I SOFFERENTI IN CATTEDRA – Mons. Sergio Pintor
Inviato: 11/09/2006 11.30 |
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La crisi dell’economia globale ha spinto alcuni a dare “letture” catastrofiche sulla fine del capitalismo. E anche da alcuni settori del mondo cattolico sono partiti affondi dello stesso tono, quasi che il capitalismo fosse male in sé, una forma radicalmente in antitesi all’esperienza cattolica.
Guardi che il capitalismo nasce sicuramente cattolico quale frutto del genio dell’uomo. Basti pensare ai monasteri benedettini, veri e propri cluster, dove tutt’intorno fioriva il benessere. Si lavorava in coscienza, perché si riconosceva un senso del fare. Si produceva ricchezza che poteva essere distribuita. C’erano idee, innovazione tecnologica. Infatti non è stato Leonardo a bonificare le paludi, ma i benedettini mille anni prima.
Poi il capitalismo si è deformato. Allontanandosi dall’uomo e introducendo una visione puramente materiale del realizzare affari. Egoistica. Un egoismo fondato sulla presunzione che lavorare per sé fa anche il bene degli altri in quanto estende a loro i vantaggi acquisiti. In cinquecento anni il capitalismo si è conquistato la sua autonomia morale. Ed è l’uomo incline a visioni così fatte che ha determinato questo percorso presuntuoso.
L’errore sarebbe quello di definire etico o non etico il capitalismo, come l’economia, come la finanza. Questi sono tutti strumenti. È come l’uomo li utilizza nella sua moralità di dominatore che li rende etici, che li fa strumenti portatori di bene o di male. La chiave di tutto è sempre l’uomo, l’uomo con le sue scelte. Di qui non si scappa. [en.ma]
Da TEMPI N.49 4 Dic.2008
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Da ” LE STAZIONI DELL’AMORE“
di Angelo Nocent
Agli amici della COMPAGNIA DEI GLOBULI ROSSI le confidenze segrete di un grande amore per Myriam,
“la Maestra e la Signora del mare di questo secolo, che lei ci fa attraversare conducendoci al cielo“. (S.Ambrogio, Exhort. ad Virgines). E’ una passione giovanile, sempre coltivata negl’anni e mai venuta meno. Una raccolta di stornelli cantati sotto il suo balcone.
Per parlare degnamente di Maria, come per dipingere le sue icone, bisognerebbe essere santi.
Ma anche i peccatori conoscono la parola tenerezza.
Sono certo che Lei saprà capire e compatire.
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Torna ancora sul nostro pianeta;
c’e’ la guerra, il dolore, la fame…
Passa a prendere un te’ nelle case,
metti dentro la testa, Maria !
Santa Maria, compagna di viaggio |
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. Santa Maria, Madre tenera e forte, nostra compagna di viaggio sulle strade della vita, ogni volta che contempliamo le cose grandi che l’Onnipotente ha fatto in te, proviamo una così viva malinconia per le nostre lentezze, che sentiamo il bisogno di allungare il passo per camminarti vicino. Asseconda, pertanto, il nostro desiderio di prenderti per mano, e accelera le nostre cadenze di camminatori un po’ stanchi. Divenuti anche noi pellegrini nella fede, non solo cercheremo il volto del Signore, ma, contemplandoti quale icona della sollecitudine umana verso coloro che si trovano nel bisogno, raggiungeremo in fretta la “città” recandole gli stessi frutti di gioia che tu portasti un giorno a Elisabetta lontana. . |
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. Santa Maria, Vergine del mattino, donaci la gioia di intuire, pur tra le tante foschie dell’aurora, le speranze del giorno nuovo. Ispiraci parole di coraggio. Non farci tremare la voce quando, a dispetto di tante cattiverie e di tanti peccati che invecchiano il mondo, osiamo annunciare che verranno tempi migliori. Non permettere che sulle nostre labbra il lamento prevalga mai sullo stupore, che lo sconforto sovrasti l’operosità, che lo scetticismo schiacci l’entusiasmo, e che la pesantezza del passato ci impedisca di far credito sul futuro. Aiutaci a scommettere con più audacia sui giovani, e preservaci dalla tentazione di blandirli con la furbizia di sterili parole, consapevoli che solo dalle nostre scelte di autenticità e di coerenza essi saranno disposti ancora a lasciarsi sedurre. Moltiplica le nostre energie perché sappiamo investirle nell’unico affare ancora redditizio sul mercato della civiltà: la prevenzione delle nuove generazioni dai mali atroci che oggi rendono corto il respiro della terra. Da’ alle nostre voci la cadenza degli alleluia pasquali. Intridi di sogni le sabbie del nostro realismo. Rendici cultori delle calde utopie dalle cui feritoie sanguina la speranza sul mondo. Aiutaci a comprendere che additare le gemme che spuntano sui rami vale più che piangere sulle foglie che cadono. E infondici la sicurezza di chi già vede l’oriente incendiarsi ai primi raggi del sole. . |
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. Santa Maria, Vergine del meriggio, donaci l’ebbrezza della luce. Stiamo fin troppo sperimentando lo spegnersi delle nostre lanterne, e il declinare delle ideologie di potenza, e l’allungarsi delle ombre crepuscolari sugli angusti sentieri della terra, per non sentire la nostalgia del sole meridiano. Strappaci dalla desolazione dello smarrimento e ispiraci l’umiltà della ricerca. Abbevera la nostra arsura di grazia nel cavo della tua mano. Riportaci alla fede che un’altra Madre, povera e buona come te, ci ha trasmesso quando eravamo bambini, e che forse un giorno abbiamo in parte svenduto per una miserabile porzione di lenticchie. Tu, mendicante dello Spirito, riempi le nostre anfore di olio destinato a bruciare dinanzi a Dio: ne abbiamo già fatto ardere troppo davanti agli idoli del deserto. Facci capaci di abbandoni sovrumani in Lui. Tempera le nostre superbie carnali. Fa’ che la luce della fede, anche quando assume accenti di denuncia profetica, non ci renda arroganti o presuntuosi, ma ci doni il gaudio della tolleranza e della comprensione. Soprattutto, però, liberaci dalla tragedia che il nostro credere in Dio rimanga estraneo alle scelte concrete di ogni momento sia pubbliche che private, e corra il rischio di non diventare mai carne e sangue sull’altare della ferialità. . |
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. Santa Maria, Vergine della sera, Madre dell’ora in cui si fa ritorno a casa, e si assapora la gioia di sentirsi accolti da qualcuno, e si vive la letizia indicibile di sedersi a cena con gli altri, facci il regalo della comunione. Te lo chiediamo per la nostra Chiesa, che non sembra estranea neanch’essa alle lusinghe della frammentazione, e della chiusura nei perimetri segnati dall’ombra del campanile. Te lo chiediamo per la nostra città, che spesso lo spirito di parte riduce così tanto a terra contesa, che a volte sembra diventata terra di nessuno. Te lo chiediamo per le nostre famiglie, perché il dialogo, l’amore crocifisso, e la fruizione serena degli affetti domestici, le rendano luogo privilegiato di crescita cristiana e civile. Te lo chiediamo per tutti noi, perché, lontani dalle scomuniche dell’egoismo e dell’isolamento, possiamo stare sempre dalla parte della vita,là dove essa nasce, cresce e muore. Te lo chiediamo per il mondo intero, perché la solidarietà tra i popoli non sia vissuta più come uno dei tanti impegni morali, ma venga riscoperta come l’unico imperativo etico su cui fondare l’umana convivenza. E i poveri possano assidersi, con pari dignità, alla mensa di tutti. E la pace diventi traguardo dei nostri impegni quotidiani. . |
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. Santa Maria, Vergine della notte, noi t’imploriamo di starci vicino quando incombe il dolore, e irrompe la prova, e sibila il vento della disperazione, e sovrastano sulla nostra esistenza il cielo nero degli affanni o il freddo delle delusioni, o l’ala severa della morte. Liberaci dai brividi delle tenebre. Nell’ora del nostro Calvario, tu, che hai sperimentato l’eclisse del sole, stendi il tuo manto su di noi, sicché, fasciati dal tuo respiro, ci sia più sopportabile la lunga attesa della libertà. Alleggerisci con carezze di madre la sofferenza dei malati. Riempi di presenze amiche e discrete il tempo amaro di chi è solo. Spegni i focolai di nostalgia nel cuore dei naviganti, e offri loro la spalla perché vi poggino il capo. Preserva da ogni male i nostri cari che faticano in terre lontane e conforta, col baleno struggente degli occhi, chi ha perso la fiducia nella vita. Ripeti ancora oggi la canzone del Magnificat, e annuncia straripamenti di giustizia a tutti gli oppressi della terra. Non ci lasciare soli nella notte a salmodiare le nostre paure. Anzi, se nei momenti dell’oscurità ti metterai vicino a noi e ci sussurrerai che anche tu, Vergine dell’avvento, stai aspettando la luce, le sorgenti del pianto si disseccheranno sul nostro volto. E sveglieremo insieme l’aurora. Così sia. . |
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( Tonino Bello, “Maria, donna dei nostri giorni” ) |
L
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OH STUPORE IMMENSO!
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Comune di Madignano
CARLO MANZIANA VESCOVO DI CREMA
Prega di voler accettare le proprie vivissime condoglianze per la morte della santa sorela Cecilia, sicuro che ormai dasl suo doloroso calvario sarà salita nella gloria e nella pace del Paradiso per celebrare l’eterna Pasqua, assicura la sua preghiera più fervida e invia la benedizione più copiosa.
f.to
+ Carlo Manziana vescovo
“Non sono andata a Lourdes a chiedere alla Madonna la guarigione, ma la perfezione. Appena immersa nella piscina per incanto tutti i miei dolori sono scomparsi. Avrei voluto gridare al miracolo, invece ho riofferto la mia vita con tutte le sofferenze per la santificazione dei sacerditi e per le altre sante intenzioni”.
Sulla sua tomba, all’ingresso, a destra, si legge:
QUI GIACE
CECILIA MARIA CREMONESI
VOLONTARIA DEL DOLORE
SOFFERTO PER AMORE DI DIO
OFFERTO PER AMORE DEL PROSSIMO
” E’ con gioia nell’amore di Gesù che mi offro vittima per i sacerdoti e per i bisogni della Chiesa.
La Chiesa Parrocchiale di San Pietro
(Il Nuovo Torrazzo, 12/05/2007)
Il vescovo Oscar, con apposito atto, ha approvato la costituzione del Comitato – sorto per iniziativa di un gruppo di parrocchiani di Madignano e di San Benedetto, con il consenso dei rispettivi Consigli pastorali – che lavora per promuovere la Causa di beatificazione e canonizzazione di Cecilia Maria Cremonesi.
Tra le iniziative programmate ricordiamo il depliant diffuso sabato scorso con il nostro giornale, grazie al quale è stato possibile far conoscere a molti la figura straordinaria di questa donna. Domani, domenica 13 maggio, anniversario della nascita di Cecilia, si terrà invece una doppia celebrazione, alla quale tutti sono ovviamente invitati: alle ore 17 un momento di preghiera sulla sua tomba a Madignano, seguita alle 18 dalla messa nella parrocchiale.
Si tratta di momenti molto significativi per coloro che hanno conosciuto personalmente Cecilia e desiderano farne memoria nella preghiera, ma anche per quelli che vogliono conoscere la vita e la spiritualità di questa volontaria della sofferenza.
Per voi tutti, fratelli provati, visitati dalla sofferenza dai mille volti, la Chiesa ha un messaggio tutto speciale. Sente fissi su di sé i vostri occhi imploranti, luccicanti di febbre o accasciati dalla stanchezza, sguardi imploranti, che cercano invano il perché della sofferenza umana e che domandano ansiosamente quando e da dove verrà il conforto.
Fratelli carissimi, noi sentiamo profondamente risuonare nei nostri cuori di padri e di pastori i vostri gemiti e i vostri lamenti. E la nostra pena si accresce al pensiero che non è sempre in nostro potere procurarvi la salute corporale, né la diminuzione dei vostri dolori fisici, che medici, infermieri e tutti quelli che si consacrano ai malati si sforzano di alleviare come meglio possono.
Abbiamo però qualche cosa di più profondo e di più prezioso da darvi: la sola verità capace di rispondere al mistero della sofferenza e di arrecarvi un sollievo senza illusioni: la fede e l’unione all’Uomo dei dolori, al Cristo, Figlio di Dio, messo in croce per i nostri peccati e per la nostra salvezza. Gesù non ha soppresso la sofferenza; non ha neppure voluto svelarcene interamente il mistero: l’ha presa su di sé, e questo basta perché ne comprendiamo tutto il valore.
O voi tutti che sentite più gravemente il peso della croce, voi che siete poveri e abbandonati, voi che piangete, voi che siete perseguitati per la giustizia, voi di cui si tace, voi sconosciuti del dolore, riprendete coraggio: siete i preferiti del regno di Dio, il regno della speranza, della felicità e della vita; siete i fratelli del Cristo sofferente; e con lui, se lo volete, voi salvate il mondo!
Ecco la scienza cristiana della sofferenza, la sola che doni la pace. Sappiate che non siete soli, né separati, né abbandonati, né inutili: siete i chiamati da Cristo, la sua immagine vivente e trasparente. Nel suo nome, la Chiesa vi saluta con amore, vi ringrazia, vi assicura l’amicizia e l’assistenza e vi benedice (Concilio Vaticano II, Messaggi all’umanità)
PAOLO VI
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 30 agosto 1967
Stimare, sovvenire, prediligere i sofferenti
IL FRATERNO SERVIZIO AGLI INFERMI
Diletti Figli e Figlie!
Salutiamo fra i vari gruppi presenti quello che si qualifica col titolo di «Apostolato della sofferenza» e che merita, proprio per questo titolo, una speciale Nostra considerazione. Lo salutiamo e lo benediciamo, rivolgendo il Nostro affettuoso pensiero a quanti promuovono ed assistono questa ed ogni altra forma di spirituale assistenza e di fraterno servizio agli ammalati; e agli ammalati stessi corre il Nostro pensiero e si estende dappertutto, dovunque sono infermi, pazienti e minorati, dovunque il dolore fisico, e con esso quello morale, tormenta, mortifica ed umilia membra umane, quelle specialmente di fratelli Nostri nella fede e figli Nostri, come appartenenti al gregge di Cristo, che di esso Ci ha fatto pastore. Ricordiamo tutti questi aggregati alla immensa e diffusa città del dolore, negli ospedali, nelle cliniche, negli ospizi, ed anche più quelli che sono rimasti nelle loro case, custoditi dalla pietà e dalla bontà dei loro familiari, e quelli ancora che mancano di assistenza sanitaria e di conforto spirituale, portando con la pena della malattia quella, spesso non meno grave, della solitudine e della povertà. Noi abbiamo ancora presenti gli incontri, sempre per Noi commoventi ed ammonitori, che avemmo occasione, e quasi vorremmo dire fortuna, di avere con l’umana sofferenza, misteriosa e pietosa nei bambini, e quasi intollerabile nei giovani, nelle vittime del lavoro e del dovere, nelle persone su cui appoggia la cura d’una famiglia, desolata anch’essa per la malattia di chi ne era il cuore ed il sostegno; e quella triste e quasi senza speranza dei vecchi, dei cronici, degli alienati. Oh, fratelli sofferenti, oh, figli doloranti sparsi nel mondo, Noi vorremmo che la Nostra voce arrivasse a tutti ed a ciascuno di voi per ripetervi, mentre Noi stessi piangiamo con voi, la parola di Gesù, l’uomo del dolore: «Non piangere» (Luc. 7, l3)!
LA DOTTRINA CRISTIANA DEL DOLORE
Perché questa nostra compassione? Per il sentimento comune che rende sensibile chi ha cuore d’uomo verso il dolore dei suoi simili, e lo sollecita, per uno dei più nobili impulsi della natura umana, a dirsi ed a farsi solidali e pronti al soccorso dei mali altrui? Sì, certamente; noi, uomini come siamo, vogliamo essere partecipi a questa compassione filantropica, che fa gli uomini civili e stringe gli uni e gli altri nei vincoli sentimentali e morali di una sorte comune; vogliamo anzi onorare l’educazione e l’organizzazione, che la nostra società moderna, ripudiando certa rediviva spietata fierezza pagana verso i deboli e verso i sofferenti, va saggiamente promovendo. Ma dobbiamo aggiungere che noi, come seguaci di Cristo, e ministri della sua parola e della sua carità, abbiamo anche altri motivi per curvarci, con immensa riverenza e con vivissimo interesse, su quanti soffrono e piangono.
La dottrina cristiana sul dolore è un’enciclopedia; investe tutta la vita umana, pervade la storia della redenzione, entra nella pedagogia ascetica e nell’iniziazione mistica, si collega col destino eterno dell’uomo. Se in questo breve momento vogliamo contentarci d’uno sguardo su questo vasto mondo, dove il conflitto fra il male ed il bene sembra placarsi nella sublimazione della sofferenza, cercando un sentiero per percorrerlo ed esplorarlo, potremo soffermarci sulla considerazione della posizione che il cristiano occupa nella Chiesa. La Chiesa è il Corpo mistico di Cristo; ogni cristiano è un vivente inserito in questa comunione soprannaturale, dove nessuno è confuso, dimenticato ed inutile: ciascuno è membro; cioè ha una sua funzione insostituibile da compiere, ciascuno una vocazione sua propria, articolata ed armonizzata con quella di tutti gli altri membri del corpo ecclesiastico; e tutti traggono identica vita e ordine singolare dall’unione col Capo della Chiesa: Cristo, il Quale effonde il suo Spirito vivificante in tutta la compagine dei cristiani. Ognuno è cristiforme.
SUBLIMITÀ DI COOPERAZIONE CON IL REDENTORE
Già questa è verità consolantissima per chi soffre. Nessuno soffre solo. Nessuno soffre inutilmente. Anzi, secondo panorama, chi soffre ha titoli speciali per avere maggiore partecipazione alla comunione con Cristo: nel sofferente, ce lo ricorda il Concilio (Lumen Gentium, n. 8), si rispecchia in maniera più fedele l’immagine di Cristo; più intima, possiamo dire, se Gesù stesso ha voluto identificarsi con i minimi suoi fratelli (cf. Matth. 25, 35 ss.); chi soffre diventa, in modo singolare, conforme al Signore (cf. Apostolicam actuositatem, n. 16 in fine).
Di più: chi soffre, chi soffre con Cristo, coopera alla redenzione di Cristo, secondo la celebre e luminosa teologia di San Paolo: «Compio nella mia carne ciò che manca alle passioni di Cristo a vantaggio del corpo di Lui, che è la Chiesa» (Col. 1, 24). Il sofferente non è più inerte e di peso negativo per la società umana e spirituale a cui appartiene; è un elemento attivo; è uno, come Cristo, che patisce per gli altri; è un benefattore dei fratelli, è un ausiliario della salvezza. Solo che questa estrema valorizzazione del dolore esige due condizioni: l’accettazione e l’offerta, l’accettazione paziente e capace d’intuire (altra meravigliosa visione del dolore cristiano!) d’intuire un ordine dietro e dentro il dolore stesso, la mano paterna, anche se grave, del medico divino che sa trarre il bene, un bene superiore, da un male, il male della sofferenza; e l’offerta, che al dolore dà valore proprio della vittima, che annulla in se stessa le esigenze della giustizia e che da se stessa trae la somma espressione dell’amore; dell’amore che dà, dell’amore totale.
L’EROISMO ANNUNCIATO DALL’APOSTOLO PAOLO
Oh! Quanto vi sarebbe da meditare e da dire su queste prospettive cristiane del dolore, le quali sembrano e sono estremamente lontane dalla concezione naturalistica della vita, ma sono, in pari tempo, di facile conquista per chi sente e subisce e patisce la severa e spesso atroce realtà del dolore. E aggiungiamo l’ultimo paradosso: di facile godimento. Ditelo voi, cari malati cristiani; ditelo voi, cari sofferenti delle più varie pene, che avete fede in Cristo Signore, e che proprio in virtù di codeste pene sperimentate una strana, ineffabile comunione col Crocifisso; non potete forse anche voi, in un impeto interiore di eroismo cristiano, ripetere le parole dell’Apostolo: «Sovrabbondo di gaudio in ogni tribolazione nostra» (2 Cor. 7, 4)? Sia detto tutto questo ad istruzione nostra: così è la vita cristiana; e sia detto a consolazione dei Nostri figli e fratelli sofferenti, con la Nostra confortatrice Benedizione Apostolica.
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GLI AMICI DI Weil Im Schönbuch
3° FESTIVAL DELLA CANZONE ITALIANA
DAGLI ITALIANI ALL ‘ESTERO UNA LEZIONE DI VITA
Voce di uno che grida nel deserto…
Visitate il nuovo sito di San Riccardo Pampuri. nella “Messa” figurate anche voi. La Chiesa che si dilata…
Tratteniamo il fiato giusto il tempo di intuire quanto ci vogliamo bene
e dipingo a modo mio il mondo intorno a me,
come un bambino nel tempo che non perde mai la sua curiosità,
è l’istinto che mi fa volare via di qua.
Un bambino nel tempo non si arrende mai, cerca la felicità,
E dipingo a modo mio il mondo intorno a me.
Come un bambino nel tempo che non perde mai la sua curiosità,
è l’istinto che mi fa cambiare la realtà.
Un bambino nel tempo non si arrende mai, ma cerca la felicità
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Gesù tramite don Emedka si fà pane |
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Ecco il Miracolo di ogni domenicaOggi ha Messa pensavo: e se non avremmo piú sacerdoti ?Dove prenderemmo la forza per cercare di essere buoni cristiani cosí come piace a LUI ?Grazie Signore per averci dato don Carlo e don Emeka uomini di fede e servi di Dio. |
In cosí poco tempo dall’arrivo di don Emeka é giá nato il gruppo
L’ALBERO DELLA VITA
Con un bel sorriso e tanta allegria le donne si sono messe al servizio della Comunitá.servendo caffé e torte.
La Comunitá in festa
ci siamo incontrati tanti vecchi amici ed é nata la Chiesa fuori Chiesa.
BUON AVVENTO A TUTTI | 08.12.2006 |
:: BUON AVVENTO A TUTTI ::
Vieni e rinasci in noi
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POETICA
in costruzione
E La Parola
nel silenzio
è Luce
Da dove giungi a me
- mi chiedo -
Tu che mi salvi?
E mi rispondi
che Tu sei nell’ uomo.
Ci sei, ci stai
per farlo emergere
dal caos che lo circonda,
dal nulla su cui pende.
Tu che rigeneri
il nostro modo di pensarTi,
trapassa il mio sapere
già costituito
ed io confesserò
davanti a te e al mondo
il mio stupore sommo.
Gesù, Tu sei per me
il solo, il vero,l’ unico
criterio di giudizio.
Ti amo
sorella notte
che ci porti
le stelle.
E’ vero Signore
che ancora oggi
Ti commuovi
davanti ai malati?
E’ vero Signore
che ancora oggi
chi Ti tocca soltanto il vestito
guarisce?
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Avvenire, 5 aprile 2007
http://www.adonaj.net/old/parabole/samaritano.htm
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Chopin Nocturne in c# minor opus posthumous, Sean Bennett, piano
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Nasce l’11 marzo del 1912 ed è ordinato sacerdote, a Milano, nel 1939.
Intensissima la sua vita: dall’attività di docente di filosofia presso il Collegio Arcivescovile S.Carlo di Milano, alla sua opera di assistente spirituale della FUCI, al suo lavoro di Ispettore delle Scuole di Religione presso la segreteria dell’ufficio catechistico dove risultava aggiunto per la sezione Apologetica, al suo lavoro di giornalista per l’Italia prima ed in seguito per Avvenire.
Fu con il card. Montini tra i fondatori de “Il Segno”, che diresse per vent’anni e uno degli animatori più entusiasti di ogni iniziativa diocesana prima tra tutte la Missione di Milano.
Assistente regionale dell’ASCI contribuì a ricostituire, durante il periodo fascista, le “Aquile Randagie”, il movimento scout clandestino. Fa il suo ingresso solenne come parroco al Suffragio il 4 ottobre 1959 e vi rimane fino al 5 agosto 1980 giorno della sua tragica morte a Tours.
FACCIAMO MEMORIA
La frenetica attività edilizia di don Portaluppi ha praticamente lasciato ben poco da fare ai suoi successori, ma se sono poche le opere materiali e artistiche che possiamo ascrivere alla volontà di don Ghetti, perchè don Angelo Portaluppi aveva praticamente esaurito tutto il fattibile, non sono elencabili le iniziative attivate in parrocchia, soprattutto per i giovani e per chiunque avesse bisogno. Negli anni ’60 sono una trentina i gruppi attivi, a diverso titolo, nella comunità. Ognuno poteva trovare nelle molteplici associazioni la forma più adatta per prendere il proprio posto nella chiesa: per “sporcarsi le mani”.
Sarà ricordato soprattutto per la volontà di SERVIRE, secondo la legge scout, fino in fondo: “La vita vale come dono, come servizio, come amore!” è stato trovato scritto tra i suoi appunti e per la sua attenzione all’uomo nella molteplice sfaccettatura dei suoi problemi e della sue situazioni.
Se per don Portaluppi l’alfa e l’omega della permanenza tra noi sono costituiti dall’effige del Sacro Cuore, per don Andrea la sua alfa ed il suo omega sono costituiti da una mensa per i lavoratori e dalla Mensa per il Cristo. Infatti nel 1960 , al suo arrivo, ristruttura il piano terreno della canonica, dando più spazio ai ragazzi dell’oratorio per giocare, e fa realizzare un bar-mensa per i molteplici lavoratori pendolari che operano in zona e grazie a questa istituzione, hanno un servizio utile e confortevole.
Nel dicembre del 1979 viene invece consacrata la nuova Mensa eucaristica realizzata secondo le indicazioni del Concilio Vaticano II.
Attivo, dinamico, mai domo ci piace ricordarlo come don Giorgio Basadonna nel saluto del 14 agosto del 1980: “… Qualcosa è cambiato dentro di noi. Ci siamo riforniti di coraggio e di entusiasmo, ci stringiamo la mano, ci guardiamo in volto e ciascuno riparte col suo zaino carico di speranza e di dolore sull’unica grande strada che conduce a Dio. Ciascuno sente che tu sei ancora presente,ci accompagni,ci sostieni e cammini con noi”.
(G.Basadonna … Sempre pronto! un profilo di don Andrea Ghetti)
ne (era nato nel 1912). E il metodo educativo dell’associazione lo avrebbe segnato. «Mi ha impresso alcune caratteristiche che sono rimaste per tutta la vita: una ricerca della verità, anche se talvolta duramente pagata, capacità di iniziativa, il coraggio di ricominciare sempre dopo ogni sconfitta, la gioia del servizio», avrebbe ripetuto più volte. Una fedeltà allo scoutismo che don Ghetti non ha rinnegato anche quando espresse le sue riserve sulla fusione tra le due associazioni, maschile e femminile, da cui sarebbe nata l’attuale «Agesci».
ne (era nato nel 1912). E il metodo educativo dell’associazione lo avrebbe segnato. «Mi ha impresso alcune caratteristiche che sono rimaste per tutta la vita: una ricerca della verità, anche se talvolta duramente pagata, capacità di iniziativa, il coraggio di ricominciare sempre dopo ogni sconfitta, la gioia del servizio», avrebbe ripetuto più volte. Una fedeltà allo scoutismo che don Ghetti non ha rinnegato anche quando espresse le sue riserve sulla fusione tra le due associazioni, maschile e femminile, da cui sarebbe nata l’attuale «Agesci».
Non ho conosciuto personalmente mons. Andrea Ghetti, parroco in S. Maria del Suffragio dal 1959 al 1980, ma avendo ascoltato tante persone, avendo letto qualcosa di lui, ma soprattutto avendo toccato con mano la sua presenza, tuttora potente e significativa nel tessuto della mia comunità parrocchiale – in particolare nel mondo dei giovani (Scout) e della caritativa – me lo immagino così: come un’icona della Pentecoste.
Mons. Tonino Bello ha scritto:
Troppe volte dimentichiamo che i simboli della Pentecoste non sono il divano, la sedia, le pantofole, la camomilla, il nostro chiuderci dentro la nostra casa, la tv accesa, ma sono il vento, il fuoco – simboli forti che indicano passione, vita, fantasia, creazione, movimento. Lo Spirito Santo ci scaraventa nel mondo. Ci vuole creature di azione, di movimento.
Don Andrea me lo immagino proprio così: creatura di azione scaraventata nel mondo, «con il fuoco nel cuore e ai piedi le ali».
Mi conduce a questa immagine l’omelia tenuta al suo funerale da Sua Ecc.za mons. Libero Tresoldi:
Un prete che non poteva essere rinchiuso in un ambito pur così bello così grande e così ricco come quello di una comunità parrocchiale. Eccolo allora pronto quando l’esigenza del servizio lo chiama là dove si manifestano le situazioni più imprevedibili e più difficili.
«La vita vale come dono, come servizio, come amore» è stato il suo motto e lo Scoutismo ha esaltato in maniera formidabile le sue doti, i suoi sogni. Così si descrive:
Lo Scoutismo a me personalmente ha dato molto. Mi ha impresso alcune caratteristiche che sono rimaste per tutta la mia vita di prete: una ricerca della verità anche se talvolta duramente pagata, capacità di iniziativa, il coraggio di ricominciare sempre da capo dopo ogni sconfitta, la gioia del servizio.
E nella gioia del servizio di tutti e dei poveri in particolare ha trovato Dio e ha fatto trovare Dio a molti. Come mirabilmente ci comunica questo racconto:
Un antico asceta orientale, noto in tutto il mondo per la sua santità, viveva circondato da alcuni discepoli che ammaestrava con i suoi insegnamenti.
Dopo tre anni di vita comune, tre di quei discepoli vollero cominciare la loro missione nel mondo.
Dieci anni più tardi tornarono a far visita al maestro. Ognuno gli raccontò la propria esperienza:
«Io – incominciò il primo con una punta d’orgoglio – ho scritto tanti libri e venduto milioni di copie».
«Tu hai riempito il mondo di carta», disse il maestro.
«Io – prese a dire il secondo con fierezza – ho predicato in migliaia di posti».
«Tu hai riempito il mondo di parole», disse il maestro.
Si fece avanti il terzo: «Io ti ho portato questo cuscino perché tu possa appoggiare senza dolore le tue gambe malate», disse.
«Tu – sorrise il maestro – tu hai trovato Dio».
E in un uomo della Pentecoste non poteva mancare il colore della festa e dell’amicizia: don Andrea è stato un amico splendido e prezioso. Fanno testo due testimonianze folgoranti.
La prima è di don Giorgio Basadonna che così lo salutava il 14 agosto del 1980:
Siamo qui a farti festa, Baden.
Ogni volta
che ci si incontrava con te,
era sempre una festa,
perché tu portavi
la tua nota di gioia,
di entusiasmo, di fiducia,
perché tu andavi sempre
fino in fondo
e davi coraggio e ottimismo.
La seconda, ancora più suggestiva e intrigante, è quella del suo Arcivescovo Giovan Battista Montini che così gli scriveva nel gennaio del 1962:
La tua solidarietà, la tua amicizia, il tuo impegno pastorale mi consolano assai e sorreggono la mia debolezza a lavorare, la mia tristezza a sperare.
Splendida l’umanità dolorante di Montini, invidiabile questa amicizia!
Nel secondo libro dei Re si racconta il rapimento di Elia in cielo:
Elia disse a Eliseo: «Domanda che cosa io debba fare per te prima che sia rapito lontano da te».
Eliseo rispose: «Due terzi del tuo spirito diventino miei».
Quegli soggiunse: «Sei stato esigente nel domandare. Tuttavia se mi vedrai quando sarò rapito lontano da te, ciò ti sarà concesso; in caso contrario non ti sarà concesso». (2 Re 2,9-10)
Io non ho visto «rapire» don Andrea ma oso chiedere al Signore: che almeno un terzo del suo spirito passi in me, parroco in S. Maria del Suffragio dal 1994.
Don Mirko
dall’Informatore Parrocchiale – luglio 2000
Mons. Andrea Ghetti “Baden”
Nel passato non mi sono mai posto il problema della mia sepoltura, tanto mi sembrava irrilevante. Ieri, però, ho deciso di lasciar detto che mi dispiacerebbe esser sepolto a Milano. Non è che ce l’abbia coi milanesi, brava gente senz’altro. In certi settori sono i migliori d’italia, ma a seppe lire i morti proprio non ci sanno fare. Non si può manovrare le bare con la catena di montaggio!
Tu arrivi a Musocco per accompagnare un tuo carissimo amico nell’ultima “route” e ti trovi improvvisamente di fronte ad una specie di fossa comune, fonda due metri e lunga cinquanta: man mano che arrivano le bare vengono calate a distanza uguale una dall’altra, come in una zona colpita da grave calamità naturale. Verso sera, passa la ruspa e copre tutti.
Roba da milanesi, che a noi romagnoli fa senso.
Forse lo scatolificio Schiassi, che ho in parrocchia, può sistemare così in fila la produzione in magazzino, ma mi rifiuto di accettare che si possa fare altrettanto coi defunti.
In Romagna è vivo il culto dell’individualità, tanto è vero che si usano ancora molto i nomi strani ed originali e quando, per poca fantasia dei genitori, uno si chiama solo Giuseppe o Pietro, allora si vede affibbiare un soprannome colorito, che valorizza la sua personalità.
Non devono esserci confusioni: se ogni uomo – come dice Chesterton – è una parola di Dio che non si ripete mai, allora deve avere un segno distintivo che lo faccia riconoscere con sicurezza tra gli altri.
Ho sottomano il bando contro il”Passatore” del Commissario Pontificio per le quattro legazioni. Ogni membro della banda è descritto con molti particolari somatici, per favorire il riconoscimento a chi desiderasse collaborare con la giustizia. A fianco di ogni nome è sempre segnato, in apposita casella il soprannome: Lasagna, Mattiazza, Teggiolo, Ghigno, ecc. In Romagna si è sempre usato così perché gli abitanti sono tutti un po’ anarchici e repubblicani: ognuno è una repubblica per conto suo una specie di S. Marino in miniatura. Anche dopo la morte c’è il rispetto dell’individualità: ognuno ha diritto alla “ sua” buca o alla sua lapide originale, e i cimiteri non danno mai l’idea di un esercito di morti schierati in attesa dell’ispezione. Casomai è un esercito di garibaldini: ognuno ha la sua brava divisa fuori ordinanza ed anche dopo morto deve conservare un certo spirito bersaglieresco. Vuole infatti la tradizione, che i bersaglieri dopo morti sappiano fare ancora sette salti.
Qualcuno mi chiederà perché stia facendo questa specie di dissertazione sui romagnoli passati a miglior vita. È un atto di doverosa solidarietà verso il mio amico, il mio fratello scout, le cui spoglie mortali erano ieri laggiù allineate, in attesa della scarica di terra dell’impietosa ruspa milanese.
Per nascita era metà romagnolo, ma per temperamento molto di più e mi ha dato molto fastidio vederlo invece sistemato secondo la rigida e anonima disciplina funeraria ambrosiana.
lo credo che don Andrea, o meglio “ Baden” (da buon romagnolo si era infatti scelto un soprannome più personalizzato) starebbe meglio sepolto nel piccolo cimitero di VaI Codera, la dove ognuno, anche dopo morto, rimane qualcuno e non un numero e una lapide uguale alle vicine.
Che don Andrea avesse una origine romagnola credo Io si possa affermare senza dubbi anche senza ripercorrere la storia della sua famiglia.
Basti pensare, per esempio, al soprannome: di Baden tutti sanno che n’è esistito già uno ma quello si chiamava anche Powell. Credo che don Andrea da giovane si fosse ispirato proprio al buon vecchietto fondatore dello scautismo per scegliere il soprannome. Era un segno d’affetto, di rispetto e di fedeltà che sottolineava la scelta precisa di uno stile di vita caratterizzante. Il soprannome per don Andrea era una specie di uniforme che evidenziava i tratti, già tanto marcati, della sua ricca personalità.
lo ho sempre fatto fatica a chiamarlo “Baden”, preferendo il nome di battesimo, ma ora mi accorgo che quel soprannome, prima che per gli altri, era per lui una bandiera, un cappello piumato, un’armatura, il segno di una fedeltà allo scautismo.
Questa fedeltà romagnola aveva una grande carica di sentimento; come prova basterebbe ascoltare ancora le note e le parole dei “Canti di mezzanotte”, di cui Baden fu uno degli autori, e che ebbero un ruolo importantissimo nel delineare lo stile scout – diciamo così – dell’ASCI. Vale la pena di ricordare anche che il libretto fu poi gettato nel dimenticatoio dagli iconoclasti della nuova generazione politicante, intellettualoide e sessuologa, per sostituirlo con le canzoni da osteria e della protesta chitarraia.
La fedeltà e l’amore di don Andrea allo Scautismo non potevano arrendersi alle astuzie della diplomazia; quando le cose presero una brutta piega egli denunciò il pericolo a chiare parole, a rischio di diventare impopolare. Divenne infatti un personaggio scomodo a molti e rifiutato dalle strutture. Questa sua capacità di non scendere a compromessi fa di lui uno dei personaggi chiave dello scautismo italiano. L’associazione ha resistito negli anni bui perché qualche fiaccola è rimasta a indicare il giusto cammino, mentre troppi capi ed assistenti, per mantenersi un consenso, hanno giostrato tra la contestazione ed “il riflusso”, gestendo tranquillamente prima l’una poi l’altro.
Tante robuste intuizioni, tante geniali interpretazioni dello scautismo, e del roverismo in particolare, le ha seminate col cuore don Andrea a Colico e fortunatamente sopravvivono ancora, sfidando l’usura del tempo e l’insipienza degli uomini.
Romagnolo nell’anima « Baden » lo era in pieno.
I romagnoli non sono mai stati degli amministratori ma dei pionieri. La Romagna da sempre è stata una regione di frontiera e non ha voluto perdere questa sua vocazione nemmeno dopo l’unità d’Italia. I Romagnoli, eredi dei loro antenati che avevano militato nella “decima legio” di Cesare, cercarono allora nuove frontiere nelle grandi lotte sociali, nelle bonifiche e infine, oggi li troviamo impegnati nell’avanguardia dell’organizzazione turistica.
Una lapide ad Ostia ricorda che le prime bonifiche pontine furono iniziate, all’inizio del novecento, dai braccianti romagnoli. Dopo un anno di lavoro il venti per cento erano morti di malaria ma gli altri non si arresero e rimasero tenacemente sul posto, pur di conquistare un pezzo di terra da coltivare.
Don Andrea fu sempre un “prete d’assalto”, aperto a qualsiasi impresa scout. Era capace anche di stare dietro alla scrivania parrocchiale; tante anime hanno trovato la soluzione dei loro problemi e la tranquillità della propria coscienza proprio tra le mura del sùo accogliente ufficio ma era insuperabile in un campo, in una route o in una operazione di soccorso.
La sua presenza faceva diventare quell’attività di “prima classe”, degna di diventare storia associativa se non leggenda.
Come non ricordare anche i suoi colpi di mano, i suoi blitz, organizzati per burla in vari campi nazionali.
E romagnolo non erano forse il suo modo di fare un po’ scanzonato e il suo parlare ricco di paradossi?
In Romagna, quando s’incontra un amico, in segno d’affetto gli si da una manata sulle spalle e gli si rivolge un brutto auguraccio. Chi non conosce il carattere di quella gente rimane esterefatto; c’è poi da spaventarsi assistendo ad una discussione tra due romagnoli: ad un estraneo quella animata polemica a voce alta, quei toni violenti, lasciano ragionevolmente supporre che tutto possa concludersi tragicamente e invece… terminerà tranquillamente davanti ad una bottiglia di Sangiovese.
L’irruenza nel parlare, il tono alto della voce, il calore delle parole, il gesticolare delle mani sono la manifestazione esteriore di forti convinzioni, che ognuno cerca di manifestare con tutti i mezzi della propria personalità. I canoni della espressione romagnola spesso mettono in difficoltà, se non in crisi, chi non li conosce e non sa che certi modi, qualche volta un po’ rudi, sono il segno di un animo e non di una animosità di un animo che ha il gusto della polemica, della difesa dei diritti e di una certa rivolta permanente verso l’ordine costituito. La Romagna è stata la patria o il rifugio di molti grandi rivoluzionari, che sapevano parlare col cuore ed al cuore.
Anche don Andrea ha avuto il gusto della polemica, della battaglia, magari per la difesa dell’uniforme scout. I suoi articoli sono sempre stati ispirati ad una rivoluzione permanente interiore ed anche esteriore, non per distruggere ma per costruire sempre meglio.
A Colico si corre! . I toni romagnoli sono sempre un po’ bersagliereschi ma a che cosa si ridurrebbe lo scautismo se si sedesse e perdesse la fierezza del proprio dinamismo e della propria identità?
Ora che don Andrea ci ha lasciati rimpiangeremo certo di non avergli dato, negli ultimi anni, sufficiente spazio e sufficiente ascolto.
E’ troppo facile e comodo scegliere chi diplomaticamente sa dare ragione a tutti. Don Andrea era invece un prete scomodo perché aveva il coraggio di compromettersi e di dire apertamente e di slancio il proprio parere.
Qualcuno, mi par già di sentirlo, dirà che Baden negli ultimi anni era stato messo un po’ da parte per non aver saputo comprendere la nuova situazione giovanile. lo credo che l’avesse capita fin troppo bene e che le sue reazioni fossero proprozionate al desiderio di mantenere lo scautismo un movimento di élite e di controcorrente alle mode dilaganti. Certo don Andrea non ammetteva, i compromessi e le mezze misure, che oggi ci siamo abituati ad accettare in nome di una pseudo unità associativa. Voleva che ragazzi ed adulti fossero fieri ed entusiasti di una scelta scout, capace di dar loro una marcia in più.
Non aveva simpatia per lo scautismo in blu jeans, sciatto e mimetizzato.
Ce ne fossero ancora molti di preti nello scautismo, poco o niente disposti al permissivismo ed al possibilismo e capaci di alzare la voce al momento opportuno!
Don Andrea ce ne ha dato l’esempio: la sua sofferenza, la sua polemica, l’ardore dei suoi slanci ci assicurano sul suo amore paterno verso lo scautismo. La sua morte ci lascia un po’ orfani: abbiamo perso un padre. L’associazione ha molti funzionari, molti professori, molti « quadri, ‘ ma pochi padri!
Mi è venuta anche la tentazione di paragonare don Andrea a Geremia, un romagnolo ante litteram . Anche al tempo del profeta il popolo, piuttosto che ascoltare la sua parola infuocata, che proponeva una vita difficile ed impegnativa, preferiva rivolgesi a coloro che lo blandivano e lo accarezzavano con previsioni di tranquillità e di sicurezza.
Don Andrea non era certamente per uno scautismo facile, addomesticato, che vada bene per tutti.
Rispetto alla parola data, vita rude, chiarezza d’idee, scelte impegnative e fedeltà alla Chiesa erano le note caratteristiche del suo ideale scout, un ideale ASCETICO.
Oggi invece si tende piuttosto a proporre uno scautismo sociale, che accontenti tutti, una specie di ricreatorio. Vuoi i blue jeans nell’uniforme? Eccoti i jeans. Vuoi le ragazze? Eccoti le ragazze. Camminare è fatica? allora ci sediamo e facciamo. una bella discussione; e così via.
Come per Geremia credo che anche per don Andrea fosse una grande sofferenza vedere in molti posti uno scautismo anonimo, adagiato, seguace di mode e costumi forestieri, piuttosto che lievito e luce.
Uno scautismo che insegni solo a diventare e a vivere come tutti gli altri, che renda uguali, non può piacere ad un romagnolo. Uno scout lo si deve notare subito: per il suo sorriso, la voglia di lavorare, la competenza, il desiderio di essere utile, il suo stile di comportamento: deve essere -infatti – avanti e sopra gli altri, altrimenti che esploratore è?
Per questo mi dispiace che le spoglie mortali del romagnolo don Andrea Ghetti, uno dei pochi e veri profeti dello scautismo cattolico italiano, siano diventate un numero qualsiasi di un piatto cimitero milanese invece di esser sepolte in Val Codera, in alto tra le cime dei monti.”
da Esperienze e Proge
don Annunzio
Sono stato in forse se riproporre questo brano a distanza di così tanti anni, ma poi ho deciso per il si. Ho pensato, infatti, che anche queste mie righe possano servire almeno tenere vivo un “certo” ricordo di don Andrea e della sua ricca personalità sacerdotale e scout, così difficile da trovare nei ricordi ufficiali, e farlo conoscere a quanti, specialmente per motivi di età, non hanno potuto incontrarlo.
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PIERLUIGI MICHELI:
“Eccomi! Sono pronto alla chiamata.”
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Nel giorno dell’aggregazione all’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio (o.h.)
Con i vescovi milanesi
Filed under: PIERLUIGI MICHELI medico di Dio per la città dell'uomo | No Comments »