano segnati a dito come maledetti da Dio. Incontrandoli, non solo non si dovevano salutare, ma bisognava lanciare contro di loro una serie di scongiuri per evitare il pericolo di contrarre la loro maledizione. Chi infatti entra in contatto con una persona impura contrae la sua impurità, partecipa della maledizione divina che grava su di lei.

Il Sacerdote e il Levita, nella parabola del buon samaritano ( Lc 10, 31-32 ) non soccorrono il ferito perché temono di toccare il sangue e quindi di cadere sotto la maledizione di Dio. Il centurione si dichiara indegno di ricevere Gesù nella sua casa ( Lc 7,6-8 ) perché rispetta le credenze religiose degli ebrei, che non devono entrare in contatto con i pagani. La samaritana al pozzo si meraviglia che Gesù chieda di bere al suo recipiente ( Gv 4,9 ). L’emorroissa, quando viene guarita, chiede scusa a Gesù di averlo toccato ( Lc 8,47 ). Nessun fariseo sarebbe mai andato a cena in casa di un pubblicano o di un peccatore pubblico ( Mt 9,11; Lc 19,7 ). E quando per Legge si doveva ammazzare qualcuno, lo si faceva con la lapidazione, cioè con il lancio di sassi per non toccare il condannato ( Gv 8, 5 ss ).

Gesù invece conduce la sua vita in mezzo al popolo, non ha paura di essere toccato da gente impura, si lascia circondare dai bambini, ha un seguito di donne quando va in giro a predicare, tocca i malati e perfino i lebbrosi, va a cena in casa di pubblicani e peccatori, si lascia toccare anche dalle prostitute. Non ha paura di diventare impuro e di cadere sotto la maledizione di Dio. Come annunciatore e iniziatore del Regno di Dio, Egli è portatore della grande benedizione del Padre che si traduce in forza liberatrice dell’uomo da tutte le forme di oppressione che gravano su di lui.

Gesù e i poveri

 

Gesù ha dichiarato di essere venuto ad annunciare la lieta novella ai poveri. Ad essi la sua prima parola di incoraggiamento, di consolazione, di salvezza, la sua prima beatitudine. Ma, chi sono i poveri? A chi si rivolge la prima beatitudine? Per S. Matteo i poveri in spirito sono i poveri in senso religioso, sono i poveri di YHWH, cioè gli umili, che confidano unicamente in Dio. Ma per san Luca ( Lc 6,20 ss ) si tratta dei poveri in senso sociale, della gente veramente povera. Dato che il testo di Luca è più antico, è probabile che così abbia inteso parlare anche Gesù.

Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio.

Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati… ( Lc 6,20-21 ).

Ma guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione.

Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame… ( Lc 6, 24-25 ).

Ma qual era la condizione sociale di Gesù?

Gesù era povero. La stalla, il figlio del falegname, il patibolo sono cose vere, non fantasie. Non era schiavo, non era lavoratore dipendente. Era artigiano, quindi un piccolo borghese. Durante la vita pubblica, il suo peregrinare da un luogo all’altro era informato alla massima frugalità.

Gesù si è circondato di gente semplice: gli apostoli erano per lo più pescatori, comunque gente non colta, salvo, forse, Giuda.

Gesù si schierò dalla parte dei poveri, degli afflitti, degli affamati, degli uomini senza successo, senza potere e senza significato. Il “guai” ai ricchi, che fanno del denaro un idolo e ne diventano schiavi, è da prendersi sul serio. La ricchezza è un grave ostacolo all’ingresso nel Regno dei cieli. Gesù però non predica lo spossessamento dei ricchi, nè parla di vendetta contro gli sfruttatori e gli oppressori, ma di pace e di rinuncia al potere. Non esige, come i monaci di Qumran, la cessione di ogni sostanza alla Comunità. Chi rinuncia alle proprie sostanze, deve farlo per distribuirle ai poveri, non per riunirle in una proprietà collettiva. Ma non chiede a tutti la rinuncia totale. Pietro, Levi, Marta e Maria hanno cose di loro proprietà. C’è chi dà tutto e chi dà metà dei suoi beni ai poveri ( Zaccheo ). Certo, chi segue Gesù lascia tutto, ma non vive di aria. Le persone che seguono Gesù ( Lc 8,1-3; Mc 15,44 ) specialmente le donne, provvedono con i propri mezzi al gruppo apostolico. San Luca idealizza un po’ la Chiesa primitiva, esasperando in senso rigoristico certe frasi di Gesù. In realtà neppure la comunità primitiva conosceva una generale rinuncia ai beni materiali.

Gesù non esalta la povertà, non la trasfigura; non somministra oppio alla gente. Povertà, sofferenza, malattia, fame significano miseria, infelicità, non beatitudine. Sono qualcosa di male per l’uomo. Ai poveri, ai sofferenti, agli affamati Egli dice: “Beati voi, felici voi”. Ciò significa che Dio, instaurando il suo Regno, si ricorda di loro per tirarli fuori dalla situazione di sofferenza in cui si trovano. La Beatitudine è una promessa di Dio che genera gioia subito in chi la ascolta e la fa fiduciosamente propria. Già irrompe nella vita di costui il futuro di Dio, portando con sè subito consolazione. Infatti, la presa di coscienza che Dio gli sta innanzi, lo precede, comunica al credente una forza trasformante, anche nelle situazioni più difficili.

Allora la povertà, da situazione sociale, diventa una “povertà in spirito”, come dice Matteo: un atteggiamento fondamentale di vita sobria, senza pretese, vissuta con fiducia e serenità; una libertà interiore dai beni materiali, che viene richiesta a tutti i credenti in Cristo.

C’è quindi una povertà da combattere e da eliminare, ed è propriamente parlando la miseria, la condizione sociale in cui l’uomo manca del necessario, di quello che serve gli per soddisfare le esigenze primarie della vita: mangiare, bere, vestire, avere un ricovero per la notte, ecc. ( La beatitudine di San Luca ). Per noi oggi anche aver accesso alle cure per la salute e alla istruzione almeno elementare, ecc.

C’è una povertà da abbracciare come stile di vita dei cristiani: una vita sobria, lontana dall’ingordigia, dal voler raggiungere quelli che stanno meglio di noi, che seguono la moda, il consumismo, lo status simbol: vesti firmate, pellicce di lusso, auto fuori serie, case ai monti e al mare, ecc… quelli che non sono mai contenti, che si lagnano sempre, che non hanno mai abbastanza, che credono di valere molto perché possiedono molto, ecc… una vita, quindi, caratterizzata dalla fiducia in Dio, Padre

buono e provvidente, che se provvede a sfamare gli uccelli del cielo, non farà certo mancare del necessario i suoi figli ( Lc 12,22-31 ). Tutto questo non per favorire la passività e l’inattività, ma per mettere un freno al nostro desiderio insaziabile di possedere e credere di valere nella misura in cui si possiede, mentre di fronte a Dio e agli uomini noi contiamo per quello che siamo ( La povertà in spirito, di Matteo ).

Ma anche la povertà da abbracciare come stile di vita, ha lo scopo di combattere la miseria della povera gente. Io rinuncio a qualcosa non perché sia cattiva in se stessa o mi faccia del male, ma perché c’è qualcuno che si trova in necessità e non posso chiudere il cuore di fronte al suo grido disperato. Il pensiero di Gesù è semplicemente questo: sia i ricchi epuloni che i poveri Lazzari devono sparire dalla faccia della terra.

Chi erano i ricchi al tempo di Gesù?

In un’epoca in cui predomina l’agricoltura e la pastorizia, la ricchezza viene dalla terra. I ricchi sono i grandi proprietari terrieri. In Palestina i grandi possedimenti erano in mano principalmente ai Sadducei, dal cui gruppo veniva fuori sempre il Sommo Sacerdote. Questi padroni avevano sotto di sé una grande quantità di schiavi e un certo numero di operai pagati a giornata. Il tempio di Gerusalemme, oltre che centro religioso, era anche il centro economico e finanziario. I pellegrini dovevano cambiare i soldi per le offerte e comprare gli animali per i sacrifici. Così i poveri andavano ad aumentare la ricchezza di quelli che erano già ricchi sfondati e a monte erano i loro sfruttatori. E’ questo in ultima analisi il motivo per cui Gesù caccia, indignato, i venditori dal tempio ( Mc 11,15-19 ). Per Gesù, infatti, non si può essere religiosi, zelanti del culto del Tempio ed essere contemporaneamente degli oppressori, degli affamatori della povera gente o inumani e crudeli verso chi ha bisogno di soccorso, come il sacerdote e il levita della parabola del buon samaritano ( Lc 10.31-32 ).

Tutti i beni di questo mondo, in sé, sono buoni. Essi sono opera di Dio e sono per il bene dell’uomo. La ricchezza di cui si parla nel Vangelo è la concentrazione dei beni questo mondo nelle mani di pochi. Allora essa diventa cattiva per due ragioni.

Primo, perché rende l’uomo superbo al punto che pensa di non aver più bisogno di Dio ( Lc.12,15-21 ).

Secondo perché questo accumulo di beni viene fatto a scapito di tanta gente che si trova così priva del necessario per vivere. Il caso più emblematico è la storia-parabola del ricco epulone e il povero Lazzaro ( Lc 22, 19-31 ).

Per questo Gesù dice che è impossibile che un ricco entri nel regno dei cieli ( Mc 10,23-27 ). O meglio, è possibile solo se Dio gli cambia il cuore, lo converte, così che serva Dio e non Mammona ( Lc 16,13 ), o venda i suoi averi e li dia ai poveri per poi seguire Gesù ( Mc 10,17-22 ).

Gli Atti degli Apostoli testimoniano la solidarietà a livello della prima Comunità cristiana di Gerusalemme. I cristiani, forse non tutti, ma sicuramente alcuni, come per es. Barnaba ( At 4,36-37 ), vendono le loro proprietà e ne consegnano il ricavato agli

Apostoli, non per scopo di tipo ascetico e nemmeno per farne una proprietà

collettiva, ma perchè nella comunità scompaia l’indigenza ( At 2,45 ). Con l’istituzione dei diaconi la comunità cristiana, sull’esempio di quella ebraica, provvede agli orfani e alle vedove ( At 6,1 ss ).

Ma la più antica testimonianza di solidarietà economica nel Nuovo Testamento ce la offre S. Paolo. Nelle Chiese da lui fondate in Asia minore e in Grecia egli organizza una grande Colletta a favore della Chiesa di Gerusalemme, che si trova in grandi ristrettezze economiche ( 1 Cor 16,1-4 ).

San Paolo è il principale assertore della Comunità cristiana come Corpo di Cristo. I cristiani sono membra di questo Corpo, di cui Cristo è il Capo, e si devono aiutare gli uni gli altri. I carismi di ciascuno devono essere messi al servizio di tutti ( 1 Cor 12,12 ss ). L’Eucaristia per essere autentica deve essere celebrata nel contesto di una cena di solidarietà dei ricchi verso i poveri, perché per mangiare degnamente il Corpo del Signore e bere degnamente al suo calice, bisogna riconoscere il Corpo del Signore, costituito dalle membra della comunità ( 1 Cor 11, 20-29 ). Nel giudizio finale Cristo premierà i buoni perché ritiene fatte a sé le opere di misericordia da loro compiute verso i poveri e bisognosi ( Mt 25,31 ss ).

La solidarietà dei ricchi verso i poveri si inserisce, quindi, nel quadro della comunione fraterna in Cristo e della solidarietà verso i più deboli e bisognosi di aiuto: i sani devono aiutare i malati, i sapienti devono consigliare gli ignoranti, ecc. Ma è il bisogno altrui, non il mio progetto, che deve guidare la mia azione. Per cui devo farmi prossimo di chi è nel bisogno e fare tutto quello che è possibile da parte mia. E non soltanto verso i miei parenti o i membri del mio popolo, come sostenevano gli Ebrei ( questo è settarismo ), ma verso chiunque ha bisogno di me, anche un nemico, come viene indicato molto bene nella parabola del buon samaritano ( Lc 10,30 ss ).

Se nel “Padre nostro” si parla del pane quotidiano, si vuole indicare la cosa più importante nell’ordine delle cose materiali, da cui dipende la salute e la vita stessa, ma non si vuole certo escludere tutto il resto di cui l’uomo ha pure bisogno per vivere.

 

D’altra parte l’invocazione a Dio perché assicuri il pane quotidiano a tutti gli uomini, implica l’impegno dei credenti a fare tutto quello che è possibile perché questo scopo si realizzi. Altrimenti sarebbe una tentazione di Dio. Del resto Gesù, quando compie il miracolo della moltiplicazione dei pani ( Mc 6,35 ss ), prima di compiere il miracolo dice ai discepoli: “Voi stessi date loro da mangiare” e poi si fa dare tutto quello che hanno, cinque pani e due pesci e, solo dopo di ciò, fa il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci.

 

La tradizione cristiana più genuina, per tutti i secoli passati, ha realizzato quello che sinteticamente ha indicato san Giovanni Crisostomo: “Vuoi onorare il Corpo di Cristo? Non trascurarlo quando si trova nudo. Non rendergli onore qui nel tempio con stoffe di seta per poi trascurarlo fuori, dove patisce freddo e nudità. Infatti colui che ha detto “questo è il mio corpo” è il medesimo che ha detto “voi mi avete visto affamato e mi avete nutrito”…“A che serve che la tavola eucaristica sia sovraccarica di calici d’oro, quando Lui muore di fame?”.

 

I cristiani hanno sempre praticato l’elemosina e tanti Santi hanno creato gli orfanotrofi, i ricoveri per vecchi, gli alloggi per i pellegrini, gli ospedali, ecc. Ricordiamo almeno San Basilio, San Benedetto, San Bernardo, Santa Caterina da Siena, Santa Caterina da Genova, San Giovanni di Dio, San Camillo, San Vincenzo de’ Paoli, ecc. Molti di loro hanno dato vita anche a un Istituto religioso che assicura nel tempo la prosecuzione dell’attività caritativa da loro iniziata.

 

Nella riforma della Liturgia della Santa Messa è stata valorizzata la Colletta, la raccolta di offerte, intesa come gesto simbolico della solidarietà che i cristiani devono

praticare nel quotidiano verso i membri più deboli e più poveri della comunità cristiana, della società civile e di tutta la famiglia umana.

A partire dalla rivoluzione Francese ( 1789 ) il mondo cambia radicalmente. La società feudale, organizzata in modo piramidale, con l’autorità che piove dall’alto e governa con le monarchie assolute o le Dittature, cede il posto, pian piano, alla Democrazia. La rivoluzione industriale toglie all’agricoltura il monopolio della produzione della ricchezza, fino quasi ad azzerarne l’importanza. Ma il mondo del lavoro presenta una nuova forma di schiavitù che è il proletariato sfruttato dal capitalismo. La reazione più forte al capitalismo è il comunismo di Marx ed Engels, autori del famoso manifesto: “Lavoratori unitevi”, comunismo realizzato poi nell’ U.R.S.S. con il socialismo reale dal 1917 al 1989.

 

Per quanto riguarda la difesa dei diritti degli operai cattolici e comunisti si trovano d’accordo e danno vita alle leghe bianche i primi e ai sindacati rossi i secondi. Ma per quanto riguarda la proprietà privata c’era tra i due estrema opposizione. I Comunisti la volevano abolire per creare l’uguaglianza sociale, i cattolici invece la difendevano come elemento basilare di autonomia e libertà per l’uomo singolo e per la sua famiglia. L’Enciclica “Rerum novarum ” del Papa Leone XIII ( 1891 ) si colloca in questo contesto storico.

 

Il Concilio Vaticano II ( 1961-64 ) e più recentemente l’Enciclica “ Centesimus annus” di Papa Giovanni Paolo II ( 1991 ), dopo la caduta del muro di Berlino, affrontano più serenamente il problema della proprietà privata, dando pienamente rilievo alla destinazione universale dei beni di questo mondo, cosa che prima veniva trascurata e vista come una concessione al Comunismo. Quattro sono i principi che vengono affermati.

 

1 – Destinazione universale dei beni della terra. “ Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare alcuno” ( 31 ).

 

2 – La proprietà privata. “ E’ mediante il lavoro che l’uomo, usando la sua intelligenza e la sua libertà, riesce a dominare la terra e ne fa la sua degna dimora. In tal modo egli fa propria una parte della terra, che appunto si è acquistata col lavoro”.

 

3 – La funzione sociale del lavoro. “ Oggi più che mai lavorare è un lavorare con gli altri e un lavorare per gli altri: è un fare qualcosa per qualcuno” ( 31 ).

 

4 – La solidarietà. Essa è affermata sia a livello delle singole nazioni che a livello dei rapporti internazionali. “E’ stretto dovere di giustizia e di verità impedire che i bisogni umani fondamentali rimangano insoddisfatti e che gli uomini che ne sono oppressi periscano”… “Prima ancora della logica dello scambio degli equivalenti e delle forme di giustizia, che le sono proprie ( = il libero mercato), esiste un qualcosa che è dovuto all’ uomo perché è uomo, in forza della sua eminente dignità. Questo qualcosa dovuto comporta inseparabilmente la possibilità di sopravvivere e di dare un contributo attivo al bene comune dell’umanità” ( 34 ).

 

All’inizio del terzo millennio ci troviamo ad affrontare la bomba demografica: siamo 6 miliardi di uomini sulla faccia della terra. Come sfamare tutte queste bocche? Gli affamati sulla terra crescono a vista d’occhio. Le prospettive per il futuro sono terribili. E’ possibile risolvere questo grave problema?

 

Teoricamente parlando, la terra ha possibilità di produrre, con le tecniche attuali, cibo sufficiente per il doppio dell’attuale popolazione.

I beni di questo mondo, però, sono spartiti male :

 

  • Il 18 % della popolazione ( Nord ) si è accaparrata l’ 82 % dei beni della terra.
  • L’ 82 % della popolazione ( Sud ) ha a disposizione soltanto il 18 % dei beni terreni.
  • Ci sono 800 milioni di persone affamate o denutrite che lottano ogni giorno per la sopravvivenza” ( Giovanni Paolo II, anno 1997).

 

( Dopo il fallimento del piano quinquennale della FAO, a Maggio del 2002, la gente che rischia di morire di fame è di 1.200.000.000. I più esposti a questo rischio sono i bambini )

 

Subito dopo il Concilio Vaticano II, i vescovi dell’America Latina riuniti a Puebla hanno deciso di prendere le difese dei poveri. La decisione di questo Sinodo è stata poi estesa alla Chiesa universale.

 

Senza interventi correttivi a livello mondiale, i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri diventano sempre più poveri. Il mercato mondiale penalizza le materie prime del terzo mondo nei confronti dei prodotti fini dei paesi industrializzati.

 

La conseguenza immediata di questa sperequazione mondiale è stato il fenomeno delle migrazioni di massa dai paesi poveri a quelli ricchi. E siamo solo agli inizi. Soltanto degli interventi massicci dei paesi ricchi per lo sviluppo dei paesi poveri del terzo mondo può risolvere a fondo questo problema. Nel frattempo noi non possiamo limitarci a deplorare questo stato di cose, ma dobbiamo fare tutto il possibile come individui e come comunità cristiane, per salvare il maggior numero possibile di persone dalla morte di fame, con particolare riguardo ai bambini che sono maggiormente esposti a questo rischio: ne muoiono ogni giorno ben 40.000, una città grande come Bassano del Grappa. Se ce ne stiamo inerti cadiamo nel peccato di omissione, che i Padri Conciliari del Concilio Vaticano II hanno rimproverato al popolo di Dio di fede cattolica, per cui l’hanno introdotto nel Confiteor della S.Messa.

Attualmente si sta facendo parecchio mediante gli Istituti missionari, le Associazioni benefiche e gli organismi non governativi, che usufruiscono anche dei Fondi dell’8 per mille, ma occorre una azione collettiva dei Cattolici per la solidarietà internazionale, per cambiare le regole del mercato, per favorire l’acquisto diretto delle merci che vengono dai paesi poveri e per le Banche benefiche.

 

 

Povertà evangelica

 

Per quanto riguarda il modo di vivere la povertà nel nostri Istituto Religioso c’è stato un grande cambiamento. Prima non si aveva mai un soldo mi tasca, bisognava dipendere dal superiore anche nelle minime cose. Tutto questo settore stava sotto l’obbedienza. Ora invece c’è uno spazio di autonomia in cui siamo chiamati a usare la nostra responsabilità personale.

Il punto di riferimento resta Cristo. Però ora lo conosciamo meglio di una volta. C’è una povertà da combattere: la grotta di Betlemme e la nudità della croce sono delitti della cattiveria umana. Ma c’è una povertà da imitare: Cristo che si guadagna il pane con il lavoro a Nazaret.

 

Cristo non è un grande proprietario terriero, che vive di rendita, con salariati e schiavi sotto di sè. Per questa gente ci sono i guai a voi, o ricchi!

Ma Egli non è neppure uno schiavo, né un lavoratore dipendente. Cristo è un lavoratore autonomo: vive in uno stato medio, che gli permette di dedicarsi alla predicazione durante la bella stagione. Nella predicazione itinerante non disdegna il sostegno economico delle donne che lo seguono.

 

Inoltre c’è da dire qualcosa circa lo scopo della povertà religiosa. Esso risulta chiaro negli Atti degli Apostoli: perché nella Comunità cristiana non ci sia nessun indigente ( At 4,34 ). Inoltre l’Eucaristia, secondo la narrazione di Paolo, viene celebrata nel contesto di una cena di solidarietà dei ricchi verso i poveri ( 1 Cor 11, 17-34). La povertà cristiana non è dettata da motivi ascetici, ma dall’esigenza dì essere solidali con i poveri. Chi ha dei beni deve darli ai poveri. La povertà dei singoli religiosi non è per la ricchezza del Convento, ma per la condivisione dei beni con i poveri.

 

Gesù e gli ignoranti

 

Tanti uomini e donne, umili e ignoranti non possono o non vogliono osservare la Legge. In genere non si tratta di cattiva volontà, ma dipende dal fatto che non conoscono la Legge o non ne capiscono il valore come gli specialisti. Le autorità religiose li considerano peccatori, degni dei castighi di Dio. Gesù invece loda le persone semplici e ignoranti perché le trova aperte nei confronti dell’annuncio del Regno di Dio. E le contrappone ai dotti e ai sapienti che con tutte le loro sottigliezze giuridiche restano impermeabili alla sua parola di salvezza.

 

Gesù e le donne

 

Al tempo di Gesù le donne non contavano nulla. Nelle Sinagoghe erano separate dagli uomini. Al tempio non si potevano avvicinare quanto gli uomini. Non potevano neanche leggere la Sacra Scrittura, ma ascoltarne la lettura dal marito. In pubblico non potevano neppure parlare con i maschi. Non avevano i medesimi diritti degli uomini in fatto di divorzio, in caso di adulterio, ecc. Presso gli Ebrei vigeva un maschilismo più forte che presso i Romani, che la Religione con le leggi sulle purità legali aveva fortemente accentuato. Gesù invece si circonda di donne con sorprendente naturalezza: durante le peregrinazioni apostoliche, alcune donne provvedono a Gesù e agli apostoli ( Lc 10, 38-42 ); sul calvario ci sono delle donne ( Mc 15,40 ; Mt 27, 55-56; Lc 23,49 e 24,10 ). Gesù difende la donna dal sopruso del marito circa il divorzio ( Lc 16,18) e salva l’adultera dalla condanna a morte ( Gv 8,1-11 ).

 

Gesù e i bambini

 

I bambini non avevano diritti. Dovevano stare in casa con le donne. Gesù invece “si indigna” con i discepoli che li volevano allontanare da lui, li accarezza e li benedice ( Mc 10,13-16 ). Li propone ai discepoli come modello di fiducia in Dio per la prontezza che essi hanno ad accettare doni dagli adulti con naturalezza, senza sospetto di calcoli e secondi fini ( Mc 10,15 ).

 

Gesù e i malati

 

La mentalità del tempo, come abbiamo già detto, vedeva la causa delle malattie nei peccati commessi. I malati, perciò, si pensava, erano responsabili delle loro disgrazie. Gesù sconfessa questa mentalità ( Cfr Gv 9, l-3 ) e quindi anche ogni forma di ostracismo sociale.

 

Per la storicità basti dire che Gesù operatore di miracoli è attestato dalla più antica tradizione cristiana al pari di Gesù predicatore. Per non accettarlo bisognerebbe eliminare una buona metà del Vangelo di Marco. Fatte alcune riserve: possibilità che qualche miracolo sia stato inventato, secondo le usanze di quei tempi in campo religioso; che qualche altro sia stato ingrandito ( es: moltiplicazione dei pani: da una a due; da 4.000 a 5.000 persone; da un cieco a due ciechi; da un demonio a una legione di demoni, ecc.); dobbiamo però anche dire che da nulla non nasce nulla e quindi se a Gesù viene attribuita una grande attività taumaturgica a favore dei malati, essa deve avere un fondamento storico.

 

Inoltre, l’accusa di scacciare i demoni in nome di Beelzebul ( magia ), l’accusa di guarire in giorno di Sabato e la guarigione della suocera di Pietro ( data la stima del celibato immediatamente successiva nella Chiesa ) sono elementi a favore della storicità dei fatti, in quanto elementi sgradevoli e sicuramente non inventati.

 

Certamente devono essersi verificate delle guarigioni di malati di vario genere, sorprendenti per la gente di quel tempo. In particolare devono aver avuto luogo delle guarigioni di indemoniati. Sovente la malattia era messa in relazione con il peccato e questo, a sua volta, con i demoni. Questo discorso vale soprattutto per l’epilessia, la quale veniva attribuita a un demone che possedeva il malato. La guarigione veniva considerata una vittoria su questo demone. Del resto, la concezione che le malattie fossero causate da spiriti maligni era diffusa in tutto il mondo antico e non solo presso gli Ebrei. Per Gesù l’avvento del Regno di Dio rappresenta la sconfitta di Satana, che cade dal cielo come fulmine ( Lc 10,18 ).

 

Miracoli come “segni”

 

Le guarigioni e gli esorcismi non sono fine a se stessi, ma sono al servizio dell’annuncio del Regno di Dio. Illustrano e confermano la parola di Gesù. Un paralitico viene guarito proprio per convalidare la legittimità del perdono dei peccati pronunciata da Gesù ( Lc 5,17-26 ). Hanno la funzione di segno: il Regno di Dio, attraverso l’azione di Gesù, comincia a realizzarsi.

 

Gesù si rivolge con simpatia e compassione a coloro ai quali non si rivolgeva nessuno: ai deboli, ai malati, ai negletti, agli emarginati. E’ questa la novità sconvolgente! Tutti fuggono dai lebbrosi e dagli ossessi, Gesù invece li avvicina e li tocca. Gesù non conosce il culto della salute, della giovinezza e della capacità, come fanno tutte le altre Religioni, come fanno gli Ebrei e come fa Qumran, la quale diceva apertamente: “Folli, dementi, balordi, alienati, ciechi, paralitici, zoppi, sordi, minorati, di costoro nessuno va accolto nella comunità, perchè angeli santi sono al suo interno”. La descrizione del Regno dei cieli fatta da Gesù ai discepoli del Battista suona in maniera completamente opposta: “I ciechi vedono e gli zoppi camminano, i lebbrosi guariscono e i sordi odono, i morti vengono risuscitati e i poveri ricevono la lieta novella” ( Mt 11,14). La Missione dei Dodici ( Lc 9,1-8 ), la missione dei settantadue ( Lc 10,1-20 ), la Missione definitiva dopo la risurrezione ( Mc 16,15-18 ) comportano sempre un duplice mandato: la predicazione del Regno di Dio e la guarigione dei malati.

 

Il messaggio del Regno di Dio mira all’uomo in tutte le sue dimensioni: non solo all’anima dell’uomo, ma all’uomo intero nella sua esistenza spirituale e fisica, nella concretezza del suo mondo pieno di sofferenza. Ed è un messaggio che vale per tutti gli uomini: non solo per i forti, i giovani, i sani, i capaci, che il mondo tanto volentieri esalta; ma anche per i deboli, i malati, i vecchi, gli incapaci, che il mondo tanto volentieri dimentica, ignora, trascura.

Gesù non si è limitato a parlare, è anche intervenuto nella sfera della malattia e dell’ingiustizia. Egli ha non solo il potere di predicare, ma anche il carisma di guarire.

 

Non è semplicemente annunciatore e consigliere. Egli è al tempo stesso risanatore e soccorritore. Per questo motivo la tradizione cristiana antica parla di Gesù come medico delle anime e dei corpi.

 

I moralmente inadempienti

 

Gesù non solo si è occupato dei poveri, dei malati, degli ossessi; non solo ha avuto attenzione per le donne, i bambini e la gente semplice; ma ha avuto anche contatti con persone moralmente inadempienti, palesemente irreligiose e immorali. Questo fu il vero e autentico motivo di scandalo.

 

A Gesù non solo fu applicato l’epiteto ingiurioso di mangione e beone, ma anche quello più pesante di amico dei pubblicani e peccatori. Gesù ha frequentato con assiduità provocatoria individui moralmente trasgressivi.

 

Il vangelo attesta espressamente dei casi di peccatori pubblici, citando anche i nomi: pubblicani ( Matteo e Zaccheo ), prostitute (Lc 7,36-50), adultere (Gv 7,53- 8,11). E le sentenze di Gesù che accompagnano quegli episodi sono rimaste famose: “Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”; “le sono perdonati i suoi molti peccati perchè ha molto amato”; “chi è senza peccato scagli la prima pietra”.

 

Il predicatore del Regno di Dio non ha recitato la parte del pio asceta che evita i banchetti e soprattutto determinate persone. Gesù, contro tutti i pregiudizi e le discriminazioni sociali, si oppose a che determinati gruppi o infelici minoranze venissero squalificati socialmente. Gesù non tentò di solidarizzare a tutti i costi. Non prese parte alla caotica attività di cerchie equivoche. Non si abbassò al loro livello, ma le innalzò al proprio.

 

Gesù inoltre non si limitò a discutere con loro, ma si sedette a tavola con loro. Essere seduti insieme a tavola non vuol dire soltanto gentilezza e affabilità, ma pace, fiducia, conciliazione, fraternità. Il capofamiglia ebreo spezza il pane all’inizio del pasto e recita una benedizione. Chi partecipa al pane partecipa alla benedizione di Dio. Gesù spartiva la mensa al cospetto di Dio con uomini peccatori. Così Egli intendeva offrire pace e riconciliazione anche ai moralmente inadempienti, che i pii ebrei invece emarginavano ( Cfr. Capitolo X ).

 

La salvezza

 

Per gli Ebrei la salvezza riguarda la vita presente: Dio assicura al popolo una terra dove possa vivere a lungo nella libertà, crescere, moltiplicarsi e godere i frutti della terra. Vale sempre il trinomio: Dio – popolo – terra. Solo tardivamente si fa strada l’idea della vita futura con Dio ( Libro dei Maccabei ).

 

Per Gesù il Regno di Dio ( progetto di salvezza ) riguarda la vita presente, ma in prospettiva escatologica: vita beata ed eterna con Dio, gli angeli e i santi. Riguarda tutto l’uomo e tutti gli uomini. Il centro dell’attenzione è la persona umana, nel suo aspetto fisico e spirituale. Essa è più importante della Legge e del Tempio. Se si trova nel bisogno occorre andare in suo soccorso.

 

Per la Chiesa Feudale ( Clericale, giuridica e verticista ) la salvezza riguarda solo l’anima e si realizza nella vita eterna. La vita presente è destinata alla sofferenza, il mondo presente è una “valle di lacrime” ( Salve Regina ), ecc. Bisogna offrire a Dio la propria sofferenza accettata con rassegnazione, in attesa del premio futuro.

 

Il Concilio ci ha fatto riscoprire il Gesù storico, uomo ricco di umanità, che porta un annuncio di salvezza che comincia a realizzarsi subito ( il già ), qui e adesso, ma che raggiungerà la sua pienezza nel futuro escatologico di Dio ( il non ancora ). La salvezza parziale che Egli dona ai malati con le guarigioni ( sanitas ) è un segno e un anticipo della salvezza piena ed eterna del Paradiso ( salus ).

 

Ospitalità secondo lo stile di S. Giovanni di Dio

 

La teologia del voto di ospitalità nasce dal fatto che Cristo non si è limitato a predicare l’avvento del Regno di Dio, ma ha svolto contemporaneamente un’assidua azione taumaturgica a favore dei malati. E le guarigioni dei malati rappresentano dei segni che il Regno di Dio si sta già realizzando con l’allontanamento delle forze del male che opprimono l’uomo.

 

In questo settore il problema del rinnovamento è molto vecchio, visto che già Pio XI diceva ai nostri Superiori: “Spirito antico, ma mezzi moderni”.

Le trasformazioni del mondo sanitario e ospedaliero sono semplicemente vertiginose e nessun superiore da solo può ragionevolmente pensare dì avere le ricette in tasca per risolvere tutti i problemi. I religiosi verranno sempre più coinvolti personalmente nelle scelte da farsi, anticipando magari le norme legislative. E in questo devono anche avvalersi dell’aiuto degli esperti del settore, che sono dei laici.

 

I nostri ospedali devono essere all’avanguardia sotto l’aspetto tecnico-assistenziale. E già per fare questo ci vuole un impegno notevole di uomini e mezzi, perché i problemi si susseguono con ritmi forsennati e le risorse umane e i mezzi finanziari non sono sempre adeguati.

 

Ma il Concilio ha detto che lo scopo precipuo della presenza dei religiosi negli ospedali è l’annuncio del Regno dì Dio nel mondo della sanità. I religiosi, quindi, dovranno demandare ai laici tante prestazioni di tipo manuale c/o professionale e riservare le poche risorse umane disponibili all’azione dell’apostolato sanitario e ospedaliero. In questo settore poi si dovrà superare il sacramentalismo e mirare soprattutto a una nuova evangelizzazione.

 

I religiosi devono essere gli animatori della comunità ospedalira composta di religiosi, collaboratori laici dipendenti, volontari e malati. Non possono più demandare l’apostolato sanitario-ospedaliero unicamente al Cappellano.

Il progetto di collaborazione con i laici nel mondo sanitario-ospedaliero (insieme per servire ) non nasce dal fatto emergente della mancanza di vocazioni, ma dal concetto di Chiesa come popolo di Dio, sancito dal Concilio.

 

Avendo come punto di riferimento il popolo di Dio che lavora con noi a favore dei malati o ci aiuta dall’esterno, o simpatizza per noi, ecc. la nostra animazione spirituale deve rivolgersi a tutti questi settori, in vari modi: questo è il taglio spirituale con cui va affrontato il discorso dei gruppi o movimenti, cui partecipare il carisma dell’ospitalità secondo lo spirito di San Giovanni di Dio.

 

La CARTA D’IDENTITA’ dell’Ordine parla:

 

  • di ospitalità olistica, che riguarda la persona intesa come unità fisica e spirituale
  • della sanitas (guarigione dei malati) come obbiettivo primario che gli ospedali devono raggiungere usufruendo di tutti i mezzi che la scienza e la tecnica mettono a nostra disposizione
  • della umanizzazione degli ospedali perché si crei un ambiente sereno per tutti quelli che vi entrano
  • ma anche della salus ( salvezza eterna ) come obbiettivo dell’apostolato ospedaliero ( ultimo nell’esecuzione, ma primo nell’intenzione ).

 

Domande

 

1 – Vado dietro ai potenti, ai ricchi? Cerco la carriera ecclesiastica?

O anch’io, come Gesù, sono amico dei poveri, degli oppressi, dei malati, degli ignoranti, dei deboli, degli emarginati, degli ultimi, dei senza-speranza?

2 – Le idee di fondo che guidano il mio apostolato ospedaliero sono quelle della Chiesa medioevale: la salvezza dell’anima? O sono quelle di Gesù: approccio dell’uomo sofferente nella ricerca di fare tutto quello che è possibile per lui?

3 – Nel contatto con i malati mi presento come Gesù, uomo ricco di umanità? Ho la pazienza di ascoltare i loro lamenti? Mi interesso ai loro problemi? A quelli delle loro famiglie?

4 – Penso ancora che l’apostolato ospedaliero sia esclusivo dei preti, o mi adopero per creare una chiesa ospedaliera dove tutti gli operatori cristiani si sentano coinvolti ad operare attivamente a favore dei malati sul piano fisico e spirituale ( pastorale d’insieme )?

5 – Cosa penso della nuova evangelizzazione? Sono ancora un seguace di Giovanni Battista, che minaccia i castighi di Dio ( “razza di vipere”! )? O seguo Gesù che annuncia un tempo di grazia per tutti? Sono apportatore di speranza nel mondo della sofferenza?

6 – Nella celebrazione del Sacramento della Penitenza mi atteggio a giudice severo ( al posto del Padre eterno )? Oppure mi presento come ministro del perdono gratuito di Dio che riempie il cuore di gioia e trasforma i cuori?

7 – Cosa penso del sacramento degli infermi? Un Sacramento che agisce automaticamente e che bisogna dare a tutti i costi, anche contro voglia o quando il malato non capisce più niente? O è l’espressione della volontà della Chiesa che vuole fare tutto il possibile per il bene del malato e prega Dio per la sua salute e per la sua salvezza? ( Cfr Rituale, introduzione, n. 5 ).

 

Bibliografia essenziale

 

AA.VV. Diaconia della carità nella pastorale della Chiesa locale, Gregoriana, Padova, 1988.

T.Goffi e G. Piana, Corso di morale, 5 volumi, Queriniana, Brescia, 1983

T.C. Larchet, Teologia della malattia, Queriniana, Brescia, 1993

P.M.Zulehner, Teologia pastorale, 4 volumi, Queriniana, Brescia, 1992

G. Pasini, La Chiesa del grembiule, in: RELIGIONE E SCUOLA, Queriniana, Brescia, n. 5, Mag/Giu 1994, pagg. 3-13.

 

07 – PADRE NOSTRO – L’AMORE DEL PROSSIMO – Luca Beato oh

  VII

L’AMORE DEL PROSSIMO

 

Gesù chiede anzitutto un radicale e integrale orientamento della vita umana verso Dio. La “metànoia”( Mc 1,15 ), cioè la conversione ( non la penitenza ), consiste in una decisiva trasformazione della volontà, un nuovo atteggiamento di fondo, una opzione fondamentale a favore di Dio. Non si richiede la confessione dei propri peccati, ma il rifiuto della propria vita peccaminosa, della propria vita precedente e un orientamento verso il futuro migliore che Dio promette e dona con l’avvento del suo Regno. A questo futuro l’uomo si deve dedicare totalmente, senza voltarsi indietro dopo aver posto mano all’aratro ( Lc 9,62 ).

 

L’uomo deve consacrare il suo cuore a Dio e a niente altro: non al denaro e ai beni materiali ( Mt 6,19-21.24-34; Mc 10,17-27 ); non al diritto e all’onore ( Mt 5,38-42; Mc 10,42-44 ); neppure ai genitori e alla famiglia ( Lc 14,26; Mt 10,39 ). Chi vuole essere discepolo di Gesù deve “odiare” ( = mettere in secondo piano ) padre, madre, fratelli, sorelle, moglie, figli e perfino se stesso. Già, perchè l’esperienza insegna che il nemico più forte della nostra conversione è proprio il nostro io. La realtà invece è questa: chi ama la propria vita la perderà, chi invece la perde per Cristo e per il Vangelo, la ritroverà ( Lc 17,33; Mt 10,39 ).

 

Il discepolo di Gesù, per sè, non è che debba compiere degli atti di eroismo, ma deve vivere continuamente nella gioiosa gratitudine di chi ha trovato il tesoro nascosto nel campo o di chi è riuscito ad acquistare la perla preziosa. Il modello di questo atteggiamento è il bambino, non per la sua presunta innocenza, ma perchè ha totale fiducia nei suoi genitori, si lascia aiutare da loro naturalmente ed accetta spontaneamente e con riconoscenza i loro doni. L’invito di Gesù alla conversione del cuore è un invito alla gioia. E devono gioire anche gli altri ( il fratello del figlio prodigo ), come gioisce il Padre celeste per un peccatore pentito. Nei confronti di Dio noi ci dobbiamo sentire come figlioli nella casa del proprio Padre e non come schiavi sotto il Padrone. I rapporti tra noi e Dio non sono regolati da leggi scritte o da statuti giuridici, ma dall’amore gratuitamente offerto da Dio e fiduciosamente accolto dall’uomo.

 

 

 

La volontà di Dio è il bene dell’uomo

 

Da quanto è stato detto finora dovrebbe apparire chiaro che Dio non vuole niente per sè. La volontà di Dio è il bene dell’uomo, la vera grandezza dell’uomo, la sua dignità suprema.

 

In tutta la Bibbia viene detto diffusamente che la volontà di Dio è una volontà di salvezza sia del singolo uomo che di tutti gli uomini. Più precisamente all’inizio si tratta della salvezza del popolo ebreo e dei singoli nell’ambito della salvezza del popolo; ma poi si fa strada l’idea che Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini.

 

Questa volontà di salvezza si traduce in aiuto e liberazione, difesa e protezione, risanamento e risollevazione. Dio vuole la vita del suo popolo, la sua gioia, la sua libertà, la sua pace, la sua salvezza, la sua felicità completa e duratura.

 

L’annuncio, che fa Gesù, dell’avvento del Regno di Dio, significa per l’uomo un annuncio di salvezza completa offerta gratuitamente da Dio, un annuncio di redenzione, di pacificazione, di felicità. In Gesù si ha proprio una radicale identificazione della volontà di Dio con il bene dell’uomo. Dio non viene visto senza l’uomo, l’uomo non viene visto senza Dio.

 

Le conseguenze di questo insegnamento sono logiche e immediate:

- Non si può essere per Dio e contro l’uomo.

- Non si può essere persone pie e comportarsi in modo disumano.

Tutto ciò sembrerebbe una cosa ovvia, ma invece non lo è, nè oggi nè al tempo di Gesù. Questa invece è la novità assoluta portata da Gesù: il vino nuovo che gli otri vecchi non possono contenere; il tessuto nuovo che non si può usare per rappezzare quello vecchio.

Poichè è in gioco l’uomo:

  •  
    • Gesù, che solitamente è rispettoso della Legge, non esita ad andare
    • mangiare e nel bere.
    • Gesù rigetta l’osservanza rigida del riposo del Sabato perchè disumana e dichiara esplicitamente che il Sabato è fatto per l’uomo.

 

La Legge non è un assoluto

 

Gesù ha relativizzato la Legge. La causa di Dio non è la Legge, ma l’uomo. Questo vuol dire: umanità al posto di legalismo, istituzionalismo, giuridismo, dogmatismo. Non si tratta di abolire norme ed istituzioni, ma di valutarle in funzione dell’uomo, di umanizzarle. Non si vuole, certo, sostituire la volontà dell’uomo a quella di Dio, si vuole significare che la Legge non è un assoluto, ma ha la funzione di favorire il bene dell’uomo. I comandamenti esistono per l’uomo, non l’uomo per i comandamenti ( Mc 2,27 ) .

 

 

Il Tempio non è un assoluto

 

Gesù relativizza il Tempio. Non si tratta qui solo dell’edificio sacro, ma dell’intero ordine del culto a Dio, il servizio divino. “Prima riconciliati con tuo fratello, poi vieni a presentare la tua offerta” ( Mt 5,23 ). Alla riconciliazione fraterna e al servizio quotidiano fatto al prossimo va accordata la priorità rispetto al servizio divino e all’osservanza del giorno riservato al culto divino.

Gesù non abolisce la Liturgia, anche se predica la fine del Tempio, ma la vuole vedere al servizio delle esigenze umane. La Causa di Dio non è il culto, ma l’uomo: umanità invece di formalismo, ritualismo, liturgismo, sacramentalismo.

Certo, il servizio umano non sostituisce il servizio divino; ma il servizio divino è in funzione del servizio umano. Non si può prendere in seria considerazione Dio e la sua volontà, senza prendere contemporaneamente in seria considerazione l’uomo e il suo bene.

Gesù, quando prende le difese dell’uomo, non esita ad assumere atteggiamenti di combattività ed aggressività contro persone ed istituzioni. Gesù non è la figura dolce, mite, arrendevole, quieta, umile, paziente che certo pietismo e devozionismo vorrebbe farci credere.

 

Amore di Dio e del prossimo

 

Anche il Giudaismo parla sporadicamente di un amore su due piani: Dio e il prossimo. Gesù fa una originalissima riduzione e concentrazione di tutti i comandamenti a questi due dell ’amore di Dio e del prossimo, annodandoli strettamente tra di loro in una indissolubile unità. Dopo di Lui, non è più possibile dividere la religiosità dal comportamento. L’ unico amore si deve esprimere in atti di culto verso Dio e in gesti d’amore verso il prossimo.

 

Sia ben chiaro che per Gesù Dio e l’uomo non sono la stessa cosa. Dio resta Dio e l’uomo resta uomo. Dio detiene il primato assoluto e va amato con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze ( Mt 22,37 ). Ma amare Dio non vuol dire fuggire dal mondo, cercare l’unione mistica con Dio nella solitudine. L’amore di Dio senza l’amore dell’uomo è vuoto e illusorio. L’amore del prossimo, però, è distinto dall’amore di Dio e non può diventare strumento dell’amore di Dio. Cioè, io devo amare il prossimo per se stesso, perchè Dio vuole che io ami tutti i figli suoi. Quando aiuto il prossimo che è nel bisogno non devo fare discorsi pii. Il samaritano presta soccorso al ferito che incontra sulla via senza addurre motivazioni religiose. E’ il suo gesto di carità che è per se stesso gradito a Dio. I benedetti del giudizio finale si meravigliano che le opere di misericordia fatte al prossimo, Dio le consideri come fatte a sè. Amore del prossimo non vuol dire amore dell’umanità in genere. L’umanitarismo non costa nulla, è facile a praticarsi. Ma la prestazione concreta fatta al singolo malato, affamato, oppresso, impegna seriamente e profondamente.

 

E’ al vicino che dobbiamo guardare: in famiglia, in parrocchia, nella scuola, nel campo professionale, ecc. E’ più facile solidarizzare con poveri dell’India e dell’Africa, che con i marocchini, che vengono qui da noi. Quanto più lontano è il prossimo, tanto più agevole risulta una professione verbale d’amore.

 

Gesù invece vuole l’amore pratico e concreto. Per Gesù l’amore non è solo amore dell’uomo, ma essenzialmente amore del prossimo. E nell’amore del prossimo trova la sua realizzazione pratica l’amore di Dio. Dall’intensità del mio amore per il prossimo, ho la misura dell’intensità del mio amore per Dio.

 

“Come te stesso”

 

Il prossimo va amato “come te stesso”( Lv 19,18; Mt 22,39 ). Noi amiamo istintivamente noi stessi e sappiamo bene quello che vogliamo gli altri facciano a noi. Quello che istintivamente vogliamo per noi, uscendo dal nostro egoismo, lo dobbiamo volere e fare anche al nostro prossimo. Non è che dobbiamo estinguere il nostro io, come voleva una certa ascetica del passato, ma aprirci agli altri: essere vigili, attenti, disponibili a venire in aiuto agli altri. Denominatore comune dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo è quindi il ripudio dell’egoismo, la volontà di dedizione. Dio non mi chiama dalle nuvole e nemmeno dal fondo della mia coscienza, ma soprattutto attraverso il prossimo: un appello che non si spegne mai, che ogni giorno torna a raggiungermi in mezzo alla mia vita quotidiana nel mondo.

 

Chi è il mio prossimo

 

Per gli Ebrei ( Lv 19,18 ) si tratta dei membri del proprio popolo; gli altri sono nemici. Gesù non dà una definizione del prossimo, ma con la parabola del buon samaritano indica che il prossimo non sono soltanto quelli della propria famiglia, della cerchia deg1i amici; quelli del mio partito, del mio popolo, ma anche gli estranei. Il prossimo è imprevedibile. E’ chiunque ha bisogno di me. Inoltre l’inversione della risposta (” Chi ti sembra sia stato il prossimo a colui”…) rispetto alla domanda (“Chi è il mio prossimo? ) indica che il centro della parabola è l’urgenza di praticare l’amore concreto verso chi ha bisogno.

 

Anche i nemici

 

Gesù non parla solo di amore verso il prossimo, ma anche di amore verso i nemici. Questa è la sua caratteristica esclusiva.­ La “regola aurea”: ” Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” ( Mt.7,l2 ), almeno nella forma negativa, era nota anche nell’Antico Testamento ( Tb 4,l5 ). Gli Ebrei forse l’avevano mutuata dalla filosofia greco-romana. Il Rabbi Hillel ( 20 a.C. ), nella forma negativa, la definisce la “summa”‘ della Legge.

Il programma “amate i vostri nemici” appartiene a Gesù, che, in questa maniera toglie ogni confine all’amore del prossimo. Mentre Qumran diceva di odiare i nemici, Gesù dice: “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano ( Mt 5,43 s ), fate del bene a quelli che vi odiano ( Lc 6,27 ). Nella parabola del buon samaritano la persona da imitare non è nè il sacerdote, nè il levita ( = fallimento morale ) e nemmeno un Ebreo laico, ma un Samaritano ( per gli Ebrei un nemico, uno scomunicato, un eretico), uno da cui bisognava stare alla larga, al quale non bisognava nè dare nè ricevere il saluto.

 

Per quale motivo?

 

Il motivo per cui dobbiamo amare anche i nemici non è il fatto che abbiamo la medesima natura, non è la filantropia, non è la pietà universale, ma la perfetta imitazione di Dio. Dio non divide l’umanità in buoni e cattivi. Il sole e la pioggia vengono concessi a tutti senza alcuna discriminazione. Con l’amore reciproco gli uomini e le donne devono dimostrarsi figli e figlie dello stesso Padre, divenendo, da nemici che erano, fratelli e sorelle ( Mt 5,45 ).

 

L’amore di Dio per i nemici è quindi esso stesso la ragione dell’amore dell’uomo per i nemici. Per giunta è proprio verso i nemici che si manifestano le caratteristiche dell’amore vero: non cerca il contraccambio, non attende ricompensa.

 

E’ immune da qualsiasi calcolo ed egoismo latente, ed è interamente aperto all’altro.

 

La radicalità autentica

 

Gesù non è un fanatico, come ce n’erano tanti al suo tempo, conservatori, rivoluzionari, moralizzatori. Gesù si pone al di sopra di tutte le correnti. La sua radicalità è la radicalità dell’amore.

L’amore predicato da Gesù non comporta di per sè, il compimento di grandi azioni, di grossi sacrifici. Qualche volta, certo, può esigere la rottura con i parenti, la rinuncia ai propri beni, perfino il martirio. Ma normalmente si realizza nella vita quotidiana: salutare per primo ( Mt 5,47 ), scegliere l’ultimo posto a tavola ( Lc 14,7-11 ), essere in ogni caso sinceri ( Mt 5,37 ).

Per illustrare meglio la radicalità dell’amore cristiano, sia sul piano individuale, sia sul piano comunitario, ne focalizziamo tre aspetti: il perdono, il servizio e la rinuncia.

 

La riconciliazione con il fratello precede il servizio divino. Senza riconciliazione con il fratello non esiste riconciliazione con Dio ( Padre nostro ). Più esattamente, è la presa di coscienza di essere peccatori che hanno ottenuto da Dio il grande perdono ad aprirci il cuore a concedere al prossimo il piccolo perdono ( Parabola del re magnanimo e dal servo spietato: Mt 18,21-35 ). Il perdono che vuole Gesù è senza limiti, settanta volte sette ( Mt 18,22; Lc 17,4 ).

 

Il coraggio di servire gli ultimi conduce alla vera grandezza. E’ questo il senso della parabola del convito ( Lc 14,11 ): all’autoesaltazione segue l’onta della degradazione; all’autoumiliazione segue l’esaltazione per opera di Dio. Gesù vuole un servizio fraterno altruistico nella comunità apostolica e non rapporti gerarchici. Ci torna su più volte: nella richiesta dei figli di Zebedeo, nella disputa tra gli apostoli, nell’ultima cena con la lavanda dai piedi. Il più grande è colui che serve a tavola ( Mc 10,43 ss ). In questo devono prendere esempio da Gesù che non è venuto per essere servito ma per servire a dare la sua vita in riscatto per molti. Tra i discepoli di Gesù non ci deve essere nessuna carica fondata sul diritto e sul potere (come il potere statale) e neppure sulla dignità e sulla dottrina ( come le cariche degli scribi ). Nel popolo di Dio i Superiori devono servire più degli altri il gruppo al quale sono preposti.

 

Gesù esige la rinuncia alle realtà negative ( brame, peccati ): se il tuo occhio ti è di scandalo, cavalo, ecc.( Mc 9,43 ); non solo, ma diffida dallo sfruttare i più deboli ( Mc 12,40 ): divorano le case delle vedove ) e vuole anche la rinuncia a realtà positive come il diritto e il potere. Questo è il significato di fare due miglia con chi te ne chiede uno; dare anche il mantello a chi ti ha tolto la tunica; porgere l’altra guancia a chi ti ha percosso su una ( Mt 5,39-41).

 

Proprio questi esempi, nella loro espressione paradossale, fanno capire che non si tratta di norme giuridiche, ma di uno spirito nuovo di rinuncia a combattere la violenza con la violenza. Questa rinuncia non è espressione di debolezza; non è neppure rinuncia alla protesta contro i soprusi ( Gesù in tribunale ha protestato contro uno schiaffo ingiusto ).

 

Gesù fa degli appelli per un radicale compimento della volontà di Dio, la quale è sempre, in tutte le circostanze, favorevole al prossimo. Ogni rinuncia è espressione quindi di una grande forza d’animo, perchè è solo il lato negativo di una nuova prassi positiva.

 

In questa prospettiva vanno rivisti anche i dieci comandamenti. Essi acquistano significato nel contesto della “giustizia migliore” del discorso della montagna. 

  1. 1 ) Non solo non avere altri dèi all’ infuori di Lui, ma amarlo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente, amare il prossimo e addirittura il nemico come se stessi.
  2. 2 ) Non solo non pronunciare invano il nome di Dio, ma neppure giurare su Dio.
  3. 3 ) Non solo santificare il sabato con il riposo, ma in quel giorno fare attivamente il bene.
  4. 4 ) Non so1o onorare il padre e la madre per vivere a lungo sulla terra, ma, se necessario per una vita autentica, rispettarli anche nella forma della separazione.
  5. 5 ) Non solo non uccidere, ma evitare pensieri e discorsi dettati dall’ira.
  6. 6 ) Non solo non commettere adulterio, ma rifuggire da intenzioni adultere.
  7. 7 ) Non solo non rubare, ma rinunciare al diritto di restituire un torto subito.
  8. 8 ) Non solo non rendere falsa testimonianza, ma fare in modo che il sì sia con assoluta sincerità un sì e il nò un nò.
  9. 9 ) Non solo non attentare alla casa e alla roba del prossimo, ma sopportare ogni sopruso.
  10. 10 ) Non solo non attentare alla donna del prossimo, ma astenersi dal divorzio legale.

L’amore trascende ogni Legge, ogni precetto, ogni comandamento. Chi ama ha già adempiuto la Legge, dice bene S. Paolo ( Rm 13,8-10 ). E S. Agostino ribadisce: “Ama e fa quello che vuoi”. Se ami davvero Dio e il prossimo, non hai bisogno di Leggi che ti indichino il comportamento da tenere perchè il tuo cuore ti suggerirà in ogni circostanza cosa devi fare.

06 – PADRE NOSTRO – LA VOLONTA’ DI DIO – Luca Beato oh

 

VI

LA VOLONTA’ DI DIO

( Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra )

Gesù ha predicato l’avvento del Regno di Dio e con i gesti di liberazione dell’uomo dalle forze del male ne ha iniziato la realizzazione.

Ci chiediamo ora qual è stata la norma suprema che ha guidato la sua vita e la sua missione e che poi ha indicato anche a noi. Scoprirlo è molto importante sia per la storia di Gesù, sia per la nostra vita di cristiani oggi.

Non una legge di natura

Gesù per legittimare i suoi precetti non prende le mosse da una natura immutabile, che si presume riconoscibile con sicurezza e in cui tutti gli uomini si ritroverebbero accomunati. L’attenzione di Gesù è rivolta non ad una natura umana astratta, ma al singolo uomo concreto. Gesù non parla, come Confucio, di una legge eterna che governa il mondo e alla quale l’uomo deve conformare il suo agire. Non formula principi primi, da cui si possano dedurre norme morali per ogni caso della vita ( proprietà privata, famiglia, stato, sessualità, divorzio, pena di morte, ecc.). Certo, il mondo e l’uomo parlano di Dio, ne indicano la bontà, la provvidenza e anche il giudizio ( le disgrazie ). Gesù però non si basa sulla natura per ricavarne un sistema normativo. Gesù è alieno da un’etica del diritto naturale.

Gesù non enuncia neanche un’etica formale del dovere, come farà poi Kant. Gesù non propose neppure un’etica materiale dei valori, come venne elaborata soprattutto da Max Scheler. Non stabilisce una scala gerarchica che, dai valori materiali, attraverso quelli vitali, estetici ed intellettuali, salga fino ai valori morali e religiosi. L’amore stesso non viene posto da Gesù come valore supremo da cui derivare organicamente tutto il resto.

Non una legge di rivelazione

Norma suprema non è neppure una legge di Dio rivelata. Gesù non è come Mosè, Zarathustra, Maometto, esponenti di una tipica Religione della Legge di Rivelazione, che regola ogni singolo aspetto della vita.

Nella Storia della Chiesa spesso Gesù è stato presentato come nuovo Legislatore, nuovo Mosè e il Vangelo come una nuova Legge. Che cosa dire di tutto ciò? Mettiamo in chiaro prima di tutto che Gesù non ha mai ripudiato la Legge, ma ha combattuto il legalismo farisaico assai diffuso. La Legge in sè testimonia il volere ordinante di Dio, la sua bontà e fedeltà, la sua grazia e il suo amore per il popolo. La sua osservanza esige non soltanto singole azioni esterne, ma il cuore stesso dell’uomo ( Dt 6,4-7 ). Ciononostante, la Legge non fu per Gesù la norma suprema, tale da escludere ogni possibilità di esenzione. Egli scavalcò non solo la Halacha, la Tradizione, l’interpretazione della Legge, ma anche la Tora, la Legge stessa.

Attaccò le prescrizioni rituali relative alla purezza legale, al digiuno, al cibo puro e impuro ( Lv 11; Dt 14,3-21; Mt 15,11-20 ) e al riposo assoluto del Sabato ( Dt 5,12-14; Mc 2,27 ). Si pone contro la Tora con la proibizione del divorzio ( Mc 2,9 ), del giuramento ( Mt 5,33-37 ), della rappresaglia ( Lc 6,28 ), come pure con l’esortazione ad amare i nemici ( Mt 5,44 ).

Gesù critica il culto. Il Tempio non è eterno, Egli ne prevede la distruzione e la sostituzione. Ai Sacrifici del Tempio, antepone la riconciliazione fraterna.

Si può veramente dire che Gesù non ha dato soltanto delle interpretazioni nuove alla Legge; così pure non ha soltanto inasprito certe norme, come il Maestro di giustizia a Qumran. Egli ha proprio scavalcato la Legge con sorprendente autonomia e libertà. Non è un’affermazione da poco la migliore giustizia predicata da Gesù (Mt 5,20), che suscitava meraviglia negli ascoltatori ( Mc 1,22 ).

Volontà di Dio

Sia fatta la tua volontà” ci ha insegnato a dire Gesù nella preghiera del “Padre nostro”. A Gesù sta a cuore la causa di Dio e l’avvento del suo Regno. Il messaggio dell’avvento del Regno di Dio significa: “Si compia qui ed ora ciò che Dio vuole”. Per Gesù questo vale sempre, perfino nel momento supremo della sua passione ( Mt 26,42 ). Questo deve valere sempre anche per i seguaci di Gesù. Chi compie la volontà di Dio è per Gesù come un fratello, una sorella, una madre ( Mc 3,35 ). Non chi dice : “Signore! Signore!”, ma chi fa la volontà del Padre entrerà nel Regno dei cieli ( Mt 7,21. Cfr. Parabola del figlio disobbediente e del figlio obbediente: Mt 21,28-32). E’ perciò innegabile, e tutto il Nuovo Testamento lo conferma, che per Gesù la norma suprema è la volontà di Dio.

Fare la volontà di Dio è diventato per molti una formula. Per gli Ebrei la volontà di Dio si identificava con la Legge e ciò ha portato al legalismo. La Legge dà sicurezza: si sa quello che si deve fare, nulla di meno ( e questo a volte può risultare gravoso ), ma anche nulla di più ( e questo a volte fa piuttosto comodo ). Il legalismo sviluppa la casistica, così col tempo si accumulano le prescrizioni, man mano che si presentano situazioni nuove. Nell’Antico Testamento si è arrivati alla formulazione di 613 precetti. Nel nuovo Codice di Diritto Canonico sono contemplati 1752 canoni. Quanto più si accumulano comandi e divieti, tanto più si nasconde l’essenziale. E’ possibile osservare la Legge solo perchè così è prescritto, o perchè si temono le conseguenze negative, le sanzioni contro i trasgressori; cosicchè se non fosse prescritto, non lo si farebbe. E’ la formalizzazione dell’Autorità e dell’Obbedienza.

In questo contesto, inoltre, tutti i precetti in linea di principio sono uguali; non si distingue più quello che è importante da quello che non lo è.

L’uomo, oggi come allora, si affida volentieri al legalismo, perchè esso ha i suoi vantaggi. I doveri verso gli altri sono ben definiti. Se poi uno fa il di più, può anche vantare dei meriti davanti a Dio.

Gesù misura la lettera della Legge sulla volontà di Dio e pone l’uomo direttamente al cospetto di Dio in una forma liberatoria e consolante.

Il rapporto tra noi e Dio, ci dice Gesù, non è un rapporto giuridico, ma un rapporto personale. L’uomo deve affidarsi non a una Legge, ma direttamente a Dio, offrendosi a fare ciò che Dio vuole su un piano strettamente personale.

Per questo Gesù non è e non vuole essere un Legislatore. Non redige nè una teologia morale, nè un codice di comportamento. Non emana norme morali o rituali. Non indica all’uomo come debba pregare, digiunare, rispettare i tempi e i luoghi sacri. Il “Padre nostro” ci arriva in due versioni diverse, segno che non si tratta di una formula. Lo stesso comandamento dell’amore non deve essere inteso come una nuova legge giuridica.

Lungi da ogni casistica e da ogni legalismo, Gesù chiama la singola persona ad un’obbedienza verso Dio che deve coinvolgere la vita intera.

Appelli semplici, limpidi, liberatori, non basati sull’Autorità o sulla Tradizione, per offrire esempi, segni, sintomi di vita rinnovata. Grandi, proficue direttive, formulate in modo quasi paradossale, senz’ombra di compromessi.

- Se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, càvalo!

- Sia il tuo parlare sì, quando è sì e nò, quando è nò.

- Riconciliati prima con tuo fratello.

E a ciascuno poi spetta il compito di effettuarne personalmente l’applicazione alla propria vita.

Il senso del discorso della montagna

Il discorso della montagna ( Mt 5-7 ; Cfr. Lc 6,17 ss : discorso della pianura ) in cui Matteo raccoglie in modo ordinato i precetti morali di Gesù, costituisce il tentativo più serio e impegnativo di spiegare in che cosa consista concretamente la volontà di Dio. Questo “Discorso” rappresenta una sfida per tutti, cristiani e non cristiani, per capirne il senso e la portata. Perciò è opportuno fare almeno un approccio alle principali interpretazioni.

Un’etica più severa della Legge?

Il fatto che si parli di “giustizia migliore” e di “perfezione”, come pure la definizione data di “Legge di Cristo” ( c’è poi anche il loghion sullo jota della Legge che non andrà perduto ), tutti questi elementi potrebbero farci pensare che si tratti di un’etica più severa. Ma il messaggio di Gesù non è una somma di precetti. Al vertice del discorso stanno infatti le Beatitudini promesse agli infelici con l’avvento del Regno di Dio e la sua giustizia. Il dono di Dio, l’elargizione, la grazia, precedono la norma, il precetto, la direttiva. A tutti viene offerta la salvezza: non ci sono privilegiati ed esclusi. E proprio a coloro che pensano di essere dimenticati da Dio, Gesù annuncia che Dio si è ricordato di loro e viene in loro aiuto.

Un’etica a due classi?

L’etica dei comandamenti sarebbe per i semplici cristiani; l’etica dei consigli evangelici sarebbe per i discepoli, cioè per il clero e i religiosi. Così si è pensato in campo cattolico fino al Concilio Vaticano II.

In realtà il Discorso della montagna e quindi anche i consigli evangelici sono rivolti a tutti. La “giustizia migliore” è richiesta ad ogni uomo come condizione indispensabile per far parte del Regno di Dio.

Un’etica penitenziale?

Il Discorso della montagna sarebbe un prospetto per un esame di coscienza, uno specchio davanti al quale l’uomo vede la sua impotenza, un invito alla penitenza. Noi non riusciamo a realizzare il discorso della montagna, ma ci basta il desiderio di farlo; c’è chi lo fa per noi: Gesù Cristo ( Martin Lutero ).

Ma nel Vangelo non si dice mai che Gesù Cristo pratica i precetti assoluti del Discorso della montagna al nostro posto. La nostra conversione esige non solo la fiducia totale in Dio, ma anche la pratica delle opere dell’amore di Dio e del prossimo.

Una pura etica del sentimento?

Bastano i buoni sentimenti, il cuore. Così Kant, l’Idealismo filosofico e il Liberalismo teologico del secolo scorso. Siamo d’accordo che il motivo, il come e il perchè di una determinata azione sono importanti, ma nel discorso della montagna, come del resto in tutta la vita morale, l’azione in se stessa ha il suo peso preponderante. Già il sentimento è inteso come azione in quanto la precede e la prepara. Ma sentimento e azione, cuore e agire, non vanno disgiunti.

Una nuova etica sociale?

Si tratta del progetto di un nuovo ordine sociale dell’amore e della pace, del Regno di Cristo sulla terra, contro il potere statale, l’ordinamento giuridico, la polizia e l’esercito. Così molti entusiasti ( calmi o rivoluzionari ) nel corso della storia. Così Lev Tolstoj e molti socialisti religiosi.

In realtà il discorso della montagna non viene presentato come una legge basilare di una nuova società, capace di aiutare gli uomini a liberare il mondo da ogni piaga. Esso certo non va limitato ai rapporti individuali e familiari, ma neppure dilatato fino a farne un programma sociale.

Un’etica interinale di breve durata?

Data l’imminenza dell’avvento del Regno di Dio escatologico, questa sarebbe la legislazione eccezionale per il tempo finale. Così J. Weiss e A. Schweitzer.

Ma i precetti di Gesù, ad es. l’amore del prossimo, non trovano la loro motivazione semplicemente nella prossima fine del mondo, ma fondamentalmente nella volontà e nell’essenza di Dio. Non si pretendono azioni eroiche, eccezionali, come la cessione di ogni possesso, il martirio, ma gesti d’amore puramente quotidiani.

Sia fatta la volontà di Dio

Fare la volontà di Dio. Questo è il filo conduttore del Discorso della montagna. Solo con una decisa, coraggiosa attuazione della volontà di Dio si diviene partecipi delle promesse del Regno dei cieli.

Ma il progetto liberatorio di Dio è radicale, rifiuta la casistica e supera il legalismo. Gli esempi sono provocatori ( Mt 5,17-20 ):

- se uno ti percuote sulla guancia destra, tu porgigli anche la sinistra

- se uno ti obbliga a fare con lui un miglio, tu fanne due con lui

- se uno ti toglie la tunica, tu dagli anche il mantello.

Questi esempi provocatori, non sono da intendersi, certo, in senso giuridico. Indicano invece un atteggiamento da tenere nei confronti di chi ci fa violenza. Il precetto di Dio fa appello alla grandezza dell’uomo, tende a un di più, all’incondizionato, all’illimitato, al tutto.

Dio non chiede una mezza volontà, ma la volontà tutta intera.

Dio non chiede solo l’esteriorità controllabile, ma l’incontrollabile

interiorità: esige il cuore stesso dell’uomo.

Dio non vuole soltanto frutti buoni, ma vuole l’albero buono.

Dio non vuole soltanto l’agire, ma l’essere.

Dio non vuole soltanto qualcosa di me, ma la mia vita intera.

Le antitesi del Discorso delle montagna ( Mt 5,21 ss ): “Fu detto agli antichi, ma io vi dico”, esprimono la contrapposizione tra la volontà di Dio e le norme giuridiche. Contro la volontà di Dio non sono soltanto l’adulterio, il giuramento falso, l’omicidio, ma anche ciò che la Legge non riesce ad afferrare: il sentimento adultero, il pensare e il parlare non sincero, l’atteggiamento ostile verso il prossimo.

Se poi nella Chiesa primitiva ci sono stati degli aggiustamenti per ragioni pratiche ( divorzio: Mt 5,32;19,9 ), ciò non toglie nulla al fatto che Gesù, che non era un giurista, abbia fatto degli appelli incondizionati, da tradurre in pratica di volta in volta, nelle diverse situazioni. Per esempio, l’appello alla povertà viene fatto in diversi modi: dare tutto ai poveri ( Mc 10,21 ), dare la metà ( Mc 19,8 ), fare un prestito ( Lc 6,34 ss ), ecc.

Non si tratta, sia ben chiaro, di una superficiale morale della situazione.

Non è la situazione che determina il comportamento morale.

Determinante invece è, nella situazione contingente, il precetto incondizionato di Dio, che vuole investire l’uomo interamente.

Obbedienza nella libertà dei figli di Dio

In questo settore il cambiamento è radicale. Non si parla più di obbedienza di tipo militare in cui bisogna eseguire gli ordini senza discutere. Non si parla più di obbedienza cieca, pronta, assoluta, tamquam cadaver, ma di obbedienza nella libertà dei figli di Dio, di dialogo nella ricerca insieme della volontà di Dio. Le comunità religiose sono formate da persone adulte e il Superiore non è al di sopra di loro come se fossero dei “sudditi” o dei minorenni, ma è il primus inter pares, l’animatore della comunità. Inoltre nel rapporto religiosi e Istituto vengono prima i religiosi e l’Istituto deve aiutarli a raggiungere il loro fine ultimo e non strumentalizzarli al raggiungimento di certi piani settoriali.

Gesù ha sempre cercato nella sua vita dì compiere la volontà del Padre ed ha scoperto che coincideva non con la Legge né con il Tempio, ma con il bene dell’uomo: il Sabato è fatto per l’uomo, non l’uomo per il Sabato. Questa è stata la sua rivoluzione religiosa per la quale è stato condannato a morte.

Gesù ha insegnato ai discepoli che si deve obbedire solo a Dio: uno solo è il vostro Padre, uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli.

Gesù non vuole la sudditanza di un uomo verso un altro uomo. Nel Vangelo viene condannato il potere di dominio ( Mc 10,43 ). La domanda dei figli di Zebedeo è giudicata irragionevole ( Mc 10,35-40 ); nel Regno di Dio il più grande è il fanciullo (Mc 9, 33-37) perché si fida totalmente di Dio; i capi devono servire la comunità ( Mc 10,41-45 ) e non dominarla; Gesù lava i piedi agli apostoli per insegnare loro lo spirito di servizio reciproco. La Chiesa voluta da Gesù è la Chiesa del grembiule.

Ma, come si fa a conoscere la volontà di Dio?

Qui si pone il problema delle mediazioni ufficiali.

Alla Chiesa e ai singoli battezzati Dio fa conoscere la sua volontà attraverso mediazioni ufficiali: Gesù Parola incarnata, il suo esempio di vita; la Parola di Dio contenuta nella Sacra Scrittura, specialmente quella proclamata nella Liturgia; la Chiesa stessa nella sua tradizione viva, nelle sue leggi e nel suo magistero sempre attivo ( Cfr DV 7-10 ). Ma anche attraverso segni da interpretare nella fede: gli eventi della storia, i segni dei tempi, gli appelli urgenti dei fratelli che sono nel bisogno, il grido dei poveri ) …

E’ possibile anche il contrasto tra la volontà di Dio e l’Autorità religiosa costituita. Gesù è stato condannato a morte dall’autorità religiosa. Gli apostoli perseguitati dicono ai capi: “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini ( At 5,29 ). Per i Religiosi ci sono delle mediazioni supplementari più precise: l’Istituto religioso con il suo carisma specifico. Tutte le mediazioni umane sono imperfette e fallibili, perciò devono essere sottoposte a verifica. A livello personale sarà la coscienza, a livello comunitario sarà la comunità religiosa nel suo insieme a determinare le scelte importanti da fare per l’attuazione concreta e attuale del carisma dell’Ordine.

Per fare la volontà dì Dio nell’obbedienza religiosa, non basta obbedire agli ordini dei Superiori, ma occorre fare sempre questo riferimento a Dio.

PARTE SECONDA

VII

L’AMORE DEL PROSSIMO

( Padre nostro )

Gesù chiede anzitutto un radicale e integrale orientamento della vita umana verso Dio. La “metànoia”( Mc 1,15 ), cioè la conversione ( non la penitenza ), consiste in una decisiva trasformazione della volontà, un nuovo atteggiamento di fondo, una opzione fondamentale a favore di Dio. Non si richiede la confessione dei propri peccati, ma il rifiuto della propria vita peccaminosa, della propria vita precedente e un orientamento verso il futuro migliore che Dio promette e dona con l’avvento del suo Regno. A questo futuro l’uomo si deve dedicare totalmente, senza voltarsi indietro dopo aver posto mano all’aratro ( Lc 9,62 ).

L’uomo deve consacrare il suo cuore a Dio e a niente altro: non al denaro e ai beni materiali ( Mt 6,19-21.24-34; Mc 10,17-27 ); non al diritto e all’onore ( Mt 5,38-42; Mc 10,42-44 ); neppure ai genitori e alla famiglia ( Lc 14,26; Mt 10,39 ). Chi vuole essere discepolo di Gesù deve “odiare” ( = mettere in secondo piano ) padre, madre, fratelli, sorelle, moglie, figli e perfino se stesso. Già, perchè l’esperienza insegna che il nemico più forte della nostra conversione è proprio il nostro io. La realtà invece è questa: chi ama la propria vita la perderà, chi invece la perde per Cristo e per il Vangelo, la ritroverà ( Lc 17,33; Mt 10,39 ).

Il discepolo di Gesù, per sè, non è che debba compiere degli atti di eroismo, ma deve vivere continuamente nella gioiosa gratitudine di chi ha trovato il tesoro nascosto nel campo o di chi è riuscito ad acquistare la perla preziosa. Il modello di questo atteggiamento è il bambino, non per la sua presunta innocenza, ma perchè ha totale fiducia nei suoi genitori, si lascia aiutare da loro naturalmente ed accetta spontaneamente e con riconoscenza i loro doni. L’invito di Gesù alla conversione del cuore è un invito alla gioia. E devono gioire anche gli altri ( il fratello del figlio prodigo ), come gioisce il Padre celeste per un peccatore pentito. Nei confronti di Dio noi ci dobbiamo sentire come figlioli nella casa del proprio Padre e non come schiavi sotto il Padrone. I rapporti tra noi e Dio non sono regolati da leggi scritte o da statuti giuridici, ma dall’amore gratuitamente offerto da Dio e fiduciosamente accolto dall’uomo.

La volontà di Dio è il bene dell’uomo

Da quanto è stato detto finora dovrebbe apparire chiaro che Dio non vuole niente per sè. La volontà di Dio è il bene dell’uomo, la vera grandezza dell’uomo, la sua dignità suprema.

In tutta la Bibbia viene detto diffusamente che la volontà di Dio è una volontà di salvezza sia del singolo uomo che di tutti gli uomini. Più precisamente all’inizio si tratta della salvezza del popolo ebreo e dei singoli nell’ambito della salvezza del popolo; ma poi si fa strada l’idea che Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini.

Questa volontà di salvezza si traduce in aiuto e liberazione, difesa e protezione, risanamento e risollevazione. Dio vuole la vita del suo popolo, la sua gioia, la sua libertà, la sua pace, la sua salvezza, la sua felicità completa e duratura.

L’annuncio, che fa Gesù, dell’avvento del Regno di Dio, significa per l’uomo un annuncio di salvezza completa offerta gratuitamente da Dio, un annuncio di redenzione, di pacificazione, di felicità. In Gesù si ha proprio una radicale identificazione della volontà di Dio con il bene dell’uomo. Dio non viene visto senza l’uomo, l’uomo non viene visto senza Dio.

Le conseguenze di questo insegnamento sono logiche e immediate:

- Non si può essere per Dio e contro l’uomo.

- Non si può essere persone pie e comportarsi in modo disumano.

Tutto ciò sembrerebbe una cosa ovvia, ma invece non lo è, nè oggi nè al tempo di Gesù. Questa invece è la novità assoluta portata da Gesù: il vino nuovo che gli otri vecchi non possono contenere; il tessuto nuovo che non si può usare per rappezzare quello vecchio.

Poichè è in gioco l’uomo:

  •  
    • Gesù, che solitamente è rispettoso della Legge, non esita ad andare
    • mangiare e nel bere.
    • Gesù rigetta l’osservanza rigida del riposo del Sabato perchè disumana e dichiara esplicitamente che il Sabato è fatto per l’uomo.

 

La Legge non è un assoluto

Gesù ha relativizzato la Legge. La causa di Dio non è la Legge, ma l’uomo. Questo vuol dire: umanità al posto di legalismo, istituzionalismo, giuridismo, dogmatismo. Non si tratta di abolire norme ed istituzioni, ma di valutarle in funzione dell’uomo, di umanizzarle. Non si vuole, certo, sostituire la volontà dell’uomo a quella di Dio, si vuole significare che la Legge non è un assoluto, ma ha la funzione di favorire il bene dell’uomo. I comandamenti esistono per l’uomo, non l’uomo per i comandamenti ( Mc 2,27 ) .

Il Tempio non è un assoluto

Gesù relativizza il Tempio. Non si tratta qui solo dell’edificio sacro, ma dell’intero ordine del culto a Dio, il servizio divino. “Prima riconciliati con tuo fratello, poi vieni a presentare la tua offerta” ( Mt 5,23 ). Alla riconciliazione fraterna e al servizio quotidiano fatto al prossimo va accordata la priorità rispetto al servizio divino e all’osservanza del giorno riservato al culto divino.

Gesù non abolisce la Liturgia, anche se predica la fine del Tempio, ma la vuole vedere al servizio delle esigenze umane. La Causa di Dio non è il culto, ma l’uomo: umanità invece di formalismo, ritualismo, liturgismo, sacramentalismo.

Certo, il servizio umano non sostituisce il servizio divino; ma il servizio divino è in funzione del servizio umano. Non si può prendere in seria considerazione Dio e la sua volontà, senza prendere contemporaneamente in seria considerazione l’uomo e il suo bene.

Gesù, quando prende le difese dell’uomo, non esita ad assumere atteggiamenti di combattività ed aggressività contro persone ed istituzioni. Gesù non è la figura dolce, mite, arrendevole, quieta, umile, paziente che certo pietismo e devozionismo vorrebbe farci credere.

Amore di Dio e del prossimo

Anche il Giudaismo parla sporadicamente di un amore su due piani: Dio e il prossimo. Gesù fa una originalissima riduzione e concentrazione di tutti i comandamenti a questi due dell ’amore di Dio e del prossimo, annodandoli strettamente tra di loro in una indissolubile unità. Dopo di Lui, non è più possibile dividere la religiosità dal comportamento. L’ unico amore si deve esprimere in atti di culto verso Dio e in gesti d’amore verso il prossimo.

Sia ben chiaro che per Gesù Dio e l’uomo non sono la stessa cosa. Dio resta Dio e l’uomo resta uomo. Dio detiene il primato assoluto e va amato con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze ( Mt 22,37 ). Ma amare Dio non vuol dire fuggire dal mondo, cercare l’unione mistica con Dio nella solitudine. L’amore di Dio senza l’amore dell’uomo è vuoto e illusorio. L’amore del prossimo, però, è distinto dall’amore di Dio e non può diventare strumento dell’amore di Dio. Cioè, io devo amare il prossimo per se stesso, perchè Dio vuole che io ami tutti i figli suoi. Quando aiuto il prossimo che è nel bisogno non devo fare discorsi pii. Il samaritano presta soccorso al ferito che incontra sulla via senza addurre motivazioni religiose. E’ il suo gesto di carità che è per se stesso gradito a Dio. I benedetti del giudizio finale si meravigliano che le opere di misericordia fatte al prossimo, Dio le consideri come fatte a sè. Amore del prossimo non vuol dire amore dell’umanità in genere. L’umanitarismo non costa nulla, è facile a praticarsi. Ma la prestazione concreta fatta al singolo malato, affamato, oppresso, impegna seriamente e profondamente.

E’ al vicino che dobbiamo guardare: in famiglia, in parrocchia, nella scuola, nel campo professionale, ecc. E’ più facile solidarizzare con poveri dell’India e dell’Africa, che con i marocchini, che vengono qui da noi. Quanto più lontano è il prossimo, tanto più agevole risulta una professione verbale d’amore.

Gesù invece vuole l’amore pratico e concreto. Per Gesù l’amore non è solo amore dell’uomo, ma essenzialmente amore del prossimo. E nell’amore del prossimo trova la sua realizzazione pratica l’amore di Dio. Dall’intensità del mio amore per il prossimo, ho la misura dell’intensità del mio amore per Dio.

“Come te stesso”

Il prossimo va amato “come te stesso”( Lv 19,18; Mt 22,39 ). Noi amiamo istintivamente noi stessi e sappiamo bene quello che vogliamo gli altri facciano a noi. Quello che istintivamente vogliamo per noi, uscendo dal nostro egoismo, lo dobbiamo volere e fare anche al nostro prossimo. Non è che dobbiamo estinguere il nostro io, come voleva una certa ascetica del passato, ma aprirci agli altri: essere vigili, attenti, disponibili a venire in aiuto agli altri. Denominatore comune dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo è quindi il ripudio dell’egoismo, la volontà di dedizione. Dio non mi chiama dalle nuvole e nemmeno dal fondo della mia coscienza, ma soprattutto attraverso il prossimo: un appello che non si spegne mai, che ogni giorno torna a raggiungermi in mezzo alla mia vita quotidiana nel mondo.

Chi è il mio prossimo

Per gli Ebrei ( Lv 19,18 ) si tratta dei membri del proprio popolo; gli altri sono nemici. Gesù non dà una definizione del prossimo, ma con la parabola del buon samaritano indica che il prossimo non sono soltanto quelli della propria famiglia, della cerchia deg1i amici; quelli del mio partito, del mio popolo, ma anche gli estranei. Il prossimo è imprevedibile. E’ chiunque ha bisogno di me. Inoltre l’inversione della risposta (” Chi ti sembra sia stato il prossimo a colui”…) rispetto alla domanda (“Chi è il mio prossimo? ) indica che il centro della parabola è l’urgenza di praticare l’amore concreto verso chi ha bisogno.

Anche i nemici

Gesù non parla solo di amore verso il prossimo, ma anche di amore verso i nemici. Questa è la sua caratteristica esclusiva.­ La “regola aurea”: ” Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” ( Mt.7,l2 ), almeno nella forma negativa, era nota anche nell’Antico Testamento ( Tb 4,l5 ). Gli Ebrei forse l’avevano mutuata dalla filosofia greco-romana. Il Rabbi Hillel ( 20 a.C. ), nella forma negativa, la definisce la “summa”‘ della Legge.

Il programma “amate i vostri nemici” appartiene a Gesù, che, in questa maniera toglie ogni confine all’amore del prossimo. Mentre Qumran diceva di odiare i nemici, Gesù dice: “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano ( Mt 5,43 s ), fate del bene a quelli che vi odiano ( Lc 6,27 ). Nella parabola del buon samaritano la persona da imitare non è nè il sacerdote, nè il levita ( = fallimento morale ) e nemmeno un Ebreo laico, ma un Samaritano ( per gli Ebrei un nemico, uno scomunicato, un eretico), uno da cui bisognava stare alla larga, al quale non bisognava nè dare nè ricevere il saluto.

Per quale motivo?

Il motivo per cui dobbiamo amare anche i nemici non è il fatto che abbiamo la medesima natura, non è la filantropia, non è la pietà universale, ma la perfetta imitazione di Dio. Dio non divide l’umanità in buoni e cattivi. Il sole e la pioggia vengono concessi a tutti senza alcuna discriminazione. Con l’amore reciproco gli uomini e le donne devono dimostrarsi figli e figlie dello stesso Padre, divenendo, da nemici che erano, fratelli e sorelle ( Mt 5,45 ).

L’amore di Dio per i nemici è quindi esso stesso la ragione dell’amore dell’uomo per i nemici. Per giunta è proprio verso i nemici che si manifestano le caratteristiche dell’amore vero: non cerca il contraccambio, non attende ricompensa.

E’ immune da qualsiasi calcolo ed egoismo latente, ed è interamente aperto all’altro.

La radicalità autentica

Gesù non è un fanatico, come ce n’erano tanti al suo tempo, conservatori, rivoluzionari, moralizzatori. Gesù si pone al di sopra di tutte le correnti. La sua radicalità è la radicalità dell’amore.

L’amore predicato da Gesù non comporta di per sè, il compimento di grandi azioni, di grossi sacrifici. Qualche volta, certo, può esigere la rottura con i parenti, la rinuncia ai propri beni, perfino il martirio. Ma normalmente si realizza nella vita quotidiana: salutare per primo ( Mt 5,47 ), scegliere l’ultimo posto a tavola ( Lc 14,7-11 ), essere in ogni caso sinceri ( Mt 5,37 ).

Per illustrare meglio la radicalità dell’amore cristiano, sia sul piano individuale, sia sul piano comunitario, ne focalizziamo tre aspetti: il perdono, il servizio e la rinuncia.

La riconciliazione con il fratello precede il servizio divino. Senza riconciliazione con il fratello non esiste riconciliazione con Dio ( Padre nostro ). Più esattamente, è la presa di coscienza di essere peccatori che hanno ottenuto da Dio il grande perdono ad aprirci il cuore a concedere al prossimo il piccolo perdono ( Parabola del re magnanimo e dal servo spietato: Mt 18,21-35 ). Il perdono che vuole Gesù è senza limiti, settanta volte sette ( Mt 18,22; Lc 17,4 ).

Il coraggio di servire gli ultimi conduce alla vera grandezza. E’ questo il senso della parabola del convito ( Lc 14,11 ): all’autoesaltazione segue l’onta della degradazione; all’autoumiliazione segue l’esaltazione per opera di Dio. Gesù vuole un servizio fraterno altruistico nella comunità apostolica e non rapporti gerarchici. Ci torna su più volte: nella richiesta dei figli di Zebedeo, nella disputa tra gli apostoli, nell’ultima cena con la lavanda dai piedi. Il più grande è colui che serve a tavola ( Mc 10,43 ss ). In questo devono prendere esempio da Gesù che non è venuto per essere servito ma per servire a dare la sua vita in riscatto per molti. Tra i discepoli di Gesù non ci deve essere nessuna carica fondata sul diritto e sul potere (come il potere statale) e neppure sulla dignità e sulla dottrina ( come le cariche degli scribi ). Nel popolo di Dio i Superiori devono servire più degli altri il gruppo al quale sono preposti.

Gesù esige la rinuncia alle realtà negative ( brame, peccati ): se il tuo occhio ti è di scandalo, cavalo, ecc.( Mc 9,43 ); non solo, ma diffida dallo sfruttare i più deboli ( Mc 12,40 ): divorano le case delle vedove ) e vuole anche la rinuncia a realtà positive come il diritto e il potere. Questo è il significato di fare due miglia con chi te ne chiede uno; dare anche il mantello a chi ti ha tolto la tunica; porgere l’altra guancia a chi ti ha percosso su una ( Mt 5,39-41).

Proprio questi esempi, nella loro espressione paradossale, fanno capire che non si tratta di norme giuridiche, ma di uno spirito nuovo di rinuncia a combattere la violenza con la violenza. Questa rinuncia non è espressione di debolezza; non è neppure rinuncia alla protesta contro i soprusi ( Gesù in tribunale ha protestato contro uno schiaffo ingiusto ).

Gesù fa degli appelli per un radicale compimento della volontà di Dio, la quale è sempre, in tutte le circostanze, favorevole al prossimo. Ogni rinuncia è espressione quindi di una grande forza d’animo, perchè è solo il lato negativo di una nuova prassi positiva.

In questa prospettiva vanno rivisti anche i dieci comandamenti. Essi acquistano significato nel contesto della “giustizia migliore” del discorso della montagna.

1 ) Non solo non avere altri dèi all’ infuori di Lui, ma amarlo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente, amare il prossimo e addirittura il nemico come se stessi.

2 ) Non solo non pronunciare invano il nome di Dio, ma neppure giurare su Dio.

3 ) Non solo santificare il sabato con il riposo, ma in quel giorno fare attivamente il bene.

4 ) Non so1o onorare il padre e la madre per vivere a lungo sulla terra, ma, se necessario per una vita autentica, rispettarli anche nella forma della separazione.

5 ) Non solo non uccidere, ma evitare pensieri e discorsi dettati dall’ira.

6 ) Non solo non commettere adulterio, ma rifuggire da intenzioni adultere.

7 ) Non solo non rubare, ma rinunciare al diritto di restituire un torto subito.

8 ) Non solo non rendere falsa testimonianza, ma fare in modo che il sì sia con assoluta sincerità un sì e il nò un nò.

9 ) Non solo non attentare alla casa e alla roba del prossimo, ma sopportare ogni sopruso.

10 ) Non solo non attentare alla donna del prossimo, ma astenersi dal divorzio legale.

L’amore trascende ogni Legge, ogni precetto, ogni comandamento. Chi ama ha già adempiuto la Legge, dice bene S. Paolo ( Rm 13,8-10 ). E S. Agostino ribadisce: “Ama e fa quello che vuoi”. Se ami davvero Dio e il prossimo, non hai bisogno di Leggi che ti indichino il comportamento da tenere perchè il tuo cuore ti suggerirà in ogni circostanza cosa devi fare.

 

05 – PADRE NOSTRO – LA COMUNITA’ RELIGIOSA – Luca Beato oh

  V

LA COMUNITA’ RELIGIOSA

 

Dimensione spirituale

 

La vocazione religiosa è una chiamata di Dio al compimento di una missione speciale nella Chiesa per la salvezza del mondo. La chiamata è un carisma, un dono speciale per l’utilità di tutti. Non è soltanto un dono speciale di Dio per la santificazione personale, come si pensava una volta. L’ingresso in un Ordine religioso suppone una consonanza del carisma personale con il carisma del Fondatore, tramandato e vissuto nel tempo dall’Istituto religioso. Allora la vocazione personale ad una missione speciale diventa una con-vocazione per una con-missione. E qui viene fuori la dimensione comunitaria della vocazione e della missione.

 

La comunità religiosa è una comunità relazionale; il suo fine primario e proprio lo stare insieme, è la comunione personale. In secondo luogo viene l’aspetto funzionale: lo scopo da raggiungere insieme nella linea del carisma dell’Istituto. Tre cose si devono portare avanti contemporaneamente nella comunità religiosa:

  • la crescita personale,

  • il rapporto interpersonale

  • e il servizio ecclesiale.

La dimensione teologica della comunità religiosa si articola in diversi aspetti.

Comunità di fede: si tratta della fede viva, accompagnata dalla speranza e dalla carità, che si esprime nella risposta alla chiamata del Signore. Il nostro Fiat, come quello della Madonna, esprime fiducia totale nel Signore per il tempo e per l’eternità, ed insieme la disponibilità a mettere la propria vita a servizio del popolo di Dio.

 

Comunità di Amore: si tratta dell’Amore di Agape, come quello con cui ama Dio. Amore creativo, Amore oblativo, Amore gratuito ( qui si inserisce anche la castità consacrata ), Amore misericordioso, che sa compatire, che sa perdonare. Il sapersi amati da Dio riempie il cuore di gioia e rende disponibili all’amore verso il prossimo. Per converso, una comunità che manca di gioia, probabilmente ha perso di vista questa dimensione di fede e di amore, che è un dono dello Spirito Santo.

 

Comunità di culto: specialmente l’Eucaristia. Nella Liturgia riformata è possibile una vera partecipazione personale, mentre prima faceva tutto il sacerdote da solo in una lingua per molti incomprensibile e si credeva che valesse per tutti. Questo non esclude la preghiera personale, che anzi deve trovare un ampio spazio nella vita quotidiana.

 

Gli Statuti fissano due momenti, uno al mattino e uno alla sera per la preghiera Liturgica comunitaria. Il resto può essere fatto anche in privato. Sarà la Provincia, o la Comunità o il singolo religioso nel progetto di vita a farsi un programma. Si esclude la delega al clero o ai monaci: questo vale anche per le Messe di suffragio. E’ la Comunità religiosa che deve pregare per i suoi morti. Inoltre essa deve animare la Liturgia che sarà aperta per quanto è possibile a tutta la comunità ospedaliera: collaboratori, volontari, malati.

Comunità di ideali: su molti aspetti della vita consacrata, ma soprattutto sul carisma dell’Istituto, per una ricerca insieme delle soluzioni nuove in risposta ai nuovi problemi della nostra società, senza perdere mai di vista la dimensione escatologica della vita religiosa.

Comunità di beni: qui si inserisce il voto di povertà, non per arricchire il Convento, ma per aiutare i poveri, i malati, i bisognosi, gli ospedali del terzo mondo.

Comunità di servizio: sia all’interno della comunità religiosa, specie verso confratelli malati o anziani, sia all’esterno: la comunità ospedaliera. Gli Statuti scendono nei particolari per i malati ( n.43 ) per le missioni ( nn. 45-46 ) e la pastorale della salute ( nn. 47-49 ).

 

Appare evidente che per realizzare una comunità di questo tipo bisogna che i religiosi si ritrovino insieme di frequente nelle riunioni di famiglia per parlare di queste cose e prendere insieme le decisioni opportune.

Il Signore Gesù ci comunichi il suo Spirito d’amore per vivere il carisma dell’ospitalità secondo lo spirito del nostro Fondatore San Giovanni di Dio

 

Bibliografia essenziale

 

Per la Teologia della vita religiosa è fondamentale il libro:

J.AUBRY – F.CIARDI – S.BISIGNANO – M.FARINA – P.G.CABRA -B.MAGGIONI, Vita consacrata, un dono del Signore alla sua Chiesa, Editrice Elle Di Ci, 10096 Lewnann (Torino), 1993.

Per l’origine, l’evoluzione storica e giuridica della vita religiosa, può giovare: HANS KȔNG, Cristianesimo, Essenza e Storia, Rizzoli 1997.

 

 

Dimensione giuridica

 

Tempi apostolici

 

La Comunità cristiana prende le decisioni importanti, nella ricerca della volontà di Dio. Esempio classico: il Concilio di Gerusalemme dell’anno 50 d.C.

 

La Comunità cristiana, che ha deciso, si sente anche impegnata a realizzare le decisioni condivise.

Il Superiore, come primus inter pares:

  • rappresenta l’unità della comunità, ne è il simbolo,

  • è il principale responsabile del buon andamento della comunità,

  • è l’animatore del gruppo.

  •  

Impero – Medioevo

 

L’imperatore è l’incarnazione della divinità e il depositario di tutti i poteri: religiosi, politici, economici, giudiziari…

Le chiese cristiane si organizzano in senso monarchico già nei tempi sub-apostolici ( Cfr. Tito e Timoteo e Lettere di Sant’Ignazio d’Antiochia ), ma conservano al loro interno molta democrazia: i Vescovi sono eletti dal popolo e così pure i preti di campagna. Caso classico molto conosciuto è l’elezione di Sant’Ambrogio.

 

In seguito le nomine dei Vescovi vengono riservate al Papa e la scelta dei preti viene fatta dal Vescovo della diocesi.

Il Monachesimo presenta l’abate a vita.

 

In Occidente l’autorità del Papa si afferma ancora di più con la creazione del Sacro Romano Impero: è infatti il Papa che incorona l’imperatore. Prima avveniva il contrario: da Costantino in poi e in seguito nell’impero d’Oriente, il vero Papa in realtà era l’imperatore: era lui che dirimeva le questioni religiose, che convocava ed approvava i Concili ecumenici, ecc. Ora in Occidente il Papa è sopra l’imperatore.

 

L’autorità viene da Dio che la comunica tutta al Papa. Il Papa, quindi, è il Dio in terra ed il suo governo è la Teocrazia. Egli trasmette una parte della sua autorità all’imperatore per il settore civile. L’imperatore ha vassalli, valvassori e valvassini sotto di sè. Il Papa ha i Vescovi e questi hanno i preti. Poi per arrivare più direttamente al popolo il Papa crea gli Ordini religiosi esenti dalla giurisdizione dei Vescovi.

 

Il sistema in vigore è quello delle nomine, propriamente dette “investiture” del Feudo, laico per l’imperatore ed ecclesiastico ( diocesi ) per il Papa. Poi ci sarà anche la lotta tra il Papa e l’imperatore per le investiture.

Il criterio in base al quale vengono fatte le investiture è quello della fedeltà. Chi riceve l’investitura giura fedeltà a chi gliela concede. Non si tiene conto della bravura o dei meriti personali se non in maniera secondaria.

 

Ordini mendicanti

 

Con S. Francesco e gli Ordini mendicanti che ne sono seguiti ( quindi anche i Fatebenefratelli ) si ha un ritorno alla vita apostolica, alla fraternità.

Quindi si fanno i Capitoli: locali, provinciali e generali, che sono vere elezioni, dove chi decide è la base.

 

Concilio di Trento

 

Dopo il Concilio di Trento vanno di moda i Gesuiti, che sono un ordine militaresco ( anche se si definiscono Compagnia di Gesù ) con Generale a vita e quindi tutte le Congregazione religiose che sorgono dopo hanno questo tipo di organizzazione: l’autorità piove dall’alto con le nomine. E tutto questo viene coperto da una mistificazione: il Superiore nominato dall’alto viene definito ” eletto”, sottinteso, da Dio. Anche dei Cardinali si dice che sono eletti, invece sono nominati dal Papa.

Concilio Vaticano Il

 

Il Concilio Vaticano Il ha voluto un “aggiornamento” generale della Chiesa e in esso ha incluso anche una riforma degli Istituti religiosi.

Si parte dal diritto canonico e si dice che deve essere aggiornato con riferimento alla teologia morale, questa a sua volta deve essere aggiornata con riferimento alla teologia dogmatica, questa a sua volta deve essere aggiornata con riferimento alla Bibbia e questa deve essere interpretata con l’applicazione dei generi letterari. Ecco perché si parla di ritorno alle fonti o alle origini del cristianesimo.

 

Anche gli Istituti religiosi sono stati impegnati in questo lavoro di aggiornamento. E il criterio adottato è quello nuovo, apostolico, noi diremmo democratico, del coinvolgimento dei religiosi: prima a livello di comunità locali, poi a livello di Provincia e infine a livello di tutto l’Ordine. Dopo tanti anni di lavoro, possiamo essere contenti di avere le Costituzioni aggiornate e bellissime e adesso anche gli Statuti Generali nuovi di zecca ( 1997 ).

 

Possiamo anche affermare che il nostro Istituto, per quanto riguarda il governo dell’Ordine, grazie a S. Francesco e agli Ordini mendicanti, da cui ha preso i regolamenti, nella fase del rinnovamento, ha scoperto di essere già democratico, ( a differenza delle Congregazioni sorte dopo i Gesuiti ), con i suoi Capitoli locali, provinciali e Generale; con vere elezioni nel Capitolo Provinciale e Generale, e con larga rappresentatività della base mediante i vocali.

 

Certo, cambiamenti se ne possono fare sempre e quindi il discorso resta aperto anche dopo l’approvazione degli Statuti Generali. Tuttavia bisogna tenere presente che non ogni cambiamento è migliorativo, occorre sapere in quale direzione si sta andando. Per esempio, al tempo del Generalato di Padre Mosè Bonardi, c’era stato un cambiamento ad experimentum, chi dice voluto da lui, chi invece imposto dalla Santa Sede, nella elezione del Provinciale e del Generale, come pure nella durata di 12 anni del generalato, ma era antistorico perché ci allineava alle Congregazioni postgesuitiche, con elezioni solamente consultive.

 

Lo stesso dicasi per la modifica apportata dall’ultimo Capitolo Generale del Novembre 2000 sul modo di eleggere i Priori, dove il Capitolo Provinciale ne esce completamente esautorato: fa tutto il nuovo governo provinciale.

 

Norme per l’esercizio dell’Autorità nella Chiesa

 

Per non perdere di vista la via del rinnovamento, ricordiamo le norme indicate dal Concilio per l’esercizio dell’Autorità nella Chiesa, definita con l’affermazione giudicata rivoluzionaria di “popolo di Dio”, anche se poi nella pratica si procede lentamente e con fatica. L’Autorità nella Chiesa, a tutti i livelli, deve essere esercitata non come dominio, ma come servizio. Ma perché questo avvenga davvero, senza il pericolo che si trasformi in dominio, occorre osservare delle regole ben precise:

  • Collegialità. L’autorità non deve mai essere concentrata nelle mani di una sola persona. Per questo il Concilio ha voluto: che il Papa fosse aiutato dal Sinodo dei Vescovi per le questioni più importanti; che il Vescovo fosse coadiuvato dal Consiglio pastorale e dal Consiglio presbiterale; che il Parroco fosse coadiuvato dal Consiglio pastorale e dalla Commissione per gli affari economici.

  •  

  • Rinnovabilità. Nessuna carica deve più essere a vita. A tempo determinato ci devono essere le elezioni per i nuovi incarichi o rinnovi. La comunità è depositaria di tutti i poteri e mediante le elezioni conferisce i mandati a determinate persone, che ritiene capaci e meritevoli.

Compiti dell’Autorità:

 

- servizio: la ricerca del bene comune, non l’interesse personale o di gruppi; non il culto della personalità, ecc.

- sussidiarietà: si deve sempre privilegiare la base: non deve fare il Governo Provinciale ciò che può fare da solo il governo locale; non deve fare il Governo Generale ciò che può fare da solo il governo Provinciale. L’autorità superiore non deve annullare quella inferiore, ma valorizzarla, coordinarla, ecc.

  • solidarietà: l’aiuto dei più forti verso i più deboli, dei più ricchi verso i più poveri, dei sani verso i malati, ecc. delle Case più ricche a quelle più povere, delle Province più ricche a quelle più povere, ecc. di quelle del primo verso quelle del terzo mondo, ecc.

  • supplenza: solo come eccezione straordinaria, che conferma la regola della sussidiarietà.

Quelli che continuano a dire che la democrazia vale per la società civile e non per la Chiesa, cadono in un equivoco, perché nei documenti ecclesiastici non si usa il termine democrazia fino alla enciclica Centesimus annus ( 1991 ), ma si usa il termine comunione. Il contenuto però è in gran parte lo stesso, anzi vorrebbe essere più profondo. Ma resta vero il fatto che molte persone del clero e della vita religiosa appartengono al vecchio regime, precedente al Concilio, quando alla democrazia si guardava con sospetto e la si definiva “anarchia”.

 

Purtroppo ci sono anche dei giovani religiosi che sono ancora fermi all’autoritarismo di vecchio stampo. Vuol dire che non è questione di età, ma di maturità. Certo, per chi ha in mano il potere, è molto più comodo e sbrigativo usare il vecchio sistema: dare ordini e pretendere di essere obbedito e riverito. Ma le conseguenze sono: il malumore e la voglia di piantare lì tutto, di chi si sente esautorato, o scavalcato, o escluso dalle decisioni, ecc.

 

Il metodo democratico è più laborioso e più difficile da gestire, ma è coinvolgente e responsabilizzante: ognuno si sente protagonista nella carica o nell’ufficio che occupa, o nella decisione che viene presa assieme.

 

Se vogliamo essere cristiani, non dico religiosi, ma cristiani soltanto, dobbiamo recepire l’insegnamento di Cristo, chiaramente e ripetutamente espresso nel Vangelo, ( Mc 10,43; Gv 13,1-17 ) ( comunione fraterna, servizio reciproco, autorità come servizio alla comunità ) che ci viene riproposto oggi dalla Chiesa in maniera autorevole.

 

Conclusione

 

Gli Statuti Generali nel governo dell’Ordine si limitano a fissare alcune norme minimalistiche, anche se in modo più particolareggiato delle Costituzioni. Lo spirito evangelico, che dà valore di fronte a Dio a tutto quello che facciamo, sfugge ad ogni tentativo di fissarlo in una legge scritta.

 

Gli Statuti Generali sono necessari, ma la loro osservanza da parte nostra ha bisogno di essere animata dal soffio dello Spirito dell’amore, che ci fa andare al di là e al di sopra di ogni legge scritta. Ama et fac quod vis. Ama e fa’ quello che vuoi, diceva S. Agostino. Chi ama davvero non ha misura, non avrebbe neanche bisogno di leggi come il Diritto Canonico, le Costituzioni e gli Statuti Generali, perché arriva spontaneamente a dare la vita per i fratelli, come ha fatto Gesù per noi.

 

04 – PADRE NOSTRO – IL REGNO DI DIO – Luca Beato oh

IV 

IL REGNO DI DIO

( Venga il tuo Regno )

Al centro della predicazione di Gesù sta l’annuncio dell’avvento del Regno di Dio ( Mc 1,14-15 ). Gesù non dà la definizione del Regno di Dio ( o dei Cieli, come dice Matteo ), ma dalle parabole narrate per illustrarne gli aspetti più salienti, si capisce che non si tratta di un regno territoriale o di un’area di potere, bensì della Signoria di Dio, della funzione di governo o di direzione che Egli intende assumere nel mondo. Si tratta del Regno di Dio che si attua nel tempo finale, non di quello naturale della creazione. Un Regno che si deve instaurare non con la violenza o la lotta armata, come volevano gli zeloti, ma da attendere da Dio pacificamente. Non un giudizio-vendetta di Dio favorevole ad una élite ( Esseni e Qumran ) e contro tutti gli altri; ma la lieta novella della bontà sconfinata di Dio e della sua misericordia verso i peccatori. Non un Regno da costruire con una esatta osservanza della Legge ( Farisei ). La sua realizzazione infatti dipende dalla libera iniziativa di Dio.

 

Il questo Regno viene santificato il nome di Dio, viene realizzata la sua volontà; gli uomini avranno abbondanza di tutto, ogni colpa verrà perdonata e il male sarà sconfitto ( Mt 6,9-13 ). Potranno levare il capo i poveri, gli affamati, i vilipesi e avranno fine il dolore, la sofferenza e la morte. Un Regno che realizza le promesse profetiche e messianiche. Un Regno che segna il tempo della salvezza, del compimento, del perfezionamento della presenza di Dio nel mondo.

 

Gesù e il movimento rivoluzionario

 

La Galilea era la patria del movimento rivoluzionario zelota. ( Zelota = zelatore, con sfondo di fanatismo). Gli zeloti erano i partigiani della resistenza. Formavano bande di predoni e facevano scorribande anche contro i propri connazionali. Facevano anche la guerriglia urbana, specialmente nelle Feste. Portavano un corto stiletto detto in latino “sica”, da cui il nome di “sicari”.

 

Tre uomini in particolare bisogna ricordare. Giuda di Gamala, detto “il Galileo”, fondò un movimento rivoluzionario al tempo della nascita di Gesù. Nella guerra del 70 d.C. un galileo, Giovanni di Giscala, capo zelota recitò una parte di primo piano nella difesa del Tempio. L’ultimo capo zelota, Bar Kochba ( = figlio delle stelle ), la cui rivolta fu repressa dai Romani nel 132 d.C. dopodichè Gerusalemme fu dichiarata per gli Ebrei città proibita.

 

Qualunque capo un po’ importante del movimento rivoltoso veniva dichiarato messia o re, ed era considerato un inviato escatologico e plenipotenziario di Dio.

 

E Gesù? Tra i suoi discepoli c’è un certo Simone lo zelota. Si fanno congetture, basandosi sul nome, anche per Giuda e per i “figli del tuono” Giacomo e Giovanni. Al momento dell’arresto di Gesù nell’orto, un discepolo, che secondo Giovanni è Pietro ( Gv 18,2-11), colpisce con la spada un servo del sommo sacerdote ( Mc 14,43-52 ). Infine non bisogna dimenticare che nel processo davanti a Ponzio Pilato Gesù viene qualificato come “re dei Giudei”. Un titolo del genere non nasce dal nulla. L’ingresso in Gerusalemme e la cacciata dei mercanti dal Tempio collocherebbero Gesù su questa linea.

 

Certo Gesù è stato, a modo suo, un rivoluzionario. “Critica aspramente le cerchie dominanti e i grandi proprietari terrieri. Si scaglia contro gli abusi legalizzati, la cupidigia, la durezza di cuore, parteggiando per i poveri, gli oppressi, i perseguitati, i miseri, i dimenticati…” ( H.Kueng, Essere cristiani, pag.201).

 

Ma Gesù non è un guerrigliero, un golpista, un agitatore del popolo. Non predica la violenza o il ricorso alle armi. Non fomenta gli umori antiromani. Vince le “tentazioni” di un regno umano, fugge quando vogliono farlo re. L’ingresso in Gerusalemme non è un fatto militare, ma un gesto pacifico, simbolico. Non istiga il popolo contro il pagamento delle tasse. Non proclama una guerra di liberazione nazionale. Non predica la lotta di classe. Nessuna rinuncia socio-rivoluzionaria al consumo ( spesso banchetta fastosamente). Nessuna abolizione della Legge in nome della Rivoluzione.

 

La rivoluzione di Gesù è la rivoluzione della non violenza. Egli fu il più rivoluzionario di tutti i rivoluzionari in questo senso: Anzichè annientamento dei nemici, amore dei nemici. Anzichè ritorsione, perdono incondizionato. Anzichè ricorso alla violenza, disponibilità a soffrire. Anzichè canti di odio e di vendetta, esaltazione dei pacifici. La lotta deve essere fatta non contro gli uomini, ma contro le forze del male: odio, ingiustizia, discordia, violenza, falsità, egoismi umani in genere; inoltre contro: dolore, malattia e morte. Per fare ciò occorre convertirsi ( metànoia = conversione).

 

Orizzonte apocalittico

 

Anche Gesù, come tutta la generazione apocalittica, attese l’avvento del Regno di Dio in un futuro imminente ( Mc 1,15 ). Certo, non possiamo arrivare a delle indicazioni precise: se doveva coincidere con la sua morte o realizzarsi dopo. Gesù, però, parla della sua generazione ( Mc 9,1 ) e mai di un tempo lontano.

 

Ormai gli esegeti convengono nel ritenere che tanto Gesù, quanto Paolo e la prima generazione cristiana attendevano la realizzazione imminente del Regno di Dio.

 

Poi avvenne un ridimensionamento circa i tempi di attesa. Per San Luca, il compimento del Regno si ha già con la comparsa dello stesso Gesù ( Lc 4,18-21 ). San Giovanni fa un anticipo dell’escatologia al “già ora”: all’ascolto della parola di Gesù avviene il giudizio dell’uomo, o per la salvezza o per la condanna ( Gv 3,15; cfr.nota della Bibbia di Gerusalemme ). San Pietro interpreta: presso il Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo ( Pt 3,8-10 ).

 

Con l’idea dell’imminenza dell’avvento del Regno di Dio, si spiega l’insegnamento di Gesù sulla noncuranza della propria vita, del vitto, del vestiario, ecc. E’ in questa luce che vanno interpretate le parabole del Regno: esso è la cosa più importante; per esso si deve sacrificare tutto. C’è grande contrasto tra i suoi umili inizi e il suo grandioso compimento finale. E’ la potenza di Dio che realizza tutto ciò, sconfiggendo le forze del male.

Nella predicazione del Regno di Dio Gesù sembra quasi un estraneo, soltanto un annunciatore, un grande profeta di Dio, più grande di Giovanni Battista.

 

Problema.

Riguardo al Regno di Dio e in particolare sul tempo della sua realizzazione, Gesù si è sbagliato? Ma era possibile che Gesù si sbagliasse?

Stando alla Lettera agli Ebrei, sembrerebbe possibile ammettere che Gesù si potesse sbagliare in qualche cosa. Si afferma infatti che Egli era in tutto simile a noi, fuorchè nel peccato ( Eb 4,15 ), quindi non si escluderebbe l’errore.

 

Ma si tratta proprio di un errore?

 

Le cose ultime ( escatologia ), come le cose prime (creazione) non formano oggetto di esperienza diretta da parte degli uomini. Quindi si possono soltanto descrivere con immagini o raccontare poeticamente.

 

Per capire queste realtà noi dobbiamo procedere ad un’opera di demitizzazione, non eliminante, ma interpretante. Dobbiamo distinguere cioè la realtà significata dal linguaggio, dal genere letterario, dalla struttura concettuale in cui è stata espressa.

 

Nel nostro caso, l’attesa del Regno di Dio a breve scadenza non rappresentò un errore da parte di Gesù, ma una visione del mondo condizionata dalla mentalità apocalittica, che Egli condivise con i suoi contemporanei.

 

 

Tra presente e futuro

 

Il mistero del Regno di Dio, descritto da Gesù con parabole, non è da Lui soltanto annunciato come imminente, ma è anche da Lui realizzato nel presente. E’ Lui il seminatore che semina la parola di Dio. E’ Lui che guarisce i malati e perdona i peccatori. E’ Lui che inaugura la realizzazione del Regno di Dio.

 

Gesù non si occupa solo del futuro, come l’apocalittica giudaica, quindi la sua non è un’escatologia conseguente, come sostiene A. Schweitzer. Gesù non si occupa solo del presente, senza agganci con l’apocalittica e il futuro assoluto di Dio. La sua non è un’escatologia realizzata, come vorrebbe C.H.Dodd. Gesù si occupa contemporaneamente del “già” e del “non ancora”. Tramite Gesù, il Regno di Dio del futuro è una forza già operante nel presente.

 

In questo senso vanno intese le Beatitudini “nuove” di Gesù rivolte ai poveri, ai sofferenti e agli oppressi. E’ Dio che interviene per liberarli, come ha fatto con gli Ebrei schiavi in Egitto e a Babilonia.

 

Il Regno di Dio non è una promessa consolatoria che riguarda il futuro escatologico, una proiezione di desideri inappagati, come ritenevano i filosofi “del sospetto” Feuerbach, Marx e Freud. Il futuro è appello di Dio al presente. Già ora bisogna strutturare la vita secondo la prospettiva del futuro assoluto. Il presente è il tempo della decisione alla luce del futuro assoluto di Dio.

 

Dio ci sta davanti

 

La fine del mondo non si verificò, ma il messaggio di Gesù non ha perso il suo significato. La vita umana e la storia dell’umanità hanno un termine. Gesù ci è venuto a dire che al termine della vita e della storia umana non ci sta il nulla, ma ci sta Dio. Non ha importanza se la fine arriva presto o arriva tardi. Il Regno di Dio, già iniziato con Gesù, è avviato al suo compimento escatologico.

 

Nella storia che stiamo vivendo, che si colloca tra il già e il non ancora, bisogna guardarsi dal compiere erronee identificazioni del Regno di Dio.

 

  • Non è una potenza terrena.
  • Non è la Chiesa istituzionalizzata. Purtroppo nel passato ( e fino al Card. Siri ) si è sostenuto questo. Essa, invece, secondo il Concilio Vat. II, è un segno e uno strumento per la realizzazione del Regno di Dio.
  • Non è l’utopia della rivoluzione francese ( libertà, uguaglianza, fraternità ).
  • Non è l’utopia del comunismo ( il paradiso in terra ).
  • Non è l’utopia del progresso tecnico e scientifico, ecc.

 

Il compimento del Regno di Dio non avviene tramite un’evoluzione culturale o tecnica o una rivoluzione di destra o di sinistra. Questo compimento avviene in forza dell’azione di Dio, la quale però non esclude, anzi include, l’azione dell’uomo, ma la trascende. Dio infatti non è al di sopra del mondo o al di fuori del mondo, come sosteneva la vecchia metafisica; o dentro di noi, come vuole l’intimismo. Dio sta davanti a noi. Dio è il futuro che fonda la nostra speranza che il suo Regno arriverà al suo compimento.

Senza titoli nè dignità

 

Che ruolo svolge Gesù in rapporto al suo messaggio? Chi è Gesù? Soltanto un Rabbi, Maestro di un gruppo di discepoli? Un profeta? O magari il profeta atteso per il tempo finale? I pareri dei contemporanei sono discordi ( Mc 8,27 s ) e nei vangeli a suo proposito non si parla di vocazione profetica come per Isaia, Geremia, ecc.

 

Gesù è davvero il Messia, il Figlio di Dio? Qui bisogna distinguere bene tra il Gesù della storia e il Cristo della fede. Al centro del suo messaggio Gesù ha collocato il Regno di Dio, non il proprio ruolo, la propria persona, la propria dignità.

 

Che la comunità post-pasquale, ferma ed energica assertrice della piena umanità di Gesù di Nazaret, abbia insignito quest’uomo dei titoli di Cristo, Messia, Figlio di Davide, Figlio di Dio, è innegabile ( Cfr. H.Kueng, Op.cit. pag. 318 ). I redattori dei Vangeli scrivono in questa visuale retrospettiva, ispirati dalla fede pasquale. Così va intesa tanto la confessione di Pietro: “Tu sei il Messia” ( Mc 8,29 ), quanto la domanda del sommo sacerdote ( Mc 14,61 ).

 

Secondo i Vangeli sinottici – a differenza di Giovanni – Gesù non si è mai autoproclamato Messia, nè si è attribuito qualche altro titolo equivalente. Forse perchè voleva evitare il rischio di venire interpretato in modo sbagliato. Questo argomento è stato molto dibattuto, ma ormai gli esegeti sono tutti d’accordo che Gesù non si attribuì alcun titolo messianico: nè Messia (= Cristo ), nè Figlio di Davide, nè Figlio, nè Figlio di Dio.

 

Dopo la Pasqua, invece, uno sguardo retrospettivo indusse a vedere l’intera tradizione di Gesù – non a torto, come si potrà constatare – in una luce messianica e a inserire la confessione del Messia nella narrazione della storia di Gesù, aggiungendo però la proibizione di parlarne apertamente. In Marco c’è addirittura il segreto messianico in tutto il vangelo.

 

Resta tuttora discussa la questione se Gesù abbia applicato a sè il titolo “Figlio dell’uomo”, che nei vangeli ricorre ben 82 volte, sempre ed esclusivamente in bocca a Gesù. Egli ne parla sempre in terza persona con riferimento: 1) al Figlio dell’uomo prossimo a venire come giudice ( Dn 7,13-14 ); 2) al Figlio dell’uomo che dovrà soffrire molto; 3) al Figlio dell’uomo terreno e presente.

 

Queste incertezze riguardo ai titoli non devono preoccuparci più di tanto: non diminuiscono minimamente la grandezza della figura di Gesù. La sua “pretesa” non coincide con i titoli, ma li travalica. Al di là dei titoli, che potevano portare fuori strada, date le aspettative messianiche dei contemporanei, sta il fatto che Gesù pretendeva dai suoi uditori una decisione ultima per la causa di Dio e dell’uomo. In questa causa Egli si immedesimava totalmente. Così il grande problema della sua persona era posto in modo indiretto e la rinuncia ad ogni titolo non faceva che infittire il mistero.

 

Quelli che parteggiavano per Gesù

 

Gesù è un uomo senza alcuna credenziale umana ( di famiglia, paese, soldi, cultura, partito, cariche, dignità, tradizione ) e nondimeno avanza delle pretese inaudite. Si mette sopra la Legge, il Tempio, Mosè, i Re, i Profeti. Le frasi “ma io vi dico” del discorso della montagna e quelle introdotte dall’ Amen ( = in verità ) rivendicano un’ Autorità superiore a quella dei Rabbi e dei Profeti. La sua Autorità e i suoi poteri non li giustifica mai ( Mc 11,28-33 ): li possiede, li esercita e basta. In forza di questa sua Autorità superiore, Gesù annuncia, con la parola e con l’azione, la volontà di Dio ( = il bene dell’uomo ) e fa interamente sua la causa di Dio ( = la causa dell’uomo ).

 

Tutta la sua esistenza poneva la gente di fronte ad una decisione: pro o contro il suo messaggio, la sua azione, la sua stessa persona: indignarsi o cambiare, credere o non credere, convertirsi o restare come prima. Ognuno, a seconda della scelta, sarebbe stato segnato positivamente o negativamente per il Regno imminente, per il giudizio definitivo di Dio.

 

Il popolo. Nella Galilea Gesù aveva dato vita a un movimento di notevoli proporzioni. Se gli evangelisti parlano di una “massa” che ascolta Gesù, si meraviglia delle sue parole e dei suoi miracoli, pronuncia a suo riguardo parole di elogio, è indubbio che essi riferiscono qualcosa di storico.

 

E’ proprio questo popolo semplice, sfruttato dai potenti, incompreso dai ribelli, disprezzato dagli asceti del deserto e dai Farisei delle città, perchè non idoneo al servizio del tempio, nè al servizio militare, incapace di eroismi ascetici e dell’esatta osservanza della Legge: è proprio questo popolo che attira l’attenzione, la premura, la “compassione” di Gesù. Sono queste le persone che Gesù dichiara beate e sono queste le persone che si schierano dalla parte di Gesù.

 

I seguaci più fedeli. C’è tra questa gente un gruppo di persone che seguono continuamente Gesù. Hanno lasciato casa, famiglia, professione e lo seguono nel suo peregrinare da un luogo all’altro. A questi seguaci – non ai suoi familiari e nemmeno a sua Madre( Mc 3,21.31-35 ) – Gesù si sente legato da vincoli di grande affetto ( a differenza di Budda, Confucio, Socrate e Maometto, che essendo sposati, erano più legati alla famiglia ). Sono questi gli allievi, i discepoli di Gesù.

 

Stupisce il fatto che Gesù sia riuscito a formare un gruppo di discepoli, avendo avuto così poco tempo per farlo ( a differenza di Budda e Maometto ). Per di più non era un Maestro titolato, come invece erano i Rabbini.

 

Nella sua scuola manca l’elemento scolastico, presente invece nelle scuole dei Rabbini. Manca inoltre l’elemento ascetico, caratteristico della scuola di Giovanni Battista, dalla quale provengono alcuni discepoli.

 

I racconti delle vocazioni

 

I racconti delle vocazioni sono molto schematici, fanno risaltare soltanto gli elementi esemplari. Non è l’allievo che sceglie il Maestro ( come presso i Rabbini ), ma è il Maestro che si sceglie gli allievi. Il discepolo non viene chiamato a un rapporto didattico, ma a una comunione di vita e di destino con Gesù. Non a studiare la Legge, ma a fare la volontà di Dio. Non ad una istruzione temporanea, ma a una formazione continua per tutta la vita. Da discepoli non si diventa mai maestri. Uno solo è il Maestro e noi siamo tutti fratelli ( Mt 23,8-10 ).

 

Il gruppo dei discepoli non viene mai messo in contrapposizione al popolo simpatizzante ( non una élite contrapposta al resto ). I discepoli sono coloro che, tra gli aderenti a Gesù, hanno fatto una scelta più radicale. I discorsi di Gesù, anche quello della montagna, sono rivolti a tutto il popolo.

 

Il Regno di Dio deve venire per tutti e da parte di tutti si richiede la conversione, cioè un cambiamento radicale di mentalità e di vita. Gesù però non pretende che tutti rinuncino alla famiglia, alla professione, al luogo di origine, per aggregarsi a lui e assumere un compito particolare. La rinuncia al matrimonio ( Mt 19,12: eunuchi per il Regno dei cieli ), non è richiesta a tutti, ma solo in via eccezionale.

 

L’essere discepoli della cerchia particolare di Gesù non è condizione indispensabile per la salvezza. Molte persone credono in Gesù ( miracolati, peccatori, pubblicani, gente comune ), ma restano dove sono ( casa, paese, professione ). Non per questo vengono esclusi dal Regno di Dio, nè vengono rimproverati di mancanza di impegno e di generosità. Si dà anzi un caso contrario: a un ex indemoniato Gesù impedisce di seguirlo, ma gli raccomanda di annunciare il Regno di Dio tra i suoi familiari ( Mc 5,18-20 ).

Due frasi sembrano in contraddizione tra loro.

 

  • Chi non è con me è contro di me” ( Mt 12,30; Lc 11,23 ).
  • Chi non è contro di noi è con noi” ( Mc 9,40; Lc 9,50 ).

La prima frase riguarda quelli che non si decidono alla conversione. La seconda difende un tale che compie azioni carismatiche nel nome di Gesù, ma non fa parte del gruppo dei discepoli.

 

I discepoli non è per l’ascesi che devono abbandonare tutto, ma è per un compito particolare che possono abbandonare tutto. Per la precisione, nei racconti della missione ( Mc 6,7-13; Mt 10,1-11; Lc 9,1-16; 10,1-16 ) si parla di compito particolare, di destino particolare e di promessa particolare. In questi racconti indubbiamente ci sono molti elementi che sono dovuti alla rielaborazione e all’adattamento post-pasquale. Almeno una cosa però si può affermare con certezza e cioè che Gesù rese partecipi i suoi discepoli del suo potere di predicare e di guarire i malati. In questa prima fase essi non annunciano ancora il Cristo, ma l’avvento del Regno di Dio, come faceva Gesù.

 

Compito particolare: essere pescatori di uomini ( Mc 1,17; Lc 5,10; Mt 10,40 ). San Luca in funzione di questo compito narra la pesca miracolosa (Lc 5,1-9). I discepoli sono attorno a Gesù non solo per accogliere un messaggio, ma anche per ritrasmetterlo. Essi vengono chiamati a contribuire all’annuncio del Regno di Dio e la sua pace e a farne diventare operanti già ora le forze risanatrici ( Mc 3,14 s ).

 

Destino particolare. Lasciare tutto per seguire Gesù significa sciogliere i vecchi legami per allacciarne uno nuovo con la sua persona. Significa pure condividere la sua vita, partecipare alla sorte di chi non ha dove posare il capo ( Mt 8,20 ), spartire con lui la povertà e le sofferenze ( Mt 10,22 ). Il discepolo infatti non deve pretendere di essere da più del suo Maestro, nè il servo da più del suo padrone (Mt 10,24). Un simile impegno richiede una approfondita riflessione, come chi deve costruire una torre o fare una guerra difficile ( Lc 14,28-33 ). La decisione di seguire Gesù non deve dar luogo a ripensamenti, non consente di voltarsi indietro per nessuna ragione ( Lc 9,59-62; Mt 8,21 s ).

 

Promessa particolare.

 

Non vengono promessi posti speciali a destra o a sinistra di Gesù, o distinzioni gerarchiche ( Mt 10,35-40 ). La promessa è questa: Gesù stesso riconoscerà come suoi nel giudizio finale quelli che l’hanno riconosciuto qui in terra. Al contrario, su chi non lo riconosce qui in terra incombe la minaccia del giudizio di condanna ( Lc 12, 8 s; Mc 8,38 ).

 

La posteriore comunità cristiana si è riconosciuta nei discepoli di Gesù. Il nome di discepolo si è generalizzato così da indicare tutti i credenti in Cristo.

 

Gesù ha davvero fondato la Chiesa?

 

E’ certo che Gesù ha avuto un gruppo di discepoli.

E’ certo che tra questi discepoli Gesù ha scelto un gruppo di dodici, chiamati Apostoli. (Questo termine, però, che significa “inviato”, viene dato anche ad altri: Barnaba, Paolo, ecc.).

 

A favore della storicità di questo fatto sta l’antica professione di fede registrata da San Paolo nel 55/56 d.C. nella prima lettera ai Corinzi (1 Cor 15,5), ma risalente, forse, al tempo della sua conversione ( 36 d.C. ). Inoltre il fatto scomodo della presenza di Giuda, sostituito da Mattia ( At 1,15-26 ). Le liste dei dodici divergono un po’ tra di loro ( Mc 3,16-19; Mt 10,2-4; Lc 6,14-16; At 1,13 ), specialmente riguardo a Taddeo o Simone. Dei dodici si sa poco o niente. Per lo più sono pescatori; un doganiere, Matteo, da identificare con Levi ( Mc 2,14 ) e uno zelota, Simone cananeo ( Mc 3,18 ) teoricamente nemici irriducibili. Di Giacomo e Giovanni si sa che erano soprannominati “boanerghes”, figli del tuono. Le figure che si distinguono maggiormente, ma per motivi opposti, sono Giuda e soprattutto Simone, soprannominato forse dallo stesso Gesù Cefa o Pietro ( Mc 3,16). La figura di Pietro si staglia nettamente sui dodici: ne è il portavoce, è il primo a riconoscerlo come Messia, è il primo testimone della risurrezione e il capo della comunità primitiva.

 

A questo punto si pone la questione: Pietro e i dodici erano stati previsti da Gesù come fondamento di una Chiesa, che Egli aveva in animo di istituire?

 

La Chiesa neotestamentaria si è richiamata a Gesù in quanto Cristo, coniando anche l’espressione: “La Chiesa di Gesù Cristo” e gli Apostoli sono per essa di fondamentale importanza. Ma sta di fatto che il Gesù storico confidava nel compimento escatologico del Regno di Dio durante la sua vita. Egli certamente non intendeva fondare una comunità particolare distinta da Israele, con propria professione di fede, proprio culto, propria regolamentazione e cariche proprie. Gesù nella sua predicazione non si rivolge solo ai giusti e ai pii, ma al popolo intero con l’inclusione dei negletti, dei malati e dei peccatori. E’ tutto il popolo, non un santo resto, che è chiamato a diventare il popolo di Dio del tempo finale. Anzitempo non si devono separare i buoni dai cattivi, il grano buono dalla zizzania ( Mt 13,47-50; 13,24-30 ). Nonostante gli insuccessi, Gesù ha continuato a predicare così.

 

I dodici sono proprio il segno di questo popolo di Dio del tempo finale. Simboleggiano le dodici tribù del popolo Ebreo, quando era nel massimo splendore al tempo di Davide e Salomone. Con la scomparsa del Regno del Nord ( 722 a.C.), il popolo Ebreo è ridotto a due tribù e mezza: Giuda, Beniamino e mezzo Levi. I tempi finali vedranno il popolo di Dio radunato nella sua totalità.

 

Tutto questo significa che Gesù non ha propriamente fondato una Chiesa durante la sua vita. Su questo punto gli esegeti sono ormai tutti d’accordo, anche i cattolici ( Cfr. H. Kȕng, Essere cristiani, pag. 316 nota 42 ).

Come intendere allora il loghion di Matteo 16,17-19: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”? Si tratta di uno dei passi più controversi di tutto il Nuovo Testamento. Esso è esclusivo di Matteo. Anche diversi esegeti cattolici, oltre a tutti gli altri, ammettono che non s’inquadra nell’insegnamento di Gesù sull’avvento del Regno di Dio e lo ritengono una elaborazione post-pasquale della comunità palestinese o dello stesso Matteo, quando la comunità cristiana si contrappone alla Sinagoga ed è già istituzionalmente organizzata sul piano dottrinale e giuridico ( Cfr. Op. cit. pag. 316 nota 44 ). La Chiesa cattolica invece ha sempre insegnato che queste parole le ha pronunciate proprio Gesù. In questo caso, bisogna tenere presente che il verbo edificare è messo al futuro ( edificherò ).

Dunque la “Chiesa”, intesa come comunità particolare, distinta da Israele, è sicuramente una realtà post-pasquale. Gesù, quindi, non fu quello che comunemente si dice il fondatore di una nuova Religione o di una Chiesa. Questa è una cosa che si è costituita gradualmente dopo la Pasqua. Gesù rivolse fin dall’inizio la sua predicazione e la sua azione carismatica ai soli figli di Israele ( Mc 7,27; Mt 15,24; 10,6 ). Non predicò ai pagani nè lui nè i suoi discepoli. Il comando missionario è post-pasquale ( Mc 16,15; Mt 28,18-21 ). Gesù pensò alla salvezza dei pagani alla maniera dei profeti ( Is.25,6-9 ), come un afflusso di popoli verso Gerusalemme per partecipare al banchetto nel Regno di Dio.

 

Discepolato e Gerarchia

 

Il termine “gerarchia” risale ad un anonimo che scrive tra il 500 e il 600 sotto lo pseudonimo di Dionigi l’Areopagita ( pseudo Dionigi ). Esso significa “potere sacro”. Egli applicò questo termine non solo ai detentori di qualche potere nella Chiesa, ma addirittura alla Chiesa stessa, vista in tutti i suoi ordini e gradi, come uno specchio della Gerarchia celeste. Le comunità cristiane neotestamentarie evitano riferimenti alle autorità civili e religiose esistenti nel tempo, perchè tra i discepoli, per volere di Gesù, non ci deve essere un rapporto di potere di alcuni su tutti gli altri, ma un rapporto di servizio reciproco.

 

Tra discepolato e gerarchia c’è opposizione estrema. La gerarchia come “potere sacro” è basata sul diritto e sulla forza; sul “sapere sacro” e sulla “sacra dignità”. Pochi consacrati dominano su tutti gli altri.

 

Il discepolato dice dipendenza spirituale verso l’unico Signore e Maestro, Gesù Cristo. Ma i discepoli, tra loro, hanno un rapporto di fraternità che chiama non al potere dell’uno sull’altro, ma al servizio reciproco. La parola più usata per indicare questo servizio è la diaconia, una parola profana che significa in senso stretto il servizio a tavola. E’ a tavola che risalta maggiormente la differenza tra il padrone, che siede a mangiare con gli amici, rivestito di vesti ampie e lunghe, e i servi che si affaccendano in vesti succinte nel servizio della mensa. “Chi tra voi vuol essere grande, sia il vostro servitore a tavola; e chi tra voi vuol essere il primo, sia lo schiavo di tutti ( Mc 10,43 s ). Questa sentenza ricorre ben sei volte nei Sinottici. Giovanni inoltre la rincara con la narrazione della lavanda dei piedi, fatta da Gesù ai suoi discepoli nell’ultima cena ( Gv 13,1-17 ). Gesù ha compiuto questo gesto per insegnarci che i nostri rapporti vicendevoli devono essere improntati al servizio reciproco, umile, profano, modesto, richiesto dalle situazioni anche banali della vita di ogni giorno. Non era nelle intenzioni di Gesù darci l’indicazione di una cerimonia da farsi in Chiesa una volta l’anno, ma indicarci lo spirito di servizio che deve animare i rapporti interpersonali. Chi poi viene posto in autorità, deve avere uno spirito di servizio maggiore, perché si allargano i confini della sua carità.

 

Quindi la Chiesa voluta da Gesù non è la Chiesa del “potere sacro”, del “sapere sacro”, della “sacra dignità”, ma la Chiesa del grembiule, la Chiesa del servizio.

03 – PADRE NOSTRO – LA PREGHIERA DEL CRISTIANO E DELLA COMUNITA’ – Luca Beato o.h.

III 

LA PREGHIERA DEL CRISTIANO E DELLA COMUNITA’

  

I due estremismi della nostra epoca storica sono:

- La secolarizzazione, che porta a vivere come se Dio non esistesse, che non sente il bisogno di pregare Dio. Secondo loro, quelli che pregano, considerano Dio come un tappa-buchi, invocato solo nel bisogno, quando l’uomo non ce la fa a risolvere i problemi da solo.

- Il fideismo, che porta certa gente, specialmente quella ansiosa, a ricorrere alla magia ( intesa nella accezione più vasta del termine: maghi, streghe, chiromanti, cartomanti, ecc. ) per la soluzione dei problemi della vita: amore, lavoro, successo, difesa contro le fatture, il malocchio, ecc.

1. Natura e significato della preghiera

  • La preghiera del cristiano si fonda sul rapporto uomo-Dio e Dio-uomo.

  • Non il Dio dei filosofi, il Dio lontano, che non si occupa dell’uomo.

  • Ma il Dio della Rivelazione, il Dio vicino all’uomo, il Dio di Gesù Cristo:

  • Dio si rivela pienamente in Gesù Cristo. Infatti, l’autorivelazione di Dio si compie nella storia e culmina nell’Incarnazione.

  • Rivelandosi nella storia Dio intende salvare l’uomo, realizzare il suo Regno, attuare la sua volontà salvifica che abbraccia tutta l’umanità.

 

1.1 – Alle radici della preghiera cristiana: l’iniziativa di Dio Trinità

- La storia della salvezza comincia con la creazione. La gloria di Dio che si dispiega nella creazione, diventa preghiera in senso vero e proprio, allorchè l’uomo se ne fa interprete.

- Si realizza gradualmente per mezzo delle alleanze di Dio con il suo popolo. E sono i profeti a mettere in risalto l’azione di Dio nella storia del popolo ebreo.

- Arriva a compimento con Gesù Cristo, mediatore della nuova ed eterna alleanza di Dio con tutta l’umanità.

- L’effusione dello Spirito Santo trasforma i credenti in Cristo in uomini nuovi che, uniti dalla fede e dall’amore, formano il nuovo popolo di Dio, la Chiesa.

a) preghiera di contemplazione e di ascolto

b) preghiera come risposta di fede e di impegno di vita

c) preghiera come espressione del rapporto filiale con Dio

1.2 – Il “luogo” della preghiera cristiana: la storia

Con l’Incarnazione Dio entra personalmente nella storia dell’umanità:

a) non dobbiamo rifiutare la storia: vicende personali, di gioia o di sofferenza, situazioni sociali, relazioni familiari e ambientali, ecc.

b) Dio guida la storia umana e la trasforma in storia di salvezza. Il senso della storia è metastorico, perchè Dio è trascendente. Perciò la preghiera cristiana ha sempre una dimensione contemplativa.

1.3 – L’incontro con Dio: dialogo personale e comunitario

- Il desiderio di vedere Dio e di incontrarsi con Lui porta l’uomo a pregare e la preghiera dà nuovo impulso al desiderio di vedere Dio. Preghiera personale.

- Quel che Dio ha fatto per me l’ha fatto per tutti. Preghiera comunitaria. La sua forma più alta è quella Liturgica ( ma qui non la prendiamo in considerazione ) .

Preghiera personale e comunitaria sono complementari.

Novità postconciliare: l’ufficio divino ai laici.

2 – Interrogativi di sempre

2.1 – Perchè pregare

Pregare è una esigenza, un riconoscere che Dio merita di essere pregato. Il pregare è gratuito, come l’amore, basta a se stesso. Chi prega è contento anche solo per il fatto di potersi esprimere, di parlare a Dio.

La preghiera può essere:

- di lode

- di ringraziamento

- di richiesta di perdono

- di invocazione di aiuto

2.2 – Come pregare

a) Atteggiamenti interiori

- La coscienza di essere figli di Dio

- L’interiorità

- La perseveranza

b) Ostacoli alla preghiera

- crisi della paternità:

- Dio Padre – padrone = paura di Dio

- Dio Padre – papà = infantilismo ( pretesa che Dio soddisfi i nostri capricci ).

Noi siamo figli di Dio nel Figlio suo Gesù Cristo nostro fratello.

- Il peccato. Esso è il consapevole rifiuto di Dio, mentre la preghiera è il consapevole riconoscimento di Dio

- La cultura dell’effimero.

- Il sentimentalismo.

2.3 – Quando pregare

- Pregare sempre: come atteggiamento di fondo.

- Tempi più opportuni:

- mattino: richiama il senso della giornata e della vita (e della risurrezione) come dono di Dio.

- sera: richiama il tramonto della vita, la responsabilità, il giudizio di Dio.

Consiglio per tutti i cristiani: la recita quotidiana delle LODI e del VESPRO.

Consiglio per i Religiosi: curare bene la preghiera personale, onde garantire il nostro coinvolgimento personale nella preghiera comunitaria ( contro l’esteriorismo, il formalismo ).

Conclusione

Quanto è stato detto sopra è praticamente un commento alla preghiera insegnataci da Gesù: “ Padre nostro”…

( Dante Lanfranchi, “La preghiera del cristiano e della comunità”, in CORSO DI MORALE di Tullo Goffi e Giannino Piana, vol. V – LITURGIA – ed. QUERINIANA, Brescia,1986 pagg. 451- 482 ).

02 – PADRE NOSTRO – SANTITA’ DI DIO E SANTITA’ DELL’UOMO – Luca Beato oh

 

II

SANTITA’ DI DIO E SANTITA’ DELL’UOMO

( Sia santificato il tuo nome)

Dio è spirito e l’uomo è materia e spirito. Proprio perché è totalmente spirituale, Dio abita in un luogo spirituale: nei Cieli. La terra, che è materiale, è il luogo adatto agli uomini, che sono materiali. Così un tempo la pensavano tutti, anche gli Ebrei. Di qui l’espressione: “Padre nostro che sei nei cieli”, secondo la versione di San Matteo, mentre San Luca dice solo: “Padre”.

Nell’immaginario collettivo il dualismo spirito – materia si manifesta in vari modi. Dio, che è spirito assoluto, abita nel mondo spirituale, nei cieli e non nel mondo materiale, la terra. Meglio ancora, Dio sta nell’alto dei cieli. I cieli sono sette. I primi due sono materiali (l’aria e la luna); gli altri sono spirituali, ma nel mezzo c’è una zona di fuoco ( fuoco del Purgatorio ). Il terzo cielo è il Paradiso ( di Adamo e del buon ladrone), anticamera del Regno dei Cieli. Dal quarto cielo al settimo cielo si estende il Regno di Dio o Regno dei cieli, abitato da angeli e santi, ben ordinati nelle gerarchie celesti. Nella volta dei cieli si trova il trono di Dio, immaginato come un sovrano assoluto, che vede tutto, conosce tutto, ma non interviene direttamente nel mondo terrestre, bensì attraverso il ministero degli spiriti, che noi chiamiamo angeli appunto perché sono “inviati” da Dio. Cfr. la Scala di Giacobbe ( Gen 28,12 ), Betlemme ( Lc 2,13-15 ), Natanaele ( Gv 1,51 ).

Dio è santo, parola che vuol dire totalmente spirituale, noi diremmo forse meglio “trascendente”. Se Dio si manifesta, o si rivela agli uomini, il luogo della manifestazione diventa sacro, appartiene a Dio e quindi diventa inaccessibile all’uomo ( tabù ), se non a determinate condizioni ( purificazioni, abluzioni rituali, persone sacre, vesti sacre, cerimonie sacre ). Davanti al roveto ardente Dio dice a Mosè: “Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo dove tu stai è una terra santa” ( Es 3,5 ). Quando Mosè sale con Aronne sul monte Sinai per ricevere le tavole dell’alleanza nessun uomo e nessun animale possono salire oltre un certo limite, neanche i sacerdoti ; il popolo deve lavarsi le vesti e astenersi dagli atti sessuali ( Es 19, 9-25; 34,3 ). Tutto il culto di YHWH nella tenda del convegno in mezzo all’accampamento e poi nel Tempio di Gerusalemme è impostato in questa maniera.

In che cosa consiste la santità? La santità nel VT consiste nell’attuare una serie di cose che mettano l’uomo in condizione di avvicinarsi a Dio in modo da essere a Lui gradito. Se non si attuano, si infrangono i tabù e invece delle benedizioni, l’uomo si attira addosso i castighi di Dio che per questo motivo si è adirato. Tutto il libro del Levitico, in cui si trova la frase: “Siate santi perché io sono santo”, viaggia su questi binari. E vengono indicati i cibi puri e impuri; le purità sessuali, le purità igieniche e sanitarie e le separazioni che bisogna fare dai peccatori…le purità cultuali… Sì, perché anche l’offerta dei sacrifici a Dio ( offerta di animali ) è soggetta a queste regole: la vittima deve avere l’età richiesta, la pelle integra, le unghie e i denti perfetti, il sacerdote deve osservare rigorosamente il cerimoniale: altrimenti invece di propiziarsi Dio, l’offerente ne provoca l’ira a suo danno.

E’ sempre il criterio del dualismo che viene applicato, positivo contro negativo, partendo da Dio e scendendo sempre più giù nel modo seguente:

  • Spirito – materia

  • Bene – male

  • Cielo – terra

  • Sacro – profano

  • Santo – maledetto

  • Sano – malato

  • Vivo – morto

  • Uomo – donna

  • Uomo sopra l’ombelico – uomo sotto l’ombelico

  • Cibi puri – cibi impuri

  • Buoni – cattivi

  • Amici – nemici

  • Circoncisi – incirconcisi

 

Chi conosce e osserva la Legge ( Farisei ) – chi non la conosce e non la osserva.

Per essere santi perché Dio è santo e quindi godere della benedizione di Dio, occorre stare collocati sempre nella prima colonna. Chi si trova nella seconda colonna rimane sotto l’influsso della maledizione di Dio.

Il criterio della costruzione del Tempio riflette questa mentalità. Dio ha creato il mondo, è al di sopra di tutto, il mondo creato non lo può contenere. Però, per essere vicino al suo popolo si sceglie un luogo, appunto il Tempio, dove il popolo lo possa venire a visitare, offrire sacrifici, pregare e ottenere protezione e benedizione.

Il complesso degli edifici del Tempio segue la seguente disposizione. Dapprima c’è una grande spianata alla quale possono accedere tutti, anche i pagani. Poi c’è il cortile delle donne. Poi c’è il cortile degli uomini. Poi c’è il cortile con le abitazioni dei sacerdoti. Poi ci sono due altari, all’aperto, per i sacrifici degli animali. Poi c’è l’edificio del Tempio e all’interno di esso c’è un locale ( sacta sanctorum ) dove c’è l’arca dell’alleanza contenente le tavole della Legge, simbolo della presenza di Dio. Il Sacerdote vi accede con paramenti sacri, per offrire l’incenso, nei tempi stabiliti.

Se un gentile tenta di oltrepassare il suo limite, i soldati lo infilzano con la lancia, altrimenti la violazione del territorio sacro provocherebbe l’ira di Dio, ecc.

Gli uomini non entrano nel tempio, devono star fuori nel loro cortile. Il Tempio è la casa di Dio e basta. Vi accedono solo i sacerdoti nei modi e nei tempi stabiliti.

Anche i templi pagani antichi, giunti fino a noi, usano il medesimo criterio. Il Tempio contiene nel punto più interno la cella con la statua della divinità. Ad essa accedono solo i sacerdoti. Il popolo sta fuori all’aperto, dove ci sono gli altari per l’offerta dei sacrifici di animali. Si vedano i templi greci di Pestum, di Agrigento e il Partenone di Atene.

Con Gesù crolla tutta questa impalcatura. Con l’incarnazione la divinità abita nell’uomo Gesù nella sua pienezza. Il cielo si congiunge con la terra. La nascita poi avviene in una stalla, il luogo più profano che si possa immaginare a questo mondo. Il sacro è mescolato col profano. O meglio, tutto quello che Dio ha creato è buono e degno di Dio: non esistono cibi impuri, luoghi impuri, persone impure. Non esistono più le divisioni di razza, di religione, di nazionalità, di lingua, di sesso, di stato sociale e di censo. Di fronte a Dio siamo tutti di pari dignità e grado. Dio vuole salvare tutti gli uomini in Gesù Cristo, senza esclusione di sorta.

La santità non la si ottiene mediante le cerimonie sacre e le osservanze stabilite dalla Legge, ma mediante la fede e la conversione del cuore. Tutti i cristiani sono santi ( = consacrati a Dio mediante il Battesimo ) e insieme costituiscono il Corpo di Cristo, sono le membra di cui Cristo è il Capo. Non è più la chiesa-edificio, ma la chiesa-assemblea, che è santa, che è il tempio di Dio, il luogo privilegiato della presenza di Dio e del Cristo glorificato. Tutte le membra di Cristo devono essere oggetto della nostra premura e del nostro amore. Se poi soffrono, per povertà, sofferenza, oppressione, ecc. devono essere al primo posto nel nostro cuore.

La Chiesa cristiana, intesa come luogo di culto, è copiata dalla basilica romana, luogo di raduno dei cittadini per la politica e l’amministrazione della giustizia, ed è a servizio della comunità, radunata per l’ascolto della parola di Dio e la celebrazione dell’Eucaristia, come una cena, che ricorda quella del Signore.

Regressioni storiche

La novità rivoluzionaria portata da Gesù, ha subìto una forte regressione per il prevalere nel mondo greco-romano della filosofia neoplatonica, che ha rimesso in vigore il dualismo in maniera esasperata, fino al punto di dire che tutte le realtà materiali sono negative e che la sessualità l’ha inventata il diavolo per imprigionare l’anima nel corpo.

Il monachesimo sorge come movimento di base sotto l’influsso di questa mentalità. Bisogna fuggire dal mondo che è tutto sotto l’influsso del maligno. Bisogna rifugiarsi nel deserto del monastero e intraprendere la lotta diretta contro il diavolo con l’ascetica. Bisogna misticamente intraprendere in cammino per ritornare al Paradiso, collocato nel terzo cielo, che Adamo ha dovuto abbandonare dopo il peccato. E’ la spiritualità della fuga dal mondo, della lotta contro il diavolo e del ritorno al Paradiso che nella predicazione dei Padri della Chiesa viene prospettata a tutto il popolo cristiano.

La Chiesa gerarchica medioevale e feudale si organizza come la Teocrazia del VT in forma verticista e assolutista e rispolvera tante cose di quel tempo antico.

Le Cattedrali sorgono come monumenti a Dio, Templi della Divinità, in cui abita Cristo nel tabernacolo. Luogo in cui regnano il Clero o i monaci con il Coro delle Lodi di Dio e la celebrazione della S. Messa, mentre il popolo resta confinato in fondo alla navata dove non vede quasi niente a causa del coro a mezza navata e non capisce quasi niente per via del latino incomprensibile. Si riprende la purezza sessuale per il clero, che nei tempi antichi era solo del giorno precedente le cerimonie sacre, e la si applica all’Eucaristia, rendendola pian piano perpetua ( celibato ) quando la celebrazione da settimanale, diventa quotidiana. Si escludono le donne come inadatte al culto per le loro continue impurità mestruali e si stabilisce che se si avvicino all’altare del SS. Sacramento, violando la distanza di tre metri, commettono peccato mortale.

La società cristiana viene divisa in tre stati giuridici: gli orantes, il Clero e i monaci che devono pregare per tutti; i bellantes, i cavalieri e i soldati che devono combattere per tutti; i laborantes, i contadini e gli operai, che devono lavorare per tutti.

Consacrazione a Dio: battesimale, clericale e religiosa.

I cristiani, in forza del Sacramento del Battesimo, sono santi, cioè appartengono a Dio. Questo termine applicato ai cristiani è molto usato nelle Lettere di san Paolo. Ma a questo fatto oggettivo, deve poi corrispondere il comportamento: vivere da figli di Dio e da fratelli tra di noi, che siamo membra dello stesso Corpo di cui Cristo è il capo; vivere i comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo.

Quando i cristiani sono diventati una massa nella società, è subentrato uno scadimento generale nella vita pratica. Allora sorgono dei gruppi di élite, dei quali quello del Monachesimo è storicamente il più significativo.

La Chiesa, diventata giuridica, crea delle nuove consacrazioni: le più rilevanti sono la consacrazione sacerdotale e la consacrazione religiosa.

La consacrazione sacerdotale è in funzione dell’Eucaristia, il Santo dei Santi. Per la celebrazione della S. Messa si richiede una santità speciale, che viene identificata soprattutto nella purità sessuale, come abbiamo detto sopra. Sarà il Papa Gregorio VII, ( tremendo giurista ) dopo il 1.000 d. C. a dichiarare l’ordinazione sacerdotale impedimento dirimente, ossia invalidante, del Matrimonio. Tutti i Sacerdoti, sposati e con prole, si sono visti annullare improvvisamente il Matrimonio e costretti ad abbandonare moglie e figli se volevano continuare ad esercitare il sacerdozio.

Si benedice o si consacra la materia dei Sacramenti: l’acqua del Battesimo deve essere benedetta. L’olio per i catecumeni, il crisma per la Cresima e l’Ordine sacro e l’Olio per gli infermi devono essere consacrati dal Vescovo…Il calice della Messa va consacrato, come pure l’altare e la Chiesa stessa.

Il medesimo Papa Gregorio VII ha organizzato giuridicamente lo Stato religioso con i Voti di Obbedienza, di Castità e di Povertà. Obbedienza soprattutto al Papa (Ordini religiosi esenti dalla giurisdizione dei Vescovi). La proprietà dei beni vieni sottratta al singolo e data all’Ordine religioso. La Castità perfetta, nel senso che il religioso, in quanto consacrato, appartiene a Dio e quindi non può dare il suo corpo a una donna. Questo modo di concepire la consacrazione a Dio ha influenzato anche il sacramento dell’Unzione degli infermi. Chi riceveva l’Olio Santo durante una malattia, se guariva, non poteva più far l’amore con la propria moglie (o con il proprio marito), perché ormai il suo corpo apparteneva a Dio…Si capisce perché la gente rimandava all’ultimo respiro questo Sacramento, che così è diventato l’Estrema unzione.

Al concetto di sacro si contrappone il sacrilegio. Questo concetto riservato principalmente alla profanazione del Sacramento eucaristico, si estende poi alle persone consacrate: clero e religiosi; e poi anche alle cose sacre, come le Chiesa, il Convento di clausura ed anche i beni appartenenti alla Chiesa ( Adesso sono aboliti tutti! ).

Ritorno alle origini. Con San Francesco e poi gli Ordini religiosi e le Congregazioni che si dedicano all’apostolato: predicazione al popolo, insegnamento e cura dei malati ( San Giovanni di Dio ) comincia una inversione di tendenza. Si riscopre il Cristo uomo che si dedica alla povera gente, che vive col popolo che guarisce i malati e offre il perdono di Dio, immediato e fonte di gioia, ai Peccatori. Si rinnova lo spirito missionario della Chiesa e l’impegno per la giustizia sociale e per la pace. L’apice di tutto questo si ha nell’aggiornamento della Chiesa voluto dal Concilio Vaticano II, inteso proprio come ritorno alle origini, per liberarla da tutte le sovrastrutture medioevali: autoritarismo, dogmatismo, moralismo, giuridismo, sacramentalismo. Si è iniziato un cammino: occorre portarlo avanti fino in fondo, nonostante le difficoltà.

La consacrazione religiosa. I religiosi sono dei discepoli di Gesù che vogliono essere il più possibile vicino a Lui, stare con Lui per godere della sua presenza e della sua amicizia, condividerne il destino di sofferenza e di gloria, ascoltare il suo insegnamento e ritrasmetterlo agli altri, dare il proprio contributo personale per la realizzazione del Regno di Dio nel mondo. Vogliono vivere i consigli evangelici in modo radicale. I voti religiosi sono espressione di questa volontà. Con la professione religiosa essi entrano nello “Stato di perfezione acquirenda” e mai acquisita. La rinuncia che comportano i voti non è fine a se stessa, ma per acquisire una maggiore libertà e disponibilità nel servizio di Dio e dei fratelli. I religiosi infatti non intendono fuggire dal mondo, ma trasformare il mondo in meglio, in conformità alla missione di Gesù. Essi intendono realizzare:

- la teologia della creazione

  •  

    • la teologia dell’incarnazione

    • la teologia della redenzione (liberazione)

Questo è il modo migliore di glorificare Dio. La vita vissuta in modo gradito a Dio nell’amore verso i fratelli nei quali la fede ci fa vedere Cristo. Così agiva S. Giovanni di Dio nei confronti dei malati. Allora anche la Lode di Dio nella preghiera è genuina e a Dio gradita. Prima i fatti e poi le parole!

Castità per il Regno dei Cieli

C’è stato il passaggio da una iperprotezione: la clausura, uscire dal Convento sempre accompagnati, escludere donne dal refettorio, ecc. a una vita religiosa dove siamo sempre in situazione promiscua, nella scuola, nel lavoro, nella società, ecc.

I religiosi sono chiamati alla responsabilità personale, a gestire la loro vita affettiva e sessuale in modo di essere di tutti e di nessuno; per essere gli animatori spirituali nell’ambito professionale di loro competenza: pastorale sanitaria, vocazioni, missioni, animazione di gruppi, ecc.

Il fine non giustifica i mezzi: i superiori non possono più fare i detectives, leggendo la corrispondenza, ascoltando le conversazioni telefoniche, ecc.

Certamente la castità perfetta è sempre difficile ed oggi è meno facile di una volta, perché il mondo esterno ci bombarda di messaggi e di stimoli contrari. Noi non dobbiamo viverla in maniera ossessiva, ma serena, accettando anche i nostri limiti e le nostre debolezze. Dobbiamo usare certe precauzioni quando occorre e invocare l’aiuto del Signore.

La castità religiosa non nasce dalla paura delle donne, né da una disistima della sessualità, né per evitare le fatiche di allevare dei figli. La sessualità infatti è voluta da Dio dal momento che ha creato la coppia umana. E nel matrimonio si può raggiungere non solo la salvezza, ma anche la santità. Il Concilio ha parlato del matrimonio cristiano come una vocazione di pari dignità e grado a quella religiosa.

Tutti dobbiamo amare, come ama Dio, di un amore di Agape, ma non tutti dobbiamo generare. La castità religiosa comporta una vocazione speciale ed è per il regno dei cieli. E’ questo scopo positivo che dà significato alla rinuncia al matrimonio. E’ per un amore più grande a Dio e al prossimo. La rinuncia a farci una famiglia naturale è per farci una famiglia più grande nell’ambito del nostro apostolato ospedaliero.

Concludendo il discorso per quanto riguarda il nostro argomento “sia santificato il tuo nome” possiamo riassumere il tutto in questo modo.

Dio è santo, cioè totalmente spirituale, totalmente diverso da noi, fuori dal nostro campo di esperienza. Nessuno lo può vedere e restare in vita ( Es 33,20 ). E’ come il fuoco che illumina e riscalda, ma tu non puoi avvicinarti troppo se no ti brucia. E’ come l’aria che penetra dappertutto, ma tu non puoi trattenerla e impadronirtene. L’uomo deve rendersi conto che il suo rapporto con Dio è abissale. Da Lui dipende la nostra vita, “in Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” ( At 17,28 ).

Ma in Gesù Dio si è abbassato fino a noi per elevarci fino a Lui, non per i nostri meriti, ma per la sua bontà e misericordia. Cosa deve fare l’uomo? Dio si aspetta che l’uomo riconosca il suo amore misericordioso, che traspare da tutta la creazione e dalla storia della salvezza. La gloria di Dio è l’uomo vivente, ossia nell’uomo si ha la suprema manifestazione della potenza, della sapienza e della bontà di Dio su tutto il creato. Ma come l’amore di Dio si estende a tutti gli uomini, così anche il nostro amore e la nostra solidarietà. Ecco allora scaturire spontanea dalla bocca dell’uomo la lode e il ringraziamento a Dio: “Sia santificato il tuo nome”, sia cioè glorificato da tutti gli esseri umani che si fanno voce di ogni creatura.

Soltanto gli spiriti celesti riescono lodare Dio in modo perfetto. Nella visione del profeta Isaia ( Is 6,3 ) i Serafini proclamano l’uno all’altro: “Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria”. L’Apocalisse (4,8 ss ) descrive la liturgia celeste: angeli e santi, provenienti tutti i popoli, lodano in eterno il Signore. Noi uomini, qui sulla terra, non possiamo passare tutta la vita a pregare perché dobbiamo anche lavorare e riposare. Dobbiamo lodare il Signore sempre con la nostra vita impregnata di amore verso Dio e verso il prossimo. Ma quando preghiamo sia individualmente che comunitariamente, e specialmente quando celebriamo la Liturgia eucaristica anche noi ci uniamo alla Liturgia celeste nel proclamare: “Santo, santo, santo è il Signore, Dio dell’ universo. I cieli e la terra sono pieni della tua gloria”. Per noi cristiani Dio non è più quello che guida le schiere di Israele allo sterminio dei nemici, ma è il Dio dell’universo e di tutti gli uomini, verso i quali anche noi dobbiamo avere la premura e la sollecitudine che ha Dio per loro.

01 – PADRE NOSTRO – LA PREGHIERA DEI CRISTIANI – Luca Beato o.h.

 

PADRE NOSTRO

La preghiera dei cristiani

Commento contestuale e attualizzazione

CORSO DI ESERCIZI SPIRITUALI

2002

Fra’ Luca Beato O.H. 

INDICE

PARTE PRIMA

I – Dio-Padre ( Il Dio di Gesù Cristo )…………………………pag. 5

( Padre nostro che sei nei cieli )

Nuova pedagogia religiosa

II – Santità di Dio e santità dell’ uomo……………………… pag. 12

( Sia santificato il tuo nome )

- La consacrazione battesimale, sacerdotale e religiosa

  • La castità per il regno dei Cieli

 

III – La preghiera del cristiano e della comunità……………….pag. 19

IV – Il Regno di Dio……………………………………………pag. 22

( Venga il tuo Regno )

Progetto di salvezza universale –Chiesa segno e strumento.

Chi sono i discepoli – La chiesa del grembiule

V – La comunità religiosa – spirituale e giuridica…………….pag. 31

VI – La volontà salvifica di Dio= il bene dell’uomo………….pag. 37

( Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra )

Obbedienza religiosa – intermediazioni umane

PARTE SECONDA

VII – L’amore del prossimo – la novità di Gesù……………..pag. 44

VIII – La solidarietà: dalla parte degli svantaggiati……………pag. 50

IX – Pane eucaristico e pane quotidiano……………………..pag. 63

X – La riconciliazione fraterna………………………………pag. 70

(Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori )

XI – Il fascino del male: tentazioni del Messia e della Chiesa…pag. 80

( Non c’indurre in tentazione, ma liberaci dal male)

XII – La consolazione nella tribolazione………………………pag. 90 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Hans Kueng, Essere cristiani, Ed.Mondadori, 1976

Edward Schillebeeckx, Il Cristo, la storia di una prassi, Ed. Queriniana, Brescia, 1980

Joseph A. Fitzmyer, Le risposte del Nuovo Testamento, Ed. Queriniana, Brescia, 1987

AA.VV. Grande commentario biblico, Queriniana, Brescia, 1973

Bernhard Haering, Perché non fare diversamente? Queriniana, Brescia, 1993

Bernhard Haering, E’ tutto in gioco, Queriniana, Brescia, 1994

Bernhard Haering, Preti di oggi, preti di domani, Queriniana, Brescia, 1995

Bernhard Haering, Il padre nostro, Queriniana, Brescia, 1995

Arnaldo Pigna, La vita religiosa, Ed. OCD – Roma, 1991

AA.VV. Vita consacrata, un dono del Signore alla sua Chiesa, Ed. ElleDiCi, Leumann ( Torino ), 1993.

 

 

SINCERI CON DIO 

Non dire PADRE

se ogni giorno non ti comporti da Figlio.

Non dire NOSTRO

se vivi isolato nel tuo egoismo.

Non dire CHE SEI NEI CIELI

se pensi solo alle cose terrene.

Non dire SIA SANTIFICATO IL TUO NOME

se non lo onori.

Non dire VENGA IL TUO REGNO

se lo confondi con il successo materiale.

Non dire SIA FATTA LA TUA VOLONTA’

se non l’accetti quando è dolorosa.

Non dire DACCI OGGI IL NOSTRO PANE

se non ti preoccupi della gente che ha fame,

è senza cultura e senza mezzi per vivere.

Non dire PERDONA I NOSTRI DEBITI

se conservi rancore verso tuo fratello.

Non dire NON LASCIARCI CADERE IN TENTAZIONE

se hai intenzione di continuare a peccare.

Non dire LIBERACI DAL MALE

se non prendi posizione contro il male.

Non dire AMEN

se non prendi sul serio le parti del

PADRE NOSTRO.

( Madre Teresa di Calcutta )

 

PARTE PRIMAI

DIO-PADRE ( Padre nostro che sei nei Cieli )

Gesù non annuncia un Dio diverso dal Dio dell’Antico Testamento.

Gesù, infatti, non volle fondare una nuova Religione annunciando un Dio nuovo. Quando parla di Dio, Gesù intende JHWH, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio del popolo d’Israele. Egli è l’unico Dio e al di fuori di Lui non vi sono altri dèi.

Per i Pagani ogni divinità agiva in un determinato settore di sua competenza: Marte era il dio della guerra e assicurava la vittoria; Venere era la dea competente nel settore dell’amore, gli dèi della fertilità presiedevano al lavoro dei campi, ecc.

Il Dio unico invece è padrone di tutto, è competente di tutto: dona tutto, tutta la vita, tutto il bene.

Gesù conferma il primo comandamento del Dio unico, non riducibile a un idolo con immagini come quella del vitello d’oro. A Lui soltanto spetta la nostra adorazione. Lui dobbiamo amare con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze.

La fede nel Dio unico ha delle conseguenze sociali: smitizza le forze divine del mondo. Il sole, la luna, le stelle, il vulcano, il terremoto, i fulmini e le tempeste, gli incendi e le inondazioni, non sono più degli dèi come nel paganesimo, ma delle forze soggette al Dio unico.

Il re e l’imperatore non sono delle divinità perchè possiedono dei poteri assoluti a somiglianza di quelli di Dio, ma sono anch’essi degli uomini soggetti al Dio unico dal quale verranno giudicati sulla gestione del loro potere.

Di questo Dio unico Israele trae conoscenza dalla sua lunga storia, a partire dalla liberazione dalla schiavitù dell’Egitto e via via attraverso tutte le vicende belle e brutte che ha incontrato lungo i secoli. Queste vicende hanno dato vita anche ad una ricca letteratura religiosa, che pian piano venne conglobata in opere letterarie giunte fino a noi: Pentateuco, libri storici e cronacistici.

Il Credo di Israele non è filosofico-speculativo, ma storico, centrato sul Dio della liberazione, che “ha fatto uscire Israele dall’ Egitto” ( Dt 26,8 ), riconoscibile non da tutti, ma da chi sa scorgere nei fatti della storia l’orma divina.

Al tempo dell’esperienza religiosa della liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, gli Ebrei si immaginavano JHWH come un Dio tra gli dèi. Gli Ebrei hanno il loro Dio, gli Egiziani i loro dèi, i Cananei i loro dèi, ecc. Il testo più antico di tutta la Bibbia pare che sia il ritornello del canto di vittoria: “Cantate al Signore / perché ha mirabilmente trionfato: / Ha gettato in mare / cavallo e cavaliere”( Es 15,17 ). In questo periodo, e almeno fino alla conquista di Gerusalemme, Dio è considerato come un guerriero che guida le schiere di Israele contro i popoli nemici. E quando si conquista una città della terra promessa, si votano allo sterminio tutti i nemici dal più grande al più piccolo( Cfr. 1 Sam 15: La guerra santa contro gli Amaleciti ). Successivamente gli Ebrei si sono resi conto che JHWH è l’unico Dio e che gli altri dèi sono un nulla, un’ invenzione degli uomini. Dio è il creatore dell’universo ed è Dio di tutte le genti. La prima pagina della Bibbia è del post-esilio babilonese( 538-518 a.C. ). La chiamata di Abramo ( ca 1800 a.C: ), capostipite degli Ebrei, viene molto dopo la creazione di Adamo ed Eva.

La fede nel Dio liberatore si trasforma in lode di Dio e delle sue gesta a favore del suo popolo. Accanto alla lode però troviamo anche il lamento quando il popolo soffre. Si va dal grido degli Ebrei schiavi in Egitto e in Babilonia fino al grido di Cristo sulla croce ( Mc 15-17 ).

Caratteristica di questo Dio è il fatto di potersi rivolgere a lui in qualunque situazione. Esempio caratteristico è la figura di Giobbe: abbandonato a se stesso e alla sua infelicità, appare continuamente lacerato tra ribellione e dedizione, in preda ad un infinito abissale tormento. “ L’uomo afflitto dalla sofferenza, dal dubbio, dalla disperazione, trova un estremo puntello nella realistica ammissione della propria incapacità a decifrare l’enigma del dolore e del male e nel suo coraggio di offrire una fiducia incondizionata e totale al Dio incomprensibile ”.

Tra Dio e il suo popolo c’è sempre una grande tensione, perchè il popolo non riesce ad allinearsi con le “pretese” del suo Dio. Ecco allora che tra Dio e il suo popolo si inseriscono i mediatori, designati da Dio: Mosè, i Giudici ( = guide carismatiche ) e poi i profeti. E’ proprio nella tradizione dei profeti che si venne a collocare Gesù, in un tempo in cui lo spirito profetico sembrava definitivamente spento.

Dio personale

Il Dio d’Israele e di Gesù è diverso dalla divinità impersonale delle religioni orientali. L’Induismo e il Buddismo presuppongono una realtà suprema, ma l’Essere assoluto è impersonale, indefinito e indefinibile. Le facoltà umane sono sempre inadeguate a descriverlo. Di qui la molteplicità di vie, metodi, forme religiose per arrivare a Lui. Poi sul piano pratico si ammette ciò che teoricamente sarebbe inaccettabile. Buddismo e Induismo tollerano anche il politeismo.

Dire che Dio è una persona comporta il rischio di farne un essere a nostro livello. Ma Dio non è certo una persona come è persona l’uomo. Egli è colui che tutto abbraccia, il fondamento, il sostegno e il senso ultimo di tutta la realtà.

Non è un infinito accanto o sopra altri finiti, ma l’infinito in tutto il finito, l’essere stesso in tutto ciò che esiste. Dio fa letteralmente esplodere il concetto di persona: Dio è più di una persona, è l’Essere transpersonale, sovrapersonale.

Anche se per parlare di Dio dobbiamo ricorrere a concetti e immagini presi dal mondo sensibile e impiegarli in senso traslato o analogico, noi possiamo indirizzare a Lui con parole umane un discorso sensato, come fa una persona quando si rivolge a un’altra persona. Nella Bibbia non si parla solo di Dio, ma si parla a Dio lodando e gemendo, supplicando e protestando. Là dove altri percepirono solo un infinito silenzio, un abisso confondibile con il nulla, Israele udì una voce: un Tu che parla e a cui si può parlare.

Anche il Dio di Gesù, ovviamente, è un Dio dal volto umano, cioè un Dio personale. Dio è inequivocabilmente buono e non subisce la concorrenza di un principio del male a Lui contrapposto. Satana gli è subordinato. Nei confronti dell’uomo Dio non è indifferente, ma benevolo: buono e misericordioso.

Gesù non ci dice com’è Dio in se stesso, ma come agisce nei confronti dell’uomo e del mondo. La premura che Dio ha nei confronti delle sue creature, del mondo e dell’uomo, deve bandire dal nostro cuore ogni angosciosa preoccupazione. Dio è il Creatore e il Perfezionatore del mondo. Egli lo ha fatto buono. E’ stato l’uomo a contaminarlo.

Dio vicino

Dio, pur distinguendosi dal mondo e dall’uomo, non è lontano, ma vicino.

E’ il creatore del mondo e dell’uomo, potente e costantemente operante. Tutto quello che ha creato è buono, senza distinzione tra spirito e materia. Il male è entrato nel mondo per la cattiveria umana. Egli è il sovrano Signore dell’uomo e perciò attende obbedienza dalla sua creatura. Egli è il giudice giusto che porta a compimento la storia del mondo, celebra il giudizio e instaura il suo Regno. Questo Dio è così trascendente e immanente, lontano e vicino, sopramondano e intramondano, futuro e presente.

L’opposizione che c’è tra Dio e l’uomo non è come per i Greci una opposizione tra lo Spirito e la Materia, ma tra Dio bontà infinita e un mondo peccatore che si è allontanato da Dio. La redenzione non consiste nel superamento del dualismo tra Spirito e Materia, ma nella liberazione del mondo dalla colpa, dalla miseria, dalla morte e nella comunione con Dio.

Dio empatico

Nella Bibbia Dio viene presentato non come un essere immobile e immutabile, ma come un Dio vivente. Il linguaggio biblico è spesso ingenuo, mitologico, antropomorfico, a misura d’uomo. Questo linguaggio non appartiene solo agli strati più antichi e popolari della Bibbia, ma lo si trova anche nei profeti. Dio non è una forza muta nè una potenza anonima. Egli è il Dio vivente della creazione, non un Dio dall’umore capriccioso, ma il Dio della libertà, che rende possibili e dirige il mondo e la storia, conosce gli uomini fin nei minimi particolari, li ama e li lascia liberi di amarlo. Non un Dio che si tiene lontano da tutto e rimane confinato in una sublime trascendenza, che il dolore del mondo non può attingere, ma il Dio che vivamente partecipa e si impegna in questa storia oscura. Non un Dio della solitudine, ma il Dio della compartecipazione, dell’alleanza. Non un Dio apatico, impassibile, incapace di soffrire, ma il Dio sim-patico, che com-patisce. In breve, il Dio dal volto umano. Gli antropomorfismi ( Dio che è geloso, che si adira, che si pente, ecc.) non mirano semplicemente a umanizzare Dio. Dio deve rimanere Dio. Lo scopo è quello di avvicinare all’uomo il Dio vivente e di provocare un modo autenticamente umano di ascoltare, rispondere, domandare, confidare, obbedire, pregare, lodare e ringraziare.

Il “Dio dei filosofi” è superato dal “Dio di Israele e di Gesù”. La concezione filosofica e quella biblica di Dio dovrebbero confluire nell’alveo di una nuova concezione della storicità di Dio.

Rivoluzione nel concetto di Dio

Non si deve esagerare l’originalità di Gesù. Sovente si è sostenuto che Gesù è stato il primo a chiamare Dio col titolo di Padre e a dichiarare che gli uomini sono figli di Dio. Ma ciò avveniva già nell’A.T. e anche nel paganesimo si parla di Zeus ( Giove ) come padre degli dèi. Lo Stoicismo tra le varie filosofie è quello che sviluppa in modo particolare l’idea che la divinità, che dà la vita a tutte le cose razionali, fa dell’uomo razionale un particolare oggetto delle sue cure.

Nel momento che si dà a Dio il nome di Padre, sorgono dei problemi. Anzitutto, non si vuole favorire il maschilismo, riferendo a Dio attributi maschili e non femminili.

La questione sessuale è fuori causa, perchè Dio non è nè maschio nè femmina. Ciò deve essere chiaro, perchè nella ricerca storica si afferma la priorità del patriarcato, ma c’è anche chi sostiene che nell’Asia minore vigeva il matriarcato, cioè la divinità concepita come femmina, come la “Gran Madre” dal cui grembo sarebbero uscite tutte le cose. Questa idea, secondo alcuni, sarebbe poi all’origine del culto mariano nella Chiesa. In ogni caso Dio non si può ridurre a prototipo del maschio. Già nell’A.T. in particolare i profeti attribuiscono a Dio tratti femminili, materni. Il Dio unico, oggi più che mai, sfugge allo schema interpretativo virile-paterno, caro in passato a una teologia troppo spiccatamente maschile. In Lui si dovrà riconoscere anche il momento femminile-materno.

A differenza di ciò che avviene in varie Religioni, nell’A.T. Dio non è mai detto Padre di dèi o semi-dèi e neppure padre di tutti gli uomini. YHWH è il padre del popolo d’Israele, chiamato infatti figlio primogenito di Dio ( Es 4,22 s; Ger 31,9;

Is 63,16). Il capo supremo del popolo, il re è considerato figlio di Dio in modo particolare ( Sal 2,7 ) . In seguito si dice la stessa cosa anche di ogni singolo uomo pio ( Sir 4,10 ; Sap 2,16-18 ). Il termine padre esprime protezione, vicinanza e sollecitudine.

Con Gesù si annunciano anche delle grandi differenze. Gesù, come il Battista, non riferisce mai la paternità di Dio a tutto il popolo come tale. Non basta essere membro del popolo ebreo per raggiungere la salvezza. Fatto più sorprendente è che Gesù riferisce la Paternità di Dio anche ai peccatori e agli ingiusti. E proprio dalla paternità universale di Dio Gesù deriva l’esigenza di amare anche i nemici, che è un comandamento specificamente suo.

Parlando di Dio come “Padre” Gesù vuol farne risaltare la provvidenza in tutte le cose: quella provvidenza che si prende cura di ogni passero e di ogni capello ( Mt 10,29-31 ) , che conosce i nostri bisogni prima ancora che glieli esprimiamo ( Mt 6,8 ) e che rende vane le nostre preoccupazioni ( Mt 6,32 ). Nella parabola del “Padre misericordioso”( Lc 15,11-32 ) Gesù presenta esplicitamente Dio come padre del “figlio perduto”, cioè come Padre di tutti i perduti. Insomma, il Dio-Padre predicato da Gesù è un Dio che va incontro all’uomo come il Dio dell’amore e della salvezza.

Il Dio di Gesù non è un Dio troppo virile dell’arbitrio e della Legge. Non è un Dio fatto a immagine dei re e dei tiranni, dei gerarchi e di chi monta in cattedra. Ma il Dio buono che solidarizza con gli uomini, le loro necessità e le loro speranze. Il Dio che non pretende ma dà, che non abbatte ma risolleva, che non fa ammalare ma guarisce. Il Dio che risparmia anche quelli che offendono la sua santa Legge. Il Dio che invece di condannare perdona, invece di punire redime, invece del diritto esercita una clemenza senza riserve. Il Dio quindi che si rivolge non ai giusti ma ai non giusti. Il Dio che predilige i peccatori, preferisce il figlio perduto a quello rimasto in casa, il pubblicano al fariseo, le prostitute ai loro giudici, i trasgressori della Legge o i senzalegge ai custodi della Legge. Si tratta di una vera rivoluzione nel modo di concepire Dio, ma non nella direzione dell’ateismo, bensì contro il Dio dei devoti, i quali si scandalizzano della predicazione di Gesù.

Nel modo di concepire Dio, non in se stesso, ma in rapporto agli uomini, si possono distinguere, schematizzando al massimo, tre passaggi.

  • Popoli primitivi: Dio vendicativo > Paura di Dio

  • Popolo Ebreo: Dio giusto/alleato > Senso di sicurezza

  • Cristianesimo: Dio Padre misericordioso > Fiducia filiale

La nuova pedagogia religiosa

Nelle società a regime totalitario ( monarchie assolute o dittature sia nere che rosse ) l’organizzazione della società stessa è di tipo verticistico o piramidale. Lo stesso tipo di organizzazione lo si trova nella famiglia, dove vige l’autoritarismo del capofamiglia verso i membri a lui sottoposti e per l’educazione dei figli, sia in casa che a scuola, si usa il metodo dell’imposizione e della repressione. In questo contesto sociale anche la Religione si adegua: Dio Padrone assoluto impone la sua volontà all’uomo con i suoi comandamenti e punisce i trasgressori in misura proporzionata alla sua potenza, cioè con la pena eterna dell’inferno.

Con l’avvento delle repubbliche e delle democrazie, nel mondo a partire dalla rivoluzione francese, ma per l’Italia a partire dal Plebiscito del dopo guerra ( 1946 ), avviene il cambiamento della società dove tutti sono uguali di fronte alla legge, al quale corrisponde un cambiamento nella famiglia con la parità di diritti e di doveri tra i coniugi, come pure il cambiamento della pedagogia nella famiglia e nella scuola.

Sono aboliti i castighi e le percosse per i figli in famiglia e per i giovani nella scuola di tutti i livelli. Il metodo educativo è quello della proposta dei valori per creare delle convinzioni personali. Anche la Religione si è adeguata. Il Papa Giovanni XIII, all’indomani della sua elezione, diceva ai giovani che quello che non si fa per amore non ha alcun valore davanti a Dio; per la nostra salvezza vale solo quello che facciamo per amore.

Il Concilio Vaticano Il, proclamando il ritorno alle origini, ha recuperato il Dio di Gesù Cristo, che non è il Padre-padrone, ma il Padre misericordioso, sempre pronto ad accogliere i figli che ritornano a casa dopo essersene allontanati, verso il quale dobbiamo avere una confidenza estrema fino al punto di chiamarlo “papà” come faceva Gesù. La catechesi e la predicazione attualmente si muovono su questa linea. Anche nella celebrazione del Sacramento della Penitenza s’è verificato un cambiamento di visuale. Una volta il Prete era considerato il Giudice che amministrava la giustizia nel Tribunale di Dio ed infliggeva le penitenze proporzionate alle colpe, ora è considerato il Ministro del Perdono di Dio, gratuito e generoso.

La formazione dei candidati alla vita religiosa dovrà quindi aiutare i giovani a fare delle scelte mature, per convinzione, e a tenervi fede fino in fondo anche se ciò comporta dei sacrifici. Dovrà anzi corazzarli contro le difficoltà interne ed esterne che si oppongono alla realizzazione del loro progetto di vita cristiano-religioso-ospedaliero, perché viviamo in un mondo che ci bombarda di messaggi di carattere contrario a una vita consacrata a Dio e al prossimo nell’ospitalità religioso-ospedaliera.

continua:

GESU’ E IL MALATO MENTALE – Fra Marco Fabello o.h.

 PASTORALE DELLA SALUTE E CURA PASTORALE DEI MALATI PSICHIATRICI

COSENZA 30 SETTEMBRE 2008 – 0RE 17,30

INAUGURAZIONE IV ANNO ACCADEMICO DELLA SCUOLA REGIONALE DI UMANIZZAZIONE ED ETICA SANITARIA “BEATO ANGELO D’ACRI”.

Premessa

 Nel prendere la parola in questa significativa circostanza, mi preme ringraziare Fra Ugo Maria Brogno per il cortese invito che se da un lato mi fa piacere, dall’altro mi preoccupa non poco sia per il tema che è conturbante in se stesso, sia per il luogo e per il contesto in cui viene trattato, ma soprattutto, come forse non tutti sanno, perché io  sono una persona che avendo condiviso molti anni della mia vita con i malati psichici, sono più attratto dalla realtà della loro vita che dalle molte considerazioni che anche clinici psichiatri  e vari operatori possono mettere in campo. In questo momento sono anche il Direttore Generale dell’Istituto di Ricovero e Cura a carattere scientifico “San Giovanni di Dio” per la ricerca in psichiatria e nelle demenze. Come penso saprete, io sono un religioso Fatebenefratello, dei figli, quindi di San Giovanni di Dio, che Cesare Lombroso criminologo molto conosciuto e non certo vicino alla Chiesa, dichiarò alla fine del 1900, “il creatore dell’ospedale moderno”.

Anche lui non ebbe molte occasioni per incontrarsi con il sapere umano che, anzi, nel momento in cui lo prese la crisi mentale e interiore, finì per disfarsi di tutti i libri della sua edicola (diremmo oggi) a chi gli stava accanto per liberarsi di ogni cosa. Di passaggio ricorderò come questo Santo sia oggi oltre che il Patrono dei malati, degli ospedali e degli operatori sanitari unitamente a San Camillo de Lellis, anche il Patrono dei librai e degli edicolanti la cui massima espressione  avviene col premio Bancarella, che consiste, tra l’altro, in una ceramica che raffigura Giovanni di Dio che trascina il carretto dei suoi libri. Io spero quindi che nessuno si attenda da me cose trascendentali, perché mi sento molto più un operaio del campo che ara il terreno, che lo prepara per la semina,  piuttosto del contadino che si dedica al raccolto. uno che si dedica al raccolto. E infatti uno di questi campi che per molti anni ho cercato di dissodare, di arare, di preparare per la migliore semina è appunto il campo rappresentato dalla persona che soffre disturbi psichiatrici. Quindi il mio sarà un parlare quasi da contadino, spero con la stessa saggezza di cui sono ricchi molti contadini che amano la loro terra. 

Una data significativa: 10 0ttobre 

            Questo nostro incontro avviene a pochi giorni dalla celebrazione della Giornata mondiale per la salute mentale, che, come sappiamo, si tiene il giorno 10 ottobre di ogni anno. Nulla avviene a caso e io sono contento di poter celebrare con tutti voi, sia pure con qualche giorno di anticipo, questa ricorrenza che molto spesso passa senza grande risalto da parte della stampa e delle istituzioni ma che quest’anno assume un significato particolare ricorrendo il trentesimo anniversario della promulgazione della legge 180, più comunemente conosciuta come legge Basaglia.

-    In questa occasione ho visto con gioia come l’Arcivescovo di Milano  il Cardinale Dionigi Tettamanzi ha inviato alla chiesa Ambrosiana un Messaggio che sviluppa alcuni temi significativi.

 Ho voluto ricordare questo messaggio all’inizio del mio intervento perché credo che la prima azione pastorale significativa verso i malati psichici sia quella che i Pastori mostrino sensibilità, apertura e coraggio nei confronti delle persone più sofferenti e le loro famiglie.    Come sappiamo, infatti, circa un quinto dell’umanità soffre di disturbi mentali.

 Dividerò il mio intervento nei soliti tre punti ed una conclusione, come facevano un tempo i bravi conferenzieri.

 

1. Gesù e il malato mentale;

2. La società e il malato mentale

3. La Chiesa e il malato mentale

 1. GESU’ E IL MALATO MENTALE

 Troviamo il primo accenno di Gesù che guarisce in Mt 4,24 “La sua fama si sparse per tutta la siria e così condussero a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici, ed egli li guariva”. Noi sappiamo che possiamo interpretare alcune di queste malattie come malattie della mente e in particolare in riferimento agli  indemoniati e agli epilettici.

 L’evangelista però ci pone di fronte ad una sofisticata considerazione quando dice: “condussero a lui tutti i malati”. E’ interessante questa affermazione perché potrebbe significare che i malati mentali non erano così emarginati dalla società del tempo.  Nei nostri anni, quando parliamo di malati tendiamo a fare molte differenze e a vivere comportamenti molto diversi tra loro  se si tratta di malati fisici, psichici, malati di AIDS o malati per così dire “diversi”.

Riprenderemo questa considerazione più avanti.  

Ancora in Mt8,16-17,  leggiamo: “Venuta la sera, gli portarono molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la sua preghiera e guarì tutti i malati, perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta Isaia: “egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie”. Notiamo il particolare di come  agisce Gesù: “egli scacciò gli spiriti con la sua preghiera”. Le malattie dell’anima si curano spesso con strumenti spirituali. Non a caso nelle terapie psichiatriche, oltre alle classica cura farmacologica si ricorre alla psicologia, alle scienze umane, all’amicizia, all’incontro, al sostegno, alla comprensione, al dialogo. In molti casi la preghiera svolge una funzione importante. Infatti non sono infrequenti, soprattutto all’estero, come “medicina” gli  incontri di preghiera con persone sofferenti mentali. In Mt 8, 28-33 possiamo leggere tutto il racconto degli indemoniati Gadaréni di cui due uscirono dai sepolcri e, ci dice Matteo, che “erano tanto furiosi che nessuno poteva passare da quella strada”. Il vangelo poi prosegue ma anche da queste poche parole possiamo considerare come  il mondo non sia molto cambiato dai tempi di Gesù ad oggi. Non molti anni fa in molti dei nostri paesi ci si poteva imbattere in qualche persona di cui si dovesse avere paura con la raccomandazione dei genitori ai figli di non passare da una certa strada.

L’altra considerazione, piuttosto amara che vale anche per i giorni di oggi è la cattiva considerazione che la società ha di queste persone, lo stigma di cui le fa vittime, la lontananza in cui le mantiene. Certamente molti di loro si saranno domandati perché i lazzaretti, i manicomi di un tempo fossero posti al limitare dei centri abitati e, addirittura, non infrequentemente, in centri molto isolati attorniati spesso da molto verde che non significava voler dare una migliore qualità ambientale ma solo possibilità di nascondere quanto più possibile una realtà che si voleva a tutti i costi fingere di non conoscere e di non voler vedere. Sul racconto di Gerasa si sofferma anche Lc 5, 1 e segg. con una maggiore dovizia di particolari. E leggiamo in  Mc 5, 3-5 “…nessuno più riusciva a tenerlo legato neanche con catene, perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva sempre spezzato le catene e infranto i ceppi, e nessuno più riusciva a domarlo. Continuamente, notte e giorno, tra i sepolcri e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre”.

Mi sembra qui di rivivere la storia del mio fondatore, San Giovanni di Dio,  nel momento della grande crisi quando diede in escandescenze di ogni tipo, quando venne portato al manicomio e frustato a sangue. Ma per chi ha una certa età, almeno come la mia, potrebbe essergli accaduto di assistere a situazioni come quella che Matteo, Luca e Marco descrivono. Malati violentissimi, con una forza erculea che potevano essere domati solo da cinque o sei uomini. Questi casi non erano infrequenti fino al momento in cui  videro la luce  i  psicofarmaci. Ma già nel 1700 era sorta nel mio Ordine la scuola non ufficiale di come avere ragione di questi furiosi istinti: la scuola dell’amore!

San Giovanni di Dio, ricoverato in manicomio, legato e più volte picchiato a sangue, piano piano mise in atto la carità verso i suoi compagni di sventura, cercò di farsi ben accettare da chi lo controllava, qualcuno ebbe fiducia in lui, lo slegarono ed egli si mise a servire gli altri malati. Tutti avevano paura ma non lui e, ad uno ad uno li fece liberare dai ceppi e dalle catene. Stava ormai bene e tra il rimpianto dei malati e dei così detti operatori, lasciò il manicomio per iniziare la sua avventura di carità. Era stata la sua prima vittoria! Sempre in Mt 17 14 e segg. troviamo l’episodio dell’epilettico indemoniato che si gettava nell’acqua e nel fuoco. E Gesù per guarirlo “gli parlò minacciosamente” e il demonio lo lasciò. Notiamo la conclusione di Gesù al v.21: “Questa razza di demoni non si scaccia se non con la preghiera e il digiuno”.

Non vorrei interpretare troppo liberamente ma mi piacerebbe che ogni operatore sanitario che legge queste parole, che ascolta questo rimprovero di Gesù, che si trova a prestare il suo servizio con persone che hanno problematiche psichiatriche, che vivono la depressione, che in altre parole soffrono della malattia dell’anima, non si scordassero che la preghiera, la convinzione che il Signore è capace di sanare anche oggi, che la farmacologia non è tutto, che la psicologia non è tutto, può rappresentare quella medicina spirituale che ,a volte, ancora oggi, è l’unico rimedio. D’altra parte nello stesso episodio raccontato da Mc al Cap. 9,  Gesù ci dà la conferma quando risponde al padre dell’indemoniato: “Tutto è possibile per chi crede”. Mi fermo qui per la prima parte perché mi pare che possano già essere emersi alcuni spunti di riflessione.

 2. LA SOCIETA’ E IL MALATO MENTALE

 Per poter successivamente soffermarci sulla pratica pastorale con il malato psichiatrico è necessario che facciamo un po’ il punto della situazione su chi è per la società di oggi questa persona, di quale considerazioni gode, che diritti e doveri le sono riconosciuti teoricamente e di quanti ne gode di fatto. Intanto dobbiamo dire con molta chiarezza che dal 1700 fino al 1904 la vita del malato mentale era rimasta pressoché la stessa. Ma ciò poteva valere anche per tante altre realtà. La vita contadina stessa non era mutata di molto.

Nel 1904 si ebbe una prima riforma della psichiatria in Italia ma la riforma che a noi interessa maggiormente è quella conosciuta come Legge  180 del 1978, a cui ho accennato all’inizio. Da allora ad oggi sono stati fatti passi enormi pur se rimangono zone d’ombra e, soprattutto, l’incompiutezza della legge stessa. Va ricordato che la Legge Basaglia fu approvata senza una copertura finanziaria e già questo fatto può portare a qualche riflessione che io non farò ma l’affermazione è già di per sé un commento significativo. Per apprezzare i contenuti della legge Basaglia dovremmo fare una disamina di cosa erano i manicomi fino a quel giorno e, in alcuni casi, forse anche oggi. I manicomi erano realtà più simili ad un carcere che ad un luogo di cura. A tutto ciò è doveroso aggiungere che esistono in Italia ancora oggi 4 manicomi criminali che sono la somma del peggior carcere e del peggior manicomio. Per fortuna è proprio di questi giorni la riforma di queste quattro tristi realtà che passano dal sistema carcerario al sistema sanitario-assistenziale. Nei manicomi la persona viveva senza una propria dignità, non godeva di alcun diritto, non possedeva nulla, spesso non era di nessuno, molto spesso era un secondo figlio se non un primogenito da punire o da interdire per questioni di interesse o a motivo di beghe familiari, Spesso era la fine destinata ai figli illegittimi. Dopo un mese di ricovero la persona perdeva ogni diritto civile con la probabilità di vivere tra quelle mura tutta la sua vita, alla pari di una persona condannata all’ergastolo.

La persona ricoverata in manicomio non aveva diritto ad alcuna eredità e non godeva di alcun beneficio sociale o pensionistico. In manicomio i malati non potevano usare le posate, se non il cucchiaio, non potevano portare la cintura dei pantaloni per timore che la usassero  nei tentativi di suicidio, l’unica cosa che avevano era la divisa spesso di tela per tutti uguale che indossavano. La giornata dei malati era una uguale all’altra. Il vitto era scadente, la pulizia spesso fatta dagli stessi malati con metodi davvero preistorici. Vi fu qualche eccezione a partire dalla fine degli anni 1950 quando cominciarono a sorgere delle coscienze critiche che, piano piano, diedero impulso ad una forma di protesta silenziosa che in pratica prese corpo e si concretizzò con l’avvento del giovane prof. Basaglia che circondato da pochi coraggiosi e da molti critici riuscì tuttavia con la forza della terminazione e della convinzione a ribaltare il sistema ridando sostanzialmente dignità ai malati mentali, facendo in  modo che si riappropriassero dei loro diritti civili, come ad esempio, il diritto di voto, aprendo i manicomi, cercando di realizzare piccoli ambienti più di cura che di custodia, dovendo vincere non  solo le preoccupazioni politiche per la spesa ma soprattutto la resistenza della popolazione che non vedeva di buon occhio la chiusura dei manicomi trincerandosi dietro la paura per la presupposta violenza dei malati che vi vivevano. E’ di quegli anni la nascita all’interno della comunità cristiana di un movimento di psichiatri che prese il nome di “Cristiani in psichiatria”. Medici psichiatri che cercarono di dare senso cristiano alla riforma vista come “redenzione” del malato psichico ridotto in schiavitù.

 

Ai giorni nostri è ancora forte lo stigma verso il malato mentale e la sua famiglia nonostante siano trascorsi trent’anni dalla riforma e nonostante , come dicevo prima, siano stati fatti passi enormi rispetto al punto di partenza. Ma ancora oggi, come allora, la società tende ad isolare il diverso, qualunque sia la specificità della diversità che lo distingue. Non è di molti anni fa la resistenza, ma anche l’opposizione, di tante popolazioni   all’instaurarsi nelle loro vicinanze delle comunità per tossicodipendenti o per malati di AIDS. Come è sempre avvenuto chi non è ben vestito e non ha un buon reddito rischia oggi molto più di ieri l’emarginazione sociale. Il rischio è che, sia pure in buona fede, anche la Chiesa partecipi più o meno direttamente a questo processo di emarginazione dei più derelitti, dei più poveri o dei più indifesi. Ne sia un esempio il divieto sostenuto anche da alcune personalità del mondo della Chiesa di vietare l’elemosina  e altri atteggiamenti tipici della povera gente. E’ di pochi giorni or sono la presa di posizione dell’Osservatore Romano sul problema dei ricongiungimenti familiari degli extracomunitari.

E’ fuori dubbio che questo grande movimento migratorio pagherà un forte scotto a livello di aumento di malati mentali tra gli extracomunitari. E’ davvero molto strano come alcuni vescovi del terzo e quarto mondo aprano le loro cattedrali ai poveri in molte notti mentre in altri continenti dia fastidio una persona seduta sui gradini davanti ad una chiesa. Molto spesso si tratta di persone che hanno problemi psichici o gravi problemi sociali di assoluta indigenza, problemi di alcool, di droga, di abbandono familiare ecc. Si tratta cioè di quelle categorie di persone che un tempo in Galilea la gente portava da Gesù perché fossero guariti: noi rischiamo di allontanarli da Gesù il quale ci ha detto che “i poveri li avrete sempre con voi”.

Non sono populista o, come si dice oggi, buonista.

 Vale la pena ricordare che a volte anche le stesse leggi nate con le migliori intenzioni, possono essere strumenti di dolore per tanti uomini e donne che hanno solo la colpa di essere diversi dalla grande parte delle persone, di essere state svantaggiate dalla vita, spesso di pagare lo scotto di una educazione che la famiglia e la società non è stata in grado di offrire loro, non raramente frutto del dissesto della famiglia cui va incontro inesorabilmente questa società e la stessa Chiesa che vede cadere a pezzi uno dei baluardi in cui ha sempre creduto e,in cui, nonostante tutto, deve ancora continuare a credere, la famiglia appunto. Pensiamo per un momento a quali gravi problemi anche di ordine mentale può portare la disoccupazione a livello sia degli adulti che, di conseguenza, anche sui bambini.

 Scrive il Card. Tettamanzi: “Sebbene la famiglia mostri segni di malattia al suo interno e una certa fragilità strutturale che la rende talora poco capace di affrontare e gestire i tanti ostacoli che incontra sul suo cammino, forse una certa difficoltà a vivere la sua vocazione, resta comunque quel luogo nativo e insostituibile, ove sperimentare di essere amati gratuitamente”. La Chiesa ha anche il dovere di richiamare i valori fondamentali dell’uomo e tra questi certamente c’è il valore dell’educazione, del vivere in società,  del diritto al lavoro e ad una casa,  di non essere emarginati dalla vita di tutti gli uomini. Il rispetto delle diversità. La comprensione delle debolezze umane, la capacità di capire, comprendere, aiutare, sostenere le persone che nella società sono meno considerate o dalla stessa respinte.  Il Santo Padre in occasione della giornata mondiale del malato del 2005 sollecitava l’urgenza di dare a tutti i malati le cure necessarie e si augurava che  potesse crescere la “cultura dell’accoglienza e della condivisione, grazie pure a leggi adeguate e a piani sanitari che prevedano sufficienti risorse per la loro completa applicazione”. Per concludere questo secondo punto ritengo che la Comunità cristiana debba partecipare attivamente ad “umanizzare le nostre città, tornare a salutarsi ossia a considerarsi persone e, di fronte al prevalere di paura e sospetto, è necessario scegliere nuovamente di aprire le porte delle proprie case e del proprio cuore per favorire la relazione e l’incontro”.

 3. LA CHIESA E IL MALATO MENTALE – RIFLESSIONI PASTORALI

            Introducendo questo terzo punto faccio mia una esortazione frutto dell’esperienza personale che è tanto semplice quanto evidente: la pastorale accoglie tutti e non respinge alcuno. Ci sono ,molti modi di accogliere e altrettanti di respingere; a volte certi atteggiamenti che sembrano di accoglienza si rivelano altrettanti rifiuti. E allora cerchiamo di comprendere come essere accoglienti con i malati mentali e le loro famiglie. E’ questo il primo atteggiamento che dobbiamo porre in essere se vogliamo chiamare in causa la pastorale. Io non sono, come dicevo all’inizio,un pastoralista. Probabilmente se lo fossi non potrei dire molte delle cose che verrò dicendo. Con il malato mentale e la sua famiglia non tiene la rigidità di una pastorale legata a norme a volte di difficile comprensione. 

I muri cadono adagio

Mi sovviene alla mente il titolo di un libro: “I muri cadono adagio”.

Come è vero che cadono adagio i muri dei manicomi, degli ospedali psichiatrici, così cadono adagio i muri dell’ipocrisia.Ci dice il vangelo: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Chi è il mio prossimo? La comunità cristiana crede davvero che il malato psichico sia per lei il prossimo? Si parla molto, dal Concilio in poi di Comunità Cristiana ma forse non si è ancora scoperta una nuova solidarietà intergenerazionale con chi soffre. La storia continua e contraddice l’utopia di un cammino idealmente perfetto. Ci troviamo a fare i conti con guadagni e perdite, con i problemi risolti e con quelli che sono aperti.

Il futuro che pure avevamo intravisto come una promessa di progresso ci appare di nuovo come una ambiguità che non rassicura e che, anzi, spesso sgomenta. Le fedi ideologiche dicono il loro smarrimento; ma non si tratta di rimpiangere ma piuttosto di comprendere.La pastorale della salute in Italia sta cercando di recuperare il tempo perduto e lo fa, in diverse realtà e in diverse forme,  anche con una certa determinazione. Basti pensare all’impegno del rinnovato Ufficio della Pastorale sanitaria della CEI, ma anche all’impegno dell’Associazione di Pastorale della salute che ho l’onore di presiedere come l’AIPaS, della quale molto religiosi Cappuccini sono animatori. Purtroppo, però, la stessa cosa non può dirsi dell’attenzione pastorale verso i malati mentali. Un esempio chiarisce meglio il concetto:  è dimostrato, infatti, che il cappellano o l’assistente spirituale o lo stesso parroco nella comunità parrocchiale, dedicano molto più tempo nell’incontro con i malati normali che non con i malati mentali. Le ragioni possono essere diverse come la difficoltà di relazione, la paura o la stessa impreparazione dell’operatore pastorale. E’ certamente vero che la pastorale è crescita nella fede, tuttavia però per operare bene pastoralmente è necessaria una adeguata formazione. Un operatore pastorale impreparato già di per sé non agisce pastoralmente, allo stesso modo che un medico incapace è profondamente disumano e ingiusto nei confronti del malato.

L’Ordine Sacro abilità il sacerdote alla celebrazione dei sacramenti ma non lo abilita ad essere esperto in ogni campo: per ogni campo di azione pastorale deve darsi la necessaria formazione.

I malati mentali e i Sacramenti

Come per tutti i cristiani, anche per  i malati mentali i sacramenti sono un dono, sono una grazia, spesso sono l’unico  segno di Speranza.E’ quindi naturale che le celebrazioni dei sacramenti devono essere adeguate alla capacità di comprensione delle persone con problemi psichici o mentali in genere, anche se qui non ci soffermiamo ad esempio sul problema delle persone colpite da demenza che meritano davvero un capitolo a parte.

La Chiesa deve essere generosa con queste persone in riferimento ai Sacramenti. La sofferenza è per molti malati psichici una vera purificazione del cuore e dell’anima. Andando per sommi cenni mi permetto di condividere alcune considerazioni come esemplificazione dei problemi legati alle celebrazioni liturgiche. In particolare all’Eucaristia. n particolare vorrei mettere in evidenza come molto spesso la Liturgia della parola sia incomprensibile per gran parte dei malati psichici: se mi è concesso vorrei qui ricordare che è falsa la preoccupazione di salvaguardare la norma  quando non viene rispettata la persona. Come posso parlare con una persona che non comprende il linguaggio che sto usando? Quindi o si prepara prima la celebrazione con le persone interessate o si adatta il testo alla comprensione delle persone presenti. Naturalmente mi riferisco ad una celebrazione di  gruppo per queste persone. E tale celebrazione non potrà essere prolungata nel tempo perché il tempo di attenzione di queste persone è molto modesto. Altra situazione problematica è l’Omelia che ha il compito di sbriciolare e far comprendere la Parola di Dio mentre, a volte, la complica. In effetti il celebrante dovrebbe essere  umile e fare lo sforzo di farsi comprendere dalle persone più semplici e sarebbe certo che tutti  comprenderebbero. Un altro esempio possiamo trarlo dalla terminologia che può nuocere alla persona con problemi psichici. E’ frequente in molti malati psichici il tentato suicidio. Ebbene in molti passi dell’Antico Testamento ricorrono episodi o descrizioni che lo evocano.

 E’ necessario avere una buona conoscenza dei malati e farsi aiutare da chi li conosce per cercare di evitare questi passi o di modificare correttamente taluni termini. Tuttavia molte di queste considerazioni possono essere fatte anche per diverse categorie di malati: anziani, dementi; ma le stesse attenzioni vanno poste anche nelle celebrazioni per i più piccoli. E’ molto importante anche favorire la partecipazione diretta dei malati psichici alla celebrazione. Infatti queste persone sono capaci di leggere, di cantare, di raccogliere le offerte, di portare i doni all’altare, e inoltre, hanno anche molto tempo libero da occupare utilmente. Dobbiamo sempre di più convincerci che è la pastorale e la Liturgia a servizio dell’uomo perché possa lodare Dio e deve adattarsi alle persone e non viceversa: che sia difficile è certamente vero, che sia doveroso è altrettanto necessario. Osservazioni analoghe, attenzioni simili devono essere poste in atto nell’amministrazione dei Sacramenti ma anche nella preparazione di incontri di preghiera, pellegrinaggi, ecc.

 La sofferenza psichica ci interpella

Pr attivare forme e possibilità concrete di animazione liturgica è necessario avere verso il malato mentale atteggiamenti di condivisione e di accoglienza. Possiamo quindi affermare che il saper accogliere il malato mentale e condividere con lui atteggiamenti e sentimenti, rappresenta il primo gesto di  animazione “liturgica”, in quanto accogliamo l’uomo malato e accogliere nel nome di Gesù il malato è “fare Eucaristia, fare comunione”. Possiamo allora porci la domanda: come aiutare i malati psichici a comprendere meglio i gesti e le azioni liturgiche e a renderli partecipi consapevoli?

Io credo che una delle prime attenzioni che dobbiamo porre in essere con una persona malata è che tra lui e me non esistono differenze fondamentali: abbiamo gli stessi desideri, cerchiamo le stesse cose, siamo capaci di gioie e di piangere: ciò che cambia è l’intensità di questi sentimenti. Siamo quindi persone con altre persone più che essere persone sane con persone malate; soprattutto siamo persone libere con persone libere. Anche nella vita liturgica, come in ogni altro campo d’azione, l’altro, il malato non deve mai essere considerato un qualcuno cui dedicare del tempo o su cui chinarsi con una benevolenza sospetta: non possiamo decidere per lui, non possiamo presumere di sapere ciò che è bene per lui! Anche nella Liturgia è la stessa cosa: la persona non è tutta malata da non comprendere nulla, come noi non siamo sempre in grado di comprendere il significato di ogni discorso e non per questo siamo malati. Ricordiamoci sempre che nella Celebrazione Liturgica l’uomo forse si agita ma è il Signore opera: allo stesso modo per ogni persona.

Anche gli ammalati sono mandati come operai nella vigna

La vigna del Signore è sconosciuta ai più. Essa ci è sempre stata raccontata come il luogo dei chiamati: sacerdoti, religiosi, religiose, consacrati in genere e di tutti i credenti, anche quelli di poca fede come anche di tutti gli uomini di buona volontà. Quindi anche questo campo di lavoro è luogo di salvezza per i malati. Ma c’è molto di più: i malati sono mandati come operai nella vigna. I malati sono chiamati ad essere missionari nella vigna del Signore, potremmo dire che sono mandati in questa vigna come tecnici specializzati, come operai “qualificati”, come novelli enologi chiamati a lavorare il vino perché sia buono, a seguirne la lavorazione perché diventi vino pregiato come pregiata è la sofferenza agli occhi di Dio. E quindi attori della pastorale e non passivi raccoglitori. Quindi non persone qualsiasi ma uomini e donne che sono chiamati in forza del loro essere malati. Non so se questo possa essere un segno di predilezione del Signore, certamente è un segno di grande attenzione che riconosce alla persona malata una grande dignità. La riabilita a tal punto da rendere la malattia un punto di forza, la sofferenza motivo di predilezione, quasi il passaporto per il cielo.

 Ma nella vigna del Signore non si lavora per se stessi. Nella vigna del Signore ci si pone al servizio del Signore stesso. Ma la straordinarietà di questo servizio si caratterizza nel servizio al prossimo.

Ma c’è qualcuno che ha più bisogno di un malato psichico? Come allora lo stesso malato si pone al servizio degli altri nella vigna del Signore? Non so neppure io se quanto sto dicendo abbia una sua logica, ma frequentemente le vie del Signore non seguono le logiche di questo mondo.

 Conclusione

Dopo tutte queste considerazioni abbiamo ancora verso il malato psichico diffidenza, paura, stigma? E’ un cristiano tra i cristiani, confuso nella sua sofferenza, più vicino a Dio per i meriti del suo soffrire, nostro fratello in Cristo, missionario nella comunità cristiana molto ascoltato dal Signore, a motivo della forte condivisione della stessa croce su la via di un Calvario che spesso non terminerà mai. Non ci rimane se non fare come quel parroco che vedendo il sacrestano allontanare un malato di mente in fondo alla chiesa, chiamò quel malato sull’altare accanto a sé sino al termine della Eucarestia. Forse una delle celebrazioni più belle e un esempio di accoglienza non da commentare ma da imitare.

 Fra Marco Fabello oh

PRESIDENTE NAZIONALE AIPaS

GIOCARE O GIOCARSI ? – Carlo Maria Martini

LA SCELTA

La scelta, qualsiasi scelta, è di per sè sempre un poco drammatica: è aprire una porta.. è un chiuderne altre. Senza la scelta però il pericolo incombente è l’eterno procrastinare, il continuo svolazzare di esperienza in esperienza, il non afferrare la vita: un GIOCARE anzichè …GIOCARSI.

Al riguardo, una profonda riflessione del cardinal Martini.

L’icona che può rimanere come sfondo della nostra riflessione sul giocarsi è quella di Gesù che «si gioca» nell’Eucaristia e nella Croce, amando i suoi fino alla fine, eis to télos. Troviamo espressa bene questa immagine nel vangelo secondo Giovanni: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta l’ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1).
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Nel verbo giocarsi c’è anzitutto il tema della definitività: saprò pronunciare un «sì» definitivo al Signore? Adempirò le mie promesse? Vivrò correttamente la castità? Sarò in grado di affrontare il compito e le responsabilità che mi vengono affidate?
Perché ‘giocarsi’ è, di fatto, molto diverso dal ‘giocare’. Quando gioco, niente mi proibisce, a un certo punto, di ritirarmi, mentre se mi gioco taglio i ponti, mi comprometto definitivamente, non mi è più possibile tornare indietro.

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E c’è anche l’aspetto del rischio, dal momento che ‘giocarsi’ non significa semplicemente calcolare, valutare accuratamente, bensì mettere in conto l’imprevedibile. Addirittura, nel ‘giocarsi’ c’è, come ingrediente, un pizzico di irresponsabilità; devo andare al di là di ciò che è garantito, che rientra sicuramente in tasca. Un pizzico di follia, dunque, un gusto dell’avventura.Paolo si gioca (At 20,22-24)

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Volendo cercare, nella Sacra Scrittura, qualche testo che ci aiuti a riflettere sul tema del giocarsi, comincio ricordando alcune parole di Gesù in Marco: «Chi perderà la propria vita, la troverà» (Mc 8,35). E ancora: «Entrate per la porta stretta» (Mt 7,13).

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Che cosa è la porta stretta? Istintivamente pensiamo che stretta è la porta della rinuncia, del sacrificio, per la quale ci si sforza a passare vincendo se stessi, ponendo qualche gesto significativo di austerità. Al contrario, larga è la porta che tutti preferiscono, la porta della facilità e della comodità. C’è del vero in tutto questo, perché in realtà il Signore ci chiama alla vigilanza, al sacrificio. Credo tuttavia che è stretta la porta di chi si accetta povero, inadeguato, fragile, senza però temere il giudizio misericordioso di Dio; di chi non ha paura di fronte agli altri né di fronte al futuro, sentendosi amato, accolto, valorizzato, riabilitato dal Signore, ed è così che uno può giocarsi. Larga è la porta di chi non vuole aver bisogno della divina misericordia, di chi si erede autosufficiente e non si scopre, non chiede, si nasconde.

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Mi sembra tuttavia più utile ricorrere a un altro brano del Nuovo Testamento, che descrive l’esperienza concreta vissuta da un uomo che si è giocato e che a un dato momento della sua vita, ha compreso che si stava giocando l’avvenire. Parlo dell‘apostolo Paolo e del suo famoso discorso a Mileto, dove tra l’altro dice:
«Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito santo, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà. So soltanto che lo Spirito santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni. Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio» (At 20,22-24).

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E’ un testo che possiamo dividere in tre parti:
1) giocarsi la vita;
2) giocarsi la vita avvinto dallo Spirito (è la condizione senza la quale non ci si può giocare);
3) la motivazione del giocarsi: «purché porti a termine il servizio che mi è stato affidato».

Consideriamo le singole parti.
 

1). Il giocarsi la vita


Il giocarsi la vita è al centro del discorso: «Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla», quindi mi butto, mi lascio andare. La nota della Bibbia di Gerusalemme suggerisce un altro modo di tradurre questa parola – chiave: «Ma che cosa valga la vita ai miei occhi, non vale la pena di parlarne». Ancora più efficace, a mio avviso, è la traduzione della Bibbia interconfessionale: «Quel che mi importa non è la mia vita, ma portare a termine la corsa». E Jean Dupont, commentando il discorso di Mileto, sintetizza ulteriormente il significato della frase:
«La mia vita non vale nulla di fronte a ciò che mi sta davanti».

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La versione greca è indubbiamente difficile da tradurre, perché è densa, probabilmente frutto di due espressioni:
— «non faccio conto della mia vita» e «non ritengo la mia vita preziosa» — fuse insieme. In ogni caso, chi legge non può non avvertire la forte emozione con cui Paolo ha pronunciato queste parole nelle quali si gioca totalmente.

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Che cosa vuol dire, per l’Apostolo, ‘giocarsi’?
a) Una prima risposta la troviamo nella lettera del Concilio di Gerusalemme che, presentando Paolo e Barnaba, li descrive così: « I carissimi Barnaba e Paolo, uomini che hanno votato la loro vita al nome del Signore Gesù Cristo» (At 15,26). Paolo non fa conto della sua vita perché l’ha votata al nome del Signore Gesù. Il testo greco di At 15,26 è più pregnante: «Hanno abbandonato la loro vita al nome del Signore Gesù Cristo», l’hanno dedicata in perpetuo.
Paolo si gioca la vita non per disprezzo, per stanchezza, bensì in conseguenza del fatto che l’ha votata al suo Signore.

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L’impeto che lo muove irresistibilmente appare pure dal seguito del racconto, quando tutti lo supplicano di non andare a Gerusalemme, perché si sa che lo aspettano catene e prigione. Egli però risponde: «Perché fate così, continuando a piangere e a spezzarmi il cuore? Io sono pronto non soltanto a essere legato, ma a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù» (At 21,13).

b) Un secondo sentimento vive Paolo, e appare, per esempio, nella prima Lettera ai Tessalonicesi: «Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il Vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari» (1 Ts 2,8). Ciò che gli permette di giocarsi è anche l’affetto profondo per coloro che ha generato in Cristo e che, per questo, gli sono diventati carissimi. Essendosi lasciato, per primo, perdonare e amare dal Signore, avendo capito di essere amato da Dio nella sua povertà, è divenuto capace di dare perfino la vita per gli altri. Torna qui l’immagine della porta stretta nella quale si entra con la vera misura di noi stessi, misura di poveri peccatori, misura di persone che, avendo perso la propria dignità e avendola ricevuta da Dio in pienezza e in totalità, non solo si sentono spinte ad annunciare con gioia il Vangelo della grazia, ma a sacrificare la vita pur di annunciarlo.
Dunque Paolo è pronto a morire per Cristo e per coloro che ha generato in lui.

2. Giocarsi la vita «avvinto dallo Spirito».


Per comprendere meglio l’espressione, occorre leggerla insieme ad altre due: «Io vado a Gerusalemme», «senza sapere che cosa là mi accadrà».
* “Avvinto dallo Spirito” non vuol dire semplicemente: ‘legato nello Spirito’, cioè, non posso fare altro, avverto che è l’unica scelta possibile; significa piuttosto essere legato dallo Spirito. E lo Spirito Santo che gli ha impresso nel cuore quella decisione irrevocabile, è lo Spirito che lo muove. Nella Lettera a Filemone, scriverà: «Sono prigioniero di Cristo» (Fm 1,9), in catene materiali e insieme avvinto da Gesù. Siamo di fronte a una condizione spirituale in qualche modo mistica; il Signore agisce in lui al punto che Paolo vede il giocarsi come la realizzazione piena della sua vita.

* Avvinto dallo Spirito, dichiara: «Io vado a Gerusalemme». Quella dell’andata nella Città santa è una metafora ricchissima; indica infatti il termine del cammino umano, dove ci si identifica con Gesù proprio nel luogo dove il Figlio del Padre si è consegnato per noi, dove l’umanità è stata raggiunta e salvata dalla dedizione di Dio.
Gerusalemme è il termine reale e simbolico del cammino in cui si è legati e mossi dallo Spirito, e si sperimenta che questo è il proprio destino e quello della umanità. Non dipende da noi la decisione di andare a Gerusalemme, bensì dall’impulso che il Signore mette nel nostro cuore.

* «Senza sapere ciò che là mi accadrà»: meglio, sapendo che non mi attendono gloria, successo, trionfi. Tuttavia non ho alcuna incertezza, mi affido completamente.
Viene alla mente un versetto della Lettera agli Ebrei:
«Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì, partendo da un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava» (Eb 11,8).
Non si può calcolare ciò che accadrà, anzi si sa che potranno capitare incidenti gravi, fatti spiacevoli, incomprensioni e sofferenze, ma ci si gioca, ci si butta quando si è avvinti dallo Spirito di Dio. Abramo partì sapendo quello che lasciava, ed era molto, e non quello che avrebbe trovato. Paolo si avvia a Gerusalemme prevedendo addirittura eventi negativi e drammatici, però nella certezza che deve andare per giocarsi così come si è giocato il suo Signore nella passione e nella morte.
Ci accorgiamo come l’icona di Paolo che sale a Gerusalemme sia molto importante per definire il cammino del cristiano.

3. Purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù

«Purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio», cioè la buona notizia che Dio ama gli uomini. Ogni parola di questo versetto 24 andrebbe medita a lungo.* «Purché conduca a termine la mia corsa»: Paolo paragona il suo cammino a una gara sportiva bella, coraggiosa, nella quale si butta con entusiasmo, una corsa da vincere, non un peso da portare. Egli vuole giocarsi in maniera definitiva, giungendo al traguardo della corsa.

* «E il servizio che mi fu affidato dal Signore», il ministero. Ministero o servizio o diaconia che, come sappiamo, non consiste soltanto nella colletta che deve portare a Gerusalemme (pur se essa è significativa della Chiesa primitiva e dell’importanza delle relazioni fraterne tra le Chiese). È il suo impegno pastorale che condurrà a termine solo giocandosi in quel modo.

* Il servizio pastorale affidatogli dal Signore è, in realtà, di «rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio», dell’amore di Dio per l’umanità. Ciò che dunque Paolo vuole a ogni costo e che gli permette di giocarsi è l’assolutezza del ministero; la vuole a ogni costo perché è il dono supremo del Padre all’uomo, è l’annuncio definitivo che può testimoniare, annuncio per cui vale la pena di giocare la vita.
Paolo si gioca sul suo legame con Gesù «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»: (Gal 2,20), sull’importanza dell’annuncio del Vangelo per noi; si gioca per tutti i credenti del suo tempo, per i suoi fratelli ebrei, per coloro che in futuro crederanno all’amore di Dio, all’amore di Cristo Gesù.
Vi suggerisco di riflettere più ampiamente e più attentamente sul brano del discorso a Mileto, in modo da penetrare nel cuore di Paolo. Noi siamo chiamati allo stesso fuoco che ardeva in lui, che lo animava, e lo Spirito vuole avvincere anche noi, vuole che ci giochiamo per il nome del Signore Gesù e per un ministero da portare a termine a tutti i costi, pur non sapendo chiaramente che cosa tale ministero comporterà.

Quattro tesi per la meditazione
Vorrei esprimere alcune tesi che riassumano, in forma propositiva, il giocarsi di Paolo.

1. Se lo consideriamo nella sua natura, condizioni e motivazioni, ci accorgiamo che il giocarsi dell’Apostolo non è affatto un’operazione irresponsabile, anche se audace e rischiosa. E’ un’operazione compiuta nella luce dello Spirito Santo e nella grande motivazione del ministero, che non ha nulla a che vedere con il volontarismo, con la ricerca del brivido. Si è lasciato invadere dalla forza di Dio e l’ha sentita in maniera talmente prepotente da mettere al primo posto l’annuncio che il Padre ama gli uomini, quindi l’amore per Gesù a cui si è donata la vita e l’amore per i fratelli. Questo duplice amore è salvezza e rende vero il giocarsi: chi si perde così, si salva.
Giocarsi allora è un atto supremo di saggezza, è comprendere che l’uomo non sarà mai se stesso se non si decide ad andare al di là di sé, se non accetta l’invito a buttarsi oltre se stesso; però con le condizioni di pienezza dello Spirito, di amore per Cristo, di percezione della sublimità del ministero, superiore a qualunque altro servizio all’umanità: proclamare che Dio ama gli uomini.

2. La seconda tesi è che il giocarsi è frutto di tre realtà: è frutto dello Spirito santo, quindi dono che possiamo umilmente chiedere, riconoscendo di non averlo e confessando di desiderarlo (frutto dunque dell’accettazione della nostra creaturalità, fragilità, povertà). È frutto di legame intenso e unico con Gesù, instaurato in totalità di dono. E’ frutto di legame con la gente, già vissuto nel ministero o come anticipazione (voglio donarmi per il bene degli altri).3. Nel giocarsi, così come l’abbiamo inteso, è implicita la perseveranza. Paolo non vuole fare semplicemente un gesto eroico, di un momento, bensì vuole condurre a termine la sua corsa. Il giocarsi implica una dedicazione definitiva, fino alla fine, ed è quindi qualcosa di molto grande.

4. Nel giocarsi è inoltre implicita la scioltezza e il gusto del rischio. Per questo è profondamente umano e ha un certo rapporto con l’arte, con la musica, con la fantasia, con l’estetica, con il gioco. Mentre Paolo risponde agli amici che lo pregano insistentemente di non andare a Gerusalemme, ci appare sciolto e ben consapevole che il suo giocarsi è un rischio.

Domande per la preghiera personale
Le quattro tesi che ho voluto offrirvi, a modo di sintesi, ci introducono a quattro domande per la preghiera e per la vostra personale riflessione.

A) Sono avvinto dallo Spirito di Cristo? Naturalmente non dobbiamo cercare in noi dei segni esteriori o una coscienza sperimentale dell’essere avvinti dallo Spirito. Invece, dobbiamo pensare alle tante difficoltà che abbiamo superato fino a questo momento, e riconoscere che non ci saremmo riusciti se non fossimo stati avvinti dallo Spirito.
Chiediamo con umiltà la presenza dello Spirito che ci ha già donato di perseverare in un cammino irto di difficoltà interne, esterne, di ambiente, di mentalità, di costume, di cultura, in una società che rende improbabili le scelte da noi compiute o che stiamo per compiere.
Essere avvinti dallo Spirito significa, in altre parole, riconoscere la grazia che ci muove giorno dopo giorno.
B) Sono prigioniero di Cristo Gesù? Lo ritengo davvero necessario per me?
Siamo prigionieri di Cristo se avvertiamo che senza di lui la vita non ha alcun senso, che Gesù solo dà significato a ciò che viviamo, che è lui il nostro essere più profondo.
C) Come anticipo la mia responsabilità per gli altri? In quale modo sento che gli altri mi sono cari e li porto nella mia offerta, nella mia ricerca, nel dono di me stesso?
D) Come vedo la perseveranza futura con il suo quotidiano giocarsi? E’ una domanda sull’implicazione ovvia del giocarsi che è la perseveranza. La considero un peso di cui ho paura, oppure l’unico modo di essere autentico? Autenticità è un insieme di attenzione, intelligenza, riflessione e amore, Non è sfuggendo a un peso, bensì giocandomi in esso che cresco nella verità di me stesso di fronte a Dio e di fronte ai fratelli.
Come dunque immagino e sento la mia perseveranza?

Conclusione

«Ti ringraziamo, Signore Dio fedele, perché continuamente ci dimostri la fedeltà al tuo progetto fondamentale che è Cristo Gesù in noi. Tu non rinneghi tale progetto e non rinneghi nessuno di noi; ci dai, invece, la certezza di poter risponderti con analoga fedeltà, pur se siamo deboli, fragili, inadeguati. Rafforza in noi questa certezza, nella contemplazione del Mistero eucaristico che attualizza il sacrificio di tuo Figlio, e nella frequentazione assidua della tua Parola. Fa’ che, sonetti da tale certezza, riusciamo davvero a seguire Gesù, a conformarci alla sua condizione filiale con animo sicuro e pacificato. Amen».

ISTRUZIONI VOCAZIONALI – C. M. Martini

Vorrei brevemente, quasi a modo di istruzione, rispondere a qualche domanda, espressa o inespressa sulla vocazione.



l. Quali sono i segni certi della volontà di Dio?
Oggi più che in ogni altro tempo, i giovani sono, e molto, incerti nelle loro decisioni. E’ vero tuttavia che, quando si tratta di compiere scelte definitive per la vita, la nostra creatività resta particolarmente coinvolta e non possiamo pretende­ di avere delle certezze prefabbricate.Le incertezze, dunque, da una parte sono giuste, si purificanti, ma dall’altra si devono diradare gradualmente nella misura in cui ci convinciamo che il Si­gnore vuole la nostra cooperazione libera nella vocazione. Egli desidera elaborarla con noi e in noi; attraverso le incertezze, che causano sempre soffe­renza, ci aiuta a costruire il cammino lungo il quale arriviamo alla decisione. Mi sembra perciò utile offrirvi tre criteri.

Anzitutto occorre diradare le incertezze mediante strumenti legittimi: l’ascolto della Parola, l’eserci­zio della lectio divina, il silenzio, la riflessione, il dialogo con il direttore spirituale.
Dobbiamo comunque assumerci un rischio, fatto­ ineliminabile nelle decisioni creative della nostra libertà. Chi non ama non rischia; quando, per esempio, decidiamo di dare fiducia a una persona, rischiamo. Nella scelta della vocazione, non possiamo dunque cullarci in una eterna incertezza, adducendo la scusa che non vediamo ancora chiaro.
Dobbiamo nutrire una grande fiducia in Dio, nel senso di credere, cioè, che egli dentro di me pone dei criteri e i princìpi per una scelta giusta. Non è fidu­cia in Dio il non impegnarsi per scegliere aspettando chissà quale rivelazione miracolosa! Quello che ci vie­ne chiesto è di affidarci al Dio che opera in noi. La libertà di elaborare un atteggiamento di dispo­nibilità, comporta un rischio che però si appoggia al­la fiducia.
Tuttavia, all’origine delle nostre incertezze, si trova spesso il cosiddetto senso della indegnità. Non ci sem­bra possibile di essere oggetto di una predilezione divina, non finiamo mai di convincerci che il Signore ci ama davvero. E questo vuol dire che la nostra fede è ancora debole.
Dobbiamo infatti credere che Dio ci ama, ci ama come non potremo mai immaginare, mai capire, mai pensare, mai esprimere. Siamo quindi invitati a cogliere nel Battesimo, nell’Eucaristia, nel mistero di Gesù Crocifisso, i segni visibili di questo ineffabile e infinito amore personale di Dio, siamo invitati a viverli con una più profonda coscienza.

2. Come discernere i progetti di Dio?
Un secondo interrogativo può riguardare il cosiddetto discernimento, che è qualcosa di molto serio.
Nella vita quotidiana, il discernimento è la ca­pacità di distinguere ciò che nelle mie azioni è secondo lo Spirito di Cristo e ciò che gli è contrario. Spirito di Cristo è attenzione all’umiltà, all’accettazione della prova, alla carità, alla pazienza, alla benignità, alla gioia. Spirito contrario a Cristo è volontà della rea­lizzazione di sé, gusto della mondanità, ricerca del successo, pretenziosità, malagrazia.

Il discernimento ci dà la consapevolezza di essere continuamente sotto la mozione dello Spirito santo (che ci spinge a vivere le Beatitudini) e sotto la mozione dello spirito maligno (che ci spinge all’ambizione, alla vanità, al successo, al parlar male degli altri).
Ancora, il discernimento è la capacità di non agire per impulso, di capire da dove viene quell’impulso e se produce amarezza, invidia, irritazione, oppure pace, gioia, serenità,desiderio di pregare. Questo discernimento quotidiano crea l’abitudine al discernimento vocazionale; a discernere, nell’insieme dell’impostazione della mia vita, che cosa è più conforme allo spirito di Cristo: E quando si è giunti a una scelta definitiva, pur se sofferta, ci fa cogliere subito se produce dentro di noi fiducia, letizia, consolazione dello Spirito santo.

Diventa allora facile capire se i nostri progetti corrispondono a quelli di Dio. I progetti di Dio h conosciamo dalla Sacra Scrittura; il Signore ha condotto il suo popolo fuori dalla schiavitù dell’Egitto verso la libertà della terra promessa e a poco a poco l’ha portato alla vita in Cristo, agli atteggiamenti evangelici delle Beatitudini. I nostri progetti sono dunque conformi a quelli di Dio quando corrispondono ai progetti di Cristo. Per questo è assolutamente importante l’esercizio della lectio divina, che ci permette di conoscere, giorno dopo giorno, come Gesù agiva, pensava, amava, godeva, voleva, serviva, si donava. Il comportamento di Gesù dodicenne nel tempio, per esempio, ci insegna che la giusta attenzione ai genitori non può mai impedire la realizzazione di una vocazione al presbiterato o alla verginità consacrata. Tanto più che i genitori non impediscono in genere a un figlio la scelta matrimoniale, come pure l’impegno di un lavoro, o addirittura la ricerca del successo. Naturalmente, sarà necessario giudicare caso per caso, soprattutto se i genitori sono anziani e ammalati, ma il criterio di base lo abbiamo. Nel nostro tempo la maggior parte delle famiglie, anche cristiane, non vede bene la scelta di consacrazione da parte dei figli. Vorrei però sottolineare che tale vocazione è sommamente importante nella Chiesa. Le istituzioni religiose possono cambiare, nascere e morire, e la storia lo attesta; gli Ordini e le Congregazioni possono lasciare il posto a nuove forme, ma se venisse a mancare la figura della verginità consacrata per il Regno, la Chiesa non ci sarebbe più. La Chiesa infatti esiste in quanto genera continuamente figure carismatiche di dedicazione evangelica, che costituiscono il sale e il fermento della comunítà cristiana.

3. In quale modo parla il Signore?
Ho l’impressione che non abbiamo sempre un’idea esatta di che cosa significa ‘ascolto dei Signore’.

a) Il primo è l’ascolto di quella parola di Dio che la Chiesa ci trasmette attraverso il Vangelo, l’Antico Testamento, la voce del Papa e dei Vescovi. Ascoltare la voce di Dio non vuol dire quindi percepire il fruscio di un’aria leggera, bensì leggere la sua Parola con disposizioni di umiltà, preghiera, obbedienza, riverenza.

b) C’è un secondo modo di ascolto. Passando dal momento della lectio di un brano biblico, di un salmo, di una pagina dell’Antico o del Nuovo Testamento, al momento della meditatio, dobbiamo applicare la parola di Dio alla nostra situazione personale, dobbiamo lasciarci interpellare dal Signore chiedendoci: come questa parola mi spiega, mi scuote, mi tocca, si realizza in me qui e adesso? Questo ascolto è molto importante per la nostra vita concreta, quotidiana.

3) Ci può essere un terzo tipo di ascolto, meno abituale, più interiore: si avverte dentro di sé una parola di Dio, una sorta di voce. Ovviamente, perché sia vera e non invece frutto della mia immaginazione, occorre sentirla ripetutamente, insistentemente, e non solo in un momento di euforia. E allora bisogna confrontarsi con il direttore spirituale. A noi, comunque, spetta anzitutto di esercitarci nella prima e nella seconda forma di ascolto, senza le quali non ci può essere mai la terza.

4. L’aridità nella preghiera
Abbiamo parlato dell’aridità vissuta da santa Teresa di Gesù Bambino. Tutti però, prima o poi, conosciamo questa aridità che può portare allo scoraggiamento, alla tristezza e addirittura alla decisione di impiegare in altro modo il tempo stabilito per la preghiera. E’ perciò utile sapere che l’aridità può sopravvenire per due ragioni.

a) La prima è quella della prova: Dio vuole purificarci, vuole farci passare a una fede più pura, vuole suscitare una ricerca nuova.

b) La seconda ragione va ricercata in noi stessi: l’aridità infatti può essere frutto di dissipazione, di pigrizia, di affettività sregolate che, a poco a poco, inducono al disgusto delle «cose del Padre».

Naturalmente non è facile discernere tra questi due tipi di aridità, occorre l’aiuto dei direttore spirituale. Ordinariamente, quando una persona, malgrado il silenzio di Dio, rimane fedele al tempo della preghiera e continua a dire: Signore, ti amo, mi dono a te; quando una persona è interiormente molto addolorata per l’aridità che sperimenta, significa che si tratta di una prova purificatrice.
Quando, al contrario, l’aridità non provoca dolore e tentiamo di giustificarla con scuse pretenziose, è frutto della nostra dissipazione.
Talora, però, la prima e la seconda forma sono mescolate insieme e per questo è necessario il consiglio del direttore spirituale.
La trattazione più scientifica e più completa sugli stati di aridità, la troviamo nella « Notte oscura » di san Giovanni della Croce, libro tuttavia che è bene leggere solo dopo aver fatto esperienze spirituali profonde.

5. Come si affretta la venuta del Regno?
Molte volte mi sento chiedere dai giovani dove e come devono esercitare l’apostolato per affrettare la venuta del regno di Dio.

Penso che per affrettare la consumazione di tutte le cose, o ‑in altre parole ‑ per fare in modo che il Signore regni in tutti i cuori, dobbiamo anzitutto pregare: Venga il tuo regno, invocazione fondamentale del «Padre nostro ».

In secondo luogo, dobbiamo crescere nella consapevolezza che il regno di Dio è già tra noi (cf Lc 17,20). Il Regno viene in ogni azione nella quale esercitiamo fede, speranza, carità, pazienza, umiltà, verità. Così affrettiamo la venuta del Regno. Se tutti, in questo momento, nel mondo, ci mettessimo d’accordo per esercitare contemporaneamente quelle virtù, noi avremmo la pace universale, la riconciliazione tra i popoli, e il Regno sarebbe consumato. Il primo apostolato, dunque, consiste nel rendere presente il Regno nella nostra quotidianità. Mentre non dobbiamo dimenticare che il Regno viene distrutto, profanato, da ogni nostro gesto antievangelico.

autore: C. M. Martini

LA VECCHIAIA IL TEMPO DELLA PREGHIERA – C. M. Martini

LA VECHIAIA IL TEMPO DELLA PREGHIERA

 

L’anticipazione/Il nuovo libro del cardinale su come cambia l’orazione quando si raggiunge l’età anziana “Siamo fragili ma anche più pazienti”

Ho ben 82 anni di vita e la malattia di Parkison e gli acciacchi dell’età si fanno sentire. Ma probabilmente, per quanto riguarda la preghiera, sono ancora a metà del guado. Sento che la mia preghiera dovrebbe trasformarsi, ma non so bene in che modo, e sento anche una certa resistenza a compiere un salto decisivo.

So che posso dire come Isacco: «Io sono vecchio e ignoro il giorno della mia morte» (Gen 27,2), ma di questo non ho ancora tratto le conclusioni. Cerco comunque di chiarirmi le idee riflettendo un po’ sull’argomento. Mi pare che si possa parlare in due modi della preghiera dell’anziano. Si può considerare l’anziano nella sua crescente debolezza e fragilità, secondo la descrizione metaforica (ed elegante) del Qohèlet: «Ricordati del tuo Creatore / nei giorni della tua giovinezza / prima che vengano i giorni tristi / e giungano gli anni di cui dovrai dire: non ci trovo alcun gusto. / Prima che si oscurino il sole, / la luna, la luce e le stelle / e tornino ancora le nubi dopo la pioggia; quando tremeranno i custodi della casa / e si curveranno i gagliardi / e cesseranno di lavorare le donne che macinano, / perché rimaste poche / e si offuscheranno quelle che guardano dalle finestre / e si chiuderanno i battenti sulla strada: / quando si abbasserà il rumore della mola / e si attenuerà il cinguettio degli uccelli / e si affievoliranno tutti i toni del canto» (12,1-4. Ma anche fino al verso 8). In questo caso il tema sarà la preghiera (qui evocata dalle parole «Ricordati del tuo Creatore») di colui che è debole e fragile, di colui che sente il peso della fatica fisica e mentale e si stanca facilmente.

 

La salute e l’età non consentono più di dedicare alla preghiera i tempi lunghi di una volta: si sonnecchia facilmente e ci si appisola. Mi pare quindi sia necessario imparare a utilizzare al meglio il poco tempo di preghiera di cui si è in grado di disporre. Non riuscendo più a dedicare alla preghiera lo stesso tempo di quando si avevano più energie, e sentendola spesso come un po’ distante e poco consolante, è possibile che il proprio spirito venga catturato da un certo senso di scoraggiamento. Allora la tentazione sarà di accorciare ulteriormente i tempi da consacrare alla preghiera, limitandosi allo strettamente necessario.

 

Tuttavia questo accorciare i tempi dell’orazione potrebbe essere molto pericoloso. Infatti la preghiera, per dare qualche conforto, deve essere di norma un po’ prolungata. Se si restringe il tempo, anche le consolazioni sorgeranno con maggiore difficoltà e si creerà una sorta di circolo vizioso, che porterà a pregare sempre meno.

 

Ma la preghiera dell’anziano potrebbe anche essere considerata la preghiera di qualcuno che ha raggiunto una certa sintesi interiore tra messaggio cristiano e vita, tra fede e quotidianità. Quali saranno allora le caratteristiche di questa preghiera? Non è facile stabilirlo in astratto e aprioristicamente: occorrerebbe piuttosto riflettere sull’esperienza dei santi, in particolare dei santi anziani. Perciò bisognerebbe dedicare, con pazienza, un po’ di tempo alla ricerca. Anzitutto nella Bibbia.

 

In molti Salmi si parla apertamente dell’anziano e della sua condizione con espressioni molto significative e suggestive. Ad esempio: «Sono stato fanciullo e ora sono vecchio; non ho mai visto il giusto abbandonato né i suoi figli mendicare il pane» (Sal 36,25). Si veda anche l’esortazione del Salmo 148,12: «I vecchi insieme ai bambini lodino il nome del Signore». La Scrittura ci offre anche preghiere tipiche di un anziano. La più nota è la preghiera dell’anziano Simeone al tempio quando prende tra le sue deboli braccia il piccolo Gesù: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli» (Lc 2,29 ss.).

 

La ricerca dovrebbe allargarsi ai Padri apostolici, come Ignazio e Policarpo, quindi ai Padri del deserto e ai grandi oranti di tutti i secoli. Non essendo qui possibile percorrere una tale via analitica, mi limiterò ad alcune riflessioni generali, aiutato anche dalla testimonianza di qualche confratello più anziano di me. Mi chiederò, cioè, quali potrebbero essere alcune caratteristiche positive nella preghiera di un anziano. Mi pare che possano emergere tre aspetti: un’insistenza sulla preghiera di ringraziamento; uno sguardo di carattere sintetico sulla propria vita ed esperienza; infine una forma di preghiera più contemplativa e affettiva, una prevalenza della preghiera vocale sulla preghiera mentale.

 

Sul primo di questi tre punti riporto la testimonianza di un confratello: «Riguardo ai contenuti della mia preghiera in questi anni di vecchiaia – ho 85 anni – si distingue la preghiera di ringraziamento. Si sono sviluppati due motivi per ringraziare Dio: anzitutto per avermi concesso un tempo in cui mi posso dedicare (vorrei quasi dire “a tempo pieno”) a prepararmi alla morte. E ciò non è dato a tutti. In secondo luogo per avermi mantenuto finora nel pieno dominio delle risorse mentali e, largamente, anche di quelle fisiche».

 

Là dove invece non c’è questo vigore fisico e/o mentale la preghiera si colorerà soprattutto di pazienza e di abbandono nelle mani di Dio, sull’esempio di Gesù che muore dicendo: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). È così che i Salmi ci insegnano a pregare: «Tu salvi dai nemici chi si affida alla tua destra» (Sal 16,7); «Mi affido alle tue mani: tu mi riscatti, Signore, Dio fedele» (Sal 30,6); «Lo salverò, perché a me si è affidato» (Sal 90,14). Chi ha raggiunto una certa età è anche nelle condizioni di volgere uno sguardo sintetico sulla propria vita, riconoscendo i doni di Dio, pur attraverso le inevitabili sofferenze. Veniamo quindi invitati a una lettura sapienziale della nostra storia e di quella del mondo da noi conosciuto. E beati coloro che riescono a leggere il proprio vissuto come un dono di Dio, non lasciandosi andare a giudizi negativi sui tempi vissuti o anche sul tempo presente in confronto con quelli passati!

 

La terza caratteristica della preghiera dell’anziano dovrebbe essere un crescere della preghiera vocale (e quindi una diminuzione della preghiera mentale) insieme a un inizio di semplice contemplazione che esprime con mezzi molto poveri la propria dedizione al Signore. Diminuisce la preghiera mentale per la minore capacità di concentrazione dell’anziano. Ma contemporaneamente bisogna aver cura di aumentare la preghiera vocale. Anche se un po’ assonnata o distratta, essa è comunque un mezzo per avvicinarci al Dio vivente. Sarebbe ideale arrivare a contemplare molto semplicemente il Signore che ci guarda con amore, oppure pensare a Gesù che ha bisogno di noi per rendere piena la sua lode al Padre. Ma qui sarà lo Spirito Santo che si farà nostro maestro interiore. A noi non resterà che seguirlo docilmente.

 

© 2009 Arnoldo Mondadori Editore 

GIOVANNI PAOLO II AI COLLABORATORI LAICI FATEBENEFRATELLI

 

DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II

AI COLLABORATORI LAICI DELL’ORDINE OSPEDALIERO FATEBENEFRATELLI

Venerdì, 18 marzo 1988

 

Cari fratelli e sorelle!

1. Sono lieto di incontrarmi con voi, collaboratori laici dell’Ordine Ospedaliero di san Giovanni di Dio, convenuti a Roma in rappresentanza di quarantamila operatori sanitari da venti Paesi per un vostro convegno su: Un diverso modo di essere vicini al malato e al bisognoso.

Vi ringrazio vivamente per questa significativa visita, che evoca nel mio pensiero i gravi problemi della malattia e del dolore, che sono oggetto del massimo interesse e della massima attenzione da parte della Chiesa, ma anche l’impegno e la dedizione che voi portate nel lenire le sofferenze in qualità di medici, infermieri, amministrativi ed ausiliari.

Saluto fra’ Pier Luigi Marchesi, Priore generale dei “Fatebenefratelli”, e ringrazio in particolare il vostro rappresentante per le parole con le quali ha voluto introdurre questo familiare incontro. A tutti esprimo i miei sentimenti di affetto e di grato apprezzamento.

2. Mi auguro che il vostro raduno romano vi sia utile non solo per la vostra reciproca conoscenza, mai anche per uno scambio di idee e per una più approfondita conoscenza degli aspetti etici dei vostri rispettivi ruoli visti nell’ottica cristiana. Oggi più che mai appare urgente la riscoperta dell’identità morale e cristiana dell’operatore sanitario in un mondo secolarizzato che va perdendo il senso della sacralità della vita e quindi del doveroso rispetto di ogni uomo e di ogni donna dal momento della concezione fino alla sua morte naturale. Questa testimonianza cristiana nel mondo ospedaliero è invocata ed apprezzata, perché essa costituisce un modo diverso, cioè evangelico, di considerare ed aiutare chi è nella necessità. Essa infatti esige lo stile del buon samaritano, il quale non curò solo le ferite dell’uomo che era incappato nei briganti, ma gli si fece prossimo: “Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino . . . e si prese cura di lui” (Lc 10, 34). È necessario che questo spirito evangelico compenetri tutto l’ambiente in cui voi svolgete i vostri rispettivi incarichi, così che esso diventi veramente una realtà in sintonia con l’ispirazione e con l’atteggiamento di servizio che il fondatore dell’Ordine Ospedaliero, san Giovanni di Dio, ha trasmesso ai membri della sua congregazione e a quanti collaborano con loro.

3. Siete chiamati in occasione di questo corso di aggiornamento, a rivedere e a confrontare le vostre esperienze, i vostri impegni, le vostre ricerche e i vostri metodi, ma in tutto questo c’è bisogno di un’anima e di una sicura orientazione: il punto di riferimento del vostro lavoro si trova nella Parola di Dio e nell’insegnamento della Chiesa, la quale, istruita dalla rivelazione cristiana, non ha mai cessato di proclamare e propugnare i diritti sacrosanti alla vita e alla salute che sono propri di ogni uomo. A questo proposito, l’antico testamento si esprime in termini perentori: “Domanderò conto della vita dell’uomo alla mano dell’uomo, alla mano di ogni suo fratello. Se uno sparge il sangue di un uomo, il suo sangue sarà sparso dall’uomo. Infatti ad immagine di Dio egli ha fatto l’uomo” (Gen 9, 5-6).

Tale rispetto della vita umana viene chiaramente riproposto, con accenti nuovi, ma con non minore impegno nel nuovo testamento. Al giovane ricco, che domanda quali siano i principali comandamenti per entrare nella vita, Gesù risponde indicando come primo dovere il: “Non ucciderai” (Mt 19, 18).

La Chiesa fedele a questa tradizione biblica, si è sempre adoperata attraverso i secoli a difendere la vita umana. Il Concilio Vaticano II ha ammonito: “Il Signore della vita ha affidato agli uomini l’altissima missione di proteggere la vita: missione che deve essere adempiuta in modo umano” (Gaudium et Spes, 51).

Carissimi, nel ribadire questi principii cristiani, mi è di consolazione sapere che l’opera che voi svolgete si ispira a tali nobili ideali. Mi auguro che i vostri incontri vi servano per illuminare meglio e rafforzare le vostre responsabilità di fronte al mistero della vita, che siete chiamati a difendere da qualunque minaccia.

Non vi scoraggino le difficoltà che indubbiamente incontrerete. Fate sì che la vita fiorisca in ogni persona; ridate, per quanto sta in voi, il sorriso e la gioia di vivere a quanti si affidano alle vostre cure.

Vi sia di sostegno in codesto vostro sforzo l’assicurazione della mia preghiera per voi; preghiera che avvaloro con la mia benedizione, che ora imparto a voi e a tutti i vostri cari.

della vita, che siete chiamati a difendere da qualunque minaccia.

Non vi scoraggino le difficoltà che indubbiamente incontrerete. Fate sì che la vita fiorisca in ogni persona; ridate, per quanto sta in voi, il sorriso e la gioia di vivere a quanti si affidano alle vostre cure.

Vi sia di sostegno in codesto vostro sforzo l’assicurazione della mia preghiera per voi; preghiera che avvaloro con la mia benedizione, che ora imparto a voi e a tutti i vostri cari.

SAN GIOVANNI DI DIO – INNI E CANTI – Angelo Nocent

 

INNI E CANTI

 

PER LA LITURGIA DELLA PAROLA

IN ONORE DI SAN GIOVANNI DI DIO

 

Angelo Nocent

 Nel nome di nostro Signore Gesù Cristo e di nostra Signora la Vergine Maria sempre integra, Dio avanti e sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù”. (San Giovanni di Dio – Lettere)

 Tutti i testi sono cantabili o recitabili. 

INVITATORIO

Parole e  musica di Angelo Nocent 

GLORIA A TE, SIGNORE

RIT.  Gloria a Te, Signore, gloria in eterno!

         Mirabile sei nel tuo servo.

        

 1

    Discepolo fedele

    del Signor nostro Gesù Cristo,

    lo amò nei suoi fratelli.

2      

    Fattosi tutto a tutti,

    con viva fede e ardente zelo,

    soccorse i bisognosi.   R/.

3

    Accolse il pellegrino,

    spezzò il suo pane all’affamato

    e diede panni al nudo.

4

    Fu servo dei malati,

    non trascurò il carcerato,

    dei poveri fu padre.   R/.

5   

    Fu vera luce ai ciechi,

    aprì la via agli erranti

    e confortò gli afflitti.   R/.

6

    Ai suoi amati figli

    lasciò un’eredità preziosa:

    la fiamma dell’Amore.   R/.      

(Testo eMusica di Angelo Nocent – Riportato in “La preghiera del fatebenefratello” pag. 673)

Gran giorno, immenso gaudio! (*)

Autore: Angelo Nocent 

1   

       Gran giorno, immenso gaudio!

       I figli si rallegrino.

       I figli si rallegrino.

       Dal corpo il Padre libero

       in cielo gode il premio.

[In alternativa]

     Gran giorno, immenso gaudio!

     I figli si rallegrino.

     Il Padre, servo umile,

     adesso è nella Gloria.

 

     Di Dio la luce fulgida

    nella sua vita penetra:

    tutti i suoi sensi vibrano

    di carità mirabile.

    Arde nel suo spirito

    un fuoco incomparabile,

    Fin tra le fiamme, incolume,

    passa il suo piede intrepido. 

     Dalla celeste Patria

     del santo Amor partecipe,

     assisti e guida i figli tuoi,

     conforta quanti soffrono. 

5  

     Onore, lode e gloria

     a Te, Signore Altissimo,

     al Figlio ed al Paraclito

     ora e in tutti i secoli. Amen.              

* ( Cantbile sulla melodia gregoriana dell’”Iste confessor Domini colentes”£ ma anche recitabile, preferbilmente a coi alterni. Il testo è riportato in “La preghiera del fatebenefratello” pag. 274)

 

DI GRANADA IL FIORE PIU’ BELLO (*)

  Autore: Angelo Nocent

    Di Granada il fiore più bello

    sei tu, padre, Giovanni di Dio

    che hai fratelli hai saputo donare

    sull’Esempio di Cristo il tuo cuor.

             RIT.  Prega per noi, o Padre,

                      e guidaci dal cielo;

                      dal tuo trono di gloria

                      d’amore infiamma i nostri cuor.

2  

      La tua casa è dimora di Dio,

     sempre aperta, ospitale, serena;

     “Dio provvede”, “il cuore comandi”,

     per te il vivere è Cristo Gesù (Fil-1,21).  RIT/.

3  

     Ogni letto per te è un altare

     e l’infermo il Cristo Signore,

     l’ospedale, il tuo sacro tempio

     dove adori il Divino Mister.   RIT/.

     Fate bene a voi stessi, fratelli

      se investite in opere buone;

      garanzia è il Regno dei Cieli“,

      è il messaggio alla tua città.   RIT/.

5  

    Dalla Chiesa di Cristo chiamati

    a una vita più santa noi siamo;

    il Concilio c’invita a seguire

    sull’esempio di Cristo, il tuo cuor.  RIT/. 

(*) Cantabile sull’aria di “Dell’aurora tu sorgi più bella”.

 

CRISTO, SORGENTE DELLA NOSTRA GIOIA 

Biografia del Santo in versi ritmici eseguibili sull’aria dell’ “Iste confessor Domini colentes” ma anche recitabile, preferibilmente a cori alterni. Durante la Novena il testo può essere giornalmente frazionato.

 Autore: Angelo Nocent

1

       Cristo, sorgente della nostra gioia,

            Nel sacro tempio oggi convocati,

            Leviamo il canto di riconoscenza:

            Grazie, Signore!

 2

           Tutta la Chiesa celebra nel mondo

            La liturgia di un anniversario:

            Giovanni, il santo, l’uomo di Granada,

 (Giovanni, il santo nostro fondatore)

            E’ nella gloria.

    3       

            Fare memoria della sua esistenza

            E’ fondamento: serve a ricordare

            Che questa vigna appartiene a Dio,

            A Lui soltanto.

   4       

           Quando, bambino, abbandona il nido,

           parte con sogni maturati in casa:

           terre lontane, luoghi sconosciuti…

           Brama avventure.

     5      

           Gl’occhi innocenti bevono i dintorni:

           Lunghe vallate, fiumi, colli, monti,

           Boschi odorosi e, più in là, la Spagna,

           Meta, destino.

 6

           Ad Oropesa, orfano per scelta,

           Trova famiglia molto generosa;

           Studia quel poco, cresce lavorando,

           Sorveglia greggi.

  7       

           Ma qui c’è un uomo, Don Francisco Alvarez,

          Conte virtuoso, duca patriota,

          Che fa per Dio spese consistenti

          Nel testamento.

  8      

          Ordina e vuole, presso il suo palazzo,

          Un edificio per l’accettazione

          Di pellegrini, poveri e malati,

          Piaghe di Cristo.

  9      

         Giovanni osserva, fissa nella mente

         L’iniziativa senza precedenti.

         La gente apprezza, benedice il ricco

         Che condivide.

 10       

         Cresce il ragazzo, sogna l’avventura.

         Non ha ben chiaro cosa vuole fare.

         Si guarda in giro, vede solo terre

         Da coltivare.

  11    

        Fattosi uomo, vaglia la proposta

        Di Mayorallo che lo vuole sposo

        Della sua figlia, molto consenziente.

        Non si convince.

  12   

        Sente nei piedi come ribollire

        La nostalgia di una vita nuova.

        Perciò si arruola nella fanteria.

        Parte soldato.

  13   

        Sceglie una truppa di professionisti,

        Vero mestiere, cambio radicale.

        L’ambiente è forte, sembra il posto giusto,

        Ma non è vero.

  14   

        Dio lo spinge su diverso fronte.

        Senza le briglie, guida una giumenta;
        La bestia sbanda e lo sbatte al suolo.

        E’ semimorto.

  15 

         Caduta insulsa, priva d’eroismo.

         Come un insetto, misera prodezza,

         Sviene sui sassi e per ore giace.

         Non c’è nessuno.

 16  

         Dopo l’impatto, senza conseguenze,

         E’ destinato a montare in guardia.

         Perde un bottino molto consistente:

         Vesti e gioielli.

 17    

         Imprigionato come traditore,

         Attende il giorno dell’impiccagione.

         Viene graziato, ma cacciato via.

         Sogna Oropesa. 

18     

          Raggiunge casa, sosta sulla porta.

        Viene ad aprire lei, la Mayorallo.

        L’abbraccia, piange, vive una speranza.

        Solo per poco.

 19 

        Torna all’ovile, come uno sconfitto,

         Per pascolare nuovamente il gregge.

         Sposarsi ora? No, non se la sente.

         Rifiuta ancora.

 20  

         La guerra santa, nobile crociata,

         Muove i cristiani dell’Europa intera.

         Forte alleanza nasce contro i Turchi.

         Corre all’appello.

  21  

         Marcia su Vienna. Retrocede l’Islam.

         Finisce bene, si ritorna a casa.

         Stanco, spossato, gode una licenza.

         Meta: Siviglia.

  22    

         Come campare? Solito mestiere:

         Portare pesi, adattarsi a tutto.

         Sta qui per poco: l’Africa lo chiama.

         Piega su Ceuta.

  23    

        La piazzaforte è del Portogallo.

        La guarnigione rischia di subire

        L’urto dei turchi, sempre più pressante.

        Chiede rinforzi.

  24  

         Contro le mire dei conquistatori

         Vengono erette fortificazioni.

         Cercano gente per fatiche immani.

         Vengono in tanti.

 25   

         Molti gl’illusi, miseri i salari.

         I malviventi sono una legione.

         La disciplina regna con la sferza

         E punizioni.

  26    

        Fuggono in molti dall’inferno atroce.

        Meglio coi mori ed apostatare.

        Anche Giovanni paga il contributo

        Dell’illusione.

  27    

         Disoccupato per il fallimento

         Dell’ Almeyda che non può pagare,

         Sgobba e si assume l’oneroso peso

         Della famiglia.

  28   

        Per il padrone senza più risorse,

        spacca le pietre, svende i suoi cappotti,

        Lavora sodo e col suo salario

        Mangiano tutti.

 29    

        Vede abiurare, prova compassione.

        Sente un’ impulso, quello missionario.

        Ma lo dissuade frate francescano

        Cui si confessa.

 30   

         Degli Almeyda, dopo malattia,

         Nessuna traccia, più nessun contatto.

         Resta in miseria, mani sanguinanti

         E molta pena.

  31    

         Inquieto il cuore, si fa presto strada

         La nostalgia di tornare in Spagna.

         S’imbarca e salpa verso Gibilterra.

         Terra promessa.

  32    

          Viene raggiunta dopo una burrasca.

          Cerca lavoro, s’offre manovale.

          Risparmia ed apre piccolo commercio

          Di libri usati.

33    

          Lui, portoghese, molto convincente,

          Ha del talento, quindi sopravvive.

          Ma il corpo stanco, chiede di fermarsi

          E si ribella.

  34   

          Se i libri vanno, il fardello pesa.

          Costa fatica fare l’ambulante

          Con l’ intemperie, sotto il solleone.

          Vuole fermarsi.

  35    

           Sogna Granada, viva, seducente,

           I dolci poggi che le fan corona.

           Le sue fontane, gl’oleandri in fiore,

           Diciotto porte.

  36    

           Duecentomila sono i residenti,

           Fermenta il nuovo, grandi gl’orizzonti.

           Vuole tornarci e si mette in viaggio

           Per dimorarvi.

 37    

           Vive ed agisce come un ispirato.

           L’idea di Dio muove prepotente.

           Pesa il passato, ha lasciato tracce.

           Cosa lo attende?

  38    

           Libri e pensieri vagano con lui,

           Per le contrade, i vicoli, le alture

           E si convince che la scelta è giusta.

           Ma non ha casa.

 39      

          Non sa spiegarsi come il cuore inquieto

          Abbia trovato una serena calma.

          Respira a fondo, dorme sonni interi,

          Parla con Dio.

40    

         Cerca bottega. Trova uno stanzino

         Per pochi sodi, proprio a Porta Elvira.

         Che meraviglia stendere la merce,

         Chiudere a sera! 

  41   

         Questa cometa che ha girato il mondo,

         Assaporando tante delusioni,

         Deve affrontare provvida tempesta

         Di Vento e Fuoco.

  42   

         L’Eremo è in festa per San Sebastiano

         E lui, Giovanni, sente di aggregarsi.

         Segue la folla, va alla funzione

         Come trainato.

  43 

         Viene a parlare gran predicatore,

         Uomo di Dio, santo e timorato.

         Commuove sempre, scava nel profondo

         Ogni coscienza.

  44    

         Giovanni ascolta, scorre la sua vita.

         Sente il bisogno di riparazione.

         S’apre alla Grazia che gli tocca il cuore.

         Esce sconvolto. 

 45  

        “Séguimi, vai…”, sembra che gli dica

         Come una voce, lì nel più profondo.

         Spalanca gl’occhi e si rende conto

         Che Dio gli parla. 

 46  

        No, non sospetta cosa può volere

        Da lui la Forza che gli fa pressione,

        Lo piega, spinge, gli scompiglia il cuore.

        E’ Pentecoste.

 47 

       Dagl’occhi rossi sgorga una fontana:

       Lacrime calde, limpide, salate,

       Dolenti e dolci, sulle accese guance,

       Copiosamente.

  48 

        Esce di chiesa, si fa grido, pianto;

       “Misericordia!”, supplica a gran voce,

        Si getta a terra, voltola nel fango.

        Preso è per pazzo.

  49 

         Sola follia, Cristo Crocifisso!

        E lui, Giovanni, fissa il suo Maestro,

        E non gl’ importa d’essere capito,

        Quanto seguirlo.

 50  

        Cosa lo attende? L’Ospedale Regio,

        Settore a parte, quello dei dementi.

        E lì matura, nell’isolamento,

        Il suo destino.

  51   

        Osserva attento questo triste ambiente

        Fatto d’infermi senza la ragione.

        Nelle pupille fissa i loro volti,

        Nel cuore i nomi.

  52   

        Quando, dimesso, passa a Guadalupe,

        Alla Madonna chiede, come a Cana,

        D’intervenire nella situazione

        Senza futuro.

 53    

        Torna a Granada per donare tutto.

        Ha solo un corpo, cosa può valere?

        Meno di nulla o, forse, più dell’oro,

        Se c’è la fede.

 54   

        Comincia il freddo. Vaga a mani vuote.

        Non ha denaro, privo d’una casa,

        Tagli la legna, vende e condivide

        Coi mendicanti.

  55   

        La terra è pronta. Il Seminatore

        Conta sul campo lavorato a lungo.

        Ora Giovanni, sceso nella tomba,

        Può germogliare.

  55   

        Una saetta gli balena in mente:

        Cercare ai ricchi per poter donare

        A chi non osa, nella sua indigenza,

        Alzare il capo.

 56  

        Va dai Venegas, mori convertiti.

        “Cuore comandi”, legge sul portale.

        Sale le scale, bussa, viene accolto.

        E lì pernotta.

 57   

        Poi, l’indomani e per qualche giorno,

        Esce e ritorna sempre in compagnia:

        Solita legna, nuovo mendicante

        Da sistemare.

  58 

         Chiede, intercede per il forestiero.

        Vitto ed alloggio viene assicurato.

        Nel gran cortile stende pagliericci:

        La prima pietra.

 59    

        Non può durare tale situazione.

        Prende in affitto una palazzina,

        Sempre contando sui benefattori

        Che Dio gli manda.

 60   

         Nasce l’audace opera geniale,

         Semplicemente, nell’insicurezza.

         Curare i corpi e badare al cuore:

         Ecco la meta!

  61   

        Magro e giallastro, sempre malvestito,

        Grida di notte lungo le contrade:

        “ Fate del bene! Fatelo, fratelli!

        E’ per voi stessi!” 

 62   

        Ha nelle mani grossi pentoloni

       E sulle spalle una rude sporta.

       Pane ed avanzi calano dall’alto.

       Qualche denaro.

  63 

       Corpi piagati, soli, mendicanti,

       Menti malate, donne prostitute,

       Orfani, madri, vecchi, sventurati,

       Tutti raccoglie.

 64 

        Cuoce, riscalda, lava le scodelle,

        Trasporta l’acqua, pratica il bucato,

        Cura gl’infermi, veglia i moribondi,

        Tutto da solo.

 65  

        Cresce l’aiuto, prende nuovo slancio:

         Paga infermieri, compra le coperte,

         Nuove lenzuola, letti, biancheria…

         Questo straccione.

66  

    Giunge notizia nelle alte sfere.

         Don Sebastiano, vescovo di Tuy,

         Scopre nell’uomo palpiti di Dio:

         Gli cambia il nome.

  67

         Poi suggerisce decorosa veste

         Per conferire dignità sacrale

         All’assistenza dei ricoverati.

         E lui accetta.

  68   

        Storpi, lebbrosi, monchi, muti, pazzi,

        Tignosi, vecchi, soli, pellegrini,

         Donne di vita, vedove, bambini…

         La sua famiglia.

  

69    

         Lì si consuma per portare aiuto

         Come infermiere, medico, accattone.

         Ascolta, prega, porta una speranza

         Ad ogni letto.

 70     

         Schiavo di Dio, sempre indebitato,

         Confida in Cristo che provvede a tutto.

         Ha spese enormi, crescono i malati,

         Ma non si ferma.                   

71      

         Divampa il fuoco presso l’ Ospedale,

         Il Regio brucia, chiamano Giovanni.

         Lui lo conosce meglio delle tasche.

         Entra da solo.

72      

         Prende i malati come le fascine:

         Due per mano, uno sulla schiena.

         Chiude la bocca, passa tra le fiamme,

         Esce di corsa.

 73    

         Poi torna dentro, carica di nuovo,

         scappa tra il fumo, corre per le scale.

         Vince l’incendio con un altro Fuoco:

         Usa l’amore.

74     

        Pensa all’inverno, al riscaldamento.

        Vuol fare legna nel torrente in piena.

        Cade malato dopo lo strapazzo.

        Cede la quercia. 

75    

        La fiamma smorza, crolla l’organismo,

        La febbre avanza, l’anima si stacca.

        Finisce i giorni come una candela.

        Perde zavorra.

 76    

        Sollievo immenso il Vescovo gli reca

        Quando si accolla i debiti rimasti.

        Tolto il pensiero, Viatico richiede.

        E’ giusto l’alba.  

77    

        Cala il silenzio, tacciono le voci.

        Con gl’occhi vuoti, come una scultura,

        Scende dal letto, si prepara al passo

        Solo con Dio.

78      

        Muore in ginocchio, lì, sul pavimento,

        Come inchiodato, duro come il marmo,

        L’aspra casacca, stretto al Crocifisso…

        Radiosa Pasqua.

79    

        Dietro la bara, tutta in processione,

        Piange Granada, mesta, silenziosa,

        L’uomo di Dio, pazzo per amore.

        Servo di tutti.                           

 80    

        Il resto è storia che perdura ancora,

        Sogno che abbraccia cinque Continenti.

        Amore antico, mezzi sempre nuovi.

        Cuore di Dio.  Amen.                                                                              

 

   

SAN BENEDETTO MENNI profeta dell’ospitalità – Manuel Iglesias S.J.

San Benedetto Menni 02

SAN BENEDETTO MENNI  -  L’uomo e il santo

 

Di   MANUEL IGLESIAS, S. J.

 

Chi è Benedetto Menni?

Nella cittadina di Ciempozuelos, distante trentadue km da Madrid, riposano i resti mortali di un italiano, deceduto nel 1914 nel nord della Francia. Chi era? Un avventuriero in giro per l’Europa? Un esiliato politico? Un commerciante? Una spia internazionale? No, anche se le qualità che aveva e le circostanze in cui visse gli avrebbero consentito di essere tutto questo ed altro ancora! Lui stesso si definì in questi termini alla fine della sua vita: “Sono un miserabile, degno soltanto di disprezzo; meriterei che mi buttassero nel mondezzaio!” Ma anche i santi sbagliano! Il sepolcro di questo uomo “degno di disprezzo” riceve oggi grande venerazione, avendolo il Papa Giovanni Paolo II dapprima dichiarato beato nel 1985 e poi nel 1999 deciso di proclamarlo santo durante un’apposita cerimonia nella Basilica Vaticana in occasione della festa di Cristo Re. Nonostante egli si ritenesse un “grande peccatore, uno straccione di Cristo”, ora dunque la Chiesa ci invita ufficialmente ad invocarlo come SanBenedetto Menni. Più in alto non si può salire. Ma, come iniziò tutto ciò?

 

I primi passi Seguire i suoi azzardati percorsi lungo i quattro punti cardinali della Spagna non è difficile; anzi è appassionante come un romanzo. Seguire invece le orme del suo itinerario interiore, del suo cammino verso la santità, è molto più impegnativo. Diremmo, quindi, qualcosa, molto brevemente, giusto per ricordare una verità fondamentale che a noi toglie ogni scusa per non diventare santi: i santi non scendono dal cielo come un meteorite; e meno ancora, sono fatti così fin dall’inizio. Per loro non è stato facile. In qualsiasi bivio avrebbero potuto intraprendere altre strade, diverse da quella di seguire Cristo. Ad esempio, nel nostro caso… Forse non riusciamo ad immaginare la febbre politica della penisola italiana nella seconda metà del secolo scorso, segnata dall’astio contro Papa e clero e scossa da nord a sud dal fervore nazionalista e dalla ribellione.

 

Un giovane come Benedetto, fine, intelligente, milanese intraprendente, aveva tutte le porte aperte per far carriera; forse ora sarebbe stato considerato un eroe del Risorgimento; ai giardinetti i nostalgici garibaldini ne avrebbero contemplato la statua, in groppa ad un impetuoso cavallo e indicando alle truppe, spada in mano, il passo della vittoria. Quel giovanotto milanese però, impiegato in una Banca senza aver nemmeno finito gli studi superiori, ebbe il coraggio di perdere il posto di lavoro (aveva 16 anni, e cominciava a vivere!) piuttosto che essere coinvolto in faccende poco pulite o nelle quali i conti non tornavano con la sua coscienza. Ed ebbe il coraggio di rifiutare la proposta di iscriversi alla Massoneria, dove avrebbe sviluppato a fin di male le sue qualità di leader. E in quanto alla guerra, bisogna dire che la vide, ma soltanto dal versante della carità: ha 18 anni quando apprende le prime e immediate conseguenze dello scontro con l’Austria: dozzine di corpi straziati di combattenti che arrivano dal fronte di Magenta a Milano in treni speciali. Benedetto diventa barelliere anonimo per trasportare i feriti dalla stazione ferroviaria all’ospedale dei Fatebenefratelli.

 

Va precisato che gesti come questi non si improvvisano. L’abbiamo chiamato “Benedetto”, il suo nome di “santo”; il suo vero nome però fu Angelo Ercole, e le sue radici affondano nella famiglia dove nacque l’11 marzo 1841. Una famiglia che, grazie alle entrate di un modesto negozio gestito dal padre, aveva il necessario per sfuggire alla miseria pur senza scialare; una famiglia di quindici figli (Angelo Ercole era il quinto); famiglia di cristiani all’antica, nella quale si recitava il Rosario ogni sera, si vibrava per qualsiasi evento religioso, si aiutava i poveri e si frequentava i sacramenti.

 

Accanto all’humus familiare, che segna la vita di qualsiasi uomo, l’evento personale della vocazione, della quale conosciamo appena questi tre fatti: gli esercizi spirituali a 17 anni, poco dopo aver lasciato la Banca dove lavorava; i consigli di un eremita di Milano, e la sua preghiera quotidiana davanti ad un quadro della Vergine.

 

  La conclusione: la decisione di donare la sua vita a Dio nell’esercizio della carità. L’aver conosciuto i Fatebenefratelli durante il servizio volontario di barelliere fu determinante per chiedere l’ingresso nel Noviziato annesso al loro ospedale milanese di Santa Maria d’Araceli. Vi entrò il 1° maggio 1860; il 13 maggio ricevette l’abito ed il nome da frate di: Benedetto, Fra Benedetto Menni, un “uomo nuovo” che oggi la Chiesa glorifica. Dopo un anno di noviziato fece i voti semplici, e tre anni più tardi, la professione solenne. Abbiamo già il santo? No. Questo giovane frate ospedaliero può ancora diventare di tutto, compreso un “buon religioso”, ma non santo. Un santo non si improvvisa. Tre anni di studio e di pratica infermieristica a Lodi. Fu lì che iniziò anche la sua preparazione all’ordinazione sacerdotale, che ricevette poi a Roma, nell’autunno del 1866, quando si annusava già l’esplosione finale della guerra dello Stato italiano contro il Papa per togliergli Roma. Dopo cinque anni, il novizio è già diventato sacerdote. Una formazione professionale di certo affrettata se si tratta di formare un luminare della ricerca teologica o della investigazione filosofica, ma non nel caso di un uomo di azione, come era Fra Benedetto, fatto per medicare ferite concrete di corpi e di anime ugualmente concrete.

 

Dove?

Il Generale dei Fatebenefratelli, P. Giovanni Maria Alfieri, che trattenne accanto a sé il P. Benedetto durante un anno, si rese subito conto che aveva a portata di mano la persona che gli occorreva per un’impresa quanto mai impegnativa: restaurare in Spagna l’Ordine dei Fatebenefratelli. Il giovane frate si spaventa: ha soltanto 26 anni, è troppo integro e retto per un compito che richiederebbe una grande esperienza diplomatica; è coraggioso, ma non temerario. Il Papa Pio IX lo riceve in udienza: – “Va in Spagna, figlio mio, e restaura l’Ordine nella sua stessa culla“. Era il 14 gennaio 1867. Due giorni dopo, parte per una avventura, umanamente parlando, assurda, sostenuto dall’obbedienza, dalla benedizione del Vicario di Cristo e dalla preghiera alla Vergine. In Spagna l’aria che si respirava era totalmente contraria. Da quando era finita la guerra di Indipendenza mai più era tornata la tranquillità nel paese. L’anticlericalismo e il liberalismo di importazione stavano inaridendo la Vita Religiosa.

 

Il governo di Mendizábal, con i due tremendi Regi Decreti del 1835 e 1836, riuscì dapprima a limitare le attività degli Istituti Religiosi, e poi a sopprimerli. Il ramo spagnolo dei Fatebenefratelli, che contava allora tre provincie nella Spagna, una in Portogallo, tre nell’America Latina e una viceprovincia nelle Filippine, oltre ad alcuni ospedali nell’Africa e nell’India, finì per estinguersi. Occorreva ripartire da capo, non solo in un clima di aperta ostilità verso tutto ciò che sapeva di religioso, ma per di più in mezzo a guerre e rivoluzioni. Dopo una breve sosta in Francia a Lione e Marsiglia, il P. Menni si lanciò alla conquista della penisola iberica come un don Chisciotte in versione divina, “un divino imprudente”. Mentre il paese rabbrividiva per le scosse politico-sociali che avrebbero portato alla caduta della Monarchia nel 1873, il P. Menni, forte solo della benedizione del Papa, entrava in aprile a Barcellona e si presentava al Vescovo diocesano che, evidentemente, lo considerò un ingenuo, se non addirittura una persona pericolosa, e non gli diede credito.   Tutte le cose hanno un inizio  

 

  Quel divino imprudente però impugnò l’argomento delle “opere”. Elemosinando di porta in porta, ottenne quanto fu indispensabile per iniziare un piccolo ospedale per bambini handicappati e scrofolosi. Quell’ospedale, che aveva soltanto una dozzina di letti, fu, niente meno, il primo ospedale pediatrico della Spagna, e fu benedetto personalmente dal Vescovo che lo aveva respinto qualche mese prima, credendolo un sognatore. Siamo nel dicembre del 1867. E visto che i bambini sono sempre all’avanguardia nel Regno di Dio, il piccolo ospedale di Barcellona fu il trampolino di lancio per la conquista ospedaliera nella penisola. Figurava come “centro assistenziale civile di carattere filantropico” e, senza dubbio, comportò per il P. Menni difficoltà indicibili; tuttavia, il 31 maggio 1868, il Generale dell’Ordine approvò la fondazione come la prima cellula dell’Ordine restaurato in Spagna.

 

Nel 1872 il P. Menni è nominato Commissario Generale dell’Ordine per la Spagna. Quattro mesi più tardi, l’avvento della Repubblica ravviva il fuoco rivoluzionario. Travestito da contadino catalano e accompagnato dal confratello spagnolo Fra Girolamo Tataret, un giorno il P. Benedetto alla guida di una vecchio carretto squinternato, si dirigeva verso la periferia di Barcellona per fuggire dalla cerchia irresistibile delle milizie; il carro però si ribaltò in una curva, vicino a un posto di blocco, e i due “contadini” vennero arrestati. Espulso dalla Spagna il 1° aprile 1873, già all’inizio di giugno vi tornò in visita clandestina, portando con sé le elemosine raccolte in Francia per sussidiare l’ospedaletto di Barcellona.

 

Altre due volte fece quel medesimo viaggio, e la seconda, quasi in modo rocambolesco, entrò da Gibilterra, dopo uno scalo in Africa: da Marsiglia s’era infatti dapprima diretto in Marocco con l’intenzione di fondare un ospedale a Tangeri, dove arrivò realmente, ma a nuoto, gettato dalla nave in mare da un estremista spagnolo. E da Gibilterra al cuore della guerra civile spagnola, in qualità di volontario della Croce Rossa.

 

Il Re Don Carlos l’accettò come infermiere, assieme ad altri cinque confratelli dell’Ordine. Fino alla cessazione delle ostilità (il 6 aprile 1876) il P. Benedetto curò corpi e anime dei due opposti schieramenti, sfidando il fuoco incrociato sui fronti di Portugalete, Abárzuza, Lácar, Lumbier e Pamplona, o nella pace sofferta degli ospedali di guerra organizzati a Santurce, Irache, Comillas, Gomilar, Ochandiano e Santa Agueda.

 

Le litografie del tempo, ingenue nel loro drammatismo, non mettono in evidenza quel buon samaritano all’azione in mezzo al fumo delle scariche, tra i berretti rossi dei carlisti o i chepì dei liberali, in mezzo alla sanguinosa lotta corpo a corpo con le baionette lunghe come spade, tra i campi punteggiati di cadaveri umani e di cavalli sventrati. E tuttavia era lì, come infermiere e come sacerdote. E quel battesimo di carità, in sintonia con la più genuina tradizione dei Fatebenefratelli, fu provvidenziale perché il gruppetto di seguaci del P. Menni, giunto poi a Madrid al termine delle ostilità, ottenesse il riconoscimento legale come “Associazione Infermieristica dei Fratelli della Carità”, e il permesso di fondare in seguito ricoveri e ospedali.  

Suora del Padre Menni

La centrale della carità    

Ciempozuelos fu il vero focolare della restaurazione dell’Ordine in Spagna. Lì si trasferirono i novizi di Barcellona; e lì, tra il susseguirsi di nuovi padiglioni, sorse un manicomio per uomini, che andò affermandosi come una struttura psichiatrica di avanguardia.

 

Nel giro di poco tempo, così come a volte la primavera esplode all’improvviso e tutto fiorisce da un giorno all’altro, si moltiplicarono le domande e le possibilità di fondare in tantissime parti. E alcune di queste possibilità diventarono anche realtà. In seguito al moltiplicarsi delle fondazioni, il P. Menni fu nominato Provinciale della nuova Provincia della Spagna (1884), con affidati a lui 70 religiosi professi e 25 novizi; tutto ciò significava che, oltre ai problemi amministrativi, si aggiungevano ora l’impegno per la formazione umana e spirituale dei suoi confratelli, l’animazione del fervore religioso, e il tenere vive e unite le diverse comunità. E anche se si manifestò qualche dissenso, poiché sempre qualcuno la pensa differentemente, nel complesso il suo servizio come Provinciale fu giudicato positivamente, considerando che venne riconfermato per ben 6 volte durante diversi Capitoli, restando in carica per 19 anni consecutivi.

 

Nel 1903, quando cessò il suo incarico da Provinciale, l’Ordine contava in Spagna, Portogallo e Messico complessivamente quindici case fondate da lui, con la seguente tipologia: quattro ospedali ortopedici per bambini rachitici e scrofolosi; sei ospedali psichiatrici per uomini; una colonia agricola per l’ergoterapia dei malati mentali dell’ospedale di Ciempozuelos; un ospedale per epilettici; un gerontocomio; una residenza funzionante come casa di riposo per sacerdoti e come scuola per bambini poveri; e un collegio per orfani poveri. I santi fanno pazzie

 

Tutto questo era ancora poco. Visto che Dio ama “complicare” la vita ” dei suoi amici, gli addossò un nuovo lavoro, di certo non contemplato minimamente quando a 19 anni aveva bussato alle porte del Noviziato per donare la sua vita a servizio degli infermi: fondare una congregazione religiosa femminile. Qualche anno dopo, lui stesso qualificò quel gesto come “pazza decisione”. Ma ora che a distanza di oltre un secolo quella pianticella si è trasformata in albero frondoso, una cosa appare certa: la “pazzia” di quella sua fondazione ci appare della stessa stoffa della divina pazzia di cui ci parla tanto “saggiamente” San Paolo nell’Epistola ai Corinti.   Ma facciamo qualche passo indietro nel tempo.

 

  Fin dall’inizio della sua missione di restauratore, il P. Menni si rese conto che il Signore, che l’aveva chiamato a prendersi cura degli emarginati fisici e psichici della Spagna, aveva bisogno di mani femminili e di cuori di madri per attendere le malate mentali e le bambine handicappate che la normativa dell’epoca non consentiva fossero accolte negli ospedali dei Fatebenefratelli. Considerando che la prospettiva di fondare lui stesso una specie di Ramo femminile del proprio Ordine cui affidare tali malate fosse una “pazza decisione”, cercò di temporeggiare; chiedendo ispirazione alla Madonna e nel frattempo, come gli consigliava il suo Superiore Generale, provando a rivolgersi agli Istituti femminili già esistenti, ma dovette constatare che non se ne trovavano di disposti a risolvergli il problema.

 

Nel frattempo, al sud, proprio nella città di Granada dove San Giovanni di Dio aveva fondato l’Ordine dei Fatebenefratelli, due donne, Maria Giuseppina Recio e Maria Angustia Gimenez, sentirono la chiamata della grazia a donare la loro vita per un “progetto” ancora non ben definito. Si affidarono ad un direttore spirituale, ma quando questi s’ammalò, la Provvidenza guidò sui loro passi come loro nuovo direttore spirituale proprio P. Menni, che però inizialmente provò riluttanza ad assecondare la loro aspirazione e ad avvalersene per dare infine vita ad un nuovo Istituto Religioso femminile specializzato nell’assistenza psichiatrica.

 

 

María Josefa Recio

Alla fine, durante l’estate del 1880, da Ciempozuelos arrivò a Granada l’invito del Padre: “Se volete, potete venire…” Le due donne decisero di lasciare la città alla chetichella e, dopo una sorta di fuga notturna da Granada, giunsero a Ciempozuelos, stabilendosi in una casa poverissima e inospitale, tenuta per di più da una proprietaria intrattabile, e sul momento occupando le giornate giusto a lavar montagne di biancheria dell’ospedale, tra i pettegolezzi della gente sull’onore del P. Menni.  

      

 María Angustias Jiménez Vera Come inizio, niente male! e rischiò di essere anche la fine! Comunque fu un buon inizio, segnato dalla croce e in una povertà da Betlemme. In una circolare a tutto l’Istituto, il 22 giugno 1903, il P. Menni spiegava il segreto dell’esito: quella “pazza decisione” fu alla fine indovinata perché “scaturiva dal Cuore di Gesù, in virtù del suo divino Spirito”.

 

Presto la nascente Congregazione cominciò a ricevere vocazioni: tre, quattro, sette, dieci… Presto poterono sistemarsi in un altra casetta del paese. Presto le giovani ebbero come libro di riferimento il crocifisso e come Superiora la Madonna (“Questa è la vostra Superiora – disse loro il Padre – sotto la sua protezione pongo tutte le mie figlie”), invocata come “Nostra Signora del Sacro Cuore”, titolo mariano col quale cominciarono a chiamarsi, e che diede più tardi luogo all’attuale denominazione di “Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù”. Presto ebbero i loro primi “fioretti”, come quella indimenticabile scena dell’accoglienza della prima malata: le si fecero attorno con grande affetto e, una dietro l’altra, si avvicinarono a lei per baciarle i piedi, così come avrebbero fatto con il Signore, al quale avevano consacrato la loro vita.

 

Presto ebbero un motto che sintetizzava in sei verbi all’infinito altrettante esigenze ascetiche: “pregare, lavorare, patire, soffrire, amare Dio e tacere”. E presto ebbero la loro prima martire della carità: una delle due coraggiose pioniere venute da Granada, Maria Giuseppina Recio, messa alla guida dell‘Istituto appena nato, moriva il 30 ottobre 1883 dopo essere stata calpestata e malmenata da una demente; oggi la sua salma e quella della Confondatrice Maria Angustia Gimenez riposano in una cappella laterale della medesima Chiesa di Ciempozuelos nella quale le Suore custodiscono sotto l’altare centrale il venerato corpo di San Benedetto Menni.

 

La nuova Congregazione, avendo ottenuto l’approvazione diocesana, ebbe il suo inizio canonico con l’ammissione in noviziato delle prime suore il 31 maggio 1881. L’anno seguente (1882) il P. Menni scriveva le prime Costituzioni; nel cui prologo precisava che l’incipiente istituzione mirava all’assistenza caritativa delle malattie mentali; o, come spiegava poco dopo, “all’esercizio costante della virtù della carità cristiana attraverso il soccorso, la cura e l’assistenza continua delle donne alienate, accettando questo sacrificio come necessità particolare che esiste oggi nell’umanità sofferente”. A distanza di più di un secolo, quell’oggi è valido ancora!

Undici anni dopo era già una Congregazione di Diritto Pontificio. Quando il P. Menni cessò di essere Provinciale dell’Ordine (1903), le Suore avevano nove case: sei per malate mentali e tre per bambine rachitiche e scrofolose povere, aperte rispettivamente a Ciempozuelos, Málaga, Madrid, Las Corts, Palencia, Parigi, Idanha, (Portogallo), San Baudilio di Llobregat, Santa Agueda; e nuove case sorsero negli anni seguenti: Pamplona (1909), Roma (1905), Viterbo (1909), Nettuno (1910), ecc. fino alle oltre cento case sparse in 24 nazioni nelle quali attualmente lavora “questa famiglia religiosa, nata dal divin Cuore”, secondo la testuale affermazione del loro Fondatore.   I santi non vanno in pensione  

 

Riprendiamo il filo della biografia nella data chiave del 1903. Il P. Benedetto Menni finisce il suo lungo servizio come Provinciale. Ha 62 anni. Ha avviato un’opera molto estesa, e ormai potrebbe anche pensare al meritato e sereno riposo, dedicando maggiore attenzione alla sua Congregazione delle Suore Ospedaliere, ma come “uomo” ancora è in grado di lavorare; e come “santo” la Chiesa ha bisogno di lui quale strumento di rinnovamento in quegli anni tormentati. Nel 1905 lo incontriamo a Roma, in un Capitolo Generale dell’Ordine. Ritornato in Spagna, la Santa Sede lo richiama a Roma per nominarlo Visitatore Apostolico dei Fatebenefratelli (1909): viaggi, lettere e visite personali alle diverse Province, nella delicata missione di ravvivare lo spirito e l’osservanza religiosa. Finito questo compito, il Papa San Pio X lo nomina Generale dell’Ordine (1911). In questa mobilità e attività snervante, che caratterizzano la sua vita, dove finisce “l’uomo” e dove comincia il “santo”? Organizzare, viaggiare, cercare prestiti, dirigere costruzioni, amministrare… lo può fare qualsiasi impresario, e poteva averlo fatto quel giovane milanese, tipicamente intraprendente, chiamato Angelo Ercole Menni, se avesse deciso di lanciarsi sulla strada della rivoluzione o della politica.

 

Ma l’uomo di Dio, il “santo”, viveva tutte queste attività con novità interiore, faceva tutto con un cuore diverso, un cuore ogni giorno più immedesimato con i sentimenti di Cristo Gesù, che finivano col trasparire nel suo comportamento, nel quale possiamo schematicamente evidenziare cinque attitudini fondamentali:

  • Fiducia totale e profonda nel Cuore di Gesù “colmo di misericordia e di amore”, un tema, questo, che lo emozionava quando ne parlava. Acceso di devozione al Sacro Cuore, dispose che tutti i primi Venerdì si celebrasse una Messa cantata e si esponesse il Santissimo. Difficilmente egli avrebbe potuto divenire “un altro Cristo” se non avesse bevuto alla fonte di quel Cuore redentore, perennemente misericordioso con gli infermi e le folle abbandonate.

  • Ricorso quasi istintivo alla Vergine Maria; egli, dai tempi del Rosario recitato da ragazzo in famiglia e fino all’ora della sua morte, trovò sempre in Maria la strada per andare a Gesù. Ed identico cammino suggeriva alle sue figlie. “La Vergine – scriveva loro – porta tra le braccia Gesù che ci lascia vedere il suo divino cuore e con le sue braccia aperte ci invita ad andare verso di Lui”. Ed aggiungeva loro: “Lei ci consentirà d’entrare e rimanere nel Cuore di Gesù”.

  • Pietà semplice, immediata, per nulla cerebrale. Sempre in movimento per impegni o viaggi, egli immancabilmente all’uscire o rientrare si soffermava in cappella, convinto che la cosa migliore era porre ogni assunto nelle mani di Dio. La sua giaculatoria più ricorrente era: “Gesù mio, di me diffido, al Cuore tuo m’affido e mi ci rifugio”. Il nome di Gesù era costante sulle sue labbra. Questa pietà lo portava a compiere ogni cosa pensando a Lui: “L’unico cammino da seguire – usava ripetere – è fare la volontà di Dio”. E questo uniformarsi al volere divino non si stancava di raccomandarlo nelle sue lettere: “Chiediamo a Gesù che ci infiammi del suo amore. Chiediamo alla Regina di questo amore, la Vergine Immacolata, che accenda in noi questo fuoco divino… Oh Gesù, non intendiamo offrirti resistenza”.

  • Carità senza limiti e molto concreta, seguendo il consiglio stesso di Gesù: “Se io ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri”. Carità che gli faceva vedere negli infermi l’immagine di Cristo, e che spiega perché qualche volta lo videro imboccarli in ginocchio. Carità che lo faceva intenerire alla vista di un mendicante; carità che lo portò una volta a consegnare ad un uomo che gli raccontava le sue miserie le uniche cinque pesetas che aveva per affrontare un debito di cinquecento, ed a giustificarsene dicendo “questa moneta per noi è niente, ma a lui lo toglierà da grandi difficoltà”; carità che mise a grande rischio la sua vita nel 1885 quando volle recarsi ad assistere i contagiati dal colera. Una carità, sorgente di così alta libertà interiore nel cercare il bene dei malati, che una volta giunse ad offrire la direzione sanitaria dell’ospedale di Ciempozuelos ad un celebre psichiatra, il Dott. Simarro, nonostante fosse ateo e membro della Massoneria spagnola (“non ho bisogno di catechisti, diceva, ho già i religiosi; necessito piuttosto di un grande medico”); il Dott. Simarro, commosso da quel gesto, raccomandò, al suo posto, un suo discepolo ed eccellente cattolico, il Dott. Michele Gayarre.

  • Umiltà eroica. Ciò che meno ci interessano sono gli aneddoti, come quella sua reazione davanti alle Suore di una comunità che, per festeggiare il suo arrivo, avevano eretto un baldacchino con il suo ritratto: “O togliete quella roba lì, o non entro”. O quell’altra volta che raccontò alle Suore, pieno di gioia:”Passando dalla Piazza della Rocca alcuni cocchieri mi hanno deriso e mi hanno persino insultato. Mi sta bene e me ne rallegro, ne merito ancora di più!”

 

 

La cosa più difficile però, quella che gli consentì nel suo cammino verso la santità di bruciare le tappe, fu il fatto che, a partire dalla volta che finì arrestato a Barcellona, fu costretto a presentarsi davanti a tutti i tribunali della terra, come ebbe a dire alcuni anni prima di morire. Due casi soprattutto:

Il famoso “caso Semillan”, davanti al Tribunale Penale di Madrid. Si prolungò per sette anni (1895-1902) con morbosità scandalosa, fomentata dai giornali anticlericali, nel quale si accusava il P. Menni di ripugnanti violenze verso una povera demente.

 

Furono sette anni durante i quali quel “prete abominevole”, presentato grossolanamente dai giornali, non volle mai un avvocato difensore (l’accettò soltanto su richiesta del Vescovo di Madrid, che ritenne che quella interminabile campagna scandalistica avesse come bersaglio la Chiesa e volle fosse presentata querela, risultandone nel gennaio 1902 la piena condanna dei calunniatori da parte del Tribunale di Madrid) né volle ricorrere alla stampa per replicare ai suoi avversari, né mai giunse a biasimarli; al contrario, arrivò a gesti estremi, come quello di baciare i giornali che lo diffamavano (“questo mi fa bene, diceva, è oro puro per me”), o a gongolare di gioia nel ricevere un giorno una lettera ingiuriosa, dicendo: “questo non accade tutti i giorni”… e immediatamente si mise a cantare, facendo il gesto di suonare il violino…

 

Più amara ancora fu la campagna di calunnie, da lui stesso definite innumerevoli, davanti al tribunale vaticano del Sant’Uffizio. Questa fu per lui la sofferenza più penosa, trascinatasi per circa tre anni, fin quando nell’aprile 1896 venne comunicata ufficialmente la sentenza che non si doveva tenere “conto alcuno” delle accuse. Fu pure vittima di altre accuse davanti alla Congregazione dei Vescovi e Regolari, davanti al suo Superiore Generale. Fu ogni volta riconosciuto innocente, ma neppure i santi sono d’acciaio e intimamente ne soffrì, specie perché le accuse vennero mosse da alcuni suoi confratelli e, in qualche occasione, dalle sue stesse figlie. Cosa era successo?

 

Soltanto questo: che la carità del P. Menni non era debolezza e tanto meno condiscendenza bonacciona con il male. Durante i suoi lunghi anni di governo come Provinciale, Visitatore e Generale, in circostanze delicate per la Chiesa d’Europa, represse con serena fermezza alcuni abusi; nel manicomio di San Baudilio di Llobregat espulse alcuni medici in seguito ad alcuni casi seri di immoralità; e tagliò corto con alcune deviazioni nella disciplina religiosa di alcune comunità. Tutto ciò gli procurò, all’interno dell’Ordine, un piccolo gruppo di avversari, influenti ed intriganti, che usarono contro di lui tutti i mezzi possibili, compresa la calunnia. Accusato e accerchiato, ancora una volta non volle difendersi, ma preferì presentare le dimissioni da Superiore Generale, dopo esserlo stato per poco più di un anno: era il 20 giugno 1912.   Il cammino Regale della Santa Croce  

 

Gli rimanevano ancora due anni di vita. Cosa avrebbe fatto nel frattempo? Si sarebbe detto di lui, come si dice di alcuni personaggi biblici: “riposò nella sua buona vecchiaia”? Poteva ritirarsi a riposare in qualcuna delle tante case da lui fondate, lasciarsi curare dalle Suore con affetto filiale, forse scrivere le sue memorie, come fanno i grandi personaggi della storia. Ma lui, il “grande” uomo Benedetto Menni, era già più piccolo che il grande “santo”, scolpito dalla grazia. E tuttavia il “santo” non era ancora compiuto del tutto.

 

A Dio restavano ancora due anni per completare in quell’anziano l’immagine del figlio suo Gesù, che morì rifiutato, abbandonato e perdonando. In effetti, furono presi contro di lui alcuni provvedimenti che oggi ci sembrano spietati. All’inizio gli consentirono di visitare le case delle Suore, pur con qualche limitazione. Nell’agosto 1912 lo obbligarono ad eleggere dimora stabile in una casa dell’Ordine, che non fosse né a Roma né in Spagna.

 

Lasciò dunque l’alloggio nell’ospedale che le sue Suore avevano a Viterbo e si trasferì in settembre nella Comunità dei suoi Confratelli a Parigi. Nel novembre 1912 gli fu proibito qualsiasi tipo di intervento, diretto o indiretto, nelle questioni della Congregazione delle Suore Ospedaliere; gli fu tolto il fedele aiutante e segretario, Fra Alfonso Galtés; gli fu vietato di vivere nelle città dove le Ospedaliere avevano case: e siccome a Parigi l’avevano, dovette allontanarsi da Parigi!

 

L’umiliazione crebbe ancora di più quando dal Vaticano la Congregazione dei Religiosi ordinò una visita di verifica alle diverse comunità della Suore Ospedaliere, che pur concludendosi onorevolmente, si protrasse fino a due mesi prima della morte del Fondatore. Vale la pena contemplare il suo volto in una fotografia del tempo. E’ e non è lo stesso di qualche anno prima: ha ancora lo stesso viso squadrato da milanese spiccio e intraprendente; ma al tempo stesso si è invecchiato e sono apparse le rughe, le sue fattezze però hanno acquisito una particolare nobiltà; i suoi occhi scrutatori, ben lontani dall’apparire melanconicamente rassegnati o addirittura scoraggiati, sembrano invece quelli di un vecchio marinaio che scruta il porto tra la nebbia all’orizzonte.

 

E’ un anziano. Mentre “l’uomo esteriore” si va disfacendo, il santo, “l’uomo interiore”, si rinnova ogni giorno” (2 Cor 4,16); la dimora terrena di questo indomito costruttore di case per gli altri, è prossima a disfarsi, ma per lui è già pronta una casa solida, non costruita da mani umane, ma eterna, nei Cieli (2 Cor 5,1). Spogliato di tutto, aspettava serenamente, senza condannare nessuno, di approdare nella Patria celeste, a godervi il Signore. Era ancora a Parigi quando soffrì un attacco di paresi; non ricuperato perfettamente, il 19 aprile 1913 si traferì a Dinan, una casa dell’Ordine nel nord della Francia dove le Suore non avevano Comunità. Due di loro, capitate a chiedere elemosina nella zona, chiesero di vederlo: il Padre seppe dir loro, con lacrime agli occhi, soltanto questo: – Siete ancora vive, figlie mie?

 San Benedetto Menni in esilio

La sua salute andava peggiorando vistosamente, nonostante le affettuose premure dei Confratelli. Un secondo attacco di paresi lo ridusse alla immobilità quasi assoluta. Fu allora che quel grande imprenditore, amministratore, organizzatore, costruttore, fondatore, governante, compì l’opera maggiormente meritevole della sua vita: la sua propria morte, “volontariamente accettata” – come Cristo fece con la sua – per la redenzione di tutti gli uomini. La mattina del 24 aprile 1914, preparato per il grande viaggio con i sacramenti della Chiesa e una benedizione speciale del Papa Pio X, morì “l’uomo” Benedetto Menni per iniziare una vita che non ha fine.

 

Cristo glorioso, che soffre in tanti esseri umani ammalati e deformi, accolse il suo piccolo buon samaritano, Fra Benedetto, con le beatifiche parole: “Quello che hai fatto ai più piccoli dei miei fratelli, l’hai fatto a me. Entra nel gaudio del tuo Signore”. Due anni prima, quando aveva rinunciato al suo compito di Generale, nell’udienza di commiato dal Papa Pio X, gli aveva detto: “Santità, sono stato convocato da tutti i tribunali della terra. Mi auguro che, così come sono uscito felicemente da tutti i tribunali di quaggiù, possa ugualmente essere assolto un giorno dal tribunale di Dio e trovi la sua misericordia”. Il Papa gli aveva replicato con amabilità: – La troverà, la troverà

 

Sì; adesso sappiamo dalla Chiesa che l’ha trovata, e nel grado più alto. Impegnando la sua infallibilità, la Chiesa ci assicura che “l’uomo” Benedetto Menni ha raggiunto la vetta della carità perfetta: è “santo”. E’ un giudizio formulato da quel tribunale di Dio sulla terra che è la Chiesa gerarchica.

 

Il Cielo ha una porta, e questa porta ha delle chiavi che Cristo affidò a Pietro e ai suoi successori: loro conoscono i criteri per poter emettere questo giudizio. Avviato il processo di beatificazione nel 1964, dichiarata l’eroicità delle sue virtù l’11 maggio 1982, riconosciuta come miracolosa, per intercessione del P. Menni, la guarigione della signora Assunta Cacho, il Papa Giovanni Paolo II lo dichiarò beato nel 1985.

 

Un nuovo miracolo, la guarigione immediata e durevole, non attribuibile a farmaci né ad altre cure, di una religiosa Ospedaliera (Suor Maria Nicoletta Vélaz) affetta da un cancro invasivo della vescica, chiude il cammino che la Chiesa ha percorso per dichiarare la santità di questo eroico discepolo di San Giovanni di Dio, anche lui incompreso e combattuto durante la sua vita: Benedetto Menni è santo. Se nelle ultime lettere indirizzate alle sue religiose, nelle quali si firmava come “povero di Gesù”, egli si confessava depresso e molto bisognoso di preghiere (“perché non mi schernisca il demonio della tristezza, anzi affinché il Signore, per intercessione della Vergine Immacolata, mi dia una santa gioia e fiducia in Gesù, Giuseppe e Maria”), ora invece siamo noi che invochiamo i suoi favori per “strappare” al Cuore di Gesù e alla Vergine Immacolata la grazia di vivere con coerenza, giorno dopo giorno, la nostra consacrazione battesimale e religiosa.

 

La canonizzazione di P. Benedetto Menni sanziona non solamente la sua santità, ma anche l’attualità del messaggio proposto e vissuto da colui che fu il Restauratore dell’Ordine dei Fatebenefratelli nella penisola iberica e nell’America Latina, nonché il Fondatore delle Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù. Messaggio mirabilmente sintetizzato nella preghiera liturgica figurante nel proprio della Messa di San Benedetto Menni: essere araldi del Vangelo della Misericordia mediante il servizio ai fratelli infermi e bisognosi.
Chi desiderasse conoscere meglio la vita, gli scritti e la spiritualità di San Benedetto Menni, può rivolgersi ad uno dei seguenti indirizzi:

 

  • Provincia Romana dei Fatebenefratelli - Via Cassia, 600 - 00189 Roma RM E-mail: “Curia Prov.Romana FBF” <curiafbf.rm@flashnet.it>

  • Provincia Lombardo-Veneta dei Fatebenefratelli - Via Cavour, 2 20063 Cernusco sul Naviglio MI - E-mail:<prcu.lom@oh-fbf.org>

  •  Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù - Via Urbisaglia, 3/A - 00183 Roma RM – E-mail: “Provincia Italiana Suore Ospedaliere del Sacro Cuore” <hsc.prov.it@iol.it>

 

 

 

 

DISCORSO DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II
AI PELLEGRINI CONVENUTI PER LA CERIMONIA DI CANONIZZAZIONE
DI CIRILO BERTRÁN E OTTO COMPAGNI,
INOCENCIO DE LA INMACULADA,
BENEDETTO MENNI,
TOMMASO DA CORI

 

 

22 Novembre 1999

 

 

Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Carissimi Religiosi e Religiose,
Fratelli e Sorelle!

 

 

1. Ci ritroviamo oggi per rinnovare il nostro inno di lode e di ringraziamento a Dio, all’indomani della solenne liturgia, durante la quale, ieri, nella Basilica Vaticana, ho avuto la gioia di proclamare 12 nuovi Santi, invitti testimoni di Cristo, Re dell’Universo. Allo stesso tempo, vogliamo ancora una volta soffermarci a riflettere insieme sul loro luminoso esempio di amore incondizionato a Dio e di generosa dedizione al bene spirituale e materiale dei fratelli.

2. Saludo con gran afecto a los peregrinos de lengua española venidos a Roma. En esta ocasión, de modo particular saludo a los Hermanos de las Escuelas Cristianas, acompañados de sus alumnos y ex-alumnos, a los Padres Pasionistas, así como a los miembros de la gran Familia Hospitalaria. Estos Santos, hijos predilectos de la Iglesia y testigos fieles del Señor Resucitado, nos ofrecen el testimonio de una rica espiritualidad, fraguada en la fidelidad cotidiana y en la entrega incondicional a su vocación al servicio del prójimo.

3. Los Hermanos mártires de las Escuelas Cristianas canonizados ayer, seguidores del carisma de San Juan Bautista de La Salle, se entregaron plenamente a la educación integral de los niños y jóvenes. Ellos pertenecen a la larga serie de educadores cristianos que han dedicado su vida y sus energías a la enseñanza en la escuela católica, comprometidos en este irrenunciable servicio que la Iglesia presta a la sociedad. Ésta, en nuestros días a veces se presenta individualista y con tentaciones de secularismo. Frente a ello, los Santos Mártires de Turón, procedentes de diversos puntos de la geografía española y uno de ellos de Argentina, son la prueba elocuente de que la fidelidad a Cristo vale más que la propia vida.

Que su ejemplo, junto con el del P. Inocencio de la Inmaculada, mueva a los jóvenes a abrazar el estilo de vida que nos propone el evangelio, vivido con valentía y entusiasmo. Que la labor educativa de estos Santos Mártires sea también modelo para los educadores cristianos a las puertas del nuevo milenio que está ya a las puertas.

Respecto a la formación de las jóvenes generaciones, quisiera recordar el deber primordial de los padres como primeros y principales responsables de la educación de los hijos, lo cual supone que han de contar con absoluta libertad para elegir el centro docente para sus hijos. Las autoridades públicas, por su parte, han de procurar que, desde el respeto al pluralismo y la libertad religiosa, se ofrezca a las familias las condiciones necesarias para que, en todas las escuelas, sean públicas o privadas, se imparta una educación conforme a los propios principios morales y religiosos. Y esto es más necesario aún en un país, como España, donde la mayoría de padres pide la educación religiosa para sus hijos.

4. San Benito Menni, miembro ilustre de la Orden Hospitalaria de San Juan de Dios y Fundador de las Religiosas Hospitalarias del Sagrado Corazón de Jesús, vivió su vocación como apóstol en el campo de la sanidad, sin ahorrarse esfuerzos y sufrimientos, con audacia y una entrega sin límites al cuidado de los enfermos, especialmente de los niños y de los trastornados mentales.

La labor que realizan sus Hermanos de religión y las Religiosas del Instituto que fundó tiene plena actualidad en el mundo actual, donde con frecuencia se margina a los débiles y a los que sufren. Que la gran Familia Hospitalaria, en fidelidad al carisma del nuevo Santo, imite el inmenso amor que él sentía hacia los más desfavorecidos, dedicando enteramente la vida a su servicio.

San Benito Menni descubrió su vocación precisamente cuando llevaba a cabo tareas de voluntariado en Milán. Muchos de los peregrinos que habéis venido para su canonización sois voluntarios en diversos centros hospitalarios y en otros centros asistenciales. Ese servicio enriquece vuestra vida y hace crecer la capacidad de donación y acogida solidaria del prójimo, especialmente de los que sufren. Os animo a proseguir en esa labor, iluminados por los ejemplos del Padre Menni, imitándole y siguiéndole en el camino de misericordia que él practicó.

5. Mi rivolgo a voi, cari Religiosi dell’Ordine Francescano dei Frati Minori, ed a quanti insieme con voi esultano per la canonizzazione di san Tommaso da Cori. “Vengo al Ritiro per farmi santo”: con queste parole il nuovo Santo si presentò al luogo solitario di Bellegra, dove per lunghi anni realizzò progressivamente questo impegnativo programma di vita evangelica.

Aveva ben compreso che ogni vera riforma inizia da se stessi e, proprio per questo, la sua umile persona si colloca tra i grandi riformatori dell’Ordine dei Frati Minori.

Dall’intensità del suo intimo rapporto con Dio, soprattutto dalla profonda devozione all’Eucaristia, fioriva la fecondità della sua azione pastorale, così incisiva da meritargli l’appellativo di “apostolo del sublacense”. Vero figlio del Poverello d’Assisi, anche di lui si potrebbe affermare ciò che si diceva di san Francesco, che cioè “non era tanto un uomo che prega, quanto piuttosto egli stesso tutto trasformato in preghiera vivente” (Tommaso da Celano, Vita Seconda, 95: Fonti Francescane, 682).

6. Carissimi Fratelli e Sorelle! Insieme con tutta la Chiesa, lodiamo il Signore per le grandi opere che ha compiuto attraverso questi nuovi Santi.

Facendo ritorno alle vostre case ed alle vostre occupazioni quotidiane, portate con voi il lieto ricordo di questo pellegrinaggio a Roma, e continuate con coraggio nell’impegno di testimonianza cristiana, perché possiate prepararvi a vivere con intensità e fervore l’Anno Santo ormai vicino.

Con questi auspici, vi affido tutti alla celeste protezione della Madonna e dei nuovi Santi, e di cuore vi benedico, insieme con le vostre famiglie e le vostre comunità.

 

 

 

 OMELIA DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II 
NELLA CERIMONIA DI CANONIZZAZIONE DEI BEATI:

CIRILO BERTRÁN E OTTO COMPAGNI,
INOCENCIO DE LA INMACULADA,
BENEDETTO MENNI,
TOMMASO DA CORI

 

 

Domenica, 21 novembre 1999    

 

1. “Si siederà sul trono della sua gloria” (Mt 25,31). L’odierna solennità liturgica è dominata da Cristo, Re dell’universo, Pantocràtor, quale risplende nell’abside delle antiche basiliche cristiane. Contempliamo questa maestosa immagine nell’odierna ultima domenica dell’anno liturgico. La regalità di Gesù Cristo è, secondo i criteri del mondo, paradossale: è il trionfo dell’amore, che si realizza nel mistero dell’incarnazione, passione, morte e risurrezione del Figlio di Dio. Questa regalità salvifica si rivela pienamente nel sacrificio della Croce, supremo atto di misericordia, in cui si compie al tempo stesso la salvezza del mondo e il suo giudizio. Ogni cristiano partecipa della regalità di Cristo. Nel Battesimo egli riceve con la grazia l’interiore spinta a fare della sua esistenza un dono gratuito e generoso a Dio ed ai fratelli. Ciò appare con grande eloquenza nella testimonianza dei Santi e delle Sante, che sono modelli di umanità rinnovata dall’amore divino. Tra essi, con gioia, annoveriamo da oggi Cirilo Bertrán con otto suoi Compagni, Inocencio de la Inmaculada, Benedetto Menni e Tommaso da Cori.

 

2. “Cristo tiene que reinar” hemos escuchado de san Pablo en la segunda lectura. El reinado de Cristo se va construyendo ya en esta tierra mediante el servicio al prójimo, luchando contra el mal, el sufrimiento y las miserias humanas hasta aniquilar la muerte. La fe en Cristo resucitado hace posible el compromiso y la entrega de tantos hombres y mujeres en la transformación del mundo, para devolverlo al Padre: “Así Dios será todo para todos”. Este mismo compromiso es el que animó al Hermano Cirilo Bertrán y a sus siete compañeros, Hermanos de las Escuelas Cristianas del Colegio “Nuestra Señora de Covadonga”, que habiendo nacido en tierras españolas y uno de ellos en Argentina, coronaron sus vidas con el martirio en Turón (Asturias) en mil novecientos treinta y cuatro, junto con el Padre Pasionista Inocencio de la Inmaculada. No temiendo derramar su sangre por Cristo, vencieron a la muerte y participan ahora de la gloria en el Reino de Dios. Por eso, hoy tengo la alegría de inscribirlos en el catálogo de los Santos, proponiéndolos a la Iglesia universal como modelos de vida cristiana e intercesores nuestros ante Dios. (in lingua catalana) Al grup dels màrtirs de Turón si agrega el Germà Jaume Hilari, de la mateixa Congregaciò religiosa, i que fou assassinat a Tarragona tres anys més tard. Mentre perdonava els qui el mataven, exclamà: “Amics, morir per Crist és regnar”.

Todos ellos, como cuentan los testigos, se prepararon a la muerte como habían vivido: con la oración perseverante, en espíritu de fraternidad, sin disimular su condición de religiosos, con la firmeza propia de quien se sabe ciudadano del cielo. No son héroes de una guerra humana en la que no participaron, sino que fueron educadores de la juventud. Por su condición de consagrados y maestros afrontaron su trágico destino como auténtico testimonio de fe, dando con su martirio la última lección de su vida. ¡Que su ejemplo y su intercesión lleguen a toda la familia lasaliana y a la Iglesia entera!

 

3. “Venid vosotros, benditos de mi Padre; heredad el Reino preparado para vosotros desde la creación del mundo, … porque estuve enfermo y me visitasteis” (Mt 25,34.36). Estas palabras del Evangelio proclamado hoy le serán sin duda familiares a Benito Menni, sacerdote de la Orden de San Juan de Dios. Su dedicación a los enfermos, vivida según el carisma hospitalario, guió su existencia.

Su espiritualidad surge de la propia experiencia del amor que Dios le tiene. Gran devoto del Corazón de Jesús, Rey de cielos y tierra, y de la Virgen María, encuentra en ellos la fuerza para su dedicación caritativa a los demás, sobre todo a los que sufren: ancianos, niños escrofulosos y poliomielíticos y enfermos mentales. Su servicio a la Orden y a la sociedad lo realizó con humildad desde la hospitalidad, con una integridad intachable que lo convierte en modelo para muchos. Promovió diversas iniciativas orientando a algunas jóvenes que formarían el primer núcleo del nuevo instituto religioso, fundando en Ciempozuelos (Madrid) las Hermanas Hospitalarias de Sagrado Corazón de Jesús. Su espíritu de oración le llevó a profundizar en el misterio pascual de Cristo, fuente de comprensión del sufrimiento humano y camino para la resurrección. En este día de Cristo Rey, San Benito Menni ilumina con el ejemplo de su vida a quienes quieren seguir las huellas del Maestro por los caminos de la acogida y la hospitalidad.

 

  1. “Io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura” (Ez 34,11). Tommaso da Cori, sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori, è stato immagine vivente del Buon Pastore. Come guida amorevole, ha saputo condurre i fratelli affidati alle sue cure verso i pascoli della fede, animato sempre dall’ideale francescano.

     

Nel Convento dimostrava il suo spirito di carità, rendendosi disponibile a qualsiasi esigenza, anche la più umile. Visse la regalità dell’amore e del servizio, secondo la logica di Cristo che, come canta la Liturgia odierna, “ha sacrificato se stesso immacolata vittima di pace sull’altare della croce, operando il mistero dell’umana redenzione” (Prefazio di Cristo Re).

Da autentico discepolo del Poverello d’Assisi, san Tommaso da Cori fu obbediente a Cristo, Re dell’universo. Meditò ed incarnò nella sua esistenza l’esigenza evangelica della povertà e del dono di sé a Dio ed al prossimo. Tutta la sua vita appare così segno del Vangelo, testimonianza dell’amore del Padre celeste, rivelato in Cristo e operante nello Spirito Santo, per la salvezza dell’uomo.

 

  1. Rendiamo grazie a Dio che, lungo i sentieri del tempo, non cessa di suscitare luminosi testimoni del suo Regno di giustizia e di pace. I dodici nuovi Santi, che oggi ho la gioia di proporre alla venerazione del Popolo di Dio, ci indicano il cammino da percorrere per giungere preparati al Grande Giubileo del Duemila. Non è, infatti, difficile riconoscere nella loro esemplarità alcuni elementi che caratterizzano l’evento giubilare. Penso, in particolare, al martirio ed alla carità (cfr Incarnationis Mysterium, 12-13). Più in generale, l’odierna celebrazione richiama il grande mistero della comunione dei santi, fondamento dell’altro elemento qualificante del Giubileo che è l’indulgenza (cfr ivi, 9-10).

     

I Santi ci mostrano la via del Regno dei cieli, la via del Vangelo accolto radicalmente. Sostengono, al tempo stesso, la nostra serena certezza che ogni realtà creata trova in Cristo il suo compimento e che, grazie a Lui, l’universo sarà consegnato a Dio Padre pienamente rinnovato e riconciliato nell’amore.

 

Ci aiutino San Cirilo Bertrán con gli otto Compagni, San Inocencio de la Inmaculada, San Benedetto Menni e San Tommaso da Copri a percorrere anche noi questo cammino di perfezione spirituale. Ci sostenga e protegga sempre Maria, Regina di tutti i Santi, che proprio oggi contempliamo nella sua presentazione al Tempio. Sul suo esempio, possiamo anche noi collaborare fedelmente al mistero della Redenzione. Amen! 

                                           

    CIEMPOZULOS - CASA MADRE                                                                                                               Nuestra Señora del Sagrado Corazón de Jesús                     (Patrona della Congregazione)  La Congregazione delle Sorelle Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù, è stato fondato in Ciempozuelos (Madrid-España), nel 1881 dal Padre San Benito Menni, sacerdote dell’Ordine dei Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio (Fatebenefratelli) congiuntamente con con María Josefa Recio y María Angustias Giménez, scelte da Dio per occuparsi delle persone che soffrono di turbe mentali abinando due criteri fondamentali:  carità e scienza.  Nasce come risposta a una situazione di grave abbandono in quest’area della salute e dall’esclusione sociale  dei malati mentali dell’epoca.  La Congregación de las Hermanas Hospitalarias del Sagrado Corazón de Jesús tiene como misión apostólica la acogida y la asistencia sanitaria de los enfermos mentales, discapacitados físicos y psíquicos, así como enfermos de otras patologías, de acuerdo con nuestro carisma fundacional y nuestros valores, que informan de la manera de ser, de trabajar y orientan las propuestas y las decisiones, las actitudes y los comportamientos. Son también, un punto de referencia para evaluar los resultados.   La Congregación ha desarrollado centros asistenciales en 24 países de cuatro continentes, en los que se busca atender a la persona en su integridad, que entendemos como la vertiente física, psíquica, social y espiritual, con actitud profundamente humana, calidad en el trato y máximo respeto a los derechos fundamentales de la persona.   El nombre Hospitalarias del Sagrado Corazón es expresión del carisma de la Congregación, pues su razón de ser en la Iglesia es el ejercicio de la caridad hospitalaria, vivida en estado de consagración religiosa según el modelo de caridad perfecta, Cristo, simbolizada en su Corazón.   La Congregación de Hermanas Hospitalarias, hoy al celebrar sus 125 años de fundación se encuentra en 24 países de Europa, América, África y Asia

 

                  

 

 

                                      

 

 

 

http://www.casareal.es/noticias/news/20070315_Inauguracion_Pabellon_Fundacion_Instituto_San_Jose-ides-idweb.html

 

LA CONSOLIDACIÓN COMO UN GRAN CENTRO PSIQUIÁTRICO
Dado el número de pacientes que dependiendo de las Diputaciones se encontraban en otros manicomios, desde su misma fundación el Hospital Aita Menni debió hacer un gran esfuerzo para aumentar su capacidad. De este modo, toda la primera época de su historia está marcada por las obras continuas de remodelación y construcción de nuevos pabellones.

 


En 1900 se adquirieron los caseríos Elezgarai, Ugalde y Errotaetxe, así como diversos terrenos. De este modo, el hospital podría ampliar sus instalaciones o bien podría beneficiarse de las explotaciones ganaderas y agrícolas de los mencionados caseríos para el abastecimiento de hermanas y pacientes.

 


Ese mismo año, se construyó el Pabellón del Sagrado Corazón de Jesús, destinado a atender enfermas pensionistas particulares.

 

 

Pabellón del Sagrado Corazón en 1900

Pabellón del Sagrado Corazón en la acutalidad


Entre los años 1904 y 1910 se edificó el Pabellón de San Benito para enfermas pensionadas por las Diputaciones Provinciales. Constaba de dos naves paralelas unidas en uno de sus extremos por una galería y en el otro por un edificio de tres pisos. Disponía de sala de estar, comedores, cocina, enfermería de somáticas, dormitorios y una sección de baños y de limpieza.

 

 


Las obras continuaron prácticamente de manera ininterrumpida a uno y otro lado de la carretera que va de Mondragón a Aramaiona y en 1921 se construyó un túnel por debajo de ella, de manera que el paso desde los pabellones de un lado a los del otro no requiriera cruzar la carretera.

 

Acceso al túnel


En 1923 se edificó el Pabellón de San José actualmente destinado a pacientes de larga estancia.

 

 

Pabellón de San José en 1923

Pabellón de San José


Ese mismo año se construyó otro pabellón que constituiría la Clausura de las Hermanas. Con una capacidad para más de 130 personas, disponía de cocina para enfermas pensionistas, cocina para toda la casa, ropería, costureros, despensa, etc. La construcción de los pabellones de San José y Clausura requirieron el embocinamiento del río en una longitud de 60 metros y el derribo de antiguos lavaderos y galerías de enlace, así como del caserío Errotaetxe.

 

 

 

 


En 1924 quedó terminada la Clausura y se levantó un nuevo pabellón para enfermas de beneficencia, el de San Juan de Dios.

 


En 1927, el Excmo. Sr. Obispo de Vitoria, Dr. D. Leopoldo Eijo y Garay, bendijo, consagró e inauguró la Iglesia de la Casa de Salud, en un acto al que asistieron las autoridades locales y provinciales. El proyecto fue obra del arquitecto Sr. Urcola y la primera piedra la bendijo y puso el Cardenal Arzobispo de Toledo, Dr. Reig.

 

 


La primera época del Hospital Aita Menni estuvo marcada por las obras constantes de ampliación y remodelación de instalaciones. Las sucesivas ampliaciones de capacidad quedan reflejadas en el aumento constante del número de pacientes atendidas.

 

Vista general en 1930


Durante esta primera época se dotó a los diferentes pabellones de agua potable y caliente para usos higiénicos, sanitarios e hidroterápicos y se instaló el alumbrado eléctrico en sustitución de los quinqués de petróleo.

 


Los pabellones que se fueron construyendo tenían anejos espaciosos jardines en los que se plantaron árboles para permitir a las enfermas ingresadas “disfrutar de la libertad compatible con su estado”.

 

 

 

La atención psiquiátrica a finales del siglo XIX El Real Decreto de 1885 refleja la concepción que la sociedad de la época tiene del enfermo mental como una especie de ser extraño y temible, poseído o endemoniado, de cuya presencia hay que proteger al cuerpo social por medio de la reclusión El ingreso manicomial constituye en aquel tiempo la atribución por parte de la sociedad de la condición de loco a un individuo. Por ello, se establecen importantes trabas legales para evitar ingresos improcedentes, aunque una vez producido éste, las expectativas de salida de los manicomios eran casi nulas.

 

 


De acuerdo con la Ley de Beneficencia de 1849, el Estado tenía la obligación de proporcionar atención sanitaria a sus ciudadanos, si bien las Diputaciones fueron asumiendo esta responsabilidad en el campo de la salud mental iniciando la construcción de manicomios, hasta que un decreto de 19 de abril de 1887 estableció que la obligación de atender a los dementes era imputable a la Diputación de cada provincia.
A pesar de las disposiciones legales vigentes, en los últimos años del siglo XIX no existían recursos asistenciales para los enfermos mentales quienes no recibían atención sanitaria y se encontraban desatendidos por las calles o encerrados en sombríos calabozos en los que transcurrían sus días. Los manicomios de la época eran verdaderos pudrideros de locos en los que el ambiente reinante, lejos de favorecer la buena evolución de los pacientes, contribuía a su descompensación y a su desorganización.
Ante la ausencia de hospitales psiquiátricos en el País Vasco, los enfermos eran ingresados fundamentalmente en los Manicomios de Valladolid y Zaragoza, lo que implicaba un importante desplazamiento y en muchos casos, una definitiva desconexión de la comunidad originaria.

LA REFORMA PSIQUIÁTRICA DE 1931
En 1931 tuvo lugar una reforma legal que liberalizaba el ingreso y salida del enfermo mental en las instituciones psiquiátricas y dictaba normas para la construcción de establecimientos hospitalarios, planificaba clínicas abiertas en hospitales generales y trazaba las primeras líneas de la asistencia psiquiátrica hospitalaria. Además, supuso la toma de conciencia por parte de la Administración Pública de las responsabilidades asistenciales que tenía con toda la población, no sólo con los indigentes. Paulatinamente se fueron extendiendo en la sociedad la Seguridad Social y el Seguro Obligatorio de Enfermedad que se crearon siguiendo el modelo italiano. Sin embargo, la asistencia psiquiátrica permaneció fuera de este circuito sanitario, manteniéndose en el ámbito de actuación de las secciones de Beneficencia de las diferentes Diputaciones. No obstante, éstas pusieron en marcha una forma particular de seguro de enfermedad que hicieron extensible a toda la asistencia ofrecida en sus instituciones sanitarias, entre ellas la asistencia psiquiátrica. Todo ciudadano que lo solicitara podía recibir cobertura económica para consulta u hospitalización, teniendo que abonar una parte en la medida de su capacidad económica, de manera que cuando la familia no poseía recursos, la Diputación asumía el coste total de la hospitalización. Además, como consecuencia de la Guerra Civil el poder adquisitivo de las pensiones sufrió una caída importante, lo cual supuso el paso progresivo de muchas pacientes de la condición de pensionistas a la de beneficencia de las diferentes Diputaciones.
El Hospital Aita Menni mantenía relaciones institucionales con las Diputaciones de Gipuzkoa, Bizkaia, Araba y Burgos, desde donde provenían los pacientes que se atendían.
La Diputación de Gipuzkoa mantuvo invariablemente a las enfermas que dependían de ella en el Hospital Aita Menni, pero a partir de 1932, como consecuencia de la apertura de otros recursos asistenciales para situaciones agudas, el hospital se transformó en centro para la recuperación y residencia de enfermas mentales crónicas donde eran ingresadas las enfermas crónicas dependientes de dicha Diputación.
Por su parte, la Diputación de Bizkaia contaba con el manicomio de Bermeo por lo que la presencia de enfermas procedentes de este territorio histórico no fue muy significativa en los primeros años. De todos modos, la afluencia de enfermas fue creciendo a partir de estas fechas hasta alcanzar una proporción muy elevada en el censo global de pacientes.
La Diputación de Araba contaba con un hospital psiquiátrico propio por lo que la presencia de enfermas alavesas ha sido siempre mínima. La Diputación de Burgos derivaba sus pacientes desde 1898 y lo continuaría haciendo hasta que en 1977 trasladara a sus últimas enfermas al recién creado manicomio de Oña.

 

 

 

 

 

 

LA INTRODUCCIÓN DE LOS PSICOFÁRMACOS
En la segunda mitad de los años 40 se descubrió un potente antihistamínico que mostró propiedades sedantes sobre el sistema nervioso central. Se trataba de la prometazina (Fenergan®). A partir de las expectativas que abrió este descubrimiento para el tratamiento de las enfermedades mentales, se desarrollaron nuevas investigaciones que desembocaron en el descubrimiento de la clorpromazina (Largactil®) en diciembre de 1950. La revolución de la psicofarmacología había comenzado.
A partir de ese momento, los avances en este terreno se sucedieron a un ritmo vertiginoso: en 1952 se aisló la reserpina a partir de la raíz de la Rauwolfia serpentina; en 1955 se sintetizó el clordiazepóxido, abriendo el camino de los ansiolíticos benzodiazepínicos; en 1956 se descubrió el efecto antidepresivo de la iproniazida, precursor de los inhibidores de la monoaminooxidasa; en 1957 se produjo el descubrimiento del primer antidepresivo tricíclico, la imipramina.
Aunque el marco legal vigente en esta época seguía siendo el establecido por el Real Decreto de 1931, estos descubrimientos tuvieron una gran importancia en la atención psiquiátrica en general y en el Hospital Aita Menni en particular puesto que, a partir de la introducción progresiva de estos fármacos, muchos enfermos pudieron evolucionar favorablemente, lo que dio lugar a que el censo de pacientes comenzara a disminuir por primera vez en la historia del hospital. Como consecuencia, en estos años los trabajos materiales fueron dirigidos principalmente a tareas de mantenimiento y acomodación de subestructuras a necesidades variables.

 

EL NUEVO HOSPITAL AITA MENNI
Con la llegada de la democracia, la asistencia a los enfermos mentales salió del ámbito del Ministerio de la Gobernación para entrar dentro de la asistencia sanitaria general y por tanto, entre las competencias del Ministerio de Sanidad (reforma del Código Civil de 1983). En la Ley General de Sanidad de 1986 se recogía la planificación de los servicios de asistencia psiquiátrica poniendo especial énfasis en el desarrollo de la asistencia extrahospitalaria a través de servicios comunitarios como consultorios, hospitales de día, centros laborales protegidos para minusvalías psíquicas u hogares asistidos en la comunidad. Por otra parte, se creaban unidades psiquiátricas para la atención de casos agudos en los hospitales generales así como unidades de rehabilitación en régimen de media estancia en los hospitales psiquiátricos y establecimientos residenciales de larga estancia.
Por otra parte, en la Comunidad Autónoma Vasca se elaboró un Plan de Asistencia Psiquiátrica y Salud Mental a partir del cual se fueron creando los diferentes dispositivos asistenciales haciendo especial hincapié en la red de centros de salud mental y en las unidades psiquiátricas de corta estancia en los hospitales generales. Simultáneamente, en 1983 se creó el Servicio Vasco de Salud – Osakidetza para la gestión de los servicios sanitarios de la comunidad autónoma, aunque hasta 1985 las competencias en salud mental permanecieron bajo la responsabilidad de las Diputaciones Forales. A partir de entonces, el Hospital Aita Menni concertó las estancias de sus pacientes con esta institución dependiente del Departamento de Sanidad del Gobierno Vasco.
En este contexto, el Hospital Aita Menni se renovó para convertirse en un instrumento moderno de terapia y rehabilitación de las funciones psíquicas y sociales deterioradas por la enfermedad mental, orientando su actividad a las pacientes que requerían estancias prolongadas en el hospital. Para ello, se consideró muy importante proceder a la renovación de las instalaciones con una reorganización global.
Ante la función concreta que el Hospital Aita Menni debía cumplir en el marco asistencial vigente, se construyó un nuevo espacio hospitalario y residencial cuyas obras comenzaron en 1981.

 

Vista general del Hospital Aita Menni en 1981, poco antes de iniciarse las obras de las nuevas instalaciones

 


LA DIVERSIFICACIÓN DE SERVICIOS
La Comunidad Hospitalaria Coincidiendo con la celebración en 1988 del Año del Colaborador en las instituciones de las Hermanas Hospitalarias, se inicia en el Hospital Aita Menni un proceso de integración de los profesionales que en él trabajan dando lugar a la Comunidad Hospitalaria en la que hermanas y colaboradores desarrollan conjuntamente su labor y en cuyo centro se sitúa al paciente y sus familiares. Esta integración es expresión de la voluntad de la Congregación de las Hermanas Hospitalarias y se plantea como una necesidad consecuente a la incorporación de un gran número de nuevos profesionales de cara a acometer los nuevos proyectos asistenciales y se materializa en una participación creciente de los colaboradores en la planificación del futuro y en la toma de las decisiones que afectan a la vida del centro.
El mayor nivel de complejidad que el hospital alcanza en los últimos años y la incorporación de disciplinas específicas para determinados dispositivos han provocado la estructuración de diferentes equipos asistenciales que, manteniendo la filosofía del trabajo multidisciplinar en cada servicio, van alcanzando cotas de autonomía crecientes, aunque manteniéndose la necesaria coordinación entre todos ellos. Esta progresiva especialización conlleva no sólo la adecuación arquitectónica de los equipamientos sino también un avance en el desarrollo de la tecnología aplicada y en el esfuerzo dedicado a la investigación científica.

 

SAN RICCARDO PAMPURI O.H.

San Riccardo Pampuri medico

 

Trivolzio Chiesa Parrocchiale

 

Casa natale del Pampuri

Erminio Pampuri adolescente

 

 

Pampuri studente

 

Attentato di Sarajevo

 

Pampuri Erminio con il fratello, la cognata e due nipoti - Foto del nipote Virginio Pampuri

PADRE GABRIELE RUSSOTTO O.H.

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 Russotto - Paolo VI

P. Gabriele Russotto in udienza da Paolo VI

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 Bonardi Padre Mosè o.h.

IN COSTRUZIONE

NEL BAMBINO GESU’ C’E’ L’AMORE DI DIO – Benedetto XVI


“Nel Bambino Gesù si manifesta al massimo l’inermità dell’amore di Dio: Dio viene senza armi, perché non intende conquistare dall’esterno…”

Grazie al sapiente lavoro della nostra Gemma possiamo leggere questo straordinario brano tratto dal testo “Immagini di speranza”, una raccolta di meditazioni radiofoniche dell’allora cardinale Ratzinger. In questa atmosfera che ci conduce alla nascita del Salvatore, assaporiamo queste riflessioni.
Grazie ancora a Gemma :-)

(da Immagini di Speranza, Edizioni San Paolo 2005)

Il bue e l’asino del presepe

A Natale ci auguriamo di cuore che in mezzo a tutta la frenesia del presente questo tempo di festa ci porti in dono un po’ di riflessione e di gioia, di contatto con la bontà del nostro Dio e quindi nuovo coraggio per andare avanti. All’inizio di una piccola riflessione su quello che la festa ci può dire oggi, un breve sguardo all’origine della celebrazione natalizia può esserci di grande aiuto. 

Benedetto XVI - 2
 

L’anno liturgico della Chiesa innanzitutto non si è sviluppato guardando alla nascita di Cristo, ma dalla fede nella sua risurrezione. Per questo la festa più antica della cristianità non è il Natale, ma la Pasqua. In effetti solo la risurrezione del Signore ha fondato la fede cristiana e ha così dato origine alla Chiesa.


Per questo già Ignazio di Antiochia (morto al più tardi verso il 117 d.C.) definisce i cristiani come “coloro che non osservano più il sabato, ma vivono secondo il giorno del Signore”: essere cristiani significa vivere in maniera pasquale, in virtù della risurrezione, che viene celebrata settimanalmente nella festa pasquale della domenica.


Il primo ad affermare con certezza che Gesù nacque il 25 dicembre è stato Ippolito di Roma nel suo commento a Daniele, scritto verso il 204; Bo Reicke, già professore di esegesi a Basilea, ha inoltre richiamato l’attenzione sul calendario festivo, secondo il quale nel vangelo di Luca i racconti della nascita del Battista e della nascita di Gesù sono legati fra loro. Se ne potrebbe dedurre che Luca presuppone già nel suo vangelo la data del 25 dicembre come giorno della nascita di Gesù. Allora in quel giorno si celebrava la festa della dedicazione del tempio istituita da Giuda Maccabeo nel 164 a.C. La data della nascita di Gesù verrebbe allora a simbolizzare che con lui, apparso come luce di Dio nella notte invernale, si realizzava veramente la consacrazione del tempio – l’avvento di Dio su questa terra.

 

Comunque stiano le cose, la festa del Natale ha assunto una fisionomia chiara nella cristianità solo nel secolo IV, allorché essa prese il posto della festa romana del “Sol invictus” e insegnò a concepire la nascita di Cristo come la vittoria della vera luce; il materiale raccolto da Bo Reicke ha dimostrato che questa trasformazione di una festa pagana in solennità cristiana ha fatto tesoro di un’antica tradizione giudeo-cristiana.

 

Tuttavia il calore umano particolare, che tanto ci commuove nella festa di Natale fino al punto d’aver sopravanzato nel cuore della cristianità la Pasqua, si è sviluppato soltanto nel Medioevo, allorché Francesco d’Assisi, profondamente innamorato dell’uomo Gesù, del Dio-con-noi, introdusse questo nuovo elemento. Il suo primo biografo, Tommaso da Celano, racconta così nella Vita Seconda: “Più di qualsiasi altra festa Francesco celebrava con una gioia indescrivibile il Natale. Diceva che questa era la festa delle feste, perché in questo giorno Dio è diventato un bambinello e ha succhiato il latte come tutti gli altri bambini.
Abbracciava con tenerezza e trasporto le immagini che rappresentavano Gesù Bambino e pronunciava pieno di compassione parole dolci come i pargoli. Sulle sue labbra il nome di Gesù era dolce come il miele”.


Da questa sensibilità scaturì poi la famosa celebrazione del Natale a Greccio, forse ispirata a Francesco dal suo pellegrinaggio in Terra Santa e al presepio di Santa Maria Maggiore in Roma.
Egli fu spinto dalla sua sete di vicinanza, di realtà, dal suo desiderio di rivivere in maniera quanto mai attuale Betlemme,di sperimentare direttamente la gioia della nascita del Bambino Gesù e di trasmetterla a tutti i suoi amici.


Nella sua prima biografia Celano parla della notte del presepio in un modo che rimane sempre toccante per la gente e che ha dato un contributo decisivo alla diffusione della più bella delle usanze natalizie, quella del presepio.


A buon diritto possiamo dunque dire che la notte di Greccio ha ridonato alla cristianità la festa del Natale, così che il suo messaggio più autentico, il suo particolare calore e la sua umanità, l’umanità del nostro Dio, ha potuto comunicarsi alle anime e donare alla fede una nuova dimensione.


La festa della risurrezione aveva concentrato lo sguardo sulla potenza di Dio che vince la morte e ci insegna a sperare nel mondo che verrà.
Ma ora veniva messo in evidenza l’amore inerme di Dio, la sua umiltà e la sua bontà che si manifesta in questo mondo in mezzo a noi e si propone di insegnarci un nuovo modo di vivere e di amare.
Forse può essere utile fermarci ancora un attimo su questo punto e chiedere: dove si trova questa Greccio, che si è caricata di un significato tanto grande per la storia della fede? Si tratta di una piccola località nella valle retina, in Umbria, situata a non troppa distanza da Roma, a nord est della città. Laghi e montagne hanno conferito a questo paese il suo particolare fascino e la sua silenziosa bellezza, che riesce a commuoverci ancor oggi, tanto più che non è quasi stato toccato dalla confusione del turismo di massa.


Il convento di Greccio, situato a 638 metri di altezza, ha conservato qualcosa della semplicità delle origini; è rimasto modesto, come il paesello ai suoi piedi. La foresta lo circonda come ai tempi del Poverello e ci invita a sostare e a riflettere. Celano ricorda che Francesco aveva una particolare predilezione per gli abitanti di questa località, proprio per la loro povertà e semplicità; egli sarebbe quindi venuto spesso da quelle parti per riposarsi , attratto anche da una cella estremamente povera e isolata , in cui poteva dedicarsi indisturbato alla contemplazione delle cose celesti.

 

Povertà, semplicità, silenzio dell’uomo e parlare della creazione: erano certo queste le impressioni che per il Santo di Assisi si legavano a questo luogo.

 

Esso divenne così la sua Betlemme e potè inscrivere nuovamente il mistero di Betlemme nella geografia delle anime.


Ma torniamo al Natale del 1223. Il terreno di Greccio era stato messo a disposizione del Poverello di Assisi da un nobile signore di nome Giovanni che, stando alle parole di Celano, per quanto di alto lignaggio e malgrado la sua posizione elevata, “non annetteva alcuna importanza alla nobiltà del sangue e cercava piuttosto di raggiungere la nobiltà dell’anima”, tanto da meritarsi l’affetto di Francesco.


Orbene, a proposito di questo Giovanni, Celano racconta che in quella notte egli ebbe la grazia di una visione meravigliosa. Vide immobile nella mangiatoia un bambinello, che fu risvegliato dal suo sonno dalla vicinanza di san Francesco. E aggiunge:


“Questa visione corrispondeva realmente a quanto stava avvenendo, perchè fino a quel momento Gesù Bambino era effettivamente caduto nel sonno della dimenticanza in molti cuori. Mediante il suo servo Francesco il suo ricordo venne ravvivato e impresso indelebilmente nella memoria”.


Questo quadro descrive con molta precisione la nuova dimensione, che mediante la sua fede viva e commossa, Francesco conferì alla festa cristiana del Natale: la scoperta della rivelazione di Dio racchiusa precisamente nel Bambino Gesù.


Proprio così Dio è davvero diventato “Emmanuele”, Dio-con-noi, da cui non ci separa alcuna barriera di eccellenza e di lontananza:come bambino si è fatto così vicino che possiamo dargli tranquillamente del tu e accedere direttamente al suo cuore infantile.


Nel Bambino Gesù si manifesta al massimo l’inermità dell’amore di Dio: Dio viene senza armi, perché non intende conquistare dall’esterno, bensì guadagnare e trasformare dall’interno.


Se qualcosa è capace di vincere l’uomo, il suo despotismo, la sua violenza, la sua avidità, questa è l’inermità del bambino. Dio l’ha assunta per vincerci in questo modo e condurci a noi stessi.

 

Al riguardo non dimentichiamo che il massimo titolo di Gesù Cristo è quello di “Figlio”, di Figlio di Dio; la dignità divina viene indicata con un termine, che presenta Gesù come il bambino perenne. La sua condizione di bambino corrisponde in una maniera unica alla sua divinità, che è la divinità del “Figlio”.

 

Perciò essa è un’indicazione del modo in cui possiamo pervenire a Dio, alla divinizzazione. In questa luce vanno comprese le sue parole: “Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18,3).


Chi non ha compreso il mistero di Natale, non ha compreso la cosa decisiva del cristianesimo. Chi non l’ha accettato, non può entrare nel regno dei cieli.


E’ questo che Francesco volle ricordare alla cristianità del suo tempo e di tutte le epoche successive.


Seguendo le direttive di san Francesco, durante la Santa Notte furono sistemati nella grotta di Greccio un bue e un asino. Egli aveva infatti detto al nobile Giovanni: “ Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”.


Da allora il bue e l’asino fanno parte di tutti i presepi. Ma donde deriva questa usanza? Com’è noto, i racconti natalizi del Nuovo Testamento non ne fanno parola. Se approfondiamo questa domanda, scopriamo un particolare importante sia per le usanze natalizie, sia per la spiritualità liturgica e popolare natalizia e pasquale della Chiesa.


Il bue e l’asino non sono semplici prodotti della pietà e della fantasia, ma sono diventati ingredienti dell’evento natalizio a motivo della fede della Chiesa nell’unità dell’Antico e del Nuovo Testamento. In Isaia 1,3 leggiamo infatti: “il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone; ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende”.

 

I padri della Chiesa videro in queste parole una profezia che fa riferimento al nuovo popolo di Dio, alla Chiesa composta di giudei e pagani. Davanti a Dio tutti gli uomini, giudei e pagani, erano come buoi ed asini, privi di intelligenza e conoscenza. Ma il Bambino nella mangiatoia ha aperto loro gli occhi, cosicché ora essi riconoscono la voce del proprietario, la voce del loro Signore.


Nelle rappresentazioni medioevali del Natale vediamo come i due animali abbiano quasi volti umani, come si inchinino consapevoli e rispettosi davanti al mistero del Bambino. Ciò era perfettamente logico, perché essi avevano il valore di segno profetico dietro cui si nasconde il mistero della Chiesa, il nostro mistero, secondo il quale noi che di fronte all’eterno siamo buoi e asini, buoi e asini cui nella Notte Santa sono stati aperti gli occhi, si chè ora riconoscono nella mangiatoia il loro Signore.


Ma lo riconosciamo realmente? Quando collochiamo nel presepio il bue e l’asino, dobbiamo rammentarci tutte le parole di Isaia, che non sono solo vangelo – cioè promessa della futura conoscenza -, bensì anche giudizio sull’accecamento attuale. Il bue e l’asino riconoscono, ma “Israele non conosce e il mio popolo non comprende”.
Chi sono oggi il bue e l’asino, chi “il mio popolo” che non comprende? Da che cosa si riconoscono il bue e l’asino, da che cosa si riconosce “il mio popolo”?


Perché mai gli esseri privi di ragione riconoscono e la ragione è ceca?
Per trovare una risposta dobbiamo tornare ancora una volta con i Padri della Chiesa al primo Natale. Chi non riconobbe? Chi riconobbe? E perché ciò si verificò?

 

Orbene, a non riconoscere fu Erode. Egli non comprese nulla quando gli parlarono del Bambino, anzi, fu ancora più accecato dalla sua sete di potere e dalla conseguente mania di persecuzione(Mt 2,3). A non riconoscere fu “tutta Gerusalemme con lui” (ivi). A non riconoscere furono i dotti, i conoscitori delle Scritture, gli specialisti dell’interpretazione che conoscevano con esattezza il passo biblico giusto e tuttavia non compresero nulla (Mt 2,6).

 

A riconoscere furono invece “il bue e l’asino” – se paragonati con queste persone rinomate -: i pastori, i magi, Maria e Giuseppe. Poteva mai essere diversamente? Nella stalla, dove è lui, non abitano le persone raffinate, lì sono di casa appunto il bue e l’asino.
E la nostra posizione qual è? Siamo tanto lontani dalla stalla appunto perché siamo troppo raffinati e intelligenti per questo? Non ci perdiamo anche noi in una dotta esegesi biblica, nei tentativi di dimostrare l’inautenticità o l’autenticità storica di un certo passo, al punto da divenire ciechi nei confronti del Bambino e non percepire più nulla di lui? Non viviamo anche noi troppo in “Gerusalemme”, nel palazzo, racchiusi in noi, nella nostra autonomia, nella nostra paura di persecuzione, sì da non riuscire più a percepire di notte la voce degli angeli, unirci ad essa e adorare?


In questa notte i volti del bue e dell’asino ci rivolgono perciò questa domanda: il mio popolo non comprende, comprendi tu la voce del tuo Signore?


Quando collochiamo le statuine nel presepio, dovremmo pregare Dio di concedere al nostro cuore quella semplicità che riconosce nel Bambino il Signore, come fece una volta Francesco a Greccio. Allora potrebbe succedere anche a noi quanto Tommaso da Celano, quasi con le stesse parole di san Luca relative ai pastori del primo Natale (Lc 2,20), dice dei partecipanti alla messa di mezzanotte di Greccio: tutti se ne tornarono a casa pieni di gioia.
 

Da Joseph Ratzinger, “Immagini di speranza: Le feste cristiane in compagnia del Papa”, Edizioni San Paolo 2005 

Pubblicato da Raffaella a 20.30