I SOFFERENTI IN CATTEDRA – Mons. Sergio Pintor

Inviato: 11/09/2006 11.30

Nella foto, l’ esterno dell’ex Ospedale Maggiore di Milano, detto Ca’ Granda, attualmente sede dell’Università Statale. La metamorfosi la dice lunga…L’idea di mettere in cattedra i sofferenti è dei Vescovi Italiani. Noi ci limitiamo a recuperarla creandole un supporto, per ora soltanto mediale, ma non disgiuto dai sensi ( ascoltare, vedere, toccare con mano, ragionare, parlarsi…) e dal cuore (ospitare, condividere, amarsi…).

Le parole di un esperto

Milano, NoWar Mediac...“Il tema “ALLA SCUOLA DEL MALATO”, scelto per la preparazione e la celebrazione della 14a Giornata Mondiale del Malato, per essere meglio compreso e valorizzato, deve essere collocato all’interno di una visione e attuazione globale della nostra azione pastorale nel mondo della salute, in continuità e collegamento con le altre riflessioni da noi sviluppate in questi anni, in riferimento alle finalità che la stessa celebrazione della GMM si propone.

Questa collocazione più ampia e più attenta permetterà di non pensare o interpretare il tema in modo isolato o semplicemente come indicazioni, per quanto importanti, per promuovere una spiritualità del malato. Anzi, proprio a partire da questo ascolto e da un nostro metterci “alla scuola del malato”, tutti come comunità cristiana e come società e istituzioni civili, possiamo essere provocati a ripensare e a migliorare oggi la cura della salute e a riscoprire che la salute non è innanzitutto o esclusivamente un problema medico, ma è strettamente collegata a condizioni di natura culturale, sociale, politica, economica ed esistenziale.

In particolare, nella utilizzazione del presente sussidio, siamo invitati a non pensare “un malato” in astratto, ma a tutte le persone che vivono e soffrono situazioni sempre singolari con malattie diverse, alle loro famiglie, alle numerose associazioni di malati, a quei malati, spesso nascosti, quali sono i malati mentali e le tante persone che soffrono uno stato di depressione.

Fra l’altro, ad Adelaide (Australia), luogo simbolico dove dal Pontificio Consiglio per la pastorale della salute si celebrerà, l’11 febbraio 2006, la GMM, l’accento verrà messo proprio su questo tema.

Questo metterci in ascolto e “alla scuola del malato” dovrà significare, soprattutto, metterci alla scuola di colui che, assumendo su di sé ogni nostro limite umano, la nostra sofferenza e la nostra stessa morte, ci apre l’orizzonte e la certezza di una guarigione definitiva e di una salute – salvezza piena.

Al centro, infatti, del cammino formativo e promozionale nella cura della salute, dei malati e dei sofferenti, che il presente sussidio intende sostenere, c’è ancora una volta la necessità di fissare i nostri occhi sulla persona e il mistero di Gesù Cristo, in cui solo trova piena luce il mistero dell’uomo e si trova la sorgente dell’amore che cura e risana.

Con un grazie fraterno alle persone che hanno collaborato per preparare e redigere questo sussidio, auspico che esso venga utilizzato creativamente per diversi incontri formativi (gli stessi titoli interni possono essere di aiuto) nelle comunità parrocchiali, nelle strutture sanitarie, nei gruppi di operatori sanitari e pastorali, nelle associazioni dei malati e per i malati.

Con l’augurio che la preparazione e la celebrazione di questa 14a Giornata Mondiale del Malato ci aiuti tutti a crescere nell’impegno di seminare e di testimoniare quei valori ispirati dalla giustizia, dalla solidarietà e dall’amore, che possono favorire una nuova qualità nella cura della vita e della salute, a partire dal riconoscimento e dal rispetto della uguale dignità di ogni persona.

Mons. Sergio Pintor

Direttore dell’Ufficio Nazionale CEI per la pastorale della salute.

N. B. Chi vorrà fornire il suo contributo, condividere la sua esperienza…è pregato di intervenire per aiutarci a crescere.

IL LATO STERILE DEL CONSUMISMO – Ettore Gotti Tedeschi

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IL LATO STERILE DEL CON SUMISMO

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Il paradosso della modernità, che puntando sul “tutto subito e niente figli” ha frenato la crescita delle persone. Quindi l’economia. Parla il banchiere Ettore Gotti Tedeschi

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Di  Enzo Manes

La levità impulsiva del consumismo. La piaga tremenda della denatalità. I danni strutturali della teoria neo-malthusiana. Le baby sitter latinoamericane negli Stati Uniti. Il capitalismo innovativo dei monasteri benedettini. Si muove a tutto campo l’economista Ettore Gotti Tedeschi quando parla della crisi. Tra giudizi spiazzanti e storielle, come le chiama lui. E paradossi. È cattolico praticante («quasi fondamentalista, nel senso che ho dei fondamenti» dice a Tempi in avvio di conversazione) e ha fatto una carriera importante, spesa principalmente in quei luoghi che ora sono finiti sotto i riflettori, ma non per riprese di fiction.

Per 24 anni si è occupato di finanza, 12 dei quali come consulente strategico. Il primo gennaio 1993 fondava la filiale italiana del Banco Santander e oggi ricopre l’incarico di presidente della Banca Santander Consumer ed è consigliere di alcune società del gruppo.

Da gennaio 2009 il rettore dell’Università Cattolica di Milano Lorenzo Ornaghi gli ha conferito un incarico di docenza alla Scuola superiore (Aseri) e, sempre nel 2009, svilupperà un corso di Etica economica all’Università di Castellanza. Editorialista de L’Osservatore romano, Gotti Tedeschi ha cinque figli «ma con una sola moglie».

Dottor Gotti Tedeschi, sull’Osservatore Romano lei ha manifestato perplessità verso gli inviti a consumare quale rimedio infallibile per sconfiggere lo spettro della povertà che accompagna la crisi economica. Qual è il senso della sua preoccupazione?

Rispondo così. Uno degli aspetti più singolari e originali della dimensione dell’uomo economico nel mondo globale, vale a dire nel suo atteggiamento verso il consumo e il risparmio, è la sua spaccatura in tre parti: l’uomo lavoratore, l’uomo consumatore, l’uomo risparmiatore. Il primo lavora in un’impresa ubicata localmente e il suo stipendio, la sua liquidità, dipende esclusivamente dalla propria professione, che si svolge di norma dove risiede. Il secondo consuma i beni che desidera acquistare al prezzo più conveniente secondo una sua valutazione del rapporto qualità-prezzo. Il terzo prende il frutto del suo lavoro, cioè il reddito, sottrae le spese, e il guadagno lo investe. Ebbene, queste tre figure, che sono poi la stessa persona, nel mondo della globalizzazione confliggono fra di loro.

Perché?

Perché l’uomo lavoratore, per non perdere il posto, ha tutto l’interesse a che l’impresa dove presta l’opera continui a produrre, a crescere o che perlomeno regga su un piano competitivo. Purtroppo è difficile nel mondo globale, perché sono apparse sulla scena aziende di paesi come Cina e India che producono lo stesso bene a un costo più basso.

L’uomo lavoratore produce il suo reddito in un’impresa che magari nel globale non è più competitiva. Poi, quando veste i panni del consumatore, succede che comperi prodotti che non sono realizzati nel suo paese e paradossalmente potrebbero essere in concorrenza con quelli che realizza nella sua ditta. E quando entra nella parte del risparmiatore, di solito non investe su realtà italiane, guarda a chi dà la più alta remunerazione in funzione delle prospettive di rendimento-rischio. Può investire per esempio su un’impresa cinese, indiana, tedesca. Può investire su un’impresa che compete con quella in cui lavora. In sintesi: l’uomo consumatore e l’uomo investitore possono distruggere la parte di uomo lavoratore.

Perciò consumare non significa automaticamente tenere in piedi le produzioni.

Lo ha detto Jacques Attali, lo ha detto il nostro primo ministro Silvio Berlusconi: «Consumate, spendete». Ma così facendo si potrebbe ottenere esattamente l’effetto opposto. Infatti se noi consumiamo beni importati, a beneficiarne è l’economia di quei paesi produttori, non si rafforza certo la nostra. Semmai sorride solo il commerciante che vende in modo indifferenziato.

Comunque Natale chiama consumi, va da sé. Si prevedono ulteriori indebitamenti soprattutto delle fasce di reddito medio-basso. Insomma, se è vero quel che ha fin qui spiegato, è un gatto che si morde la coda?

Certo. Si dice: «Se consumi muovi l’economia». Ma questo modo di pensare rappresenta un passaggio drammatico perché sta ad indicare che la nostra economia si fonda totalmente sui consumi. Infatti anche i richiami autorevoli sono al consumo e non un cenno al risparmio. E questo fatto la dice lunga su quale sia stata la logica dello sviluppo economico negli ultimi trent’anni. Appunto, una logica di sviluppo centrata totalmente sui consumi. E ormai non è più possibile tornare indietro.

Perché non si può tornare indietro?

Perché se smetto di consumare genero un calo produttivo di un’impresa che, a quel punto, non investe e licenzia. Questa è la ragione vera per cui la crisi attuale si è avviata.

Quindi non è una crisi finanziaria?

No, non è crisi finanziaria e neppure crisi dell’economia reale. Si tratta di una crisi dei valori dell’uomo. Trent’anni fa si è avviata un’operazione culturale che ha fatto passare l’idea che non bisognasse più fare figli e che fosse opportuno abbandonare un’economia di sviluppo legata alla popolazione che cresceva organicamente e quindi alla natalità. Si è deciso così di dar vita a un’economia fondata su uno sviluppo egoistico focalizzato esclusivamente sui consumi. Il blocco delle nascite ha portato con sé la drastica riduzione degli investimenti. Se mancano i figli, che di norma introducono la categoria del lungo termine, del risparmio, la famiglia sarà logicamente più portata a godersi i redditi nell’immediato. Questa è la stortura. Il procedere degli ultimi trent’anni ha fatto crollare il “lungo termine” esaltando il “breve termine”. È la mentalità delle stock option, del corto respiro.

Insomma, abbandonando la natalità, il mondo ha deciso di vivere “a breve”.

Già. E questo ha prodotto un ribaltamento dell’intero sistema economico industriale. Il breve ci è sprofondato addosso, è crollato nelle nostre mani.

Ma se ne esce?

Racconto una storiella. Ho scoperto un fenomeno negli Stati Uniti che mi ha scioccato. Piacevolmente. Parlo della famiglia americana. Lui e lei lavorano. I nonni sono lontani, è come se non ci fossero. I figli sono a carico delle baby sitter. Che per la quasi totalità sono sudamericane, di lingua spagnola e portoghese. E lo sa cosa insegnano le baby sitter ai bambini delle famiglie americane? A pregare. Così i figli di questa generazione, cioè quelli che saranno impegnati con il lavoro nella prossima, avranno fatto scuola di religione domestica grazie agli insegnati delle loro baby sitter sudamericane. Magnifico. I valori abbandonati possono tornare con la provvidenza divina, che è addirittura legata a delle compensazioni che hanno a che fare col proprio egoismo. La natura vince sempre.

Per combattere la crisi, si invoca la riduzione delle tasse. Giusto?

Diciamola tutta, allora: le tasse non si possono ridurre. Perché il costo sociale imposto da uno sviluppo economico egoistico, a crescita demografica pari a zero, ha aumentato tutta la struttura dei costi fissi. Come le pensioni e la sanità. Soggetti che devono essere “spesati” da un numero sempre più basso di lavoratori attivi. Tutta colpa della teoria neo-malthusiana.

Sarebbe a dire?

La crisi demografica inizia con l’accettazione della teoria neo-malthusiana incentrata sui limiti dello sviluppo, laddove si afferma che le risorse economiche sulla terra sarebbero state distrutte in toto dalla crescita esponenziale della popolazione. L’esito di questo pensiero nefasto fu il progressivo diffondersi del concetto che fare tanti figli fosse ormai demenziale. E che, al contrario, fosse saggio avviare una politica di sviluppo legata alla maggiore produttività, all’efficienza e al consumismo. Oggi vediamo dove sta l’errore. E che errore!

La crisi dell’economia globale ha spinto alcuni a dare “letture” catastrofiche sulla fine del capitalismo. E anche da alcuni settori del mondo cattolico sono partiti affondi dello stesso tono, quasi che il capitalismo fosse male in sé, una forma radicalmente in antitesi all’esperienza cattolica.

Guardi che il capitalismo nasce sicuramente cattolico quale frutto del genio dell’uomo. Basti pensare ai monasteri benedettini, veri e propri cluster, dove tutt’intorno fioriva il benessere. Si lavorava in coscienza, perché si riconosceva un senso del fare. Si produceva ricchezza che poteva essere distribuita. C’erano idee, innovazione tecnologica. Infatti non è stato Leonardo a bonificare le paludi, ma i benedettini mille anni prima.

Poi il capitalismo si è deformato. Allontanandosi dall’uomo e introducendo una visione puramente materiale del realizzare affari. Egoistica. Un egoismo fondato sulla presunzione che lavorare per sé fa anche il bene degli altri in quanto estende a loro i vantaggi acquisiti. In cinquecento anni il capitalismo si è conquistato la sua autonomia morale. Ed è l’uomo incline a visioni così fatte che ha determinato questo percorso presuntuoso.

L’errore sarebbe quello di definire etico o non etico il capitalismo, come l’economia, come la finanza. Questi sono tutti strumenti. È come l’uomo li utilizza nella sua moralità di dominatore che li rende etici, che li fa strumenti portatori di bene o di male. La chiave di tutto è sempre l’uomo, l’uomo con le sue scelte. Di qui non si scappa. [en.ma]

Da TEMPI N.49 4 Dic.2008

01 – SAMARITANI O ALBERGATORI ? – Risalendo la corrente – A. Nocent

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SAMARITANI O ALBERGATORI ?

di Angelo Nocent


Pubblicato a puntate  su “Fatebenefratelli” -  da Gennaio 2005 a Dicembre 2006 http://www.fatebenefratelli.it/pg_riviste.cfm

INDICE

  • Risalendo la corrente

  • Quale ospedale ?

  • Votati all’ospitalità

  • Meglio una parabola

  • Samaritani o albergatori?

  • Da Gerusalemme a Gerico a piedi

  • Appunti per una Comunità Terapeutica Evangelica

RISALENDO LA CORRENTE

Scrive il Patriarca di Venezia Angelo Scola che, per una serie di avvenimenti di riforma sanitaria operati negli ultimi anni “ogni ospedale è permanentemente provocato a ridefinire la propria identità. All’ospedale cattolico si impone un peculiare interrogativo. Se esso è, propriamente parlando, l’erede principe della grande tradizione dell’Hospitale indiscutibilmente nata in seno alla Chiesa, come può mantenersi fedele all’impeto ideale che l’ha fatto nascere senza rinunciare ad essere, a sua volta, un centro tecnologico polispecialistico, cosa che – se si verificasse – lo espellerebbe inesorabilmente dal sistema sanitario?”

Ho volutamente riportato in fondo alle mie considerazioni sull’ospitalità una sintesi storica che ho trovato; potrebbe risultare lacunosa, ma pur sempre utile per capire da dove si viene, da che parte stiamo andando ed in compagnia di chi.

Il futuro che abbiamo davanti non è né più né meno tragico di altri momenti storici che, come marosi si sono scaraventati contro le caravelle dei Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio, talvolta ribaltandole. Tra morti, feriti e superstiti, grazie a Dio, siamo ancora qui a parlarne, non senza preoccupazione per le nuove nubi che si addensano all’orizzonte. In questo frangente si corre il rischio di temere maggiormente la burrasca economica che può paralizzare le istituzioni indebitandole oltre il ragionevole, perdendo magari di vista i motivi ideali che legano consacrati, collaboratori ed amici in questa avventurosa attraversata oceanica. In realtà, solo grandi ideali e proposte eroiche possono aggregare nuove energie in una crisi senza precedenti. Perciò occorre aggrapparsi ai rami di un albero che ha radici ben radicate nei secoli ma di cui talvolta si ignorano i passaggi epocali.

La Chiesa da sempre si è occupata dei bisognosi (poveri, malati, vedove, orfani…). Nella Chiesa i diaconi, su indicazione degli Apostoli, sono nati proprio per soddisfare alle loro esigenze. Qui salto secoli di storia che sono descritti in fondo alla relazione, per giungere subito all’epoca che più ci riguarda.

Il concetto di hospitalitas che s’è fatto strada con gli Ordini Mendicanti, soprattutto con i Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio e i discepoli di San Camillo de Lellis, l’hospitale che essi hanno concepito, inizialmente altro non era che la diffusione di macro-foresterie, modellate sulla tradizionale Foresteria Monastica. In queste nuove realtà che si diffonderanno, sganciate dai monasteri e capaci di accogliere un numero notevolmente superiore di persone ed assistite da votati all’ospitalità fino al sacrificio della vita, continuerà a vivere lo spirito benedettino, valore universale che va ben oltre le mura dell’abbazia.

Anche nelle “isole della carità” il culto a Dio si è praticata la lode perenne, espressa però dalla sobria liturgia quotidiana, non propriamente salmodiata, cantata, ma celebrata con il rituale del servizio ai fratelli bisognosi: pranzi e cene da preparare, far legna, questuare, lavare, stendere, pulire, curare piaghe e decubiti, assistere moribondi, seppellire morti, ricordarsi di Dio attraverso i Sacramenti e le orazioni indicate per il popolo dalla Santa Madre Chiesa.

Si può dire che l’Ora et labora non è stato meno presente che nel monastero. La lectio divina,  da San Giovanni di Dio in avanti è la contemplazione della Passione di Cristo. Il Crocifisso è la molla che attrae e rinvia sulle strade del “Farsi prossimo a tempo pieno”. I nuovi Mendicanti di Dio, non dispongono né di splendide abbazie né di possedimenti terrieri, non sono dotati di vasta cultura, ma godono di un particolare talento che viene dalla sapientia cordis, dono, carisma, espressione dello Spirito che li anima. Essi dispongono delle gambe e percorrono chilometri, della sporta e raccolgono vettovaglie, talvolta del carretto ma sempre della schiena per trasportare legna o infermi. Per non far mancare niente ai poveri, fanno debiti paurosi che la Provvidenza, all’ultimo momento, onora sempre attraverso i benefattori. E’ una svolta della storia che il benedettino Lorenzo Sena così descrive:

” Il motto divenuto tradizionale per i Benedettini (ma non c’è nella Regola, né è stato coniato dai monaci, ma applicato ad essi da altri), cioè “ORA et LABORA”, fa passare sotto silenzio la “LECTIO DIVINA”, alla quale la Regola di S. Benedetto e tutta la tradizione monastica accordano una particolare attenzione. San Benedetto, stabilendo nel capitolo 48 l’orario del monaco, distribuisce tra il lavoro e la lectio divina il tempo rimasto libero dalla preghiera. Per molto tempo, durante il periodo patristico e l’alto medioevo, la pratica della lectio divina fu continua e molto sentita tra i monaci e fuori; man mano, a partire dal sec. XII, divenne più rara e scomparve del tutto all’epoca del massimo sviluppo della “devotio moderna” (sec. XV), quando la spiritualità trovò una forma di preghiera nuova e l’orazione mentale divenne un esercizio di pietà che non si alimentava più principalmente alla Bibbia. Tutto questo è durato fino al movimento biblico del sec. XX con il ritorno alla S. Scrittura; tra il 1940 e il 1950, con lo sviluppo del movimento liturgico francese, la formula si diffuse di nuovo largamente tra i monaci e fuori.

I capitoli 53 e 54 della Regula Benedicti (RB) trattano di come debbano essere accolti gli ospiti che si presentano al monastero. Il capitolo 36 riguarda invece il trattamento dei fratelli infermi. E’ utile leggerli per intero per coglierne tutto il valore apostolico che essi racchiudono e che si è sprigionato nei secoli attraverso il carisma dei Fondatori. Sia l’ospitalità monastica che il modo di curare i fratelli infermi, sono Vangelo applicato con il discernimento e la sapienza di quell’educatore geniale e concreto che fu Benedetto. Egli non ha ispirato solo la cultura monastica ma tutta la cultura medioevale fino ai nostri giorni. E, se è vero che il rinnovamento passa attraverso la riscoperta delle origini, il contatto diretto con i testi della RB non possono che tonificare lo spirito di chi si sente interpellato e provocato anche oggi dalla divina Ospitalità.

Capitolo LIII – L’accoglienza degli ospiti

  1. Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo, poiché un  giorno egli dirà: “Sono stato ospite e mi avete accolto”

  2. 2.          e a tutti si renda il debito onore, ma in modo particolare ai nostri confratelli e ai  pellegrini.

  3. 3.          Quindi, appena viene annunciato l’arrivo di un ospite, il superiore e i monaci gli vadano incontro, manifestandogli in tutti i modi il loro amore;

  4. 4.          per prima cosa preghino insieme e poi entrino in comunione con lui,     scambiandosi la pace.

  5. 5.          Questo bacio di pace non dev’essere offerto prima della preghiera per evitare le       illusioni diaboliche.

  6. 6.          Nel saluto medesimo si dimostri già una profonda umiltà verso gli ospiti in       arrivo o in partenza,

  7. 7.          adorando in loro, con il capo chino o il corpo prostrato a terra, lo stesso Cristo,       che così viene accolto nella comunità.

  8. 8.          Dopo questo primo ricevimento, gli ospiti siano condotti a pregare e poi il  superiore o un monaco da lui designato si siedano insieme con loro.

  9. 9.          Si legga all’ospite un passo della sacra Scrittura, per sua edificazione, e poi gli si  usino tutte le attenzioni che può ispirare un fraterno e rispettoso senso di umanità.

  10. 10.      Se non è uno dei giorni in cui il digiuno non può essere violato, il superiore     rompa pure il suo digiuno per far compagnia all’ospite,

  11. 11.      mentre i fratelli continuino a digiunare come al solito.

  12. 12.      L’abate versi personalmente l’acqua sulle mani degli ospiti per la consueta  lavanda;

  13. 13.      lui stesso, poi, e tutta la comunità lavino i piedi a ciascuno degli ospiti e al    termine di questo fraterno servizio dicano il versetto: “Abbiamo ricevuto la        tua misericordia, o Dio, nel mezzo del tuo Tempio”.

  14. 14.      Specialmente i poveri e i pellegrini siano accolti con tutto il riguardo e la        premura possibile, perché è proprio in loro che si riceve Cristo in modo tutto         particolare e, d’altra parte, l’imponenza dei ricchi incute rispetto già di per sé.

  15. 15.      La cucina dell’abate e degli ospiti sia a parte, per evitare che i monaci siano disturbati dall’arrivo improvviso degli ospiti, che non mancano mai in         monastero.

  16. 16.      Il servizio di questa cucina sia affidato annualmente a due fratelli, che sappiano       svolgerlo come si deve.

  17. 17.      A costoro si diano anche degli aiuti, se ce n’è bisogno, perché servano senza          mormorare, ma, a loro volta, quando hanno meno da fare, vadano a lavorare    dove li manda l’obbedienza.

  18. 18.      E non solo in questo caso, ma nei confronti di tutti i fratelli impegnati in qualche      particolare servizio del monastero, si segua un tale principio

  19. 19.      e cioè che, se occorre, si concedano loro degli aiuti, mentre, una volta terminato     il proprio lavoro, essi devono tenersi disponibili per qualsiasi ordine.

  20. Così pure la foresteria, ossia il locale destinato agli ospiti, sia affidata a un    monaco pieno di timor di Dio:

  21. 21.      in essa ci siano dei letti forniti di tutto il necessario e la casa di Dio sia         governata con saggezza da persone sagge.

  22. 22.      Nessuno, poi, a meno che ne abbia ricevuto l’incarico, prenda contatto o si i ntrattenga con gli ospiti,

  23. 23.      ma se qualcuno li incontra o li vede, dopo averli salutati umilmente come       abbiamo detto e aver chiesta la benedizione, passi oltre, dichiarando di non           avere il permesso di parlare con gli ospiti.

Il commento che segue i capitoli della RB è del monaco Lorenzo Sena, OSB. Silv.

“ La S. Scrittura parla dell’accoglienza degli ospiti come di un esercizio fondamentale della carità fraterna (cf. Rom.12,13; 13,8; ecc.) e Gesù dice che nelle persone di ospiti e pellegrini si riceve lui stesso (Mt.25, 35-43).

Fin dalle origini del monachesimo, ricevere poveri, pellegrini e ospiti fu ritenuta una pratica sacrosanta della vita quotidiana: così presso i Padri del Deserto (abbiamo tanti esempi e aneddoti nei “Detti”), presso anacoreti, presso i cenobiti pacomiani. San Benedetto si mostra degno erede di questa tradizione. Per il c.53 della RB abbiamo nella RM vari capitoli (RM.65; 71-72; 78-79), in cui da una parte notiamo grande comprensione e carità (addirittura il Maestro fa anticipare il pasto dei fratelli a sesta, se l’ospite si trattiene); d’altra parte notiamo differenza nei confronti di ospiti che si fermano più giorni: in essi potrebbero nascondersi parassiti e ladri. San Benedetto ha soppresso tanta casistica e parla dell’ospitalità in un solo capitolo unitario e ben compatto, tutto pieno di un profondo spirito di fede, di calore umano e di carità fraterna.

Struttura del capitolo

Il cap.53 si divide in due parti:

a) la prima (vv.1-15) descrive l’accoglienza con una piccola teologia  dell’ospitalità (è ispirata soprattutto alla “Historia Monachorum in Aegypto” tradotta da Rufino);

b) la seconda (vv.16-24) parla dell’organizzazione dell’ospitalità nel  monastero, con le ripercussioni per la vita interna del cenobio e la pace dei fratelli.

Dalla struttura e dal vocabolario, appare evidente che questa seconda parte dovette essere composta da SB in un secondo tempo. L’esperienza derivata dalla pratica continua dell’ospitalità, ha evidenziato degli inconvenienti ai quali il santo Patriarca ha posto rimedio aggiungendovi alcune precisazioni. Le campagne italiane non erano certo il deserto dell’Egitto, gli ospiti a Montecassino affluivano incessantemente e a volte in buon numero; tale afflusso avrà pregiudicato il clima di preghiera e il silenzio in cui vivevano i monaci. Da qui alcune restrizioni aggiunte alla prima stesura, per armonizzare le irrinunciabili tradizioni dell’ospitalità monastica con le esigenze della vocazione cenobitica.

1-15: Accoglienza degli ospiti: teologia dell’ospitalità

Esaminiamo ora il testo “Ero pellegrino e mi avete ospitato” (Mt.25,35). La frase di Matteo domina tutta la prima parte del capitolo e costituisce la base per il principio generale che tutti gli ospiti che giungono al monastero siano accolti come Cristo in persona (v.1). E’ opportuno mettere l’accento su quel “tutti” con cui si apre il capitolo. San Benedetto intende bandire ogni distinzione di grado sociale. Ognuno poi sia ricevuto con l’onore dovuto, “soprattutto i nostri fratelli nella fede e i pellegrini” (v.2).

  • Domestici fidei <fratelli nella fede> sembra si debba interpretare nel senso di monaci o anche chierici e in genere quelli che fanno professione di speciale servizio a Dio (ciò sarebbe confermato anche da passi di  Pacopmio, Cassiano, Girolamo).

  • Pellegrini: quelli che vengono da lontano a scopo di pietà e di devozione. I  pellegrinaggi ai luoghi santi della Palestina e di Roma erano allora frequenti e i monasteri erano il naturale rifugio nelle soste dei pii viaggiatori.

  • Dunque i “domestici fidei”, per la loro professione sacra, e i “peregrini”, per il loro sacro scopo di viaggio, meritano particolare cura ed onore.

  • A questi San Benedetto aggiunge i “poveri” (v.15), specificando che  specialmente nei poveri e nei pellegrini si riceve Cristo.

Posto il principio, egli passa a descrivere il rito dell’accoglienza, i cui vari atti erano nella tradizione della Chiesa primitiva e del monachesimo:

  • accorrere a ricevere l’ospite,

  • umiltà nel riceverlo,

  • preghiera,

  • bacio di pace,

  • lettura della S. Scrittura,

  • lavanda dei piedi… (vv.3-14).

A proposito della lavanda dei piedi (vv.12-14), va ricordato che essa era anticamente assai comune ed era necessaria a causa del viaggiare a piedi. E’ logico ritenere che tutta la comunità non andasse a compiere questo atto ogni volta che giungeva qualcuno e che la lavanda venisse eseguita per tutti insieme i nuovi venuti in un solo tempo della giornata. Ciò permetteva che i fratelli facessero a turno, in modo che “tutta la comunità” adempisse questo atto di servizio e di umiltà. A tal riguardo gli usi nei monasteri furono i più vari.

Lo spirito di fede che aleggia nel v.14 è bellissimo: i monaci vedono nell’ospite arrivato una manifestazione della grazia e della benevolenza di Dio: “Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia <=grazia>…” (salmo 47,10).

16-24: Organizzazione dell’ospitalità

Dato che nel monastero bisogna accogliere tutti coloro che chiedono ospitalità – (ricordiamo l’8° strumento delle buone opere: “onorare tutti gli uomini” (RB 4,8) che si riferisce senz’altro all’ospitalità, come ha dimostrato De Vogue`) – potrebbero derivare inconvenienti per la vita comune, poiché gli ospiti, “che non mancano mai in monastero” (v .16), arrivano alle ore più impensate. Ecco allora la necessità di una certa organizzazione, per compiere bene l’esercizio dell’ospitalità. Abbiamo quindi la cucina a parte con un personale specializzato, la foresteria e il foresteriario, con eventuali aiutanti: ambedue le cose sono creazioni di S. Benedetto rispetto alla Regola Monastica. Il santo patriarca vuole che la casa di Dio sia amministrata da saggi e saggiamente (v. 22). E’ risaputo che, nel mandare alcuni monaci a fondare il monastero di Terracina, San Benedetto parlò di posto per l’ “oratorio, il refettorio per gli ospiti, la foresteria…” (II. Dial .22); e ancor oggi non si concepisce monastero benedettino senza una parte riservata foresteria.

Il capitolo si chiude con la proibizione ai monaci di parlare con l’ospite, e sembra una nota un po’ negativa in un testo iniziato con tanto slancio spirituale. Il Santo è guidato dall’intenzione di salvaguardare l’osservanza regolare; non si tratta solo del silenzio, ma anche di evitare il contatto col mondo esterno, come è previsto al cap. 66,7 e 67,4-5. Però l’osservanza della Regola non significa mancanza di educazione: incontrando l’ospite, il monaco non ometterà di salutare gentilmente e di domandare umilmente la benedizione, secondo l’uso del tempo.

Capitolo LVI – La mensa dell’abate

  1. 1. L’abate mangi sempre in compagnia degli ospiti e dei pellegrini.

  2. 2. Ma quando gli ospiti sono pochi, può chiamare alla sua mensa i monaci che    vuole.

  3. 3. Sarà bene tuttavia lasciare uno o due monaci anziani con la comunità per il  mantenimento della disciplina

1-3: Senso del capitolo

Il breve capitolo va considerato come complemento del capitolo dell’ospitalità: c’é una cucina e una mensa propria per i forestieri e per l’abate. Questi mangia sempre con gli ospiti e, nel caso questi fossero pochi, l’abate può invitare alcuni dei fratelli, purché rimangano sempre uno o due seniori a tutelare la disciplina nel refettorio comune.

Il capitolo 56, uno dei più brevi di tutta la Regola, è stato il tormento dei commentatori, antichi e moderni. Alcuni hanno ritenuto inammissibile che San Benedetto faccia mancare abitualmente l’abate dalla mensa comunitaria, che è uno dei segni maggiori della vita fraterna e della comunità radunata nel nome di Cristo. De Vogué ha interpretato che gli ospiti fossero introdotti nel refettorio monastico e mangiassero alla “tavola” (“mensa” = nel senso di tavola) dell’abate, in giorno di digiuno con orario diverso (in modo che l’abate – solo lui – interrompesse il digiuno), negli altri giorni insieme alla comunità. Ma questa ipotesi renderebbe incomprensibile il v.3 e non risponderebbe alla “mens” del Santo il quale vuole che gli ospiti non disturbino con la loro presenza la vita regolare dei monaci.

Dobbiamo dire che separare l’abate dai fratelli in un momento così significativo della vita della comunità come la refezione comune, costituisce il prezzo che San Benedetto si considerò obbligato a pagare affinché l’esercizio dell’ospitalità non intralciasse lo svolgimento normale del ritmo della giornata monastica. Certo, la cosa generò, nel corso dei secoli, abusi e inconvenienti: si pensi alla grande stortura che più tardi si verificò dando alla “mensa abbatis” il senso di “beneficio ecclesiastico”, con patrimonio proprio, distinto da quello della comunità; fu il pretesto per una lunga serie di gravi abusi che influirono molto negativamente sullo spirito monastico, specialmente nel periodo dei cosiddetti “abati commendatari”.

Naturalmente, oggi, tutto ciò è sorpassato e l’abate presiede abitualmente ai pasti comuni; gli ospiti o mangiano a parte o sono ammessi al refettorio monastico assieme alla comunità.

Se l’ospite dev’essere oggetto di un simile rispettoso trattamento che dire del malato? Il capitolo sui Fratelli infermi esprime molto bene il pensiero della tradizione benedettina in proposito:

Capitolo XXXVI – I fratelli infermi

  1. L‘assistenza agli infermi deve avere la precedenza e la superiorità su tutto, in  modo che essi siano serviti veramente come Cristo in persona,

  2. il quale ha detto di sé: “Sono stato malato e mi avete visitato”,

  3. e: “Quello che avete fatto a uno di questi piccoli, lo avete fatto a me”.

  4. I malati però riflettano, a loro volta, che sono serviti per amore di Dio

  5. e non  opprimano con eccessive pretese i fratelli che li assistono,

  6. ma comunque bisogna sopportarli con grande pazienza, poiché per mezzo loro si acquista un merito più grande.

  7. Quindi l’abate vigili con la massima attenzione perché non siano trascurati sotto alcun riguardo.

  8. Per i monaci ammalati ci sia un locale apposito e un infermiere timorato di Dio, diligente e premuroso.

  9. Si conceda loro l’uso dei bagni, tutte le volte che ciò si renderà necessario a scopo   terapeutico; ai sani, invece, e specialmente ai più giovani venga consentito più raramente.

  10. I malati più deboli avranno anche il permesso di mangiare carne per potersi rimettere in forze; però, appena ristabiliti, si astengano tutti dalla carne come al solito.

  11. 10.  Ma la più grande preoccupazione dell’abate deve essere che gli infermi non siano trascurati dal cellerario e dai fratelli che li assistono, perché tutte le  negligenze commesse dai suoi discepoli ricadono su di lui.

I capitoli RB. 36 e 37 sarebbero dovuti venire dopo il 41, perché prevedono deroghe alla legge dei digiuni; e inoltre separano due capitoli (il 35 e il 38) che dovrebbero essere uniti. RB ha anticipato perché in essi ci sono temi affini a quelli del c. 35: il servizio, la ricompensa, la fuga della tristezza; c’é la solita preoccupazione per la cura soggettiva e per il servizio vicendevole tra i fratelli.

1-6: Principi generali per la cura degli infermi

Il capitolo si apre con due solenni principi fondati su due frasi del Signore:

  • bisogna aver cura dei malati prima di tutto e soprattutto – espressione  assoluta ed energica –

  • e servire a loro come a Cristo in persona (v.1);

  • seguono le due citazioni di Mt. 25,36 e 40.

I monaci opereranno di conseguenza, ma San Benedetto aggiunge una frase, grave, ma pacata, anche per gli infermi a non essere petulanti e troppo pretenziosi o addirittura capricciosi. Comunque, anche ammesso che i fratelli malati diventino così strani – come può succedere a causa del male – gli altri devono sopportarli in ogni caso. La prima parte del capitolo si chiude con una ammonizione categorica all’abate affinché si prenda “somma cura” degli infermi (v.6).

7-10: Disposizioni pratiche per i malati

San Benedetto scende ad alcuni particolari concreti e stabilisce:

  • · primo, che nel monastero ci sia una infermeria affidata a un infermiere  ”timorato di Dio, diligente e premuroso” (v.7);

  • · secondo, l’uso dei bagni ai malati ogni volta che è necessario (v.8);

  • · terzo, che si permetta di mangiare carne, anche se soltanto a quelli molto deboli (v.9).

Tanto l’uso dei bagni che il mangiare carne sono una concessione: costituivano infatti un’eccezione allo stato di monaci. Una parola su tutte e due le cose.

L’uso dei bagni

Fin dalle origini del monachesimo, notiamo una esplicita avversione per l’uso dei bagni. Non dobbiamo dimenticare che per gli antichi, i bagni, più che una pratica igienica, erano un passatempo, un lusso e un piacere (sappiamo che cosa erano le terme dei romani). Per mortificarsi e per non cadere nella sensualità, i monaci esclusero per principio i bagni dal loro genere di vita, riservandoli solo ai malati. La tradizione cenobitica è unanime (Vita di Antonio, Pacomio, Agostino, Reg. Masch., Cesario, Fulgenzio, Leandro, Isidoro); un’unica eccezione, la Regola femminile di Agostino (Epist.211,13) che concede alle monache il bagno una volta al mese. SB si trova su questa linea e autorizza il bagno a tutti, anche se “più di rado, soprattutto ai giovani” (v.8). Non possiamo stabilire la frequenza di questi bagni per i sani, ma certo, considerando il tempo e l’ambiente, SB è eccezionalmente liberale, quasi rivoluzionario.

L’uso delle carni

Per lo stesso motivo che dai bagni, i monaci si astenevano dalle carni (perché i bagni e le carni riscaldano il corpo e solleticano la sensualità: “il bagno scalda la carne, il digiuno la raffredda”, scrive S. Girolamo). Anche su questo punto San Benedetto si mostra molto liberale verso gli infermi. Il brano, considerando soprattutto il parallelo con RB. 39,11, si deve interpretare nel senso della proibizione assoluta solo per le “carni dei quadrupedi”, cioè non riguarda il pollame e i pesci. La distinzione tra carne di quadrupedi e carne di uccelli era già antica nella dietetica monastica: la seconda si considerava più leggera, e quindi meno pericolosa per la virtù; si equiparava praticamente ai pesci, ricordando la Scrittura secondo cui pesci e uccelli furono creati insieme (Gen.1,20-21). Il capitolo termina inculcando di nuovo all’abate la “massima cura” che si deve avere per gli infermi, vigilando anche perché gli incaricati adempiano bene il loro dovere, secondo il principio generale che sul maestro ricade la responsabilità ultima di tutto (v.10).

Conclusione

Il c.36 sui malati è uno dei meglio riusciti della RB, sotto l’aspetto letterario e contenutistico. Molti esempi ci sono nella legislazione monastica della sollecitudine per i malati, però nessuna Regola riunisce in così mirabile sintesi il trattato sugli infermi come RB, che elimina anche ogni nota negativa rispetto ai fratelli malati (RM prevede soprattutto il caso delle… finzioni e non parla né di infermeria, né di infermieri). “Questo trattato mostra in modo chiaro che RB nella sua brevità possiede delle istituzioni più evolute di quelle di RM. E siamo portati a pensare che questo sviluppo istituzionale e spirituale sia il riflesso di una conoscenza più ampia della letteratura cenobitica anteriore e contemporanea” (De Vogué).

Applicazione oggi

Il bel capitolo sull’ospitalità ha generato la gloriosa tradizione dell’ospitalità benedettina, una delle manifestazioni caratteristiche dello spirito e dello stile benedettino, che ha svolto anche un’opera di altissimo valore sociale nella storia d’Europa. Oggi, certo, la situazione è cambiata: rapidissimi mezzi di comunicazione, organizzazioni turistiche e alberghiere… Eppure, anche oggi si viene al monastero.

Che cosa vengono a cercare gli uomini del XX secolo nelle nostre foresterie?

Quella dimensione spirituale che non può trovarsi in un albergo. Il problema dell’accoglienza va ripensato, e seriamente, nelle nostre comunità. E notiamo che gli ultimi versetti del c. 53 non sono in contraddizione con il concetto di comunità aperta. Aprirsi significa soprattutto donare quanto di meglio si possiede, in uno scambio fraterno di carità. Questo tuttavia è possibile solo se l’accoglienza degli ospiti si svolge in modo da salvaguardare la pace e il raccoglimento della comunità, altrimenti non si offre altro che il vuoto della propria dissipazione.

La foresteria poggia sulla interiorità dei monaci; una foresteria monastica non può essere tale se dietro di essa non c’è la presenza silenziosa e irradiante di una comunità riunita nel nome di Cristo; una comunità che sappia, in uno spirito di fede, essere disponibile, sappia accogliere tutti come Cristo in persona (cf.v.1), e mettere a parte coloro che vengono al monastero, in semplicità e umiltà, della propria vita di preghiera, di meditazione, di lavoro. “

Continua…

02 – SAMARITANI O ALBERGATORI ? – Quale ospedale – Angelo Nocent

Il primo ospedale di San Giovanni di Dio a Granada

QUALE OSPEDALE ?


Nell’ospitalità che l’Ordine Ospedaliero di san Giovanni di Dio è chiamato dalla Chiesa a praticare nella società, addirittura con un voto solenne e pubblico che ogni membro emette, nulla di quanto previsto nella Regula Benedicti è andato perduto. Ciò che contraddistinguerà i suoi membri non sarà più l’aprire e ospitare esclusivamente a chi bussa alla porta del monastero.

Al contrario, coloro che si sono donati a Dio saranno spinti in direzione dei bisognosi. Non solo accoglienza dell’ospite, del pellegrino, ma appassionata e indefessa ricerca del povero e del bisognoso, dell’appestato, del ferito in guerra, di vecchi, vedove e bambini, di donne in difficoltà, di coloro che se ne stanno rintanati nei luoghi angusti e di emarginazione, senza il coraggio di ostentare la necessità dell’aiuto.

Insomma, Madre Teresa di Calcutta non ha inventato niente, ha semplicemente riscoperto ciò che nella Chiesa andava estinguendosi. E’ una riflessione che bisognerebbe avere il coraggio di fare ad alta voce per scoprire i ritardi e le opportunità mancate. Come mai tante giovani subiscono il suo fascino e vanno a rinforzare le file della Congregazione, proprio quando la crisi di vocazioni e generale?

I Fratelli Ospedalieri hanno portato lo spirito della tradizione monastica fuori dai chiostri. Nella lettura evangelica non si sono soffermati solo sul “Sono stato ospite e mi avete accolto, malato e mi avete visitato…”. Essi hanno preso coscienza che la vita quotidiana della gente assomiglia molto a quel tratto di strada che da GERUSALEMME porta a GERICO, così ben descritto nei particolari dall’evangelista Luca in 10,25-37. D’incappare nella disavventura può accadere a ogni viandante.

Infatti, la realtà della vita sembra molto simile all’esodo del popolo d’Israele sulla rotta della terra promessa. Anche il nostro peregrinare nel deserto sembra proprio non avere mai fine ed in questo percorso lunghissimo chiesto dal Signore Dio prima di realizzare il suo Regno, non si contano coloro che vengono meno per strada e necessitano di amore viscerale.

Epperò, i quarant’anni biblici del nuovo esodo del mondo, sono ora contrassegnati da un Evento che ha definitivamente chiuso un capitolo. La Nuova Era é visitata e segnata dalla presenza del Signore Gesù, il Figlio di Dio, morto e risorto, Samaritano sulle strade dell’esistenza.

Sull’esempio del Maestro, anche i Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio hanno assunto il ruolo di samaritano e albergatore. Essi hanno utilizzato i mezzi e gli strumenti terapeutici rappresentati dall’olio e dal vino, si sono fatti schiene a disposizione di Dio, cavalcatura da soma per farsi carico di tutte le istanze del malato, locanda per le più svariate esigenze.

Se i monasteri benedettini hanno fornito ispirazione sull’esercizio dell’ospitalità anche ai Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio, dagli stessi monasteri, per quanto in trasformazione, essi possono ancora umilmente attingere capacità creativa da coloro che della lectio divina hanno fatto una ragione di vita:

  1. Se la foresteria poggia sulla interiorità dei monaci, l’ospedale evangelico deve poggiare sull’interiorità dei suoi operatori sanitari, consacrati e laici.

  2. Una foresteria monastica non può essere tale se dietro di essa non c’è la presenza silenziosa e irradiante di una comunità riunita nel nome di Cristo.

  3. Un ospedale evangelico non può dirsi tale se non si fonda su una comunità che sappia, in uno spirito di fede, essere disponibile, accogliere tutti come Cristo in persona (cf.v.1 RB), offrire in semplicità e umiltà a coloro che vengono nel luogo di cura non solo prestazioni terapeutiche ma anche un’esperienza umana e spirituale riscontrabile e vivibile nella Fraternità.

  4. La Fraternità-Comunità terapeutica non mette a disposizione solo professionalità personale e istituzionale ma si fa mediatrice della propria vita di fede, di preghiera, di meditazione, di lavoro, di cultura, di ben-essere, con la Chiesa locale.

Molti si chiedono, e per primi gli Ospedalieri e le Congregazioni che si occupano di assistenza, se c’è differenza tra un ospedale pubblico e quello tenuto dai religiosi.

Se il criterio di comparazione è posto in termini di efficienza organizzativa, di qualità dei servizi, si potrebbe concludere che nel servizio pubblico esistono ritardi ed inefficienze, compensate talvolta da alta tecnologia. Ciò vuol dire che il divario può essere progressivamente ridotto o annullato. Dunque, non è questo il punto che fa la differenza. Anzi, a lungo andare la competizione potrebbe logorare e mettere a dura prova proprio coloro che oggi sono avvantaggiati. Le spese di gestione tendono al rialzo mentre le sovvenzioni, attraverso accorte strategie politiche e DRG non corrispondenti ai costi reali, mirano al ribasso. In questa situazione potrebbe verificarsi perfino un felpato ostracismo degli istituti religiosi dalla sanità senza la necessità di leggi infami e infamanti di soppressione e incameramento dei beni, come si è verificato in altre epoche. Essi potrebbero essere portati a scomparire da soli, strangolati da debiti e fallimenti. A qualcuno (Evangelici del Piemonte) la sorte è già toccata. Non un’espropriazione da parte dello Stato quindi, ma una volontaria cessione dei beni che, oltre ai danni, si trascinerebbe dietro anche una beffa: quella di apparire all’opinione pubblica, se non proprio amministratori truffaldini e sospetti speculatori, certamente uomini di Chiesa poco avveduti.

Dalle Fraternità FBF in questi anni sono partiti messaggi che hanno colpito nel segno: umanizzare l’ospedale, mettere l’uomo malato al centro della politica sanitaria, unità d’intenti degli operatori sanitari…, questi sono gli argomenti forti sostenuti in un momento di grande debolezza delle istituzioni.

Oggi la parola “umanizzazione”, così inflazionata fino a ieri, è finita in disuso, se non proprio avversata con argomenti non sempre condivisibili. Ricordo un medico che diceva: “Questo è un ospedale. Per umanizzarlo volete mettere il gioco delle bocce in reparto? Bene, fatelo! Cosa cambierà?”.

Quando noi usiamo la parola umanizzazione dovremmo essere tutti concordi che la intendiamo in senso evangelico, ossia che non vuol dire semplicemente passare da corsie a tre stelle a luoghi di cura a cinque stelle. Umanizzare vuol dire che la sanità è la risposta alla visione che si ha dell’uomo. Così scriveva il Dr. Pierluigi Micheli, già Primario all’Ospedale FBF San Giuseppe di Milano e associato all’Ordine Ospedaliero:

“La medicina deve occuparsi dell’uomo nella sua totalità: l’avvenire della medicina è condizionato dal concetto che si ha dell’uomo. Il colloquio del medico ricorda la confessione. Ippocrate insegnava che deve mortificare l’insolente, il prepotente; stabilire l’ordine l’isonomia; è ministro di giustizia, deve essere messaggero di speranza, di ottimismo, di certezza nell’avvenire. Sua deve essere una sacralità caritativa e poetica: litteratissimus et humanus (Flavio Biondo). Deve essere come il samaritano che reca l’olio per ottenere attraverso la guarigione del corpo la salute, la ripresa delle ordinarie occupazioni, degli affari domestici, della socialità” (f.108)

In un altro passo  ha scritto:

“La medicina moderna ha raggiunto un grado di tecnologia avanzatissimo, estremamente elevato, ma ha dimenticato in gran parte che possiedono virtù terapeutiche le energie che risiedono nella parola, nell’immagine, nelle arti, nella persona del medico e in noi stessi, in quella forza naturale che gli antichi chiamavano virtus” (f.149)

Come si vede, egli ha intuito e praticato una medicina che non è meccanicistica e non solo umanistica in senso riduttivo. La virtus del Dr. Micheli è curare in stretto rapporto con lo Spirito Santo.

Colgo l’occasione per infliggere contro ignoti una punzecchiatura: sta bene averlo aggregato all’Ordine prima del pensionamento; non è tollerabile che venga dimenticata una vita di esemplare dedizione al malato.

Il Micheli può ancora parlare alle nuove generazioni sia attraverso l’esempio lasciato che attraverso i suoi scritti dai quali emergono lucide intuizioni e saggi ammonimenti per operatori sanitari di ogni grado. A tale proposito rimando alla lettura del volume di Andrea Martano, Federico Motta Editore, prefazione di Gianfranco Ravasi, “PIERLUIGI MICHELI MEDICO UMANISTA” e, volendo, alla  modesta mia testimonianza in “PIERLUIGI MICHELI – UN’ESISTENZA RIUSCITA”, pro manu scripto.

Personalmente, leggendo gliscritti pubblicati fin’ora, sono rimasto così affascinato che, avendolo anche conosciuto, ho provato grandi emozioni a raccogliere elementi della sua spiritualità, una ricchezza nota a pochi e che non dovrebbe andare trascurata e dispersa. Per darne un saggio della sua elevatezza spirituale, riporto il capitoletto di pag. 41,titolato “LA SINTESI” , perché si addice al tema. Vi si legge:

“Il Vescovo, [C.M.Martini] mentre istruisce ed ampia i nostri ristretti orizzonti, indirettamente ci suggerisce la metodologia orientativa per osservare il cristiano Micheli.

Bisognerebbe domandarsi se possediamo elementi significativi per affermare che Pierluigi ha percorso le quattro tappe evangeliche e, se sì, quali sono. A queste domande il tempo risponderà con più precisione. Io mi sento già di rispondere un bel sì, in quanto:

Marco – La scoperta di un nuovo mondo di relazioni e di suoni, metànoia,   conversione di fronte alla persona di Cristo si è verificato;Matteo – Il luogo autentico di socializzazione della fede e della vita,la rete   di relazioni fraterne si sono verificate sia nel mondo ospedaliero che nella vita;

Luca – La scoperta della vita come missione per gl’altri è sotto gl’occhi di         tutti ed è ammessa proprio da lui: “Eccomi, io sono pronto alla chiamata”;

Giovanni – Esperienza, scienza, cultura, umanità hanno fatto sintesi      secondo l’indicazione dell’Apostolo : “ Se uno non ama il prossimo che si           vede, certo non può amare Dio che non si vede” (Gv 1, 4,20).

Ho detto che vedo affondare le sue radici nella spiritualità di san Giovanni di Dio. Scrive infatti il Micheli:

“ La malattia deve essere anche un momento di riassetto esistenziale: nell’ospedale religioso si deve vivere questo momento come un momento evangelico. La malattia pone all’individuo una riflessione sul suo iter esistenziale, sul suo passato, sul presente e su quello che sarà: la malattia è un evento che colpisce l’uomo nella sua interezza, nella sua unitarietà di anima e corpo e non solo un evento biologico.

Così intesa la comunità ospedaliera diventa Chiesa e il personale religioso forza trainante, il sale della comunità. A questa chiesa è dovuta la pastorale della sofferenza, a lei tocca lo spirito di San Giovanni di Dio: prendere sulle spalle il malato.

L’ospedale religioso, questa chiesa , deve essere sale, lievito e luce per tutta la società in cui il cristiano vive e soprattutto il luogo dove il cristiano può confortare la sua malattia e dove compiere la sua buona morte, Il vero hospitium pietatis “.(pag.73)

Ed ancora: “ Preferirei dire che l’ospedale religioso è un luogo di evangelizzazione. Evangelizzare vuol dire vedere i problemi quotidiani con la lampada del Vangelo, vuol dire vedere nel malato l’uomo, condividendo con lui le sue sofferenze, le sue preoccupazioni, i suoi rimpianti, le sue esperienze “ (pag.75).

Non si leggono qui riassunti i percorsi dei quattro Evangeli?

1. Marco

  • Apertura degli occhi e degli orecchi,

  • mondo di relazioni,

  • accorgersi delle voci imploranti,

  • relazionarsi con esse;

  1. Matteo

  • L’ospedale come luogo della fede e della vita;

2.  Luca

  • La condivisione,

  • il progetto di ospedale, luogo di pace biblica, shalòm nella totalità dei significati;

3. Giovanni

  • Sintesi: la carità ardente, a tutto tondo.

  • “O ignite caritatis exemplar insigne, Joannes, pater inclite !”, canta la  Liturgia di San Giovanni di Dio.

Il Micheli, da sempre sostenitore che “L’ospedale religioso deve mantenere questa sua identità, questa sua libertà (la comunità ospedaliera come Chiesa) anche se inserito nella struttura pubblica”, riconferma i suoi ideali proprio nell’ora del distacco da una famiglia ospedaliera tanto amata:

per gl’altri, con una gran fretta in corpo perché le invocazioni del dolore sono infinite e le mani soltanto due.

Se Anton Martin, Pedro Velasco, Simòn de Avila, Domenico Piola e Juan Garcìa, attorno a Giovanni di Dio, rappresentano la continuità, l’affiliazione di Pierluigi Marchesi al suo Ordine, è la congiunzione di un altro anello a questa successione ininterrotta di votati al sacrificio, con una croce in mano, senz’altra risorsa che la speranza, travolti dall’esempio prodigioso del Santo di Granata, arruolati nella sua grande avventura, uomini d’azione, mandatari della sua idea: carità.

  • Carità-amore,

  • Carità-dedizione di se stesso,

  • Carità-ultima volontà del Signore nelle sue parole estreme,

  • Carità-pienezza della Legge,

  • Carità-sintesi di tutte le norme,

  • Carità-dimenticanza di pensare a se stessi,

  • Carità-dignità del malato, di ogni persona,

  • Carità-fino alla morte.

L’idea non può essere più semplice. Né più grandiosa. “

03 – SAMARITANI O ALBERGATORI ? – Votati all’ospitalità – A. Nocent

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VOTATI ALL’OSPITALITA’

Il Dr. Nahon nell’articolo riportato in fondo, si fa portatore di una proposta, non so fino a che punto condivisibile da religiosi che impegnano la loro vita.

Così egli scrive: “Nell’organizzazione anche “aziendale” dell’ospedale esistono in maniera informale delle cariche di volontariato, a volte solo delle incrostazioni residue o sorgenti, entro le professioni, che provengono dall’antica mentalità ospitaliera e che rappresentano una sostanziale “mission” ben prima che si affermasse la nomeclatura aziendalistica.

Questo elemento vocazionale, di chiamata, è una delle peculiarità maggiori della professione sanitaria e s’intreccia con la vocazione del luogo in cui essa s’invera, suo contenitore e spargitore. L’Ospedale del Medioevo nasce come casa della carità e del controllo ed è retto da personale che tra i religiosi scelgono di dedicarsi alla cura fisica dei più deboli. La struttura giustifica e sorregge automaticamente la motivazione individuale.

Nel laicato tecnologico e a volte tecnocratico della medicina attuale questo sostegno e giustificazione non sono più scontate; ne discende la necessità sempre più cogente di mettere al centro dell’organizzazione ospedaliera la valorizzazione della scelta originaria del compito accuditivo.

È questa scelta originaria dell’operatore che arriva come nutrimento rasserenante al malato, e che ritorna all’operatore come fondamento della propria soddisfazione; è questa che in sanità può configurarsi (forse similmente solo alla creazione artistica) come vera e propria felicità Professionale.

Al di là di ogni retorica missionaristica e ribadita l’importanza assoluta di una giusta retribuzione in denaro per lo sforzo lavorativo, questo appagamento profondo proveniente per l’operatore dall’utente e per l’utente dall’operatore, si presenta come una un sorta di accoppiamento sociale alto che può realizzare i desideri e le aspettative delle due parti”.

Fare leva sul “compito accuditivo” può essere utile e doveroso, ma per me, che ho da sempre in mente la comunità terapeutica evangelica, non può bastare.

Ciò che accade sotto i nostri occhi è che la cultura dominante in sanità si muove nella logica direzione indicata da una premessa equivoca che ha originato lo scientismo tecnologico: se l’uomo è manipolatore di tutto, ciò che è tecnicamente fattibile è per ciò stesso ammissibile. Solo che in questo modo non si risponde alla domanda fondamentale: chi è l’uomo?

I credenti si rifanno alla Bibbia:

“ Dio creò l’uomo simile a sé, lo creò a immagine di Dio, maschio e femmina li creò… E Dio vide che tutto quel che aveva fatto era davvero molto bello” (Gen 1, 27-31).

Per chi si pone davanti all’a Rivelazione, dell’uomo si può costruire una sola idea: è l’immagine di Dio: “maschio e femmina li creò a sua immagine”. Nella sua integrale unitaria realtà, l’uomo (carne-cuore-anima/corpo-psiche-spirito) non può mai essere separato o contrapposto e chi va contro la verità della persona non fa che nuocerle. Ogni volta che alla comunità terapeutica viene meno questa visione integrale della persona, essa inevitabilmente cade nella visione meccanicistica, fisicista e vitalista dell’uomo e del suo corpo. Dimenticare o sacrificare gli aspetti psicologici, relazionali, affettivi, morali, spirituali e religiosi della persona, vuol dire che la medicina, la sanità, le istituzioni non stanno camminando sulla strada che da Gerusalemme va a Gerico ma hanno preso un’altra direzione, dove non s’incontrano uomini ma illusioni ottiche ad alti costi.

Prima di inoltrarci nella parabola evangelica del Samaritano, è utile cogliere la mentalità dominante in sanità ed i messaggi che vengono posti in circolazione. Non tutto è male, non sempre sono negativi. Quasi sempre necessitano di essere precisati, integrati.

Gli uomini di scienza sono in difficoltà perché chiamati a difendere posizioni sempre più difficili. Il progresso tecnologico, la fulminea rapidità applicativa dell’informatica, delle telecomunicazioni, delle biotecnologie, li sta spiazzando perché, essi per primi, non riescono a collocarlo in un disegno prevedibile e coerente. A tutti capita di affermare con molta onestà e saggezza che, talvolta, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Ma oggi noi assistiamo al totale capovolgimento del proverbio: il dire, il capire, lo spiegare, vengono dopo il fare che viene per primo e che procede in modo indipendente e senza binari. Il mare che sta in mezzo vorrei che fosse Dio, l’unico che può dettare il “codice epistemologico” per la navigazione in sanità.

Gli uomini di scienza ribadiscono anche oggi che i fattori sociali in grado di influire pesantemente e negativamente su di essi non sono solo il potere politico-economico e i movimenti popolari ma anche la fede religiosa. Tralasciando i primi due, quello religioso è condizionante sul progresso del pensiero scientifico per il semplice motivo che la scienza si sviluppa all’interno di un orizzonte razionale, mentre le religioni sono costruite all’interno di un orizzonte di fede, cioè irrazionale.

La risposta che viene dalla fede è scritta in Romani 11,33-36 nell’inno alla sapienza di Dio:

“O Dio, come è immensa la tua ricchezza, come è grande la tua scienza e la tua saggezza! Davvero nessuno potrebbe conoscere le tue decisioni, né capire le vie da te scelte verso la salvezza.

Chi ha mai potuto conoscere il tu pensiero, o Signore? E chi ha mai saputo darti un consiglio? Chi ti ha dato qualche cosa per ricevere il contraccambio?

Tutto viene da te , tutto esiste grazie a te e tutto tende verso di te. A te sale, o Dio, il nostro inno di lode per sempre. Amen “.

Epperò, anche in campo sanitario numerose persone qualificate e benemerite, davanti a un’ipotesi di ricompensa finale da parte di Dio, “venite benedetti dal padre mio, perché avevo…e mi avete…”, sostengono come di recente ha scritto il prof. Veronesi nel suo ultimo libro: “io non avrò ricompensa [nei cieli] perché non credo”. Di persone per bene come lui il mondo della sanità è strapopolato; sono molti a condividere anche la sua etica che, guarda caso, potrebbe essere letteralmente riportata in un’enciclica papale:

“una carezza vale più di un lungo discorso. Il bravo medico non deve mai dimenticarsi di mettere il paziente al centro della sua attenzione, di instaurare con lui un rapporto prima di tutto umano e allacciare un legame di fiducia”.

Tanti come lui, credenti compresi, condividono l’idea che il famoso oncologo auspica: “E’ arrivato il tempo per tutti di recuperare una visione globale della persona. E’ importante conoscere nei dettagli la condizione degli organi di un individuo, il suo stato di malattia, ma è altrettanto importante conoscere la sua condizione psicologica. Purtroppo, oggi, tra il paziente e il medico si è creato uno spazio troppo ampio, asettico. E’ una distanza che va colmata al più presto e tocca proprio alla classe medica fare dei passi per ricreare un rapporto di empatia. Empatia vuol dire immedesimazione, fare propri i bisogni del malato, i suoi problemi, la sua sofferenza. Naturalmente vuol dire anche soffrire e gioire con lui, in rapporto alle varie evoluzioni della malattia…”

Mi sembra proprio il caso di affermare con stupore: guarda da che pulpito viene la predica! Il prof. Veronesi è lo stesso che afferma in altra parte del libro: “io non avrò ricompensa, perché non credo”. Questo medico forse non sa o non può credere che in una pagina del Vangelo, definita laica, proprio perché non ci sono accenni alla fede, alla preghiera, al culto, è detto che lo aspettano piacevoli sorprese: “Ero malato e mi hai curato…” E lui garbatamente a dirGli: “Guardi che si confonde, non l’ho mai incontrata…” E Lui a insistere: “Ogni volta che l’hai fatto… l’hai fatto a me” (Mt. Cap.25).

Che bastino dei gesti materiali? Per alcuni certamente sì. Scrive il Card. Martini: “Va tenuto presente che Matteo scrisse il suo vangelo per una comunità che era tentata di parole vuote, di entusiasmi superficiali, senza impegnarsi seriamente nelle opere di carità. Di qui l’invito a non accontentarsi di dire “Signore, Signore”, ma a fare concretamente la volontà del Padre e a mettere in pratica la parola del Signore. Anche la pagina del giudizio finale va letta in questa prospettiva di realismo, di operosa concretezza.

…Spesso i credenti si riempiono la bocca di parole, ma non fanno la volontà del Padre, mentre è possibile trovare realismo, concretezza, impegno fraterno, implicita corrispondenza ai desideri di Dio in chi non ha esplicitamente con Dio un rapporto di fede e di culto“.

Dove sta il vero problema? Che la fede nasce dall’annuncio di Cristo: “Ma come potranno invocare il Signore, se non hanno creduto? E come potranno credere in lui, se non hanno sentito parlare? E come ne sentiranno parlare, se nessuno lo annunzia? E chi lo annunzierà se nessuno è inviato a questo scopo?” (Rom 10,14).

Nella stessa lettera, l’Apostolo non parla solo ai cristiani di Roma ma si riferisce anche ai Fatebenefratelli: “ Anche nel presente, vi è un certo numero di israeliti che Dio ha scelto per grazia. E se ha agito per grazia non è a causa delle opere, altrimenti la grazia non sarebbe grazia” (Rom.11,5-6) Nella sanità voi siete gli israeliti mandati ad evangelizzare, a riempire i vuoti dei ragionamenti pieni di buon senso ma carenti di prospettiva: “La fede dipende dall’ascolto della predicazione, ma l’ascolto è possibile se c’è chi predica Cristo” (Rom 10,17).

Siamo attorniati da persone che si dichiarano atee, agnostiche, credenti non praticanti…Cosa dice l’Apostolo? “Accogliete chi è debole nella fede, senza criticare le sue opinioni” (Rom 14,1).

Bisogna fare due cose:

  • non erigersi mai a giudici;

  • avere la pazienza di Dio.

Il suggerimento di Paolo aiuta a discernere perché ogni uomo cela dentro sé l’ebreo al quale Dio ha promesso di aprire gl’occhi. “Gli Ebrei hanno inciampato – constata l’Apostolo – ma io mi domando: la loro caduta è definitiva? Non di certo!” (Rom.11,11).

Alla domanda iniziale, sulla differenza tra ospedale pubblico e religioso, forse ora si può già tentare una primissima risposta: non si nota nessuna differenza. Ma la differenza c’è, eccome: “ Se nel tuo cuore credi che Dio ha resuscitato Gesù dai morti e, con la tua voce, dichiari che Gesù è il Signore, sarai salvato. Chi crede veramente, Dio lo accoglie; chi dichiara la propria fede sarà salvato. Infatti la Bibbia dice: ‘Chi crede in lui non sarà deluso. Non vi è perciò differenza fra chi è Ebreo e chi non lo è, perché il Signore è lo stesso per tutti, immensamente generoso verso tutti quelli che lo invocano. Afferma infatti la Bibbia: chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato”.

Come si vede, il mondo della sanità, senza esclusioni, va aiutato ad identificarsi nel Nome che, invocato, garantisce salvezza.

4 SAMARITANI O ALBERGATORI ? – Meglio una parabola – A.Nocent

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MEGLIO UNA PARABOLA

L’ospedale ideale può concretizzarsi solo con l’aiuto dello Spirito Santo, colui che fa dimorare nell’amore di Gesù Cristo e ricorda di compiere i suoi insegnamenti. Il Salvare ha compiuto gesti prodigiosi per sanare debolezze umane e, nell’attesa che il Suo regno venga e la Sua volontà si compia, Egli ripete “ Va’ e comportati allo stesso modo” (Lc 10,37).

I cristiani, Fatebenefratelli in prima linea, sono dalla Chiesa mandati in soccorso di coloro che subiscono imboscate lungo la strada. Il rischio che corre ogni discepolo è di rispondere: “Sì, ho capito, adesso vado…un momento…Appena torno dal Convegno… Adesso devo andare al Capitolo per discutere la bozza sull’ospitalità del 2000…Adesso sono preso con la Commissione, poi ne parliamo…” E intanto si dilunga l’antica disputa: “Ma chi è il mio prossimo?” (Lc 10,39).

E’ non solo doveroso ma necessario ristabilire la frequenza d’onda sul voto di ospitalità, definire il ruolo dei laici coinvolti o da coinvolgere nel ministero sanante. Ma le idee chiare si formano inginocchiati sulla Parabola Evangelica. La carta d’identità sulla quale ogni votato all’ospitalità è chiamato a modellarsi è il Samaritano, uomo di poche parole, essenziali, incisive. Nessuno si illuda di averlo appieno compreso una volta per tutte. La storiella è arcinota, ma i verbi e gli aggettivi che la compongono, molto meno:

“ Un maestro della legge voleva tendere un tranello a Gesù. Si alzò e  disse:

- Maestro, che cosa devo fare per avere la vita eterna?

26 Gesù gli disse: – Che cosa c’è scritto nella legge di Mosè ? Che cosa vi leggi?

27 Quell’uomo rispose: – C’è scritto: Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo  cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e con tutta la tua mente, e ama il prossimo tuo come te stesso.

28 Gesù gli disse: – Hai risposto bene! Fa’ questo e vivrai!

29 Ma quel maestro della legge per giustificare la sua domanda chiese ancora a Gesù: – Ma chi è il mio prossimo?

30 Gesù rispose: «Un uomo scendeva da Gerusalemme verso Gèrico, quando incontrò i briganti. Gli portarono via tutto, lo presero a bastonate e poi se ne andarono lasciandolo mezzo morto.

31  Per caso passò di là un sacerdote; vide l’uomo ferito, passò dall’altra parte della strada e proseguì.

32 Anche un levita del tempio passò per quella strada; anche lui lo vide, lo scansò e prosegui.

33 Invece un uomo della Samaria, che era in viaggio, gli passò accanto, lo vide e ne ebbe compassione.

34 Gli andò vicino, versò olio e vino sulle sue ferite e gliele fasciò. Poi lo caricò sul suo asino e lo portò a una locanda e fece tutto il possibile per     aiutarlo.

35 Il giorno dopo tirò fuori due monete d’argento, le diede al padrone  dell’albergo e gli disse: “Abbi cura di lui e anche se spenderai di più pagherò io quando ritorno”».

36 A questo punto Gesù domandò: – Secondo te, chi di questi tre si è comportato come prossimo per quell’uomo che aveva incontrato i briganti?

37 Il maestro della legge rispose: – Quello che ha avuto misericordia di lui.  Gesù allora gli disse: – Va’ e comportati allo stesso modo.” (Lc 10,25-37)

Come ogni parabola di Gesù, anche questa è stata letta in tanti modi lungo i secoli e, come ogni parabola evangelica, non esaurisce mai le sue sorprese, né finisce di provocare, ferire, stupire chi la interpella. Più che interrogare furbescamente Gesù, da astuti maestri della legge che tendono tranelli alla Chiesa per giustificare comportamenti opportunistici, è bene mettersi in atteggiamento di interrogati, cercando di captare ogni parola che esce dalla bocca del Signore. Per capire meglio il senso della parabola è necessario partire dalla situazione in cui Gesù si è venuto a trovare:

  1. Gli si presenta davanti un dottore della legge che ha intenzione di metterlo alla  prova: “Che devo fare per ereditare la vita eterna ?”

  2. Da teologo vuole vedere se il Signore ha qualcosa di nuovo da insegnare  per la vita eterna; da laico critico, di ieri e di oggi, cerca risposte per i problemi  della vita di ogni giorno.

  3. In lui, dottore della legge, abitano il teologo e il laico. Dentro di sé egli à già la risposta, positiva o negativa, religiosa o sociale, ideologica o pratica.

  4. Quell’uomo che fa domande siamo tutti noi. In imbarazzo non è Gesù ma  gli interlocutori che si autoconfondono con le proprie parole.

  5. Perché non ha chiesto: “Chi è il mio Dio?” Perché è già sicuro di saperlo: è una persona religiosa che prega e frequenta regolarmente il tempio.

  6. Se non fosse religioso ma laico, non chiederebbe ugualmente: “Chi è il mio Dio?” Il perché è semplice: il prossimo sembra essere la cosa più  importante, più vera e più viva.

  7. Con ironia Gesù gli chiede: “Che cosa capisci?”

  8. Costretto a rispondere, dice:”amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore,  con tutta la tua vita, con tutte le tue forze e con tutta la mente ed il prossimo tuo come te stesso”.

  9. Gesù non rifiuta questa impostazione del problema. Egli sa che c’è il  prossimo dell’uomo religioso e il prossimo del laico, il prossimo del cristiano  e il prossimo dell’uomo di strada.

  10. La risposta è lo Shemah (“Ascolta, Israele…”), che unisce due citazioni dell’Antico Testamento, l’amore per Dio (Dt 6,5) e per il prossimo (Lv 1 9,18).

  11. Lo scriba ottiene l’approvazione di Gesù perché ha dimostrato di aver studiato bene la Scrittura.

  12. La tragedia è per i cristiani: molti di essi pensano che “ama il prossimo tuo come te stesso” sia l’insegnamento anche per loro.

  13. Gesù parlando alla sua comunità non ha mai detto amate il vostro  prossimo come voi stessi.

  14. Questo concetto di prossimo va bene per la spiritualità ebraica, per uno   criba, un teologo, ma, attenzione, non è il comandamento nuovo che ha lasciato Gesù. Il suo è radicalmente diverso: “amatevi come io vi ho amato”. Guai a confondersi! Purtroppo questa cantonata è presente nelle prime nuove Costituzioni post Concilio, alla voce Voto di ospitalià. Le ultime non le conosco.

  15. Il prossimo era inteso nel senso di appartenente al clan familiare, poi  qualcuno  forzava per farci entrare ogni componente le tribù d’Israele; con dispute infinite si poteva arrivare ad ammettere lo straniero…

  16. Gesù non ritiene che sia il caso di forzare, di caricare un fardello a questo israelita che ha durezza di cuore e convinzioni radicate. Per questo gli dice: “Bravo! Fa questo e vivrai”.

  17. Il testardo è anche orgoglioso, perciò vuole giustificare la sua domanda: ”E   chi è il mio prossimo?”

  18. Gesù racconta la parabola: un viandante è derubato… il sacerdote e il levita  passano oltre…per caso un samaritano…

  19. In altre parole si potrebbe dire che un israeliano è lasciato mezzo morto ai  margini della strada da ladroni, forse sabotatori arabi…è soccorso da un     arabo suo nemico.

  20. Parlando un linguaggio più occidentale, si potrebbe anche dire che quell’uomo mezzo morto era un operaio…così ridotto dai suoi sfruttatori…chi lo ha soccorso era un industriale che passava per  quella via.

  21. Qualcuno ha visto nell’uomo mezzo morto uno studente, uno di quelli che  protestano contro questo mondo d’iniquità e servitù con tanta passione da      cospargersi di benzina e bruciare se stesso per la strada…Chi l’ha  soccorso è un operaio maturo, che conosce il peso della vita, e d ha avuto pietà di lui e della sua giovinezza disperata.

  22. Si potrebbe continuare a dire chi è l’uomo mezzo morto sulle vie asfaltate  di questo mondo e chi è che gli si ferma accanto e vede in lui un fratello.

  23. C’è una spiegazione sul perché il sacerdote e il levita sono passati oltre?

  24. Sembrerebbe di sì. Al tempo di Gesù c’erano circa 7000 sacerdoti che a turno svolgevano servizi nel tempio. Ogni sacerdote serviva al tempio 5 settimane l’anno; nella settimana di  servizio, era estratto a sorte il sacerdote, che doveva svolgere il servizio più importante, che era alimentare il braciere con l’incenso nel tempio (noi lo chiameremo il sancta sanctorum), quel servizio cui fu chiamato Zaccaria, il giorno in cui gli apparve l’angelo Gabriele che gli annunziava la nascita di          Giovanni Battista.

  25. Nel resto dell’anno svolgevano una professione laica, molti erano scribi.

  26. Importante: per accedere a queste funzioni sacerdotali, bisognava essere mentalmente e fisicamente integri.

  27. I leviti erano circa 10.000 e anch’essi facevano ognuno turni di servizio per settimane l’anno; non erano pagati e facevano i lavori più umili al tempio: pulizia, guardia al tempio perché non entrassero pagani, animazione per la liturgia e il canto. Erano poveri e anche loro svolgevano, per vivere, un’altra attività.

  28. Se Gerusalemme era la Città Santa¸ dove si trovava il tempio del Signore, Gerico era la città sacerdotale dove cioè risiedevano sia sacerdoti sia i leviti;  ma Gerico era anche una città di scambi commerciali, dove si poteva trovare di tutto un po’, con presenze anche di tipi, poco raccomandabili.

  29. Ci sono circa 27 chilometri da Gerusalemme a Gerico e si supera un dislivello di circa 900 metri s.l.m. Gerico era a circa 200 metri sotto il livello del mare. Era una strada che si prestava bene ad imboscate dei briganti.

  30. Il sacerdote per esercitare le sue funzioni doveva essere puro. Bastava un niente perché dovesse sottoporsi a lavaggi, purificazioni, osservare determinate regole. Quello che sta scendendo è immacolato.

  31. Adesso possiamo capire meglio perché il sacerdote e il levita sono andati oltre: bisognava essere mentalmente e fisicamente integri¸ vale a dire puri  e il contatto con un uomo morto, significava perdere la purezza, e quindi sette giorni di astinenza dai compiti sacerdotali, e se quei giorni erano di servizio al tempio, non era certamente un guaio da poco.

  32. Un sacerdote davanti a un ferito doveva scegliere: osservo la legge di Dio, l’amore di Dio o l’amore per il mal capitato? La conclusione è ovvia: prima  la legge di Dio. Quindi, lui che evita il malcapitato non lo fa per crudeltà o perché è cattivo: lo fa perché osserva la legge di Dio.

  33. Il levita era una specie di sacrestano, con molte meno responsabilità. Poteva soccorrere un uomo, l’importante è che appartenesse a figli puri d’Israele, e con il via-vai che c’era per quella strada, non si faceva tante domande, se il viandante era un puro figlio d’Israele oppure no .

  34. Il sacerdote e il levita che passano oltre dal lato opposto della strada, possono oggi rivestire abiti molto diversi e non essere necessariamente dei religiosi, ma essere dei propagandisti di questa o quella ideologia,  ritenuta più importante dell’uomo e della vita dell’uomo.

  35. Possono essere dei rivoluzionari che ritengono inutile un atto di pietà, finché non siano modificate le strutture sociali.

  36. Possono avere l’aspetto di persone oneste e per bene che non vogliono  turbare l’ordine pubblico, rispettando le leggi e le autorità costituite. In  realtà nell’intimo sono degli egoisti, ripiegati su se stessi, privi di ogni senso di umanità, irritati contro chi disturba il loro quieto vivere.

  37. Anche costoro, religiosi o laici che siano, rivoluzionari o conservatori, passano oltre dal lato opposto della via.

  38. Gesù prepara la sorpresa sconvolgente che non ha ancora finito di sconvolgere: “Un samaritano invece, essendo in viaggio venne presso di lui”.

  39. I Samaritani non erano considerati puri.

  40. Questa è una vicenda storica: dopo il re Salomone il Regno d’Israele fu diviso in due, regno del nord e regno del sud:al nord c’era la Samaria e al sud la Giudea.

  41. Invasioni varie disgregarono i due regni ma con la differenza che i Giudei si preservarono puri, sia nel culto sia nella razza;

  42. Gli abitanti della Samaria invece si unirono a donne non ebree, e per gli ebrei la donna era colei che conservava la purezza del sangue della razza.

  43. Essi mescolarono anche tradizioni diverse nella religione.

  44. Il Samaritano non era ben visto proprio per queste ragioni: era un impuro perché mescolato ad altre razze e religioni; tant’è vero che alcune famiglie giudee stabilite in Galilea, a nord della Samaria (per capire meglio sarebbe utile consultare una cartina della Palestina), per giungere a Gerusalemme, a sud della Samaria, non entravano direttamente in Samaria ma allungavano  il viaggio passando verso il mare¸ la via maris, o attraversando  il Giordano per evitare, come dice il libro del Siracide “lo stolto popolo che abita in Sichem”. Il Samaritano era un eretico e nemico del popolo dei giudei. Non poteva entrare nel tempi, era un nemico totale degli ebrei.

  45. Fu Gesù – va ricordato per inciso – a passare attraverso Sichem dove incontrò la Samaritana ma questa è un’altra storia.

  46. Chi è questo Samaritano? Un viaggiatore, probabilmente un commerciante, lavoro molto comune in Samaria.

  47. Il samaritano che si avvicina cosa fa: lo ammazza? Lo deruba? No.  “…avendolo visto, ebbe compassione”.

  48. Nel brano evangelico vanno evidenziati i verbi portanti: quando leggiamo “ne ebbe compassione”¸ nel testo greco vi è scritto: provò un amore viscerale. Il termine è usato anche nel primo comandamento: ama (visceralmente) il tuo Dio con tutto il cuore …

  49. Gesù sta dicendo qui qualcosa che all’orecchio di un ebreo suona come  una bestemmia.

  50. “…ebbe compassione” non vuol dire ebbe misericordia. Avere compassione è un termine tecnico che nell’Antico Testamento indica sempre, soltanto ed esclusivamente l’azione di Dio verso gli uomini.

  51. Dio verso gli uomini ha compassione, gli uomini verso i loro simili hanno  misericordia, non compassione.

  52. Compassione significa restituzione di vita che solo Dio può dare.

  53. Nel Vangelo, oltre a questo caso, troviamo il verbo nel cap.6 quando Gesù incontra la vedova di Naim. Egli prova compassione e risuscita il figlio. Nella  parabola del figliol prodigo il padre vede il figlio e ha compassione.

  54. Gesù, quindi, attribuisce a un eretico, indemoniato e impuro l’atteggiamento che solo Dio può avere: la compassione.

  55. Avere l’atteggiamento di Dio non dipende dalla frequenza al tempio, non  dipende neanche dal Dio in cui si crede o dall’atteggiamento che si ha verso di Lui.

  56. Gesù viene a dire che dipende da come ci si comporta verso gli altri.

  57. Nella religione il credente è colui che obbedisce a Dio osservando le sue leggi.

  58. Con Gesù questo atteggiamento finisce. Gesù non inviterà mai gli uomini a obbedire a Dio, perché Dio non chiede obbedienza, ma assomiglianza.

  59. L’obbedienza significa sempre una distanza tra chi comanda e chi obbedisce; la somiglianza accorcia queste distanze, ecco perché siamo chiamati figli di Dio.

  60. Allora il credente è colui che assomiglia al Padre praticando un amore simile al Suo.

  61. Chi è il credente tra il sacerdote, il levita e l’eretico? E’ certamente l’eretico.

  62. Da qui emerge l’universalità del messaggio di Gesù: che uno sia credente non si vede da quante volte entra nel luogo di culto, non si vede dall’atteggiamento religioso ma unicamente da come si comporta con gli altri.

  63. Gesù mette in guardia dai giudizi e pregiudizi. Noi soppesiamo volentieri le persone dalla frequenza alla chiesa, Gesù c’invita a guardare il bene che fanno, i servizi che svolgono per gl’altri. “ Dio è amore, e chi vive nell’amore è unito a Dio, e Dio è presente in lui” (1 Gv 4,16). Su tutte le latitudini del mondo.

  64. Il Samaritano antepone l’accoglienza nei confronti del ferito al di sopra dei suoi personali interessi: si trova in viaggio, si ferma, ritarda i suoi impegni. Soccorrendo, egli espone effettivamente se stesso ai rischi della  violenza, entra in una situazione pericolosa.

  65. Egli sa che la zona è percorsa da delinquenti ma non pensa al pericolo che corre, pensa all’altro che è in fin di vita.

  66. Non si conforma al comportamento degli altri: del sacerdote, del levita, degli  stessi samaritani. Fa quello che ritiene il suo dovere, senza rifiutarsi di farlo, nonostante “tutti facciano così”.

  67. Un vero aiuto non può venir recato senza essere sul posto dove c’è uno che soffre, senza mettere a repentaglio la propria esistenza. Il Samaritano non cerca qualcuno da mandare, va di persona.

  68. Cerca di utilizzare al meglio le risorse di cui dispone.

  69. Deterge le ferite e le medica con gli unici rimedi che ha con sé:

  70. Lo fascia con bende improvvisate, carica il ferito sul suo cavallo e cerca per lui una più adeguata sistemazione: “…e, caricatolo sulla propria    cavalcatura…”: è il comportamento di Dio. Il Dio di Gesù è il Dio che si mette al servizio degli uomini. Questo eretico, pur essendo considerato un impuro, è in piena comunione con Dio e si comporta come Dio. Lui che era sul cavallo scende e ci mette il ferito. Egli si fa servo di colui che trasporta.

  71. Predispone una struttura assistenziale.

  72. L’albergatore rappresenta la comunità coinvolta, ogni realtà sociale che si fa istituzione accogliente.

  73. Il sano pragmatismo del Samaritano si esprime con l’intuizione che, a ciò che ha già fatto, bisogna stanziare una somma per l’assistenza all’infermo.

  74. Decide di mettere mano ai suoi fondi senza contare di ottenere qualcosa in cambio.

  75. Il suo gesto esprime una solidarietà sociale.

  76. Nella storia della chiesa il Samaritano è stato sempre visto come il Cristo e in lui l’esempio da seguire.

  77. Si potrebbe pensare che il Signore Gesù, espressione della tenerezza di Dio, abbia voluto darsi un decalogo personale di azioni, dei comandamenti da mettere in pratica verso di noi. In fondo Gesù, lo aveva detto altre volte, in maniera più esplicita: “non sono venuto per essere servito ma per servire”.

  78. Il Signore nella parabola ci presenta un uomo agli estremi per le ferite nel corpo e nell’anima e per la sua solitudine disperata. Ma poi non ci dice: questo è il tuo prossimo. Anzi ci risponde con una domanda: dimmi tu chi è il prossimo di quell’uomo mezzo morto?

  79. In ogni tempo ci si ritrova di fronte a questa risposta obbligata: il prossimo dell’uomo mezzo morto è colui che gli usa compassione.

  80. È interessante notare come Gesù voglia capovolgere il punto di vista del  dottore della legge: costui desidera riconoscere oggettivamente il suo prossimo ogni qualvolta ne avesse avuta l’occasione; Gesù lo invita a  domandarsi se, e fino a che punto, sia disposto ad essere veramente prossimo degli altri.

  81. Questo è il punto essenziale: solo chi non ama sta a domandarsi chi è il suo prossimo, chi ama invece è capace di individuarlo qui e ora.

  82. San Giovanni di Dio, fedele discepolo del Signore Gesù, è quel Samaritano che ognuno vorrebbe incontrare sul suo cammino. Tutti gli riconoscono un particolare carisma. In che cosa consiste? Semplicemente – per modo di dire – nel “Va’ e anche tu fa lo stesso”.

  83. Per andare bisogna essere stati attratti dalla carità del Padre.

  84. Lo Spirito Santo, invocato prima della Consacrazione, fa che il pane e il vino diventino Corpo e Sangue di Gesù.

  85. Lo Spirito Santo invocato dopo la Consacrazione fa che tutti i credenti diventino il Corpo di Cristo, cioè reale manifestazione di Lui e del suo amore presso ogni uomo.

  86. Il santo, proprio perché dimora in Dio ed è vicinissimo al suo cuore, ha una genialità profetica e una forza eroica nel percepire i bisogni degli uomini e nel venire loro incontro.

  87. Abitualmente l’attenzione non è posta agli ultimi che sono i più bisognosi, trascurati, al limite della resistenza. Essi sono doppiamente ultimi anche perché non riescono a farsi sentire, ad attirare l’attenzione, a farsi soccorrere.

  88. Nella risposta del dottore verso la figura tracciata da Gesù si nota un po’ di fastidio: il dottore non dice “il samaritano” ma “colui che ha avuto misericordia”. Probabilmente per il dottore della legge era un problema anche solo il nominare la parola samaritano. Però va notato che non dice quello che ebbe compassione di lui. Non può accettare che un uomo possa comportarsi come Dio. Per lui è inconcepibile e Gesù non insiste: “…va e anche tu fa lo stesso”.

  89. Ma c’è un altro personaggio che nessuno prende mai in considerazione: è il viandante.

  90. Forse è il personaggio più difficile da interpretare: > incappò nei briganti¸ > lo spogliarono¸ > lo percossero, > lo lasciarono mezzo morto. Fin qui potremmo anche ritrovarci nella figura: esperienze di vita, ci dicono come anche noi, chi di più chi di meno, abbiamo vissuto l’incontro con dei briganti che  ci hanno lasciato almeno moralmente mezzi morti.

  91. Qui viene il difficile e cioè l’incontro con il Samaritano-Cristo. La domanda è: > In quelle situazioni mi farei curare?  > Mi lascerei versare l’olio e il vino sulle ferite?   > L’olio era usato per lenire il dolore e il vino per disinfettare ma sono anche simbolismi: olio simbolo che restituisce la dignità rubata e il vino per restituire l’allegria perduta.  > Mi farei caricare sul suo giumento? > Mi farei curare alla locanda, che può essere la Chiesa o la comunità? > Lo farei pagare per me finché sono in cura e oltre, credendo che il Samaritano- Cristo, rifonderà il debito al locandiere al suo ritorno? > Mi lasceresti servire in tutte queste cose? > La lavanda dei piedi: “Se io non ti lavo tu non sarai veramente unito a me” (Gv 13,7).

  92. La difficoltà di vivere appieno questo personaggio sta nella dimensione, anche culturale, della nostra educazione: siamo stati educati prima al dovere poi al piacere; secondo me , per una persona che vuol seguire Cristo, che partecipa alla sua sequela, il cammino da percorrere è l’inverso: se io non mi lascio amare da Dio nelle difficoltà, nelle povertà di qualsiasi genere, non posso aderire completamente a Lui…

  93. L’ultimo personaggio è il locandiere, sicuramente persona di fiducia del Samaritano-Cristo, ed, alla luce di questa riflessione, è la figura del fedele che segue il Signore nel suo servizio d’amore; è pagata con due denari, la paga di due giorni di lavoro; per noi i due denari possono essere simbolicamente la fede e la carità oppure la parola di Dio e l’Eucaristia.     Nell’ambito di una chiesa domestica può essere il coniuge che aiuta l’altro, nei momenti in cui questi si trova nei panni del viandante; nell’ambito invece di una Chiesa universale, il locandiere potrebbe essere il missionario, che opera nella locanda-missione, pagato con i due denari di cui dicevamo prima, vivendo nell’attesa del Samaritano-Cristo, che lo rifonderà al suo ritorno.

  94. Che cos’è il voto di ospitalità? Che cos’è l’ospitalità del 2000? Che non sia una formulazione nuova dell’antica domanda: > Chi è il mio prossimo?  > O quell’altra: Che cosa devo fare per avere la vita eterna?

  95. Quest’ultima è una domanda vitale, il problema fondamentale di ogni esistenza umana. E’ impossibile vivere senza sapere se si è fondati su qualcuno o su qualcosa oppure si è sospesi nel vuoto, nel nulla, per cui tutto gli affanni quotidiani sono semplicemente privi di senso.

  96. Quale che sia la domanda, sul senso della vita e sulla vita eterna, Gesù ribalta la domanda:  > “che cosa dice la Bibbia su questo problema?  > Che cosa vi leggi? > Che cosa hai capito? “

  97. La risposta la suggerisce l’evangelista Giovanni: “Chi ascolta la mia parola e crede nel Padre che mi ha mandato ha la vita  eterna…E’ già passato dalla morte alla vita” (Gv 5,24).

  98. Conclusione: il prossimo non è colui che è da amare, ma colui che ama. Proprio perché ama, si fa prossimo. Il “Fate del bene a voi stessi, fratelli, per amore di Dio” era l’invito di Giovanni di Dio rivolto a gran voce agli abitanti di Granata a farsi prossimo. Vuol dire che aveva capito la lezione evangelica.

  99. Gesù ha seminato la parola, ma il satana del potere e dell’ambizione, ad ogni stagione la porta via. Che i dottori della legge siano stati completamente refrattari al suo messaggio è molto evidente. Che noi siamo migliori di loro è tutto da dimostrare.

  100. Del samaritano dell’ora prima la nostra parabola non parla, ma a volte si può commentare la Bibbia anche a partire dai suoi silenzi: se la strada fosse stata meno pericolosa, custodita meglio… forse i briganti non avrebbero potuto rapinare e lasciare mezzo morto il poveraccio. Nessuno si sarebbe accorto di niente. E’ la carità politica che non si limita a fasciare le ferite, ma fa in modo che le ferite non si creino. E’ una forma molto alta e difficile di carità, che richiede competenza, studio, pazienza…

  101. ….A questo punto, nessuna pretesa di aver capito tutto e bene. L’elenco delle  considerazioni non ha fine e, per ora, si ferma qui.

Mi piace riportare la sintesi di un maestro di Esegesi Biblica:

  • “Nella parabola nulla è detto del ferito: non viene evidenziata la sua identità, ma il suo bisogno. Che altro sapere? Prossimo è qualsiasi bisognoso che ti capita di incontrare, anche lo sconosciuto. Chi sia il prossimo da aiutare non è il frutto di una deduzione teorica, ma un evento. È colui nel quale ti imbatti, non importa chi sia. Questa universalità della nozione di prossimo ha un fondamento, che qui non è dichiarato ma che è supposto dall’intero vangelo, e cioè l’universalità dell’amore di Dio.

  • E’ con l’avvento di Gesù che diventa chiaro che Dio ama ogni uomo, senza differenze: ama i giusti e i peccatori, i vicini e i lontani.

  • Gesù sposta l’ attenzione dello scriba da “chi è il prossimo?” (dopo tutto è una questione teorica) a un’altra domanda, più concreta e coinvolgente: che cosa significa amare il prossimo? A dispetto della domanda dello scriba, la risposta di Gesù pone l’accento sul verbo “amare” più che sul “prossimo” da aiutare. La parabola, infatti, insiste con compiacenza sul comportamento del samaritano: si fermò accanto allo sconosciuto, gli fasciò le ferite, lo condusse all’albergo, pagò interamente il conto. Il samaritano non si è chiesto chi fosse il ferito, e il suo aiuto è stato disinteressato, generoso e concreto. Ecco che cosa significa amare il prossimo.

  • Giunto, poi, alla conclusione del racconto, Gesù pone direttamente allo scriba una domanda che lo invita a spostare ulteriormente il suo interesse: “Chi di questi tre ti sembra essersi fatto prossimo a colui che è incappato nei briganti?”.

  • Dal prossimo come oggetto da amare al prossimo come soggetto che ama, questo è il punto al quale la parabola vuole condurre. Chi sia il prossimo non si può definire, si può esserlo. Il problema risiede proprio qui.

  • Non chiederti chi è il prossimo – sembra dire Gesù – ma piuttosto fatti prossimo a chiunque, abbatti le barriere che porti dentro di te e che costruisci fuori di te. Questo è il vero problema.

  • E così lo scriba – che aveva un problema teologico da risolvere e aveva posto una domanda teorica – si vede invitato a convertire se stesso. (B. MAGGIONI, Il racconto di Luca, Cittadella Editrice, Assisi 2000, pp. 216-218)

A consolazione di ogni mal capitato, scansato da tutti, c’è una scritta incisa su una pietra di un edificio che i pellegrini considerano la locanda della parabola (in realtà è del tempo dei crociati) e che è sulla strada romana tra Gerusalemme e Gerico. Così recita: “Se persino sacerdoti e leviti passano oltre la tua angoscia, sappi che il Cristo è il Buon Samaritano: egli sempre avrà compassione (amore viscerale) di te e nell’ora della tua morte ti porterà alla locanda eterna.”

Meno male!

LE STAZIONI DELL’AMORE – Angelo Nocent

Da ” LE STAZIONI DELL’AMORE

di Angelo Nocent

Agli amici della COMPAGNIA DEI GLOBULI ROSSI le confidenze segrete di un grande amore per Myriam,

la Maestra e la Signora del mare di questo secolo, che lei ci fa attraversare conducendoci al cielo“. (S.Ambrogio, Exhort. ad Virgines). E’ una passione giovanile, sempre coltivata negl’anni e mai venuta meno. Una raccolta di stornelli cantati sotto il suo balcone.

Per parlare degnamente di Maria, come per dipingere le sue icone, bisognerebbe essere santi.

Ma anche i peccatori conoscono la parola tenerezza.

Sono certo che Lei saprà capire e compatire.

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LA MADONNA INNAMORATA

Certamente sei stata una donna
che ha provato la gioia, l’amore;
te lo leggo negl’occhi, Madonna:
a chi hai detto il tuo primo “ti amo!”?
.
Hai vissuto anche tu la stagione
dei vivaci ritrovi festosi,
degli amici, dei suoni, di danze,
il piacere di un abito nuovo.
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Come anfora sotto le mani
del vasaio che plasma l’argilla,
sei cresciuta di dentro e di fuori,
ti sei fatta ogni giorno più bella.
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Ti guardavano tutti, attirati
da qualcosa che sa di mistero:
e’ il candore dell’occhio pulito
che riverbera luce sul corpo. (cfr Mt 6,22-23 )
.
Un ragazzo di nome Giuseppe
una sera ha trovato il coraggio;
agitato, è venuto vicino
e ti ha detto: “Maria, ti amo”.
.
Provi un brivido…E timida: “Anch’io”.
La penombra confonde il rossore
ma nell’iride, come faville,
brilla il cielo coperto di stelle.
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Le compagne sedute sui prati
a sfogliare con te la verbena,
non riuscivano proprio a spiegarsi
rapimenti e tanta passione.
.
Ti vedevano assorta nel tempio,
estasiata cantando nel coro:
Dall’aurora ti cerco, mio Dio,
di te ha sete l’anima mia…”.
.
E di sera, splendente la luna,
raccontando a vicenda le pene
che l’amore produce nel cuore,
le stupivi ogni volta di nuovo.
.
Per parlare del tuo fidanzato
ti sarebbe voluta la cetra:
attingevi dal Cantico i versi
che la bocca colmava di aroma.
.
Riconosco tra mille il mio uomo…
Ha due occhi che sono colombe…
Il suo petto è una piastra d’avorio…
Le sue gambe colonne di marmo.(Can.5,10 ss)
.
Quell’amore di tante compagne,
come l’acqua racchiusa in cisterna,
era limpido e molto sincero
ma con scorie e detriti sul fondo.
.
Non potevano proprio capire
che il tuo amore era senza fondigli
perché dove attingevi, Maria,
era il pozzo di Dio, senza fondo.
.
Ti dobbiamo un po’ tutti le scuse
per aver trascurato di dire
che sei stata una donna stupenda
da qualsiasi punto di vista.
.
I poeti, le chiese, i cantanti,
musicisti, pittori e scultori,
hanno espresso alla Madre di Dio
un tripudio stupendo di arte.
.
Molto meno si parla di quando
trepidavi, sognavi e stupivi
nella Nazareth, con la tua gente,
nel frantume ritmato dei giorni.
.
Come noi sei vissuta nel tempo,
coi vicini di casa, gli amici,
hai studiato e fatto progetti,
condiviso la gioia, il dolore.
.
Lavoravi la lana, cucivi,
ti vestivi, adornavi con gusto,
cucinavi, spazzavi il soggiorno,
hai lavato e disteso il bucato.
.
Più “devoti” che da innamorati,
noi t’ abbiamo eletta Regina,
segregandoti troppo nel Cielo,
preoccupati dei fiori agli altari.
.
Dissociato in tema di amore
il sentire umano e divino,
troppo spesso ai nostri ragazzi
non riusciamo additarti a modello.
.
Abbagliati da tanto candore,
noi ti abbiamo pensata capace
solamente di fiamme celesti,
non di fuochi terreni e scintille.
.
Ma l’amore è unico e santo.
E’ dall’unico incendio che parte
ogni vampa, ogni traccia di fuoco:
la centrale è il Cuore di Dio.
.
Dalle nostre modeste esperienze
non possiamo escluderti ancora.
sei maestra di come si ama
questa terra, non solo il Signore.
.
Il tuo ruolo di donna e di madre
ci aiuti a capire che il fuoco
può accendere lumi di gioia
o far terra bruciata di tutto.
.
Ai bambini diciamo ogni giorno:
“non si deve scherzare col fuoco!”
Per amare ma senza scottarci,
forse abbiamo bisogno di scuola.
.
Tu c’insegni a trattare l’amore:
è una brace che va liberata
dalla cenere con attenzione.
Mai scossoni, altrimenti si spegne.
.
Per amare bisogna imparare:
a morire, se è necessario;
a uscire, a far posto, a lasciare…,
desquamare, se c’è l’egoismo;
.
Chi rispetta il destino degl’altri,
e si toglie di mezzo o ritorna…,
chi nel dare non chiede lo scambio…,
si può dire che è innamorato.
.
Chi trasale a un arcano tramonto,
alla neve, al profumo del mare,
ai colori dell’arcobaleno… ,
si può dire che è innamorato.
.
Se una coppia si guarda negl’occhi,
si accarezza, si stringe la mano,
e non forza i tempi dell’altro…,
si può dire che è innamorata.
.
Creatore di tutte le cose,
con il Salmo Ti esprime la terra
quell’amore che poi non sa dare.
Sui Tuoi jeans , se permetti, incidiamo:
.
O Signore, Tu sei il mio Dio,
dall’aurora ti cerco al tramonto:
di te ha sete l’anima mia,
come arida terra deserta”.
.
Se la fresca sorgente é Maria,
non ci resta che bere alla fonte
da cui sgorga l’amore alla Vita.
Vuoi parlarci d’amore Maria?
Parlaci d’amore, Mariù…”.

VIENI A PRENDERE IL TE’

A CASA MIA

Tu per sempre risiedi sul trono
della gloria, Regina del Cielo,
coronata di dodici stelle,
l’universo prostrato ai tuoi piedi.
.
Tanto tempo è passato da quando
e’ venuto a riprenderti il Figlio
per portarti nel Regno di Dio,
decretata per sempre Sovrana.
.
Torneresti a farti un bel giro
sulla terra che è tanto cambiata,
tra la gente, le nuove contrade,
a giocare coi nostri bambini?
.
Non hai più nostalgia del paese,
del profumo di pane, di agnello,
della torta di mandorle e fichi
che piaceva a Giuseppe, al Bambino?
.
Ti chiediamo però di venire
senza il manto e le insegne regali,
ma vestita com’eri una volta
per narrarci le tue tradizioni.
.
Sei l’orgoglio, il vanto di Dio
sei l’onore del genere umano.
Per un giorno però con noi sfoglia
le tue foto di moglie, di madre.
.
Dio sa quanto noi siamo curiosi
di sentirti narrare la storia
della tua esistenza terrena
sulla quale è calato il sipario.
.
Pur essendo di stirpe regale,
hai vissuto una vita comune,
fatta proprio di cose essenziali,
vera donna coi piedi per terra.
.
Tu sentivi la voce di Dio
e nell’estasi Lui ti rapiva
ma per farti tornare, rinata,
agli obblighi del quotidiano.
.
Sinagoga, famiglia, lavoro,
come tutti i vicini di casa;
stesso pozzo per l’acqua da bere
o mortaio per battere il grano.
.
Se hai provato le umane fatiche,
un sospetto fondato ci viene:
che la nostra penosa giornata
non sia proprio soltanto banale.
.
Hai avuto anche tu i tuoi problemi:
di salute, di soldi, di spese;
rattoppare i vestiti, filare,
inventare la cena con niente.
.
Hai passato momenti di crisi
nei rapporti con lui, tuo marito,
hai spiato anche tu tra le pieghe
tumultuose ed oscure del Figlio.
.
Come tutte le donne hai sofferto
di non essere sempre compresa
o temuto di avere deluso
i due amori più grandi che avevi.
.
Con due uomini simili in casa,
taciturni, assorti e pensosi,
solitudine hai certo provato,
ma sfociava in comune preghiera.
.
Senz’aureola, a capo scoperto,
come stavi, vediamo, Maria?…
La follia di toglierti il velo
solo tu puoi capirla davvero.
.
Eri bella, bellissima, guarda…!
Con la treccia di neri capelli,
stavi bene; che dolce profilo…
E quegl’occhi, quei teneri occhi…
.
Graziosissimo volto ti ha dato
Chi voluta ti ha Genitrice…
il tuo corpo, purissimi raggi,
un tutt’ uno con l’anima tua.
.
Se spegnamo i fari puntati
sull’immensa, regale grandezza,
dietro l’ombra di questa tua carne
ritroviamo sorgenti di luce.
.
Hai avuto i tuoi giorni felici,
gioie caste e senza malizie;
le amarezze non sono mancate:
ne hai patite di tutti i colori.
.
Torna ancora sul nostro pianeta,
inquinato ma bello, ospitale;
passa a prendere un tè in ogni casa:
tanta gente vorrebbe incontrarti.

Di bellezza temiamo parlare.
E’ pudore? E’ambigua la carne?
E’ l’effimero che ci depista
dai sentieri che portano a Dio?
.
Se il Tuo umano splendore ci attrae
e’ perché la bellezza rifulge
nel segreto mistero d’ Iddio,
nostalgia che l’uomo conserva.
.
La bellezza è dono di Dio
seminato qua e là sulla terra:
nelle vette innevate, nei boschi,
nella forza furente del mare.
.
Se natura è un’opera d’arte,
ogni corpo è un capolavoro:
l’armonia in un corpo di donna… ,
Il visino di un cucciolo umano… !
.
La bellezza terrena è un seme
destinato a fiorire nel cielo.
Il viandante la incontra, la vede
e sospira, bramando l’Eterno.
.
Noi vogliamo ammirarti, Maria,
come icona che rende in visione
l’invisibile volto di Dio:
l’Umiliato che in te è Splendore.
.
Elegante, d’intensa bellezza,
ma discreta, tutt’acqua e sapone,
espressiva, di sguardo profondo,
s’intuisce il tuo mondo interiore.
.
O sorella dei giorni terreni,
riservata, di poche parole,
tu sei donna protesa all’ascolto,
afferrata da un’altra Parola.
.
E’ rimasto nei Santi Evangeli
il tuo modo di dire le cose;
un linguaggio essenziale, pregnante:
tanti “sì”, ora un  “fiat”o un “amen”…
.
Poetessa dal cuore ispirato,
hai cantato i prodigi di Dio
con l’antica sapienza dei padri,
acquisita leggendo i profeti.
.
La tua vita è un’ attesa d’orante
fecondata da lunghi silenzi;
fidanzata in attesa, all’inizio,
e poi madre in attesa, alla fine:
.
in attesa dell’ uomo, Giuseppe,
in attesa del Bimbo promesso,
in attesa che esca di casa,
in attesa che adempia il mandato…
.
Cento attese altrettanto struggenti
nell’arcata dei giorni mortali;
sostenuta da quelle promesse
sul Calvario firmate col sangue.
.
E’ importante in presenza di un dramma,
poter cogliere gesti d’amore;
ma ci vogliono antenne capaci
di capire, captare i bisogni.
.
Se le avevi, adesso più ancora.
Tu precedi le nostre richieste,
intuisci, ci leggi nel cuore
e ti accosti a chi ti scantona.
.
Non richiesta, hai fatto i bagagli
e deciso di metterti in viaggio
su pei monti di Giuda e portare
un aiuto all’anziana cugina.
.
Prevenendo anche a Cana un disagio,
hai forzato la mano del Figlio
ottenendone il primo prodigio
per la gioia di umili sposi.
.
Nella notte in cui fu tradito,
hai accolto il disagio di Pietro;
sulla spalla hai permesso lo sfogo,
quell’amaro tristissimo pianto.
.
Chissà quanto ha battuto il tuo cuore
presagendo il suicidio di Giuda;
sei uscita invano a cercarlo,
mentre lui, disperato, vagava.
.
Una vita normale, vissuta
a captare i segnali dei tempi ,
sempre attenta al silenzio di Dio,
eloquente linguaggio d’amore.
.
Tutta sola davanti alla roccia,
sei rimasta a vegliare la notte
per vedere risorgere il Figlio,
primo sguardo sull’Uomo-Glorioso.
.
Vieni ancora, ridacci la mano
senza attendere nostre richieste;
col tuo esempio ci rendi capaci
di far nostri i problemi degl’altri.
.
Emigrata tu stessa in Egitto,
sai benissimo cosa vuol dire
non avere diritto d’asilo,
mendicare un tozzo di pane.
.
Hai provato ed ora conforta
il dolore di madri che figli
hanno visto uscire di casa,
scomparire per sempre nel nulla.
.
Le tempeste si fanno frequenti
per diversi svariati motivi:
c’è la strada che uccide, la guerra,
le passioni, il denaro, la droga…
.
Quella Donna “vestita di sole,
con la luna, sgabello ai suoi piedi,
coronata di dodici stelle”,
è una nostra concittadina.
.

Grazie, Madre, d’averci sfogliato
il tuo album di tanti ricordi.
Eri dolce, eri buona, eri bella,
eri proprio una santa, Maria.
.

Torna ancora sul nostro pianeta;
c’e’ la guerra, il dolore, la fame…
Passa a prendere un te’ nelle case,
metti dentro la testa, Maria !

.
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PREGHIERE

Santa Maria, compagna di viaggio

DIARIO

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.
S
anta Maria,
Madre tenera e forte,
nostra compagna di viaggio sulle strade della vita,
ogni volta che contempliamo
le cose grandi che l’Onnipotente ha fatto in te,
proviamo una così viva malinconia per le nostre lentezze,
che sentiamo il bisogno di allungare il passo
per camminarti vicino.
Asseconda, pertanto, il nostro desiderio di prenderti per mano,
e accelera le nostre cadenze di camminatori un po’ stanchi.
Divenuti anche noi pellegrini nella fede,
non solo cercheremo il volto del Signore,
ma, contemplandoti quale icona della sollecitudine umana
verso coloro che si trovano nel bisogno,
raggiungeremo in fretta la “città”
recandole gli stessi frutti di gioia
che tu portasti un giorno a Elisabetta lontana.
.
.
Santa Maria, Vergine del mattino,
donaci la gioia di intuire,
pur tra le tante foschie dell’aurora,
le speranze del giorno nuovo.
Ispiraci parole di coraggio.
Non farci tremare la voce quando,
a dispetto di tante cattiverie e di tanti peccati
che invecchiano il mondo,
osiamo annunciare che verranno tempi migliori.
Non permettere
che sulle nostre labbra il lamento prevalga mai sullo stupore,
che lo sconforto sovrasti l’operosità,
che lo scetticismo schiacci l’entusiasmo,
e che la pesantezza del passato
ci impedisca di far credito sul futuro.
Aiutaci a scommettere con più audacia sui giovani,
e preservaci dalla tentazione di blandirli
con la furbizia di sterili parole,
consapevoli che solo dalle nostre scelte di autenticità e di coerenza
essi saranno disposti ancora a lasciarsi sedurre.
Moltiplica le nostre energie
perché sappiamo investirle
nell’unico affare ancora redditizio sul mercato della civiltà:
la prevenzione delle nuove generazioni
dai mali atroci che oggi rendono corto il respiro della terra.
Da’ alle nostre voci la cadenza degli alleluia pasquali.
Intridi di sogni le sabbie del nostro realismo.
Rendici cultori delle calde utopie
dalle cui feritoie sanguina la speranza sul mondo.
Aiutaci a comprendere
che additare le gemme che spuntano sui rami
vale più che piangere sulle foglie che cadono.
E infondici la sicurezza di chi già vede l’oriente
incendiarsi ai primi raggi del sole.
.
.
Santa Maria, Vergine del meriggio,
donaci l’ebbrezza della luce.
Stiamo fin troppo sperimentando
lo spegnersi delle nostre lanterne,
e il declinare delle ideologie di potenza,
e l’allungarsi delle ombre crepuscolari
sugli angusti sentieri della terra,
per non sentire la nostalgia del sole meridiano.
Strappaci dalla desolazione dello smarrimento
e ispiraci l’umiltà della ricerca.
Abbevera la nostra arsura di grazia nel cavo della tua mano.
Riportaci alla fede che un’altra Madre, povera e buona come te,
ci ha trasmesso quando eravamo bambini,
e che forse un giorno abbiamo in parte svenduto
per una miserabile porzione di lenticchie.
Tu, mendicante dello Spirito,
riempi le nostre anfore di olio
destinato a bruciare dinanzi a Dio:
ne abbiamo già fatto ardere troppo
davanti agli idoli del deserto.
Facci capaci di abbandoni sovrumani in Lui.
Tempera le nostre superbie carnali.
Fa’ che la luce della fede,
anche quando assume accenti di denuncia profetica,
non ci renda arroganti o presuntuosi,
ma ci doni il gaudio della tolleranza e della comprensione.
Soprattutto, però, liberaci dalla tragedia
che il nostro credere in Dio
rimanga estraneo alle scelte concrete di ogni momento
sia pubbliche che private,
e corra il rischio
di non diventare mai carne e sangue
sull’altare della ferialità.
.
.
Santa Maria, Vergine della sera,
Madre dell’ora in cui si fa ritorno a casa,
e si assapora la gioia di sentirsi accolti da qualcuno,
e si vive la letizia indicibile di sedersi a cena con gli altri,
facci il regalo della comunione.
Te lo chiediamo per la nostra Chiesa,
che non sembra estranea neanch’essa
alle lusinghe della frammentazione,
e della chiusura nei perimetri segnati dall’ombra del campanile.
Te lo chiediamo per la nostra città,
che spesso lo spirito di parte riduce così tanto a terra contesa,
che a volte sembra diventata terra di nessuno.
Te lo chiediamo per le nostre famiglie,
perché il dialogo, l’amore crocifisso,
e la fruizione serena degli affetti domestici,
le rendano luogo privilegiato di crescita cristiana e civile.
Te lo chiediamo per tutti noi,
perché, lontani dalle scomuniche dell’egoismo
e dell’isolamento,
possiamo stare sempre dalla parte della vita,là dove essa nasce, cresce e muore.
Te lo chiediamo per il mondo intero,
perché la solidarietà tra i popoli
non sia vissuta più come uno dei tanti impegni morali,
ma venga riscoperta come l’unico imperativo etico
su cui fondare l’umana convivenza.
E i poveri possano assidersi, con pari dignità,
alla mensa di tutti.
E la pace diventi traguardo dei nostri impegni quotidiani.
.
.
Santa Maria, Vergine della notte,
noi t’imploriamo di starci vicino
quando incombe il dolore,
e irrompe la prova,
e sibila il vento della disperazione,
e sovrastano sulla nostra esistenza il cielo nero degli affanni
o il freddo delle delusioni,
o l’ala severa della morte.
Liberaci dai brividi delle tenebre.
Nell’ora del nostro Calvario,
tu, che hai sperimentato l’eclisse del sole,
stendi il tuo manto su di noi,
sicché, fasciati dal tuo respiro,
ci sia più sopportabile la lunga attesa della libertà.
Alleggerisci con carezze di madre
la sofferenza dei malati.
Riempi di presenze amiche e discrete
il tempo amaro di chi è solo.
Spegni i focolai di nostalgia nel cuore dei naviganti,
e offri loro la spalla perché vi poggino il capo.
Preserva da ogni male i nostri cari che faticano in terre lontane
e conforta, col baleno struggente degli occhi,
chi ha perso la fiducia nella vita.
Ripeti ancora oggi la canzone del Magnificat,
e annuncia straripamenti di giustizia a tutti gli oppressi della terra.
Non ci lasciare soli nella notte a salmodiare le nostre paure.
Anzi, se nei momenti dell’oscurità ti metterai vicino a noi
e ci sussurrerai che anche tu,
Vergine dell’avvento,
stai aspettando la luce,
le sorgenti del pianto si disseccheranno sul nostro volto.
E sveglieremo insieme l’aurora.
Così sia.
.

.

( Tonino Bello, “Maria, donna dei nostri giorni” )

L


02 – INNI E CANTI – Angelo Nocent

OH STUPORE IMMENSO!

1       Oh stupore immenso! – Dio è qui tra noi.
Ciò che accade ora – è incredibile:
Cristo con il sangue – per noi celebra
il connubio eterno con la Trinità.
.
2       Questa Santa Cena – è ineffabile:
Dio consacra, agisce, - Dio ci assimila;
la materia freme, – si vivifica,
l’ Universo intero – con noi giubila.
.
3       Se la nostra bocca – non sa esprimere,
con la fede, il cuore – può comprendere
perchè il mondo viva – Cristo opera,
per la nostra fame – si comunica.
.
4       Non è un rito assurdo – od effimero:
l’ Infinito, il Sommo, - sta nell’ infimo;
nel frammento è il Tutto, – l’ Indicibile;
dal mistero il Verbo – luce genera.
.
5       Con i santi segni - Dio partecipa.
Nel segreto svela – la sua Verità
che fa nuovo l’ uomo – e lo libera
per il giorno eterno – nella Carità.

6       Hai spezzato il Pane – ora, qui, per noi:
Ti contiene, Dio – ci fa uno in Te.
Questi nostri occhi – già intravedono
ciò che hai riservato per l’ eternità.
.
7       Nella Santa Cena – con i Dodici
hai lavato i piedi – ai discepoli;
il Tuo gesto è chiaro, – vale anche per noi:
” come vi ho amato ” – - dici – ” amatevi “.
.
8      Venti tempestosi – ci percuotono,
molti nella crisi – si smarriscono.
Noi t’ apparteniamo: – Gesù salvaci!
Sulla nostra barca – scende il panico.
.
9       Hai acceso un fuoco – inestinguibile:
Forza, Luce, Vita – è il tuo Spirito.
Noi acconsentiamo: – facci liberi,
spezza le catene – che ci opprimono.
.
10    Padre che ci chiami – dall’ eternità,
per Gesù, tuo Figlio, – ritroviamo Te.
Vieni, non tardare: – questa umanità
soffre, crede, spera, – Ti desidera. Amen. (Angelo Nocent)
.
Eseguibile sulla melodia gregoriana dell’ ” Adoro te devote “

Maria - Divina Misericordia

1Madre del Signore,
figlia del tuo Figlio,
Vergine Maria,
mostraci il Suo volto.

2Tu che d’ogni uomo
sei la Madre buona,
svelaci del Padre
il disegno eterno.
.
3Sorgi come aurora,
portaci la Luce,
brilla come stella
sulla nostra notte.
.
4Fonte di dolcezza,
forza del Suo braccio,
volgi a noi lo sguardo,
vieni al nostro fianco.
.
5Passa come nube
sopra il mio deserto,
bagna come pioggia
l’ arido mio campo.
.
6Scalda come sole
l’ anima avvilita,
soffia come vento
Spirito Divino.
.
7Chiama lo smarrito,
spingi l’ indeciso,
frena l’ impetuoso,
piega l’ ostinato.
.
8Brucia l’ egoismo,
placa le passioni,
sradica l’ orgoglio,
semina l’ amore.
.
9Agita nel mondo
forte la giustizia,
regni sulla terra
pace e fratellanza.
.
10Tu che dei malati
sei la medicina,
donaci salute,
portaci conforto.
.
11Pérora la causa
d’ ogni peccatore,
vero pentimento
suscita nei cuori.
.
12Quando verrà il giorno
della nostra morte,
Prendici per mano,
aprici la Porta.
.
13Per i figli prega,
con i figli loda,
nei tuoi figli canta,
gloria dell’ Eterno.
.
14Padre che l’ Amore
genera nel Figlio
Trinità beata,
Ti rendiamo grazie.

CECILIA MARIA CREMONESI VOLONTARIA DELLA SOFFERENZA

 

Stemma del comune

 

    Comune di Madignano

     

    Cecilia Maria Cremonesi

     

     

     Cecilia Maria Cremonesi 

  • Nasce a Madignano (Cremona) il 13 Maggio 1921 alle ore 13, penultima di otto fratelli da Antonio e da Capelli Rosa. Viene spontaneo sottolineare la coincidenza con la data della prima apparizione della B.Vergine Maria a Fatima nell’anno 1917   

  •  

    • Il 19 Giugno 1930 riceve la santa Cresima dal Vescovo di Lodi Calchi Novati, allora Amministratore Apostolico di Crema. A fare da Madrina è la sorella Giuseppina.
    • Da adolescente e giovane dedica alle opere parrocchiali le sue fresche energie: si impegna nell’Azione Cattolica e nella catechesi ai fanciulli.
    • La sua giornata è scandita da momenti significativi: la Messa al mattino presto, i lavori di casa, le attività di apostolato ma coltivando anche l’amicizia con le coetanee e senza tralasciare il contatto con la natura che le infonde tanta pace.
    • Cecilia Maria Cremonesi 30001
    • Sui vent’anni anche lei sogna di formare una famiglia tutta sua ma Dio ha un progetto diverso per lei e lo capirà ben presto . 
    •  

       

    • Cecilia si trasferisce definitivamente a Crema nell’Aprile del 1945 per meglio assistere il papà ammalato e aiutare la sorella Bice nella gestione di un negozio di generi alimentari.   
    •  

       

    • Il calvario della sua sofferenza inizia molto presto. Quando si ammala iniziano le cure assidue segnate da ricoveri  ed interventi chirurgici complessi. Il primo lo subisce  a Bergamo presso la Clinica Gavazzeni nel 1953. Passa da un medico all’altro ma nessuno sa diagnosticare la causa del suo permanente malessere
    •  Cecilia Maria Cremonesi 5 

       

       

    • Dall’anno 1952 è costretta a letto e vi resterà per 13 anni consecutivi fino alla morte.
    • Accetta la croce dalle mani del Signore.
    • Pur nella sofferenza permanente dovuta a crisi dolorose di origini diverse, riesce a non perdere il suo sorriso e a chi le fa visita sa donare parole di conforto.  
    •  

       

    • Ormai profondamente unita a Cristo dal quale riceve la forza, scopre il valore salvifico della sofferenza accettata con fede e offerta con amore, nel silenzio, per il bene delle anime.
    • Il 1 Agosto 1960, a motivo delle sue avvilenti condizioni fisiche Cecilia è a Lourdes in pellegrinaggio con altri malati. Di ritorno dirà alla sorella Bice:
    •  Cecilia Maria Cremonesi-Lourdes

    • Cecilia chiede di riceve per tempo in piena coscienza e consapevolezza il sacramento dell’Unzione dei Malati; le viene amministrato proprio il giorno del Santo natale 1964 alle ore otto del mattino dal parroco e primo biografo Luigi Cavaletti.    
    •  

       

    • Con il sorriso sulle labbra di sposa che va incontro allo Sposo, riceve il Santo Viatico il 28 Marzo 1965.    
    •  

       

    • Cecilia spira santamente nelle braccia dell’amatissimo suo Signore il 30 Marzo 1965 alle ore 7.30 in Crema nella sua abitazione di Piazzale della Rimembranza n.16.
    •  crema_chiesa_di_san_benedetto 

       

       

       

    • Il giorno seguente, 31 Marzo 1965 alle ore 15,30 si svolgono i suoi funerali con larghissima partecipazione di popolo orante. Dopo le esequie svoltesi nella Chiesa parrocchiale di San Benedetto in Crema, la salma e’ trasportata a Madignano, paese nativo, ove trova onorata sepoltura nel locale cimitero.
    •  Cecilia Maria Cremonesi 40001

      CARLO MANZIANA VESCOVO DI CREMA

      Prega di voler accettare le proprie vivissime condoglianze per la morte della santa sorela Cecilia, sicuro che ormai dasl suo doloroso calvario sarà salita nella gloria e nella pace del Paradiso per celebrare l’eterna Pasqua, assicura la sua preghiera più fervida e invia la benedizione più copiosa.

                                                                                                                              f.to

                                                                                                         + Carlo Manziana vescovo

       

  •  

     

     

  • Riceve il sacramento del Battesimo il giorno seguente nella Chiesa Parrocchiale di Madignano dal Priore-Parroco Don Federico Griggi. Madrina al fonte battesimale  è la signora Griffini Domenica di Pietro. Le sono imposti i nomi di Cecilia e Maria.
  • Perde la mamma a soli due anni. Di lei si prenderanno cura le sorelle, soprattutto Giuseppina che le infonderà sentimenti di fede profonda ereditati dalla mamma.
  • Raggiunta l’età dell’obbligo frequenta la scuola elementare del paese con ottimi risultati.
  •  Cecilia riceve per la prima volta Gesù la prima domenica dopo Pasqua dell’anno 1928. Per la Domenica in Albis la chiesa parrocchiale è festosamente addobata ma anche il suo piccolo cuore è ardentemente desideroso di questo incontro che segnerà per sempre la sua vita.  
  •  

     

    File:Mulino Madignano.jpg

    “Non sono andata a Lourdes a chiedere alla Madonna la guarigione, ma la perfezione. Appena immersa nella piscina per incanto tutti i miei dolori sono scomparsi. Avrei voluto gridare al miracolo, invece ho riofferto la mia vita con tutte le sofferenze per la santificazione dei sacerditi e per le altre sante intenzioni”. 

    File:Sacro cuore madignano.jpg

    Sulla sua tomba, all’ingresso, a destra, si legge:

    QUI GIACE
    CECILIA MARIA CREMONESI
    VOLONTARIA DEL DOLORE
    SOFFERTO PER AMORE DI DIO
    OFFERTO PER AMORE DEL PROSSIMO


    Attualmente, presso la Parrocchia di San Benedetto in Crema, ogni domenica dalle 16 alle 18 è possibile visitare la camera nella quale Cecilia Cremonesi visse anni di sofferenza e dove morì.
    Cecilia Maria Cremonesi stanza-1

    Cecilia Maria Cremonesi ha raggiunto il vertice del suo cammino di perfezione divenendo vittima offerta sull’altare della sofferenza per il bene dei fratelli, soprattutto per la santificazione dei sacerdoti. Oggi è solo un testimone del Vangelo ma si prospetta ormai la promozione della sua causa di beatificazione, giacché le sue virtù eroiche ed il mai interrotto collegamento con la sua gente che implora ed ottiene la sua intercessione, convincono trattarsi di santità esemplare che la Chiesa locale sta esaminando. Quell’umile santità di popolo espressa in una vita ordinaria, segnata dalla sofferenza, accettata e offerta, preziosissima agli occhi di Dio.

    CREMA

     ” E’ con gioia nell’amore  di Gesù che mi offro vittima per i sacerdoti e per i bisogni della Chiesa.

    Spero di mantenere fin che vivrò la mia promessa perchè conto sulla onnipotente grazia di Gesù, accompagnata dall’aiuto di Maria “. (Cecilia Cremonesi)

    Cecilia Maria Cremonesi 3

     LA SUA PARROCCHIA DI MADIGNANO

     

     File:San pietro madignano.jpg

    La Chiesa Parrocchiale di San Pietro

     Madignano - SS. Trinità - 1633  Giacomo Inchiocco detto il Barbelli

    Domani a Madignano

    iniziative nel ricordo di Cecilia Cremonesi.

    (Il Nuovo Torrazzo, 12/05/2007)

    Il vescovo Oscar, con apposito atto, ha approvato la costituzione del Comitato – sorto per iniziativa di un gruppo di parrocchiani di Madignano e di San Benedetto, con il consenso dei rispettivi Consigli pastorali – che lavora per promuovere la Causa di beatificazione e canonizzazione di Cecilia Maria Cremonesi.

    Tra le iniziative programmate ricordiamo il depliant diffuso sabato scorso con il nostro giornale, grazie al quale è stato possibile far conoscere a molti la figura straordinaria di questa donna. Domani, domenica 13 maggio, anniversario della nascita di Cecilia, si terrà invece una doppia celebrazione, alla quale tutti sono ovviamente invitati: alle ore 17 un momento di preghiera sulla sua tomba a Madignano, seguita alle 18 dalla messa nella parrocchiale.

    Si tratta di momenti molto significativi per coloro che hanno conosciuto personalmente Cecilia e desiderano farne memoria nella preghiera, ma anche per quelli che vogliono conoscere la vita e la spiritualità di questa volontaria della sofferenza.



    Dolentium Hominum No. 64

    blind

     

     


     

     MESSAGGIO DEL CONCILIO

       AI SOFFERENTI

      

    Per voi tutti, fratelli provati, visitati dalla sofferenza dai mille volti, la Chiesa ha un messaggio tutto speciale. Sente fissi su di sé i vostri occhi imploranti, luccicanti di febbre o accasciati dalla stanchezza, sguardi imploranti, che cercano invano il perché della sofferenza umana e che domandano ansiosamente quando e da dove verrà il conforto.

     

    Fratelli carissimi, noi sentiamo profondamente risuonare nei nostri cuori di padri e di pastori i vostri gemiti e i vostri lamenti. E la nostra pena si accresce al pensiero che non è sempre in nostro potere procurarvi la salute corporale, né la diminuzione dei vostri dolori fisici, che medici, infermieri e tutti quelli che si consacrano ai malati si sforzano di alleviare come meglio possono.

     

    Abbiamo però qualche cosa di più profondo e di più prezioso da darvi: la sola verità capace di rispondere al mistero della sofferenza e di arrecarvi un sollievo senza illusioni: la fede e l’unione all’Uomo dei dolori, al Cristo, Figlio di Dio, messo in croce per i nostri peccati e per la nostra salvezza. Gesù non ha soppresso la sofferenza; non ha neppure voluto svelarcene interamente il mistero: l’ha presa su di sé, e questo basta perché ne comprendiamo tutto il valore.

     

    O voi tutti che sentite più gravemente il peso della croce, voi che siete poveri e abbandonati, voi che piangete, voi che siete perseguitati per la giustizia, voi di cui si tace, voi sconosciuti del dolore, riprendete coraggio: siete i preferiti del regno di Dio, il regno della speranza, della felicità e della vita; siete i fratelli del Cristo sofferente; e con lui, se lo volete, voi salvate il mondo!

     

    Ecco la scienza cristiana della sofferenza, la sola che doni la pace. Sappiate che non siete soli, né separati, né abbandonati, né inutili: siete i chiamati da Cristo, la sua immagine vivente e trasparente. Nel suo nome, la Chiesa vi saluta con amore, vi ringrazia, vi assicura l’amicizia e l’assistenza e vi benedice (Concilio Vaticano II, Messaggi all’umanità)

     


      

    PAOLO VI

    UDIENZA GENERALE

    Mercoledì, 30 agosto 1967

     Paolo VI

    Stimare, sovvenire, prediligere i sofferenti

    IL FRATERNO SERVIZIO AGLI INFERMI

    Diletti Figli e Figlie!

    Salutiamo fra i vari gruppi presenti quello che si qualifica col titolo di «Apostolato della sofferenza» e che merita, proprio per questo titolo, una speciale Nostra considerazione. Lo salutiamo e lo benediciamo, rivolgendo il Nostro affettuoso pensiero a quanti promuovono ed assistono questa ed ogni altra forma di spirituale assistenza e di fraterno servizio agli ammalati; e agli ammalati stessi corre il Nostro pensiero e si estende dappertutto, dovunque sono infermi, pazienti e minorati, dovunque il dolore fisico, e con esso quello morale, tormenta, mortifica ed umilia membra umane, quelle specialmente di fratelli Nostri nella fede e figli Nostri, come appartenenti al gregge di Cristo, che di esso Ci ha fatto pastore. Ricordiamo tutti questi aggregati alla immensa e diffusa città del dolore, negli ospedali, nelle cliniche, negli ospizi, ed anche più quelli che sono rimasti nelle loro case, custoditi dalla pietà e dalla bontà dei loro familiari, e quelli ancora che mancano di assistenza sanitaria e di conforto spirituale, portando con la pena della malattia quella, spesso non meno grave, della solitudine e della povertà. Noi abbiamo ancora presenti gli incontri, sempre per Noi commoventi ed ammonitori, che avemmo occasione, e quasi vorremmo dire fortuna, di avere con l’umana sofferenza, misteriosa e pietosa nei bambini, e quasi intollerabile nei giovani, nelle vittime del lavoro e del dovere, nelle persone su cui appoggia la cura d’una famiglia, desolata anch’essa per la malattia di chi ne era il cuore ed il sostegno; e quella triste e quasi senza speranza dei vecchi, dei cronici, degli alienati. Oh, fratelli sofferenti, oh, figli doloranti sparsi nel mondo, Noi vorremmo che la Nostra voce arrivasse a tutti ed a ciascuno di voi per ripetervi, mentre Noi stessi piangiamo con voi, la parola di Gesù, l’uomo del dolore: «Non piangere» (Luc. 7, l3)!

    LA DOTTRINA CRISTIANA DEL DOLORE

    Perché questa nostra compassione? Per il sentimento comune che rende sensibile chi ha cuore d’uomo verso il dolore dei suoi simili, e lo sollecita, per uno dei più nobili impulsi della natura umana, a dirsi ed a farsi solidali e pronti al soccorso dei mali altrui? Sì, certamente; noi, uomini come siamo, vogliamo essere partecipi a questa compassione filantropica, che fa gli uomini civili e stringe gli uni e gli altri nei vincoli sentimentali e morali di una sorte comune; vogliamo anzi onorare l’educazione e l’organizzazione, che la nostra società moderna, ripudiando certa rediviva spietata fierezza pagana verso i deboli e verso i sofferenti, va saggiamente promovendo. Ma dobbiamo aggiungere che noi, come seguaci di Cristo, e ministri della sua parola e della sua carità, abbiamo anche altri motivi per curvarci, con immensa riverenza e con vivissimo interesse, su quanti soffrono e piangono.

    La dottrina cristiana sul dolore è un’enciclopedia; investe tutta la vita umana, pervade la storia della redenzione, entra nella pedagogia ascetica e nell’iniziazione mistica, si collega col destino eterno dell’uomo. Se in questo breve momento vogliamo contentarci d’uno sguardo su questo vasto mondo, dove il conflitto fra il male ed il bene sembra placarsi nella sublimazione della sofferenza, cercando un sentiero per percorrerlo ed esplorarlo, potremo soffermarci sulla considerazione della posizione che il cristiano occupa nella Chiesa. La Chiesa è il Corpo mistico di Cristo; ogni cristiano è un vivente inserito in questa comunione soprannaturale, dove nessuno è confuso, dimenticato ed inutile: ciascuno è membro; cioè ha una sua funzione insostituibile da compiere, ciascuno una vocazione sua propria, articolata ed armonizzata con quella di tutti gli altri membri del corpo ecclesiastico; e tutti traggono identica vita e ordine singolare dall’unione col Capo della Chiesa: Cristo, il Quale effonde il suo Spirito vivificante in tutta la compagine dei cristiani. Ognuno è cristiforme.

    SUBLIMITÀ DI COOPERAZIONE CON IL REDENTORE

    Già questa è verità consolantissima per chi soffre. Nessuno soffre solo. Nessuno soffre inutilmente. Anzi, secondo panorama, chi soffre ha titoli speciali per avere maggiore partecipazione alla comunione con Cristo: nel sofferente, ce lo ricorda il Concilio (Lumen Gentium, n. 8), si rispecchia in maniera più fedele l’immagine di Cristo; più intima, possiamo dire, se Gesù stesso ha voluto identificarsi con i minimi suoi fratelli (cf. Matth. 25, 35 ss.); chi soffre diventa, in modo singolare, conforme al Signore (cf. Apostolicam actuositatem, n. 16 in fine).

    Di più: chi soffre, chi soffre con Cristo, coopera alla redenzione di Cristo, secondo la celebre e luminosa teologia di San Paolo: «Compio nella mia carne ciò che manca alle passioni di Cristo a vantaggio del corpo di Lui, che è la Chiesa» (Col. 1, 24). Il sofferente non è più inerte e di peso negativo per la società umana e spirituale a cui appartiene; è un elemento attivo; è uno, come Cristo, che patisce per gli altri; è un benefattore dei fratelli, è un ausiliario della salvezza. Solo che questa estrema valorizzazione del dolore esige due condizioni: l’accettazione e l’offerta, l’accettazione paziente e capace d’intuire (altra meravigliosa visione del dolore cristiano!) d’intuire un ordine dietro e dentro il dolore stesso, la mano paterna, anche se grave, del medico divino che sa trarre il bene, un bene superiore, da un male, il male della sofferenza; e l’offerta, che al dolore dà valore proprio della vittima, che annulla in se stessa le esigenze della giustizia e che da se stessa trae la somma espressione dell’amore; dell’amore che dà, dell’amore totale.

    L’EROISMO ANNUNCIATO DALL’APOSTOLO PAOLO

    Oh! Quanto vi sarebbe da meditare e da dire su queste prospettive cristiane del dolore, le quali sembrano e sono estremamente lontane dalla concezione naturalistica della vita, ma sono, in pari tempo, di facile conquista per chi sente e subisce e patisce la severa e spesso atroce realtà del dolore. E aggiungiamo l’ultimo paradosso: di facile godimento. Ditelo voi, cari malati cristiani; ditelo voi, cari sofferenti delle più varie pene, che avete fede in Cristo Signore, e che proprio in virtù di codeste pene sperimentate una strana, ineffabile comunione col Crocifisso; non potete forse anche voi, in un impeto interiore di eroismo cristiano, ripetere le parole dell’Apostolo: «Sovrabbondo di gaudio in ogni tribolazione nostra» (2 Cor. 7, 4)? Sia detto tutto questo ad istruzione nostra: così è la vita cristiana; e sia detto a consolazione dei Nostri figli e fratelli sofferenti, con la Nostra confortatrice Benedizione Apostolica.

GLI AMICI DI Weil Im Schönbuch


GLI AMICI DI Weil Im Schönbuch

3° FESTIVAL DELLA CANZONE ITALIANA

DAGLI ITALIANI ALL ‘ESTERO UNA LEZIONE DI VITA

Voce di uno che grida nel deserto…


Visitate il nuovo sito di San Riccardo Pampuri. nella “Messa” figurate anche voi. La Chiesa che si dilata…

(Nadia)
“un angelo legato a un palo”
“(Veruska)
(Instrumental)———————————————————-
tu mi parlavi ed io ti credevo sincero troppo stupida
ogni parola tua specialmente di sera mi portava via mi portava via
quanto e’ cresciuto il bene questo bene vivendo insieme
quanto tu mi manchi adesso amore mi sorprende…
(Instrumental)————————————————–
dentro il mio cuore sai e’ scoppiata una bomba
devastante credi proibito piangere
su quel giardino ormai piu’ nessuna colomba
vien da piangere vien da piangere
senza piangere sola come un passero sopra un melo
come un angelo legato a un palo
sola da sola il mio cuore adesso vola leggero
e conosce nel dolore l’amore
e mi vien voglia di aiutare e viene voglia di pregare
e mi vien voglia di allargare le mie braccia a tutti
sola da sola il mio cuore adesso vola…
tu camminavi ed io son rimasta schiacciata io lucertola
sei incolpevole lo so
stavo distesa li’ proprio al sole nel prato
sono cose che accadono purtroppo
senza piangere sola
come un passero sopra un melo come un angelo legato a un palo
sola da sola il mio cuore adesso vola leggero
e conosce nel dolore l’amore e mi vien voglia di aiutare
e viene voglia di pregare e mi vien voglia di allargare
le mie braccia a tutti
sola da sola il mio cuore adesso vola leggero
e conosce nel dolore l’amore e mi vien voglia di aiutare
e viene voglia di pregare e mi vien voglia di allargare
le mie braccia a tutti
sola da sola il mio cuore adesso vola…

(Lorena)
Sarà perché ti amo Ricchi e Poveri INTRO——————4Volte
Che confusione sarà perché ti amo
e un’emozione che cresce piano piano
stringimi forte e stammi più vicino
se ci sto bene sarà perché ti amo.
Io canto al ritmo del dolce tuo respiro
e primavera sarà perché ti amo.
Cade una stella ma dimmi dove siamo
che te ne frega sarà perché ti amo.
E vola vola si sa sempre più in alto si va
e vola vola con me il mondo e matto perché
e se l’amore non c’èbasta una sola canzone
per far confusione fuori e dentro di te.
E vola vola si sa
sempre più in alto si va
e vola vola con meil mondo e matto perché
e se l’amore non c’è basta una sola canzone
per far confusione fuori e dentro di te.
INTRO——-1volta sarà perché ti amo—–2 volte
Ma dopo tutto che cosa c’e di strano
e una canzone sarà perché ti amo
se cade il mondo allora ci spostiamo
se cade il mondo sarà perché ti amo.
Stringimi forte e stammi più vicino
e cosi bello che non mi sembra vero
se il mondo é matto che cosa c’e di strano
matto per matto almeno noi ci amiamo.
INTRO——————————————————-1 volta
E vola vola si sa sempre più in alto si va
e vola vola con me il mondo e matto perché
e se l’amore non c’èbasta una sola canzone
per far confusione fuori e dentro di te.
E vola vola si sasempre più in alto si va
e vola vola con meil mondo e matto perché
e se l’amore non c’è basta una sola canzone
per far confusione fuori e dentro di te Finale———————–6 volte

(Jennifer)
ESSERE UNA DONNA(Anna Tatangelo)
con quegli occhi attenti come spilli ardenti mi frughi
come un lupo attendi dentro l’anima discendi indaghi sempre piu’
ti sembro quasi una farfalla un giocattolo una palla si’ da prendere
dimmi il tuo amore cosa vale
so che mi vedi come il miele da mangiare tu
ma ti stai sbagliando sai io non sono una ciliegia
essere una donna / non vuol dir riempire solo una minigonna
non vuol dire credere a chiunque se ti inganna
essere una donna e’ di piu’ di piu’ di piu’ di piu’
e’ sentirsi viva e’ la gioia di amare e di sentirsi consolare
stringere un bambino forte forte sopra il seno
con un vero uomo accanto a me………………..
essere guardata e a volte anche seguita mi pesa
certi complimenti se son rozzi poi ti senti offesa
ti senti come una farfalla un giocattolo una palla da prendere
ma non e’ amore poco vale
sentirsi come il miele da mangiare no
ma ti stai sbagliando sai son davvero un’altra cosa
essere una donna / non vuol dir riempire solo una minigonna
non vuol dire credere a chiunque se ti inganna
essere una donna e’ di piu’ di piu’ di piu’ di piu’
io non cerco un’avventura ma il compagno che vorrei
che tra un bacio e una risata mi fara’ dimenticare
i problemi intorno a me……………….
essere una donna e’ vuol dir provare dentro veri sentimenti
e frenare il pianto e il dolore che tu senti essere di piu’ molto di piu’
essere una donna e’ vuol dir provare dentroveri sentimenti
e frenare il pianto e il dolore che tu sentiessere di piu’ molto di piu’

(Sara)
Colpo di fulmine (Anna Tattangelo)
Intro———————————————
Mi ritrovo qua A raccimolare sogni
Visto che ora mai Li tengo incatenati da un po’
E trattengo il fiato giusto il tempo di intuire quanto quanto mi vuoi bene
E mi ritrovo qua E non so Che sapore ha

Mi avevano avvertito Succede all’improvviso
E quando meno te l’aspetti Ti si colora il viso
È più vulnerabile e dall’equilibrio instabile si allarga la tua vita

E ti ritrovo qua Ma sai Che sapore ha

I sogni non sono nei cassetti perché ci stanno stretti e rimangono a metà
Ed hanno paura del buio
Per questo non vanno compromessi arrivano in diretta senza pubblicità
Crudeli, Selvaggi Come questo… Colpo di fulmine

Intro———————————————————————

Ci ritroviamo qua Niente di sbagliato
Se c’è rimasto il sale Può darsi sia passato di qua

Tratteniamo il fiato giusto il tempo di intuire quanto ci vogliamo bene
Ma che sapore ha Io e te

I sogni non sono nei cassetti perché ci stanno stretti e rimangono a metà

Ed hanno(ed hanno) paura(Paura) del buio (booh!)
Per questo non vanno compromessi arrivano in diretta senza pubblicità
Crudeli, selvaggi Come questo Colpo di fulmine
Arriva adesso e.. mette in disordine un disordine dentro di me

I sogni non sono nei cassetti perché ci stanno stretti e rimangono a metà
Ed hanno paura del buio
Per questo non vanno compromessi arrivano in diretta senza pubblicità
Crudeli, selvaggi
I sogni non sono nei cassetti perché ci stanno stretti e rimangono a metà
Ed hanno paura del buio
Per questo non vanno compromessi arrivano in diretta senza pubblicità
Crudeli, selvaggi..


(Vanessa)
Quando due si lasciano( Anna tatangelo)
di noi vedo a terra i pezzi di un amore che hai buttato via
sono resti di emozioni forti della vita mia
caramelle troppo amare adesso da mandare giu’
lo sai m’hai lasciato un grande vuoto dentro che non va piu’ via
per andare avanti devo dire e’ solo colpa mia
qualche volta ti diventa amica pure una bugia
quando due si lasciano vivi senza regole
quanti giorni inutili che schiacciano i perche’ non si dorme piu’
quando due si lasciano cambi le abitudini
scrivi mille lettere segreti che nessuno leggera’
ormai il convivere con lo star male non mi pesa piu’
sei arrivato proprio a tutto quello che volevi tu
tu che spingi sopra questo cuore per buttarlo giu’
quando due si lasciano vivi senza regole
quanti giorni inutili che schiacciano i perche’ non si dorme piu’
quando due si lasciano cambi le abitudini
scrivi mille lettere segreti che nessuno leggera’
MA QUANDO PASSERA’
per credere che esiste ancora un sogno nella vita mia
trasp
quando due si lasciano gli altri non ti ascoltano
si diventa fragili e si piange subito
quando due si lasciano in fondo non si lasceranno mai
Instrumental————————————————————
quando due si lasciano in fondo non si lasceranno mai…


(Daisy)
Primavera (Marina Rei)
Respiriamo l’aria. E’ la primavera e’ la primavera E’ la primavera
Sabato mattina ancora a scuola  l’ora e’ ormai finita e la mia mente va
una settimana intera e oggi lo vedro’ Dio come mi manca giuro non lo lascero’.
Un’ uscita con l’amica Isa d. lettere nascoste di segreti
e gli appuntamenti alle quattro sotto il bar
con il motorino fino al centro giu’ in citta’.
———————————————————-
Respiriamo l’aria e viviamo aspettando primavera
siamo come i fiori prima di vedere il sole a primavera
ci sentiamo prigioniere della nostra eta’ con i cuori in catene di felicita’
si respiriamo nuovi amori aspettando che sia primavera.
————————————————————————-
Mano nella mano a camminare occhi nei tuoi occhi amore amore
cuori grandi sopra i muri disegnati con i nostri nomi scritti e innamorati.
Mari di promesse fatte insieme vedrai ti aspettero’ finche’ vorrai
un arrivederci dove e quando non si sa
stesso posto stessa ora al centro giu’ in citta’.
Respiriamo l’aria e viviamo aspettando primavera
siamo come i fiori prima di vedere il sole a primavera
——————————————————————–
Respiriamo l’aria e viviamo aspettando primavera
siamo come i fiori prima di vedere il sole a primavera
ci sentiamo prigioniere della nostra eta’ con i cuori in catene di felicita’
si respiriamo nuovi amori aspettando che sia primavera.
————————————————————-
Respiriamo l’aria e viviamo aspettando primavera
siamo come i fiori prima di vedere il sole a primavera
Tu dimmi che mi vuoi ancora dimmi che mi vuoi
tu dimmi non mi lascerai io non ti lascero’


(Giulia)
Hanno ucciso l’uomo ragno
Solita notte da lupi nel Bronx
nel locale stan suonando un blues degli Stones
Loschi individui al bancone del Bar pieni di whisky e margaritas
Tutto ad un tratto la porta fa “slam”
il guercio entra di corsa con una novità
Dritta sicura si mormora che i cannoni hanno fatto “bang”
Hanno ucciso l’uomo ragno chi sia stato non si sa
forse quelli della mala forse la pubblicità
Hanno ucciso l’uomo ragno non si sa neanche il perchè
avrà fatto qualche sgarro a qualche industria di caffè
Alla centrale della polizia il commissario dice che volete che sia
Quel che è successo non ci fermerà il crimine non vincerà
Ma nelle strade c’è il panico ormai
nessuno esce di casa nessuno vuole guai
Ed agli appelli alla calma in TV adesso chi ci crede più
Hanno ucciso l’uomo ragno chi sia stato non si sa
forse quelli della mala forse la pubblicità
Hanno ucciso l’uomo ragno non si sa neanche il perchè
avrà fatto qualche sgarro a qualche industria di caffè
Giù nelle strade si vedono gangs
di ragionieri in doppio petto pieni di stress
Se non ti vendo mi venderai tu per cento lire o poco più
Le facce di VOGUE son miti per noi attori troppo belli sono gli unici eroi
Invece lui si lui era una star ma tanto non ritornerà
Hanno ucciso l’uomo ragno chi sia stato non si sa
forse quelli della mala forse la pubblicità
Hanno ucciso l’uomo ragno non si sa neanche il perchè
avrà fatto qualche sgarro a qualche industria di caffè
————————————————————————-
Hanno ucciso l’uomo ragno chi sia stato non si sa
forse quelli della mala forse la pubblicità
Hanno ucciso l’uomo ragno non si sa neanche il perchè
avrà fatto qualche sgarro a qualche industria di caffè
Hanno ucciso l’uomo ragno chi sia stato non si sa
forse quelli della mala forse la pubblicità
Hanno ucciso l’uomo ragno non si sa neanche il perchè
avrà fatto qualche sgarro a qualche industria di caffè


(Annamaria)
Bambino nel tempo(E. Ramazzotti)
Intro———————————————————
Mentre guardo il mare, il mio pensiero va
alla latitudine di un’altra età,
quando ci credevo nelle favole,
sempre con la testa fra le nuvole,
sogni e desideri diventavano realtà
dentro il libro della fantasia.
Era la stagione della vita in cui non c’è malinconia.
——————————————————————-
Ora in questo tempo d’inquietudine,
sento che non ci si può più illudere.
Nonostante tutto, resta un po’ d’ingenuità,
dentro, la speranza ancora c’è,
come allora, voglio continuare sempre a chiedermi perché

e dipingo a modo mio il mondo intorno a me,
come un bambino nel tempo che non perde mai la sua curiosità,
è l’istinto che mi fa volare via di qua.
Un bambino nel tempo non si arrende mai, cerca la felicità,
——————————————————————-
Respirando l’aria di salsedine,
mi fa compagnia la solitudine.
Questo posto mi sembrava magico
nel ricordo di quand’ero piccolo.
Come allora, cerco una risposta che non c’è
e non so che differenza fa:
rimanere fermo ad aspettare oppure andare via di qua.

E dipingo a modo mio il mondo intorno a me.
Come un bambino nel tempo che non perde mai la sua curiosità,
è l’istinto che mi fa cambiare la realtà.
Un bambino nel tempo non si arrende mai, ma cerca la felicità
e per sempre invisibile e vera questa parte di me resterà…
Solista————————————————————————-
E dipingo a modo mio il mondo intorno a me,
un bambino nel tempo non si arrende mai, ma cerca la felicità.

Solista————————————————————————-

DIO DAL NULLA FA GRANDI COSE!

Domenica 10 Dicembre alle ore 15.00 a Schönaich don Emeka ha celebrato la Santa Messa.

La Chiesa piena di fedeli aiutati dal coro di Weil ha intonato bellissimi canti, i quali hanno reso possibile cancellare le tristezze che ci portiamo nel cuore.

Al momento del “PADRE NOSTRO” mani nelle mani abbiamo avuto la sensazione di essere una vera famiglia

Dopo la Santa Messa tutti in sala a far festa……….



Gesù tramite don Emedka si fà pane

Ecco il Miracolo di ogni domenica

Oggi ha Messa pensavo: e se non avremmo piú sacerdoti ?

Dove prenderemmo la forza per cercare di essere buoni cristiani cosí come piace a LUI ?

Grazie Signore per averci dato don Carlo e don Emeka uomini di fede e servi di Dio.

La Comunitá in preghiera

In cosí poco tempo dall’arrivo di don Emeka é giá nato il gruppo
L’ALBERO DELLA VITA

Con un bel sorriso e tanta allegria le donne si sono messe al servizio della Comunitá.servendo caffé e torte.

La Comunitá in festa
ci siamo incontrati tanti vecchi amici ed é nata la Chiesa fuori Chiesa.

Chiesa.de - das ökumenische Kirchen Portal - Das machbar, ökumenisch orientierte aufgreifen, pflegen und vertiefen. Wo liegen unsere Gemeinsamkeiten, wo die Verschiedenheiten. BUON AVVENTO A TUTTI 08.12.2006


:: BUON AVVENTO A TUTTI ::

Vieni e rinasci in noi
Vieni e rinasci in noi, sorgente della vita; vieni e rendici liberi, principe di pace.
Vieni e saremo giusti, seme della giustizia; vieni a risollevarci, figlio dell’Altissimo.
Vieni ad illuminarci, luce di questo mondo: vieni a rifare il mondo, Gesù, figlio di Dio!

Carissimi a voi tutti un BUON AVVENTO
Don Carlo e don Emeka

01 – E LA PAROLA NEL SILENZIO E’ LUCE – POETICA – Angelo Nocent

POETICA

in costruzione

pane

La poesia alta e sublime

non è pane per gente comune.

Io mi limito a fare michette,

filatini a portata di tutti.

L’autore.

E La Parola

nel silenzio

è Luce

Gv 1,5

Bacio william bouguereau 1863-1

ISTRUZIONI PER L’USO 

Caro lettore,

Ti suggerisco

di non divorare questa raccolta

tutta d’un fiato

perché finirebbe per esserti indigesta

e nausearti.

E’ preferibile

che tu ingerisca una pagina alla volta,

come si fa con le compresse,

leggendo e rileggendo,

soffermandoti talvolta

e chiudendo magari gl’occhi,

come quando ci si bacia.

E’ l’unico modo

per entrare in intimità con l’Autore

nella cui Intimità chi ha scritto,

ti ha semplicemente preceduto

e, balbettando, ha tentato poi di riferire.

Vedrai – ne sono certo -

che ti ritroverai con parole

pensieri e sentimenti

migliori di quelli riportati.

E capirai perché.

Il sentiero che pazientemente

ho tracciato nel tempo

e che qui ti indico,

è talvolta sassoso

per difetto di strumenti adeguati.

La colpa è tutta mia.

Ma se hai pazienza di percorrerlo,

Colui che religiosamente cerchi,

divinamente si rivela.

P01 - 2000-cassiopea-gusela-nikon

Punti di luce affissi alla gran volta

sono per noi le stelle, mio Signore,

ma Tu sei nero, sullo sfondo nero

perchè sei luce della stessa luce.

Dopo il bing-bang attendo

l’ Implosione,

che il relativo tocchi l’assoluto

nel punto Uomo-Alpha-Omega-Cristo,

nuova Esplosione,

Esistenza,

Era dell’ Universo ciclico,

pulsante.

Se mi darai velocità di fuga,

io vincerò la forza che mi lega.

P02 2003-orione-giove-cortina-D60

La tua presenza

sospettata ovunque

esplode in chi Ti sfiora

nelle violente ambivalenze:

luce

che inonda

di significato il mondo,

tenebre

che avvolgono

la sacra verità

inattingibile.

Nomi di Dio

nei segni,

i santi sacramenti:

roccia bastone serpe acqua

albero cielo pozzo mare

deserto grotta monte

vino

pane.

P03 - Prière

Da dove giungi a me

- mi chiedo -

Tu che mi salvi?

E mi rispondi

che Tu sei nell’ uomo.

Ci sei, ci stai

per farlo emergere

dal caos che lo circonda,

dal nulla su cui pende.

Tu che rigeneri

il nostro modo di pensarTi,

trapassa il mio sapere

già costituito

ed io confesserò

davanti a te e al mondo

il mio stupore sommo.

Gesù, Tu sei per me

il solo, il vero,l’ unico

criterio di giudizio.

P04 biga

Ti amo

sorella notte

che ci porti

le stelle.

P05 Medico

E’ vero Signore

che ancora oggi

Ti commuovi

davanti ai malati?

E’ vero Signore

che ancora oggi

chi Ti tocca soltanto il vestito

guarisce?

P06 Elena

Guardando la bellezza

cercando la verità

invocando la luce

lottando contro i pregiudizi

sfidando il mondo

ho incontrato Dio

Io non sapevo

di portarlo dentro

impresso nelle mie pupille.

P07 luna_pa

Michie

il tuo viso

illuminato dalla luna

è una cosa

stupenda.

P08 Frate_sole

O mio fratello Sole,

tu sorgerai come ogni altra volta

e mi dirai: ” buon giorno! “.

E tu, sorella Luce,

tu non m’ avviserai ch’ è giunta la mia ora.

Avrò paura?

Vivrò ogni giorno

come se fosse l’ ultimo.

Come se fosse il primo.

E poi, nell’ ora dei sudori freddi,

in vita e in morte,

io so che vieni solo Tu

in nostro aiuto,

Dio.

Si vive da sempre

tra esseri senza la voce:

milioni di stelle,

di pietre,

di alberi e fiori,

milioni d’ insetti,

di pesci,

di muti animali.

Io guardo

atterrito

il mio mondo

e tremo

davanti al silenzio

degli Angeli,

davanti al silenzio

di Dio.

Io solo

ho la voce,

io solo posso parlare

e contemplare il cielo.

denaro


Ha deformato i nostri cuori

il dio Mammona,

ha messo a dura prova

la nostra resistenza,

qui, dove tutto,

tutto, tutto

fa pensare a Dio.

Gesù ed il Cireneo

Giov. 19,17 – Gesù portando la croce, andò verso il luogo detto cranio, o Calvario, in Ebraico : Golgota.

Aiutami a portare

quella croce

che Tu hai preparato

su misura,

Padre mio,

per queste spalle,

alvolta generose,

ma tanto, tanto stanche.

A vent’ anni ero audace

Ora prevale la paura,

il conformismo

e sono accomodante.

Dammi, Signore,

lo Spirito di Dio

per controbilanciare il peso.


Oh Tu che tessi

la trama dei miei giorni,

sconvolgi pure i miei progetti,

disperdi i miei fumosi sogni.

Le Tue sorprese, Padre,

destano stupore.

Ho visto tante volte il cielo

perfino in una pozza d’ acqua!

P14 - Formiche

Vai

corri

e non hai tempo

di guardare in alto

e contemplare il cielo.

Fanno così anche le formiche.

Ti aggrappi,

ti abbarbichi al suolo

con tutte le radici

come se fossi un albero,

solo e soltanto un albero.

P13

Vivo

evidente

c’è nel creato

il Tuo sigillo

dolce Creatore.

C’ è nel bambino

nel vento

nel sole

c’ è nelle stelle

nell’ acqua

nel fiore

nella formica

che mangia la rosa.

Vivo

evidente

c’ è nel creato

il tuo sigillo

dolce Creatore.

P7210085

Ho visto ancora gli Angeli
raccogliere
gocce di sudore
come se fossero brillanti.
Io so dove le portano…
Maria 11

Ti saluto, Maria!

Il Signore è con te:
Egli ti ha colmata di grazia    (Lc. 1,28)
Dio ti ha benedetta
più di tutte le altre donne
e benedetto è il bambino che avrai!   (Lc. 1,42)
Maria,
santa madre di Dio,
prega per noi peccatori
adesso e nell’ ora
della nostra morte. Amen.


Immagine:Giotto - Scrovegni - -38- - Ascension.jpg


E se ne stanno lì a guardare il cielo.
Ma quel Gesù assunto fino al cielo
tornerà un giorno allo stesso modo
in cui l’ han visto andare in cielo. (Atti 1,9-11)
Cielo, cielo, cielo…
Lui se n’ è andato
e tutti qui a bocca aperta.
Scende l’ oscurità e il freddo
sulla terra,
come se il sole fosse tramontato.
Una nebbiosa solitudine
avvolge il cuore.
Un uomo
solo nel deserto
l’ unica cosa che può fare
è aspettare
sperando che qualcuno venga.
Dammi risposta alle domande
che proprio Tu fai sorgere nel cuore.
Gesù, fammi capire
che te ne sei andato
per restare.

04 SAMARITANI O ALBERGATORI ? – Meglio una parabola – A.Nocent

  

 
MEGLIO UNA PARABOLA   

 

L’ospedale ideale può concretizzarsi solo con l’aiuto dello Spirito Santo, colui che fa dimorare nell’amore di Gesù Cristo e ricorda di compiere i suoi insegnamenti. Il Salvare ha compiuto gesti prodigiosi per sanare debolezze umane e, nell’attesa che il Suo regno venga e la Sua volontà si compia, Egli ripete “ Va’ e comportati allo stesso modo” (Lc 10,37).

I cristiani, Fatebenefratelli in prima linea, sono dalla Chiesa mandati in soccorso di coloro che subiscono imboscate lungo la strada. Il rischio che corre ogni discepolo è di rispondere: “Sì, ho capito, adesso vado…un momento…Appena torno dal Convegno… Adesso devo andare al Capitolo per discutere la bozza sull’ospitalità del 2000…Adesso sono preso con la Commissione, poi ne parliamo…” E intanto si dilunga l’antica disputa: “Ma chi è il mio prossimo?” (Lc 10,39).

E’ non solo doveroso ma necessario ristabilire la frequenza d’onda sul voto di ospitalità, definire il ruolo dei laici coinvolti o da coinvolgere nel ministero sanante. Ma le idee chiare si formano inginocchiati sulla Parabola Evangelica. La carta d’identità sulla quale ogni votato all’ospitalità è chiamato a modellarsi è il Samaritano, uomo di poche parole, essenziali, incisive. Nessuno si illuda di averlo appieno compreso una volta per tutte. La storiella è arcinota, ma i verbi e gli aggettivi che la compongono, molto meno:

“ Un maestro della legge voleva tendere un tranello a Gesù. Si alzò e  disse:

 - Maestro, che cosa devo fare per avere la vita eterna?

26 Gesù gli disse: – Che cosa c’è scritto nella legge di Mosè ? Che cosa vi leggi?

27 Quell’uomo rispose: – C’è scritto: Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo  cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e con tutta la tua mente, e ama il prossimo tuo come te stesso.

28 Gesù gli disse: – Hai risposto bene! Fa’ questo e vivrai!

29 Ma quel maestro della legge per giustificare la sua domanda chiese ancora a Gesù: – Ma chi è il mio prossimo?

30 Gesù rispose: «Un uomo scendeva da Gerusalemme verso Gèrico, quando incontrò i briganti. Gli portarono via tutto, lo presero a bastonate e poi se ne andarono lasciandolo mezzo morto.

31  Per caso passò di là un sacerdote; vide l’uomo ferito, passò dall’altra parte della strada e proseguì.

32 Anche un levita del tempio passò per quella strada; anche lui lo vide, lo scansò e prosegui.

33 Invece un uomo della Samaria, che era in viaggio, gli passò accanto, lo vide e ne ebbe compassione.

34 Gli andò vicino, versò olio e vino sulle sue ferite e gliele fasciò. Poi lo caricò sul suo asino e lo portò a una locanda e fece tutto il possibile per     aiutarlo.

35 Il giorno dopo tirò fuori due monete d’argento, le diede al padrone  dell’albergo e gli disse: “Abbi cura di lui e anche se spenderai di più pagherò io quando ritorno”».

36 A questo punto Gesù domandò: – Secondo te, chi di questi tre si è comportato come prossimo per quell’uomo che aveva incontrato i briganti?

37 Il maestro della legge rispose: – Quello che ha avuto misericordia di lui.  Gesù allora gli disse: – Va’ e comportati allo stesso modo.” (Lc 10,25-37)  

Come ogni parabola di Gesù, anche questa è stata letta in tanti modi lungo i secoli e, come ogni parabola evangelica, non esaurisce mai le sue sorprese, né finisce di provocare, ferire, stupire chi la interpella. Più che interrogare furbescamente Gesù, da astuti maestri della legge che tendono tranelli alla Chiesa per giustificare comportamenti opportunistici, è bene mettersi in atteggiamento di interrogati, cercando di captare ogni parola che esce dalla bocca del Signore. Per capire meglio il senso della parabola è necessario partire dalla situazione in cui Gesù si è venuto a trovare:   

  1. Gli si presenta davanti un dottore della legge che ha intenzione di metterlo alla  prova: “Che devo fare per ereditare la vita eterna ?”

  2. Da teologo vuole vedere se il Signore ha qualcosa di nuovo da insegnare  per la vita eterna; da laico critico, di ieri e di oggi, cerca risposte per i problemi  della vita di ogni giorno.

  3. In lui, dottore della legge, abitano il teologo e il laico. Dentro di sé egli à già la risposta, positiva o negativa, religiosa o sociale, ideologica o pratica.

  4. Quell’uomo che fa domande siamo tutti noi. In imbarazzo non è Gesù ma  gli interlocutori che si autoconfondono con le proprie parole.

  5. Perché non ha chiesto: “Chi è il mio Dio?” Perché è già sicuro di saperlo: è una persona religiosa che prega e frequenta regolarmente il tempio.

  6. Se non fosse religioso ma laico, non chiederebbe ugualmente: “Chi è il mio Dio?” Il perché è semplice: il prossimo sembra essere la cosa più  importante, più vera e più viva.  

  7. Con ironia Gesù gli chiede: “Che cosa capisci?”

  8. Costretto a rispondere, dice:”amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore,  con tutta la tua vita, con tutte le tue forze e con tutta la mente ed il prossimo tuo come te stesso”. 

  9. Gesù non rifiuta questa impostazione del problema. Egli sa che c’è il  prossimo dell’uomo religioso e il prossimo del laico, il prossimo del cristiano  e il prossimo dell’uomo di strada.

  10. La risposta è lo Shemah (“Ascolta, Israele…”), che unisce due citazioni dell’Antico Testamento, l’amore per Dio (Dt 6,5) e per il prossimo (Lv 1 9,18).

  11. Lo scriba ottiene l’approvazione di Gesù perché ha dimostrato di aver studiato bene la Scrittura.

  12. La tragedia è per i cristiani: molti di essi pensano che “ama il prossimo tuo come te stesso” sia l’insegnamento anche per loro.

  13. Gesù parlando alla sua comunità non ha mai detto amate il vostro  prossimo come voi stessi.

  14. Questo concetto di prossimo va bene per la spiritualità ebraica, per uno   criba, un teologo, ma, attenzione, non è il comandamento nuovo che ha lasciato Gesù. Il suo è radicalmente diverso: “amatevi come io vi ho amato”. Guai a confondersi! Purtroppo questa cantonata è presente nelle prime nuove Costituzioni post Concilio, alla voce Voto di ospitalià. Le ultime non le conosco.

  15. Il prossimo era inteso nel senso di appartenente al clan familiare, poi  qualcuno  forzava per farci entrare ogni componente le tribù d’Israele; con dispute infinite si poteva arrivare ad ammettere lo straniero…

  16. Gesù non ritiene che sia il caso di forzare, di caricare un fardello a questo israelita che ha durezza di cuore e convinzioni radicate. Per questo gli dice: “Bravo! Fa questo e vivrai”.

  17. Il testardo è anche orgoglioso, perciò vuole giustificare la sua domanda: ”E   chi è il mio prossimo?”

  18. Gesù racconta la parabola: un viandante è derubato… il sacerdote e il levita  passano oltre…per caso un samaritano…

  19. In altre parole si potrebbe dire che un israeliano è lasciato mezzo morto ai  margini della strada da ladroni, forse sabotatori arabi…è soccorso da un     arabo suo nemico.

  20. Parlando un linguaggio più occidentale, si potrebbe anche dire che quell’uomo mezzo morto era un operaio…così ridotto dai suoi sfruttatori…chi lo ha soccorso era un industriale che passava per  quella via.

  21. Qualcuno ha visto nell’uomo mezzo morto uno studente, uno di quelli che  protestano contro questo mondo d’iniquità e servitù con tanta passione da      cospargersi di benzina e bruciare se stesso per la strada…Chi l’ha  soccorso è un operaio maturo, che conosce il peso della vita, e d ha avuto pietà di lui e della sua giovinezza disperata.

  22. Si potrebbe continuare a dire chi è l’uomo mezzo morto sulle vie asfaltate  di questo mondo e chi è che gli si ferma accanto e vede in lui un fratello.

  23. C’è una spiegazione sul perché il sacerdote e il levita sono passati oltre?

  24. Sembrerebbe di sì. Al tempo di Gesù c’erano circa 7000 sacerdoti che a turno svolgevano servizi nel tempio. Ogni sacerdote serviva al tempio 5 settimane l’anno; nella settimana di  servizio, era estratto a sorte il sacerdote, che doveva svolgere il servizio più importante, che era alimentare il braciere con l’incenso nel tempio (noi lo chiameremo il sancta sanctorum), quel servizio cui fu chiamato Zaccaria, il giorno in cui gli apparve l’angelo Gabriele che gli annunziava la nascita di          Giovanni Battista.

  25. Nel resto dell’anno svolgevano una professione laica, molti erano scribi.

  26. Importante: per accedere a queste funzioni sacerdotali, bisognava essere mentalmente e fisicamente integri.

  27. I leviti erano circa 10.000 e anch’essi facevano ognuno turni di servizio per settimane l’anno; non erano pagati e facevano i lavori più umili al tempio: pulizia, guardia al tempio perché non entrassero pagani, animazione per la liturgia e il canto. Erano poveri e anche loro svolgevano, per vivere, un’altra attività.

  28. Se Gerusalemme era la Città Santa¸ dove si trovava il tempio del Signore, Gerico era la città sacerdotale dove cioè risiedevano sia sacerdoti sia i leviti;  ma Gerico era anche una città di scambi commerciali, dove si poteva trovare di tutto un po’, con presenze anche di tipi, poco raccomandabili.

  29. Ci sono circa 27 chilometri da Gerusalemme a Gerico e si supera un dislivello di circa 900 metri s.l.m. Gerico era a circa 200 metri sotto il livello del mare. Era una strada che si prestava bene ad imboscate dei briganti.

  30. Il sacerdote per esercitare le sue funzioni doveva essere puro. Bastava un niente perché dovesse sottoporsi a lavaggi, purificazioni, osservare determinate regole. Quello che sta scendendo è immacolato.

  31. Adesso possiamo capire meglio perché il sacerdote e il levita sono andati oltre: bisognava essere mentalmente e fisicamente integri¸ vale a dire puri  e il contatto con un uomo morto, significava perdere la purezza, e quindi sette giorni di astinenza dai compiti sacerdotali, e se quei giorni erano di servizio al tempio, non era certamente un guaio da poco.

  32. Un sacerdote davanti a un ferito doveva scegliere: osservo la legge di Dio, l’amore di Dio o l’amore per il mal capitato? La conclusione è ovvia: prima  la legge di Dio. Quindi, lui che evita il malcapitato non lo fa per crudeltà o perché è cattivo: lo fa perché osserva la legge di Dio.

  33. Il levita era una specie di sacrestano, con molte meno responsabilità. Poteva soccorrere un uomo, l’importante è che appartenesse a figli puri d’Israele, e con il via-vai che c’era per quella strada, non si faceva tante domande, se il viandante era un puro figlio d’Israele oppure no .

  34. Il sacerdote e il levita che passano oltre dal lato opposto della strada, possono oggi rivestire abiti molto diversi e non essere necessariamente dei religiosi, ma essere dei propagandisti di questa o quella ideologia,  ritenuta più importante dell’uomo e della vita dell’uomo.

  35. Possono essere dei rivoluzionari che ritengono inutile un atto di pietà, finché non siano modificate le strutture sociali.

  36. Possono avere l’aspetto di persone oneste e per bene che non vogliono  turbare l’ordine pubblico, rispettando le leggi e le autorità costituite. In  realtà nell’intimo sono degli egoisti, ripiegati su se stessi, privi di ogni senso di umanità, irritati contro chi disturba il loro quieto vivere.

  37. Anche costoro, religiosi o laici che siano, rivoluzionari o conservatori, passano oltre dal lato opposto della via.

  38. Gesù prepara la sorpresa sconvolgente che non ha ancora finito di sconvolgere: “Un samaritano invece, essendo in viaggio venne presso di lui”.

  39. I Samaritani non erano considerati puri.

  40. Questa è una vicenda storica: dopo il re Salomone il Regno d’Israele fu diviso in due, regno del nord e regno del sud:al nord c’era la Samaria e al sud la Giudea.

  41. Invasioni varie disgregarono i due regni ma con la differenza che i Giudei si preservarono puri, sia nel culto sia nella razza;

  42. Gli abitanti della Samaria invece si unirono a donne non ebree, e per gli ebrei la donna era colei che conservava la purezza del sangue della razza.

  43. Essi mescolarono anche tradizioni diverse nella religione.

  44. Il Samaritano non era ben visto proprio per queste ragioni: era un impuro perché mescolato ad altre razze e religioni; tant’è vero che alcune famiglie giudee stabilite in Galilea, a nord della Samaria (per capire meglio sarebbe utile consultare una cartina della Palestina), per giungere a Gerusalemme, a sud della Samaria, non entravano direttamente in Samaria ma allungavano  il viaggio passando verso il mare¸ la via maris, o attraversando  il Giordano per evitare, come dice il libro del Siracide “lo stolto popolo che abita in Sichem”. Il Samaritano era un eretico e nemico del popolo dei giudei. Non poteva entrare nel tempi, era un nemico totale degli ebrei.

  45. Fu Gesù – va ricordato per inciso – a passare attraverso Sichem dove incontrò la Samaritana ma questa è un’altra storia.

  46. Chi è questo Samaritano? Un viaggiatore, probabilmente un commerciante, lavoro molto comune in Samaria.

  47. Il samaritano che si avvicina cosa fa: lo ammazza? Lo deruba? No.  “…avendolo visto, ebbe compassione”.

  48. Nel brano evangelico vanno evidenziati i verbi portanti: quando leggiamo “ne ebbe compassione”¸ nel testo greco vi è scritto: provò un amore viscerale. Il termine è usato anche nel primo comandamento: ama (visceralmente) il tuo Dio con tutto il cuore …

  49. Gesù sta dicendo qui qualcosa che all’orecchio di un ebreo suona come  una bestemmia.

  50. “…ebbe compassione” non vuol dire ebbe misericordia. Avere compassione è un termine tecnico che nell’Antico Testamento indica sempre, soltanto ed esclusivamente l’azione di Dio verso gli uomini.

  51. Dio verso gli uomini ha compassione, gli uomini verso i loro simili hanno  misericordia, non compassione.

  52. Compassione significa restituzione di vita che solo Dio può dare.

  53. Nel Vangelo, oltre a questo caso, troviamo il verbo nel cap.6 quando Gesù incontra la vedova di Naim. Egli prova compassione e risuscita il figlio. Nella  parabola del figliol prodigo il padre vede il figlio e ha compassione.

  54. Gesù, quindi, attribuisce a un eretico, indemoniato e impuro l’atteggiamento che solo Dio può avere: la compassione.

  55. Avere l’atteggiamento di Dio non dipende dalla frequenza al tempio, non  dipende neanche dal Dio in cui si crede o dall’atteggiamento che si ha verso di Lui.

  56. Gesù viene a dire che dipende da come ci si comporta verso gli altri.

  57. Nella religione il credente è colui che obbedisce a Dio osservando le sue leggi.

  58. Con Gesù questo atteggiamento finisce. Gesù non inviterà mai gli uomini a obbedire a Dio, perché Dio non chiede obbedienza, ma assomiglianza.

  59. L’obbedienza significa sempre una distanza tra chi comanda e chi obbedisce; la somiglianza accorcia queste distanze, ecco perché siamo chiamati figli di Dio.

  60. Allora il credente è colui che assomiglia al Padre praticando un amore simile al Suo.

  61. Chi è il credente tra il sacerdote, il levita e l’eretico? E’ certamente l’eretico.

  62. Da qui emerge l’universalità del messaggio di Gesù: che uno sia credente non si vede da quante volte entra nel luogo di culto, non si vede dall’atteggiamento religioso ma unicamente da come si comporta con gli altri.

  63. Gesù mette in guardia dai giudizi e pregiudizi. Noi soppesiamo volentieri le persone dalla frequenza alla chiesa, Gesù c’invita a guardare il bene che fanno, i servizi che svolgono per gl’altri. “ Dio è amore, e chi vive nell’amore è unito a Dio, e Dio è presente in lui” (1 Gv 4,16). Su tutte le latitudini del mondo.

  64. Il Samaritano antepone l’accoglienza nei confronti del ferito al di sopra dei suoi personali interessi: si trova in viaggio, si ferma, ritarda i suoi impegni. Soccorrendo, egli espone effettivamente se stesso ai rischi della  violenza, entra in una situazione pericolosa.

  65. Egli sa che la zona è percorsa da delinquenti ma non pensa al pericolo che corre, pensa all’altro che è in fin di vita.

  66. Non si conforma al comportamento degli altri: del sacerdote, del levita, degli  stessi samaritani. Fa quello che ritiene il suo dovere, senza rifiutarsi di farlo, nonostante “tutti facciano così”.

  67. Un vero aiuto non può venir recato senza essere sul posto dove c’è uno che soffre, senza mettere a repentaglio la propria esistenza. Il Samaritano non cerca qualcuno da mandare, va di persona.

  68. Cerca di utilizzare al meglio le risorse di cui dispone.

  69. Deterge le ferite e le medica con gli unici rimedi che ha con sé:

  70. Lo fascia con bende improvvisate, carica il ferito sul suo cavallo e cerca per lui una più adeguata sistemazione: “…e, caricatolo sulla propria    cavalcatura…”: è il comportamento di Dio. Il Dio di Gesù è il Dio che si mette al servizio degli uomini. Questo eretico, pur essendo considerato un impuro, è in piena comunione con Dio e si comporta come Dio. Lui che era sul cavallo scende e ci mette il ferito. Egli si fa servo di colui che trasporta.

  71. Predispone una struttura assistenziale.

  72. L’albergatore rappresenta la comunità coinvolta, ogni realtà sociale che si fa istituzione accogliente.

  73. Il sano pragmatismo del Samaritano si esprime con l’intuizione che, a ciò che ha già fatto, bisogna stanziare una somma per l’assistenza all’infermo.

  74. Decide di mettere mano ai suoi fondi senza contare di ottenere qualcosa in cambio.

  75. Il suo gesto esprime una solidarietà sociale.

  76. Nella storia della chiesa il Samaritano è stato sempre visto come il Cristo e in lui l’esempio da seguire.

  77. Si potrebbe pensare che il Signore Gesù, espressione della tenerezza di Dio, abbia voluto darsi un decalogo personale di azioni, dei comandamenti da mettere in pratica verso di noi. In fondo Gesù, lo aveva detto altre volte, in maniera più esplicita: “non sono venuto per essere servito ma per servire”.

  78. Il Signore nella parabola ci presenta un uomo agli estremi per le ferite nel corpo e nell’anima e per la sua solitudine disperata. Ma poi non ci dice: questo è il tuo prossimo. Anzi ci risponde con una domanda: dimmi tu chi è il prossimo di quell’uomo mezzo morto?

  79. In ogni tempo ci si ritrova di fronte a questa risposta obbligata: il prossimo dell’uomo mezzo morto è colui che gli usa compassione.

  80. È interessante notare come Gesù voglia capovolgere il punto di vista del  dottore della legge: costui desidera riconoscere oggettivamente il suo prossimo ogni qualvolta ne avesse avuta l’occasione; Gesù lo invita a  domandarsi se, e fino a che punto, sia disposto ad essere veramente prossimo degli altri.

  81. Questo è il punto essenziale: solo chi non ama sta a domandarsi chi è il suo prossimo, chi ama invece è capace di individuarlo qui e ora.

  82. San Giovanni di Dio, fedele discepolo del Signore Gesù, è quel Samaritano che ognuno vorrebbe incontrare sul suo cammino. Tutti gli riconoscono un particolare carisma. In che cosa consiste? Semplicemente – per modo di dire – nel “Va’ e anche tu fa lo stesso”.

  83. Per andare bisogna essere stati attratti dalla carità del Padre.

  84. Lo Spirito Santo, invocato prima della Consacrazione, fa che il pane e il vino diventino Corpo e Sangue di Gesù.

  85. Lo Spirito Santo invocato dopo la Consacrazione fa che tutti i credenti diventino il Corpo di Cristo, cioè reale manifestazione di Lui e del suo amore presso ogni uomo.

  86. Il santo, proprio perché dimora in Dio ed è vicinissimo al suo cuore, ha una genialità profetica e una forza eroica nel percepire i bisogni degli uomini e nel venire loro incontro.

  87. Abitualmente l’attenzione non è posta agli ultimi che sono i più bisognosi, trascurati, al limite della resistenza. Essi sono doppiamente ultimi anche perché non riescono a farsi sentire, ad attirare l’attenzione, a farsi soccorrere.

  88. Nella risposta del dottore verso la figura tracciata da Gesù si nota un po’ di fastidio: il dottore non dice “il samaritano” ma “colui che ha avuto misericordia”. Probabilmente per il dottore della legge era un problema anche solo il nominare la parola samaritano. Però va notato che non dice quello che ebbe compassione di lui. Non può accettare che un uomo possa comportarsi come Dio. Per lui è inconcepibile e Gesù non insiste: “…va e anche tu fa lo stesso”.

  89. Ma c’è un altro personaggio che nessuno prende mai in considerazione: è il viandante.

  90. Forse è il personaggio più difficile da interpretare:            > incappò nei briganti¸           > lo spogliarono¸           > lo percossero,           > lo lasciarono mezzo morto.  Fin qui potremmo anche ritrovarci nella figura: esperienze di vita, ci dicono come anche noi, chi di più chi di meno, abbiamo vissuto l’incontro con dei briganti che  ci hanno lasciato almeno moralmente mezzi morti.

  91. Qui viene il difficile e cioè l’incontro con il Samaritano-Cristo. La domanda è: > In quelle situazioni mi farei curare?  >  Mi lascerei versare l’olio e il vino sulle ferite?   >  L’olio era usato per lenire il dolore e il vino per disinfettare ma sono anche simbolismi: olio simbolo che restituisce la dignità rubata e il vino per restituire l’allegria perduta.  > Mi farei caricare sul suo giumento? > Mi farei curare alla locanda, che può essere la Chiesa o la comunità? > Lo farei pagare per me finché sono in cura e oltre, credendo che il Samaritano- Cristo, rifonderà il debito al locandiere al suo ritorno? > Mi lasceresti servire in tutte queste cose? > La lavanda dei piedi: “Se io non ti lavo tu non sarai veramente unito a me” (Gv 13,7).

  92. La difficoltà di vivere appieno questo personaggio sta nella dimensione, anche culturale, della nostra educazione: siamo stati educati prima al dovere poi al piacere; secondo me , per una persona che vuol seguire Cristo, che partecipa alla sua sequela, il cammino da percorrere è l’inverso: se io non mi lascio amare da Dio nelle difficoltà, nelle povertà di qualsiasi genere, non posso aderire completamente a Lui…

  93. L’ultimo personaggio è il locandiere, sicuramente persona di fiducia del Samaritano-Cristo, ed, alla luce di questa riflessione, è la figura del fedele che segue il Signore nel suo servizio d’amore; è pagata con due denari, la paga di due giorni di lavoro; per noi i due denari possono essere simbolicamente la fede e la carità oppure la parola di Dio e l’Eucaristia.     Nell’ambito di una chiesa domestica può essere il coniuge che aiuta l’altro, nei momenti in cui questi si trova nei panni del viandante; nell’ambito invece di una Chiesa universale, il locandiere potrebbe essere il missionario, che opera nella locanda-missione, pagato con i due denari di cui dicevamo prima, vivendo nell’attesa del Samaritano-Cristo, che lo rifonderà al suo ritorno.

  94. Che cos’è il voto di ospitalità? Che cos’è l’ospitalità del 2000? Che non sia una formulazione nuova dell’antica domanda: > Chi è il mio prossimo?  > O quell’altra: Che cosa devo fare per avere la vita eterna?

  95. Quest’ultima è una domanda vitale, il problema fondamentale di ogni esistenza umana. E’ impossibile vivere senza sapere se si è fondati su qualcuno o su qualcosa oppure si è sospesi nel vuoto, nel nulla, per cui tutto gli affanni quotidiani sono semplicemente privi di senso.

  96. Quale che sia la domanda, sul senso della vita e sulla vita eterna, Gesù ribalta la domanda:  > “che cosa dice la Bibbia su questo problema?  > Che cosa vi leggi? > Che cosa hai capito? “

  97. La risposta la suggerisce l’evangelista Giovanni: “Chi ascolta la mia parola e crede nel Padre che mi ha mandato ha la vita  eterna…E’ già passato dalla morte alla vita” (Gv 5,24).

  98. Conclusione: il prossimo non è colui che è da amare, ma colui che ama. Proprio perché ama, si fa prossimo. Il “Fate del bene a voi stessi, fratelli, per amore di Dio” era l’invito di Giovanni di Dio rivolto a gran voce agli abitanti di Granata a farsi prossimo. Vuol dire che aveva capito la lezione evangelica.

  99. Gesù ha seminato la parola, ma il satana del potere e dell’ambizione, ad ogni stagione la porta via. Che i dottori della legge siano stati completamente refrattari al suo messaggio è molto evidente. Che noi siamo migliori di loro è tutto da dimostrare.

  100. Del samaritano dell’ora prima la nostra parabola non parla, ma a volte si può commentare la Bibbia anche a partire dai suoi silenzi: se la strada fosse stata meno pericolosa, custodita meglio… forse i briganti non avrebbero potuto rapinare e lasciare mezzo morto il poveraccio. Nessuno si sarebbe accorto di niente. E’ la carità politica che non si limita a fasciare le ferite, ma fa in modo che le ferite non si creino. E’ una forma molto alta e difficile di carità, che richiede competenza, studio, pazienza…

  101. ….A questo punto, nessuna pretesa di aver capito tutto e bene. L’elenco delle  considerazioni non ha fine e, per ora, si ferma qui.  

Mi piace riportare la sintesi di un maestro di Esegesi Biblica:

  • “Nella parabola nulla è detto del ferito: non viene evidenziata la sua identità, ma il suo bisogno. Che altro sapere? Prossimo è qualsiasi bisognoso che ti capita di incontrare, anche lo sconosciuto. Chi sia il prossimo da aiutare non è il frutto di una deduzione teorica, ma un evento. È colui nel quale ti imbatti, non importa chi sia. Questa universalità della nozione di prossimo ha un fondamento, che qui non è dichiarato ma che è supposto dall’intero vangelo, e cioè l’universalità dell’amore di Dio.

  • E’ con l’avvento di Gesù che diventa chiaro che Dio ama ogni uomo, senza differenze: ama i giusti e i peccatori, i vicini e i lontani.

  • Gesù sposta l’ attenzione dello scriba da “chi è il prossimo?” (dopo tutto è una questione teorica) a un’altra domanda, più concreta e coinvolgente: che cosa significa amare il prossimo? A dispetto della domanda dello scriba, la risposta di Gesù pone l’accento sul verbo “amare” più che sul “prossimo” da aiutare. La parabola, infatti, insiste con compiacenza sul comportamento del samaritano: si fermò accanto allo sconosciuto, gli fasciò le ferite, lo condusse all’albergo, pagò interamente il conto. Il samaritano non si è chiesto chi fosse il ferito, e il suo aiuto è stato disinteressato, generoso e concreto. Ecco che cosa significa amare il prossimo.

  • Giunto, poi, alla conclusione del racconto, Gesù pone direttamente allo scriba una domanda che lo invita a spostare ulteriormente il suo interesse: “Chi di questi tre ti sembra essersi fatto prossimo a colui che è incappato nei briganti?”.

  • Dal prossimo come oggetto da amare al prossimo come soggetto che ama, questo è il punto al quale la parabola vuole condurre. Chi sia il prossimo non si può definire, si può esserlo. Il problema risiede proprio qui.

  • Non chiederti chi è il prossimo – sembra dire Gesù – ma piuttosto fatti prossimo a chiunque, abbatti le barriere che porti dentro di te e che costruisci fuori di te. Questo è il vero problema.

  • E così lo scriba – che aveva un problema teologico da risolvere e aveva posto una domanda teorica – si vede invitato a convertire se stesso. (B. MAGGIONI, Il racconto di Luca, Cittadella Editrice, Assisi 2000, pp. 216-218)

A consolazione di ogni mal capitato, scansato da tutti, c’è una scritta incisa su una pietra di un edificio che i pellegrini considerano la locanda della parabola (in realtà è del tempo dei crociati) e che è sulla strada romana tra Gerusalemme e Gerico. Così recita: “Se persino sacerdoti e leviti passano oltre la tua angoscia, sappi che il Cristo è il Buon Samaritano: egli sempre avrà compassione (amore viscerale) di te e nell’ora della tua morte ti porterà alla locanda eterna.”   

Meno male!                                   

05 SAMARITANI O ALBERGATORI ? – Chi è un votato all’Ospitalità – A. Nocent

  

I votati all’Ospitalità sono donne e uomini che si lasciano soccorrere e curare dalle Scritture nelle quali Dio si fa prossimo. 

 

  CHI E’ UN VOTATO ALL’ OSPITALITA’

 

fra-onorio-tosini-un-votato-allospitalita-150x150La Parabola Evangelica del Samaritano io la vedo come la definizione del voto di ospitalità, carisma “sempre nuovo ed antico” che, in realtà, come la parabola, non si lascia definire perché si adatta alle situazioni ed ai tempi, mantenendo la sua matrice originaria: l’amore di Dio sperimentato nella carne.  

Emette il voto di ospitalità colui che riceve il carisma della “compassione”, ossia di colui che si ritrova, senza suo merito, in preda a un amore viscerale e si mette a totale disposizione di Dio perché lo usi e utilizzi nelle situazioni più impensate.  

Egli è un prescelto e destinato per la comunità dei sofferenti. E’ una luce che discende dalla Croce e dalla risurrezione di Cristo: “Voi siete la luce del mondo”. Com’è possibile? E’ possibile proprio perché Lui “è la luce del mondo”. Questa luce consente di leggere il mondo nella sua dimensione naturale e storica.   

Nella nostra carne e ancor più radicalmente, dentro la carne dell’universo, vi è un processo scritto. Ogni organismo è un frenetico mutare. Di statico non c’è niente. Se è vero che nello stesso fiume non ci si può bagnare due volte, non è solo perché muta il fiume, come diceva Eraclito, ma perché colui che s’immerge muta continuamente.  

Corpo, pelle, sangue, sistema immunitario, cuore, con una velocità vertiginosa di un milione di nuove cellule al secondo, continuano a rigenerarsi. La struttura di fondo che muove ogni organismo vivente è la dinamica di vita e di morte. Alla base della vita c’è quella realtà che i biologi chiamano apoptosi, traducibile come caduta delle foglie, una specie di suicidio cellulare. E’ la cellula che muore perché si dà in pasto alle altre cellule. Ciò accade milioni e milioni di volte al giorno e accompagna tutte le fasi della vita umana.  

fra-mose-bonardi-oh-priore-generale1-150x150Nell’essere vivente si assiste al fenomeno della “morte creatrice”. All’origine della malattia e della morte c’è il rifiuto di alcune cellule di morire. Quando tendono a immortalizzarsi ha origine il cancro. Nella rivista scientifica “La Recherche”, ripresa da “Internazionale” del 9 Febbraio 2001, è riportata un’intervista ad Ameisen che dice: “ Ciò che fa invecchiare e scomparire è forse la stessa cosa che ha permesso ai nostri antenati di farci nascere, e che consente anche a noi di avere dei figli… Nel mondo vivente tutti i fenomeni di riproduzione si accompagnano a una forma di invecchiamento”: L’intervistato afferma inoltre: “ E’ probabile che il problema dell’autodistruzione e quello dell’invecchiamento abbiano qualcosa a che vedere con l’idea di un aumento locale della complessità e dell’organizzazione (in altre parole, una diminuzione locale di entropia non possa prodursi senza un parallelo e contemporaneo aumento del disordine”, V. Mancuso “Il dolore innocente, pag,163.  

Strettamente collegato alla nozione di entropia è il secondo principio della termodinamica: il calore passa soltanto dal corpo più caldo al corpo più freddo, sicché ogni trasformazione di energia comporta una degradazione, una perdita di energia. Questo processo, in un sistema chiuso conduce all’equilibrio termico, ossia alla morte. Che la vita sia lotta è sperimentato da tutti. Sembra che la vita possa vivere solo grazie alla sofferenza e alla morte. E’ come se l’essenza stessa della vita fosse impastata di morte. L’una non può fare a meno dell’altra, non possono esistere.  

Se questo procedimento è scritto, come è scritto, vita e morte non solo duellano, come canta la liturgia medioevale ( mors et vita duello conflixére mirando), ma si sposano, celebrano un fecondo matrimonio. E la scena di questo mondo è sotto i nostri occhi.  

Davanti a questo spettacolo vi sono coloro che vengono presi da sentimenti di orrore, dalla sensazione del nulla: “ Quanto più l’universo ci appare comprensibile, tanto più ci appare senza scopo” (Steven Weinberg, premio Nobel per la fisica nel 1979).  

In “Viandanti dell’universo – Astronomia e senso della vita” , Mondatori 2000, pag,151, i sacerdoti cattolici e astronomi Georghe Coyne e Alessandro Omizzolo scivono che “l’immensa ricchezza del cosmo, dal microcosmo al macrocosmo…può condurci a una sorgente che trascende la nostra comprensione e alla quale ci si avvicina meglio pensandola come amore. Questo amore si autorivela in tutte le pieghe della creazione”.  

In questa intuizione si scorge il pensiero di  Marta Nussbaum, uno dei maggiori filosofi americani viventi, titolare della cattedra Ernst Freund in Legge ed Etica della Chicago University. La Nussbaum sostiene che l’amore non è solo un’impennata improvvisa di sentimenti. L’amore, come le altre emozioni, è parte fondamentale di ogni processo di apprendimento e di conoscenza delle cose del mondo. Esattamente come lo studio di discipline scientifiche, come la fisica e la medicina. Per lei amare, in ultima analisi, vuol dire essere capaci di focalizzare la propria attenzione su un’altra persona. Una persona a cui associamo grande valore e importanza nel contesto dei progetti e degli obiettivi della nostra vita. “Quella di Platone – scrive – è una concezione narcisistica. Per Platone soddisfare l’amore significa cessare di sentire il bisogno e dunque smettere di amare. Io credo, al contrario, che oggi non dovremmo seguire il paradigma platonico, ma tentare di comprendere perché così tante persone inseguono l’amore secondo i dettami di Platone, sbagliando”.   

A coloro che subito si arrendono al metodo scientifico, allo “scientificamente dimostrato”, è chiesta una pausa di riflessione. In tempi di dominio della realtà virtuale, in cui il reale sembra un gioco, un’apparenza priva di senso e di ragioni, quindi inutile, Don Giussani va ripetendo la tesi di Aristotele, ossia che è da pazzi chiedersi le ragioni di ciò che l’evidenza mostra come fatto. La realtà infatti si mostra all’evidenza come esistente. Lo scetticismo nei confronti del reale è all’origine del terrore dell’uomo moderno, che finisce nel tragico nichilismo contemporaneo. Egli così ha scritto su Avvenire alla vigilia di Natale 2003: “La ri-creazione operata da Cristo è la verità della creazione… l’esistenza del fatto che vince su tutte le miscredenze e su tutti i dubbi degli uomini, vince! E il fatto è l’annuncio che Dio è diventato uomo”. Senza questa certezza il rischio di schiantare è costante.    

Lo scrittore e poeta Franco Loi ricava da questa lettura che “la Natività in sé è un evento cosmico – riguarda l’intera galassia , e tutti gli uomini, gli animali, i vegetali, i minerali. Ma tutta la vita di Cristo illustra all’uomo l’inversione di tendenza: riafferma la natura divina dell’uomo (Io sono la Verità), gli ripropone la via (Io sono la Via) e, come tale, si qualifica come Vita. Sin dal miracolo di Cana e poi con la Cena, e infine con la Passione viene resa concreta la Nuova Santa Alleanza. Quando Giovanni (1,14) dice: “E il Verbo si è fatto carne”, anticipa il percorso di Gesù sino alla risurrezione, che sancisce: “Affinché la carne divenga Verbo”.  

Purtroppo le impressioni dell’uomo della strada sono di perplessità: nel teatro del mondo, ora nobile ora osceno, ciò che appare regnare è la libertà, generatrice di oppressione e delitto ma anche del suo contrario, l’amore. Epperò, questa appare come una possibilità di continuo negata; non fatto naturale ma evento spirituale.  

Nella Summa Teologica Tommaso d’Aquino indicava nella natura una delle cinque vie che conducono all’esistenza di Dio. Le sue sono argomentazioni argute e logiche ,anche se non hanno mai convertito nessuno. Se la scena descritta è vera,  porterebbe all’epifania ed apoteosi della contraddizione, fortunatamente solo apparente. Ma proprio perché anche il pensiero, a cominciare dal mio, è messo in seria difficoltà, preferisco lasciare agli esperti, senza perderli di vista, il compito di pensare insieme la scienza e le discipline spirituali, di attraversare questo mare mai colmo che tutti racchiude. Il problema esiste ed anche per l’uomo di fede lo scenario non può essere che tenebroso, seppur attraversato da lampi di luce, da squarci luminosi. Ciò che mi preme è che il discorso resti aperto:  

  • Se la dialettica è il sale della vita, non può che bruciare, tanto sulle nostre ferite aperte che sui nostri desideri e speranze.

  • Se fede e ragione sono la vita dello stesso uomo, il discepolo del Signore è tale perché accetta il paradosso cristiano, vive sul serio, gioca la vita, agisce nella certezza che il vero esiste, il bello è riconoscibile, il buono deve prevalere.    

L’uomo votato all’ospitalità è uno che passa nel fuoco lacerante delle contraddizioni della vita quotidiana – il malato ne è l’espressione macroscopica – non per districare il groviglio inestricabile di grano e zizzania ma con la sola consapevolezza che il peccato è la malattia dell’essere, causa prima, generatore dello scompiglio che postula ri-aggregazione, ri-equilibrio, ri-stabilimento, ri-generazione, guarigione.  

Egli pone al centro l’incarnazione di Dio in un uomo: Gesù, detto il Cristo, è vero Dio e, insieme, vero uomo. Se questa pienezza della divinità e la pienezza dell’umanità, ripugna alla ragione che lo ritiene impossibile, è perché, come sostiene il fecondo pensatore Gianni Baget Bozzo, “il pensiero della Cristologia è un pensiero oltre la ragione. E’ l’avventura del pensiero oltre il principio stesso di non contraddizione…quindi come forma ultima del pensiero”, (Dio e l’Occidente – Lo sguardo nel divino pag.139). Parafrasando: l’amore come forma ultima del pensiero.  

Ma, proprio perché “c’è una dialettica della rivelazione: “Dio comunicandosi si nasconde, manifestandosi si cela, dicendosi si tace, rivelandosi si vela”, il cristiano si propone di leggere spiritualmente la natura e naturalmente, materialmente lo spirito, contro gli gnostici di sempre. (Bruno Forte, La sfida di Dio. Dove fede e ragione s’incontrano, Mondadoti pag.180),  

Questa lunga e necessaria premessa è per dire che il votato all’ospitalità possiede dunque un carattere dialettico che, se è veramente se stesso, lo mette in grado di non mortificare la realtà, ma di servirla adeguatamente. Tuttavia, la sua dialettica non è proiettata all’infinito ma si ferma davanti al punto preciso che unisce i due poli: l’amore, ossia il mistero trinitario, dove le tre persone possono essere radicalmente una sola sostanza grazie all’atto d’amore. Ed è proprio nell’amore che si sciolgono tutte le antinomie cristiane. Il quale amore non è frutto del pensiero, ma dono gratuito, il primo in assoluto. 

 

Cosa ne deriva?  

 

1.      Il votato all’ospitalità è un uomo trasformato  che cammina sulle orme di  Maria, donna di fede e di umiltà,”scelta da Dio stesso per farsi riconoscere da noi, metodo del suo comunicarsi all’uomo attraverso il “caldo” del suo grembo” (Giussani). Egli si rende totalmente disponibile al volere di Dio che lo rende profondamente umano nella misura in cui è aperto al divino.

2.      Il votato all’ospitalità è uomo di memoria. Egli ricorda che quando Dio bussa alla porta dell’umanità dell’uomo, Maria risponde “Sì!”, dando a Dio il permesso dei entrare nella storia.

3.      Il votato all’ospitalità è un uomo raggiunto dall’ avvenimento “Gesù” che ha veduto, udito, toccato ( cfr.1Gv 1,1-3), il quale, attraverso di lui, mostra ai malati chi è.

4.      Il votato all’ospitalità appartiene alla compagnia dei credenti, grembo dove si sperimenta il calore dell’umanità di Gesù, in cui dimora tutta la pienezza della Sua divinità (cfr. Col.2,9)

5.      Il votato all’ospitalità è come l’acqua di Cana: doveva servire per lavarsi i piedi, ma quando vide il suo Signore, l’acqua arrossì. Potenza trasformatrice di Dio che può tramutare la pochezza individuale in strumento di letizia, gioia, redenzione e consolazione per gli altri.

6.      Il votato all’ospitalità è uomo crocifisso con Cristo in Dio. Egli porta in un vaso di creta la pienezza della   Divinità. Per lui ormai il vivere è Cristo.

7.      Il votato all’ospitalità è un uomo povero, obbediente e casto. Cristo è tutto ciò che ha, che possiede, che lo attira e lo realizza.

8.      Il votato all’ospitalità guarda in faccia la dura e spietata realtà che vede negli altri e sperimenta nella sua carne. Non rifugge. Per governarla, la assume, la fa sua, se la carica in spalle, cerca di cambiarle segno con il proprio sangue. Sangue che poi non è suo, ma solo trasfuso nelle sue vene direttamente dal costato del Crocifisso.

9.      Egli “si muove, agisce, portando sempre e dovunque nel suo corpo la morte di Gesù” (2 Cor 4,10). Questo è il solo mezzo che ha per combattere il “mors tua, vita mea” scritto nella natura. Egli combatte quotidianamente per favorire la vita altrui. Non “anche la vita degli altri”, ma “la vita altrui a scapito della propria”.

10.Il votato all’ospitalità è un uomo consapevole d’imbarcarsi in un’impresa difficile, innaturale. Proprio per questo, si pone nell’atteggiamento di ogni vera madre di famiglia. Non essendo un astratto, fuori dalla realtà, è consapevole che, se la sua azione assume dimensioni sociali o politiche, diviene impossibile per via del “principe di questo mondo” che lo fermerebbe ed ostacolerebbe, constatazione che la Chiesa sperimenta ogni giorno. Ma sa che la sua impresa è possibile dove “due o tre sono riuniti” (Mt 18,20): non uno solo, né molti, ma due o tre. Quindi non la dimensione socio-politica, ma quella comunitaria, la dimensione evangelica: “E ancora vi assicuro  che se due di voi, in terra, si troveranno d’accordo su quel che devono fare e chiederanno aiuto nella preghiera, il Padre mio che è in cielo glielo concederà, perché, se due o tre si riuniscono per invocare il mio nome, io sono in mezzo a loro”.

11.Il votato all’ospitalità, dunque, non è un uomo che marcia da solo, è votato alla comunità che diventa allora comunità sanante. Essa si trova davanti al mondo che non è né inferno, il male personificato, ma neppure solo il bene. Quindi un mondo sofferente perché grano e zizzania, cioè bene e male, crescono insieme in un intreccio che non spetta all’uomo districare. Lo farà il Signore a suo tempo perché segue le leggi sue proprie. E’ l’atteggiamento di Gesù che, prima di illustrarle, ha vissuto Lui stesso per primo le parabole che ha raccontato.

12.Il voto di ospitalità è uno scambio:

  • mi prendo sulle spalle la tua croce di malato,

  • ti cedo la gioia del Risorto, mia speranza che risana.

13.Il voto di ospitalità è passione:

  • passione della Chiesa per il mondo,

  • passione del pastore per il gregge.  

14.Il votato all’ospitalità è un Cireneo, soccorritore della sofferenza del mondo, una schiena messa a disposizione per aiutare il mondo a portare la croce.

15.Il votato all’ospitalità è un uomo del Vangelo che “non vuole dominare la fede degli altri, perché è già salda. Vuole soltanto lavorare col mondo per la sua gioia” (2 Cor 1,24).

16. Il votato all’ ospitalità è un uomo “rinato con Cristo”, “nuova creatura”.

17.Il votato all’ospitalità è l’incaricato di suonare le campane di Pasqua, le campane della risurrezione.

18.Il votato all’ospitalità è un samaritano che versa sulle ferite l’olio della consolazione e il vino della speranza.

19.Il votato all’ ospitalità è l’uomo del Magnificat.

20.Il votato all’ospitalità è un uomo che ha lo stesso chiodo fisso di Dio: il mondo, l’umanità che gli passa accanto.

21.Il votato all’ospitalità è come la pròtesi di Gesù Cristo: dalla SS.Trinità a Gesù, da Gesù all’Eucaristia, dall’Eucaristia alla Chiesa. Lui è questa Chiesa, la pròtesi, il prolungamento, la propaggine della SS. Trinità.

22.Il votato all’ospitalità è un uomo in sim-patia con il mondo, un uomo di Chiesa, un battezzato per il mondo, che simpatizza col mondo, soffre col mondo, gioisce con il mondo.

23.Il votato all’ospitalità è un uomo che non chiude occhio per il mondo del dolore, che è il suo chiodo fisso, l’idea dominante, la sua trepidazione, che su di lui veglia, che si lascia assorbire come il sale, che vuole bene alla gente per la quale il suo Signore ha dato la vita.

24.Il votato all’ospitalità è un contemplatore di Maria, l’immagine della Chiesa peregrinante, punto di riferimento del suo pellegrinare. E’ consapevole che Maria è la prima campionatura di come Dio vuole la Chiesa che un giorno sarà tutta bella, tota pulchra, senza macchia, et macula originalis non est in te, proprio come il modello originale.

25.Il votato all’ospitalità è un uomo risorto (anastàsa), levatosi, alzatosi in piedi, che si mette in viaggio verso la montagna, come Maria (Lc.1,39-40) e raggiunge in fretta la città, animato da un’ansia e una passione per il luogo della sua missione, per i progetti di salvezza di Dio.

26.Il votato all’ospitalità è uno che lava i piedi agli altri e se li lascia lavare (Gv 13,14), che si mette al servizio senza l’orgoglio del servire ma con l’umiltà del suo Maestro, perché viene da forti esperienze di fede: “entrata nella casa di Zaccaria, Maria salutò Elisabetta”.

27.Il votato all’ospitalità è un uomo coinvolto in una fraternità modellata sulla Comunità descritta dagli Atti degli Apostoli: “Quando furono arrivati, salirono al piano superiore della casa dove abitavano. Ecco i nomi degli Apostoli: Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo figlio di Alfea, Simone che era stato  del         partito degli zelati, e Giuda figlio di Giacomo. Erano tutti concordi, e      si riunivano regolarmente per la preghiera con le donne, con Maria, la madre di Gesù, e con i fratelli di lui” (Att.1,13-14).

28.Il votato all’ ospitalità è un frammento di Chiesa che fa proprie le gioie e le speranze, i dolori, le ansie, le angosce e le sofferenze, tutto.

29.Il votato all’ospitalità è un mandato a “trasformare il lamento in danza, a svestire degli abiti di lutto per rivestire degl’abiti della festa” (Sal. 29,12).

30.Il votato all’ ospitalità è un uomo del giubileo che ha accolto la grazia di entrare nella Chiesa dalle porte spalancate e che giubila quando può invertire la rotta, ritornare sulla piazza, la strada, e poter occupare tutte le arterie che conducono in luoghi di sofferenza: “Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo” (Giovanni Paolo II).

31.Il votato all’ospitalità è un uomo che offre una mano per servire, curare, e con l’altra addita un “oltre” di qualsiasi progetto terapeutico umano, incapace da solo di raggiungere le radici di ogni male.

32.Il votato all’ospitalità è un messaggero che porta annunci di liberazione e di speranza per condividere il momento critico della città malata, della persona malata.

33.Il votato all’ospitalità è un uomo che non si comprime l’esistenza nelle strettoie del tornaconto, nei vicoli ciechi dell’interesse, nei labirinti delle piccole ritorsioni vicendevoli.

34.Il votato all’ ospitalità è un uomo che non si deprime per i sussurri pettegoli, un calo d’immagine, un’umiliazione, perché nulla può mandargli la vita in frantumi.

35.Il votato all’ospitalità è un uomo che non fa discorsi freddi, senza sapienza e senza cuore.

36.Il votato all’ospitalità è un uomo capace di risalire la china perché sa di essere amato, aiutato, perdonato dal Signore.

37.Il votato all’ ospitalità è un uomo misericordioso nei giudizi, che dice bene degl’altri che rispetta e stima.

38.Il votato all’ospitalità è un uomo che parla solo dopo aver servito, che indossa il camice, fa servizi, diaconia, dopo essersi alzato da quella tavola che è l’Eucaristia. Egli passa  dalla carità delle opere di Dio alle opere di carità.

39.Il votato all’ ospitalità è un uomo che la Pasqua ha configurato a Cristo e che si fa servo per ricapitolare tutte le cose a Gesù Cristo Capo, che non ha esitato a farsi servo per ricompattare la frantumazione di un’umanità sgretolata.

40.Il votato all’ ospitalità è un uomo che, deposte le vesti, ha indossato il saio. E’ il gesto di deporre la vita volontariamente, offrirla come Gesù, del perdere la vita, lasciarci la pelle, lasciarsi crocifiggere.

41.Il votato all’ospitalità è un uomo dallo sguardo disarmato:

  • creatore, perché chiama all’esistenza un disperato,

  • rivelatore, perché gli manifesta la sua vera dimensione,

  • libero perché aperto all’altro in un atteggiamento di accoglienza, simpatia, discrezione, cordialità, delicatezza, benevolenza,

  • cristiano che non sfiora le persone che incontra,

  • che non è sfuggente,

  • che accoglie ma non forza.

42.Il votato all’ ospitalità è un uomo che si sforza di rendere reali i sogni e la fatica di attuarli, ha il coraggio dei propri sogni, il coraggio del proprio ideale.

43.Il votato all’ ospitalità è un uomo che coglie il presente, l’istante, “…perché le cose di prima sono passate”(Ap 21,4).

44.Il votato all’ ospitalità è un uomo che sa volare utilizzando le ali della Croce.

45.Il votato all’ ospitalità è un uomo che soffre ma non soccombe.

46.Il votato all’ospitalità è un uomo ambizioso perché ambisce a…Non è orgoglioso perché sarebbe il suo contrario.

47.Il votato all’ ospitalità è un uomo che sale sul calvario per assistere alla fine di ogni fantasia su Dio. Lassù c’è un uomo con altri due uomini. Dio è un uomo ferito, debole, che non salva se stesso ma gli altri. Lì impara che un uomo libero sa fare della stessa morte un gesto vitale.

48.Il votato all’ospitalità è uno che si scopre uomo, solo dopo aver trovato Cristo. E lo va a dire in giro.    

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Dunque, samaritani o albergatori?  

Dopo aver ammirato la luminosità di questa collana di perle che certamente matte non sono e che riproducono l’anima dell’ospitalità nella storia della Chiesa, non dovrebbe essere difficile dare una risposta. Ma potrebbe non essere quella che hanno in mente i Fratelli Ospedalieri della Provincia Lombardo-Veneta o di qualche altra Provincia nel mondo. Personalmente posso timidamente limitarmi a invitare i consacrati a porsi seriamente la domanda.   

Leggendo i vari documenti che sono stati sfornati in questi anni, mi sono fatto l’impressione che, almeno nel contesto italiano, ci sia una forzata tendenza a passare dal ruolo di samaritano a quello di albergatore. La colpa sarebbe del numero sempre più risicato di religiosi. Forse questa motivazione è vera solo in parte. Temo sia anche un fatto culturale, maturato lentamente. Un tempo non lontano sembrava che stare accanto al malato fosse meno prestigioso che stare in ufficio. Si è infiltrata subdolamente l’idea che i ruoli amministrativi spianassero la strada a posizioni di comando: mi sento realizzato se ho ricevuto una carica, molto meno se sono stato assegnato al fronte,  in prima linea, tra i malati. Il bravo amministratore era sempre vittima del tempo non aveva mai tempo di dedicare al malato, all’evangelizzazione…

Se la diagnosi è vera, l’insinuazione è stata veramente diabolica.  

Fare il samaritano è impegnativo e, talvolta, eroico. Non per niente l’impegno nell’ospitalità viene chiesto attraverso un voto che esprime disponibilità a dare la vita e anche il sangue, se necessario.  

Fare l’albergatore viene più facile, coinvolge molto meno in prima persona. Nella parabola, protagonista è il samaritano, è lui che viene additato come modello da imitare. L’albergatore è un prezioso comprimario che viene anche pagato con un acconto di due monete d’argento.  

Mi viene da fare una banale considerazione: un’automobile è fatta anche di viti. Ma chi produce viti, non può dire che fabbrica automobili. Così, se faccio l’albergatore, non posso fregiarmi di samaritano nella chiesa e nella società.  

A questo punto si pone il problema dei laici collaboratori. Essi, in effetti, stanno in prima linea, a contatto diretto con il malato.  Coloro che una volta svolgevano mansioni da albergatore, oggi si troverebbero nel ruolo di  samaritani. Come si vede, lo scenario sta profeticamente mutando in sordina, sotto gl’occhi attoniti di tutti.  

E’ bene o e male? La “Christifideles laici” è ottimista. Gli Istituti religiosi, per il momento, lo sono un po’ meno per due ragioni:

  • Per una crisi d’identità che inevitabilmente comporta il mutamento;

  • Perché i laici collaboratori non hanno alle spalle, come i religiosi,  una propria storia, pazientemente costruita e sofferta, essendo ancora tutta da scrivere.  

Se camminare insieme è la parola d’ordine del momento, dormirci sopra è il rischio latente che corre l’Istituzione religiosa, tentata o costretta a lasciare agli eredi la soluzione che non può passare se non per un travaglio difficile. Al di là del dovuto, per il rapporto di lavoro pattuito, quei laici collaboratori che si vorrebbero, non s’improvvisano. Che bastino i convegni per ereditare i carismi dell’ospitalità e del servizio non lo crede nessuno. Farli partecipare ai Capitoli è utile e doveroso. Ma poi? Se non c’è un seguito, se non vengono preparati…

Cosa fare? Non è la sede per svolgere l’argomento che ho provato ad approfondire altrove ( vedi “MOCRISAN: per un movimento di cristiani in sanità”. Dico solo che, per non inventare l’acqua calda e tenendo conto di un giudizio formulato dal Card. Martini che in seguito viene anche riportato, personalmente non vedrei male un contatto con il MEIC – Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale che ha alle spalle una lunga e qualificata storia, cominciata nel 1932-33 con il nome di Movimento laureati di Azione Cattolica e continuata/rinnovata con l’attuale denominazione dal 1980 che comprende anche i non laureati ed è presente sui diversi fronti della società non solo italiana, ma internazionale.

Qualora si decidesse di procedere ad una seria implantatio di un Movimento Cristiani in Sanità, affinché non nasca pieno di entusiasmi sullo spontaneismo disimpegnato per ritrovarsi senza radici al primo sole, lo Statuto guida potrebbe essere quello del MEIC, approvato dalla Conferenza Episcopale Italiana. In seguito il MOCRISAN potrebbe diventare un affluente riconosciuto di quel movimento ispiratore. E poi…chissà!  

Comunque sia, l’accento della parabola è posta sul samaritano. Sulla base delle considerazioni emerse, è realistico pensare che il samaritano nell’ospedale odierno, ad di là di ogni rapporto personale col malato, potrebbe essere la Comunità Terapeutica

Nella sigla CTE  - Comunità Terapeutica Evangelica -  se la lettera T è dominante è perché rimanda alla Tau , lettera dell’alfabeto greco, simbolo della Croce. (L’ argomento è sviluppato a parte).

Sono problemi molto seri e complessi che richiedono il Lumen, ossia lo Spirito Santo, lo studio, la riflessione pregata, il coinvolgimento, la sperimentazione.

Nel mio piccolo, la riflessione dura da più di trent’anni, ma io sono veramente nessuno e quanto ho scritto è certamente opinabile. Ma dalla risposta dipende il futuro di tanti, Fatebenefratelli compresi.  

A conclusione di questo percorso mi sono posto una domanda che funge da test: chi mi piacerebbe avere accanto al mio letto nell’infermità?  

La risposta appare scontata, le considerazioni no:

  • a.      Vorrei essere assistito da un buon samaritano, interprete del Samaritano Gesù

  • b.      Se poi viene a trovarmi anche l’albergatore, benissimo! Vuol dire che ha capito che non gli basta fare l’albergatore: aspira a farsi prossimo.

  • c.       Il samaritano dev’essere religioso o laico?

  • d.      Dev’essere samaritano. E di questi tempi sarebbe un gran lusso.

  • e.      Mi va benissimo se l’albergatore si prende a cuore le mie esigenze, ma lui non è chiamato a con-dividere, com-patire. Il suo ruolo è di con-fortare, nel senso di rendere meno penosa la mia sosta, meno indigesto il distacco dalla casa, dalle abitudini, dalle cose.

  • f.        E’ difficile mostrare la propria anima al cappellano che passa di lì per via della “pastorale dei malati”. Non ho nulla in contrario, ci mancherebbe! Dico solo che viene più spontaneo affidarla all’ osservazione di colui al quale hai messo in mano l’organo malato. Tra una considerazione e l’altra, nasce la confidenza, il desiderio di… Poi sarà lui a dirmi: ti consiglio il medico dell’anima. Ho in mente Gesù e la Samaritana al pozzo. Qui il Samaritano provoca il desiderio di Dio e la samaritana, bevendo la Sua acqua, guarisce da quell’arsura che il pozzo non riesce a placare.

  • g.      Tornando all’albergatore, avverto che non mi toccherebbe più di tanto sapere che lui fa sacrifici, si espone finanziariamente, rischia di fallire, per venirmi incontro. La sento come un’entità astratta e i suoi problemi né li conosco né mi sfiorano.

  • h.      Proprio perché albergatore, talvolta mi viene il sospetto che abbia un interesse, un tornaconto che io gli procuro con la mia degenza. Del resto, anche quello della parabola l’aveva. Era il suo lavoro, il suo mestiere, il modo per vivere.

  • i.         Il samaritano per me, oggi, è una comunità terapeutica che mi piacerebbe evangelica, non meccanicistica.

  • j.         Desidererei essere guarito radicalmente dalle cause di malattia, non dai sintomi e dalle patologie organiche.

  • k.      Vorrei che nel processo terapeutico venisse coinvolta tutta la mia persona per tornare in famiglia ri-sanato, ri-nato.

  • l.         Mi piacerebbe scoprire come vive la “comunità dei samaritani”, poter stabilire un contatto, una relazione con loro anche dopo la degenza, partecipare qualche volta alla loro vita, diventare a mia volta un piccolo samaritano, uno che ha scoperto il gusto del farsi prossimo nel suo contesto familiare, di lavoro, sociale.

  • m.    Gradirei molto che a Natale e Pasqua , la Fraternità mi scrivesse che sono presente nelle sue preghiere. Mi diletterebbe altresì che si ricordasse per il mio compleanno di inviarmi gli auguri, possibilmente senza il vaglia postale per l’offerta, che non mi dispiacerebbe ricevere, magari con una rivista, in altre circostanze.

  • n.      Quando la mia vita è giunta al capolinea, mi piacerebbe avere accanto un samaritano. Vorrei che fosse lì al momento dei sudori freddi a darmi una mano, a sussurrarmi parole di gran forza: “Ràsati la barba, véstiti bene, méttiti la camicia pulita, quella battesimale…Prendi, bevi               l’ Aperitivo…oggi sarai con Lui alla festa, in Paradiso. Non temere la “valle oscura”, quando passerai nel tunnel della morte non sarai solo: Lui sarà conte a darti sicurezza ”. (sal.23 (22)

  • o.      Pensando ai miei familiari, mi piacerebbe tanto che un samaritano fosse di conforto a coloro che si trovano nella prova della separazione e che, dopo il funerale, con la partenza del carro funebre, non si chiudessero per sempre i cancelli della Fraternità. Come sarebbero contenti i miei se, almeno per un anniversario, arrivassero due righe di fede, di conforto, di rasserenante fiducia in Dio!  

Già che ci sono, esprimo un ultimo desiderio, solo in apparenza poco pertinente: mi piacerebbe che il Capitolo Provinciale Lombardo-Veneto del 2004 si decidesse per una comunità di Fratelli contemplativi non vedenti, estensione del carisma dell’ospitalità. Nella comunità di Don Dossetti ho incontrato tanti anni fa una suora non vedente. Assomigliava a Teresa di Gesù Bambino ed era la gioia della Comunità. A quando il primo postulante? Lavoro ne avrebbero di sicuro: adorazione e intercessione eucaristica, insostituibili strumenti di guarigione per i malati, ministero di consolazione degli afflitti,  discernimento spirituale, ecc…quanti carismi da esercitare per la comunità dei sofferenti!  Che non ci sia un San Benedetto Menni in circolazione da destinare per l’innesto di questo ramo sulla pianta plurisecolare? Il contributo di queste riflessioni è assai modesto. Serva almeno come testimonianza di un affetto mai venuto meno.   

06 SAMARITANI O ALBERGATORI ? – Da Gerusalemme a Gerico a piedi – A. Nocent

  

 

L’immagine contribuisce ad ambientare la parabola del Samaritano. Tratto finale del Wadi el-Kelt, che scende dalla Montagna di Beniamino e bagna le Steppe di Gerico. Sulla destra si vede l’acquedotto erodiano e il villaggio di Tulul Abu el-Alayiq. (Foto: Da Studium Biblicum Franciscanum-Jerusalem)

 

DA GERUSALEMME A GERICO A PIEDI   

Seguito… 

 

di Angelo Nocent

“Se Pierluigi è animato da questa visione – come lo è – , se i suoi gesti sono alimentati da questo fuoco, egli ci porta a riflettere sul gesto del samaritano della parabola (che è il gesto di Cristo).  (Estratto da “ PIERLUIGI MICHELI – Un’esistenza riuscita” di A. Nocent, pag. 16 )  

La realtà di quel tempo è molto lontana ed il racconto evangelico è caratterizzato dal deserto, dalla cavalcatura, da un tipo di rapporti tipici di un mondo arcaico, non riscontrabile nella nostra società attuale, complessa e stratificata. Tuttavia, l’intenzione soggiacente è di presentare la prossimità come forma permanente di rapporto personale, che supera e mette in crisi tutte le forme di rapporti legate alla razza, alla condizione sociale, a interessi di vario genere.  

Questa messa in questione della società civile e, quindi, anche dell’assistenza sanitaria, della professione medica, vale per tutti i tempi ed è attualissima per l’oggi. Significa che l’immersione nell’umano – e più umano del dolore non c’è – non è più un fare qualcosa per qualcosa ma un fare per qualcuno, sacramento del Dio nascosto: “ l’avete fatto a me ” (Mt 25,40).   

L’icona biblica del buon samaritano è l’immagine della carità di Gesù e descrive le leggi della vita e della missione della Chiesa, e di ogni discepolo. Madre Teresa di Calcutta e il Dr. Micheli, alla fine, lavorano per lo stesso Padrone della messe. Lei a Calcutta, lui a Milano, solo perché assegnati su frontiere diverse. Che sollecita entrambi è l’amore di Dio riversato nei loro cuori.  

E’ il caso di ricordare che il momento centrale della parabola:              

  • “ Invece, un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione” (Lc 10,33)

  • Questo punto centrale è ripreso nella conclusione: “Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che si era imbattuto nei briganti?… Colui che ha avuto misericordia” (Lc 10,36-37).   

E’ interessante notare che il maestro della legge non risponde che è stato prossimo colui che ha interrotto il viaggio, che si è fermato, che è sceso da cavallo, che ha medicato il ferito con olio e vino, che l’ha trasportato alla locanda e che ha dato due denari al locandiere. Risponde: “Colui che ha avuto misericordia”. E va notato che il termine “compassione” del v. 33 è stato ripreso qui con il termine “misericordia”.  

Teresa di Calcutta e Pierluigi Micheli si sono fermati, come tanti, ogni giorno, ma il loro di più è la misericordia, la compassione, che poi generano il prodigio di risanamenti profondi, radicali, non epidermici, apparenti.  

Il gesto della compassione, della misericordia, comprende ogni altro gesto, li comprende tutti ed è di più. Questo di più è la carità: una tensione al di là delle opere che non la esauriscono mai. Se ci trasferiamo nel campo ospedaliero, una cosa è curare (olio, vino, due denari) altro sono le intenzioni del cuore. Si ritorna a “quel non so che…” che fa la differenza tra l’assistenza ordinaria e la medesima, animata dalla carità, tipica dei santi.  

Nella parabola c’è un penoso intervallo tra il gesto criminale dei briganti e l’intervento del soccorritore. Facilmente siamo portati a notare l’egoismo del sacerdote e del levita che vedono l’uomo rapinato e passano oltre. La loro indifferenza ci sorprende, ci disturba anche. Ma questo atteggiamento non va sbrigativamente liquidato pensando che si riferisca agli altri, al “clero” del tempo. Purtroppo riguarda ciascuno di noi, sacerdoti e leviti per il battesimo. Quelli della fretta, della paura, dall’alibi sempre pronto siamo noi. Per questo il Micheli ci colpisce. Noi siamo tra quelli che vedono e passano oltre. Non abbiamo tempo di fermarci, non vogliamo nemmeno esaminare la situazione. Il Dr. Micheli non ha fretta, non è superficiale negli incontri con il malato. Chi lo ha frequentato se n’è accorto.  

Le strutture socio-sanitarie dello Stato cercano di garantire a tutti l’assistenza, la riabilitazione, la reintegrazione sociale. Ma negli operatori sanitari dietro la fretta del sacerdote e del levita si nasconde una grave realtà: la paura di impegnare la propria persona. Se dobbiamo rinunciare alla pretesa di risolvere tutto, va almeno evitata la delega, ossia sperare sempre che intervenga qualcuno al nostro posto.  

I nostri cammini sono contrassegnati dal percorrere le vie del dolore in compagnia di noi stessi e del nostro egoismo; quello del Dr. Micheli è il percorso di un uomo in compagnia di Dio, la fonte della tenerezza, la stessa che ha attratto e riempito il cuore del samaritano. Chi cammina così, sente ardergli il cuore. San Giovanni di Dio, pervaso da tale Fuoco, passa tra l’incendio dell’Ospedale Regio di Granata in fiamme, senza bruciarsi.  

Pierluigi Micheli ha idee molto chiare: “ La medicina deve occuparsi dell’uomo nella sua totalità: l’avvenire della medicina è condizionato dal concetto che si ha dell’uomo.Il colloquio del medico ricorda la confessione. Ippocrate insegnava che il medico deve mortificare l’insolente, il prepotente; ristabilire l’ordine, l’insonnia; è ministro di giustizia, deve essere messaggero di speranza, di ottimismo, di certezza nell’avvenire. Sua deve essere una sacralità caritativa e poetica: litteratissimus e humanus (Flavio Biondo). Deve essere come il samaritano che reca l’olio per ottenere attraverso la guarigione del corpo e la salute la ripresa delle ordinarie occupazioni, degli affetti domestici, della socialità (f.108).   

Niente male come esegeta della parabola, vero?  

A proposito di misericordia, Giovanni Paolo II nella Dives in misericordia dice una cosa importante che fa capire un certo modo di pregare di Pierluigi. Il Papa spiega che non basta incarnare la misericordia nella vita, bisogna anche “imporla di fronte a tutti i fenomeni del male fisico e morale, dinanzi a tutte le minacce che gravano sull’intero orizzonte della vita dell’umanità contemporanea”.  

Preghiera d’implorazione e misericordia del cuore (miseris-cor-dare) sono una distinzione puramente teorica di un gesto unico:  

“ La preghiera non è legata alla ritualità, ma parla, grida, chiede, supplica, invoca aiuto, ringrazia, cerca, nasce dal quotidiano, dalla vita di tutti i giorni “ (f.73).   

Immagino che Pierluigi si sia comportato così soprattutto nei casi-limite nei quali si sperimenta l’impotenza di non poter fare altro. Questo è un vero modo di resistere al male, pur angosciante, straziante, perché strappa da Dio l’indicazione per aiutare veramente colui che ci sembra di poter assistere solamente con il dono di noi stessi.  

La geografia del dolore per Micheli si configura principalmente nell’ospedale, nell’ambulatorio. Che, se il perimetro appare limitato, l’estensione tende a dilatarsi in ogni latitudine perché i frequentatori non sono soltanto i residenti, gl’iscritti al servizio sanitario nazionale, ma anche i poveri, gli stranieri, i non assistiti da assicurazioni sociali.  

Il suo occhio clinico l’ha portato a scoprire che in ogni malato si riscontra un inconveniente comune: problemi agl’occhi. E’ la riconferma di quanto già osservato da San Giovanni Crisostomo, padre della Chiesa (344-407):  

“ La malattia, dice, (il Crisostomo) è un evento che modifica il nostro occhio nel vedere la magnificenza del creato e quindi del divino. L’opera del medico è volta a sorreggere l’individuo nella sua unità fisica e spirituale e nella sua eticità. Essere medico vuol dire non vedere la persona che soffre solo nel corpo. Non basta averne il nome, medico bisogna esserlo” (f.6)  

Lavorare in ospedale vuol dire partecipare a una “storia sacra”. Lo si può fare responsabilmente o no, ma non cambia. Talmente sacra, che uno dei pensatori cristiani più significativi del nostro tempo – Emmanuel Mounier – trovandosi davanti al letto della sua bambina ridotta irrimediabilmente a un piccolo vegetale, ha scritto una pagina oserei dire “evangelica”. Perché non il sangue o la carne possono avergliela ispirata (Mt 16,17), ma solo lo Spirito di Dio. Egli così scrive alla moglie:  

“ Che senso avrebbe tutto questo se la nostra bambina fosse soltanto una carne malata, un po’ di vita dolorante, e non invece una bianca piccola ostia che ci supera tutti, una immensità di mistero e di amore che ci abbaglierebbe se lo vedessimo faccia a faccia…

Se a noi non resta che soffrire (subire, patire, sopportare), forse non ce la faremo a dare quello che ci è stato chiesto. Non dobbiamo pensare al dolore come a qualcosa che ci viene strappato, ma come a qualcosa che noi doniamo, per non demeritare del piccolo Cristo che si trova in mezzo a noi…Non voglio che si perdano questi giorni, dobbiamo accettarli per quello che sono: pieni di una grazia sconosciuta”.

“ (Gli amici dicono): “ è toccata loro una grande disgrazia “‘: invece non si tratta di una disgrazia: siamo stati visitati da qualcuno di molto grande…

Chissà se non ci è domandato di custodire e adorare un’ostia in mezzo a noi, senza dimenticare la presenza divina sotto una povera materia ceca.

Mia povera, piccola François, tu sei per me l’immagine della fede “ ( Diari e lettere).  

Anche per il Dr. Micheli l’immagine della fede sono i malati. La presenza divina sotto una povera materia, necessita di occhi esperti in eucaristia, di cuore incline all’agàpe, ad amare. L’ospedale, luogo pieno di una grazia sconosciuta, dove si celebra la liturgia dell’amore che si dona. Mistero della fede: morte, risurrezione, nell’attesa…già e non ancora…  “ Quello che può riempire di gioia un uomo ed essergli di conforto e di sostegno è di aver suscitato nel suo cammino, con la sua opera, il suo modo di vivere, le sue parole, un movimento in chi gli sta attorno verso l’alto, il soprasensibile, il metaempirico, verso la speranza, verso la terra promessa…Il popolo eletto, il popolo sacerdotale è al servizio degli altri (f.30)”.  Perché “La carità è un atto di culto” (f.101).   

Per il Micheli, dunque, il Vangelo non deve restare prigioniero nello spazio angusto, talvolta asfittico del tempio-chiesa, ma deve essere liberato nello spazio vitale ed assetato del tempio-ospedale, perché invada le corsie, le stanze, le sale operatorie, i laboratori, l’ambulatorio…   

Certo, Cristo è profetizzato come “segno di contraddizione”:                

“ Simeone poi li benedisse e parlò a Maria, la madre di Gesù: «Dio ha deciso che questo bambino sarà occasione di rovina o di risurrezione per molti in Israele. Sarà un segno di Dio, ma molti lo rifiuteranno: così egli metterà in chiaro le intenzioni nascoste nel cuore di molti. Quanto a te, Maria, il dolore ti colpirà come colpisce una spada» (Lc 2,34.35).   

Tuttavia, l’onda d’urto si scatena dove ci sono conformismi, pigrizie mentali, incoerenze. Le contraddizioni siamo noi.  

Epperò le risposte evangeliche si possono dare a condizione che vengano formulate domande. Le domande sono importanti, non vanno impedite, piuttosto sollecitate. E’ di qualche anno fa un cartellone raffigurante Gesù in croce che annunciava a caratteri cubitali: “ Cristo è la risposta “. Qualcuno sotto aveva scritto con il pennarello rosso: “ Ma la domanda qual’era? “.  

Più che uno scherzo, è un problema che Pierluigi ha presente. Il momento terapeutico non può procedere senza il coinvolgimento del malato. Ma come sollecitare le domande?  

Premesso che un cuore di madre intuisce al volo anche domande non formulate, Pierluigi sembra seguire il modello di Gesù che non ama parlare direttamente di sé e della propria identità, ma preferisce interpellare i discepoli proponendo loro delle domande – “ Chi sono io, secondo la gente? ” (Mc 8,27) – oppure suscitandole con dei comportamenti: “ I presenti furono presi da stupore e dicevano: «Ma chi è mai costui? Anche il vento e le onde del lago gli ubbidiscono!». (Mt 8,27).  

L’evangelizzazione di Gesù parte dalla meraviglia che genera stupore e suscita domande. L’interessato è spinto a cercare personalmente una risposta. Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16).  

Il paradosso è questo: la professione di fede non viene da chi ci annuncia il vangelo ma da chi ne è il destinatario. Non gli viene dall’esterno, ma matura dentro di lui, scaturisce dal profondo della sua persona, dalle sue esperienze, dalle sue convinzioni. Quando sboccia sulle labbra, ha sì lo spessore che le viene dal retroterra umano, di cui si è nutrita, ma ma non si riduce ad una certezza di ordine puramente naturale: “ Beato te, Simone figlio di Giona, perché non hai scoperto questa verità con forze umane, ma essa ti è stata rivelata dal Padre mio che è in cielo.” (Mt 16,17).  

E’ il caso di Emmanuel Mounier riferito in queste pagine: dallo sconvolgente constatazione di una vita vegetale, inerme, della figlia, allo stupore, alla contemplazione del volto di Dio celato in quel corpo, divenuto ostensorio eucaristico.      

01 – PIERLUIGI MICHELI: SINFONIA DI UN AMORE – Angelo Nocent

 

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PIERLUIGI MICHELI:

sinfonia di un amore.

 

Di Angelo Nocent

 

Dieci anni fa usciva dalla nostra vista ma non dalla nostra vita.

Nei suoi appunti la sintesi teologica dell’ hospitalitas, carisma che ha condiviso con i Fatebenefratelli, da medico laico al servizio della città ambrosiana di ogni estrazione. 

 

L’ hêgoúmenos della discretio e della misericordia, litteratissimus et humanus.

 

Alcuni mesi fa, proprio su queste colonne, era scoppiata una piccola ma graffiante polemica con i laici partecipanti al 66° Capitolo Generale a proposito del documento che avevano elaborato e presentato ai Padri Capitolari. Nel proporre all’attenzione la figura del Dr. Pierluigi Micheli, credo di fornire una risposta più convincente e meno astratta del tipo di laico di cui hanno bisogno la Chiesa e l’Ordine Ospedaliero.

capitolo-generale-66-rappresentanti-laici

 La lunghissima sua presenza all’Ospedale “San Giuseppe” di Milano che risale agl’anni ’50 e si protrae fino al 1980, dapprima come consulente esterno e per un quindicennio da Primario della Divisione di Medicina Generale, hanno permesso a lui di esprimersi al meglio nel progetto vocazionale cui si è sentito chiamato ed agl’altri di sperimentarne le doti di mente e di cuore. Proprio per questo, alla vigilia del pensionamento (haimè, solo alla vigilia!) è stato aggregato all’Ordine per i riscontrati requisiti indicati dagli Statuti Generali. Il riconoscimento non è un premio di fine servizio ma un legamen che assume il significato di un atto formale da parte della Chiesa, dati i presupposti:

  • Ha professato la fede cristiana;

  • Ha dimostrato una condotta esemplare per i costumi e per la vita familiare e professionale;

  • Ha manifestato stima all’ Ordine, coope­rando alle sue opere di carità in modo notevole.

Ciò significa che la sua vita è stata e va tutt’ora letta e riconosciuta come una interpretazione fedele ed autentica dello “spiritum hospitalitatis”, ossia del carisma peculiare che la Chiesa riconosce ai Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio, patrono universale dei malati e degli operatori sanitari. Egli lo ha vissuto da “Christifidelis laicus”, ossia da discepolo del Signore che ha portato a maturazione il suo battesimo nello status di persona coniugata ed esercitando la professione-vocazione di medico. E che di vocazione si tratti è lui stesso ad ammetterlo:

 

  • “Chiunque sia chiamato ad assistere i malati guarda a Cristo come esempio, deve imitarlo nella discretio e nella misericordia.

  • L’etica del medico non è tanto nell’atto di sanare quanto nel gesto di carità;

  • la dignità è data dal sigillo del divino;

  • l’arte medica deve essere ritenuta come coinvolgimento totale, come operazione caritativa che, per noi che la leggiamo in linguaggio  cristiano, vuoI dire vedere in ogni ammalato l’immagine di Cristo.”

 

Egli era così convinto di ciò che ha scritto e lo ha fissato per tenerlo bene in mente e viverlo: “l’orizzonte della medicina, dell’ars medica, se non viene ridotto a coordinate puramente tecnico-strumentali e non si dimentica l’umano, l’etico, lo spirituale, è veramente grandioso. Diceva Platone che chi insegna medicina deve essere, secondo una antica immagine, l’ hêgoúmenos che prende per mano il discepolo, aiutandolo a percorrere un tratto con sé, per lasciarlo poi proseguire sui suoi piedi con la forza dello slancio acquisito” ( Cf. 27).

 Micheli Pierluigi con Padre Giulio Gatti 06 agregato ai FBF

Ciò che non è successo fin’ora a tanti di noi, può ancora accadere: lasciarci prendere per mano e seguire questo hêgoúmenos che ci ha preceduti in età, sapienza e grazia. Forse la sua visione dell’uomo la diamo per scontata e posseduta. E qui sta il nostro difetto dominante: d’impigliarci nella rete dei quattro soliti luoghi comuni, senza prestare più ascolto alle tante voci della sapienza e della saggezza di chi ci è stato amorevolmente mandato da Dio proprio a tale scopo. I medici San Riccardo Pampuri e Pierluigi Micheli praticamente coprono l’arco del secolo che abbiamo lasciato alle spalle.

 

Questi due astri luminosi del ‘900 sono stati inviati a rischiarare il cielo imbronciato delle nostre giornate di operatori sanitari ostinati in pigre abitudini e dalla fede stanca o malata. Pura casualità? Non posso crederlo: è provvido disegno di Dio. Nella vigna che è Sua, ha mandato i profeti per rivisitare il nostro dire e fare in sanità. Siamo orchestre di corto respiro per reggere all’imponenza mirabile del poema sinfonico della carità che si trova in quello spartito ispirato dal Cielo che è il capitolo 13 della prima ai Corinzi. Su Riccardo la Chiesa ha detto la sua definitiva parola. Su Pierluigi auspichiamo che avvenga e che sulla sua tomba il dolore continui a trovare conforto.

 

In una di quelle sue notti pensose così ha scritto il nostro Micheli:“L’uomo pensa, ama, soffre, ammira, prega, tutto insieme con il suo cervello, con tutti i suoi organi e con la sua anima (CarreI). La tecnica non è l’unico fattore determinante del progresso come credeva Renan. La persona umana è formata di carne (è l’Io biologico), di intelletto (l’Io pensante), di speranza (l’Io credente).

Da questa coscienza ricava la consapevolezza che “La medicina deve occuparsi dell’uomo nella sua totalità: l’avvenire della medicina è condizionato dal concetto che si ha dell’uomo. Il colloquio del medico ricorda la confessione. Ippocrate insegnava che il medico deve mortificare l’insolente, il prepotente; ristabilire l’ordine, l’isonomia; è ministro di giustizia, deve essere messaggero di speranza, di ottimismo, di certezza nell’avvenire. Sua deve essere una sacralità caritativa e poetica: litteratissimus et humanus (Flavio Biondo). Deve essere come il samaritano che reca l’olio per ottenere attraverso la guarigione del corpo e la salute la ripresa delle ordinarie occupazioni, degli affetti domestici, della socialità Cf. 108).

L’obiezione viene spontanea: come e quando tutto ciò può accadere se io quest’uomo che pensa, ama, soffre, ammira, prega… neanche lo vedo! Don Tonino Bello, Vescovo, a tanti di noi direbbe sconsolato: “siete evangelizzatori di pratiche!”.

 

Negli appunti è stata rinvenuta questa annotazione che ci riguarda da vicino: “Nel giugno del 1978 su invito del Padre Generale vi fu un incontro dei direttori sanitari e di un gruppo dei medici dei Fatebenefratelli sul tema:”I Fatebenefratelli tra la riforma e il rinnovamento”. In questo incontro un gruppo di loro definì l’ospedale religioso un ospedale configurato nella stretta osservanza dei principi cattolici, pur nella funzione pubblica del servizio. …Ma preferirei dire che l’ospedale religioso è un luogo di evangelizzazione. Evangelizzare vuoI dire vedere i problemi quotidiani con la lampada del Vangelo, vuoI dire vedere nel malato l’uomo condividendo con lui le sue sofferenze, le sue preoccupazioni, i suoi rimpianti, le sue speranze” ( Cf. senza numero).

 

Il quel “preferirei dire” c’è il testamento che lascia agli operatori sanitari: evangelizzare vuol dire vedere-condividendo. Impresa certamente non facile. Infatti, così si legge da un’altra parte:“La medicina è un arte, richiede un supplemento d’anima” (f.108). Quel “supplemento” noi continuiamo a chiamarlo HOSPITALITAS, ossia carisma. Ogni giorno di più ci rendiamo conto che non si compera né si baratta: è dono dello Spirito. E l’Ospedale che sognamo è fare di un’azienda, imposta ed impostata sulle leggi di mercato, un “luogo carismatico”: “Vi sono diversi doni, ma uno solo è lo Spirito. Vi sono vari modi di servire, ma uno solo è il Signore. Vi sono molti tipi di attività, ma chi muove tutti all’azione è sempre lo stesso Dio. In ciascuno, lo Spirito si manifesta in modo diverso, ma sempre per il bene comune.”

 

La carica per procedere contro corrente ci viene dall’Apostolo che ci invoglia e ci invita: “Aspirate ai carismi più grandi…” (1 Cor 12, 31). Epperò, se avessi…se avessi…se avessi…ma… “se non ho amore, sono un metallo che rimbomba, uno strumento che suona a vuoto “ (1 Cor 13, 1). E allora addio orchestra!

 Micheli Pierluigi con in Card. Martni - Card. Saldarini 16

Quello di Pierluigi è un profondo sentire cum Ecclesia. Lui i Decreti Conciliari non li ha leggiucchiati ma assimilati: “Il mondo moderno ha subìto una caduta della capacità dialettica, più grave della caduta della morale. Agnosticismo filosofico, indifferentismo religioso, relativismo morale, le varie ideologie vegetariane, animaliste, i guru e i culti esoterici, il timore di trasmettere la vita. L’uomo di oggi non vuol più sentirsi dire che la vita è una battaglia ” (Cf. 88). Si badi: la caduta della capacità dialettica, più grave della caduta della morale. E’ la linea che persegue tenacemente Benedetto XVI .

 

Il suo ecumenismo? Presto detto: ” Il PADRE NOSTRO è una preghiera corale che tutti gli uomini possono dire e che nella sua universalità non è legata a correnti di pensiero. E’ la preghiera dell’UOMO ” (f.73). Per questo lo straniero a casa sua non s’ è mai trovato né si trova a disagio.

 

Chiesa di San Marco - MilanoIl tassello che mi mancava per completare il mosaico delle mie convinzioni e mi permettesse di inquadrare il Micheli nella sua giusta luce e non soltanto nell’ottica del mio punto di vista, è saltato fuori proprio in questi giorni e l’ho trovato nell’omelia funebre pronunciata dal suo Parroco ed amico Don Giovanni Marcandalli che non mi era ancora capitato di leggere.

Il Celebrante, nel finale, così si rivolgeva a Pierluigi: “Fa’ splendere il tuo volto su questa comunità parrocchiale che ti ricorderà sempre come il migliore dei suoi figli, come il più saggio e il più santo fra i suoi fedeli”.

 

Non sono parole di circostanza ma la prima pietra di un monumento da costruire con preghiere e suppliche all’intercessore che riposa nel Cimitero Monumentale di Milano. Il presbitero in precedenza aveva chiesto un’altra grazia: “Fa’ splendere il tuo volto sui tuoi familiari, sui tuoi collaboratori, medici e infermieri (i tuoi “confratelli”). Fa’ splendere il tuo volto sulla “Università della Terza età”, “opera di altissima utilità”. E l’omelia era cominciata con parole non meno pregnanti, dal sapore di Chiesa delle origini: “Siamo qui attorno alle spoglie mortali (“le sante reliquie”) del nostro fratello Piero, il Dott. Micheli, con una profonda mestizia nel cuore (come Gesù davanti alla tomba dell’amico Lazzaro), perché è stato sottratto alla nostra vista un grande uomo, un ottimo medico, un vero cristiano, un autentico maestro di vita e, per molti (come per me) un sincero amico”.

 

Queste sono parole pronunciate nella Chiesa, dalla Chiesa, attraverso il suo Ministro, la longa manus del Vescovo. E sono formulate in un contesto liturgico, Pasquale, alla presenza dello Spirito Santo di Dio che le ha suscitate. Non possiamo banalizzare. Dal celebrante ho avuto modo di sentire altre riflessioni nelle messe di anniversario che ogni anno si celebrano presso la Chiesa di San Marco. Peccato che siano entrate nell’anima degli uditori ma non siano state fissate sulla carta da colui che le ha pronunciate. Spero che almeno queste parole cadano nelle mani del Postulatore Generale dell’Ordine perché si faccia carico di raccogliere scritti e testimonianze prima che sia troppo tardi, e perori la causa perché si apra un processo canonico nella Chiesa che è in Milano. Per incoraggiarlo in questa impresa, mi farò assistere dal filosofo Jean Guitton che sulla santità ha idee molto chiare e convincenti, come cercherò di illustrare nelle pagine seguenti e come ho già diffuso in internet.

 

A dieci anni dalla sua ultima Pasqua

Erano gl’anni sessanta. Per via di un’ulcera duodenale che ha tormentato la mia giovinezza, ho conosciuto il Dott. Pierluigi Micheli quando ne avevo diciassette. Con il limite delle conoscenze di allora, mi ha curato per un decennio. Poi l’ho perso di vista dopo l’intervento chirurgico risolutore. Nel 2002, quasi caduto dal cielo, mi son trovato tra le mani il volume di Andrea Martano “PIERLUIGI MICHELI MEDICO UMANISTA” (Ed. Federico Motta), con la prestigiosa prefazione dell’attuale arcivescovo Mons. Gianfranco Ravasi.

 

Leggendo e rileggendo quelle pagine che sono anche una raccolta antologica di parte dei suoi scritti, ho sentito il bisogno di esternare alla Signora Augusta, la consorte che ancora non conoscevo, i sentimenti e le emozioni che esse mi avevano trasmesso. Mi sia permesso citare alcuni passi di quella lettera scritta a caldo, perché meglio esprime lo stato d’animo della mia testimonianza, dopo l’inattesa scoperta: “…L’incontro [con Dr.Micheli] era sempre coinvolgente: non faceva soltanto il medico, leggeva nel cuore, aveva un gesto, un tono, uno sguardo quasi sacerdotale; dalle prime battute s’intuiva trattarsi di un uomo riservato, colto ma anche in confidenza con il Sacro. Porto ancora nelle pupille il fascino del suo sguardo mentre mi visitava sul lettino; è lo stesso che ritrovo intatto nella foto a pag. 12 e mi emoziona. Il libro mi fa rivivere le sue battute discrete, argute, penetranti che giungevano come un messaggio da raccogliere e custodire.”

 Micheli Pierluigi in vespa e con amici  15

Raccontatole piccoli aneddoti impressi nella memoria, aggiungevo: “Tante volte mi ha sentito il polso, misurato la pressione, ascoltato il battito cardiaco. Attraverso questo libro e leggendo i sui scritti, ora i ruoli sembrano invertirsi: è il lettore che gli misura il polso, gli sente il battito, gli prova la pressione… Il mio parere è che si tratti di un cuore al di fuori della norma. Abituato a immergersi nelle profondità oceaniche dell’Assoluto, credo abbia raggiunto primati ragguardevoli di contemplazione estatica in apnea”.E in quella circostanza le ricordavo inoltre un detto Giapponese: “quando muore un saggio, è come se venisse a mancare una biblioteca. Il Dr. Micheli più che un saggio è stato un santo del nostro tempo. Fortunatamente restano alcuni scritti così che, almeno parte della biblioteca, è salva. Auspico che essi vengano interamente pubblicati perché sarebbero una testimonianza ulteriormente capace di generare “un movimento verso l’alto”.

 

Era proprio ciò che il Dr. Micheli si sforzava di fare ogni giorno: “Quello che può riempire di gioia un uomo ed essergli di conforto e di sostegno è di aver suscitato nel suo cammino con la sua opera, il suo modo di vivere, le sue parole, un movimento in chi gli sta attorno verso l’alto, il soprasensibile, il metaempirico, verso la speranza, verso la terra promessa… Il popolo eletto, il popolo sacerdotale è al servizio degli altri” (f.30, pag.47). Appare evidente che sentiva di appartenere a un popolo “sacerdotale” al servizio degli altri, così ben espresso nella Lumen Gentium ai punti 31 e 34 . Sono stupende le sue intuizioni sul medico, la medicina, il malato, l’ospedale. Non si finirebbe di citare. Ha scritto che, talvolta, “credere è vedere”.(Pag.44)  Sono certo che Gli succedesse con i malati: in essi “vedeva” perché credeva al Vangelo: “In verità, vi dico che tutte le volte che avete fatto ciò a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo avete fatto a me!” (Matt.25,40).

ravasi-150x150“Uomo assetato di fede e di sapienza, di verità e di bellezza”. Così lo ha definito sinteticamente l’Arcivescovo Gianfranco Ravasi. E, se è vero che ricordare significa “riportare al cuore”, qui anch’io vorrei provocare quel piccolo miracolo che è nelle stesse parole del Prelato: ”far rivivere nell’affetto e nel sentimento una presenza che è forse stinta ma non estinta”, proprio nel decimo anniversario della sua nascita al Cielo, alla giovane età spirituale di ottantacinque anni. Buona eternità, Dr. Micheli!: “Noi dunque non ci scoraggiamo. Anche se materialmente camminiamo verso la morte, interiormente, invece, Dio ci dà una vita che si rinnova di giorno in giorno. 17La nostra attuale sofferenza è poca cosa e ci prepara una vita gloriosa che non ha l’uguale. 18E noi concentriamo la nostra attenzione non su quel che vediamo ma su ciò che non vediamo: infatti, quel che vediamo dura soltanto per breve tempo, mentre ciò che non vediamo dura per sempre”. (2Cor 4,16)

 Micheli Pierluigi 03 agregato ai FBF

Il cristiano Micheli

Il Martano dice che la parte più personale e intima di Pierluigi Micheli è stata giocata nelle veglie notturne: “ Era una notte di pensieri la sua, che si snodava dal termine, assai duro, della giornata di lavoro, trovava un momento di quiete sulla sua poltrona e continuava, ancora per alcune ore, nel suo studio. Sempre gli fu complice la musica di Mozart e Bach, da lui amata più d’ogni altra cosa e seconda soltanto alla medicina”.

Ed aggiunge: “Unico momento di distrazione il bussare, graffiando, del suo gatto ai piedi della porta, a chiedere di entrare nella stanza e nei pensieri. Così Pierluigi amava fermarsi faccia a faccia con se stesso o ancora trattenersi a studiare di medicina sui suoi libri e sulle riviste scientifiche, soprattutto francesi. Molte delle conoscenze nel suo campo sorsero in quelle veglie e tante delle sue riflessioni posarono lievi passi sulla carta alla luce di quelle sere. Delle prime si giovarono i suoi pazienti o chi gli chiedeva consiglio, dalle altre noi tenteremo una via di conoscenza dell’uomo. Se egli amò divagare su Dante, meditare sulle Sacre Scritture e sulla fede, ritessendo i motivi della sua scelta di vita, la medicina, tutto questo poté farlo nel tempo serale che dedicò a se stesso e ai pensieri. Concedeva al sonno un tempo breve. La sveglia al mattino presto, la cura dedicata alla persona e quell’inconfondibile profumo di colonia che, misto all’odore del tabacco da pipa (da lui tanto amata), per tutta la giornata lo rendeva riconoscibile anche nei corridoi del suo reparto in ospedale, davano inizio alla giornata, scandita da un ritmo regolare e intenso: dapprincipio le visite ai suoi pazienti nelle case, persone alle quali sempre rimase caro per la perizia e i modi gentili, poi le attività ospedaliere e infine le visite nel suo studio”(p.19).

 Micheli Pierluigi  copertina  16

Chi lo ha conosciuto, sa benissimo che non era un uomo astratto. Se la concretezza per un medico è fondamentale, la sua trascendeva rispetto all’ambiente: si capiva che non si faceva carico dell’organo malato ma del suo proprietario e che tendeva a curare l’uomo sofferente la cui patologia non poteva essere disgiunta e trattata separatamente. Visitava con cura e gratuitamente le persone bisognose con la stessa attenzione posta ai “poveri ricchi”, doppiamente malati per via di quell’attaccamento morboso ai beni che Gesù ha definito “patologia ad alto rischio”, come riferisce Matteo al cap.24,24.

Concretezza e dedizione infatti lo hanno caratterizzato e contraddistinto: “Dedito al suo lavoro fino agli ultimi giorni di vita, colpì tutti, anche chi sempre gli fu vicino, il fatto che si prese cura dei suoi pazienti persino quando egli stesso necessitava di cure. Non solo continuò a dare consulti ai suoi colleghi, ma neppure smise di visitare gli ammalati quando si trovò nel letto di ospedale. E il suo camice era lì accanto, con la pipa nel taschino. Giammai infatti sembra averlo colto lo sconforto per le sue vicende personali; piuttosto si dava pensiero per i casi particolari di cui si occupava, sia che fossero suoi pazienti sia che si trattasse delle persone che usava aiutare. Senza sprecare, allora, parole di elogio, sempre e con molto riserbo manifestava una grande tensione per gli altri, facendosi strumento di aiuto dinanzi a qualunque richiesta. Non a caso la madre usava spesso dirgli che “la carità esce dalla porta e rientra dalla finestra”: Pierluigi ne fece un motto. Mai infatti si persero le salde trame sulle quali con arte ebbe modo di tessere, egli stesso, tutta la sua storia” (Pag. )

 

Poiché l’appetito vien mangiando, chi ha desiderio di saperne di più, non ha che da navigare in internet:

http://www.tuoblog.it/pierluigimicheli

Dovendo attenermi al tema della rubrica, proverò a scoprire quella parte di lui che era dominante e trabocchevole: l’essere medico di Dio nella città dell’uomo. Dopo la fruttuosa lettura dei suoi scritti ho provato a sintetizzarli in questa epigrafe che fin’ora è rimasta solo sulla carta. Credo ne riassuma pienamente il senso che andremo a scoprire insieme un po’ alla volta:

 

PIERLUIGI MICHELI

MEDICO

nato a Pontevico il 27 Ottobre 1913

morto a Milano il 22 Giugno 1998

IN CONCETTO DI SANTITÀ

 

S’EGLI AMÒ DIVAGARE SU DANTE

DAL SUBLIME FU ATTRATTO E SEDOTTO

MEDITANDO LE SACRE SCRITTURE

 

MEDICINA FU SCELTA DI VITA

E LA NOTTE MAESTRA OGNI GIORNO

 

PAZIENTE E CALMO

NELLE DIFFICOLTÀ

CHE GLI SI PRESENTARONO

VESTITO OPPORTUNAMENTE

SERENO NEL VOLTO E NELL’AGIRE

NEL MALATO MAI ALTRO VIDE

CHE UNA PERSONA SOFFERENTE

 

SCELTO A VEGLIARE SULLA VITA

E SULLA MORTE DELLE SUE CREATURE

A DIO COSÌ RISPOSE:

“ ECCO IO SONO PRONTO ALLA CHIAMATA”

 

E perché non appaia una forzatura, tenterò di spiegare quel “in concetto di santità” che potrebbe anche far arricciare il naso a qualcuno. Chi intende seguirmi nel ragionamento dovrebbe aprire la Bibbia ai seguenti paragrafi: 1 Cor 12, 29-31; 13,1-13; 14,1-3. Costretto a fermarmi, l’appuntamento è rimandato al prossimo numero. Ci lasciamo con l’ultima considerazione del Martano a conclusione della sua ricerca: “Il lettore raccoglie il testimone, e nella mente serba vivo un ricordo: l’immagine nitida di un uomo che alle preoccupazioni e alle fatiche della giornata rispondeva serenamente adagiato sulla sua poltrona, indagando i percorsi dei pensieri. Non tace il segno di questa grande e feconda umanità” (p.81). No, no, parla, eccome! Ma va amplificato il suono.

Angelo Nocent 

 

Micheli Pierluigi 01

Il Dr. Pierluigi Micheli a un pranzo di gala.

Note biografiche

 

  • Pierluigi Micheli nasce a Pontevico (Brescia), il 27 Ottobre 1913 da Alfonso, ingegnere, ed Elvira Annovati. A quattro anni perde il padre nelle prima guerra mondiale. La madre, donna austera e di antico casato sarà figura di rilievo nella vita del figlio al quale inculca un grande senso del dovere, solidi principi ed una fede incrollabile. Muore nel 1955 lasciando in lui un grande vuoto. Già da bambino esprime il desiderio di fare il medico.

  • Nel 1927 è liceale presso il Collegio Villoresi-San Giuseppe di Monza. Brillante negli studi, sviluppa anche le qualità morali ed umane che lo segneranno per sempre.

  • Si laurea nel 1937 ma subito dopo è colpito da una malattia che sembra non dargli scampo. Si ritira presso i frati minori di San Vigilio, nel Trentino, dove la sua salute rifiorisce prima del previsto e può riprendere la sua attività. Conteso dai primari di allora che lo volevano al seguito, resterà legato al Prof. Donati che lo vorrebbe chirurgo. Ma Pierluigi preferirà sempre la medicina. Formidabile diagnosta, dotato di una grandissima sensibilità, usa ripetere che “il medico bravo è quello che sbaglia di meno”.

  • Nell’aprile del 1947 conosce Augusta e il 10 luglio 1948 la sposa nella Cappella privata dei Cavalieri del Santo Sepolcro, in piazza San Simpliciano a Milano. E’ consulente medico della Rhodiatoce-Montecatini, convenzionata con l’Ospedale San Giuseppe di Via San Vittore, nel cuore di Milano e dal 1955 collabora con la clinica Salus, pur continuando a seguire i suoi pazienti da medico generico, cosa che farà fino agli ultimi giorni della sua vita.

  • Presso l’Ospedale San Giuseppe dei Fatebenefratelli negli ultimi quindici anni è primario della divisione di Medicina Generale, posto che lascia per il pensionamento, a sessantasette anni. Alla vigilia di questa scelta obbligata, riceve la bolla di aggregazione all’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio. Da allora nella clinica privata Sant’Ambrogio di cui era già socio dal 1970, opera fino al Maggio 1998, poco prima della morte, avvenuta il 22 Giugno dello stesso anno. E’ sepolto nel Cimitero Monumentale di Milano al 931, Rialzo di ponente.

  

Da FATEBENEFRATELLI Lugl./Sett.2008

 segue…

PIERLUIGI MICHELI: “Eccomi! Sono pronto alla chiamata” – Angelo Nocent

http://compagniadeiglobulirossi.org/blog/2009/11/pierluigi-micheli-eccomi-sono-pronto-alla-chiamata-angelo-nocent/

 

L’UNIVERSITA’ DELLA STRADA

AMICI DI SAM

CRISTO SAMARITANO   

Lo scrittore Luigi Santucci (19 18-1999) in un suo racconto intitolato Samaritano apocrifo ricorda che questo personaggio evangelico — che abbiamo iniziato a presentare la scorsa settimana, attingendo alla parabola di Luca 10,25-37 — è divenuto nei secoli cristiani una specie di icona posta nei «vestiboli dei lazzaretti e dei luoghi pii».

Ma qua’è il vero senso della parabola di Gesù, una delle più celebri e più belle del Vangelo?

La risposta è da cercare in un abile contrasto tra due domande presenti nella cornice del racconto. In essa un dottore della legge chiede a Cristo: «Chi è mai il mio prossimo?». L’ebraismo Ilsolveva questo interrogativo “oggettivo” sulla base di una serie di cerchi concentrici che si allargavano ai parenti e agli Ebrei. Gesù, in finale di parabola, rilancia la domanda allo scriba ma con un mutamento significativo: «Chi ha agito come prossimo?». Come è evidente, c’è un ribaltamento: invece di interessarsi “oggettivamente” a definire il vero o falso prossimo, Gesù invita a comportarsi “soggettivamente” da prossimo nei confronti di tutti coloro che sono nella necessità. 
In questa luce il Samaritano — a differenza del levita e del sacerdote ebreo che «passano òltre dall’altra parte» della strada su cui giace lo sventurato, mezzo morto — autenticamente è prossimo del sofferente, senza interrogarsi su chi è questo prossimo da aiutare. È per questo che una tradizione posteriore ha visto nel ritratto del buon Samaritano un’immagine di Cristo stesso. E, infatti, interessante notare che sulle mura di un edificio crociato diroccato, chiamato liberamente “il khan (caravanserraglio) del buon Samaritano” posto proprio sulla strada che scende da Gerusalemme a Gerico, un anonimo pellegrino medievale ha inciso in latino questo graffito: «Se persino sacerdoti o leviti passano oltre la tua angoscia, sappi che Cristo è il buon Samaritano che avrà sempre compassione di te e nell’ora della tua morte ti porterà alla locanda eterna». 
Questa pagina evangelica di forte tensione drammatica ma anche di grande fragranza spirituale e lettera-~ ria illustra in modo esemplare il messaggio cristiano dell’amore che pervade tante parole di Gesù, a partire dall’appello del Discorso della Montagna: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Matteo 5,43-44). Per giungere fino al testamento dell’ultima sera di Gesù: «Vi do un comandamento nuovo: Amatevi gli uni gli altri; come io vi ho amati, così anche voi amatevi gli uni gli altri. Da questo tutti vi riconosceranno come miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Giovanni 13,34-35). Anche nell’apocrifo Vangelo di Tommaso Gesù ripete: «Ama il tuo fratello come l’anima tua. Proteggilo come la pupilla dei tuoi occhi».

Avvenire, 5 aprile 2007

Dire Dio in ospedale  

 

(Con olio di consolazione e vino di speranza)

Sono appena rientrato in camera mia a conclusione di una giornata piena di impegni: i catechismi, la celebrazione della Messa, il pomeriggio in ospedale dove presto il mio servizio come assistente religioso e dopo cena il gruppo delle superiori per l’incontro di programmazione delle attività estive.

Dopo una giornata così, ciò che desideri di più è il silenzio e un po’ di riposo, gli occhi sono appesantiti dalla stanchezza e il sonno si fa subito sentire appena tocco il cuscino.

Verso le due di notte, il mio telefonino suona, non faccio fatica a capire che si tratta di una telefonata e non di un SMS o della sveglia.

Rispondo, mi chiamano dall’ospedale, reparto medicina uomini: un uomo, Luigi, si è aggravato e sembra imminente la fine. Mi precipito giù dal letto e in un attimo sono vestito. Mentre percorro, con passo spedito, la via verso l’ospedale, penso e ripenso con la preghiera, che questa è “l’urgenza della grazia” da invocare verso chi è colpito dal male e si avvia verso la conclusione della vita terrena.

Arrivo in ospedale, mi dirigo verso il reparto da cui è partita la chiamata e mi avvicino al letto del paziente. Vicino a lui, ormai irrequieto e agitato come chi sta combattendo fino all’estremo delle proprie forze, c’è la moglie, è una donna minuta, con il volto segnato da notti insonni e con le lacrime agli occhi.

La saluto, ci parliamo, mi racconta di questo marito colpito da un male che in pochi mesi lo sta conducendo alla fine, ha solo 56 anni!

Preghiamo e amministro il sacramento dell’Unzione al malato. Questo è ciò che normalmente capita nel mio servizio di  cappellano in ospedale. 

Incroci la storia di tanti uomini e donne che si ritrovano con la malattia che, come un grosso macigno, li sta schiacciando e cercano un senso alla loro esistenza e al loro dolore.

 Non hanno molte parole, ma tante lacrime; non chiedono più chissà cosa, ma un abbraccio, ascolto, preghiera. Nella malattia l’uomo cerca Dio il Vangelo ce lo insegna: i malati nel corpo e nello spirito, cercano Dio.  Lo cercano accontentandosi anche solo di toccare il lembo del mantello del Maestro!

In ospedale tante volte incontro uomini che cercano Dio, forse per prendersela con Lui, forse per sfogarsi con il Signore che ha dato una croce pesante da portare. 
Ma è proprio da quel cercare Dio che il cuore si apre al Mistero e trova senso la sofferenza: “Il dolore e la malattia fanno parte del mistero dell’uomo sulla terra. 
Certo, è giusto lottare contro la malattia, perché la salute è un dono di Dio. Ma è importante anche, saper leggere il disegno di Dio quando la sofferenza bussa alla nostra porta.

La “chiave” di tale lettura è costituta dalla Croce di Cristo, Il Verbo incarnato si è fatto incontro alla nostra debolezza assumendola su di sé nel mistero della Croce. Da allora ogni sofferenza ha  acquistato una possibilità di senso, che la rende singolarmente preziosa.” (Giovanni Paolo II, Giubileo dei Malati – 11 febbraio 2000).

Cosa significa “dire Dio” in ospedale? Cosa vuol dire raccontare 
che abbiamo una speranza che è Dio stesso?

  1. 1.     Dire Dio in ospedale è dare consolazione e speranza. C’è un’icona biblica a me molto cara che mi aiuta in questo mio compito e che guardo come esempio per il mio ministero. È l’icona del buon samaritano (Luca 10,29-37). Quella parabola raccontata da Gesù ci suggerisce cosa possiamo fare con i nostri malati.

  2. 2.     Dire Dio in ospedale è declinare infinitamente e vicino ad ogni letto, i verbi che descrivono l’agire del samaritano. Dire Dio è passare accanto al fratello, per vedere il corpo ferito e avere compassione della disperazione. 

  3. 3.     Dire Dio è farsi vicino, con la consapevolezza che incroci lo sguardo di Cristo, che ti fissa perché ti ama. È farsi vicino senza aver paura di perdere, ma con la certezza che guadagni tanto di più.

  4. 4.     Dire Dio è fasciare quelle ferite, che gridano dolore e rabbia. È ascoltare quel grido e prestare la propria voce per pregare il Padre.

  5. 5.     Dire Dio è versare olio e vino per guarire. Olio di consolazione e vino di speranza. Il fratello ammalato sentirà la carezza di Dio; la malattia consuma le membra, ma la vita sofferta ha senso perché quella carezza ti fa assaporare la dolcezza di Dio che ha compassione dei suoi figli.

  6. 6.     Dire Dio è dare una certezza di una compagnia indistruttibile, è dare una certezza di una vita senza fine, è far sentire un abbraccio misericordioso e paterno.

  7. 7.     Ho detto Dio ad Ajka, ragazza di 23 anni conosciuta in ospedale che ha sconvolto la mia vita da prete. Un giorno mi ha detto: “Ti prego, non voglio morire da sola!”.   
    Non le ho detto molte cose, le sono stata vicina e l’ho accompagnata nel suo cammino segnato dalla sofferenza.

  8. 8.     Dire Dio: speranza e compagnia indistruttibile del destino dell’uomo.  

Don Paolo Comba Assistente religioso Ospedale “Santa Croce” Moncalieri – Torino  

Pregando.it – Pillole di Cristianità - Brano tratto da “Il Vento” Periodico Diocesano

IL BUON SAMARITANO 
 
 «Occidente sazio e disperato stai saccheggiando l’Africa…»   La parabola del buon samaritano e l’Occidente che si arricchisce sulla povertà dei paesi dell’Africa, o si abbandona all’abbrutimento consumistico. Le due situazioni si trovano congiunte in una sezione del libro che papa Benedetto XVI ha dedicato alla figura di Cristo. L’ampia riflessione del Pontefice, tratta dal libro in uscita, è stata anticipata ieri dal «Corriere della Sera». In sostanza, il buon samaritano è l’occasione che Gesù dà alla riflessione per comprendere che la prima alterità va cercata in noi stessi: ama il prossimo tuo come te stesso, il comandamento biblico, diventa lo specchio per sostenere questa ricerca di mettersi nella parte dell’altro. «Io devo diventare il prossimo» perché solo in quel momento «l’altro conta per me come “me stesso”». «La domanda – scrive Benedetto XVI -, nel concreto, è: chi è il “prossimo”? La risposta abituale, che poteva poggiarsi anche su testi delle Scritture, affermava che “prossimo” significava “connazionale”. (…) Gli stranieri, allora, le persone appartenenti a un altro popolo, non erano “prossimi”? (…)». Di fronte alla problematicità di questa scelta, Gesù – scrive Papa Ratzinger – «risponde con la parabola dell’uomo che sulla strada da Gerusalemme a Gerico viene assalito dai briganti che abbandonano ai bordi della via, spogliato e mezzo morto». Un sacerdote e un levita tirano oltre; arriva il samaritano – «uno che non appartiene alla comunità solidale di Israele» – e ne ha compassione. Fu morso «nelle viscere», «preso nel profondo dell’anima», precisa il Papa, che collega questa immagine alle responsabilità dell’Occidente verso i paesi poveri dell’Africa, o al comportamento di tanti verso «l’uomo spogliato e martoriato» «Le vittime della droga, del traffico di persone, del turismo sessuale, persone distrutte nel loro intimo, che sono vuote nell’abbondanza di beni materiali». «Tutto ciò – è il monito di Benedetto XVI – riguarda noi e ci chiama ad avere l’occhio e il cuore di chi è prossimo e anche il coraggio dell’amore verso il prossimo».

IL SAMARITANO 

 

Rammento di aver letto di un giovane che trovò una donna dentro una carcassa di automobile, in una delle tante bidonville alla periferia delle grandi città. Stava là dentro da oltre trenta giorni, malata, senza nessuno che l’aiutasse, in una sporcizia inimmaginabile. Il giovane cercò di aiutarla. Bussò alla porta di alcuni istituti di assistenza ma non trovò nessuno che l’aiutasse. Gli rispondevano:”Giovanotto, mi dispiace, ma non posso far niente per te”. Oppure:”Anche se lo volessi, ragazzo mio, non potrei proprio aiutarti. Di notte noi qui non riceviamo nessun malato; a eccezione dei casi della mutua”.

Alla fine, aiutato da un passante occasionale, mise la poveretta nella sua macchina e la portò lui stesso all’ospedale. Venne ricevuto da una suora che gli rispose: “Anni fa, quando eravamo noi a occuparci dell’ospedale, avrei potuto aiutarti, ma adesso, non posso fare assolutamente nulla”.

La portò allora al pronto soccorso, e il medico di guardia disse:” Se mi metto ad aiutare questa donna, rischio di perdere il posto! Ma –pensò un po’, si grattò la testa, e decise –correrò il rischio!” Aiutò la poveretta, prestandole le prime cure: Quindi nei giorni seguenti riuscì a farla ricoverare in un istituto di accoglienza. 

Un fatto della vita del tempo della Bibbia.

Gesù domandò al paralitico: “Vuoi essere guarito?”

Quello rispose:” Signore, non c’è nessuno che mi porti fino alla piscina, quando l’acqua incomincia a muoversi. Quando io arrivo laggiù, un altro è già entrato prima di me”.

Il paralitico stava lì da 38 anni, aspettando sempre una mano amica che lo aiutasse a entrare nella piscina, per essere guarito dall’agitarsi delle acque. Aspettò 38 anni e nessuno venne ad aiutarlo. Gesù lo aiutò nell’ora giusta: “Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina con le tue gambe!”(Gv.5,1-9). 

Approfondiamo il fatto della vita

Due casi simili: quella donna aspettò trenta giorni, sola, morente, in una automobile sfasciata, nella più lurida periferia; il paralitico aspettò 38 anni, tra gli altri ammalati, vicino alla piscina. Come può succedere una cosa simile? 

Ascoltiamo cosa ha detto Gesù alla gente del suo tempo su questo problema

Molte persone sono solite mettere in pace la loro coscienza e, di fronte alla miseria della gente, trovano sempre una scusa giusta e ragionevole per esimersi dalla colpa. Facevano così anche i farisei. Dicevano di dover amare solo il prossimo e non gli altri. Il loro maggior problema era quello di sapere: chi era il prossimo? 

LEGGIAMO COSA DICE GESU’ IN LUCA 10,25-37

Commento 

Per commentare questa parabola dobbiamo tenere presente una verità inconfutabile e cioè che perfino il nostro mondo di credenti può diventare così contorto e aggrovigliato da farsi incomprensibile a noi stessi. A volte viviamo di frammenti cristiani, di approssimazione confuse, di nostre invenzioni religiose. Mai come in questi tempi nei quali c’è l’esplosione di sette esoteriche e sataniche abbisogniamo di chiarezza. Eppure i comandi e i decreti di Dio sono chiari, comprensibili. Non sono troppo lontani e alti. Solo la nostra meschinità intellettuale e morale riesce a oscurare la chiarezza e la bellezza della sua legge dell’amore. Il fatto è che per capirla, al di là delle varie spiegazioni e insegnamenti, e accoglierla bisogna con molta umiltà interiore sempre convertirci “con tutto il cuore e con tutta l’anima”.

Noi siamo come il dottore della legge che è pieno di domande su Dio e sul prossimo. Gesù al quesito che gli viene posto (Lc.10,25-29) risponde che il centro della legge ha due facce indisgiungibili: l’amore di Dio e l’amore al prossimo.

Allo stesso tempo, però, fa notare che l’amore di Dio viene prima ed è totale (il prossimo è da mare e da servire. Non da adorare, come invece Dio); e che, infine, tutto ciò non costituisce in alcun modo una novità, essendo già presente nelle Scritture che lo stesso dottore della legge conosce.

Pare di capire che il dottore della legge non sia soddisfatto della risposta di Gesù. Il problema è più complesso: chi è il prossimo? Lui come noi del resto chiediamo: chi è il prossimo da amare? Il vicino? Il correligionario? Il sofferente? Il giusto? La persona che frequenta il cenacolo e la comunità? Il simpatico? I parenti? Ecc..

Il dottore della legge vuol sentire in proposito l’opinione di Gesù, che gli risponde proprio con il prosieguo della parabola (Lc.10,30-35).

Gesù non formula una casistica, non allunga la serie delle opinioni teologiche nel merito della questione. Racconta un esempio. Propone, infatti, un comportamento da imitare, e non va trasportato da un piano all’altro, da quello figurato a quello religioso, poiché è già esso stesso sul piano spirituale.

Ma occorre ancora fare un’osservazione generale prima di addentrarci nella rinarrazione della parabola. Il dialogo fra il dottore della legge e Gesù è costruito su uno schema molto significativo: domanda del dottore della legge (10,25) e controdomanda di Gesù (10,26), seconda domanda del dottore della legge (10,29) e seconda controdomanda di Gesù (10,36). Questo schema rende evidente una costante dei dibattiti di Gesù e, più profondamente una caratteristica della stessa rivelazione: le risposte di Gesù esigono che l’ascoltare cambi innanzitutto la direzione della sua domanda. Gli interrogativi dell’uomo sono troppo limitati per le risposte di Dio. Anche l’analisi di questa parabola mostra che Gesù non risponde direttamente alle domande del dottore della legge.

Quando mai Gesù risponde “soltanto” alle domande che gli vengono poste? Le sue risposte sono “oltre” e “più ampie”. 

Il sacerdote e il levita

Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico: tra le due città ci sono mille metri di dislivello e circa trenta chilometri di strada attraverso l’arido e spopolato deserto di Giuda: un luogo ideale per le imboscate. Il viandante viene assalito, depredato e abbandonato mezzo morto.

Un sacerdote e un levita (tornavano dal loro servizio al tempio, con ogni probabilità) giungono sul posto e,scorto il ferito, lo evitano passando oltre, dal lato opposto. Insensibilità? O piuttosto desiderio di mantenere la propria purezza cultuale? Sappiate, infatti, che era prescritto (sempre le innumerevoli norme dei farisei) ai sacerdoti che prestavano servizio al tempio di mantenersi puri, e il sangue contaminava.

Ma perché Gesù sceglie, quali figure negative, proprio un sacerdote e un levita? Impossibile non ravvisare in questa scelta un’intenzione polemica: l’osservanza cultuale non deve distrarre dall’essenziale, cioè dall’amore per il prossimo, e la purezza che Dio vuole è la purezza dal peccato, dall’ingiustizia, non dal sangue di un ferito.

Il dottore della legge che stava ad ascoltare la narrazione, ha probabilmente pensato: i due hanno fatto quanto dovevano fare, è giusto anche se doloroso!

Gesù, invece, è di parere opposto: E questo mostra che la sua polemica non è indirizzata contro una classe religiosa, ma contro una prospettiva religiosa universalmente condivisa.

 Il samaritano

Passa un samaritano, si ferma, si prende cura del ferito. Il samaritano è presentato come un modello, e lo stupore del dottore della legge, a questo punto, certamente dovette essere grande ( lo stupore dell’ascoltatore è sempre, o quasi, un segnale che la narrazione sta toccando un punto su cui occorre soffermarsi). I samaritani venivano considerati impuri, gente da evitare alla stregua del pagani. Nonostante questo (anzi proprio per questo), Gesù sceglie come personaggio-modello della parabola un samaritano, non un fariseo osservante. Si tratta di una seconda intenzione polemica: la bontà non ha confini, afferma Gesù, e gli esempi da imitare si trovano anche là dove non ce lo si aspetta, perché Gesù è libero da ogni pregiudizio. Il bene non è tutto da una parte e il male dall’altra. Gesù riprende questo concetto successivamente in Luca 17,11-19. Egli risana dieci lebbrosi, ma uno solo torna indietro a ringraziarlo: “Era un samaritano” E Gesù osserva: “Non si è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?”

Il samaritano è chiamato straniero “di altra razza”, dice il testo alla lettera, ma la differenza era anche di tipo religioso. Ebbene, proprio questo straniero, di altra razza e di altra fede, è l’unico dei dieci che si ricorda di dar gloria a Dio: un privilegio, questo, che i giudei pensavano spettasse soltanto al loro popolo.

Ma ritorniamo al nostro racconto. Indirettamente la parabola lascia intendere che il prossimo da aiutare è qualsiasi bisognoso che si incontri. Potrebbe essere questa la risposta diretta alla precisa domanda al dottore della legge: “Chi è il mio prossimo?”.

L’attenzione di Gesù è però rivolta altrove. Dell’uomo bisognoso dice soltanto che giaceva sulla strada derubato, ferito e mezzo morto. Che altro è necessario sapere? La narrazione indugia piuttosto sulla figura del samaritano. E si sofferma nel descrivere non chi egli sia, bensì che cosa abbia fatto. Quando una narrazione, prima scattante, a un certo punto rallenta dilatandosi, è perché si è giunti alla scena più importante, che va considerata senza fretta. Infatti, l’attenzione cade sul comportamento del samaritano: vede il ferito, sente compassione, si avvicina, fascia le ferite, lo carica sulla sua cavalcatura, lo porta a una locanda, si prende cura di lui, paga l’albergatore.

Praticamente è come se a Gesù poco importasse la domanda del dottore della legge (“chi è il mio prossimo”), e rispondesse invece a un’altra: come devo comportarmi nei confronti del prossimo? Che significa amare il prossimo? L’attenzione di Gesù è concentrata sul grande comandamento –amare Dio e il prossimo–, non sulla curiosità teologica del dottore della legge.

Vedete, il samaritano non si è chiesto chi era il ferito, e il suo aiuto è stato disinteressato, generoso e concreto. Ecco che cosa significa amare il prossimo. Non a parole, ma gesti concreti. Amare il prossimo vuol dire prendersi interamente a carico la sua condizione.

Che a Gesù stia a cuore il “che cosa fare” è indicato anche dalle due risposte date al dottore della legge: “Hai risposto bene, fa questo e vivrai” (10,28); “va e anche tu fa lo stesso” (10,37). Il dottore della legge tentava di spostare la domanda dal fare alla teoria, Gesù lo riporta al fare.

Chi dei tre si è fatto prossimo?

Si direbbe che, a questo punto, il discorso sia chiuso. E’ stata fatta una domanda (chi è il prossimo?) ed è stata data la risposta (il bisognoso che si incontra). Invece, giunto alla conclusione (10,36), Gesù pone inaspettatamente un’altra domanda, che racchiude un ultimo insegnamento, forse il più importante. E’ una domanda formulata in modo diverso da come l’ascoltatore si aspetterebbe. Non: “chi dei tre ha saputo vedere nel ferito il prossimo da amare?, bensì: “Chi di questi tre ti sembra si sia fatto prossimo a colui che è incappato nei briganti?”.

In questo modo la domanda del dottore della legge viene ulteriormente spostata: prima dalla teoria alla pratica, ora dall’esterno (chi è l’altro?) all’interno (chi sono io?).

Per Gesù chiedersi chi sia il prossimo è in definitiva un falso problema: il prossimo c’è, vicino, visibile, però occorrono occhi capaci di scorgerlo.

Il vero problema è che noi dobbiamo farci prossimo di chiunque, abbattere le barriere e le differenze che abbiamo dentro di noi e che costruiamo fuori di noi. Dobbiamo comportarci come il samaritano che si è sentito prossimo, coinvolto, fratello nei confronti di uno sconosciuto. Il dottore della legge, che aveva una curiosità teologica da soddisfare, si è visto invitato a convertire se stesso.

Questo significa anche ritornare alla chiarezza della legge di Dio.

Non chiediamoci quanto gli altri possono darci, ma quanto noi stessi possiamo dare agli altri. Se la società in cui viviamo ci sembra ostile forse dovremmo seriamente chiederci quanto noi siamo duri con chi ha bisogno di noi.

Amen,alleluia,amen.

http://www.adonaj.net/old/parabole/samaritano.htm

Posted on Novembre 17, 2008 
Filed Under Video

Chissà se ai nostri alunni piacerà questo video così particolare… Sicuramente è un modo originale di presentare le parabole del vangelo. A questo indirizzo anche la parabola del “Servo Spietato”. 

L’amore ed il prossimo: la parabola del Samaritano   

Nota personale  

 «Questo capitolo vuol rappresentare fondamentalmente un omaggio, quanto mai dovuto, a Françoise Dolto e Gérard Sévérin.  

Dalla lettura della loro opera «Psicoanalisi del Vangelo»1 nell’autunno del 1979, in particolare del capitolo sull’interpretazione della parabola del Samaritano (Lc 10, 25-37), prese il via la profonda riflessione che mi ha condotto a questo lavoro. 

Dalle loro conclusioni infatti trovai lo spirito, la speranza di comporre finalmente in modo coerente una auto-percezione ontologica, una visione del mondo, degli altri, la mia disposizione al mondo, agli altri, che sollevasse il mio animo alle anonime perplessità che da sempre avevo covato e, penso condiviso con altri esseri umani, nei confronti dell’intero quesito metafisico di Dio e del sovrannaturale, della collocazione e del destino dell’uomo nell’ambito del teismo» . VR

 

I contenuti della suddetta parabola sono profondamente vicini alle affermazioni di Gv 13, 34-35; quel che seguirà rappresenta solo una rielaborazione, un adattamento delle conclusioni dei due autori summenzionati, nulla più, un tributo si spera, all’interpretazione del messaggio evangelico testé sostenuto.

Luca ci riporta, unico tra i quattro autori evangelici, di una parabola narrata da Gesù ad un Dottore della Legge che aveva domandato: «Cosa debbo fare per avere in sorte la vita eterna?» (Lc 10, 25)

 

Gesù a tale domanda «… disse: “Che cosa sta scritto nella Legge? Che vi leggi?” “Quegli rispose dicendo: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso”. Ed egli a lui: “Hai risposto bene; fai questo e vivrai.” E quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “Ma chi è il mio prossimo?”» (Lc 10, 26-29).

 

E Gesù a questo punto inizia a narrare la parabola del Samaritano, conducendo il suo interlocutore ad una risposta chiara, circostanziata… su cui però l’esegesi cattolica ha preso un’altra grave cantonata.

 

 

Un uomo viene assalito e depredato da dei briganti in una località isolata e lasciato mezzo morto lungo la strada. Per caso, si susseguono lungo tale sentiero tre persone: un sacerdote, un levita ed infine un Samaritano.

 

Mentre i primi due ignorarono il malcapitato «passando oltre», il Samaritano, «impietosito» lo soccorse, gli prestò le prime cure, lo portò in un albergo, dove si prese ulteriormente cura di lui sino al giorno successivo quando, dovendo proseguire il suo viaggio, lo affidò all’albergatore.

Gesù chiede quindi al suo interlocutore di indicare chi, tra i tre, il sacerdote, il levita ed il Samaritano, possa essere stato «il prossimo di colui che è incappato nei ladroni» (Lc 10, 37). «Quello rispose: “Colui che gli ha usato misericordia”. E Gesù gli disse: “Va, e comportati anche tu a quel modo.”» (Lc 10, 37)

La «morale» tratta dall’esegesi ortodossa di tale parabola è che «il prossimo è ogni uomo, senza distinzione di nazionalità, credo, razza e sesso che potremmo trovare sul nostro cammino, alla stessa stregua del malcapitato bastonato dai ladroni che il Samaritano soccorse». Qualsiasi uomo bisognoso di cure, di misericordia, di aiuto è il nostro prossimo: poveri, malati, indigenti, ogni essere umano sofferente, vicino e lontano, ciascuno di questi è il nostro prossimo da amare come noi stessi.2

L’invito è quindi quello di prendersi in sorte le sventure e le esigenze del nostro prossimo, di chi soffre, di farsi «prossimi» a coloro che soffrono, amarli coinvolgendoci totalmente in ciò, reprimendo il nostro egoismo, sollevandoci dalla nostra indifferenza alla stessa stregua del Samaritano che si prese cura del suo prossimo, dello sventurato malmenato dai briganti. Così si amerebbe il proprio prossimo.

Il «vai e fa lo stesso» dovrebbe spronare ad agire come il Samaritano, che sembra riconoscere nel poveretto il prossimo da amare. Uno slancio, secondo l’esegesi classica, da spingere anche oltre tale fine, addirittura all’espressione dell’amare il proprio nemico (vedi Mt 5, 44) poiché sostiene che lo sventurato attaccato dai banditi dovesse essere – implicitamente, dato che non c’è scritto – un Giudeo, popolazione in contrasto socio culturale, etnico, di culto con i Samaritani.3

Questi fini chiaramente umanitari sembrerebbero corroborati anche da altri passi evangelici: Mt 25, 34-40; Mc 8, 34; Lc 15, 25-27; Gv 15, 12-13. Cosa poter porre in alternativa a queste indicazioni che non sia un tentativo di «volersi giustificare», alla stessa stregua del Dottore della Legge?

Nulla, se non quello che Gesù afferma in tale parabola: l’esatto contrario.4

Sia chiaro: non è che Gesù affermasse indifferenza o noncuranza, egoismo o quant’altro. Anzi. Ma in merito alla definizione di «prossimo» Gesù, come vedremo, in questa parabola ha affermato l’esatto contrario di quel che è stato inteso finora.

Dunque, la conclusione ortodossa è che il prossimo sarebbe qualsiasi uomo; nella fattispecie che il «nostro prossimo» sarebbe, sulla base di questa parabola, «ogni uomo bisognoso in cui potremmo imbatterci nella nostra vita», come il malcapitato che il Samaritano incontrò quel giorno sul suo cammino.

Quest’identificazione, teoricamente così immediata, pone in realtà due complicazioni. La prima è eminentemente di carattere pratico. Quanti sventurati possiamo riconoscere sul nostro cammino! I mass media ci versano quotidianamente nel piatto l’indigenza di intere popolazioni, il dolore, la fame e le sofferenze di innocenti esseri umani, ghermiti da carestie e siccità, costretti dalla violenza economica e militare a soccombere miseramente oltre le impalpabili quanto concrete dighe socio economiche e militari che le società industriali e post industriali più potenti hanno edificato ai loro confini, a garanzia di quell’abbondanza, quell’opulenza che caratterizza il loro status economico. Quante sofferenze poi in istituti, ospedali, dove una parte dell’umanità giace tra il lezzo, la sofferenza, l’indigenza, l’isolamento, saprebbero attirare il nostro interesse, il nostro sguardo, sempre distolto da ciò? Come ignorare, in tali frangenti, questo «comandamento» evangelico su cui poggia il fondamento stesso della «… legge ed i profeti…»? (Mt 22)5

La situazione in pratica pone l’individuo dinnanzi a due alternative, in funzione alla sua sensibilità, alla sua fede ed alla sua disponibilità: due estremi di un continuum ad un polo del quale c’è un egoistico anteporre se stessi agli altri, all’altro anteporre le altrui esigenze, in un’opera di servizio e dedizione per il prossimo, alle proprie esigenze, a se stessi. È naturale come, cogliendo in ciascun uomo il prossimo da amare come se stessi risulterebbe inevitabile rivolgere ogni propria stilla di vita all’amore per l’altro – notare i possibili legami con le simbiosi masochistiche precedentemente esposti.

E l’amore per «se stessi»? Nell’ottica classica quest’affermazione verrebbe immediatamente presa per deplorevole manifestazione «egoistica», non consona allo spirito di sacrificio che permea virtuosamente l’ortodossa etica cristiana. Prima considerazione: Gesù non parla affatto di «sacrificio». Egli «non» vuole «… sacrificio ma misericordia.» (Mt 9, 13)

Non che ci sproni all’egoismo, questo no: ma non tralascia la dignità, i diritti di ciascuno. Ora possiamo concludere che Gesù ha come obiettivo non un uomo represso, che ha alienato ogni suo diritto, ogni sua dignità, ma un «Uomo», una «Donna», che vivano, nella loro dignità, «amando», esprimendo misericordia. Egli ci invita anzi a fare agli altri «… tutto quello che volete che gli uomini facciano a voi… questa è la legge ed i profeti» (Mt 7, 12). Negli intenti di Gesù in definitiva traspare un rispetto delle esigenze dell’individuo, di ogni «Uomo e Donna», che nell’ortodossa interpretazione viene ad essere meno: si perde in quest’ultima quell’armonia, quella spontaneità che per contro pervade tutta la filosofia religiosa dell’autentico cristianesimo, della «lieta novella» evangelica.

La seconda complicazione è la seguente: se l’interpretazione data dall’esegesi classica fosse giusta, si dovrebbe concludere – anche qui – che Gesù abbia narrato:

1) una parabola… assolutamente inutile; oppure…

2) Una parabola clamorosamente sbagliata.

Cominciamo per ordine. Una parabola… assolutamente inutile?

Sembra di sì. Non si vedrebbe infatti il senso di una così particolare e contorta narrazione. La stringata affermazione: «Ogni uomo è il tuo prossimo. Punto.» avrebbe dato infatti al Dottore della Legge, e di riflesso a tutti noi, la risposta più chiara, inequivocabile, esplicita e perfetta possibile. Questa semplice risposta avrebbe infatti:

•  esaurito tale richiesta;

•  allargato, senza equivoci e mezzi termini, senza appigli per qualsivoglia giustificazione, il concetto di «prossimo» al di là di ogni credo, nazionalità, razza, aspetto, collocazione sociale, superando le restrizioni dell’accezione giudaica di prossimo;

•  ed… io non potrei a scrivere alcunché.

Ma evidentemente non è così. Questo benedetto Messia non ha mai in bocca quel che occorrerebbe ai sostenitori del paradigma teoetotomistico! È proprio insolente…

Passiamo alla seconda opzione: una parabola clamorosamente sbagliata? Decisamente no. Sembra più probabile che ad essere sbagliata sia stata l’esegesi ortodossa… Ovvero: nella parabola si afferma tutt’altra cosa.

Dunque le cose sono da intendere in un altro modo. Innanzi tutto: «se» Gesù confeziona a nostro uso e consumo questa complessa rappresentazione, questa scenografia, «allora» il motivo è che evidentemente la risposta non è così «immediata» come si vorrebbe far credere. Il prossimo cioè non sarebbe «ogni Uomo». Chi sarebbe questo benedetto prossimo allora? Semplice: è bello scritto. Nel brano si afferma precisamente chi è: «può essere ogni Uomo».

Allora: la dottrina cattolica afferma che il prossimo sarebbe colui che fu assalito dai banditi, figura da assimilare dunque a chi, sofferente, avrebbe bisogno di aiuto.6 Ma quest’uguaglianza è «palesemente infondata»: per convincersene basta leggere «con i propri occhi». Basta prendere il Vangelo di Luca, aprire al versetti 10, 36-37, qualora si dubiti di quanto riportato qui, per convincersi da soli se si sta dicendo qualcosa di infondato. Semmai, controllare che la propria copia abbia l’imprimatur, poiché quella da cui sono stati trascritti questi brani ne era dotata! Dunque, provare per credere…

Incredibile, ma vero! La domanda di Gesù è infatti estremamente circostanziata in merito e ben diversamente orientata. Egli infatti chiede: «Chi dei tre (Sacerdote, Levita e Samaritano n.d.a.) è stato il prossimo di colui che è incappato nei ladroni?» (Lc 10, 36). Gesù propone esplicitamente al Dottore della Legge tre figure in cui individuare il «prossimo da amare come se stessi» e questi fa una scelta che è implicitamente avallata da Gesù: il Samaritano, – «Colui che gli ha usato misericordia» (Lc 10, 37). A questo punto la soluzione è evidente, ovvia, scontata, inevitabile: «il prossimo da amare come se stessi è chi ci ha usato misericordia».

Non penso sia necessario mostrare la struttura logico semantica dei brani con gli operatori logici… sarebbe eccessivo ed umiliante!

È decisamente incredibile come si possa aver equivocato su ciò! Gesù dà un’immagine inequivocabile, chiara, a tutto tondo del prossimo. Indica infatti l’oggetto, «il prossimo» e il soggetto dell’«amore verso il prossimo». L’uomo sofferente ai bordi della strada, malmenato dai ladroni, è il «soggetto» dell’amore per il prossimo e il Samaritano l’«oggetto» dell’amore per il prossimo, nonché espressione della misericordia auspicata da Gesù. L’invito ad amare il prossimo è infatti rivolto a chi nella vita si viene per qualche modo a trovare in una situazione simile a quella del disgraziato assalito dai ladroni.

E questa affermazione è perfettamente ovvia. L’uomo assalito dai briganti addirittura è scartato a priori dalle figure, dagli attori proposti da Gesù al Dottore della Legge per riconoscervi il prossimo, e Gesù, avallando tacitamente la risposta dello stesso, implicitamente afferma che il Samaritano è la giusta figura di prossimo presentata nella parabola.

Ipotizziamo di aver potuto assistere nella realtà, nella persona del Dottore della Legge, assieme a Gesù, il fatto narrato dalla parabola, magari da un’altura vicina. Ecco il viandante (V), poi arrivano i ladroni (Ladr.), la colluttazione e il malcapitato rimane ferito a terra. Poi passano tre altri viandanti: il sacerdote (Sa), il levita (Le) ed il Samaritano (Sm). Dei tre uomini transitati l’ultimo soccorre il malcapitato. Chiaro, limpido, semplice. Gesù non chiede: «Chi dei tre viandanti ha riconosciuto nell’uomo steso a terra esanime il “prossimo” da amare, da soccorrere?» come vorrebbe intendere l’esegesi ortodossa, perché chiede: «Chi dei tre è stato il prossimo di colui che era a terra esanime, bisognoso di soccorsi?».

È di una semplicità disarmante. Addirittura quest’ultimo è categoricamente escluso dal novero di figure tra cui indicare chi è stato «… il prossimo di colui che era a terra esanime, bisognoso di soccorsi». Delle quattro persone (V, Sa, Le, Sm) solo tre sono ammessi al confronto, (Sa, Le, Sm), in questo riconoscimento… con faretto abbacinante puntato sulle tre figure, poste l’una a fianco in una di quelle stanze con le righe graduate orizzontali ed il vetro mono trasparente, come da sterotipo cinematografico…

A questo punto ogni possibile dubbio è fugato. Il prossimo «è il Samaritano»: (Sm). Colui che ha usato misericordia. Se dunque si vuol dottrinalmente estrapolare il senso di tale parabola si deve concludere che «il prossimo è ogni Uomo che ci ha usato misericordia», che ci ha «rimesso in carreggiata».

La classica, fuorviante affermazione «ogni Uomo è nostro prossimo» – nella fattispecie se sofferente – deve essere dunque cambiata in «ogni Uomo, senza distinzione alcuna, può divenire nostro prossimo nella misura in cui ci usa misericordia».

Gesù solleva il Dottore della Legge dall’esigenza di cercare attivamente – per avere la vita eterna, si mediti su questo contenuto così «egoista» – il prossimo da amare ma gli dice implicitamente: «Non stare a preoccupati di trovare il tuo prossimo da amare; il prossimo non si “cerca” ma lo si “trova”, si presenterà lui, spontaneamente, imprevedibilmente, a te. Cerca solo di usare misericordia, nulla più.»7

E la frase finale «va e fa lo stesso» porta ad un’ulteriore sviluppo al tema dell’«Amore», direttamente in sintonia con i contenuti del precedente capitolo. Quest’ultimo invito vorrebbe dire, secondo l’interpretazione classica:

«Ama il prossimo tuo come il Samaritano fece con il ferito che incontrò sulla sua strada, con la stessa abnegazione: non ti stare a domandare chi è il tuo prossimo ma ama, donando te stesso, le tue rinunzie, la tua vita, a chi ha bisogno di te, senza guardare il suo status sociale, la sua nazionalità, il suo viso, posticipando il tuo egoismo, le tue esigenze alle sue necessità, ripudiando la tua chiusura nei confronti delle altrui esigenze».

E ciò vuol dire necessariamente posticipare se stessi alle esigenze esterne in una scala di concessioni e privazioni che non conosce limiti, fino ad alienare se stessi; conclusioni che sono alla base dell’etica teoetotomistica cattolica della nobile rinuncia a se stessi – ma che ha un suo subdolo parallelo socio economico nell’accettazione dello status quo della società, delle sue regole ed esigenze malgrado il calpestio della dignità dell’individuo, della libertà dello stesso: un parallelo inquietante.

Precisare invece i contenuti, i contorni delle figure evocate da Gesù conduce ad diverse conclusioni. Ci sono sfaccettature importanti nella parabola, che hanno un loro senso profondo.

Si osservi l’atteggiamento del Samaritano: cura il ferito, lo conduce all’albergo caricandolo sulla sua cavalcatura, si accolla addirittura il surplus della sua degenza. Lo assiste sì personalmente, ma al mattino seguente compie un gesto molto significativo: torna ai suoi affari, alle sue attività, alle sue esigenze, momentaneamente accantonate, per soccorrere quel disgraziato. Eppure il ferito aveva ancora bisogno di cure, tanto che il samaritano dovette lasciare dei denari all’oste con la preoccupazione che forse non sarebbero neanche bastati alle sue cure.

Il Samaritano non molla tutto e tutti: un’indicazione fondamentale per la risoluzione dei nostri interrogativi. Gesù propone in questo brano un esempio estremamente armonico, equilibrato: propone di usare misericordia all’altro ma non di rinnegarsi, in un reciproco rispetto: la giornata persa dal Samaritano ha certamente un rilievo relativo per lo stesso, per le sue eventuali incombenze della giornata, ma per l’altro quel gesto, quei minuti, sono fondamentali, decisivi: rappresentano la possibilità di restare o meno in vita.

Un gesto che sprizza umanità da ogni poro ma che, non negando una sorta di «distacco», in realtà conduce a percepire stima, dignità reciproca, rispetto nell’atteggiamento del Samaritano: egli non sacrifica completamente lo scopo del suo viaggio, ma dona all’altro proporzionatamente ai suoi mezzi, alle sue esigenze.

Ecco l’essenza: ciascuno di noi è degno di rispetto, di amore, «come ciascun altro»; si afferma nettamente in questa parabola, un senso di profonda uguaglianza: perché allora mortificarci, disprezzare queste nostre esigenze? Perché togliere amore e dignità ad un’esistenza, qualunque essa sia?

Ciò non è necessariamente in contrasto con la dignità dell’altro, con una concreta manifestazione di misericordia. Rispettiamo sì costui, costoro, ma anche noi stessi. Anzi, dalle nostre esigenze, dalle risposte che sapremo dare a nostri quesiti, potremo attingere ciò che necessita per capire ed «amare» l’altro, noi stessi: dando alle nostre esigenze lo stesso peso delle altrui esigenze; ecco il nostro «essere fratelli». Ecco, per inciso, ciò che può veramente opporsi alle ingiustizie che troviamo affermate nel mondo, alla povertà ed un’indifferenza «quotidianamente versata nel piatto» che surclassa anche gli sterili proclami di gerarchie delle varie confessioni di fede, in ultima analisi sempre decisamente compiacenti con quei poteri e quei sistemi: l’affermazione di un’etica veramente fraterna, pervasiva, sistematica, «zelante» anche e soprattutto nel non chiudere alcun occhio con tiranni e sfruttatori, e non l’azione di qualche manipolo di anche convinti missionari e volontari, un pugno di sacrificandi che nulla possono, pur con tutta la loro dedizione ed abnegazione, davanti all’infinita valanga di competitori e sfruttatori che riducono alla fame intere popolazioni per meri fini economici ed imperialistici delle società più progredite.

Gesù ci chiede dunque di «amare» chi ci ha usato misericordia in modo gratuito, spontaneo, immediato. Allo stesso modo. Ed «amare» vuol dire affermare l’altro, trasmettere libertà, dignità, esprimere in sé questi slanci tesi alla vita, spontanei ed immediati, come la misericordia espressa dal Samaritano.

Forse lo stesso Samaritano e l’uomo da lui soccorso non si sarebbero più incontrati, forse quest’ultimo non avrebbe potuto superare, mettiamo per qualche ricaduta, le percosse subite, o neppure aver più la possibilità di guardare in faccia e ricordare il viso del suo salvatore: ma proprio a quel gesto così anonimo e spontaneo, gratuito, deve forse la sua eventuale vita.

Ancor più, «amare il prossimo» non vuol dire esprimere allo stesso ovvia riconoscenza, quanto «ripetere», «amplificare» il senso e la portata di quel gesto, di quell’intento, di quell’espressione spontanea di misericordia, di «amore» per la vita con la stessa spontaneità con cui si è ricevuta, in una continua catena di misericordia, in una continua, spontanea ed inarrestabile espressione dell’ «amare» attivo, dinamico, prorompente, libero, pieno, che l’ «Uomo» sa sperimentare e sa donare.

Ma questo… l’uomo non lo sa.

 

Note:

 

1 Françoise Dolto, Gerard Sévérin, Psicoanalisi del Vangelo, Rizzoli, 1978.

2 La sacra Bibbia. Vecchio testamento – Vol. 1, Sel. Dal Reader’s Digest. Unione tipografica Ed. Torinese Garzanti, Torino, 1948. note di pag. 36.

3 Luca, Ed. Paoline, 1977, pag. 241.

4 Françoise Dolto, Gerard Sévérin, Op. Cit., [1978], pag. 140.

5 Françoise Dolto, Gerard Sévérin, Op. Cit., [1978].

6 Hans Kung, Op. Cit., [1976], pag. 282. 

7 Françoise Dolto, Gerard Sévérin, Op. Cit., [1978], pag. 151-157.

PULCHERRIMA – Pagine musicali

Msusica - La divina ispirazione

La divina ispirazione

Matisse(1869-1954): “La musica e il colore non hanno nulla in comune, ma seguono vie parallele”.

Musica - I colori della musica

Mons. ANDREA GHETTI – Profumo di santità – Angelo Nocet

ALLA MEMORIA DEL PRETE CHE MI HA CAMBIATO LA VITA

 

mons. Ghetti

Mons. Andrea Ghetti – Baden

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

un ritratto scout di Baden

Mamma carissima,

 

sento il bisogno di fermare un po’ sulla carta il tuo ricordo: mi sembra di parlare con Te. Ti ricordi quando ti chiamavamo fiore e dicevi: “Sì fiore appassito”. Ho pensato a Te nell’udire la passione di Gesù. La sera dicevi a tua figlia: “Carla, sta vicino, ho paura!”. Anche Gesù ha avuto paura della morte.
Oh! le tue notti: quanto hai pensato a noi: a uno a uno: ci hai seguito col cuore e con tutta l’anima: “Che sarà di te, povero bambino mio che sarà di te?”. Mamma come vorrei poterti dire che sono contento.
L’ultima notte. Il silenzio della casa: la tua casa: dormivamo. “…così non avete potuto vegliare un’ora con me?” E tu ti sei andata preparando a morire: quella notte hai sentito la fine: i dolori non ti costernavano più: hai sentito l’ora della tua morte. Forse hai avuto paura: e noi dormivamo. Poi la tua messa: il tuo pontificale. Che Messa santa: tu offerta, tu vittima:l’accettazione della volontà divina, lo strumento del Sacrificio.
Quale vuoto! Dove non c’è più la mamma come è vuota la casa. Mamma, più conosco a che cosa consiste la santità, più io vedo che tu sei santa: il dovere: compiuto a fondo senza mia lamentarsi, senza mai scoraggiarsi. Il dovere delle piccole azioni quotidiane, dei piccoli sacrifici.
Piccole mani tagliate dal freddo, rugose: e a scuola tenevi i guanti perchè ti vergognavi farle vedere.
90 lire messe ogni mese alla Cassa di risparmio nel libretto di Vittorio: 90 lire risparmiate per la vocazione e a costo di quali sacrifici.
Alle tue scolare, mi han detto, io insegno di non far peccati, perchè Dio ci vede: tutto alla presenza di Dio.
Vestiti raccolti, piena miseria, aggiustati: Quale povertà: anche morta ti hanno messo un vestito regalato. I funerali fatti con denaro a prestito. Perchè questa tua luce deve restare nel buio?
Mamma insegnami il cammino
Mamma guardami
Mamma confortami
Mamma aspettami.
Vorrei scrivere “chiamami…”, ma ho paura che sia troppo dolore per gli altri, e forse troppo presto per me.
Questi esercizi mi hanno indicato una meta: la santità del dovere. E basta. Tu corrobora il mio carattere.
Mi benedica il Signore, come ci ha amato. Amore: Signore te lo voglio restituire nei poveri, nei bambini, nei peccatori.

Addio mamma prega per me.
Fonte: RS SERVIRE; 54,1-2 (S) ultima di copertina
 
 
Così aveva scritto un giorno dell’ ABBÈ PIERRE

 

Sotto i ponti della Senna, negli ambulacri dei metrò, tra i ruderi di case abbandonate, ogni notte, dormono migliaia di persone relitti sociali, “ribelli” ad ogni assistenza ufficiale. Il freddo dello scorso inverno ha messo a repentaglio la loro astuzia. Un prete ha lanciato l’allarme tra le brume della metropoli è passato un affetto di carità: Parigi si è mossa e commossa. Il suo gesto non è stato sporadico: questo prete ha proseguito ed ha vinto una nuova più dura battaglia ha rovesciato le lentezze burocratiche, ha scosso le incertezze governative, per merito suo sorgono villaggi per chi crea una nuova famiglia, per chi, nel XX secolo vive in tuguri indegni della dignità di uomo. Questo prete – partigiano – perseguitato – organizzatore, ex deputato al Parlamento – è conosciuto col nome di abbé Pierre. Si chiama Henri Grouès: è stato “Routier” degli Scouts de France. Dallo Scoutismo ha ricevuto il senso della concretezza e del Servizio: nello Scoutismo è nata la sua vocazione.
 Ad Assisi durante il pellegrinaggio della “Route” francese, desiderò di farsi Cappuccino. Ragioni di salute lo obbligano più tardi a lasciare l’Ordine: gli è rimasta una barba ispida. È un rivoluzionario della Carità che trascina e converte in nome di Cristo. È un sacerdote che attua il messaggio evangelico con sconcertante coerenza. Nelle tristi ore di tanti scandali morali, di “rivelazioni” di un mondo di miserie di egoismi, di marciume, nel quale sono compromesse categorie sociali e politiche, noi guardiamo oltre e sentiamo l’orgoglio di questo fratello Rover che testimonia, in umiltà ed amore, la feconda ricchezza di una Legge e di una Promessa.
Baden

Nasce l’11 marzo del 1912 ed è ordinato sacerdote, a Milano, nel 1939.
Intensissima la sua vita: dall’attività di docente di filosofia presso il Collegio Arcivescovile S.Carlo di Milano, alla sua opera di assistente spirituale della FUCI, al suo lavoro di Ispettore delle Scuole di Religione presso la segreteria dell’ufficio catechistico dove risultava aggiunto per la sezione Apologetica, al suo lavoro di giornalista per l’Italia prima ed in seguito per Avvenire.
Fu con il card. Montini tra i fondatori de “Il Segno”, che diresse per vent’anni e uno degli animatori più entusiasti di ogni iniziativa diocesana prima tra tutte la Missione di Milano.
Assistente regionale dell’ASCI contribuì a ricostituire, durante il periodo fascista, le “Aquile Randagie”, il movimento scout clandestino.  Fa il suo ingresso solenne come parroco al Suffragio il 4 ottobre 1959 e vi rimane fino al 5 agosto 1980 giorno della sua tragica morte a Tours.

 

 

mons. Andrea Ghetti

mons. Ghetti

FACCIAMO MEMORIA
La frenetica attività edilizia di don Portaluppi ha praticamente lasciato ben poco da fare ai suoi successori, ma se sono poche le opere materiali e artistiche che possiamo ascrivere alla volontà di don Ghetti, perchè don Angelo Portaluppi aveva praticamente esaurito tutto il fattibile, non sono elencabili le iniziative attivate in parrocchia, soprattutto per i giovani e per chiunque avesse bisogno. Negli anni ’60 sono una trentina i gruppi attivi, a diverso titolo, nella comunità. Ognuno poteva trovare nelle molteplici associazioni la forma più adatta per prendere il proprio posto nella chiesa: per “sporcarsi le mani”.
Sarà ricordato soprattutto per la volontà di SERVIRE, secondo la legge scout, fino in fondo: “La vita vale come dono, come servizio, come amore!” è stato trovato scritto tra i suoi appunti e per la sua attenzione all’uomo nella molteplice sfaccettatura dei suoi problemi e della sue situazioni.
Se per don Portaluppi l’alfa e l’omega della permanenza tra noi sono costituiti dall’effige del Sacro Cuore, per don Andrea la sua alfa ed il suo omega sono costituiti da una mensa per i lavoratori e dalla Mensa per il Cristo. Infatti nel 1960 , al suo arrivo, ristruttura il piano terreno della canonica, dando più spazio ai ragazzi dell’oratorio per giocare, e fa realizzare un bar-mensa per i molteplici lavoratori pendolari che operano in zona e grazie a questa istituzione, hanno un servizio utile e confortevole.
Nel dicembre del 1979 viene invece consacrata la nuova Mensa eucaristica realizzata secondo le indicazioni del Concilio Vaticano II.
Attivo, dinamico, mai domo ci piace ricordarlo come don Giorgio Basadonna nel saluto del 14 agosto del 1980: “… Qualcosa è cambiato dentro di noi. Ci siamo riforniti di coraggio e di entusiasmo, ci stringiamo la mano, ci guardiamo in volto e ciascuno riparte col suo zaino carico di speranza e di dolore sull’unica grande strada che conduce a Dio. Ciascuno sente che tu sei ancora presente,ci accompagni,ci sostieni e cammini con noi”.

(G.Basadonna … Sempre pronto! un profilo di don Andrea Ghetti)

 

 
“Avvenire” 5 agosto 2005

 

 

Don Ghetti, il Baden Powell italiano
Voce tonante, modi rudi, ma grande cuore, sempre di corsa e indaffarato, fu un prete
«capace di sognare e far sognare noi ragazzi», così lo ricordano in tanti. «Il cristiano non ha tempo libero, perché quello che ha lo mette a disposizione degli altri». Quasi urlava mentre organizzava le sue “missioni” di solidarietà : dal Polesine, all’invasione dei russi in Ungheria, dal Vajont all’alluvione nel Trentino, da Nomadelfia ai mutilatini di don Gnocchi, al rifugio in Stazione Centrale di fratel Ettore. «Noi dobbiamo uscire: questo è il tema della Chiesa adesso. Uscire sulle strade e andare nelle case». Lo disse a Concilio non iniziato.
Lo scoutismo lo aveva “conquistato” ancora quattordicen
Pochi preti, come Andrea Ghetti hanno saputo esercitare con grande passione e spiccato senso dell’umorismo, la libertà evangelica dei figli di Dio ed esprimere insieme una piena fedeltà alla Chiesa. Al momento della sua ordinazione, nel 1939, aveva scritto: «Ora e sempre sacerdote. I sogni si avverano. Incomincia la mia avventura… si resta nel tempo e si è aperti all’eterno». Di questa avventura «Baden» (così lo hanno conosciuto e amato generazioni di scout ) è stato testimone esemplare e coerente fino a quel 5 agosto di venticinque anni fa, quando la morte lo avrebbe colto nella valle della Loira durante una route dei suoi amati scout.

ne (era nato nel 1912). E il metodo educativo dell’associazione lo avrebbe segnato. «Mi ha impresso alcune caratteristiche che sono rimaste per tutta la vita: una ricerca della verità, anche se talvolta duramente pagata, capacità di iniziativa, il coraggio di ricominciare sempre dopo ogni sconfitta, la gioia del servizio», avrebbe ripetuto più volte. Una fedeltà allo scoutismo che don Ghetti non ha rinnegato anche quando espresse le sue riserve sulla fusione tra le due associazioni, maschile e femminile, da cui sarebbe nata l’attuale «Agesci».

Voce tonante, modi rudi, ma grande cuore, sempre di corsa e indaffarato, fu un prete
«capace di sognare e far sognare noi ragazzi», così lo ricordano in tanti. «Il cristiano non ha tempo libero, perché quello che ha lo mette a disposizione degli altri». Quasi urlava mentre organizzava le sue “missioni” di solidarietà : dal Polesine, all’invasione dei russi in Ungheria, dal Vajont all’alluvione nel Trentino, da Nomadelfia ai mutilatini di don Gnocchi, al rifugio in Stazione Centrale di fratel Ettore. «Noi dobbiamo uscire: questo è il tema della Chiesa adesso. Uscire sulle strade e andare nelle case». Lo disse a Concilio non iniziato.
Lo scoutismo lo aveva “conquistato” ancora quattordicen
Pochi preti, come Andrea Ghetti hanno saputo esercitare con grande passione e spiccato senso dell’umorismo, la libertà evangelica dei figli di Dio ed esprimere insieme una piena fedeltà alla Chiesa. Al momento della sua ordinazione, nel 1939, aveva scritto: «Ora e sempre sacerdote. I sogni si avverano. Incomincia la mia avventura… si resta nel tempo e si è aperti all’eterno». Di questa avventura «Baden» (così lo hanno conosciuto e amato generazioni di scout ) è stato testimone esemplare e coerente fino a quel 5 agosto di venticinque anni fa, quando la morte lo avrebbe colto nella valle della Loira durante una route dei suoi amati scout.

ne (era nato nel 1912). E il metodo educativo dell’associazione lo avrebbe segnato. «Mi ha impresso alcune caratteristiche che sono rimaste per tutta la vita: una ricerca della verità, anche se talvolta duramente pagata, capacità di iniziativa, il coraggio di ricominciare sempre dopo ogni sconfitta, la gioia del servizio», avrebbe ripetuto più volte. Una fedeltà allo scoutismo che don Ghetti non ha rinnegato anche quando espresse le sue riserve sulla fusione tra le due associazioni, maschile e femminile, da cui sarebbe nata l’attuale «Agesci».

 

Da scout, don Ghetti sarebbe stato protagonista delle «Aquile randagie», come si definì quel gruppo di scout che, dopo la soppressione dell’associazione decisa dal fascismo, continuò in clandestinità fino alla Liberazione a portare la divisa, a promuovere incontri e raduni, soprattutto in Val Codera, in un processo di libertà civile e politica, allora visto come un’avventura e una sfida al regime. E durante la Repubblica sociale italiana, sarà ancora don Ghetti, con altri sacerdoti e laici ( a cominciare da Carlo Bianchi presidente della Fuci ) a creare, con il sostegno del cardinale Schuster, un’organizzazione, l’ «O.S.C.A.R» (Opera Scoutistica Cattolica Ricercati), grazie alla quale numerosi ebrei e perseguitati trovarono assistenza e aiuto per riparare in Svizzera.
Dopo la laurea in filosofia, il giovane Andrea ascoltò una più alta chiamata: quella al
sacerdozio. Sempre impegnato tra i giovani, docente in collegi arcivescovili e poi di
religione al Parini, assistente della Fuci, nel 1946 sarebbe stato assorbito dal rilancio
dell’«Asci». Nel 1959 l’arcivescovo Montini gli affidò la popolosa parrocchia di Santa Maria del Suffragio. «Occorre un parroco che porti la Croce con sapienza e con carità, tutto imbevuto di Vangelo e di Grazia di Dio». Così scrisse l’arcivescovo. L’anno dopo sarebbe nato «Il Segno», il mensile cui il cardinale affida il compito di instaurare un dialogo continuo con la comunità ecclesiale. E Ghetti sarebbe stato fino alla morte il direttore e avrebbe invitato i cattolici ad uscire dal complesso di inferiorità che vedeva crescere nella comunità ecclesiale. «Dobbiamo tutti reagire – scriveva nell’ultimo editoriale – il nostro assenteismo permette ad altri di scrivere la storia. Bisogna che ognuno abbia una chiara presa di coscienza del patrimonio cristiano, capace di una consolante risposta ad ogni istanza umana».
Nel 1980 l’incontro con il suo Gesù. Aveva scritto:
 «Lasciatemi vivere la mia avventura. Non c’è tempo da perdere. Vi racconterò poi l’ultima, la più bella e la più meravigliosa. Quando Gesù colmerà la grande valle laggiù con la luce d’oro di un crepuscolo che qui chiamiamo morte ma che di là è la vera vita».
In che modo costruire un argine? Questo è il compito dello Scautismo ponendo posizioni proprie, chiare, decise, inequivocabili. Per creare dei tipi d’uomo che sappiano andare contro il comune ragionare o le diffuse viltà.
don Andrea Ghetti – Baden
 
 
BADEN
don Andrea Ghetti
11 Marzo 1912 – 5 Agosto 1980
 
Oggi non è facile trovare i testi scritti da Baden, e lo stesso libro nei quali sono stati raccolti molti suoi scritti sullo Scautismo e il Roverismo (“Al ritmo dei passi”, ed. Ancora Milano, 1983) è esaurito da anni… Il suo è uno Scautismo esigente, selettivo, che forse fa un po’ paura… Eppure, Baden dovrebbe essere riscoperto, riletto, in particolare da capi e rovers / scolte, perché a lui si può riferire chi vuole “tornare alle fonti”  per vivere e proporre uno Scautismo cattolico che sa e vuole andare “contro corrente”, senza inseguire una facile popolarità.
Riportiamo qui di seguito una rievocazione scritta in occasione della morte, ed un articolo pubblicato sul “Corriere della Sera” qualche anno fa, in occasione della biografia pubblicata nel 1994 (“Sempre pronto!”, ed Ancora, Milano, libro al quale si rimanda per approfondimenti sulla figura e la storia di questo Sacerdote scout che ha “lasciato una traccia” importante nello Scautismo cattolico).
Forse vedendo questa fotografia non capisci molto: un prete non più giovane, un “patito” dello scautismo, un assistente come tanti altri…….NO  Baden – così lo chiamavano tutti come a definirlo un “quasi Baden-Powell” – non è soltanto un vecchio assistente scout che accompagnando i suoi Rovers trova la morte e raggiunge la casa del Padre a tours il 5 agosto 1980: Baden è qualcosa di più, molto di più.
E’ un po’ il padre dello Scautismo lombardo, e del Roverismo cattolico italiano del dopo guerra. Da ragazzo fu esploratore fino a quando il fascismo fece sciogliere l’ASCI, ma non abbandonò il suo fazzoletto e la sua uniforme. Di nascosto, assieme ad altri coraggiosi, continuò per quasi vent’anni la sua vita di scout: erano le “Aquile Randagie” che nei luoghi più remoti della Lombardia tenevano campi e uscite e persino parteciparono ad un Jamboree.
Lo Scautismo gli fece nascere la vocazione sacerdotale, si fece prete dopo essersi laureato in filosofia e nel momento più terribile della storia d’Italia, quando – dopo l’8 Settembre 1943 – “servire “ la Patria voleva dire resistere contro un fascismo impazzito e un razzismo crudele, Baden faceva il suo dovere con l’OSCAR (Organizzazione Scout Collocamento Assistenza Ricecati),  curando soprattutto il salvataggio degli ebrei. Fu in quei giorni che nacquero le canzoni che anche tu canti, forse, oggi: “La luna sulle vette”, “Col cappellone e un giglio dor…” e il più famoso “A io vorrei tornare”.
Poi a guerra finita lo Scautismo rinasce e Baden, a Milano e in Lombardia, lavora a ricostruire gruppi scout radunando i “vecchi” e preparando i giovani. Nasce il Campo Scuola Assistenti: il primo è del 1946 – e chi scrive vi partecipa per consolidare un’esperienza iniziata qualche anno prima – e la base di Colico diventa un po’ il santuario di Baden e dei preti che vi attingono quell’entusiasmo e quella passione per lo Scautismo di cui era ricco fino a straripare.
Ma dire meglio chi era Baden è difficile. Chi lo ha conosciuto, chi ha vissuto con lui qualche pezzo di vita scout o di vita parrocchiale – da ventun’anni era parroco a Milano alla parrocchia del Suffragio – si porta dentro una ricchezza di ricordi: sono episodi caratteristici di un uomo pieno di avventura, di buon umore, di fantasia, sono battute scherzose e sferzanti ma affettuose, sono frasi brevi dette nei colloqui personali capaci di lasciare un segno e di sorreggere nei passi difficili, sono la sua lealtà coraggiosa lontana dalle mezze misure e dai compromessi.
Lo Scautismo di Baden è il coraggio di essere “ragazzi coerenti” che vogliono vivere la Legge e la Promessa, che sanno essere “amici di tutti” senza però confondersi e camuffarsi copiando i gusti, il gergo, le abitudini più in voga: Baden ha lottato perché gli esploratori non perdessero la loro caratteristica di vita rude che forma il carattere e apre alle grandi cose di vita gioiosa impegnata a “lasciare il mondo un po’ migliore di come lo hanno trovato”.
Lo Scautismo di Baden era la gioia di vivere la fede cristiana come   un incontro pieno di amore e di coraggio con Gesù, il Capo, l’amico, il fratello e in lui trovare ogni giorno la forza per camminare e fare del bene: uno Scautismo che fosse la realizzazione serena e semplice del messaggio evangelico.
Per questo nel cuore di chi lo ha conosciuto Baden è vivo e forte e continua a camminare nella nostra vita scout.
 A proposito: tu che stai leggendo questo ricordo, hai anche tu un “Baden”, un prete, che ti sappia consigliare e guidare?  (Liberamente tratto da una rievocazione scritta da Don Giorgio Basadonna)  Dal “Corriere della Sera” del 13/1/1995,  di Antonio Troiano 
 Lo scout che si ribellò al Duce 
 
I libri non bastano. Studiare, “educarsi” attraverso le letture, le ricerche gli approfondimenti sono momenti importanti. Conoscere è arricchirsi. Ma non basta, spesso   il “sapere” fine a se stesso genera arroganza e presunzione. La scuola italiana da tempo attraversa una crisi profonda, al cui centro si colloca il problema dell’”educazione ai valori”. Sempre con più frequenza la scuola sembra dimenticare che tra i suoi compiti c’è quello di aiutare i giovani a crescere, diventare persone responsabili. Troppo spesso questo è affidato alla semplice buona volontà degli insegnanti.
Al caso. [...] L’Editrice Ancora di Milano ha pubblicato un volume (“Sempre pronto”, pag. 173) che ricorda la figura di un uomo che ha trascorso la sua esistenza educando migliaia di giovani. E il cui insegnamento, senza retorica, resiste.
Si tratta di monsignor Andrea Ghetti (1912-1980), “un prete milanese – si legge nella presentazione dell’autore, Giorgio Basadonna – entrato in seminario dopo la laurea, scout fin dall’adolescenza, spirito ribelle, impegnato nella clandestinità per non accettare l’imposizione fascista, un prete attivo nella resistenza antinazista, insegnante nelle scuole statali e poi parroco, giornalista, ma sempre attivo nello scoutismo”. 
Sempre Pronto non è un volume che nasce in maniera specifica per “i banchi di scuola”, ma è un testo, ci sembra, che sui banchi di scuola, nelle biblioteche di classe e di istituto potrebbe trovare un suo legittimo spazio. 
Ai giovani, monsignor Ghetti, rimase vicino durante tutta la sua esistenza. Come parroco, come insegnante nei licei, ma soprattutto grazie al suo impegno con gli scout (Baden era il suo nome da scout). Impegno che nasceva da una semplice convinzione: con i giovani si costruiscono le fondamenta per una società più giusta. 
Durante la dittatura fascista il suo impegno fu ancora maggiore. Il Duce soppresse lo scoutismo in Italia, ma in molti si organizzarono per continuare le loro attività. “Baden non può stare indifferente”, scrive Basadonna, e con amici “dà forma all’Oscar (Organizzazione scout collocamento assistenza ricercati), che si renderà sempre più utile per tutte le necessità di difesa a chi si ribella al nuovo fascismo [dopo il settembre 1943]: la sua azione si allarga verso chiunque ha bisogno di protezione per sfuggire alla crudeltà nazista. Ebrei, prigionieri inglesi e greci fuggiti, giovani renitenti alla leva obbligatoria, ricercati politici di qualunque colore”. 
 
Ma l’impegno sociale può essere pericoloso, così nel giugno 1944, “è ricercato dalla polizia fascista con l’ordine di sparare a vista e la Curia gli consiglia di espatriare perché il gioco è diventato troppo rischioso”. 
Monsignor Ghetti non si fa intimidire. “Baden insieme a padre Davide Maria Turoldo, Giorgio Kautchiswilli e un gruppo di giovani, nel maggio 1945 parte per la Germania per conto della POA (Pontificia Opera di Assistenza) e collabora al ritorno dei prigionieri giungendo fra i primi al campo di Dachau”.
Insomma un’esistenza colma di impegno. Ricca anche di affettuose amicizie: dal cardinal Martini (autore di una bella nota introduttiva al testo) al “suo” carissimo papa, Paolo VI. 
 Antonio Troiano 
Io non sono mai stato alla tua altezza. Ma ancora porto impresse nelle mie pupille i tuoi occhi di padre e maestro.

DON ANDREA GHETTI:

UN’ICONA DELLA PENTECOSTE

riga

Non ho conosciuto personalmente mons. Andrea Ghetti, parroco in S. Maria del Suffragio dal 1959 al 1980, ma avendo ascoltato tante persone, avendo letto qualcosa di lui, ma soprattutto avendo toccato con mano la sua presenza, tuttora potente e significativa nel tessuto della mia comunità parrocchiale – in particolare nel mondo dei giovani (Scout) e della caritativa – me lo immagino così: come un’icona della Pentecoste.
 
Mons. Tonino Bello ha scritto:
 
Troppe volte dimentichiamo che i simboli della Pentecoste non sono il divano, la sedia, le pantofole, la camomilla, il nostro chiuderci dentro la nostra casa, la tv accesa, ma sono il vento, il fuoco – simboli forti che indicano passione, vita, fantasia, creazione, movimento. Lo Spirito Santo ci scaraventa nel mondo. Ci vuole creature di azione, di movimento.
 
Don Andrea me lo immagino proprio così: creatura di azione scaraventata nel mondo, «con il fuoco nel cuore e ai piedi le ali».
Mi conduce a questa immagine l’omelia tenuta al suo funerale da Sua Ecc.za mons. Libero Tresoldi:
 
Un prete che non poteva essere rinchiuso in un ambito pur così bello così grande e così ricco come quello di una comunità parrocchiale. Eccolo allora pronto quando l’esigenza del servizio lo chiama là dove si manifestano le situazioni più imprevedibili e più difficili.
 
«La vita vale come dono, come servizio, come amore» è stato il suo motto e lo Scoutismo ha esaltato in maniera formidabile le sue doti, i suoi sogni. Così si descrive:
 
Lo Scoutismo a me personalmente ha dato molto. Mi ha impresso alcune caratteristiche che sono rimaste per tutta la mia vita di prete: una ricerca della verità anche se talvolta duramente pagata, capacità di iniziativa, il coraggio di ricominciare sempre da capo dopo ogni sconfitta, la gioia del servizio.
 
E nella gioia del servizio di tutti e dei poveri in particolare ha trovato Dio e ha fatto trovare Dio a molti. Come mirabilmente ci comunica questo racconto:
 
Un antico asceta orientale, noto in tutto il mondo per la sua santità, viveva circondato da alcuni discepoli che ammaestrava con i suoi insegnamenti.
Dopo tre anni di vita comune, tre di quei discepoli vollero cominciare la loro missione nel mondo.
Dieci anni più tardi tornarono a far visita al maestro. Ognuno gli raccontò la propria esperienza:
«Io – incominciò il primo con una punta d’orgoglio – ho scritto tanti libri e venduto milioni di copie».
«Tu hai riempito il mondo di carta», disse il maestro.
«Io – prese a dire il secondo con fierezza – ho predicato in migliaia di posti».
«Tu hai riempito il mondo di parole», disse il maestro.
Si fece avanti il terzo: «Io ti ho portato questo cuscino perché tu possa appoggiare senza dolore le tue gambe malate», disse.
«Tu – sorrise il maestro – tu hai trovato Dio».
 
E in un uomo della Pentecoste non poteva mancare il colore della festa e dell’amicizia: don Andrea è stato un amico splendido e prezioso. Fanno testo due testimonianze folgoranti.
La prima è di don Giorgio Basadonna che così lo salutava il 14 agosto del 1980:

Siamo qui a farti festa, Baden.
Ogni volta
che ci si incontrava con te,
era sempre una festa,
perché tu portavi
la tua nota di gioia,
di entusiasmo, di fiducia,
perché tu andavi sempre
fino in fondo
e davi coraggio e ottimismo.

La seconda, ancora più suggestiva e intrigante, è quella del suo Arcivescovo Giovan Battista Montini che così gli scriveva nel gennaio del 1962:
 
La tua solidarietà, la tua amicizia, il tuo impegno pastorale mi consolano assai e sorreggono la mia debolezza a lavorare, la mia tristezza a sperare.
 
Splendida l’umanità dolorante di Montini, invidiabile questa amicizia!
 
Nel secondo libro dei Re si racconta il rapimento di Elia in cielo:
 
Elia disse a Eliseo: «Domanda che cosa io debba fare per te prima che sia rapito lontano da te».
Eliseo rispose: «Due terzi del tuo spirito diventino miei».
Quegli soggiunse: «Sei stato esigente nel domandare. Tuttavia se mi vedrai quando sarò rapito lontano da te, ciò ti sarà concesso; in caso contrario non ti sarà concesso». (2 Re 2,9-10)
 
Io non ho visto «rapire» don Andrea ma oso chiedere al Signore: che almeno un terzo del suo spirito passi in me, parroco in S. Maria del Suffragio dal 1994.

Don Mirko
dall’Informatore Parrocchiale – luglio 2000

 

Mons. Andrea Ghetti “Baden”

Il giorno successivo al funerale di don Andrea Ghetti, nell’agosto del 1980, scrissi alcune impressioni, forse un tantino strane. Da allora molte cose sono cambiate e di don Andrea si torna a sentir parlare, anche se non sempre dalle persone giuste e non sempre a proposito.
L’anonima fossa al cimitero di Musocco ha lasciato il posto ad una tomba “seria” nella Casa dello Scout in Via Burigozzo a Milano, ma non so quanto ci sia di diverso.

Ricordiamo che don Andrea fu socio fondatore del nostro Centro Studi e ne fu anche l’Assistente fino aI suo ritorno alla Casa del Padre e tocca un po’ anche a noi di non lasciar spegnere quella luce: ad altri l’austero compito della ricerca archivistica e documentale.
Gregorio di Tour diceva, riferendosi agli uomini del passato,”che noi siamo dei nani sulla spalle di giganti”. L’immagine è ancora valida oggi. Don Andrea è certamente stato un gigante nello scautismo e il suo pensiero e la sua convinzione continueranno ad aiutarci per vedere lontano.
Oggi più che mai avremmo bisogno di giganti…!

“Ogni tanto, fortunatamente, penso alla morte, soprattutto quando partecipo ai funerali di un amico mio.

Nel passato non mi sono mai posto il problema della mia sepoltura, tanto mi sembrava irrilevante. Ieri, però, ho deciso di lasciar detto che mi dispiacerebbe esser sepolto a Milano. Non è che ce l’abbia coi milanesi, brava gente senz’altro. In certi settori sono i migliori d’italia, ma a seppe lire i morti proprio non ci sanno fare. Non si può manovrare le bare con la catena di montaggio!

Tu arrivi a Musocco per accompagnare un tuo carissimo amico nell’ultima “route” e ti trovi improvvisamente di fronte ad una specie di fossa comune, fonda due metri e lunga cinquanta: man mano che arrivano le bare vengono calate a distanza uguale una dall’altra, come in una zona colpita da grave calamità naturale. Verso sera, passa la ruspa e copre tutti.

Roba da milanesi, che a noi romagnoli fa senso.

Forse lo scatolificio Schiassi, che ho in parrocchia, può sistemare così in fila la produzione in magazzino, ma mi rifiuto di accettare che si possa fare altrettanto coi defunti.

In Romagna è vivo il culto dell’individualità, tanto è vero che si usano ancora molto i nomi strani ed originali e quando, per poca fantasia dei genitori, uno si chiama solo Giuseppe o Pietro, allora si vede affibbiare un soprannome colorito, che valorizza la sua personalità.

Non devono esserci confusioni: se ogni uomo – come dice Chesterton – è una parola di Dio che non si ripete mai, allora deve avere un segno distintivo che lo faccia riconoscere con sicurezza tra gli altri.

Ho sottomano il bando contro il”Passatore” del Commissario Pontificio per le quattro legazioni. Ogni membro della banda è descritto con molti particolari somatici, per favorire il riconoscimento a chi desiderasse collaborare con la giustizia. A fianco di ogni nome è sempre segnato, in apposita casella il soprannome: Lasagna, Mattiazza, Teggiolo, Ghigno, ecc. In Romagna si è sempre usato così perché gli abitanti sono tutti un po’ anarchici e repubblicani: ognuno è una repubblica per conto suo una specie di S. Marino in miniatura. Anche dopo la morte c’è il rispetto dell’individualità: ognuno ha diritto alla “ sua” buca o alla sua lapide originale, e i cimiteri non danno mai l’idea di un esercito di morti schierati in attesa dell’ispezione. Casomai è un esercito di garibaldini: ognuno ha la sua brava divisa fuori ordinanza ed anche dopo morto deve conservare un certo spirito bersaglieresco. Vuole infatti la tradizione, che i bersaglieri dopo morti sappiano fare ancora sette salti.

Qualcuno mi chiederà perché stia facendo questa specie di dissertazione sui romagnoli passati a miglior vita. È un atto di doverosa solidarietà verso il mio amico, il mio fratello scout, le cui spoglie mortali erano ieri laggiù allineate, in attesa della scarica di terra dell’impietosa ruspa milanese.

Per nascita era metà romagnolo, ma per temperamento molto di più e mi ha dato molto fastidio vederlo invece sistemato secondo la rigida e anonima disciplina funeraria ambrosiana.

lo credo che don Andrea, o meglio “ Baden” (da buon romagnolo si era infatti scelto un soprannome più personalizzato) starebbe meglio sepolto nel piccolo cimitero di VaI Codera, la dove ognuno, anche dopo morto, rimane qualcuno e non un numero e una lapide uguale alle vicine.

Che don Andrea avesse una origine romagnola credo Io si possa affermare senza dubbi anche senza ripercorrere la storia della sua famiglia.
Basti pensare, per esempio, al soprannome: di Baden tutti sanno che n’è esistito già uno ma quello si chiamava anche Powell. Credo che don Andrea da giovane si fosse ispirato proprio al buon vecchietto fondatore dello scautismo per scegliere il soprannome. Era un segno d’affetto, di rispetto e di fedeltà che sottolineava la scelta precisa di uno stile di vita caratterizzante. Il soprannome per don Andrea era una specie di uniforme che evidenziava i tratti, già tanto marcati, della sua ricca personalità.

lo ho sempre fatto fatica a chiamarlo “Baden”, preferendo il nome di battesimo, ma ora mi accorgo che quel soprannome, prima che per gli altri, era per lui una bandiera, un cappello piumato, un’armatura, il segno di una fedeltà allo scautismo.
Questa fedeltà romagnola aveva una grande carica di sentimento; come prova basterebbe ascoltare ancora le note e le parole dei “Canti di mezzanotte”, di cui Baden fu uno degli autori, e che ebbero un ruolo importantissimo nel delineare lo stile scout – diciamo così – dell’ASCI. Vale la pena di ricordare anche che il libretto fu poi gettato nel dimenticatoio dagli iconoclasti della nuova generazione politicante, intellettualoide e sessuologa, per sostituirlo con le canzoni da osteria e della protesta chitarraia.

La fedeltà e l’amore di don Andrea allo Scautismo non potevano arrendersi alle astuzie della diplomazia; quando le cose presero una brutta piega egli denunciò il pericolo a chiare parole, a rischio di diventare impopolare. Divenne infatti un personaggio scomodo a molti e rifiutato dalle strutture. Questa sua capacità di non scendere a compromessi fa di lui uno dei personaggi chiave dello scautismo italiano. L’associazione ha resistito negli anni bui perché qualche fiaccola è rimasta a indicare il giusto cammino, mentre troppi capi ed assistenti, per mantenersi un consenso, hanno giostrato tra la contestazione ed “il riflusso”, gestendo tranquillamente prima l’una poi l’altro.

Tante robuste intuizioni, tante geniali interpretazioni dello scautismo, e del roverismo in particolare, le ha seminate col cuore don Andrea a Colico e fortunatamente sopravvivono ancora, sfidando l’usura del tempo e l’insipienza degli uomini.

Romagnolo nell’anima « Baden » lo era in pieno.

I romagnoli non sono mai stati degli amministratori ma dei pionieri. La Romagna da sempre è stata una regione di frontiera e non ha voluto perdere questa sua vocazione nemmeno dopo l’unità d’Italia. I Romagnoli, eredi dei loro antenati che avevano militato nella “decima legio” di Cesare, cercarono allora nuove frontiere nelle grandi lotte sociali, nelle bonifiche e infine, oggi li troviamo impegnati nell’avanguardia dell’organizzazione turistica.
Una lapide ad Ostia ricorda che le prime bonifiche pontine furono iniziate, all’inizio del novecento, dai braccianti romagnoli. Dopo un anno di lavoro il venti per cento erano morti di malaria ma gli altri non si arresero e rimasero tenacemente sul posto, pur di conquistare un pezzo di terra da coltivare.

Don Andrea fu sempre un “prete d’assalto”, aperto a qualsiasi impresa scout. Era capace anche di stare dietro alla scrivania parrocchiale; tante anime hanno trovato la soluzione dei loro problemi e la tranquillità della propria coscienza proprio tra le mura del sùo accogliente ufficio ma era insuperabile in un campo, in una route o in una operazione di soccorso.

La sua presenza faceva diventare quell’attività di “prima classe”, degna di diventare storia associativa se non leggenda.

Come non ricordare anche i suoi colpi di mano, i suoi blitz, organizzati per burla in vari campi nazionali.

E romagnolo non erano forse il suo modo di fare un po’ scanzonato e il suo parlare ricco di paradossi?

In Romagna, quando s’incontra un amico, in segno d’affetto gli si da una manata sulle spalle e gli si rivolge un brutto auguraccio. Chi non conosce il carattere di quella gente rimane esterefatto; c’è poi da spaventarsi assistendo ad una discussione tra due romagnoli: ad un estraneo quella animata polemica a voce alta, quei toni violenti, lasciano ragionevolmente supporre che tutto possa concludersi tragicamente e invece… terminerà tranquillamente davanti ad una bottiglia di Sangiovese.

L’irruenza nel parlare, il tono alto della voce, il calore delle parole, il gesticolare delle mani sono la manifestazione esteriore di forti convinzioni, che ognuno cerca di manifestare con tutti i mezzi della propria personalità. I canoni della espressione romagnola spesso mettono in difficoltà, se non in crisi, chi non li conosce e non sa che certi modi, qualche volta un po’ rudi, sono il segno di un animo e non di una animosità di un animo che ha il gusto della polemica, della difesa dei diritti e di una certa rivolta permanente verso l’ordine costituito. La Romagna è stata la patria o il rifugio di molti grandi rivoluzionari, che sapevano parlare col cuore ed al cuore.
Anche don Andrea ha avuto il gusto della polemica, della battaglia, magari per la difesa dell’uniforme scout. I suoi articoli sono sempre stati ispirati ad una rivoluzione permanente interiore ed anche esteriore, non per distruggere ma per costruire sempre meglio.

A Colico si corre! . I toni romagnoli sono sempre un po’ bersagliereschi ma a che cosa si ridurrebbe lo scautismo se si sedesse e perdesse la fierezza del proprio dinamismo e della propria identità?

Ora che don Andrea ci ha lasciati rimpiangeremo certo di non avergli dato, negli ultimi anni, sufficiente spazio e sufficiente ascolto.

E’ troppo facile e comodo scegliere chi diplomaticamente sa dare ragione a tutti. Don Andrea era invece un prete scomodo perché aveva il coraggio di compromettersi e di dire apertamente e di slancio il proprio parere.

Qualcuno, mi par già di sentirlo, dirà che Baden negli ultimi anni era stato messo un po’ da parte per non aver saputo comprendere la nuova situazione giovanile. lo credo che l’avesse capita fin troppo bene e che le sue reazioni fossero proprozionate al desiderio di mantenere lo scautismo un movimento di élite e di controcorrente alle mode dilaganti. Certo don Andrea non ammetteva, i compromessi e le mezze misure, che oggi ci siamo abituati ad accettare in nome di una pseudo unità associativa. Voleva che ragazzi ed adulti fossero fieri ed entusiasti di una scelta scout, capace di dar loro una marcia in più.

Non aveva simpatia per lo scautismo in blu jeans, sciatto e mimetizzato.

Ce ne fossero ancora molti di preti nello scautismo, poco o niente disposti al permissivismo ed al possibilismo e capaci di alzare la voce al momento opportuno!
Don Andrea ce ne ha dato l’esempio: la sua sofferenza, la sua polemica, l’ardore dei suoi slanci ci assicurano sul suo amore paterno verso lo scautismo. La sua morte ci lascia un po’ orfani: abbiamo perso un padre. L’associazione ha molti funzionari, molti professori, molti « quadri, ‘ ma pochi padri!

Mi è venuta anche la tentazione di paragonare don Andrea a Geremia, un romagnolo ante litteram . Anche al tempo del profeta il popolo, piuttosto che ascoltare la sua parola infuocata, che proponeva una vita difficile ed impegnativa, preferiva rivolgesi a coloro che lo blandivano e lo accarezzavano con previsioni di tranquillità e di sicurezza.

Don Andrea non era certamente per uno scautismo facile, addomesticato, che vada bene per tutti.

Rispetto alla parola data, vita rude, chiarezza d’idee, scelte impegnative e fedeltà alla Chiesa erano le note caratteristiche del suo ideale scout, un ideale ASCETICO.
Oggi invece si tende piuttosto a proporre uno scautismo sociale, che accontenti tutti, una specie di ricreatorio. Vuoi i blue jeans nell’uniforme? Eccoti i jeans. Vuoi le ragazze? Eccoti le ragazze. Camminare è fatica? allora ci sediamo e facciamo. una bella discussione; e così via.

Come per Geremia credo che anche per don Andrea fosse una grande sofferenza vedere in molti posti uno scautismo anonimo, adagiato, seguace di mode e costumi forestieri, piuttosto che lievito e luce.
Uno scautismo che insegni solo a diventare e a vivere come tutti gli altri, che renda uguali, non può piacere ad un romagnolo. Uno scout lo si deve notare subito: per il suo sorriso, la voglia di lavorare, la competenza, il desiderio di essere utile, il suo stile di comportamento: deve essere -infatti – avanti e sopra gli altri, altrimenti che esploratore è?

Per questo mi dispiace che le spoglie mortali del romagnolo don Andrea Ghetti, uno dei pochi e veri profeti dello scautismo cattolico italiano, siano diventate un numero qualsiasi di un piatto cimitero milanese invece di esser sepolte in Val Codera, in alto tra le cime dei monti.”

da Esperienze e Proge

 

 

 

http://www.monsghetti-baden.it/portale.htm

don Annunzio

Sono stato in forse se riproporre questo brano a distanza di così tanti anni, ma poi ho deciso per il si. Ho pensato, infatti, che anche queste mie righe possano servire almeno tenere vivo un “certo” ricordo di don Andrea e della sua ricca personalità sacerdotale e scout, così difficile da trovare nei ricordi ufficiali, e farlo conoscere a quanti, specialmente per motivi di età, non hanno potuto incontrarlo.

 

PIERLUIGI MICHELI: “Eccomi! Sono pronto alla chiamata” – Angelo Nocent

 

PIERLUIGI MICHELI:

“Eccomi! Sono pronto alla chiamata.” 

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Il dottor Pierluigi Micheli, come si dice nel bel ritratto iniziale delineato da Andrea Martano, è stato un “uomo dei semitoni”, una persona “modesta” nel senso più nobile (purtroppo ignorato dall”‘urlato” e dall’arroganza dei nostri giorni) del termine. È stato un innamorato delle profondità ove i silenzi sono colmi di parole supreme, la superficialità è impossibile, l’ineffabile si svela.   

Laggiù, senza clamore, incontrava le grandi luci che hanno guidato la sua esistenza e la sua ricerca e che ques(te pagine vo- gliono attestare. Là egli penetrava nei misteri della fede, visti come la più alta risposta alle interrogazioni della ragione. Là egli in- contrava gli “spiriti magni” del pensiero e della letteratura, a partire dall’amatissimo Dante. In quell’orizzonte non striato dalla chiac- chiera e dal rumore egli attendeva il fiorire dell’armonia musi- cale, soprattutto quella dei prediletti Bach e Mozart. In quel luogo di speranza trovava l’entusiasmo per quella professione di medico che egli visse solo come vocazione e che per questo s’intrecciò inestricabilmente con la sua vita.

C’è un po’ di emozione nel leggere le sue righe qui raccolte: sembra quasi di rompere il cerchio del suo riserbo, del suo silenzio intimo, del suo viaggio in mari sempre più vasti. Ma forse è lui stesso per primo a “smitizzare” questa esitazione con quelle gocce di umorismo e di ironia che lasciava spesso cadere nei suoi dialoghi, consapevole di quanto aveva scritto Hermann Hesse: “Ogni sublime umorismo comincia con la rinuncia dell’uomo a prendere sul serio la propria persona“. 

 

Eppure è proprio questa la vera “serietà” che segna anche le pagine della sua ricerca privata a cui ora siamo ammessi. E a noi sembra, leggendole, che esse, nonostante la molteplicità dei temi, dei soggetti e dei profili che offrono, rivelino alla fine un solo volto, quello del loro autore, uomo assetato di fede e di sapienza, di verità e di bellezza. Proprio come confessava di sé ]orge Luis Borges al termine del suo zibaldone L’artefice: “Un uo-mo si propone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni po- pola uno spazio con immagini di province, di regni, di monta- gne, di baie, di vascelli, di isole, di pesci, di case, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”. 

Ogni ricordo, come dice la stessa etimologia del termine, è un “riportare al cuore”, cioè un far rivivere nell’affetto e nel sentimento una presenza che è forse stinta ma non estinta. Le pagine che ora scorreranno vogliono raggiungere proprio questa meta: desiderano riproporre dal vivo una figura amata da tante persone, la cui presenza, già prima silenziosa e discreta, dal 22 giugno 1998 esteriormente si è dissolta ma spiritualmente è ancora viva e intensa. lenzio intimo, del suo viaggio in mari sempre più vasti. Ma forse è lui stesso per primo a “smitizzare” questa esitazione con quelle gocce di umorismo e di ironia che lasciava spesso cadere nei suoi dialoghi, consapevole di quanto aveva scritto Hermann Hesse: “Ogni sublime umorismo comincia con la rinuncia del l’uomo a prendere sul serio la propria persona”.

Gianfranco Ravasi 

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Dr. PIERLUIGI MICHELI – Biografia http://www.tuoblog.it/pierluigimicheli     

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 Nel giorno dell’aggregazione all’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio (o.h.)

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 Con i vescovi milanesi

“QUEL NON SO CHE” CHIAMATO AGAPE

Quel “non so che”, chiamato da Paolo agàpe e che noi traduciamo con amore è paradossalmente l’opposto dei grandi doni: “se possiedo tutta la scienza e anche una fede da smuovere i monti, ma non ho amore, io non sono niente “ ( 13,2).

Se la santità è agàpe, ossia amore, allora un santo altro non è che un innamorato. Di chi e di che cosa avremo modo di approfondirlo in seguito.

Il significato della parola “santo” però va ulteriormente precisato. L’uso del termine nel Vecchio Testamento, riservato agli uomini, è eccezionale. In genere viene usato per gli eletti del tempo escatologico. Nella Parola neotestamentaria, l’aggettivo “santo”  viene trattato quasi come un sostantivo, sottraendolo a quella istintiva valutazione per cui si vorrebbe riferirlo solo a personalità di elevata statura morale. All’origine c’è la persuasione d’essere stati semplicemente chiamati a un’oggettiva situazione di santità.

  • Paolo ai Corinzi: ”chiamati per essere santi” (1,2); 

  • Pietro: “15 Di fronte a Dio che vi ha chiamati, siate come figli ubbidienti; egli è santo e anche voi siate santi in tutto quel che fate. 16 Nella Bibbia infatti è scritto: Siate santi, perché io sono santo “.( 1Pt 1,15-16) 

Il mondo moderno ha subìto una caduta della capacità dialettica, più grave della caduta della morale. Agnosticismo filosofico, indifferentismo religioso, relativismo morale, le varie ideologie vegetariane, animaliste, i guru e i culti esoterici, il timore di trasmettere la vita. L’uomo di oggi non vuoI più sentirsi dire che la vita è una battaglia ” (Cf. 88).

 Non sembra di leggere Benedetto XVI ? Il Concilio Vaticano II nella Lumen Gentium (40) parla di “Universale vocazione alla santità nella Chiesa”. I sensi di lettura possono essere due, uno più esteso dell’altro: può indicare sia che nella Chiesa tutti i membri sono chiamati alla santità sia che tutti gli uomini sono chiamati alla santità nella Chiesa. Peguy l’ha risolta in questo modo: e rientra dalla finestra” (Pierluigi Micheli)  

 “Tutti i cristiani hanno la vocazione di essere santi e tutti gli altri uomini hanno la vocazione. Il PADRE NOSTRO è una preghiera corale che tutti gli uomini possono dire e che nella sua universalità non è legata a correnti di pensiero. E’ la preghiera dell’UOMO ” (f.73) 

 PIERLUIGI MICHELI COME LO VEDO IO primapagina 

 

COMPAGNIA DEI GLOBULI ROSSI…SCHIENE A DISPOSIZIONE DI DIO

  • Ci mettiamo a disposizione di Colui “che è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi...”(2 Corinti 5,15);

  • Metterci a disposizione di Cristo significa che ci lasciamo attrarre dentro il suo “per tutti“: essendo con Lui possiamo esserci davvero “per tutti“. (Benedetto XVI Messa crismale giovedì santo 2007). 

“La carità esce dalla porta …

PIERLUIGI MICHELI  

 

Quasi alla fine del suo mandato di Primario presso l’Ospedale “San Giuseppe” dei Fatebenefratelli diMilano, il Dr. Pierluigi MICHELI ha accettato l’investitura di aggregatoall’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, come prevedono gli Statuti Generali nei seguenti articoli:

 

“23.    La carità cristiana chiede che, per quanto di­pende da noi, facciamo partecipi persone e gruppi dei beni spirituali del nostro Ordine.   Perciò, il Superiore Generale, a nome di tutto il nostro Istituto, può aggregare all’Ordine le persone fisiche e giuridiche proposte dal Definitorio Provinciale, per renderle partecipi, in virtù della comunione dei santi, dei meriti delle buone opere che i Confratelli compiono nel­l’ apostolato ospedaliero.

   

Le condizioni per poter ottenere questa aggrega­zione sono le seguenti:

  • professare la fede cristiana;

  • essere di condotta esemplare per i costumi e per la vita familiare e professionale;

  • aver manifestato stima al nostro Ordine, coope­rando alle sue opere di carità in modo notevole.

 24.   La Chiesa ci esorta a promuovere e favorire le opere apostoliche dei laici, secondo lo spirito del proprio istituto. Per questo, tenendo presente la varietà delle cir­costanze e secondo le diverse possibilità, ci sforzia­mo di creare e favorire le associazioni, i gruppi di volontari e i movimenti dei laici, che testimoniano Cristo specialmente con le opere di misericordia e di carità. Siamo attenti a questo, soprattutto, nei confronti dei nostri collaboratori più vicini, onde aiutarli a integrare i loro valori professionali con le qualità umane ed evangeliche che sono richieste nell’assistenza degli ammalati.

 25.   Ci sono persone e gruppi, non menzionate nel numero precedente, che, animate dall’esempio di San Giovanni di Dio e dalla sua azione misericordiosa, partecipano in maniera notevole alla missione dell’Ordine.         

Il Superiore Generale, su proposta del Definitorio Provinciale, esprimerà a queste persone la

gratitudine dell’Ordine, nel modo più opportuno”. (Statuti Generali -Testo Ufficiale approvato dal  Capitolo Generale Straordinario del 1997)

  

L’aggregazione ha, quindi, il significato di un riconoscimento da parte della Chiesa, dati i presupposti:

  • ha professato la fede cristiana;

  • Ha dimostrato una condotta esemplare per i costumi e per la vita familiare e   professionale;

  • ha manifestato stima al nostro Ordine, coope­rando alle sue opere di carità in modo    notevole.

In altre parole, possiamo dire che la sua vita è stata letta e riconosciuta come una interpretazione fedele ed autentica dello “spiritum hospitalitatis”, ossia del carisma peculiare che la Chiesa  riconosce ai discepoli dell’apostolo di Granada san Giovanni di Dio, patrono universale dei malati e degli operatori  sanitari.

  

Egli ha vissuto il carisma dell’hospitalitas da “Christifidelis laicus”, ossia di  discepolo del Signore che ha portato a maturazione il suo battesimo nello status di persona  coniugata ed esercitando la professione-vocazione di medico.

  

Che di vocazione si tratti è lui stesso ad ammetterlo:

  

Chiunque sia chiamato ad assistere i malati guarda a Cristo come esempio deve imitarlo nella discretio e nella misericordia. L’etica del medico non è tanto nell’atto di sanare quanto nel gesto di carità; la dignità è data dal sigillo del divino; l’arte medica deve essere ritenuta come coinvolgimento totale, come operazione caritativa che, per noi che la leggiamo in linguaggio  cristiano, vuoI dire vedere in ogni ammalato l’immagine di Cristo.

  

Infatti Pierluigi aveva già affermato che “l’orizzonte della medicina, dell’ars medica, se non  viene ridotto a coordinate puramente tecnico-strumentali e non si dimentica l’umano, l’etico, lo spirituale, è veramente grandioso. Diceva Platone che chi insegna medicina deve essere, secondo una antica immagine, l’hegoumenos che prende per mano il discepolo, aiutandoloa percorrere un tratto con sé, per lasciarlo poi proseguire sui suoi piedi con la forza dello slancio acquisito” ( Cf. 27).

L’uomo pensa, ama, soffre, ammira, prega, tutto insieme con il suo cervello, con tutti i suoi organi e con la sua anima (GarreI). La tecnica non è l’unico fattore determinante del progresso come credeva Renan. La persona umana è formata di carne (è l’Io,biologico), di intelletto (l’Io pensante), di speranza (l’Io credente).

  

Da questa coscienza procede che ”La medicina deve occuparsi dell’uomo nella sua totalità: l’avvenire della medicina è condizionato dal concetto che si ha dell’uomo.Il colloquio del medico ricorda la confessione.lppocrate insegnava che il medico deve mortificare l’insolente, il prepotente; ristabilire l’ordine, l’isonomia; è ministro digiustizia, deve essere messaggero di speranza, di ottimismo, di certezza nell’avvenire. Sua deve essere una sacralità caritativa e poetica: litteratissimus et humanus (Flavio Biondo). Deve essere come il samaritano che reca l’olio per ottenere attraverso la guarigione del corpo e la salute la ripresa delle ordinarie occupazioni, degli affetti domestici, della socialità Cf. 108).

  

Nel giugno del 1978 su invito del Padre Generale vi fu un incontro dei direttori sanitari e di un gruppo dei medici dei Fatebenefratelli sul tema: “I Fatebenefratelli tra la riforma e il rinnovamento”.In questo incontro un gruppo di loro definì l’ospedale religioso un ospedale configurato nella stretta osservanza dei principi cattolici, pur nella funzione pubblica del servizio.

  

“…Ma preferirei dire che l’ospedale religioso è un luogo di evangelizzazione. Evangelizzare vuoI dire vedere i problemi quotidiani con la lampada del Vangelo, vuoI dire vedere nel malato l’uomo condividendo con lui le sue sofferenze, le sue preoccupazioni, i suoi rim pianti, le sue speranze “ ( Cf. senza numero).