Lettera al Priore Generale dei Fatebenefratelli – Angelo Nocent

mercoledì, 09 aprile 2008

 

 Milano, 9 Aprile 2008
 
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San Riccardo nel tondo DSCF0080Al Rev.mo Priore Generale
dei Fatebenefratelli
Fra Donatus Forkan, O.H.
Sua sede – Roma

Rev.mo Padre ,
 
                                         sento il desiderio di esternarLe un sentimento che mi domina da due giorni: dirLe grazie per la pagina memorabile che ha deciso di indirizzare  ai Confratelli convocati a Monguzzo dal 3 al 5 Aprile 2008. Essa è destinata a ribaltare una situazione stagnante ma solo apparentemente irreversibile.
 
Aspettavamo da quarant’anni che fosse presa in seria considerazione un’istanza di base un tempo molto sentita, spesso rimasta soffocata e silenziosa ma sempre marcatamente sofferta e macerata nella Passione del Signore Risorto. Se, per i nostri gusti, le sue parole giungono un po’ in ritardo, nella logica dello Spirito, esse cadono al “momento opportuno”, giacché il kairòs di Dio si manifesta sempre nel momento maturo,  i Suoi tempi non sono i nostri ed i mezzi che usa, insindacabili.
 
Grazie, Padre, per quelle considerazioni benedette, chiare e precise e per i riferimenti biblici che Lei ha indirizzato ai religiosi ma, indirettamente, anche ai laici e alla Chiesa.
 
Il 2 Novembre 2007, liturgia dei defunti, dopo la festa della Comunione dei Santi, mi accorgo si aver aperto un nuovo blog, denominato http://frariccardo.splinder.com . Non avevo le idee chiare e, proprio perché andava ad aggiungersi ai già numerosi esistenti che assorbono tempo ed energie per seguirli, quest’ultimo mi sembrava davvero un di più…Ma, rileggendo quella pagina iniziale, mi rendo conto che dietro c’era una sollecitazione della stessa mano già manifestatasi altre volte e che non è il caso di riferire ora: quella di San Riccardo Pampuri.
 
Se avrà il tempo e la bontà di leggerla, si accorgerà che anche la sua penna è stata in qualche modo pilotata da quella stessa “mente patrocinante”, che continua a lavorare con grande discrezione per la Terra e per i Fatebenefratelli. Lui che ha tanto parlato da laico ed è rimasto incredibilmente altrettanto silenzioso da religioso, continua ad operare profeticamente. Non significa nulla il fatto che abbia compiuto due miracoli determinanti, proprio nelle mani dei suoi Confratelli ?
Il primo è avvenuto nell’Ospedale di San Giusto, a Gorizia e il secondo all’Ospedale San Giuseppe di Milano, grazie alle invocazioni e sollecitazioni, in entrambi i casi, proprio dei suoi prediletti e in ospedali in cui aveva anche soggiornato anche da paziente, accettando  il disegno di Dio che gli chiede di sacrificare il suo 110 e lode in medicina e chirurgia per  assumere il ruolo di “malato”. E’ sconvolgente: da samaritano che era, è passato dall’altra parte, ossia nel ruolo di ”un tale”, incappato in una febbre subdola, ladrona, che lo spoglia, lo percuote, lo rende un morto ambulante, fino al tracollo, in via San Vittore, 12 a Milano.
 
Il 24 Ottobre 2008 San Riccardo celebrerà in Cielo l’ottantesimo di Professione Religiosa. Sarebbe un peccato lasciar perdere una data così rilevante, proprio per il clima e gli eventi che dominano la scena attuale.
Veda, Rev.mo Padre, di far tornare la sua urna nella Chiesa di sant’Orsola, a Brescia, dove ha fatto la vestizione, il noviziato, dove ha pregato, lavorato, servito, sofferto, emesso i voti religiosi, curato anche i seminaristi…La sua presenza, preparata per tempo, farà bene a tutti: ai religiosi, al clero, ai laici che operano nei servizi socio-sanitari, alla Chiesa locale, all’Università, agli Oratori che stanno vivendo proprio quest’anno la parabola del Samaritano con un titolo suggestivo: “Per CASO una LOCANDA”, Vedi: http://www.oratori.brescia.it/index.php
 
Sono certo che vorrà perdonare questa mia invadenza che origina dall’amore per la Famiglia Ospedaliera e che non può venir meno proprio in questo frangente difficile in cui s’è venuta a trovare.
Suo dev.mo
Angelo Nocent

PIERLUIGI MICHELI: “Quel non so che” – Angelo Nocent

 

 

PIERLUIGI MICHELI: “Quel non so che”

chiamato agàpe

 

 

(II parte)

 

I santi assomigliano a Gesù ma Gesù non assomiglia ai santi

 

Per il filosofo Jean Guitton, i santi sono un prisma che ci permette di conoscere l’enigmatico Sconosciuto del Vangelo. E’ la luce di questo Sconosciuto ad illuminare quelle esistenze che nessun segno esterno permette di riconoscere – siano essi dei mendicanti o dei prìncipi – anche se vi passiamo accanto tutti i giorni. Egli scrive: “Gesù è un lavoratore normale e un maestro, un contemplativo, uno schiavo, un capo, un prete, una vittima, un apostolo, ecc… I santi sono i colori di questo spettro. Non è possibile separare Gesù dai santi, né questi da Gesù. E’ questa corrente che va da uno all’altro e dall’altro all’uno che mi sembra una conferma, potente e dolce, di ciò in cui credo”.

Ognuno di noi si muove in un mosaico di volti che incontriamo ogni giorno dal vivo o nei loro scritti o nelle loro opere. Sono i volti di chi ci ha preceduti e di chi ci seguirà, i volti di coloro che vorremmo essere o di coloro che vorremmo assolutamente evitare di diventare. Vero è che, nei mille volti che sfioriamo, quello che davvero cerchiamo è il Volto. Chi cerca Dio, lo può vedere nella luce dei santi. Con i frammenti di tanti volti umani raccontati, c’è il tentivo di trovare le parole per narrare il Volto del divino che si cela in ognuno. Anche una rivista può essere un modo perché i volti e le vie s’incontrino e s’intreccino.  

Il volto di Pierluigi Micheli, luce riflessa nel caleidoscopio della santità è l’oggetto della nostra ulteriore indagine.

Nel precedente numero ci siamo lasciati con le ultime parole del libro di Martano: “Non tace il segno di questa grande e feconda umanità”. Non so immaginare come il Dott. Micheli, a sentir parlare di lui, l’abbia presa. Probabilmente come di solito: “Ogni sublime umorismo comincia con la rinuncia dell’uomo a prendere sul serio la propria persona”. Così pensava e conseguentemente agiva. Ma noi preferiamo continuare per la nostra strada, con l’impegno di amplificare la voce e diffondere il messaggio che ci viene da un testimone del Vangelo, nel decimo anniversario della sua morte.  

Abbiamo accennato ad un poema sinfonico: l’Inno alla Carità (1 Cor 12, 29-31; 13,1-13; 14,1-3). Va tenuto a portata di mano perché in esso vi è l’indiretta risposta alle due precedenti affermazioni, alquanto impegnative e, forse, non del tutto condivise dai lettori più esigenti:

  • “Fa’ splendere il tuo volto su questa comunità parrocchiale che ti ricorderà sempre come il migliore dei suoi figli, come il più saggio e il più santo fra i suoi fedeli” (Parroco di San Marco in Milano nella liturgia esequiale);

  • “morto a Milano il 22 Giugno 1998 IN CONCETTO DI SANTITÀ” (epigrafe precedente numero).

 Contro ogni esitazione ad affrontare l’argomento, è vorrei richiamare un fatto a tutti noto ma che difficilmente torna in mente: “Ti assicuro che oggi sarai con me in paradiso”. E’ un’espressione che sappiamo a memoria e che rimanda al Calvario, al dialogo di Gesù con il ladrone, pure crocifisso. In realtà sono parole sacramentali pronunciate da Gesù sul primo canonizzato della Chiesa nascete. Si tratta di un ladro, condannato a morte, crocifisso di fianco al Giusto. Il disgraziato raccoglie le forze ed osa il gesto estremo: “Gesù, ricordati di me quando sarai nel tuo regno” (Lc 23, 42-43). Deduco che bene ha fatto il Parroco a chiamare le cose con il loro nome: Pierluigi “il più santo fra i fedeli della comunità parrocchiale”.

Certo, la Chiesa da sempre sa che quando lasciamo il corpo, “lasciamo questa vita per essere con Cristo” (Fil 1,23). Del resto, si tratta di un “già” che Paolo VI spiega molto bene: “La Resurrezione di Cristo interessa noi? Certissimamente. Noi tutti siamo compresi in quel massimo prodigio e come avvolti dalla sua luce. E cioè: fra i battezzati, i cristiani e il Cristo esiste un rapporto arcano, ma vivo e vero, che ha mutato sostanzialmente gli esseri umani, e con sommo privilegio li ha introdotti al Mistero della Resurrezione.

Col Battesimo il Signore ha infuso in ogni suo seguace il principio, il seme di una nuova vita, la Sua, che ci porterà al Paradiso. Ed ecco il dono incomparabile. Avviene un reale innesto della vita di Cristo in noi e ci fa entrare nel circuito divino della sua energia e della sua forza. Siamo vivificati da Lui, insieme risuscitati, come dice San Paolo. E perciò: “Si consurrexistis cum Christo, quae sursum sunt quaerite… quae sursum sunt sapite, non quae super terram”: Se siete risuscitati con Cristo, cercate le cose dell’alto… gustate le cose superne, non quelle della terra. Tale verità sarà confermata, tra breve, in reale pienezza, dalla Comunione Eucaristica. Sentirci, quindi, cristiani cioè appartenenti a Cristo, è insigne risultato della Resurrezione”. (Pasqua 18 Aprile 1965)

Pierluigi, tra alti e bassi, ha camminato per 85 anni in quest’ottica (27 Ottobre 1913-22 Giugno 1998). Ne siamo tutti convinti: a contare davvero non è tanto l’aspirare agli “onori degli altari” che rarissimi tra noi raggiungeranno, proprio per non averli ambiti, quanto l’essere con Cristo, possibilità offerta gratuitamente a tutti. Ma allora perché i santi? Ce n’è proprio bisogno?

I nostri amici Protestanti dicono di no. Il pastore evangelico Paolo Ricca proprio di recente ha preso lo spunto per motivare le sue obiezioni: “Anche la santità di padre Pio, come quella di ciascun cristiano (ogni cristiano è «santo» perché Dio è santo: 1Pietro 1, 15-16) può solo essere un pallido riflesso della santità vera e piena di Cristo.” Ed aggiunge: “…in fin dei conti Padre Pio è più «popolare» di Gesù stesso, allora Padre Pio dovrebbe veramente fare un miracolo, l’unico che conta: far capire in qualche modo alla gente (come, non saprei) che la sua santità non è nulla rispetto a quella di Cristo”.  

Eccessi e stravolgimenti a parte – di cui è bene raccogliere l’ammonimento e ravvedersi – vien da dire all’amico Ricca: che non lo sappiano la Chiesa di Roma e buona parte dei cristiani? Mi sovviene un’espressione di Sant’Agostino che ho memorizzato durante il Concilio, in occasione della riforma liturgica: “E’ meglio che non ci capiscano gli eruditi piuttosto che non ci comprendano i popoli”. Se per noi cattolici i santi sono importati è perché vi troviamo un senso che va ripetutamente recuperato. Si dice che erano donne e uomini come noi, vissuti in contesti difficili quanto i nostri ma che hanno saputo, voluto, potuto, fatto… Dunque: testimoni. Epperò il senso io lo trovo nelle parole del Maestro: “beati quelli che hanno creduto senza aver visto!” (Gv 20, 29). E’ strepitoso, è grazia, dono.

Don Giussani, parlando di San Riccardo Pampuri nella prefazione di una biografia, ci offre la giusta linea interpretativa:

“Da quando lo abbiamo conosciuto qualche anno fa attraverso il racconto stupefatto di chi ne ha avuto beneficio nel corpo e nello spirito, san Riccardo è per noi la testimonianza mirabile che la santità come ideale di umanità vera è alla portata di tutti.

Nella sua figura semplice e discreta di medico condotto – che giganteggia nella nostra campagna lombarda – ciascuno di noi ritrova i lineamenti dei proprio volto umano autentico. Tanto che non si può non aderire alla verità dell’invito della Didaché: “Cercate ogni giorno il volto dei santi e traete conforto dal loro discorsi”.

Il santo dei Fatebenefratelli ci insegna che il grande problema della santità cristiana è riconoscere una Presenza eccezionale che è entrata nella storia del tempo. Così che la creatura nuova generata dall’acqua del Battesimo si erge sulla scena del mondo come un protagonista nuovo, chiamato a cambiare la terra insieme ai fratelli uomini, fino al suo compimento finale, che sarà come e quando al misterioso disegno del Padre piacerà”. (S. Riccardo Pampuri – Camilleri)

E qui, per grazia di Dio, – guarda caso – ci risiamo: un altro medico, stesso secolo, nella continuità. I santi mi spronano a credere senza il vedere. Mi si fanno Parola di Dio incarnata e mi additano il Vangelo, la grande sinfonia dell’amore per l’uomo.

Quando il Mons. Andrea Ghetti della Parrocchia del Suffragio di Milano – Baden per gli scouts – m’insegnava, da ragazzo, a meditare tenendo in una mano la Bibbia e nell’altra la biografia di un santo, mi dava la “dritta”, come quando un maestro dice al cantante d’opera: “ascolta la Callas in questo passaggio…vai a sentire il fraseggio di Bastianini…impara da Di Stefano a impostare l’acuto…”. Ecco la funzione del santo: additare, suggerire, incoraggiare…E’ l’ hêgoúmenos , di cui abbiamo già parlato: un fratello maggiore che prende per mano il minore “aiutandolo a percorrere un tratto con sé, per lasciarlo poi proseguire sui suoi piedi con la forza dello slancio acquisito” (Micheli Cf. 27).

 Un uomo da conoscere

Se uno mi chiedesse a bruciapelo in che cosa consista la santità del Dr. Micheli, come risposta non avrei che parole poverette: nessuna prova schiacciante da sottoporre, non un miracolo da illustrare. Ma è proprio così necessario? Ognuno, volendo, potrebbe provare a guardare il volto di questo medico, accostarsi a lui senza pregiudizi e verificare da sé il grado di corrispondenza con il Volto invisibile di Dio, i cui riflessi non sono trascurabili. Anche perché a monte, oltre al miracolo dela Grazia, c’è un lavoro interiore di anni. Pierluigi si è lasciato prende per mano già da liceale a Monza. I suoi educatori? La mamma, il Maestro Interiore, la Parola, i professori, i libri, le persone…) Ecco perché lo trovo con le carte in regola per additarlo con insistenza come hêgoúmenos per noi. Lui, appassionato del divino, è suonatore integerrimo, rigorosamente intonato, uno Stradivari nella grande orchestra del Regno, dove nessuno – salvo i Raccomandati dell’ultima ora – s’improvvisa musicista. Come ogni serio professionista, anche Pierluigi, mentre si acculturava nelle scienze mediche, in concomitanza si perfezionava nella “teologia dei Santi” che è “Scienza d’Amore”, scienza dell’Amore Divino rivelato e dato in Gesù Cristo. Secondo le parole di san Paolo che Pierluigi ha fatte sue, in realtà, questa scienza di “tutti i santi”, cioè della Chiesa come Popolo Santo, va chiesta e ricevuta “in ginocchio” davanti al Padre, come dono dello Spirito Santo.

Di cosa si tratta? In che cosa consiste? Nel “conoscere l’Amore del Cristo che sorpassa ogni conoscenza” (cf Ef 3,14-19). Attingendo ancora immagini dalla musica, si può dire che Pierluigi ha assimilato i canoni fondamentali del buon musicista:

 

  • coltivare pazientemente l’arte dell’ascolto,

  • curare la capacità di emissione perfetta del suono,

  • badare al colore delle note,

  • vibrare all’unisono con l’orchestra,

  • pendere dal gesto manuale e dalla mimica facciale del Direttore…

  • che per lui è Gesù, il Maestro, Colui che invita tutti ad assumere il ruolo d’interprete

più che di spettatore, di atleta più che di tifoso.

Da laico nella Chiesa – Da cristiano nel mondo

I suoi discepoli no, ma San Giovanni di Dio in giacca e cravatta, nell’immaginario collettivo stonerebbe. Epperò oggi l’Arcivescovo di Granada, incontrandolo in corsia in abiti dimessi, non avrebbe esitazione a suggerirgli di vestire in ospedale un classico di buon gusto, magari alla Bertinotti. O meglio, di adeguarsi, anche nell’abbigliamento, ai diversificati ruoli della giornata. Per via che l’abito non fa il monaco? Anche. Ma più semplicemente per funzionalità.

A cominciare dall’abbigliamento, ed in non so quante altre cose, il Micheli, che ha vissuto per decenni gomito a gomito con i religiosi, per certi aspetti è distante anni luce dal santo Patriarca. Per carità: che non avesse anche lui i suoi personali difetti, qualche debolezza o fragilità, nessuno è qui a negarlo e sarebbe utile che la consorte e gli amici amorevolmente ce ne parlassero. Su ogni cosa i nostri punti di vista possono essere contrastanti, giacché la di divergenza di vedute rientra nella fisiologia dell’uomo. Immagino che anche lui perdesse talvolta la pazienza in casa e fuori; che in certi momenti non amasse essere disturbato, che non gli andasse di adeguarsi a una certa mentalità…Alcune debolezze, qualche piccola vanità, sempre gli son venute dietro: a cominciare dalla pipa, gustata anche lungo i corridoi dell’ospedale, la fragrante spruzzatina d’acqua di colonia… Per il resto, come ogni marito, si adeguava agli umori della consorte: “Oggi la signora Augusta ha deciso che devo mettere il cappotto color cammello…La signora ha detto…la signora ha fatto…”. Anche nella conduzione della politica aziendale ospedaliera in cui era inserito come Primario, non tutto avrà condiviso e non sempre si sarà rigorosamente adeguato, acriticamente, a indicazioni opinabili. Resta il fatto che l’Ordine ospedaliero lo ha “aggregato” come figlio diletto. E tale resta.

 

Ciò a cui teneva particolarmente era una cosa banalissima per molti di noi: il camice bianco, indossato come abito “liturgico”, paragonabile alla casula, per via di quel sacerdozio cui sapeva di appartenere: “Voi siete la stirpe eletta, voi siete il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le meraviglie di Lui” (1 Pt 2,9). Sacerdozio non ministeriale ma vero, non segregato ma di solidarietà con i fratelli, come quello di Gesù, per “offrire sacrifici spirituali graditi a Dio (1 Pt 2,5): le implicazioni del soffrire.

 

La teologia ci dice che Cristo ha abolito il sacerdozio antico, segregato e separato il più possibile dalla comunità, perché “offrì se stesso” (Ebr10,14). In Lui, non più distinzione tra sacerdote offerente e la vittima offerta, ma contemporaneamente, Lui, sacerdote e vittima, solidale con noi, divenuti così popolo sacerdotale, profetico e regale, chiamati a identica missione.

Pierluigi nell’Amen eucaristico era consapevole di dare non solo l’adesione al Corpo di Cristo sacramentale, ma anche al Corpo di Cristo ecclesiale, di cui egli è il Capo: principio di solidarietà fra le Sue membra e in Lui comunione con il Padre. Sono fondamenti della spiritualità laicale che vanno ribaditi, inculcati. Diversamente, anche l’invocata “collaborazione” dei laici, di cui si fa un gran parlare, appoggiando principalmente sull’umano o sull’effimero o sul carisma immaginario, se mai è esistita, è casa destinata a crollare alle prime scosse.

 

Ma il laico Pierluigi, di temperamento così diverso, acculturato, elegante, a tratti arguto ed ironico, assomiglia in qualcosa a quell’uomo di poche parole, sempre in movimento, piuttosto trasandato ma “rivoluzionario”, che è san Giovanni di Dio? Sì. Ma in un aspetto che non è affatto appariscente. Noi siamo soliti enfatizzare la genialità del Santo che, dal Lombroso in avanti, viene accettato come inventore dell’ospedale moderno. Se corrisponde al vero, non è cosa da poco. Ma il punto focale sul quale convergere dovrebbe essere un altro: quel chiodo fisso che quel pazzo di portoghese, trapiantatosi a Granada, s’è ficcato in testa: “Dio sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù”. (Dalle lettere).

Bene: su questo aspetto il Micheli è vero discepolo, in perfetta sintonia, immagine di comunione. Perché questo motto rivoluzionario è prodigioso e ne suscita uno conseguente, perfino contagioso: “Fate del bene a voi stessi, fratelli, per amore di Dio”. Il resto è relativo, contingente.

 

  • Perché rivoluzionaria è l’audacia dei deboli che fa andare in confusione i potenti (1 Cor 1,27-28),

  • la fortitudo dello Spirito che li abita: Deus, in te sperántium fortitúdo, Dio, sostegno e forza di chi spera in Te…

  • Qui sta la grandezza dell’uomo abitato dall’Amore Trinitario, del medico cristificato.

  • ”vivo autem, iam non ego: vivit vero in me Christus! (Gal 2, 20). Parafrasando, si potrebbe tradurre così: Se ho la consapevolezza di essere stato crocifisso con Cristo, so­no liberato dalla legge, «e non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me…».

 

Allora un medico del ‘900, a Milano, in giacca, cravatta e camice lindo, con una debolezza per la pipa, fragrante di colonia, che ha una convinzione radicata: “Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me”(Gal 2, 20), uno che si guarda bene di separare la scienza dalla fede, crescendo l’una alla luce dell’altra, come lo definireste? Io altro non vedo che un contemplativo nel contesto schizofrenico e allucinogeno delle contraddizioni che la città degli affari vive e offre, o anche di un ospedale, per certi versi, distratto.  

“Quel non so che” chiamato agàpe

Il promesso Jean Guitton, uno dei più eminenti filosofi cristiani del nostro tempo, dei santi ha una sua opinione originale ed illuminante. Anche per la sua fede, la loro esistenza non è irrilevante: questi hanno il potere di rassicurarlo maggiormente in essa. Nel suo libro “Che cosa credo”, cosi si racconta:

  • “I santi non sono per me né dei privilegiati del calendario, né degli intercessori, e ancor meno dei personaggi che appartengono alla leggenda, o alle vetrate.

  • A mio parere non sono degli individui di un carisma eccezionale e neppure dei guaritori.

  • Non sono essenzialmente degli asceti o degli uomini che praticano il digiuno, anche se conosco a questo proposito degli esseri umani inimitabili.

  • E non sono neppure dei filantropi o dei riformatori sociali, anche se conosco ancora ai nostri tempi delle anime semplici che appartengono a questo gruppo di persone meravigliose.

  • Non sono neanche degli iniziatori di nuove religioni, o dei fondatori di ordini, congregazioni o nuove compagnie.

  • Certamente ho la più grande ammirazione per tutti i personaggi che ho appena nominato, in quanto propongono dei modelli privilegiati alla venerazione dei fedeli, allo stesso modo in cui apprezzo in tutti i loro aspetti gli esseri umani eccezionali, gli eroi, gli esploratori della luna, e tutti coloro che scoprono cose come l’Anapurna.

  • Ma ciò che mi attira nei “santi” è qualcosa di completamente diverso: per esempio, in Teresa non sono solo le estasi, nel parroco di Ars non sono solo i digiuni eccezionali, in Francesco d’Assisi le stigmate, in Vincenzo de’ Paoli o in Don Bosco le opere, poiché possono esistere dei grandi filantropi o dei grandi asceti che non trasmettono l’impressione di quel “ non so che “ che io chiamo col nome comune di “santità”.

L’ amico di Paolo VI, laico al Concilio, la spiegazione di quel “non so che” la trova nella prima lettera di Paolo ai Corinti e precisamente nell’inno all’amore, cap. 13,1-13:

  • “Quando l’Apostolo Paolo ha voluto definire a sua volta quel “non so che” che chiama stranamente agàpe, lo ha paradossalmente opposto al dono della fede che muove le montagne, o allo zelo della fede che fa morire i martiri tra le fiamme, e spiega l’agàpe con la pazienza, la dolcezza la buona reputazione presso gli altri, l’intensità della speranza, ecc.

  • Credo che con questo cerchi di definire quello che chiamo l’elemento della santità, dato che la difficoltà di coloro che hanno ricevuto questi doni rari ed eccelsi è quella di oltrepassarli, di andare sempre al di là e di giungere fino alla purezza dell’amore, fino all’amore puro, all’umile dovere di stato, alla semplicità e all’umanità divina.

  • Per tutta la vita ho potuto constatare che la Chiesa Cattolica genera naturalmente dei santi…Di questi santi ignorati e allo stesso tempo sconosciuti a se stessi, che vivono in Dio senza saperlo fino in fondo, ne ho visti diversi intorno a me…

  • Ripeto che il cristianesimo, e più in particolare il cattolicesimo, crea questi sconosciuti in ogni generazione. Non voglio dire che sia sempre in grado di individuarli: è difficile riconoscere un santo anche dopo la sua morte“.

Chi ama è – Chi non ama non è

Ma allora Pierluigi è un santo? Dopo questa lunga premessa per chiarire il termine “santità”, bisogna provare a rispondere all’audace interrogativo. Come ho già avuto modo di scrivere, il Martano, primo biografo, nel suo libro non lo dichiara. Per due motivi: primo, perché non l’ha conosciuto il Micheli; poi, perché il suo compito, a pochi anni dalla morte, era quello di cronista: frugare tra gli scritti, intervistare, documentarsi e riferire, astenendosi dal pronunciare giudizi. Lavoro egregio il suo. Con un particolare: in “PIERLUIGI MICHELI MEDICO UMANISTA”, sovra titola: “Imago animi sermo est”. Non è parola di Dio ma di Seneca. Che, per rimarcare, aggiunge: qualis vir, talis oratio, ossia: la parola è specchio dell’anima; l’uomo e il suo parlare coincidono.

Martano definisce il Micheli “medico umanista”. La mia domanda provocatoria è sempre stata questa: perché umanista e non santo? Ormai, a dieci anni dalla morte, personalmente, pur con i limiti delle mie conoscenze, mi sento di poter ribadire in coscienza, libertà e senza impegnare nessuno, che Pierluigi è santo. Proprio così: santo. La santità non ha bisogno di vesti sgargianti. Normalmente non si apre la strada a colpi di miracoli o di gesti spettacolari. In fondo, la santità è la condizione normale della vocazione cristiana, non un attributo di lusso per pochi, né esclusiva dei chiamati alla vita religiosa.  

Io nel medico Micheli, laico, vedo una santità complementare a quella di San Riccardo Pampuri, medico-frate. Connubio che si celebra nello stesso luogo: L’Ospedale San Giuseppe. Il primo viene portato lì a morire. L’altro, eredita, mette a frutto e consegna a sua volta il patrimonio. Dobbiamo riconoscerlo: di entrambi i modelli abbiamo bisogno. Allora perché non provare a scoprire “quel non so che” che caratterizza entrambi, con la chiave di lettura fornita dall’Apostolo Paolo e indicata dal filosofo Guitton?

Per ora Pierluigi appartiene alla legione dei santi ignorati, di cui s’è parlato. Forse più d’uno, man mano, si andrà accorgendo che lì, in quella stoffa di broccato, negl’intrecci della tessitura, durata 85 anni, nei fili di rilievo che formano disegni di trama, il progetto di Dio, c’è un santo davvero. Ho avuto già modo di dire che, forse, è per eccesso di prudenza che si tende a sottolineare in lui l’umanista, perché è soluzione non compromettente, asettica, senza rischio. Il fatto però che se ne parli, una qualche ragione ci dovrà pur essere. I motivi sono elencati proprio nell’inno dell’agàpe, dove si dice molto esplicitamente: chi ama è, chi non ama, non è:

  • “Chi ama è paziente e generoso, non è invidioso, non si vanta, non si gonfia di orgoglio,

  • è rispettoso, non cerca il proprio interesse, non cede alla collera,

  • dimentica i torti, non gode dell’ingiustizia,

  • la verità è la sua gioia, tutto scusa, di tutti ha fiducia, tutto sopporta, mai perde la speranza”. Chi di coloro che l’hanno conosciuto non scorge in questo incalzante ritmo sinfonico il ritratto del Dr. Micheli, “Piero” per gli amici?

PRENDERE ESEMPIO DALLA CATTEDRA DEI NON CREDENTI

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Prendere esempio dalla
  
CATTEDRA DEI NON CREDENTI
 

Da un  Maestro della Fede, il Card. Carlo Maria Martini, ci vengono le indicazioni per muovere i nostri timidi passi.

  

 
 
 
 

Alcune righe di una premessa del Cardinale Martini ad un libro “Cattedra dei non credenti” sono state decisive per costruire questa nuova forma di dialogo prezioso per credenti e non:

  • “Io ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente che si parlano dentro, che si interrogano a vicenda che rimandano continuamente domande pungenti l’uno all’altro.

  •  Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa.

  • E’ importante l’appropriazione di questo dialogo interiore, poiché permette a ciascuno di crescere nella coscienza di sé.

  • La chiarezza e la sincerità di tale dialogo si pongono come sintomo di raggiunta maturità umana.”

La sofferenza pone inevitabilmente interrogativi inquietanti: perché? Perché proprio me? Cos’ho fatto di male?

Dentro molte persone cova il desiderio di una comunicazione spirituale sulle ragioni fondamentali del credere e sui dubbi e la fatica che il credere comporta. Spesso questo desiderio non riesce a trovare una forma espressiva che non sia il dibattito sul dolore  o la conferenza sulla fede.

 

La metodologia che la “cattedra dei non credenti” ha  proposto è invece una esercitazione dello spirito, quasi una ricerca su di sé, sulle ragioni del credere e del non credere, compiendo questo esercizio senza difese, con radicale onestà, un parlarsi autenticamente che ha una sua dignità ed una sua intoccabilità che finisce per coinvolgere chi ascolta.

Il credente che è in noi, infatti, è consapevole di non poter dire tutto di Dio e avverte la necessità di un’umile ricerca, di un annuncio essenziale, di un nuovo linguaggio, di riscoprire le ragioni ultime di un suo assenso religioso. E’ più aperto al dialogo, più libero e sereno di poter esprimere con più franchezza le ragioni ed i sentimenti del cuore.

Ha imparato dall’esperienza di vita che la fede non è qualcosa di commerciabile e che il dialogo, dunque, non mira a convincere ma ad ascoltare quel che c’è nella mente e nel cuore di ogni persona.

Anche il non credente che c’è in noi è più capace di esaminare, a livello di coscienza, le radici della propria lontananza e insieme disponibile a riconoscere domande, segni, tracce che ripropongono la questione decisiva e globale della vita.

Nella misura in cui ci rendiamo trasparenti alla nostra coscienza sapremo essere fino in fondo liberi nella comunicazione spirituale.

Questo metodo implica alcune condizioni irrinunciabili: la volontà sincera di confrontarsi, l’accoglienza umile e benevola di ciascuno verso l’altro senza il bisogno subito di rispondere rimbeccando o correggendo o chiarendo, ma lasciando che le interrogazioni prendano la forma del proprio corpo e della propria esperienza.

 

Noi, se sarà necessario, molto modestamente, proveremo a  ricercare insieme alcuni itinerari spirituali che riteniamo essenziali e molto presenti nel pensiero e nel cuore delle persone.

Ma verrà lasciato molto all’iniziativa individuale che vuole privilegiare l’intimo più che l’intelletuale, senza per nulla rinunciare all’infaticabile controllo della ragione, testimoniando in quella zona di confine dove il credente e il non credente in noi sinceramente si parlano”.

Questo percorso della cattedra dei sofferenti lo poniamo sotto lo sguardo di Maria, la grande esperta e donna dei “sette dolori”,  alla quale il Vecchio Simeone ha profetizzato: ” Una spada ti trapasserà il cuore!”. 

Addolorata

Maria di Nazareth, la Donna dei dolori 

 

Benedetto XVI agli artisti: la bellezza, via verso Dio

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“Scrutando i segni dei tempi abbiamo visto che il nostro primo dovere in questo momento storico è annunciare il Vangelo di Cristo, poiché il Vangelo è vera fonte di libertà e di umanità”.

Card. Joseph Ratzinger 

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Benedetto XVI agli artisti:  

la bellezza, via verso Dio

 

Incontro nella Cappella Sistina

CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 22 novembre 2009 (ZENIT.org).-

Pubblichiamo il discorso che Benedetto XVI ha pronunciato questo sabato ricevendo 250 artisti di fama internazionale nella Cappella Sistina.

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Benedetto XVI - 2Signori Cardinali,

venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,

illustri Artisti,

Signore e Signori!

  

Con grande gioia vi accolgo in questo luogo solenne e ricco di arte e di memorie. Rivolgo a tutti e a ciascuno il mio cordiale saluto, e vi ringrazio per aver accolto il mio invito. Con questo incontro desidero esprimere e rinnovare l’amicizia della Chiesa con il mondo dell’arte, un’amicizia consolidata nel tempo, poiché il Cristianesimo, fin dalle sue origini, ha ben compreso il valore delle arti e ne ha utilizzato sapientemente i multiformi linguaggi per comunicare il suo immutabile messaggio di salvezza.

Questa amicizia va continuamente promossa e sostenuta, affinché sia autentica e feconda, adeguata ai tempi e tenga conto delle situazioni e dei cambiamenti sociali e culturali. Ecco il motivo di questo nostro appuntamento. Ringrazio di cuore Mons. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, per averlo promosso e preparato, con i suoi collaboratori, come pure per le parole che mi ha poc’anzi rivolto. Saluto i Signori Cardinali, i Vescovi, i Sacerdoti e le distinte Personalità presenti. Ringrazio anche la Cappella Musicale Pontificia Sistina che accompagna questo significativo momento.

Protagonisti di questo incontro siete voi, cari e illustri Artisti, appartenenti a Paesi, culture e religioni diverse, forse anche lontani da esperienze religiose, ma desiderosi di mantenere viva una comunicazione con la Chiesa cattolica e di non restringere gli orizzonti dell’esistenza alla mera materialità, ad una visione riduttiva e banalizzante. Voi rappresentate il variegato mondo delle arti e, proprio per questo, attraverso di voi vorrei far giungere a tutti gli artisti il mio invito all’amicizia, al dialogo, alla collaborazione.

Alcune significative circostanze arricchiscono questo momento. Ricordiamo il decennale della Lettera agli Artisti del mio venerato predecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo II. Per la prima volta, alla vigilia del Grande Giubileo dell’Anno 2000, questo Pontefice, anch’egli artista, scrisse direttamente agli artisti con la solennità di un documento papale e il tono amichevole di una conversazione tra “quanti – come recita l’indirizzo -, con appassionata dedizione, cercano nuove «epifanie» della bellezza”.

Lo stesso Papa, venticinque anni or sono, aveva proclamato patrono degli artisti il Beato Angelico, indicando in lui un modello di perfetta sintonia tra fede e arte.

Il mio pensiero va, poi, al 7 maggio del 1964, quarantacinque anni fa, quando, in questo stesso luogo, si realizzava uno storico evento, fortemente voluto dal Papa Paolo VI per riaffermare l’amicizia tra la Chiesa e le arti. Le parole che ebbe a pronunciare in quella circostanza risuonano ancor oggi sotto la volta di questa Cappella Sistina, toccando il cuore e l’intelletto.

paolo-vi-197_paolo_vi“Noi abbiamo bisogno di voi – egli disse -. Il Nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione. Perché, come sapete, il Nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione… voi siete maestri. E’ il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità” (Insegnamenti II, [1964], 313). Tanta era la stima di Paolo VI per gli artisti, da spingerlo a formulare espressioni davvero ardite: “E se Noi mancassimo del vostro ausilio – proseguiva -, il ministero diventerebbe balbettante ed incerto e avrebbe bisogno di fare uno sforzo, diremmo, di diventare esso stesso artistico, anzi di diventare profetico.

Per assurgere alla forza di espressione lirica della bellezza intuitiva, avrebbe bisogno di far coincidere il sacerdozio con l’arte” (Ibid., 314). In quella circostanza, Paolo VI assunse l’ impegno di “ristabilire l’amicizia tra la Chiesa e gli artisti”, e chiese loro di farlo proprio e di condividerlo, analizzando con serietà e obiettività i motivi che avevano turbato tale rapporto e assumendosi ciascuno con coraggio e passione la responsabilità di un rinnovato, approfondito itinerario di conoscenza e di dialogo, in vista di un’autentica “rinascita” dell’arte, nel contesto di un nuovo umanesimo.

Quello storico incontro, come dicevo, avvenne qui, in questo santuario di fede e di creatività umana. Non è dunque casuale il nostro ritrovarci proprio in questo luogo, prezioso per la sua architettura e per le sue simboliche dimensioni, ma ancora di più per gli affreschi che lo rendono inconfondibile, ad iniziare dai capolavori di Perugino e Botticelli, Ghirlandaio e Cosimo Rosselli, Luca Signorelli ed altri, per giungere alle Storie della Genesi e al Giudizio Universale, opere eccelse di Michelangelo Buonarroti, che qui ha lasciato una delle creazioni più straordinarie di tutta la storia dell’arte.

Qui è anche risuonato spesso il linguaggio universale della musica, grazie al genio di grandi musicisti, che hanno posto la loro arte al servizio della liturgia, aiutando l’anima ad elevarsi a Dio. Al tempo stesso, la Cappella Sistina è uno scrigno singolare di memorie, giacché costituisce lo scenario, solenne ed austero, di eventi che segnano la storia della Chiesa e dell’umanità. Qui, come sapete, il Collegio dei Cardinali elegge il Papa; qui ho vissuto anch’io, con trepidazione e assoluta fiducia nel Signore, il momento indimenticabile della mia elezione a Successore dell’apostolo Pietro.

Cari amici, lasciamo che questi affreschi ci parlino oggi, attirandoci verso la méta ultima della storia umana. Il Giudizio Universale, che campeggia alle mie spalle, ricorda che la storia dell’umanità è movimento ed ascensione, è inesausta tensione verso la pienezza, verso la felicità ultima, verso un orizzonte che sempre eccede il presente mentre lo attraversa.

Nella sua drammaticità, però, questo affresco pone davanti ai nostri occhi anche il pericolo della caduta definitiva dell’uomo, minaccia che incombe sull’umanità quando si lascia sedurre dalle forze del male. L’affresco lancia perciò un forte grido profetico contro il male; contro ogni forma di ingiustizia. Ma per i credenti il Cristo risorto è la Via, la Verità e la Vita. Per chi fedelmente lo segue è la Porta che introduce in quel “faccia a faccia”, in quella visione di Dio da cui scaturisce senza più limitazioni la felicità piena e definitiva. Michelangelo offre così alla nostra visione l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine della storia, e ci invita a percorrere con gioia, coraggio e speranza l’itinerario della vita.

La drammatica bellezza della pittura michelangiolesca, con i suoi colori e le sue forme, si fa dunque annuncio di speranza, invito potente ad elevare lo sguardo verso l’orizzonte ultimo. Il legame profondo tra bellezza e speranza costituiva anche il nucleo essenziale del suggestivo Messaggio che Paolo VI indirizzò agli artisti alla chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II, l’8 dicembre 1965: “A voi tutti – egli proclamò solennemente – la Chiesa del Concilio dice con la nostra voce: se voi siete gli amici della vera arte, voi siete nostri amici!” (Enchiridion Vaticanum, 1, p. 305).

Ed aggiunse: “Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione. E questo grazie alle vostre mani… Ricordatevi che siete i custodi della bellezza nel mondo” (Ibid.).

Il momento attuale è purtroppo segnato, oltre che da fenomeni negativi a livello sociale ed economico, anche da un affievolirsi della speranza, da una certa sfiducia nelle relazioni umane, per cui crescono i segni di rassegnazione, di aggressività, di disperazione. Il mondo in cui viviamo, poi, rischia di cambiare il suo volto a causa dell’opera non sempre saggia dell’uomo il quale, anziché coltivarne la bellezza, sfrutta senza coscienza le risorse del pianeta a vantaggio di pochi e non di rado ne sfregia le meraviglie naturali.

Che cosa può ridare entusiasmo e fiducia, che cosa può incoraggiare l’animo umano a ritrovare il cammino, ad alzare lo sguardo sull’orizzonte, a sognare una vita degna della sua vocazione se non la bellezza? Voi sapete bene, cari artisti, che l’esperienza del bello, del bello autentico, non effimero né superficiale, non è qualcosa di accessorio o di secondario nella ricerca del senso e della felicità, perché tale esperienza non allontana dalla realtà, ma, al contrario, porta ad un confronto serrato con il vissuto quotidiano, per liberarlo dall’oscurità e trasfigurarlo, per renderlo luminoso, bello.

Una funzione essenziale della vera bellezza, infatti, già evidenziata da Platone, consiste nel comunicare all’uomo una salutare “scossa”, che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all’accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce, ma proprio in questo modo lo “risveglia” aprendogli nuovamente gli occhi del cuore e della mente, mettendogli le ali, sospingendolo verso l’alto.

L’espressione di Dostoevskij che sto per citare è senz’altro ardita e paradossale, ma invita a riflettere: “L’umanità può vivere – egli dice – senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui”.

Gli fa eco il pittore Georges Braque: “L’arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura”. La bellezza colpisce, ma proprio così richiama l’uomo al suo destino ultimo, lo rimette in marcia, lo riempie di nuova speranza, gli dona il coraggio di vivere fino in fondo il dono unico dell’esistenza. La ricerca della bellezza di cui parlo, evidentemente, non consiste in alcuna fuga nell’irrazionale o nel mero estetismo.

Troppo spesso, però, la bellezza che viene propagandata è illusoria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento e, invece di far uscire gli uomini da sé e aprirli ad orizzonti di vera libertà attirandoli verso l’alto, li imprigiona in se stessi e li rende ancor più schiavi, privi di speranza e di gioia. Si tratta di una seducente ma ipocrita bellezza, che ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di sopraffazione sull’altro e che si trasforma, ben presto, nel suo contrario, assumendo i volti dell’oscenità, della trasgressione o della provocazione fine a se stessa.

L’autentica bellezza, invece, schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso l’Oltre da sé. Se accettiamo che la bellezza ci tocchi intimamente, ci ferisca, ci apra gli occhi, allora riscopriamo la gioia della visione, della capacità di cogliere il senso profondo del nostro esistere, il Mistero di cui siamo parte e da cui possiamo attingere la pienezza, la felicità, la passione dell’impegno quotidiano.

Giovanni Paolo II, nella Lettera agli Artisti, cita, a tale proposito, questo verso di un poeta polacco, Cyprian Norwid: “La bellezza è per entusiasmare al lavoro, / il lavoro è per risorgere” (n. 3). E più avanti aggiunge: “In quanto ricerca del bello, frutto di un’immaginazione che va al di là del quotidiano, l’arte è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione” (n. 10). E nella conclusione afferma: “La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente” (n. 16).

Queste ultime espressioni ci spingono a fare un passo in avanti nella nostra riflessione. La bellezza, da quella che si manifesta nel cosmo e nella natura a quella che si esprime attraverso le creazioni artistiche, proprio per la sua caratteristica di aprire e allargare gli orizzonti della coscienza umana, di rimandarla oltre se stessa, di affacciarla sull’abisso dell’Infinito, può diventare una via verso il Trascendente, verso il Mistero ultimo, verso Dio.

L’arte, in tutte le sue espressioni, nel momento in cui si confronta con i grandi interrogativi dell’esistenza, con i temi fondamentali da cui deriva il senso del vivere, può assumere una valenza religiosa e trasformarsi in un percorso di profonda riflessione interiore e di spiritualità. Questa affinità, questa sintonia tra percorso di fede e itinerario artistico, l’attesta un incalcolabile numero di opere d’arte che hanno come protagonisti i personaggi, le storie, i simboli di quell’immenso deposito di “figure” – in senso lato – che è la Bibbia, la Sacra Scrittura.

Le grandi narrazioni bibliche, i temi, le immagini, le parabole hanno ispirato innumerevoli capolavori in ogni settore delle arti, come pure hanno parlato al cuore di ogni generazione di credenti mediante le opere dell’artigianato e dell’arte locale, non meno eloquenti e coinvolgenti.

Si parla, in proposito, di una via pulchritudinis, una via della bellezza che costituisce al tempo stesso un percorso artistico, estetico, e un itinerario di fede, di ricerca teologica. Il teologo Hans Urs von Balthasar apre la sua grande opera intitolata Gloria. Un’estetica teologica con queste suggestive espressioni: “La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto”.

 Osserva poi: “Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma che ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza. Essa è la bellezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione”.

E conclude: “Chi, al suo nome, increspa al sorriso le labbra, giudicandola come il ninnolo esotico di un passato borghese, di costui si può essere sicuri che – segretamente o apertamente – non è più capace di pregare e, presto, nemmeno di amare”.

La via della bellezza ci conduce, dunque, a cogliere il Tutto nel frammento, l’Infinito nel finito, Dio nella storia dell’umanità. Simone Weil scriveva a tal proposito: “In tutto quel che suscita in noi il sentimento puro ed autentico del bello, c’è realmente la presenza di Dio.

C’è quasi una specie di incarnazione di Dio nel mondo, di cui la bellezza è il segno. Il bello è la prova sperimentale che l’incarnazione è possibile. Per questo ogni arte di prim’ordine è, per sua essenza, religiosa”. Ancora più icastica l’affermazione di Hermann Hesse: “Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio”.

Facendo eco alle parole del Papa Paolo VI, il Servo di Dio Giovanni Paolo II ha riaffermato il desiderio della Chiesa di rinnovare il dialogo e la collaborazione con gli artisti: “Per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte” (Lettera agli Artisti, n. 12); ma domandava subito dopo: “L’arte ha bisogno della Chiesa?”, sollecitando così gli artisti a ritrovare nella esperienza religiosa, nella rivelazione cristiana e nel “grande codice” che è la Bibbia una sorgente di rinnovata e motivata ispirazione.

Cari Artisti, avviandomi alla conclusione, vorrei rivolgervi anch’io, come già fece il mio Predecessore, un cordiale, amichevole ed appassionato appello. Voi siete custodi della bellezza; voi avete, grazie al vostro talento, la possibilità di parlare al cuore dell’umanità, di toccare la sensibilità individuale e collettiva, di suscitare sogni e speranze, di ampliare gli orizzonti della conoscenza e dell’impegno umano.

Siate perciò grati dei doni ricevuti e pienamente consapevoli della grande responsabilità di comunicare la bellezza, di far comunicare nella bellezza e attraverso la bellezza! Siate anche voi, attraverso la vostra arte, annunciatori e testimoni di speranza per l’umanità! E non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare con i credenti, con chi, come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita!

La fede non toglie nulla al vostro genio, alla vostra arte, anzi li esalta e li nutre, li incoraggia a varcare la soglia e a contemplare con occhi affascinati e commossi la méta ultima e definitiva, il sole senza tramonto che illumina e fa bello il presente.

Sant’Agostino, cantore innamorato della bellezza, riflettendo sul destino ultimo dell’uomo e quasi commentando ante litteram la scena del Giudizio che avete oggi davanti ai vostri occhi, così scriveva: “Godremo, dunque di una visione, o fratelli, mai contemplata dagli occhi, mai udita dalle orecchie, mai immaginata dalla fantasia: una visione che supera tutte le bellezze terrene, quella dell’oro, dell’argento, dei boschi e dei campi, del mare e del cielo, del sole e della luna, delle stelle e degli angeli; la ragione è questa: che essa è la fonte di ogni altra bellezza” (In Ep. Jo. Tr. 4,5: PL 35, 2008).

Auguro a tutti voi, cari Artisti, di portare nei vostri occhi, nelle vostre mani, nel vostro cuore questa visione, perché vi dia gioia e ispiri sempre le vostre opere belle. Mentre di cuore vi benedico, vi saluto, come già fece Paolo VI, con una sola parola: arrivederci!

[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]

  

 CATECHESI

 

PER L’UDIENZA GENERALE

 

DEL MERCOLEDI’

  

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 18 novembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI incontrando i fedeli e i pellegrini nell’Aula Paolo VI per la tradizionale Udienza generale.

Il Pontefice ha incentrato la sua meditazione sulle Cattedrali europee nel Medioevo cristiano.

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Benedetto XVI Papa della Chiesa CattolicaCari fratelli e sorelle!

Nelle catechesi delle scorse settimane ho presentato alcuni aspetti della teologia medievale. Ma la fede cristiana, profondamente radicata negli uomini e nelle donne di quei secoli, non diede origine soltanto a capolavori della letteratura teologica, del pensiero e della fede.

Essa ispirò anche una delle creazioni artistiche più elevate della civiltà universale: le cattedrali, vera gloria del Medioevo cristiano. Infatti, per circa tre secoli, a partire dal principio del secolo XI si assistette in Europa a un fervore artistico straordinario.

Un antico cronista descrive così l’entusiasmo e la laboriosità di quel tempo: “Accadde che in tutto il mondo, ma specialmente in Italia e nelle Gallie, si incominciasse a ricostruire le chiese, sebbene molte, per essere ancora in buone condizioni, non avessero bisogno di tale restaurazione.

Era come una gara tra un popolo e l’altro; si sarebbe creduto che il mondo, scuotendosi di dosso i vecchi cenci, volesse rivestirsi dappertutto della bianca veste di nuove chiese. Insomma, quasi tutte le chiese cattedrali, un gran numero di chiese monastiche, e perfino oratori di villaggio, furono allora restaurati dai fedeli” (Rodolfo il Glabro, Historiarum 3,4).

Vari fattori contribuirono a questa rinascita dell’architettura religiosa. Anzitutto, condizioni storiche più favorevoli, come una maggiore sicurezza politica, accompagnata da un costante aumento della popolazione e dal progressivo sviluppo delle città, degli scambi e della ricchezza. Inoltre, gli architetti individuavano soluzioni tecniche sempre più elaborate per aumentare le dimensioni degli edifici, assicurandone allo stesso tempo la saldezza e la maestosità.

Fu però principalmente grazie all’ardore e allo zelo spirituale del monachesimo in piena espansione che vennero innalzate chiese abbaziali, dove la liturgia poteva essere celebrata con dignità e solennità, e i fedeli potevano sostare in preghiera, attratti dalla venerazione delle reliquie dei santi, mèta di incessanti pellegrinaggi.

Nacquero così le chiese e le cattedrali romaniche, caratterizzate dallo sviluppo longitudinale, in lunghezza, delle navate per accogliere numerosi fedeli; chiese molto solide, con muri spessi, volte in pietra e linee semplici ed essenziali. Una novità è rappresentata dall’introduzione delle sculture. Essendo le chiese romaniche il luogo della preghiera monastica e del culto dei fedeli, gli scultori, più che preoccuparsi della perfezione tecnica, curarono soprattutto la finalità educativa.

Poiché bisognava suscitare nelle anime impressioni forti, sentimenti che potessero incitare a fuggire il vizio, il male, e a praticare la virtù, il bene, il tema ricorrente era la rappresentazione di Cristo come giudice universale, circondato dai personaggi dell’Apocalisse. Sono in genere i portali delle chiese romaniche a offrire questa raffigurazione, per sottolineare che Cristo è la Porta che conduce al Cielo. I fedeli, oltrepassando la soglia dell’edificio sacro, entrano in un tempo e in uno spazio differenti da quelli della vita ordinaria.

Oltre il portale della chiesa, i credenti in Cristo, sovrano, giusto e misericordioso, nell’intenzione degli artisti potevano gustare un anticipo della beatitudine eterna nella celebrazione della liturgia e negli atti di pietà svolti all’interno dell’edificio sacro.

Nel secoli XII e XIII, a partire dal nord della Francia, si diffuse un altro tipo di architettura nella costruzione degli edifici sacri, quella gotica, con due caratteristiche nuove rispetto al romanico, e cioè lo slancio verticale e la luminosità. Le cattedrali gotiche mostravano una sintesi di fede e di arte armoniosamente espressa attraverso il linguaggio universale e affascinante della bellezza, che ancor oggi suscita stupore.

Grazie all’introduzione delle volte a sesto acuto, che poggiavano su robusti pilastri, fu possibile innalzarne notevolmente l’altezza. Lo slancio verso l’alto voleva invitare alla preghiera ed era esso stesso una preghiera. La cattedrale gotica intendeva tradurre così, nelle sue linee architettoniche, l’anelito delle anime verso Dio.

Inoltre, con le nuove soluzioni tecniche adottate, i muri perimetrali potevano essere traforati e abbelliti da vetrate policrome. In altre parole, le finestre diventavano grandi immagini luminose, molto adatte ad istruire il popolo nella fede. In esse – scena per scena – venivano narrati la vita di un santo, una parabola, o altri eventi biblici. Dalle vetrate dipinte una cascata di luce si riversava sui fedeli per narrare loro la storia della salvezza e coinvolgerli in questa storia.

Un altro pregio delle cattedrali gotiche è costituito dal fatto che alla loro costruzione e alla loro decorazione, in modo differente ma corale, partecipava tutta la comunità cristiana e civile; partecipavano gli umili e i potenti, gli analfabeti e i dotti, perché in questa casa comune tutti i credenti erano istruiti nella fede.

La scultura gotica ha fatto delle cattedrali una “Bibbia di pietra”, rappresentando gli episodi del Vangelo e illustrando i contenuti dell’anno liturgico, dalla Natività alla Glorificazione del Signore. In quei secoli, inoltre, si diffondeva sempre di più la percezione dell’umanità del Signore, e i patimenti della sua Passione venivano rappresentati in modo realistico: il Cristo sofferente (Christus patiens) divenne un’immagine amata da tutti, ed atta a ispirare pietà e pentimento per i peccati. Né mancavano i personaggi dell’Antico Testamento, la cui storia divenne in tal modo familiare ai fedeli che frequentavano le cattedrali come parte dell’unica, comune storia di salvezza.

Con i suoi volti pieni di bellezza, di dolcezza, di intelligenza, la scultura gotica del secolo XIII rivela una pietà felice e serena, che si compiace di effondere una devozione sentita e filiale verso la Madre di Dio, vista a volte come una giovane donna, sorridente e materna, e principalmente rappresentata come la sovrana del cielo e della terra, potente e misericordiosa. I fedeli che affollavano le cattedrali gotiche amavano trovarvi anche espressioni artistiche che ricordassero i santi, modelli di vita cristiana e intercessori presso Dio. E non mancarono le manifestazioni “laiche” dell’esistenza; ecco allora apparire, qua e là, rappresentazioni del lavoro dei campi, delle scienze e delle arti.

Tutto era orientato e offerto a Dio nel luogo in cui si celebrava la liturgia. Possiamo comprendere meglio il senso che veniva attribuito a una cattedrale gotica, considerando il testo dell’iscrizione incisa sul portale centrale di Saint-Denis, a Parigi: “Passante, che vuoi lodare la bellezza di queste porte, non lasciarti abbagliare né dall’oro, né dalla magnificenza, ma piuttosto dal faticoso lavoro.

Qui brilla un’opera famosa, ma voglia il cielo che quest’opera famosa che brilla faccia splendere gli spiriti, affinché con le verità luminose s’incamminino verso la vera luce, dove il Cristo è la vera porta”.

Cari fratelli e sorelle, mi piace ora sottolineare due elementi dell’arte romanica e gotica utili anche per noi. Il primo: i capolavori artistici nati in Europa nei secoli passati sono incomprensibili se non si tiene conto dell’anima religiosa che li ha ispirati. Un artista, che ha testimoniato sempre l’incontro tra estetica e fede, Marc Chagall, ha scritto che “i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che era la Bibbia”.

Quando la fede, in modo particolare celebrata nella liturgia, incontra l’arte, si crea una sintonia profonda, perché entrambe possono e vogliono parlare di Dio, rendendo visibile l’Invisibile. Vorrei condividere questo nell’incontro con gli artisti del 21 novembre, rinnovando ad essi quella proposta di amicizia tra la spiritualità cristiana e l’arte, auspicata dai miei venerati Predecessori, in particolare dai Servi di Dio Paolo VI e Giovanni Paolo II.

Il secondo elemento: la forza dello stile romanico e lo splendore delle cattedrali gotiche ci rammentano che la via pulchritudinis, la via della bellezza, è un percorso privilegiato e affascinante per avvicinarsi al Mistero di Dio. Che cos’è la bellezza, che scrittori, poeti, musicisti, artisti contemplano e traducono nel loro linguaggio, se non il riflesso dello splendore del Verbo eterno fatto carne?

Afferma sant’Agostino: “Interroga la bellezza della terra, interroga la bellezza del mare, interroga la bellezza dell’aria diffusa e soffusa. Interroga la bellezza del cielo, interroga l’ordine delle stelle, interroga il sole, che col suo splendore rischiara il giorno; interroga la luna, che col suo chiarore modera le tenebre della notte. Interroga le fiere che si muovono nell’acqua, che camminano sulla terra, che volano nell’aria: anime che si nascondono, corpi che si mostrano; visibile che si fa guidare, invisibile che guida. Interrogali! Tutti ti risponderanno: Guardaci: siamo belli! La loro bellezza li fa conoscere. Questa bellezza mutevole chi l’ha creata, se non la Bellezza Immutabile?” (Sermo CCXLI, 2: PL 38, 1134).

Cari fratelli e sorelle, ci aiuti il Signore a riscoprire la via della bellezza come uno degli itinerari, forse il più attraente ed affascinante, per giungere ad incontrare ed amare Dio.

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Rivolgo ora un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, sono lieto di rivolgere il mio benvenuto ai Signori Cardinali, ai Vescovi e a tutti i membri dell’Assemblea Plenaria della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, presieduta dal Cardinale Ivan Dias. La vostra presenza mi offre l’opportunità di rinnovare a ciascuno l’espressione della mia viva gratitudine per il generoso impegno con il quale operate a favore della diffusione del messaggio evangelico.

Affido alla protezione di Maria Santissima, Regina degli Apostoli, questa vostra Plenaria, invocando la sua materna assistenza su quanti sono coinvolti nell’azione missionaria in ogni angolo della terra. Saluto i sacerdoti dell’Arcidiocesi di Taranto, accompagnati dal loro Pastore Mons. Benigno Papa, e li esorto a cercare con sollecitudine “le cose di lassù” (Col, 3,1) per essere testimoni sempre più credibili del primato di Dio. Saluto i rappresentanti della Federazione Italiana degli Addetti al Culto ed esprimo il mio cordiale compiacimento per l’opera importante che essi svolgono nella preparazione e nella cura degli spazi liturgici, come pure dei Beni culturali custoditi nelle chiese.

Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. Nell’odierna Liturgia celebriamo la Dedicazione della Basilica di San Pietro in Vaticano e di quella di San Paolo sulla via Ostiense. Questa festa ci offre l’occasione di porre in luce il significato ed il valore della Chiesa. Cari giovani, amate la Chiesa e cooperate con entusiasmo alla sua edificazione. Cari malati, vivete l’offerta della vostra sofferenza come un contributo prezioso alla crescita spirituale delle comunità cristiane. E voi, cari sposi novelli, siate nel mondo un segno vivo dell’amore di Cristo.

Dopodomani si terrà presso le Nazioni Unite la Giornata Mondiale di Preghiera e di Azione per i Bambini, in occasione del 20° anniversario dell’adozione della Convenzione sui diritti del fanciullo. Il mio pensiero va a tutti i bambini del mondo, specialmente a quanti vivono in condizioni difficili e soffrono a causa della violenza, degli abusi, della malattia, della guerra o della fame.

Vi invito ad unirvi alla mia preghiera e, al tempo stesso, faccio appello alla Comunità internazionale affinchè si moltiplichino gli sforzi per offrire un’adeguata risposta ai drammatici problemi dell’infanzia. Non manchi il generoso impegno di tutti affinchè siano riconosciuti i diritti dei fanciulli e rispettata sempre più la loro dignità.

 

[© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana]

 

Sospinti verso l’alto:

la bellezza di Benedetto commuove gli artisti

 

Giuseppe Frangi

Direttore di Vita non profit magazine

Giuseppe Frangi

Direttore di Vita non profit magazine e del sito www.vita.it. Esperienza unica nel suo genere di informazione dedicata al mondo dell’associazionismo e dell’economia sociale. In passato ha lavorato per il Sabato, 30 Giorni, La Stampa e Class. È presidente dell’Associazione Giovanni Testori e tiene viva la sua passione per l’arte con un blog http://robedachiodi.wordpress.com/

  

mercoledì 25 novembre 2009

 Il primo dato che salta all’occhio dopo l’incontro del Papa con una larghissima rappresentanza di artisti, avvenuto sabato scorso in Vaticano, è quello di una condivisa e sincera contentezza. Non c’è stato uno dei partecipanti che non l’abbia espressa: e la “formazione”, messa a punto, con la consueta abilità, da Gianfranco Ravasi era davvero una formazione senza etichette e senza preclusioni culturali. In una parola, senza steccati. Non era quindi un esito scontato, anche perché agli artisti si chiedeva per una volta di fare un passo indietro e di mettersi in posizione di ascolto. Per di più, chi prendeva la parola era una grande istituzione, come la Chiesa, verso la quale gran parte degli uomini di cultura da tempo guardano con sospetto e circospezione. 

Dobbiamo chiederci allora cosa abbia fatto scattare questa reazione unanime e condivisa di “contentezza” per l’incontro e per le parole ascoltate. Secondo me sono entrati in gioco due fattori decisivi e forse imprevisti. Il primo è il fatto che questo incontro è stato recepito come un grande gesto di stima, in particolare da parte del Papa, verso il lavoro di chi fa cultura: l’aver pensato a una “location” straordinariamente bella e emozionante come la Sistina ha confermato subito a tutti questa impressione. In questi tempi la stima per chi fa cultura o non esiste affatto o è condizionata a logiche di schieramento ideologico e politico. Il Papa invece ha dato un segnale di apertura e di fiducia che è sembrata a tutti i presenti come l’inizio di un qualcosa di nuovo: è significativo ad esempio che un personaggio certo poco accondiscendente verso la le posizioni della Chiesa come Nanni Moretti fosse presente e abbia ritenuto utile e costruttivo sottoporre al parere di monsignor Ravasi la sceneggiatura del suo prossimo film.

Il secondo fattore è invece emerso con chiarezza dal discorso di Benedetto XVI. C’è in quel discorso una parola che ricorre ben 36 volte: ed è la parola “bellezza”. Se c’è stima per quello che gli uomini e le donne di cultura fanno, da parte del Papa ce n’è ancora di più per quello che è il loro compito: dare forma alla bellezza. Ma la bellezza non è una forma precostituita, non è un canone nel quale adagiarsi. La bellezza è un’esperienza in atto, è un fattore di movimento che introduce anche un’inquietudine: perché spalanca davanti agli uomini domande sul destino, provoca uno struggimento verso un oltre, verso un infinito. La bellezza, ha detto il Papa, «fa uscire l’uomo da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all’accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce, ma proprio in questo modo lo “risveglia” aprendogli nuovamente gli occhi del cuore e della mente, mettendogli le ali, sospingendolo verso l’alto». E per rafforzare questo suo concetto ha anche ripreso una bellissima frase di Georges Braque, il pittore che a inizio ’900 insieme a Picasso aveva fondato il cubismo: «L’arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura».

Generare una bellezza capace di «rimettere in marcia» l’uomo: come non essere contenti di aver un compito così? Come non cogliere con uno slancio nuovo l’importanza anche storica e concreta del proprio compito? Alla Sistina, sabato scorso, è certamente scattato qualcosa che può rimettere in movimento tante cose, lasciando indietro tutti i conservatorismi di qualsiasi colore siano. In un certo senso è finito il “veltronismo” come idea di una cultura coccolata e tutta ombelicale. Ma è stata messa in soffitta anche la cultura dell’eterna recriminazione contro la modernità. La sfida è lanciata, anche concretamente. E la Chiesa si è presa il primo rischio: la grande idea di aprire un padiglione vaticano alla prossima Biennale di Venezia, sarà la prima affascinante verifica del cammino avviato. 

http://www.ilsussidiario.net

 

 

sequeriLa bellezza di Dio e i suoi segni ci

conservano il mondo.

 

Papa Benedetto, i sensi, l’anima

Ormai, anche le pietre ci supplicano. Nella vecchia Europa, di “alto” non vola quasi più niente, neanche gli stracci. Siamo peccatori, noi umani comuni, è vero. Eppure, siamo gente capace di sopportare molto, per qualche segno bello dello spirito, che ci rimescola dentro, e ci fa venir voglia di spiegare ai nostri figli che cosa significa davvero «non di solo pane vive l’uomo». Il pane è necessario, e guadagnarselo è un sacrosanto dovere. Col pane campiamo. Ma è di ben altro che viviamo.

 Non è una faccenda per chierici e intellettuali (non ci sottovalutate, grilli parlanti della scena mediatica), si tratta della nostra vita migliore. Parliamo del tasso di insopportabilità della grande apostasia dell’anima, nella quale ci volete civilizzare a tutti i costi: al quale fa seguito – ne avvertiamo i sintomi, nelle generazioni in arrivo – la grande anestesia degli umani sensi. Dei sensi, sì, perché abbiamo gli occhi pieni di immagini e diventiamo sempre più miopi, siamo completamente avvolti di suoni e non sentiamo più niente. Il profumo delle cose è un vago ricordo: assumiamo sostanze che rendono l’olfatto inservibile.

Toccacciamo tutto, e non riusciamo più ad essere “toccati” da niente: l’intimità della gioia, l’intimità del dolore, nostro e altrui, li conosciamo soltanto come eccipiente dello spot che ci deve vendere qualcosa. Non ne conosciamo più i segreti, i tempi, le emozioni, gli slanci di verità che ci colpiscono al cuore, e gli archi di lunga durata che ci affezionano per sempre. Si oscurano i sensi, e perdiamo l’anima.

 La ragione è semplice. I nostri sensi sono fatti per le qualità dello spirito: svuotali metodicamente di questa vitalità, e te li troverai smorti da far pena. Figurati lo spirito. È quella che chiamiamo, semplicemente, sensibilità delle persone umane: intendendo la qualità più alta e preziosa dell’essere umani. L’eccitazione sensoriale, l’esasperazione pulsionale, sono tutt’altra faccenda.
L’umana sensibilità è sotto tiro. Stanata e sbeffeggiata, e appena possibile, chirurgicamente asportata. I suoi segni sono nel mirino: i segni dei tempi, ormai, si leggono al meteo, i segni della vita al microscopio, e quelli della storia in Borsa. Molti di questi segni – i più forti e belli – sono intrecciati con la religione. Non è affatto strano: è in quel grembo che sta la più antica sapienza dei segni dell’anima, dei suoi enigmi più profondi, delle sue contraddizioni più dolorose, delle sue visioni più alte. Non è strano neppure il fatto che la sapienza spirituale dei sensi, ossia dell’umana sensibilità, abbia scritto il suo più singolare esperimento, nella storia a noi conosciuta, proprio qui. Dove l’arte ha intinto per secoli il pennello e il calamo «in quell’alfabeto colorato che era la Bibbia» (Chagall).

 L’ultima catechesi di Benedetto XVI sul «tempo delle cattedrali», chiusa con questa citazione, si è aperta con la menzione del celebre “cronista” dell’anno Mille, Rodolfo il Glabro, che racconta dello strano fervore con cui, in tempi particolarmente avviliti e difficili, i popoli d’Europa hanno fatto a gara nell’investire la loro sensibilità più fine, e la loro arte migliore, nello «scuotersi di dosso i vecchi cenci», investendo le passioni della loro anima a creare i segni più belli proprio nei luoghi del sacro. Come «una veste bianca» di bucato, per loro stessi: da guardare, toccare, odorare, per sentirsi vivi e ricompensati di speranza. Sacrosanta e meritata, in mezzo a mille fatiche per salvare la vita e l’anima: che non importavano niente ai poteri forti di un’epoca – per definizione – “medievale”. Investimento fantastico, che ha impedito la fine del mondo. E ci ha lasciato qualcosa che vola ancora alto, anche per noi.

 Il “cronista” del terzo millennio sia altrettanto spregiudicato, nel raccontare delle passioni per la bellezza di Dio. Non ci salvano solo l’anima, ci conservano il mondo.

 Pierangelo Sequeri

 Avvenire 19 novembre 2009

CATTEDRA DEI SOFFERENTI – PER ROMPERE IL GHIACCIO…due sofferenti famosi

Crocifisso attribuito a Michelangelo

FACTUS OBOEDIENS USQUE AD MORTEM,

MORTEM AUTEM CRUCIS

 

Per rompere il ghiaccio…mettiamo in cattedra due sofferenti famosi: Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Essi hanno assunto sulle spalle il dolore del mondo ed anche i nostri interrogativi…

 

Giovanni Paolo II e la Sofferenza

 

Alcuni testi scelti dai discorsi del Santo Padre in cui Egli, rivolgendosi ai malati e ai sofferenti, affida la preparazione, soprattutto dal punto di vista spirituale del Grande Giubileo dell’Anno 2000, nonché tutte le intenzioni della Chiesa universale, proprio alla preghiera e al dono della sofferenza dei malati.

giovanni-paolo-ii-lo-sguardo-nelleterno1. Il Santo Padre fin dall’inizio del suo Pontificato ha voluto appoggiare il suo ministero papale sulla preghiera e sul dono della sofferenza dei malati: “…Carissimi fratelli e sorelle vorrei affidarmi alle vostre preghiere… Nonostante le vostre condizioni fisiche siete molto potenti, così come è potente Gesù Cristo crocifisso….La vostra potenza sta nella vostra rassomiglianza a Lui stesso. Cercate di utilizzare quella potenza per il bene della Chiesa, dei vostri vicini, delle vostre famiglie, della vostra patria e di tutta l’umanità. E anche per il bene del Ministero del Papa che è, secondo altri significati, anche molto debole” (Cfr. Giovanni Paolo II, Un saluto ai malati, agli operatori sanitari, in occasione della prima vista del Santo Padre al Policlinico “Gemelli”, il 18 ottobre 1978, in l’Osservatore Romano, giovedì 19 ottobre 1978, pp. 1-2).

“….Ai più deboli, ai poveri, ai malati, agli afflitti, è a questi specialmente che, nel primo istante del pastorale ministero vogliamo aprire il nostro cuore. Non siete infatti voi, fratelli e sorelle, che con le vostre sofferenze condividete la passione dello stesso Redentore ed in qualche modo la completate? L’indegno Successore di Pietro, che si propone di scrutare le insondabili ricchezze di Cristo, ha il più grande bisogno del vostro aiuto, della vostra preghiera, del vostro sacrificio, e per questo umilissimamente vi prega”. (Cfr. Giovanni Paolo II, Il discorso programmatico rivolto dalla Cappella Sistina agli uomini di tutto il mondo, la prima udienza concessa dal Santo Padre Giovanni Paolo II, mercoledì 18 ottobre 1978, in l’Osservatore Romano, 19 ottobre 1958, p. 1).

“Desidero oggi rivolgermi in modo particolare a tutti gli ammalati, esprimendo ad essi, io, infermo come loro, una parola di conforto e di speranza. Quando, all’indomani della mia elezione alla Cattedra di Pietro, venni per una visita al Policlinico “Gemelli”, dissi di volere “appoggiare il mio ministero papale soprattutto su quelli che soffrono”. ….Riaffermo ora la medesima convinzione di allora…Invito tutti gli ammalati ad unirsi con me nell’offerta a Cristo dei loro patimenti per il bene della Chiesa e dell’umanità”. (Cfr. Giovanni Paolo II, La preghiera mariana del Papa diffusa via radio dal “Gemelli” – Roma, 24 maggio 1981, in Insegnamenti IV/1, p. 1211).

2. “Cari Amici, vedete quanto siete importanti! Cosi come soffrite in unione con Cristo siate uniti a lui nella preghiera. Ricordate Giobbe: dopo aver sopportato una sofferenza e un’afflizione terribili ha pregato per i suoi amici e “il Signore ebbe riguardo di Giobbe” (Gb 42, 9). Anche voi potete pregare molto efficacemente per il vostro prossimo, uomini e donne, per la Chiesa e per il mondo”. (Cfr. Giovanni Paolo II, Omelia durante la Liturgia della Parola con la benedizione dei malati nella chiesa di “St. Joseph”a Baroko, 18 gennaio 1995, in Insegnamenti XVIII/1, p. 191, n. 3).

3. “I malati, i volontari e gli operatori sanitari qui presenti si sentono in modo particolare in comunione con fratelli e sorelle dell’Africa e del mondo intero e tutti insieme offrono sofferenze ed impegno implorando il dono della pace, come suggerisce il tema del Messaggio da me inviato per l’odierna Giornata….Cari fratelli e sorelle – malati e sofferenti, pellegrini tutti di Lurdes! Non cessate di pregare per la Chiesa! Non cessate di raccomandare a Cristo, attraverso sua Madre, in modo particolare la giovane generazione, cioè quei cristiani a cui sono affidati gli inizi del terzo millennio. Possano essi sentire il vostro amore! La vostra preghiera e il vostro sacrificio ottengano loro di maturare spiritualmente. Possano entrare in comunione con voi, per ricevere dalle vostre mani la fiaccola della fede e diffondere ovunque la luce di Cristo”. (Cfr. Giovanni Paolo II, Nella Celebrazione della III “Giornata Mondiale del Malato” uniti gli itinerari di fede dei giovani a Manila e dei sofferenti a Lourdes, 11 febbraio 1995, in Insegnamenti XVIII/1, n. 1; 5).

4. “Carissimi malati e voi, familiari ed operatori sanitari che ne condividete il difficile cammino, sentitevi protagonisti di evangelico rinnovamento nell’itinerario Spirituale verso il Grande Giubileo del 2000… Carissimi fratelli e sorelle che vi trovate nella prova, offrite generosamente il vostro dolore in comunione con Cristo Sofferente e con Maria sua dolcissima Madre. “A voi tutti che soffrite chiediamo di sostenerci. Proprio a voi, che siete deboli, chiediamo che diventiate una sorgente di forza per la Chiesa e per l’umanità. Nel terribile combattimento tra le forze del bene e del male, di cui ci offre spettacolo il nostro mondo contemporaneo, vinca la vostra sofferenza in unione con la Croce di Cristo” (Salvifici doloris, 31)”. (Cfr. Giovanni Paolo II, Messaggio del Santo Padre per la IV Giornata Mondiale del Malato, 11 febbraio 1996, in Dolentium Hominum, n. 30/ 1995, p. 4).

5. “Esprimo il mio affetto anzitutto a voi, cari malati, che vedo con piacere qui davanti, come pure a tutti gli infermi che non sono potuti intervenire a questo momento di preghiera. Sappiate unire costantemente, nella fede, le vostre sofferenze alla croce vittoriosa di Cristo e pregate anche per me e per il ministero che mi è affidato”. (Cfr. Giovanni Paolo II, R ecita del Santo Rosario nel Duomo di Como, 4 maggio 1996, in Traccia 1996, 533/V, 1.)

6. “La prossima Giornata Mondiale del Malato sarà celebrata l’11 febbraio 1997 presso il Santuario di Nostra Signora di Fatima, nella nobile Nazione portoghese….La Giornata si colloca nel primo anno del “triduo” preparatorio del Grande Giubileo del Duemila: un anno interamente dedicato alla riflessione su Cristo…. Carissimi ammalati, sappiate trovare nell’amore “il senso salvifico del vostro dolore e risposte valide a tutti i vostri interrogativi” (Lett. Ap. Salvifici doloris, n. 31). La vostra è una missione di altissimo valore sia per la Chiesa che per la società. “Voi che portate il peso della sofferenza siete ai primi posti tra coloro che Dio ama…Di questo amore privilegiato sappiate essere testimoni generosi attraverso il dono del vostro patire, che tanto può per la salvezza del genere umano” (Cfr. Giovanni Paolo II, Messaggio del Santo Padre per la V Giornata Mondiale del Malato, 11 febbraio 1997, nn. 1-4, in Dolentium Hominum, n. 33/1996, pp. 4-5).

7. “La celebrazione ufficiale ha luogo oggi nel Santuario di Nostra Signora di Fatima, a me particolarmente caro ed assai significativo nell’attuale fase di preparazione al Giubileo del Duemila. Il messaggio della Vergine a Fatima – come del resto anche a Lourdes – è un appello alla conversione e alla penitenza, senza le quali non vi può essere autentico Giubileo. Anche la malattia costituisce per la persona umana un appello alla conversione, ad affidarsi interamente a Cristo, unica fonte di salvezza per ogni uomo e per tutto l’uomo. A questo invita la tematica del Convegno promosso dall’Opera Romana Pellegrinaggi, che riecheggia quella universale del primo anno di preparazione al Giubileo. … Ogni anno l’Opera Romana Pellegrinaggi propone un gesto profetico di pace: quest’anno è previsto un pellegrinaggio ad Hebron alla tomba dei Patriarchi, luogo sacro per le tre grandi religioni monoteiste, quale auspicio di pace nella Terra Santa. Prego affinché tale gesto, nel nome del comune padre Abramo, costituisca l’inizio di una nuova fioritura di pellegrinaggi di riconciliazione, in vista del Grande Giubileo dell’Anno Duemila. Possano Roma e Gerusalemme diventare i poli di un universale pellegrinaggio di pace, sostenuto dalla fede nell’unico Dio buono e misericordioso. Per questa intenzione invito voi, cari malati, ad elevare al Signore fervide preghiere, avvalorate dall’offerta della sofferenza” (Cfr. Giovanni Paolo II, Al termine della S. Messa celebrata dal Cardinale Ruini nella Basilica Vaticana in occasione della V Giornata Mondiale del Malato, in l’Osservatore Romano, 13 febbraio 1997, p. 6).

8. “Ecco, carissimi, Loreto ci fa pensare a Nazaret e Nazaret rappresenta ogni casa, ogni famiglia cristiana. In queste famiglie voi ammalati avete un compito insostituibile: essere con la preghiera e con la testimonianza una fonte inesauribile di pace e di unità. Lo dico anche in riferimento alla Nazione italiana, e soprattutto alla grande Famiglia della Chiesa. Affido in particolare alle vostre preghiere la causa dell’unità dei cristiani: implorate con insistenza, mediante intercessione della Vergine, la piena unità dei cristiani nella fede e nella carità” (Cfr. Giovanni Paolo II, Il discorso rivolto ad un gruppo di ammalati raccolti nella navata centrale del Santuario Mariano di Loreto, 10 dicembre 1994, in Dolentium Hominum, n. 29/1995, p. 18.)

9. ” …Un caloroso benvenuto rivolgo soprattutto a voi, cari malati, che avete affrontato i disagi del viaggio per venire a Roma, vicino alla tomba dell’apostolo Pietro… Offrite la vostra sofferenza per diventare protagonisti nel cammino di rinnovamento evangelico che la Chiesa intera è chiamata a percorrere in questi anni che ci conducono al Giubileo del Duemila” (Cfr. Giovanni Paolo II, Il discorso ai partecipanti al pellegrinaggio organizzato dall’Opera Federativa Trasporti Ammalati a Lourdes, 23 marzo 1996, in Dolentium Hominum, n. 32/1996, p. 16.)

10. “Mi rivolgo ora a voi, carissimi fratelli e sorelle malati. Attraverso il dolore voi venite configurati a quel “Servo del Signore” che, secondo la parola di Isaia “ha preso su di sé le nostre infermità e si è addossato i nostri dolori” (Is 53, 4; cfr. Mt 8, 12; Col 1, 24)….In quest’anno millenario del martirio di sant’Adalberto, che è anche il primo anno di preparazione al Grande Giubileo del 2000, ed è consacrato a Cristo, unico Salvatore del mondo, ieri, oggi e sempre, vi affido le mie intenzioni per la Chiesa universale e per la Chiesa nella vostra terra: offrite le vostre sofferenze per le necessità della nuova evangelizzazione; per la Chiesa missionaria, nella quale il Signore suscita ancor oggi i suoi martiri com’è stato sant’Adalberto; per i lontani, per chi ha perduto la fede. Vi chiedo ancora di pregare per l’opera che la Chiesa svolge in questo Paese: per i vostri Vescovi e sacerdoti; per l’aumento delle vocazioni sacerdotali e religiose; per la causa dell’ecumenismo…Tutte queste speranze io pongo nelle vostre mani e nei vostri cuori, carissimi fratelli e sorelle sofferenti”. (Cfr. Giovanni Paolo II, Il discorso ai malati ed ai religiosi, nella Basilica del monastero di Breunon a Praga, 26 aprile 1997, in Dolentium Hominum, n. 35/1997, pp.15-16.).

11. “A Voi, cari malati ….rivolgo parole di cordiale saluto. Ogni giorno cerco di essere vicino alle vostre sofferenze….E’ grazie a voi, grazie alla vostra comunione con il Crocifisso, che la Chiesa possiede ricchezze inestimabili nel suo tesoro spirituale. Niente arricchisce gli altri come il dono gratuito della sofferenza. Perciò ricordate sempre, specialmente quando vi sentite abbandonati, che la Chiesa, il mondo, la nostra Patria hanno tanto bisogno di voi. Ricordate anche che ha bisogno di voi il Papa” (Cfr. Giovanni Paolo II, Il discorso ai medici, agli infermieri e agli operatori del mondo sanitario polacco presso la nuova clinica cardiochirurgica dell’ospedale “Giovanni Paolo II” di Cracovia, 9 giugno 1997, in Dolentium Hominum n. 36/1997, p. 17.)

12. “Carissimi Fratelli e Sorelle, la vostra Responsabile, interpretando l’atteggiamento che avrebbe oggi il Fondatore, ha espresso la promessa di collaborare intensamente con la preghiera ed il sacrificio alla preparazione del Grande Giubileo dell’Anno 2000. Grazie per questo vostro contributo. Esso è quanto mai utile e prezioso…. Non vi può essere autentica preparazione al Giubileo se non si assume nell’itinerario spirituale anche l’esperienza del soffrire, nelle sue varie forme” (Cfr. Giovanni Paolo II, Il discorso nel Palaghiaccio di Marino agli aderenti al “Centro Volontari della Sofferenza” nel 50° di Fondazione, 6 settembre 1997, in Dolentium Hominum, n. 36/1997, p. 22.).

13. “In questo secondo anno di preparazione al Giubileo, Maria deve essere contemplata e imitata “soprattutto come donna docile alla voce dello Spirito, donna del silenzio e dell’ascolto, donna della speranza, che seppe accogliere come Abramo la volontà di Dio “sperando contro ogni speranza” (Rm 4, 18) (Esort. Ap. Tertio millennio adveniente, 48) … Cari ammalati, nella Comunità ecclesiale è riservato a voi un posto speciale. La condizione di sofferenza in cui vivete e il desiderio di recuperare la salute vi rendono particolarmente sensibili al valore della speranza. Affido all’intercessione di Maria la vostra aspirazione al benessere del corpo e dello spirito e vi esorto ad illuminarla ed elevarla con virtù teologale della speranza, dono di Cristo”. (Cfr. Giovanni Paolo II, Messaggio del Santo Padre per la VI Giornata Mondiale del Malato, 11 febbraio 1998, n. 4; 7., in Dolentium Hominum, n. 36/1997, pp. 5-6.)

14. ” Mercoledì prossimo, 11 febbraio, si celebra la sesta Giornata Mondiale del Malato….Quest’anno essa si svolgerà a Loreto, presso la Santa Casa, celeberrima icona del mistero dell’Incarnazione, sede quanto mai adatta in questo secondo anno di preparazione immediata al Grande Giubileo, dedicato allo Spirito Santo….Ogni uomo è chiamato a soffrire; ogni uomo, imitando Maria, può diventare cooperatore della sofferenza di Cristo e quindi della sua redenzione”. (Cfr. Giovanni Paolo II, Recita dell’Angelus, 8 febbraio 1998, in Traccia 1998, 148/II, 1).

15. “… Oggi, infatti, 11 febbraio, è la giornata dei malati di tutto il mondo e della Polonia in particolare. In questa giornata mi rivolgo in modo speciale sia ai malati riuniti nel santuario di Loreto in Italia sia a tutti i malati nei santuari polacchi. Li saluto e li affido alla Madre di Dio, e allo stesso tempo chiedo loro di pregare per la Nazione, per la Chiesa, per il Papa, per tutte le necessità del mondo intero”. (Cfr. Giovanni Paolo II, Udienza generale 11 febbraio 1998 “saluto ai fedeli di lingua polacca”, in Traccia 1998, 152/II).

Giovanni Paolo II

© 2009  The Pontifical Council for Health Pastoral Care

Inviato: 12/09/2006 14.32

Benedetto XVI - L'arcobaleno della pace.

  

Discorso di Benedetto XVI ad Auschwitz

 

 

 

 

28 maggio 2006

Come non rimanere ‘toccati’ dalla comparsa 
dell’arcobaleno, simbolo biblico 
di pace e riconciliazione?

Prendere la parola in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l’uomo che non ha confronti nella storia, è quasi impossibile – ed è particolarmente difficile e opprimente per un cristiano, per un Papa che proviene dalla Germania. In un luogo come questo vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio – un silenzio che è un interiore grido verso Dio: Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo? È in questo atteggiamento di silenzio che ci inchiniamo profondamente nel nostro intimo davanti alla innumerevole schiera di coloro che qui hanno sofferto e sono stati messi a morte; questo silenzio, tuttavia, diventa poi domanda ad alta voce di perdono e di riconciliazione, un grido al Dio vivente di non permettere mai più una simile cosa.Ventisette anni fa, il 7 giugno 1979, era qui Papa Giovanni Paolo II; egli disse allora: “Vengo qui oggi come pellegrino. Si sa che molte volte mi sono trovato qui… Quante volte! E molte volte sono sceso nella cella della morte di Massimiliano Kolbe e mi sono fermato davanti al muro dello sterminio e sono passato tra le macerie dei forni crematori di Birkenau. Non potevo non venire qui come Papa”.

 Papa Giovanni Paolo II stava qui come figlio di quel popolo che, accanto al popolo ebraico, dovette soffrire di più in questo luogo e, in genere, nel corso della guerra: “Sono sei milioni di Polacchi, che hanno perso la vita durante la seconda guerra mondiale: la quinta parte della nazione”, ricordò allora il Papa. Qui egli elevò poi il solenne monito al rispetto dei diritti dell’uomo e delle nazioni, che prima di lui avevano elevato davanti al mondo i suoi Predecessori Giovanni XXIII e Paolo VI, e aggiunse: “Pronuncia queste parole […] il figlio della nazione che nella sua storia remota e più recente ha subito dagli altri un molteplice travaglio. E non lo dice per accusare, ma per ricordare. Parla a nome di tutte le nazioni, i cui diritti vengono violati e dimenticati…”.

Papa Giovanni Paolo II era qui come figlio del popolo polacco. Io sono oggi qui come figlio del popolo tedesco, e proprio per questo devo e posso dire come lui: Non potevo non venire qui. Dovevo venire. Era ed è un dovere di fronte alla verità e al diritto di quanti hanno sofferto, un dovere davanti a Dio, di essere qui come successore di Giovanni Paolo II e come figlio del popolo tedesco – figlio di quel popolo sul quale un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde, in nome di prospettive di grandezza, di ricupero dell’onore della nazione e della sua rilevanza, con previsioni di benessere e anche con la forza del terrore e dell’intimidazione, cosicché il nostro popolo poté essere usato ed abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominio. Sì, non potevo non venire qui. Il 7 giugno 1979 ero qui come Arcivescovo di Monaco-Frisinga tra i tanti Vescovi che accompagnavano il Papa, che lo ascoltavano e pregavano con lui. Nel 1980 sono poi tornato ancora una volta in questo luogo di orrore con una delegazione di Vescovi tedeschi, sconvolto a causa del male e grato per il fatto che sopra queste tenebre era sorta la stella della riconciliazione. È ancora questo lo scopo per cui mi trovo oggi qui: per implorare la grazia della riconciliazione – da Dio innanzitutto che, solo, può aprire e purificare i nostri cuori; dagli uomini poi che qui hanno sofferto, e infine la grazia della riconciliazione per tutti coloro che, in quest’ora della nostra storia, soffrono in modo nuovo sotto il potere dell’odio e sotto la violenza fomentata dall’odio.

Quante domande ci si impongono in questo luogo! Sempre di nuovo emerge la domanda:

 

 

  • Dove era Dio in quei giorni?

  • Perché Egli ha taciuto?

  • Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male?

  •  Ci vengono in mente le parole del Salmo 44, il lamento dell’Israele sofferente: “…Tu ci hai abbattuti in un luogo di sciacalli e ci hai avvolti di ombre tenebrose… Per te siamo messi a morte, stimati come pecore da macello. Svégliati, perché dormi, Signore? Déstati, non ci respingere per sempre! Perché nascondi il tuo volto, dimentichi la nostra miseria e oppressione? Poiché siamo prostrati nella polvere, il nostro corpo è steso a terra. Sorgi, vieni in nostro aiuto; salvaci per la tua misericordia!” (Sal 44,20.23-27).

  • Questo grido d’angoscia che l’Israele sofferente eleva a Dio in periodi di estrema angustia, è al contempo il grido d’aiuto di tutti coloro che nel corso della storia – ieri, oggi e domani – soffrono per amor di Dio, per amor della verità e del bene; e ce ne sono molti, anche oggi.Noi non possiamo scrutare il segreto di Dio – vediamo soltanto frammenti e ci sbagliamo se vogliamo farci giudici di Dio e della storia. Non difenderemmo, in tal caso, l’uomo, ma contribuiremmo solo alla sua distruzione.

  • No – in definitiva, dobbiamo rimanere con l’umile ma insistente grido verso Dio: Svégliati! Non dimenticare la tua creatura, l’uomo!

  • E il nostro grido verso Dio deve al contempo essere un grido che penetra il nostro stesso cuore, affinché si svegli in noi la nascosta presenza di Dio – affinché quel suo potere che Egli ha depositato nei nostri cuori non venga coperto e soffocato in noi dal fango dell’egoismo, della paura degli uomini, dell’indifferenza e dell’opportunismo.

  • Emettiamo questo grido davanti a Dio, rivolgiamolo allo stesso nostro cuore, proprio in questa nostra ora presente, nella quale incombono nuove sventure, nella quale sembrano emergere nuovamente dai cuori degli uomini tutte le forze oscure: da una parte, l’abuso del nome di Dio per la giustificazione di una violenza cieca contro persone innocenti; dall’altra, il cinismo che non conosce Dio e che schernisce la fede in Lui.

  • Noi gridiamo verso Dio, affinché spinga gli uomini a ravvedersi, così che riconoscano che la violenza non crea la pace, ma solo suscita altra violenza – una spirale di distruzioni, in cui tutti in fin dei conti possono essere soltanto perdenti. Il Dio, nel quale noi crediamo, è un Dio della ragione – di una ragione, però, che certamente non è una neutrale matematica dell’universo, ma che è una cosa sola con l’amore, col bene.

  •  Noi preghiamo Dio e gridiamo verso gli uomini, affinché questa ragione, la ragione dell’amore e del riconoscimento della forza della riconciliazione e della pace prevalga sulle minacce circostanti dell’irrazionalità o di una ragione falsa, staccata da Dio.Il luogo in cui ci troviamo è un luogo della memoria, è il luogo della Shoah. Il passato non è mai soltanto passato. Esso riguarda noi e ci indica le vie da non prendere e quelle da prendere. Come Giovanni Paolo II ho percorso il cammino lungo le lapidi che, nelle varie lingue, ricordano le vittime di questo luogo: sono lapidi in bielorusso, ceco, tedesco, francese, greco, ebraico, croato, italiano, yiddish, ungherese, neerlandese, norvegese, polacco, russo, rom, rumeno, slovacco, serbo, ucraino, giudeo-ispanico, inglese. Tutte queste lapidi commemorative parlano di dolore umano, ci lasciano intuire il cinismo di quel potere che trattava gli uomini come materiale non riconoscendoli come persone, nelle quali rifulge l’immagine di Dio. Alcune lapidi invitano ad una commemorazione particolare. C’è quella in lingua ebraica. I potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità; eliminarlo dall’elenco dei popoli della terra. Allora le parole del Salmo: “Siamo messi a morte, stimati come pecore da macello” si verificarono in modo terribile. In fondo, quei criminali violenti, con l’annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell’umanità che restano validi in eterno. Se questo popolo, semplicemente con la sua esistenza, costituisce una testimonianza di quel Dio che ha parlato all’uomo e lo prende in carico, allora quel Dio doveva finalmente essere morto e il dominio appartenere soltanto all’uomo – a loro stessi che si ritenevano i forti che avevano saputo impadronirsi del mondo. Con la distruzione di Israele, con la Shoah, volevano, in fin dei conti, strappare anche la radice, su cui si basa la fede cristiana, sostituendola definitivamente con la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell’uomo, del forte. C’è poi la lapide in lingua polacca: In una prima fase e innanzitutto si voleva eliminare l’élite culturale e cancellare così il popolo come soggetto storico autonomo per abbassarlo, nella misura in cui continuava ad esistere, a un popolo di schiavi. Un’altra lapide, che invita particolarmente a riflettere, è quella scritta nella lingua dei Sinti e dei Rom. Anche qui si voleva far scomparire un intero popolo che vive migrando in mezzo agli altri popoli. Esso veniva annoverato tra gli elementi inutili della storia universale, in una ideologia nella quale doveva contare ormai solo l’utile misurabile; tutto il resto, secondo i loro concetti, veniva classificato come lebensunwertes Leben – una vita indegna di essere vissuta. Poi c’è la lapide in russo che evoca l’immenso numero delle vite sacrificate tra i soldati russi nello scontro con il regime del terrore nazionalsocialista; al contempo, però, ci fa riflettere sul tragico duplice significato della loro missione: hanno liberato i popoli da una dittatura, ma liberando i popoli dovevano servire anche a sottomettere gli stessi popoli ad una nuova dittatura, quella di Stalin e dell’ideologia comunista. Anche tutte le altre lapidi nelle molte lingue dell’Europa ci parlano della sofferenza di uomini dell’intero continente; toccherebbero profondamente il nostro cuore, se non facessimo soltanto memoria delle vittime in modo globale, ma se invece vedessimo i volti delle singole persone che sono finite qui nel buio del terrore. Ho sentito come intimo dovere fermarmi in modo particolare anche davanti alla lapide in lingua tedesca. Da lì emerge davanti a noi il volto di Edith Stein, Theresia Benedicta a Cruce: ebrea e tedesca scomparsa, insieme con la sorella, nell’orrore della notte del campo di concentramento tedesco-nazista; come cristiana ed ebrea, ella accettò di morire insieme con il suo popolo e per esso. I tedeschi, che allora vennero portati ad Auschwitz-Birkenau e qui sono morti, erano visti come Abschaum der Nation – come il rifiuto della nazione. Ora però noi li riconosciamo con gratitudine come i testimoni della verità e del bene, che anche nel nostro popolo non era tramontato. Ringraziamo queste persone, perché non si sono sottomesse al potere del male e ora ci stanno davanti come luci in una notte buia. Con profondo rispetto e gratitudine ci inchiniamo davanti a tutti coloro che, come i tre giovani di fronte alla minaccia della fornace babilonese, hanno saputo rispondere: “Solo il nostro Dio può salvarci. Ma anche se non ci liberasse, sappi, o re, che noi non serviremo mai i tuoi dèi e non adoreremo la statua d’oro che tu hai eretto” (cfr Dan 3,17s.).

    Sì, dietro queste lapidi si cela il destino di innumerevoli esseri umani. Essi scuotono la nostra memoria, scuotono il nostro cuore. Non vogliono provocare in noi l’odio: ci dimostrano anzi quanto sia terribile l’opera dell’odio. Vogliono portare la ragione a riconoscere il male come male e a rifiutarlo; vogliono suscitare in noi il coraggio del bene, della resistenza contro il male. Vogliono portarci a quei sentimenti che si esprimono nelle parole che Sofocle mette sulle labbra di Antigone di fronte all’orrore che la circonda: “Sono qui non per odiare insieme, ma per insieme amare”.

    Grazie a Dio, con la purificazione della memoria, alla quale ci spinge questo luogo di orrore, crescono intorno ad esso molteplici iniziative che vogliono porre un limite al male e dar forza al bene. Poco fa ho potuto benedire il Centro per il Dialogo e la Preghiera. Nelle immediate vicinanze si svolge la vita nascosta delle suore carmelitane, che si sanno particolarmente unite al mistero della croce di Cristo e ricordano a noi la fede dei cristiani, che afferma che Dio stesso e sceso nell’inferno della sofferenza e soffre insieme con noi. A Oświęcim esiste il Centro di san Massimiliano e il Centro Internazionale di Formazione su Auschwitz e l’Olocausto. C’è poi la Casa Internazionale per gli Incontri della Gioventù. Presso una delle vecchie Case di Preghiera esiste il Centro Ebraico. Infine si sta costituendo l’Accademia per i Diritti dell’Uomo. Così possiamo sperare che dal luogo dell’orrore spunti e cresca una riflessione costruttiva e che il ricordare aiuti a resistere al male e a far trionfare l’amore.

    L’umanità ha attraversato a Auschwitz-Birkenau una “valle oscura”. Perciò vorrei, proprio in questo luogo, concludere con una preghiera di fiducia – con un Salmo d’Israele che, insieme, è una preghiera della cristianità: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome. Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza … Abiterò nella casa del Signore per lunghissimi anni” (Sal 23, 1-4. 6).

 

 

 

 

 

 

 

 

LABORATORIO DI PRO-VOCAZIONI

DOCUMENTO FINALE CONVEGNO IPS 1988 – Rina Monteverdi

 

 

DOCUMENTO FINALE DEL CONVEGNO

Letto durante la S. Messa

RINA MONTEVERDI Segretaria del Congresso

 

Scopo del Convegno

In questi giorni ci sia mo dedicati ad approfondire e arricchire i nostri rapporti reciproci che ci devono aiutare ad offrire un servizio sempre più qualificato, un’assistenza professionalmente sempre più adeguata, umanizzata e umanizzante a favore dei nostri assistiti.

Questo nostro Convegno si è inserito, inoltre, e in parte ne è già un frutto! in un cammino di rinnovamento, dì umanizzazione e di proposta nella prospettiva del terzo millennio, cammino iniziato in risposta al Concilio Vaticano 110 e intensificato in questo decennio che l’intero Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio sta trascorrendo.

In questo nostro convegno abbiamo cercato insieme di riscoprire la nostra identità per vivere oggi la nostra missione e testimoniare i valori di cui siamo porta tori con modalità nuove e significative per ‘servire insieme l’uomo, Figlio di Dio e nostro fratello”.

Il Carisma dell’ospitalità

  • Il Carisma dell’Ospitalità è un dono dello Spirito alla Sua Chiesa e, attraverso San Giovanni di Dio, affidato all’Ordine ospedaliero di San Giovanni di Dio.

  • I Religiosi Fatebenefraltelli sono garanti e responsabili di questo dono,

  • I Collaboratori laici dell’Ordine, i cappellani e le suore, partecipano secondo il loro stato alla realizzazione dello stesso Carisma.

  • Il dono del Carisma impegna i Fatebenefratelli quali continuatori dell’opera di San Giovanni di Dio e rinnovano nella loro vita e nelle loro opere gli atteggiamenti di Cristo compassionevole e misericordioso del Van gelo che passò per questo mondo facendo del bene a tutti.

L’Ospitalità all’alba del terzo millennio:

  • conserva la sua urgenza e attualità;

  • facilita i religiosi ad essere guide morali, anticipatori, ricercatori negli ambienti in cui vivono;

  • invita i Laici e i Collaboratori a farsi carico di questa spiritualità:

  • possa continuare ad essere attuale il comando del Signore: “Curate infirmos” (prendetevi a cuore i malati).

Vocazione e professionalità

  • Occupare del tempo per umanizzare l’assistenza al malato non è solo necessario ma doveroso e questa assistenza umanizzata inizia dal momento dell’accettazione del malato, continua durante la degenza in ospedale, prosegue nella sua dimissione e nel suo reinserimento sociale.

  • Per educare gli operatori sanitari ad umanizza re la loro assistenza al malato è necessaria la formazione permanente da attuarsi in occasione e momenti ricavati nello spazio destinato all’aggiornamento professionale, del resto già previsto dai contratti di lavo ro. Particolare attenzione va posta nell’assunzione e nell’avviamento al lavoro dei nuovi collaboratori i qua li devono sapere che è richiesto loro di operare in linea con la filosofia dell’Ordine.

  • La maggior gratificazione professionale che un operatore possa ricevere è la gioia del malato che è futuro di un gesto di comprensione, di una prestazione eseguita con tecnica ed affetto. Gioia the può essere data al malato se tra gli operatori c’è serenità, collaborazione e tanto desiderio di servire insieme.

L’esercizio della propria professione trae gratificazione anche quando è data la possibilità di contribuire in qualche modo alla programmazione delle attività del proprio ospedale.

Nuova e diversa visione del malato

  • Nella prospettiva della globalità del malato lo stato di malessere non è solo un fatto biologico organico; esso traduce lo squilibrio della persona nel suo rap porto con il mondo, includendo elementi spirituali, psicologici, sociali, economici, noi crediamo a questa globalità, ma molti ostacoli si frappongono nella coerenza quotidiana a questa visione di unitarietà. Molti elementi si inseriscono per frammentare nuovamente la persona, in particolare la persona malata.

  • Umanizzazione delle nuove tecnologie che devono essere a servizio dell’uomo, perché non siano causa di rottura dell’equilibrio globale della persona.

  • Nella nostra società in cui coesistono un umanesimo paganeggiante che risponde solo ai bisogni “più superficiali dell’uomo” ed un umanesimo cristiano che dà una risposta “integrale” ai bisogni esistenziali della persona, è necessario che gli operatori sanitari si propongano come “mobilitatori di risorse umane”, quali i familiari, i volontari, le assistenti sociali, i responsabili amministrativi, politici, ecc., perché la responsabilità della cura globale del malato venga condivisa da tutti.

  • L’emergenza di nuovi disagi e di nuove malattie, quali tossicodipendenza, etilismo, malattie menta le, AIDS, vecchiaia, richiede particolare attenzione, come particolare impegno comporta la soluzione del problema del reinserimento del melato non autosufficiente il quale spesso, al momento della dimissione, si ve de rifiutato non solo da case di riposo e pensionati, ma anche dai familiari stessi: in una parole dalla società.

L’Ospitalità dei Fatebenefratelli nell’azione pastorale

  • È in atto in tutte le nostre comunità una verifica che riguarda la comunione tra noi, tra i Fatebenefratelli, i cappellani e i laici perché si instauri tra i membri della comunità una reale volontà che si traduca in atti concreti di accettazione e di amore.

  • Tutti sono unanimi nel ritenere che il laico sia responsabile in prime persona della propria immagine e di quelle dell’ospedale, in quanto impegnato direttamente nell’Ospitalità. La funzione del religioso dovrebbe essere anche quella di affiancare il laico nella quotidianità ed essere strumento di confronto.

  • Valori come solidarietà, fratellanza, umanità, amicizia, disponibilità, attenzione sono valori dell’uomo che ben si esprimono nelle Ospitalità, come pure il coraggio di andare sempre avanti aiutandosi. 

  • Superare gli ostacoli, vivere e beneficiare dei va lori citati prima favorisce un valido raccordo tra gli operatori e la componente religiosa. 

  • Vivere il proprio ruolo nella dimensione del servizio e non in funzione del potere.

Conclusioni

Abbiamo raccolto con giusto e meritato riconosci mento le testimonianze delle esperienze positive dei luoghi in cui quella parola “insieme” già si attua con impegno, umiltà e creatività, aggettivi usati dal P. Generale Fra Pierluigi Marchesi nel suo saluto ai partecipati al Convegno.

Con questa esperienza torniamo ai nostri posti di lavoro per proporla e attuarla secondo le sagge paro le del P. Generale che recuperiamo ancora dal suo sa luto. Ci dice: “Questo lavorare insieme non si improvvisa ma va preparato con discernimento, con piani br m con capacità progettuale e con l’umiltà di chi sa sbagliare e, nello stesso tempo, verificare e correggere”.

In conclusione i partecipanti al convegno esprimono le seguenti proposte:

  1. Consideriamo molto importante non disperdere quanto in questo convegno à stato da tutti donato. Abbiamo l’impressione che ci sia una potenzialità non ancora sufficientemente conosciuta nella sua disponibilità, competenza, generosità.

  2. È necessario un maggior colloquio verticale ed orizzontale in modo che ognuno possa dare il suo con tributo a migliorare l’assistenza del  malato, a rendere più cordiali i rapporti, a partecipare, sia pure in modo discreto, alla programmazione e all’evoluzione in atto nei nostri ospedali.

  3. Riteniamo che l’Ordine debba essere sostenuto dai laici a continuare nelle azioni fatte in questi anni che sono la continuazione delle motivazioni di S Giovanni di Dio.

  4. Crediamo necessaria una maggiore presenza fi sica dei religiosi tra i malati e gli operatori per creare più possibilità di incontro e di ascolto reciproco.

  5. E giusto, alfine, di essere “Insieme per servire”, far conoscere anche all’estero le. scelte di Ospitalità dei ( Fatebenefratelli, oggi maggiormente impegnative, ma prioritarie per una risposta sanitaria e assistenziale adeguata alle necessità e alle aspettative della popolazione.

SAN GIOVANNI DI DIO: NEI FRATELLI VEDEVA GESU’ – Giuseppe Magliozzi o.h.

martedì, 29 maggio 2007 

Al compiere quarant’anni di Vita Religiosa

nell’Ordine Ospedaliero dei Fatebenefratelli

offro queste pagine a tutti i nostri ammalati

affinché nelle vicende di San Giovanni di Dio

scoprano la tenerezza di Dio che accorre

a soccorrerci nella sofferenza e nel bisogno

e a dar gioia e significato alla nostra vita.

 Fra Giuseppe MAGLIOZZI o.h. 

 

San Giovanni di Dio - Visione

Il mistico incontro con Gesù nel malato

 

NEI FRATELLI VEDEVA GESU’

 

 

Biografia di

San Giovanni di Dio

Fondatore dei Fatebenefratelli

e Patrono Universale dei malati,

degli ospedali e degli infermieri.

 

Edizione illustrata: SAN GIOVANNI DI DIO – Fra Giuseppe Magliozzi

 

BIBLIOTECA OSPEDALIERA

 

Roma – Anno del Rosario 2003 Fascicolo n° 12

NIHIL OBSTAT Roma, 8 settembre 2003

Fra Elia Tripaldi o.h., sac. Censore Delegato 

 

IMPRIMI POTEST – Roma, 12 settembre 2003 Fra Angelico Bellino o.h., sac. Provinciale 

IMPRIMATUR Dal Vicariato di Roma, 24 settembre 2003 X Luigi Moretti Segr. Generale

 

13ª Edizione italiana: Roma 2003

4ª Versione inglese: Manila 1996

1ª Versione tagalog: Manila 1992

 

Maria - Particolare  490px-Antonello_da_Messina_037 CON MARIA ALLA SCOPERTA DI CRISTO

 

Giovanni Paolo II nella Lettera Apostolica con cui ha indetto uno speciale Anno del Rosario annota che “sarebbe impossibile citare lo stuolo innumerevole di Santi che hanno trovato nel Rosario un’autentica via di santificazione”.

Di sicuro tra tali Santi rientra San Giovanni di Dio, che nella sua lettera al giovane Luigi Bautista scrive con forza:

“Vi dico d’essermi trovato molto bene col Rosario: spero in Dio di recitarlo tutte le volte che potrò e che Dio vorrà”.

.melograno fiore

Questo profondo attaccamento di San Giovanni di Dio al Rosario rese la Vergine Maria sempre presente nella sua vita. Crebbe devoto a lei e quando da militare sperimentò un certo sbandamento morale, fu il riaffiorare della devozione mariana a riportarlo sulla retta via. Similmente, quando nel 1538 avvertì la chiamata del Signore a farsi pioniere d’una assistenza sanitaria più umana, è ai piedi di Maria, nel Santuario di Guadalupe, che cercò soccorso e meditandovi sull’amore di Lei per l’Unigenito fattosi Bambino, apprese a riconoscere la mistica presenza di Cristo in ogni nostro fratello. Quando poi, tornato a Granata, esitava ad avviare l’ambizioso progetto assistenziale, fu di nuovo Maria, nella Cappella del Santissimo dell’erigenda Cattedrale, ad ispirargli coraggio nell’affrontare la corona di spine che era chiamato a condividere con Cristo. E in morte fu di nuovo Maria ad apparirgli per confortarlo e guidarlo in Cielo ad incontrarvi il Figlio.

Con la materna protezione di Maria riuscì a raggiungere Cristo attraverso un itinerario umano e spirituale tutt’altro che facile. Giovanni vagò infatti per mezza Europa e sconfinò perfino in Africa, provando mille mestieri, conoscendo gli orrori delle guerre e le sofferenze di una società dalle abissali sperequazioni, mentre nel suo animo s’accumulavano mille domande e nessuna risposta.

Finché un giorno fu ricoverato nell’Ospedale Reale di Granada e, trovandosi gomito a gomito con le più terribili sofferenze, scoprì che l’uomo è fatto per Amare e che la vita ha senso solo se cresciamo e facciamo crescere nell’Amore; scoprì che solo la Passione di Cristo riesce a farci accettare il mistero del dolore umano; scoprì che povertà e malattia, anziché momento negativo della nostra vita, possono divenire occasione d’incontro con Dio sia per unirsi alle sofferenze di Cristo, sia per lenirle nella persona dei fratelli, ed in entrambi i casi per ricambiare amore con amore.

Questa scoperta trasformò la sua vita e gli fece intuire la specifica missione a cui Dio lo chiamava: fondare ospedali dove ogni infermo venga accolto come fratello in Cristo e rispettato come icona vivente di Cristo sofferente in Croce.

Giovanni non solo riuscì ad aprire a Granada e Toledo ospedali secondo i dettami del suo cuore, ma si guadagnò un manipolo di discepoli che, secondo la sua predizione, si sparsero poi in tutto il mondo: conosciuti in Italia col nomignolo di Fatebenefratelli, sono oggi presenti in cinquanta nazioni d’ogni latitudine.

Merita certamente saperne di più su questo Santo, che la Chiesa ci propone quale speciale Patrono di tutto il mondo della sofferenza e che fu pioniere di una riforma sanitaria che nasce dal cuore e che desta consensi anche in chi non ne condivide i moventi di fede.

Il presente volumetto intende offrire ai malati e agli operatori sanitari solamente un primo approccio, aggiornato ma sintetico, alla figura di San Giovanni di Dio e all’Ordine Ospedaliero da lui fondato. Chi volesse saperne di più, trova in appendice un’ampia lista di libri ed articoli, oppure può contattarmi per email nel lontano lembo dell’Estremo Oriente dove vivo da tre lustri.

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Fra Giuseppe Magliozzi o.h.

Manila, 7 ottobre 2003, Festa della Madonna del Rosario

 

Date fondamentali della vita

di San Giovanni di Dio

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MelogranoVerso il 1491:   Giovanni nasce in data imprecisata nella cittadina portoghese di Montemor-o-Novo (Evora)

Verso il 1499:   Ad otto anni lascia casa all’insaputa dei genitori e finisce in Spagna, ad Oropesa, dove viene adottato dalla famiglia del Mayoral e vi lavora da pastore

1523:                 Soldato sul fronte di Fuenterrabía

Verso il 1528:   Ritorna a fare il pastore in Oropesa

Estate 1532:     Attendente militare nell’impresa di Vienna

Verso il 1536:   Permanenza a Ceuta

1537:                 Arrivo a Granada all’età di 46 anni

1° agosto 1538: Ascolta predicare San Giovanni d’Avila

21 ottobre 1538: Dimissione dall’Ospedale Reale

Inverno 1538:   Pellegrinaggio a Guadalupe

16 maggio 1539: Risoluzione definitiva di darsi a Dio

Autunno 1539: Accoglie i primi discepoli

Primavera 1540: Imposizione dell’abito religioso

Dicembre 1542:   Crollo della nuova ala ospedaliera

1548:                 Permanenza a Valladolid

3 luglio 1549:    Incendio nell’Ospedale Reale

8 marzo 1550:   Muore in ginocchio al Mattutino del sabato

16 ottobre 1690:         Alessandro VIII lo proclama Santo

27 maggio 1886:         Eletto Patrono dei malati e degli Ospedali

28 agosto 1930 Eletto Patrono degli infermieri

 

Dall’amore di Maria per l’Unigenito fattosi Bambino, San Giovanni di Dio apprese l’amore per Cristo, che è presente misticamente in ogni sofferente

 

 

1. Il fascino dell’avventura

 

MelogranoSan Giovanni di Dio nacque verso il 1491 a Montemor o Novo, nella diocesi portoghese di Evora. Figlio unico di Andrea Cidade, che aveva un negozietto di frutta nella via Verde, Giovanni ad appena otto anni sparì misteriosamente di casa, forse per spirito d’avventura.

Montemor o Novo in quei tempi era un centro di discreta importanza. Secondo un censimento del 1527 vi risiedevano 899 famiglie, cioè circa 3.600 abitanti, senza contar gli schiavi, per cui nella regione dell’Alentejo, cioè a sud del fiume Tago, era la sesta città per densità di popolazione.

Il re Emanuele I iniziò a regnare sul Portogallo convocando nel 1495-1496 l’Assemblea Generale delle Cortes proprio a Montemor, dove ricevette il giuramento di fedeltà dei suoi vassalli e dove, tra l’altro, consultò i rappresentanti della nazione sull’opportunità di organizzare una spedizione marittima per scoprire una rotta che permettesse finalmente di raggiungere l’India via mare.

Nel 1492 Colombo, pensando che la rotta più breve andasse trovata traversando l’Atlantico, s’era imbattuto a mezza strada nel continente americano. All’inizio pensò fosse una parte dell’India e battezzò come indiani la popolazione; la denominazione ha curiosamente resistito fino ad oggi, anche se già lo stesso Colombo alla fine si rese conto che la vera India era altrove.

Il re del Portogallo riteneva che la rotta più valida per l’India andasse invece cercata circumnavigando l’Africa ed affidò il comando dell’impresa a Vasco da Gama, che salpò dalla foce del Tago l’8 luglio 1497 e riuscì in effetti a raggiungere la costa del Malabar, entrando nel porto di Calicut, l’odierna Kozhikode nello Stato del Kerala, all’alba del 20 maggio 1498. Il successo dell’impresa non solo trasformò il Portogallo in una delle maggiori potenze commerciali, ma permise di incrementare in modo prima impensabile gli scambi culturali tra Oriente ed Occidente.

La notizia del felice esito della spedizione raggiunse Montemor nell’estate del 1499 e nel Libro delle Spese della città troviamo annotata l’uscita di settanta reali “quando il re nostro signore ordinò che si facessero processioni e festa per la venuta di Vasco da Gama”. Possiamo immaginare l’emotiva partecipazione della gente di Montemor al corteo, alla musica ed ai giochi taurini in onore del nuovo eroe nazionale. Certo ne rimase a lungo il ricordo, non solo per le celebrazioni esteriori, ma molto più per le mirabolanti notizie che rimbalzavano ingigantite da una bocca all’altra. Può darsi che il piccolo Giovanni, che contava già otto anni, se ne sia lasciato suggestionare e questo potrebbe spiegarci perché proprio in quell’anno egli abbandonasse il paese natio.

Castro, autore della sua prima biografia, si limita a dire che il fanciullo “crebbe con i suoi genitori fino all’età di otto anni e da Montemor a loro insaputa fu condotto ad Oropesa da un chierico”. Il verbo che egli usa in spagnolo (“fue llevado”) fa pensare non ad una sottrazione violenta, ma piuttosto ad un abbindolamento, cioè che qualche viaggiatore di passaggio, forse uno di quei “clerici vagantes” che gironzolavano da un’università all’altra senza mai addottorarsi, abbia convinto il bambino ad incamminarsi con lui, magari facendogli balenare il miraggio di raggiungere i favolosi lidi dell’India. Ma mentre Vasco da Gama era partito per l’India dalla foce del Tago, l’infido vagabondo si diresse verso le sorgenti del Tago ed abbandonò il fanciullo nel bel centro della Spagna, ad Oropesa, un borgo spagnolo dell’Estremadura sito lungo l’usuale tragitto da Lisbona a Madrid e distante un trecento chilometri da Montemor.

 

2. Pastore e soldato

 

MelogranoRimasto solo, il fanciullo fu adottato da Francesco Mayoral, che era un dipendente del Conte di Oropesa, e crebbe facendo il pastore per cui in qualche maniera continuò a macinar strada ogni giorno, dapprima da ragazzotto consumando chilometri su chilometri nell’incessante spoletta tra la casa e il gregge per assicurare i rifornimenti; e poi da adolescente errando col gregge per monti e per valli.

Passarono così 22 anni, finché nell’autunno del 1521 la sua tempra di camminatore e forse l’antico spirito di avventura lo convinsero ad arruolarsi agli ordini del capitano Francesco Herruz quale ausiliare d’un drappello di lancieri mandati a Toledo dal Conte di Oropesa su richiesta del Reggente di Spagna e poi confluiti nel 1523 nell’armata inviata da Carlo V sul fronte dei Pirenei per rintuzzare gli sconfinamenti francesi e liberare la fortezza di Fuenterrabía, caduta fin dal 1521 nelle loro mani.

Come spesso capita alle reclute, quell’esperienza militare fu contrassegnata da un certo sbandamento morale, sicché sarebbe stato piuttosto sconsolante il bilancio della sua vita, se fosse stata stroncata allora. E davvero poco ci mancò, visto che la morte lo sfiorò almeno due volte: dapprima per una rovinosa caduta mentre cavalcava una giumenta imbizzarrita, e poi per una condanna all’impiccagione, inflittagli dal suo capitano per non aver saputo custodire il bottino di guerra e commutatagli all’ultimo momento nell’espulsione dall’esercito, pare per intercessione del giovanissimo futuro Duca d’Alba, che era parente degli Oropesa.

Poiché gli era stato intimato di non farsi più vedere dal suo capitano, Giovanni vagabondò per anni prima di trovare il coraggio di tornare ad Oropesa, dove la famiglia adottiva l’accolse con immutato affetto. Ma i rischi passati non avevano spento la sua sete d’avventura, sicché dopo quattro anni si arruolò nuovamente come attendente del primogenito del Conte di Oropesa, partendo con lui nel 1532 per liberare Vienna dall’assedio dei Turchi. I rinforzi spagnoli si concentrarono a Barcellona, venendo poi trasferiti per mare a Genova, da cui si misero in marcia per il lago di Garda, dove in luglio avvenne il concentramento di tutte le truppe imperiali. Da lì toccarono successivamente Verona, Trento, Bressanone, Innsbruck, navigando poi in battello lungo l’Inn e il Danubio fino a raggiungere Vienna, dove i Turchi, dopo alcune scaramucce, rinunciarono ad uno scontro frontale e preferirono togliere l’assedio, permettendo a Carlo V di entrare pacificamente in città il 24 settembre 1532.

Per Giovanni e per l’erede del Conte il viaggio di ritorno fu ancora più lungo: attraversarono la Germania e le Fiandre, per poi costeggiare in nave la Francia fino a sbarcare in Spagna nel porto di La Coruña, a non troppa distanza dal famoso Santuario di Santiago di Compostella, che custodiva la tomba dell’apostolo San Giacomo e da secoli rappresentava, assieme a Roma e alla Terra Santa, la più comune meta di pellegrinaggio. Sia l’erede del Conte sia Giovanni certamente vi si recarono a pregare e forse fu proprio lì che Giovanni maturò la decisione non solo di lasciare per sempre le armi, ma anche di non tornare più ad Oropesa dalla sua famiglia adottiva.

Forse la parlata galiziana, assai affine alla portoghese, gli aveva ridestato in cuore l’antica nostalgia per la terra natia e considerando che la frontiera portoghese non era poi troppo lontana, volle provare a raggiungere Montemor nella speranza di rintracciarvi i suoi genitori. Quando però vi arrivò, apprese da uno zio che la mamma purtroppo era morta di dolore poco dopo la sua partenza e che il papà si era poi ritirato in un convento di Francescani a Xabregas, una località poco fuori del centro storico di Lisbona, morendovi alcuni anni dopo.

Lo zio gli offrì di restarsene con lui, ma Giovanni gli rispose risolutamente che preferiva imitare suo padre e servire il Signore lontano dal paese natio. Forse era solo mosso dal suo spirito d’irrequietudine, ma la sua fu comunque un’affermazione profetica, poiché davvero il Signore aveva in serbo per lui una missione lontano dalla patria. E se riflettiamo che uno dei santi più popolari, da noi invocato come Sant’Antonio di Padova, era in realtà nato a Lisbona, viene da aggiungere argutamente che è emigrando che i portoghesi diventano grandi santi.

Giovanni, benché ormai già sulla quarantina, prese dunque a vagabondare di nuovo per la Spagna, questa volta a sud, nell’Andalusia, dove per qualche tempo fu pastore nei dintorni di Siviglia, finché gli venne voglia di raggiungere l’Africa, forse entusiasmato dalle gesta di Carlo V, che nell’estate del 1535 aveva conquistato Tunisi, sconfiggendo il pirata Barbarossa.

 

3. Un bel gesto

 

MelogranoCercando a Gibilterra qualche possibilità d’imbarco, s’imbatté in un nobile portoghese, don Luis de Almeida, condannato per motivi politici ad un temporaneo esilio nella piazzaforte africana di Ceuta, posta sulla sponda marocchina dello stretto di Gibilterra, e s’accordò di seguirlo laggiù come domestico.

A Ceuta don Luis de Almeida, senza impiego, senza più rendite e con moglie e quattro figlie da mantenere, esaurì ben presto il proprio gruzzolo. A quel punto chiunque avrebbe lasciato al suo destino un padrone ridotto ormai alla fame, ma Giovanni invece si impietosì di quelle quattro giovani figliole, che a Ceuta non avevano alcuna possibilità di guadagnarsi da vivere con un lavoro onesto, e decise di divenire lui il sostegno economico di quella sventurata famiglia, offrendosi come manovale negli appena iniziati lavori di rafforzamento delle mura cittadine, eseguiti negli anni 1536-1538 per premunirsi da un ventilato attacco del pirata Barbarossa, voglioso di rifarsi contro i portoghesi dello smacco infertogli a Tunisi dagli spagnoli.

Fu una decisione presa quasi d’impulso. Ma alcuni anni dopo, rievocandola, lo stesso Giovanni non mancava di sottolineare che Dio nella sua grande bontà gli aveva offerto quell’occasione di fare del bene, per dargli modo di meritare almeno un poco le tante grazie che gli avrebbe concesse in seguito.

La prima grazia l’ebbe già a Ceuta, allorché l’inaspettata apostasia di un suo compagno di lavoro, con cui aveva stretto profonda amicizia, sconvolse talmente il suo animo da fargli perfino dubitare della propria fede. Provvidenzialmente un confessore francescano, al quale andò a chiedere umilmente lumi, riuscì a calmare la sua ansia, insistendo però che se ne tornasse subito in Spagna. Giovanni ubbidì e lasciò l’Africa, dandosi ad una nuova occupazione: libraio ambulante in terra andalusa.

Col suo carico di mercanzia, Giovanni prese a percorrere i villaggi, vendendo libri a chi poteva leggerli e proponendo agli altri di acquistare qualche riproduzione sacra da appendere in casa per mantener viva la devozione, oppure le tavolette allora utilizzate per insegnare ai fanciulli i rudimenti di catechismo.

Era tanto il suo impegno nel propagandare la buona stampa che, quando la Chiesa lo proclamò Santo, ci furono associazioni di librai a Roma, a Bologna ed in varie altre città, anche estere, che lo scelsero come loro speciale Protettore; in linea ancor oggi con questa devozione, un noto premio letterario toscano, chiamato “Bancarella” in quanto assegnato dai librai ambulanti di Pontremoli, consiste appunto in una statuina di maiolica raffigurante il Santo come libraio ambulante con tanto di bancarella.

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4. A Granada

 

MelogranoArrivato ai 46 anni, Giovanni cominciò però a stancarsi di quel continuo girovagare con un fardello di mercanzia sempre più pesante. Un giorno vicino Gaucín, un paesino tra Cadice e Malaga, un fanciullo gli offrì una melagrana, misteriosamente soggiungendo che essa sarebbe stata la sua croce. Poiché questo frutto in spagnolo si chiama “granada”, che è anche il nome della famosa città andalusa, Giovanni pensò che forse quello strano fanciullo era il Bambino Gesù, apparsogli per suggerirgli di troncare il suo vagabondare e di stabilirsi a Granada. Vi entrò nel 1537 ed avendo trovato libero un bugigattolo, strategicamente situato appena all’interno della Porta Elvira, che era allora la più trafficata via d’accesso a questa stupenda città andalusa, decise di insediarvisi per sempre con i suoi libri.

Per anni Giovanni era stato uno spirito irrequieto ed abbiamo accennato, solo per sommi capi, alle molteplici vicissitudini, che lo portarono a vagare per mezza Europa, Italia compresa. Ma ora a Granada sembrava che si fosse acquietato, stanco dei sogni di grandezza rimasti sempre tali, e ormai unicamente desideroso di gettare l’ancora nel tranquillo mondo borghese del commercio librario in una città che era stata per secoli faro di cultura.

Ma Dio aveva disposto diversamente: la vera avventura iniziò per Giovanni proprio quando egli credeva d’avervi ormai rinunciato. Granada divenne davvero la sua croce, ma anche la sua gloria! Ancor oggi l’emblema dei Fatebenefratelli consiste per l’appunto in una melagrana sormontata dalla croce e sfolgorante di luce.

Tutto cominciò il primo agosto 1538, quando decise di salire anche lui al Romitorio dei Martiri, davanti l’Alhambra, per la festa annuale di quella che era stata la prima chiesa voluta dai mitici “Re Cattolici” Ferdinando ed Isabella quando riconquistarono Granada nel 1492.

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5. Sconvolto da una predica

 

MelogranoAl Romitorio quell’anno i Canonici della Cappella Reale, da cui esso dipendeva, avevano invitato a predicare San Giovanni d’Avila, il famoso apostolo dell’Andalusia che in quel tempo aveva da poco conseguito presso l’Università di Granada il titolo di Maestro in Teologia.

Rievocando il coraggio sia di San Sebastiano, di cui v’era una tela sull’altare, sia dei tanti anonimi cristiani che durante la plurisecolare dominazione araba avevano in quel luogo affrontato la prigione ed il martirio pur di restare coerenti alla propria fede, il Maestro Avila esortò a dimostrare con scelte altrettanto radicali il proprio amore al Signore, uscendo dal pantano della mediocrità e dei mille piccoli tradimenti della nostra vita di ogni giorno.

Le parole dell’Avila provocarono un subbuglio indicibile nell’animo di Giovanni, che d’un tratto avvertì in maniera lacerante la vanità della vita trascorsa ed un disperato desiderio di recuperare quei quattro decenni sprecati ad inseguire effimeri miraggi. E come Cristo aveva dimostrato l’intensità del proprio amore all’uomo, affrontando ogni disprezzo e lasciandosi ignominiosamente inchiodare sulla croce, così Giovanni volle finalmente ricambiare almeno un poco il sacrificio di Cristo, esponendosi per suo amore al ludibrio della folla: con tutta l’esuberanza della sua tempra meridionale prese infatti a battersi platealmente il petto, urlando i propri peccati e invocandone misericordia.

Le aspirazioni borghesi, accarezzate in quegli ultimi mesi, persero di botto ogni minima attrattiva, anzi sentì il bisogno di dare un taglio netto con esse: corse al suo negozietto nella via Elvira, strappò ogni libro profano e regalò quelli d’argomento religioso ed ogni suo bene personale, compresi gli abiti, restandosene giusto con una camicia ed un paio di brache; prese poi a vagare per la città, implorando ad alta voce il perdono del Signore, dandosi dei gran colpi, strappandosi i capelli e perfino rotolandosi nel fango.

La gente rimase esterrefatta e qualcuno decise che era meglio accompagnare Giovanni dal Maestro Avila, perché riequilibrasse quella tempesta suscitata dal suo sermone.

San Giovanni d’Avila era un uomo di non comune levatura, sia dottrinale, come dimostrano i molti libri che ci ha lasciato, sia spirituale, tanto che ai suoi illuminati consigli ricorsero grandi santi della sua epoca, quali Sant’Ignazio di Loyola, San Francesco Borgia, San Pietro d’Alcantara e perfino un Dottore della Chiesa quale Santa Teresa di Gesù. Si fa dunque un po’ fatica a capire come mai l’Avila, invece di moderare le intemperanze di Giovanni, addirittura l’incoraggiasse a continuare ed a non lasciarsi vincere neppure un istante dal rispetto umano.

Forse l’Avila intuì che quello di Giovanni non era uno dei soliti effimeri fuochi di paglia, che conveniva bonariamente spegnere alla svelta, ma un incendio capace di far divampare l’universo intero. O forse, più semplicemente, fu la Provvidenza che andava in quel modo preparando Giovanni ad un incontro decisivo col mondo dei malati mentali, giacché anch’egli, persistendo in quei suoi atteggiamenti, finì rapidamente per essere considerato pazzo, tanto più che, con francescana umiltà, nulla faceva per smentire quel giudizio: e fu così che, dopo essere divenuto per vari giorni il docile zimbello della marmaglia di strada, alla fine qualche anima buona, volendo sottrarlo a quella continua gragnola di scherni e di sassate, lo fece ricoverare nell’Ospedale Reale, che in quel momento aveva un solo Reparto funzionante in permanenza, quello appunto dei malati psichiatrici.

6. L’impatto col mondo ospedaliero

Quell’Ospedale era stato voluto da Ferdinando ed Isabella, i “Re Cattolici” di cui Giovanni aveva potuto venerare il maestoso mausoleo al centro della Cappella Reale di Granada. Costoro nel 1504 avevano munificamente destinato fondi più che sufficienti per creare un complesso ospedaliero che per dimensioni e per qualità di prestazioni risolvesse adeguatamente tutte le esigenze assistenziali della città, ma la realizzazione era stata e rimase sempre deludente, tanto che ai tempi di Giovanni la gestione del mai ultimato Ospedale Reale di Granada era universalmente additata come esempio di inefficienza e corruzione.

Giovanni, specialmente in quell’anno di permanenza a Granada come libraio, aveva avuto modo di ascoltare tali sferzanti critiche e ora poté verificare con i propri occhi le carenze nel vitto e nell’igiene. Quanto alle terapie, a quei tempi la cura della pazzia consisteva in sonore nerbate, che si sperava potessero richiamare al buon senso le menti svanite.

Giovanni, lieto di venir così flagellato come Cristo, accettò volentieri anche quella feroce cura, però sentì il sangue ribollirgli quando la vide applicare agli altri ricoverati, per i quali provava ancor prima che solidarietà per la comune sventura, un sincero affetto per la comune fratellanza in Cristo, che ora avvertiva vivissima per effetto della conversione. La sua prima reazione fu di inveire contro il personale: “È una malvagità ed un tradimento trattare così male e usare tanta crudeltà con questi poveri infelici, fratelli miei e compagni di degenza in questa casa di Dio. Non sarebbe meglio che aveste compassione delle loro sofferenze e li puliste e deste loro da mangiare e ve ne occupaste con più carità ed amore, tenuto conto che i Re Cattolici assegnarono per questo scopo fondi più che sufficienti?”.

Naturalmente le sue rampogne contro l’inumana terapia, ma soprattutto contro la disonesta gestione dell’Ospedale, non ottennero altro risultato che di inasprire maggiormente gli infermieri nei suoi riguardi. Fu allora che gli esplose in cuore quel desiderio che avrebbe poi ispirato la sua futura missione: “Gesù Cristo mi conceda il tempo e mi dia la grazia d’avere io un ospedale, dove possa raccogliere i poveri abbandonati ed i privi di senno e servirli come desidero io”.

Quei giorni vissuti in tumultuosa penitenza erano riusciti a sgombrare il cuore di Giovanni da ogni vano pensiero ed a sintonizzarlo unicamente in Dio, che poté così fargli udire attraverso il linguaggio delle cose la sua chiamata a divenire il pioniere di un nuovo stile assistenziale.

In attesa di poter dare concreta attuazione a quel generoso desiderio di riforma ospedaliera ispiratogli dal Signore, Giovanni per intanto volle cominciare a far qualcosa subito.Per avere un minimo di libertà d’azione, smise con quel suo fare strampalato, disse di sentirsi “rinsavito” e, appena sciolto dai legacci, si offrì di dare una mano nelle pulizie e nell’assistere i compagni di sventura: forse anche per verificarne la guarigione, lo lasciarono fare e Giovanni, pur restando formalmente ricoverato, divenne il più diligente ed il più caritatevole degli infermieri.

Andò avanti così per un paio di mesi ma poi il 21 ottobre 1538, deciso ormai a voler tentare una strada tutta sua per realizzare il frustrato piano assistenziale studiato dai “Re Cattolici” e così spudoratamente tradito dagli amministratori, chiese d’esser dimesso. Era la festa di Sant’Orsola e compagne, che incontrarono il martirio a Colonia, pare durante un pellegrinaggio. Giovanni decise di cominciare anche lui con un pellegrinaggio e, nonostante la stagione fosse ormai inclemente, s’incamminò verso il nord per raggiungere in Estremadura il Santuario Mariano di Guadalupe ed impetrarvi sui suoi progetti l’aiuto della Vergine, della quale aveva sperimentato la materna protezione in ogni passata angustia e specialmente quando da militare, disarcionato da una giumenta imbizzarita, s’era fratturato lo zigomo sinistro ed era rimasto a lungo fuor di sensi a breve distanza dall’accampamento francese.

Come suggello di quel pellegrinaggio mariano, Giovanni divenne fedelissimo alla recita del Santo Rosario, tanto che anni dopo, scrivendo al giovane Luigi Bautista, gli confiderà: “Vi dico d’essermi trovato molto bene col Rosario: spero in Dio di recitarlo tutte le volte che potrò e che Dio vorrà”.

Dopo quell’estenuante pellegrinaggio di circa 400 km, compiuto a piedi nudi e completato in pieno inverno, egli ritornò in Andalusia fermandosi a Baeza da San Giovanni d’Avila, che lo trattenne con sé per vario tempo; fu quasi una specie di noviziato durante il quale l’Avila diede più chiarezza a quei propositi di bene, ancorò su solide basi la spiritualità di Giovanni e l’esortò a ritornare a Granada, affinché il suo desiderio si avverasse nella stessa città dove era sorto, anche se per lui non sarebbe stato affatto facile trovar credito proprio tra una popolazione che l’aveva ormai etichettato per matto.

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7. L’antica cantilena

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MelogranoRaggiunta Granada, Giovanni cominciò col raccogliere legna nei boschi vicini per distribuirne poi il ricavato tra la gente che viveva abbandonata nelle strade, senza neppure un tetto per la notte. Veramente il primo giorno che fece per entrare a Granada con una fascina di legna sulle spalle, fu preso dal panico all’idea degli sberleffi con cui l’avrebbero accolto nelle strade, in caso avessero giudicato che egli stesse recidivando nelle stramberie dell’agosto precedente. Appena varcata la Porta dei Molini, fu tale il suo timore di confrontarsi con la marmaglia cittadina, che lasciò la fascina alla prima persona che incontrò e se ne riscappò nei boschi.

Il secondo giorno però si fece forza e raggiunse la piazza principale, deciso a sfidare ogni dileggio. Proprio come temeva, al vederlo con tanta legna sulle spalle, tutti presero a chiedergli di quale altra pazzia fosse rimasto vittima.

Deciso a non reagire agli scherni, Giovanni riuscì ad allentare la tensione intima con la geniale trovata di ribattere sì ai dileggi, ma in una forma camuffata, che nessuno riuscisse a comprendere e che tuttavia gli consentisse di proclamare, anche se solo a se stesso, la saviezza del proprio operato e l’insipienza di chi lo giudicava solo dalle apparenze. Egli recuperò a tal fine una vecchia cantilena infantile, rimastagli impressa dai tempi in cui era ancor fanciullo a Montemor, e prese a canticchiarla con voce flautata:

              Quest’è il gioco del Berimbone,

                  tre navigli e un galeone,

                  ché quanto più tu sbircerai,

                  tanto men lo scoprirai.

Il gioco del “Berimbone” (in portoghese Berimbau, per far rima con nau, nave) era completamente ignoto in Spagna, per cui nessuno poteva afferrarne l’allusione, ma è tuttora praticato a Montemor, per cui sappiamo che consiste nel mettersi a cavalcioni di un compagno, serrargli con una mano le palpebre e mostrargli con l’altra alcune dita, sfidandolo con la cantilena della sarcastica quartina a indovinarne il numero giacché‚ con gli occhi coperti in quel modo, certo non può mai arrivare a vederle, per quanti sforzi faccia. Proprio come il capannello di sfaccendati della piazza Bibarrambla, che più tempo spendevano attorno a Giovanni, meno divenivano capaci di intuire la svolta interiore maturatasi nell’animo di quel libraio forestiero.

La trovata della cantilena funzionò e con questi ed altri graziosi giochi di parole Giovanni riuscì a sviare i dileggi ed a stabilire poco a poco rapporti normali con tutti.

Il pomeriggio del 16 maggio 1539 Giovanni vide entrare in città il corteo funebre della giovane moglie portoghese dell’imperatore Carlo V, falcidiata da una febbre puerperale. Un’altra testa coronata veniva tumulata nel fastoso mausoleo della Cappella Reale di Granada prima di poter veder compiutamente realizzato l’Ospedale auspicato da Ferdinando ed Isabella, che erano nonni sia della defunta imperatrice che del regnante marito. Giovanni, pensando alla morte che aveva ghermito anzitempo l’imperatrice sua connazionale e che presto avrebbe potuto ghermire anche lui, se ne sentì spronato a consacrarsi senza più indugi alla realizzazione di quel sogno dei “Re Cattolici”.

Dopo aver chiesto ispirazione al Signore pregando per un intero pomeriggio nella Cappella del Santissimo dell’erigenda Cattedrale, giusto al momento d’andar via e nel rimirare su di un altare laterale l’immagine di Cristo in croce con ai lati le figure della Madonna e dell’evangelista Giovanni, ebbe come una visione interiore nella quale la Vergine gli poneva sul capo la corona di spine del Figlio per prepararlo ad affrontare sofferenze inevitabili, ma superabili e preziose se unite a quelle di Cristo. Confortato da quella visione, s’avviò fiducioso verso casa e dopo pochi minuti di strada scoprì che accanto al mercato del pesce, in quella che fu poi denominata via Lucena, esisteva un modesto dormitorio notturno per indigenti. Gli sembrò la risposta del Cielo alle sue preghiere e decise di iniziare tra quelle mura il suo ambizioso progetto.

Con l’approvazione di San Giovanni d’Avila – che era stato invitato a Granada per predicare durante i funerali dell’imperatrice – Giovanni cominciò ad accompagnare in quel dormitorio quanti trovava a giacere sui marciapiedi e ad assumersene il sostentamento.

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8. In ogni uomo, un fratello da aiutare

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MelogranoPresto il dormitorio diventò insufficiente ma Giovanni, col suo sorriso buono e serenamente gioioso, riuscì a guadagnarsi l’appoggio di alcuni benefattori ed anche dell’arcivescovo di Granada, mons. Gaspare de Avalos, con l’aiuto dei quali poté affittare per proprio conto un edificio più ampio in un vicoletto della stessa via Lucena.

Nella nuova sede l’istituzione cominciò a prendere una fisionomia più nettamente ospedaliera pur restando al contempo un rifugio per qualsiasi miseria, giacché dal giorno della sua conversione Giovanni non volle mai dire un solo no a chiunque gli chiedeva aiuto per amore di Dio. Ed a chi lo giudicava imprevidente, sorridendo obiettava con una parafrasidel salmo 21: “Guarda che Dio dice: da nessuno distoglierai il tuo sguardo”.

Abbiamo a riguardo significativi episodi di questa sensibilità di Giovanni a qualsiasi necessità del prossimo.

Uno degli episodi più noti è quello del viaggio di Giovanni a Valladolid. Trovandosi perennemente indebitato per la sua generosità senza limiti, ebbe da San Giovanni d’Avila il consiglio di chiedere sussidi alla Corte, che allora era a Valladolid, ed in effetti sia il principe reggente Filippo che molti nobili furono assai liberali con lui: ma a Valladolid non v’era meno miseria che a Granada, sicché tutto quello che egli andava ricevendo finiva ben presto distribuito lì stesso. A chi dunque lo rimproverava di rendere in tal modo inutile quel suo lungo viaggio fino a Valladolid, Giovanni con un sorriso disarmante si limitò a rispondere: “Dare qui o dare a Granada, sempre è dare per amore di Dio”.

Oltre che dalla povertà di quanti mendicavano per le strade, Giovanni fu toccato dai grandi disagi dei ricoverati nell’Ospedale Reale di Valladolid, tanto che decise di dedicarvisi a tempo pieno, fermandovisi per vari mesi e tempestando di petizioni il sovrano per ottenere almeno delle agevolazioni daziarie per l’approvvigionamento di tale Ospedale.

Un altro non meno significativo esempio della sensibilità di Giovanni a qualsiasi necessità del prossimo fu il suo incontro a Granada con don Pietro di Toledo, che sarebbe morto a Napoli nel 1571 dopo esserne stato per dodici anni il viceré, ma che allora risiedeva ancora nella natia Siviglia, dove era in quel tempo riverito col titolo di marchese di Tarifa. Il marchese, trovandosi una sera ospite a Granada nel palazzo dei Mondejar, mentre vi giocava a carte con altri invitati vide entrare Giovanni a questuare per il suo Ospedale e racimolarvi ben 25 ducati d’oro. Per comprender quanto rispettabile fosse quella somma, basti pensare che Giovanni in una sua lettera a Gutierre Lasso confida che per sfamare nel suo Ospedale gli oltre cento assistiti, spendeva quotidianamente quattro o massimo cinque ducati.

Quando Giovanni uscì dalla sala, il marchese commentò che se quell’uomo riusciva a raccogliere tanto facilmente molto più di quanto spendeva in ospedale per i suoi assistiti, aveva sicuramente modo di imboscare una buona percentuale di quelle copiose offerte. Ma gli astanti gli replicarono candidamente che per Giovanni era semplicemente impossibile riuscire ad imboscare qualcosa, dato che non usava negare aiuto a chiunque glielo chiedesse.

Il marchese rimase però scettico e decise di metterlo alla prova: lo raggiunse in strada e gli si finse disperato e ormai deciso a togliersi la vita, non avendo alcuna possibilità di pagare un enorme debito di gioco contratto quella sera. E mentre snocciolava con arte la storiella, il marchese rifletteva che Giovanni aveva solo due possibilità: se era davvero di una generosità illimitata, avrebbe calcolato quel che gli serviva per affrontare le spese dell’indomani e quel che gli avanzava glielo avrebbe offerto; se era invece un profittatore, gli avrebbe ipocritamente replicato che non poteva aiutarlo, poiché quanto era riuscito a raccogliere non copriva neppure le spese dell’indomani.

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9. La terza via di Giovanni

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MelogranoMa sorprendentemente Giovanni adottò una terza soluzione e senza esitare gli pose in mano tutta la somma appena ricevuta, promettendo che all’indomani avrebbe cercato altro denaro purché lui non commettesse quel gesto inconsulto. Inutile dire che all’indomani fu invece il marchese a restituirgli i ducati, aggiungendovi anzi 150 scudi d’oro e divenendo da allora uno dei suoi maggiori benefattori.

Da che cosa nasceva quell’inaspettata terza soluzione? In altre parole, come mai Giovanni, interpellato da qualche bisogno concreto, pareva dimenticarsi degli impegni che aveva assunto con i suoi malati? Gli era rimasto ancora qualche ramo di stramberia? Decisamente no! Il suo era un atteggiamento perfettamente logico, ma di una logica derivata direttamente dal Vangelo.

La nostra abituale tendenza è di essere noi la misura degli altri, per cui diamo priorità a chi per noi ha maggiore importanza. Ad esempio, se iniziamo un progetto assistenziale, da quel momento le spese di quel progetto avranno per noi assoluta priorità su qualsiasi altro impegno caritativo che ci venga proposto. Ma quando chiesero a Gesù qual è concretamente il prossimo cui dobbiamo mostrare amore, Egli rispose con la parabola del Buon Samaritano (Lc 10, 25-37), insegnando che l’amore va mostrato con priorità a colui che abbiamo fisicamente di fronte, pronti dunque a mettere da parte ogni precedente impegno istituzionale, perfino quello di sacerdoti e leviti nei riguardi del culto divino.

Nella descrizione del Giudizio finale (Mt 25, 31-45), Gesù ci ha spiegato la logica di questa priorità: nei panni di chi ci interpella, si cela Gesù e dunque non possiamo mai dirgli di no. La nostra attuazione non può mai essere condizionata dalla valutazione soggettiva dei legami che abbiamo con la particolare persona che ci sta di fronte, ma deve invece essere guidata dalla valutazione della dignità oggettiva di qualsiasi essere umano, la quale deriva dalla sua identificazione mistica con Cristo. Giovanni l’aveva ben capito e proprio da questa saldissima convinzione nasceva quella sua frase “Dare qui o dare a Granada, sempre è dare per amore di Dio”.

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10. Alla sera della vita

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MelogranoCome cambierebbe il nostro agire se anche noi, come i santi, ci ricordassimo che alla sera della vita saremo giudicati sul criterio di priorità del nostro amore! Dovremmo rileggerci più spesso il citato brano del vangelo di San Matteo (Mt 25, 31-45), dove Gesù ci descrive la scena del Giudizio Universale, in cui saremo premiati o puniti unicamente in base a quello che avremo donato – o negato! – a coloro nei quali ci siamo imbattuti durante il nostro peregrinare sulla terra, poiché quel che facciamo ad ogni uomo, è a Cristo stesso che lo facciamo: infatti mediante la sua incarnazione, morte e risurrezione Cristo ci ha trasformati in nuove creature e, comunicandoci il suo Spirito, ci ha costituiti suoi fratelli in un solo Mistico Corpo di cui Egli è il Capo; appunto grazie al mistico legame che unisce il Capo alle membra, Cristo considera come diretto a se stesso ogni nostro gesto nei riguardi di qualunque dei suoi fratelli.

Quale esemplificazione concreta di questa sconvolgente identificazione potremmo ricordare quando sulla strada di Damasco Gesù interpella Saulo come persecutore dei cristiani contestandogli “Saulo, perché mi perseguiti?”; o potremmo ricordare Gesù che appare a San Martino mostrandoglisi rivestito della metà del mantello che costui aveva appena donato ad un povero.

E si badi che non è necessario rendersi conto di questa identificazione di Cristo con la persona di ogni nostro fratello, tanto è vero che nel racconto evangelico del Giudizio Finale sia i buoni che i malvagi mostrano di scoprirla solo allora.

Dio infatti, volendo che la nostra risposta sia libera e perciò meritoria, invece di interpellarci direttamente, si limita a sussurrarci nell’intimo del cuore la sua domanda d’Amore, cercando di farci commuovere dinanzi alle sofferenze di un prossimo che ci è totalmente anonimo. Quasi come un innamorato miliardario, che per saggiare la sincerità d’amore della fanciulla che ha scelto, le si presentasse in vesti dimesse.

Quando però cominciamo a rispondere a questi Suoi appelli interiori, capita talora che Egli già sulla terra ci si sveli per un istante. Fu quel che accadde a San Martino e che si ripeté con Giovanni, il quale un giorno mentre nel suo Ospedale era intento a lavare i piedi d’un malato, vide all’improvviso comparirvi i fori della Crocifissione e, con un gran fulgore, il malato trasfigurarsi in Cristo e dirgli: “Giovanni, quando lavi i piedi ai poveri, è a Me stesso che li lavi”.

Credere nel Corpo Mistico non è solo dare materialmente qualcosa al fratello in Cristo che ne ha bisogno, ma è soprattutto credere che ogni uomo è tempio di Dio, aver fiducia in questa Presenza e credere che possa trionfare d’ogni sozzura che parrebbe averla cancellata.

Solo credendo nell’unione mistica d’ogni uomo con Cristo, arriveremo a credere in chiunque come sapeva crederci Giovanni, che con piena sincerità e profonda fede soleva chiamare tutti con l’appellativo di “fratelli in Cristo” e chiamò così perfino il principe Filippo. È credendo nei potenti, che riusciva ad accattivarseli ed a trasformarli in benefattori; è credendo negli assassini, negli sfruttatori, negli usurai, nei maldicenti, che riusciva a convertirli in suoi discepoli; è credendo nelle prostitute, che riusciva a strapparle alla loro umiliante professione.

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11. Difensore della donna

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MelogranoIl fatto che 1’8 marzo siano venuti a coincidere la “Festa della Donna” e la ricorrenza liturgica di San Giovanni di Dio, può diventare una buona occasione per sottolineare quanto questo straordinario santo ebbe autenticamente a cuore la dignità della donna, specie di quelle che sembravano avervi definitivamente rinunciato.

Ogni venerdì egli soleva infatti recarsi da qualche prostituta e, dopo averle pagato la tariffa, le chiedeva solo d’ascoltarlo rievocare la Passione di Cristo: e la raccontava con tanta devozione che molte finivano per ravvedersi e si lasciavano poi aiutare a cambiar vita, ricevendo da lui la dote e quant’altro occorresse per tornar libere e sistemarsi.

In questo coraggioso apostolato non gli mancarono certo insulti, scherni e pesanti accuse, ma mai riuscirono a scalfire la sua disarmante fiducia nel prossimo. Tra i tanti episodi, merita ricordare almeno quello delle quattro prostitute che vollero un giorno farsi gioco di lui e gli dettero a credere che avrebbero mutato vita se lui le avesse accompagnate a Toledo, dove avevano da regolare un’importante questione.

Senza indugio Giovanni di Dio si procurò delle cavalcature per loro e le seguì a piedi in quel viaggio di oltre trecento km, assieme ad un suo fedele collaboratore soprannominato Angulo. Possiamo immaginare quali salaci commenti destasse il passaggio di quella strana comitiva: commenti che Angulo non riusciva a sopportare con la stessa bontà del Santo.

A poco più di metà cammino, durante una tappa ad Almagro, cominciò a sparire una di loro, ed altre due scomparvero una volta raggiunta Toledo. Angulo a quel punto non seppe più trattenere l’irritazione per quell’assurdo viaggio e cominciò a borbottare contro Giovanni di Dio, dicendogli che era stata una vera pazzia dar retta a simili donne, tanto erano tutte ugualmente perverse e nessuna di loro sarebbe cambiata.

Ma Giovanni di Dio lo rabbonì prendendo esempio dai viaggi che gli faceva fare per rifornire di pesce l’Ospedale: da Motril, sulla Costa del Sole, fino a Granada, c’erano una settantina di chilometri di dura salita e se il pesce non era ben fresco, andava a male lungo la strada. “Supponi – gli disse – che avevi caricato a Motril quattro some di pesce e se ne fossero guastate tre in viaggio: forse per questo avresti buttato via la quarta?”.

Ed in effetti la quarta donna ritornò con loro da Toledo e cambiò davvero vita come aveva promesso.

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12. Fate bene, fratelli!

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MelogranoNella mistica identificazione di Cristo col prossimo, specie sofferente, Giovanni aveva ormai trovato la propria ragione di vita, ma non gli bastava: voleva che anche gli altri aprissero gli occhi a questa sconvolgente verità e si convincessero dell’immenso valore di ogni gesto di misericordia.

Alla duchessa di Sessa, sua benefattrice, scriveva perciò “L’elemosina che mi faceste, già gli Angeli l’hanno scritta in Cielo nel libro della Vita”. E più avanti aggiungeva con ancor maggior forza: “Se considerassimo quanto è grande la Misericordia di Dio, mai lasceremmo di fare il bene ogniqualvolta potessimo, poiché dando noi per suo amore ai poveri quel che Lui dà a noi, Egli ci promette nella beatitudine il cento per uno. O felice guadagno e usura! Chi non darà quel che possiede a codesto Mercante benedetto, giacché Egli fa con noi un affare così buono?”.

Ed è per questo motivo che egli quando all’imbrunire, terminato di accudire ai suoi malati, usciva alla questua per le strade di Granada, soleva cantilenare quelle stupende parole: “Fate bene, fratelli, a voi stessi per amor di Dio”, affinché la gente capisse che egli veniva non a chiedere, ma al contrario ad offrire la possibilità d’essere ricompensati a dismisura nella vita eterna per ogni gesto di generosità nei confronti di chi era nel bisogno.

E se talora qualcuno esitava per avarizia, Giovanni senza mezzi termini gli chiariva che quell’invito suadente era in realtà un imperativo morale ineludibile. La volta, ad esempio, che un ricco mercante si rifiutò di regalargli un lenzuolo per seppellirvi un vagabondo trovato morto per strada, Giovanni gli depositò il cadavere davanti al portone, dicendogli: “Tanto sono in obbligo di seppellirlo io, quanto tu!” e fece l’atto di andarsene, sicché l’altro, convintosi, s’affrettò a richiamarlo e a dargli il lenzuolo.

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13. Dall’odio all’amore

.Melograno

Erano gesti e frasi che lasciavano il segno e scuotevano gli animi enormemente di più che le sue stramberie d’un tempo. In realtà, dopo pochi mesi di vederlo all’opera con i miseri, più nessuno lo giudicava un pazzo da legare, anzi ognuno restava ammirato del gran bene che riusciva a compiere, tanto che già sul finire del 1539 vi furono alcuni che decisero di associarsi a Giovanni nel suo apostolato di carità. Tra codesti discepoli della primissima ora ci furono Giovanni García, Antonio Martín e Pietro Velasco. Questi ultimi due, Giovanni se li guadagnò con un autentico prodigio di grazia, che merita raccontare.

Velasco era in carcere a Granada in attesa di giudizio, avendo ucciso per motivi d’onore il fratello di Martín, il quale s’era anche lui trasferito nella città per seguirvi la causa, giunta ormai all’ultimo appello, e nel frattempo vi sbarcava il lunario dedicandosi all’ignobile mestiere di “protettore”. Giunse infine dal Tribunale della Cancelleria di Granata la sentenza definitiva di condanna a morte ma, secondo il codice dell’epoca, nei delitti d’onore era possibile il condono se l’assassino veniva perdonato dai parenti dell’ucciso: però Antonio Martín, nonostante molti intermediari avessero cercato di indurlo a concedere il perdono, si era sempre sdegnatamente rifiutato di perdonare chi gli aveva ucciso l’unico fratello che aveva.

Giovanni, che nel suo apostolato tra i carcerati aveva conosciuto Pietro Velasco, volle fare un estremo tentativo per salvargli la vita. Si mise in cerca di Antonio Martín e, incontratolo in via della Colcha, si inginocchiò ai suoi piedi e gli additò il Crocifisso: “Se vuoi che Lui ti perdoni i peccati, – gli disse senza mezzi termini – devi perdonare il tuo nemico!”.

Quel monito evangelico, pronunciato da chi su di esso aveva improntato la propria vita (ad ogni offesa Giovanni infatti usava rispondere: “Dato che prima o poi devo perdonarti, tanto vale che ti perdoni subito”), gli entrò dritto nel cuore. Assieme a Giovanni si recò seduta stante al Carcere per ufficializzare il perdono dell’attonito Velasco. I due nemici si abbracciarono commossi e poi, sconvolti da quell’esperienza, capirono entrambi che la loro vita avrebbe avuto senso solo facendosi, con un totale cambiamento di rotta, umili discepoli di quell’infuocato portoghese. Come deduciamo dalla sua primitiva lastra tombale, Antonio Martín aveva allora 39 anni. Da quel momento lui e Velasco si consacrarono totalmente al Signore nel servizio ai malati. A sera uscivano a questuare con Giovanni, anch’essi scalzi, e chiunque li aveva conosciuti, nel vederli in tal modo, restava stupito.

Nella primavera del 1540 Giovanni bussò per aiuto alla porta di mons. Michele Muñoz, da anni Consigliere di Amministrazione e Cappellano dell’Ospedale Reale di Granada ma ormai sul piede di partenza in quanto fin dal gennaio era stato promosso a Vescovo di Tuy ed era in attesa di prender possesso canonico di tale Diocesi spagnola, sita nel versante portoghese della Galizia.

Il prelato non solo gli consegnò un’offerta, ma facendosi interprete del giudizio popolare che ormai vedeva in quell’instancabile portoghese un provvidenziale uomo di Dio, venuto a lenire i gravi problemi sociali della città, gli modificò il nome in “Giovanni di Dio”, sicché tutti a Granada presero a chiamarlo in quel modo. Col nome, il vescovo gli impose anche una specie di divisa assai semplice: un camiciotto, un paio di calzoncini a mezza gamba e una ruvida mantellina.

  

 

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14. Abito e nome da religioso

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MelogranoNome ed abito ufficializzarono anche esteriormente quella che ormai appariva una definitiva donazione a Dio come religioso. Giovanni di Dio se ne rese perfettamente conto e appena tornato in Ospedale chiese ai suoi discepoli di indossare lo stesso abito e trasformarsi così in Famiglia Religiosa. Assieme all’abito, essi adottarono similmente un nuovo nome, per cui Martín, al pari di Giovanni, si fece chiamare di Dio; e Velasco, consapevole dell’omicidio di cui si era macchiato, scelse di farsi chiamare Pietro Peccatore.

Dio benedisse l’impegno della nuova Comunità Religiosa, animandola quotidianamente con la grazia e talora, pare, anche con interventi prodigiosi. Ad esempio, un giorno che mancava il pane per i malati, un misterioso giovane ne recò in abbondanza. A chi gli chiese chi fosse, rispose che condivideva la stessa missione di Giovanni di Dio e infatti ne indossava lo stesso abito.

Nessuno lo vide mai più e c’è chi si disse convinto che fosse stato l’arcangelo San Raffaele, che nella Bibbia è indicato essere l’angelo specificamente incaricato dal Signore per soccorrere i malati, come ben appare dal suo stesso nome, che significa “medicina di Dio”. In ricordo di quell’episodio, ancor oggi i Fatebenefratelli nutrono particolare devozione per San Raffaele, festeggiandolo il 24 ottobre e raffigurandolo con indosso il loro abito e con il grembo dello scapolare colmo di pane.

In quello che è il più famoso quadro di San Giovanni di Dio, dipinto dal Murillo per una chiesa di Siviglia, viene ricordato un altro intervento prodigioso di San Raffaele, quando una notte avrebbe aiutato il Santo a rialzarsi da terra, dove era scivolato per la violenza della pioggia mentre arrancava sul viscido acciottolato della salita Gomélez, avendo sulle spalle un malato trovato abbandonato sul marciapiede e che stava portando nel suo ospedale.

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15. Nonostante la pioggia

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MelogranoCon la collaborazione di Martín e Velasco e con l’appoggio di vari benefattori tra cui particolarmente l’arcivescovo di Granada, Giovanni era riuscito a traslocare il suo Ospedale in un fabbricato assai più ampio, acquistato per 400 ducati in cima alla salita Gomélez e nel quale poté predisporre ambienti separati per i vecchi abbandonati, per le persone di transito e per i vari tipi di ammalati: era una vera innovazione per quei tempi, tanto che poi il Lombroso lo avrebbe definito per questo motivo “il creatore dell’Ospedale moderno”.

Ma l’innovazione più autentica di quell’Ospedale era la profonda umanità con cui veniva accolta quella turba di derelitti, che solamente tra quelle mura cominciavano finalmente a capire quanto Dio li amasse. Essi si accorgevano infatti che nel cuore di chi li assisteva palpitava il cuore stesso di Cristo.

In men che non si dica, anche il nuovo edificio risultò angusto e Giovanni di Dio l’ampliò con una nuova ala, la quale purtroppo nel dicembre 1542 smottò sotto le piogge che scendevano torrenziali dalle erte pendici dell’Alhambra. I benefattori che l’avevano finanziata ne rimasero costernati ma non si persero d’animo e, sotto il coordinamento di San Giovanni d’Avila, concordarono di erigere in zona migliore un nuovo e più ampio Ospedale. L’iniziativa fu portata avanti con molto entusiasmo ed in breve furono raccolti fondi molto consistenti che nella primavera del 1543 permisero di avviare i lavori in un terreno messo a disposizione dai Frati di San Girolamo, ma poi subentrò una lunga stasi, tanto che solo tre anni dopo la morte di Giovanni si riuscì infine a completare grosso modo l’edificio ed a trasferire così i malati in quello che è ancor oggi l’Ospedale San Giovanni di Dio.

Giovanni pertanto, finché visse, dovette contentarsi di continuare a ricevere i malati nella salita Gomélez, limitandosi a riparare al meglio i danni dell’edificio e forse commentando in cuor suo che le buone intenzioni di quei generosi benefattori del 1542 stavano facendo la stessa triste fine di quelle dei “Re Cattolici”. Un indizio di questa sua scarsa fiducia nella loro iniziativa è il fatto che a distanza di un sette anni da quel crollo, quando i lavori del nuovo grande edificio presso la Porta San Girolamo erano ormai completamente fermi, Giovanni nello scrivere alla duchessa di Sessa non sollecita minimamente aiuto per quella imponente costruzione ed invece segnala alla sua benefattrice il gran bisogno in cui si ritrova nella vecchia sede di Gomélez “poiché sto rinnovando tutto l’edificio, che era assai malandato e ci pioveva”.

Il Santo firma questa lettera non con il suo nome Giovanni di Dio – che solo raramente e solo in documenti ufficiali usava vergare per esteso – ma con una misteriosa sigla di tre lettere, che egli mai volle spiegare e che probabilmente riproduce le iniziali dei Re Cattolici, quasi a ricordare a se stesso il desiderio di realizzare per proprio conto il sogno benefico dei sovrani Ferdinando e Isabella: in effetti, a dispetto delle piogge e degli indugi dei benefattori del 1542, Giovanni di Dio era ormai riuscito già nella sede di Gomélez ad offrire adeguata soluzione ai bisogni ospedalieri di Granada, nella cui Cappella Reale ormai le salme dei due sovrani potevano perciò finalmente dormire sonni tranquilli.

Ecco come il Santo descrive in una lettera all’amico Gutierre Lasso la ben variegata tipologia del proprio Ospedale: “Siccome questa Casa è generale, si accoglie ogni malattia e tipo di gente, sicché qui ci sono storpi, mutilati, lebbrosi, muti, mentecatti, paralitici, tignosi ed altri molto anziani e numerosi bambini, senza poi contare molti altri pellegrini e viandanti che vengono qui e si offre loro fuoco, acqua, sale e pentole per cucinare il mangiare”.

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16. La fisionomia spirituale

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MelogranoLe lettere che conserviamo di Giovanni sono appena sei, però grazie alla loro spontaneità ci offrono valide piste per delineare il profilo spirituale del Santo. Egli infatti non meditò a tavolino le sue lettere, pesando i concetti e limando le espressioni, ma le dettò di getto, con uno stile inevitabilmente ingarbugliato, ma di totale trasparenza dei sentimenti interiori. E questa trasparenza diviene ancor maggiore grazie alla peculiare umiltà che contraddistingue ogni autentica santità.

L’umiltà dei Santi nasce dal fatto che mentre noi abbiamo la tendenza di studiare i difetti altrui ed in questo modo insuperbire al ritrovarci migliori di almeno qualcuna delle persone che ci stanno d’intorno, il Santo rifugge dal giudicare gli altri e concentra la sua attenzione su Cristo, che tutti siamo chiamati ad imitare, senza ovviamente poterne mai raggiungere la perfezione. A motivo del differente punto di riferimento, il Santo non si ritiene mai soddisfatto dei risultati conseguiti e fino all’ultimo respiro anela a progredire di più nel cammino intrapreso, per cui proprio le virtù in cui ormai eccelle sono quelle di cui egli, con sincera umiltà, si duole di non possedere ancora.

Se non fosse per questo tipo d’umiltà, davvero non riusciremmo a renderci conto come mai Giovanni nella lettera che abbiamo appena citato, scritta quando mancavano esattamente due mesi alla gloriosa morte e quindi possiamo ritenere avesse ormai praticamente già maturato appieno la propria santità, continui umilmente a chiedere all’amico Gutierre Lasso d’impetrargli dal Signore aiuto a crescere in carità, proprio lui Giovanni che noi veneriamo per antonomasia come il Santo della carità!

Oltre a crescere in tale virtù, ecco quanto concretamente Giovanni chiede all’amico: “Amatissimo fratello in Gesù Cristo, non lasciate di pregare Gesù Cristo per me, affinché mi dia grazia e forza perché possa resistere e vincere il mondo, il diavolo e la carne; e mi dia umiltà, pazienza e carità verso il mio prossimo. E mi permetta di confessare con sincerità tutti i miei peccati, obbedire al mio confessore, disprezzare me stesso e amare solo Gesù Cristo. Parimenti professare e credere tutto quello che professa e crede la santa madre Chiesa”.

Ci basta leggere in positivo questo brano della lettera, dando cioè per eminentemente conseguito quanto appare desiderato, e possiamo ricavarne il più fedele autoritratto interiore del Santo, non affidato a nostre sottili intuizioni, ma inconsapevolmente tracciato con assoluta sincerità dalla viva voce dell’interessato.

In base a questa involontaria autodescrizione il Santo ci appare: vittorioso sul mondo, il diavolo e la carne; caritatevole verso il prossimo; sincero ed obbediente col confessore; senza alcun culto di sé; innamorato unicamente di Dio; propugnando la più completa e filiale adesione all’insegnamento della Chiesa, in quei secoli tristemente lacerata da scismi ed eresie.

Che cosa il Santo intendesse col trinomio mondo, diavolo e carne”, lo sappiamo da un’altra sua lettera alla duchessa di Sessa: per “mondo” egli intendeva l’ansia smodata di accumulare beni terreni e la perniciosa illusione che la nostra fibra umana sia abbastanza solida e duratura da consentire di riprenderci in futuro dagli stravizi di oggi; per “diavolo” lo spingerci del Maligno a impegolarci talmente nella cura dei beni temporali da cancellare completamente dalla nostra agenda ogni momento dedicato alla vita interiore e alle opere di misericordia; per “carne” il pungolo a mangiar bene, bere bene, vestir bene, poltrire, defilarsi nel lavoro, cedere alla sensualità e vanagloriarsi.

Si noti che la lotta contro questi tre nemici gli era stata additata da San Giovanni d’Avila fin dai giorni del famoso ricovero nell’Ospedale Reale di Granata e questo ci conferma come gli obiettivi spirituali che Giovanni elenca all’amico Gutierre Lasso erano gli stessi che si era proposto nei giorni della clamorosa conversione. E troviamo conferma della persistente centralità di tali obiettivi nel cammino ascetico di Giovanni, considerando che la loro lista ricompare, praticamente con le stesse parole, anche in una delle sue lettere alla duchessa di Sessa, segno evidente di un orientamento spirituale ormai più che consolidato perfino nella sua formulazione verbale.

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17. Una nuova Famiglia Religiosa

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MelogranoNella salita Gomélez i discepoli di Giovanni vivevano come una nuova Famiglia Religiosa sotto l’obbedienza dell’arcivescovo, che redasse per loro apposite Costituzioni, della cui osservanza era garante un Cappellano esterno di nomina diocesana ed avente la qualifica di Rettore dell’Ospedale.

Ai tre ricordati discepoli iniziali della Comunità andarono unendosi alcuni altri, quali Simone d’Avila e Domenico Piola. Quest’ultimo era italiano e da buon genovese campava prestando denaro. Giovanni, una volta che non sapeva più a chi chiederlo, s’azzardò a domandargli un prestito e quando Domenico sardonicamente gli obiettò che occorreva un garante di tutta fiducia, non trovò di meglio che tirar fuori una immaginetta del Bambino Gesù. Di fronte a tanto candore, Domenico rimase sconvolto. Il Bambino, questa volta senza ricorrere a misteriosi messaggi, gli toccò il cuore e gli fece di colpo intuire che la sua vita sarebbe stata infinitamente meglio spesa accanto a Giovanni che inseguendo i maledetti soldi.

Giovanni fu attentissimo a forgiare nella fede e nell’amore ogni suo discepolo, come ben traspare dalla sua lettera al giovane Luigi Bautista, che appariva intenzionato ad associarsi definitivamente alla nascente Comunità. Giovanni era infatti conscio che l’esiguo gruppo che gli si era affiancato rappresentava solo la prima cellula di un Istituto Religioso che avrebbe sfidato i secoli. Non per nulla, ad una persona con cui usava confidarsi egli espresse la propria convinzione che “vi sarebbero stati molti del suo abito a servizio dei poveri in tutto il mondo”.

Accanto al gruppetto di discepoli che indossavano l’abito religioso v’era un discreto numero di volontari laici, talora sposati, e che al massimo ricevevano il vitto ed in qualche caso l’alloggio. Il più noto di loro è Giovanni d’Avila, soprannominato Angulo, che pur essendo povero e con moglie a carico, si prodigava gratuitamente come Maggiordomo dell’Ospedale ed uomo di fiducia del Santo. Non v’era alcun personale stipendiato e l’Ospedale non aveva rendite fisse ma, come scrive il Santo al suo amico Gutierre Lasso, “a tutto provvede Gesù Cristo”.

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18. Vittima di carità

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MelogranoA fine mattina del 3 luglio 1549 un furioso incendio divampò nell’Ospedale Reale di Granada, intrappolando nel loro Reparto i malati di mente che nessuno voleva o ardiva soccorrere: Giovanni di Dio, che ben conosceva quegli ambienti, fu l’unico che osò avventurarsi tra le fiamme, guidando tutti in salvo e trattenendosi poi a recuperare le masserizie, che gettava man mano dalle finestre. Si recò poi sul tetto, lavorando d’ascia per bloccare l’avanzata del fuoco, che in effetti non riuscì ad estendersi al versante del Reparto Psichiatrico. Ad un tratto però un’improvvisa fiammata s’abbatté su di lui e la gente lo considerò perduto: ma dopo un bel po’ riapparve libero e senza danni, tranne le ciglia che erano bruciacchiate, a testimoniare in che modo prodigioso il Signore l’aveva salvato da sicura morte.

Quest’episodio veniva così ricordato nell’antica orazione liturgica per la festa del Santo: “Insegnando la carità, mostrò che il fuoco esterno aveva su di lui minor forza del fuoco che lo bruciava interiormente”.

L’inverno seguente un nuovo gesto di generosità gli fu fatale: gettatosi a fine febbraio nelle gelide acque del torrente Genil per salvare un giovane trascinato via dalla corrente, ne riportò una polmonite. Costretto a letto da brividi e febbre, Giovanni intuì per l’esperienza infermieristica la gravità della situazione, contro la quale non v’era allora alcuna valida terapia e che usualmente portava a morte in nona giornata.

Cercò di riguardarsi un poco, ma proprio in quel momento vennero a dirgli che l’arcivescovo, che era allora mons. Pietro Guerrero, voleva vederlo d’urgenza. Giovanni, dissimulando alla meglio la propria malattia, accorse prontamente da lui, che dopo avergli snocciolato con una certa irritazione una serie di critiche che la gente moveva al suo troppo buon cuore nell’accettare chiunque nel proprio Ospedale, anche emeriti imbroglioni che profittavano della sua ingenuità e donne equivoche, che lo disonoravano con la loro condotta, gli intimò d’espellere immediatamente tali pessime persone.

Pacatamente Giovanni tentò le difese dei suoi assistiti, dicendo che era lui solo pessimo e meritevole d’essere scacciato e che in tutti gli altri non trovava nulla di riprovevole, ma a quel punto mons. Guerrero fece un sorrisetto ironico per fargli capire che non intendeva esser preso per il naso e sapeva bene che feccia d’umanità popolava l’Ospedale. A Giovanni non rimase altro che giocare a carte scoperte e senza più negare l’addebito, giustificò il suo operato parafrasando il Vangelo: “Dato che Dio sopporta sia i cattivi che i buoni e su tutti fa sorgere ogni giorno il sole, non ci son ragioni per scacciare gli abbandonati e gli afflitti dalla loro casa”. Quel ragionamento lineare convinse l’arcivescovo che Giovanni non era un ingenuo, ma un’anima di Dio e paternamente gli disse che lo benediva ed autorizzava a proseguire a suo modo.

Giovanni tornò in Ospedale con l’animo più sereno, ma avvertendo nel fisico il progredire inesorabile della polmonite. Temendo di soccombere ad essa, si premurò di far scrivere in ordine i suoi perenni debiti. Chiamò uno scrivano e con lui, nonostante la febbre, fece il giro dei creditori per mettere nero su bianco la situazione debitoria, che in qualche caso apparve perfino dimenticata dall’interessato, ma non dall’animo onesto di Giovanni, che volle venisse riassunta in duplice lista, una da conservare in Ospedale ed una che si pose in petto.

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19. Nella casa dei Pisa

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MelogranoEsausto da quei giri, Giovanni non riuscì più ad alzarsi dal letto, per cui quando venivano a chiedergli aiuto non ebbe altra risorsa che mandarli con un suo biglietto da qualche benefattore, non avendo più forze per elemosinare personalmente. Quei biglietti fecero conoscere in giro la gravità della sua situazione di salute ed una delle sue maggiori benefattrici, donna Anna Ossorio, moglie del Consigliere Municipale García de Pisa, accorse da lui e vedendolo giacere su un tavolaccio, con la sporta per cuscino e continuamente assediato da una torma di poveri, gli offerse di venire accudito nel suo palazzo signorile. Giovanni ovviamente rifiutò di lasciare i suoi poveri, ma donna Ossorio non si dette per vinta e tornò con un ordine scritto dell’arcivescovo, al quale Giovanni si vide costretto ad ubbidire, anche se l’angoscia dei suoi assistiti a quel distacco gli spezzava il cuore e gli fece perdere i sensi.

Adagiatolo su di una sedia, lo trasportarono al palazzo dei Pisa, dove gli imposero di togliersi il ruvido abito religioso e gli dettero un camicione, ponendolo in un soffice letto e vietando ai poveri d’entrare a importunarlo.

L’arcivescovo si premurò di venirgli a dare l’estremo saluto e Giovanni, che era riuscito a portare con sé la lista dei debiti, lo convinse a saldarglieli ed in più ottenne la promessa che avrebbe vegliato sul futuro dell’Ospedale.

Tra i pochi ammessi nella stanza che gli avevano riservato all’ultimo piano erano ovviamente i suoi Confratelli ed una sera il suo discepolo Antonio Martín l’udì intonare ad alta voce l’inno mariano Alma Redemptoris Mater. Incuriosito, ne chiese a Giovanni il motivo e questi, dopo essersene a lungo schermito, finì col confidargli che gli era appena apparsa la Madonna per assicurargli che in cambio della devozione che egli aveva nutrito sempre per Lei, non gli avrebbe ora negato il suo celeste Patrocinio in punto di morte; e la confidenza del Santo si concluse con un accorato invito perché i suoi discepoli restassero anch’essi sempre devoti alla Vergine per poterne godere in ogni momento l’immancabile aiuto e Patrocinio.

Quella devota consegna sul letto di morte fu in effetti sempre rispettata dai Fatebenefratelli, che hanno tuttora come loro principale festa mariana la solennità della Madonna del Patrocinio, che celebrano liturgicamente il terzo sabato di novembre.

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20. Tra il venerdì e il sabato

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MelogranoLa devozione mariana del Santo era seconda solamente a quella per la Passione di Cristo, riguardo alla quale poteva in tutta sincerità confidare alla duchessa di Sessa: Non trovo miglior rimedio e conforto, quando mi trovo in pena, che rimirare e contemplare Gesù Cristo crocifisso e riflettere sulla sua santissima Passione”.

Giovanni era talmente consapevole che le due note essenziali della propria religiosità erano la sua profonda devozione al mistero della Passione e la sua tenera devozione alla Madre Celeste, che egli più volte aveva manifestato a chi godeva della sua confidenza la propria certezza interiore che sarebbe morto a cavallo tra un venerdì ed un sabato, a cavallo cioè dei due giorni che la pietà popolare usa dedicare in maniera specialissima rispettivamente a ricordo del dramma del Golgota, consumatosi il Venerdì Santo, e a ricordo della materna intercessione di Maria, l’unica salda nella fede durante le desolate ore del Sabato Santo.

In effetti, Giovanni morì all’alba di un sabato ed in quel tempo la cerniera tra un giorno ed il successivo non era la mezzanotte, ma appunto l’alba. Per l’esattezza, Giovanni s’aggravò il 7 marzo 1550, che era un venerdì: gli portarono il Viatico, ma egli era così debole che non poté inghiottire l’Ostia e si limitò a fare atto d’adorazione.

A sera chiamò Antonio Martín, suo primo e più fedele discepolo, e gli raccomandò i malati e la Comunità, designandolo come suo successore, poi chiese di restare solo.

Verso l’alba, coloro che erano restati a vegliarlo nella stanza accanto, avvertirono nel silenzio notturno la consueta squilla d’un vicino convento che invitava la Comunità in Cappella per la recita del Mattutino del sabato. Una mezz’oretta dopo, udirono il Santo esclamare “Gesù, Gesù, m’affido nelle tue mani”.

Seguì un lungo silenzio, per cui decisero d’entrare e s’avvidero che il Santo aveva lasciato il suo letto, aveva indossato l’abito religioso e s’era posto ginocchioni al centro della stanza, stringendo con entrambe le mani un crocefisso e contemplandolo col capo leggermente inclinato, come nell’atto di volerlo baciare.

Proprio come aveva previsto, poco dopo l’inizio della liturgia sabatina la morte gli aveva schiuso le porte dell’ineffabile liturgia celeste. Ed incredibilmente il suo corpo, invece di afflosciarsi al suolo, era rimasto fissato in quel significativo atteggiamento d’amore e di preghiera.

Tutta Granada accorse stupita a rendergli l’estremo omaggio. Quando sopraggiunsero dalla vicina Cancelleria gli Alcaldi del Crimine, Lebrija e Sereño, diedero ordine di distenderne a forza le membra per poterlo collocare nella bara, che venne poi scesa in strada da quattro rappresentanti della più alta nobiltà, primo fra tutti il famoso marchese di Tarifa.

Il funerale fu celebrato nella stessa mattina del sabato 8 marzo e fu un trionfo, come mai s’era visto per altri. Giovanni era stato un fratello per tutti e assolutamente tutti, nobili e popolani, mori e cristiani, ne piansero la morte come davvero di un loro fratello.

La generosa epopea vissuta per una dozzina di anni a Granada da San Giovanni di Dio, non si concluse però con la sua morte, dato che il suo messaggio, come aveva egli stesso profetizzato, si espanse e perpetuò nei secoli tramite la Famiglia Religiosa da lui fondata.

Già durante la sua vita Giovanni di Dio aveva avviato una seconda fondazione ospedaliera a Toledo, affidandola al suo discepolo Fernando. Nel 1552, a brevissima distanza dalla sua morte, il suo successore Antonio Martín apriva un Ospedale a Madrid ed altri ne seguirono in breve, per cui il primo gennaio 1572 venne presentata una richiesta al Papa San Pio V per ottenere l’inquadramento della nuova Famiglia Religiosa nell’ambito del diritto pontificio.

Il Papa aderì alla richiesta e con la Bolla “Licet ex debito” la approvò come Istituto Religioso Regolare, sottoposto alla Regola di Sant’Agostino, per cui i Confratelli cominciarono ad emettere la Professione Religiosa nelle mani del Vescovo locale.

Il 1572 segnò così la nascita canonica dei Frati di San Giovanni di Dio, che presero a diffondersi anche in Italia, dove ebbero il soprannome di Fatebenefratelli perché nel questuare ripetevano lo stesso ritornello del Fondatore, come ci ricordano queste ingenue terzine di una “villanella”,ossia una canzonetta, in voga a Roma nel 1584:

         Vanno per Roma con le sporte in collo

         certi gridando: Fate Ben Fratelli,

         per medicar gl’infermi poverelli.

                     A questi non v’è donna tanto avara

                     che non faccia limosina e non sia

                     verso di loro liberale e pia.

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21. Cittadini del mondo

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MelogranoBenché animate da un medesimo ideale e vincolate ad un medesimo stile di vita, le singole Comunità dei Fatebenefratelli erano tra loro formalmente autonome, finché nel 1586 Sisto V volle elevarle a costituire un Ordine Religioso, riunendole quindi in un sol corpo, con un unico Superiore Generale residente a Roma nell’Isola Tiberina. Ciò sottrasse le singole Comunità a visioni troppo regionalistiche e rese perciò i Confratelli autentici cittadini del mondo, pronti a salpare per qualunque lembo di terra ove ci siano malati da soccorrere.

Fu così che l’Ordine dei Fatebenefratelli poté programmare la sua diffusione un po’ in tutte le nazioni non solo dell’Europa, ma anche in terra di Missione.

A distanza di un secolo, come rileviamo da una statistica del 1685, i Fatebenefratelli avevano 52 Ospedali in America Latina e 2 nelle Filippine e cominciavano a puntare verso le coste dell’Africa e dell’India, come appare dalla fondazione di un Ospedale nel Mozambico (1681) e di 4 nei porti indiani di Goa (1685), Baçaim (1686), Diu (1687) e Damão (1693), senza contare l’assistenza sanitaria prestata saltuariamente nei porti cinesi di Shangai, Swatow e Lien-Kiang.

Attualmente i Fatebenefratelli risultano presenti in ogni continente, gestendovi circa quattrocento centri, disseminati in una cinquantina di nazioni:

EUROPA: Austria, Francia, Germania, Inghilterra, Irlanda, Italia, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia, Spagna, Ucraina, Ungheria e Vaticano.

ASIA: Cina, Corea, Filippine, Giappone, India, Israele e Vietnam.

AFRICA: Benin, Camerun, Ghana, Kenia, Isola Maurizio, Liberia, Malawi, Mozambico, Senegal, Sierra Leone, Togo e Zambia.

AMERICA: Argentina, Bolivia, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Cuba, Ecuador, Honduras, Messico, Perù, Stati Uniti e Venezuela.

OCEANIA: Australia, Nuova Zelanda e Papua Nuova Guinea.

In perfetta sintonia con questo anelito universale dei Fatebenefratelli sono fiorite al loro fianco in questi ultimi anni già due Associazioni di Cooperazione Internazionale, riconosciute ufficialmente dai rispettivi Governi e che operano in numerose nazioni del Terzo Mondo, comprese anche alcune dove non esistono ancora Ospedali dei Fatebenefratelli: sono l’Associazione italiana “AFMAL (Con i Fatebenefratelli per i malati lontani)” el’Associazionespagnola “Juan Ciudad”.

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22. Nel calendario dei Santi

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MelogranoLa santità del Fondatore dei Fatebenefratelli è stata riconosciuta ufficialmente dalla Chiesa, che fin dal 1630 lo proclamò Beato, fissandone la festa liturgica all’8 marzo, giorno della sua nascita al Cielo.

Nel 1690 Alessandro VIII lo proclamò Santo. Nel 1886 Leone XIII prescelse lui e San Camillo de Lellis quali Patroni degli Ospedali e dei malati e nel 1930 Pio XI li designò anche come Patroni degli infermieri e delle loro associazioni.

Nella schiera dei Fatebenefratelli che da quasi cinque secoli perpetuano la dedizione del Fondatore verso i malati ed i poveri, molti hanno raggiunto le vette della santità e per svariati di loro è stato iniziato il Processo di Beatificazione: si tratta di una procedura giustamente complessa e che richiede perciò tempi assai lunghi, per cui essa è ancora in corso per un tedesco (fra Eustachio Kugler), un canadese (fra Guglielmo Gagnon), due cubani (fra Giuseppe Eulalio Valdés e fra Giacomo Oscar Valdés) e venticinque spagnoli (il Venerabile fra Francesco Camacho, morto in Perù, a Lima; e ventiquattro martiri della Guerra Civile Spagnola), ma ha già avuto il suo felice epilogo per altri settantaquattro Confratelli e solo di questi ultimi faremo brevemente cenno.

Il primo fatebenefratello di cui si iniziò la Causa fu lo spagnolo fra Giovanni Grande, morto vittima di carità il 3 giugno 1600 assistendo gli appestati nella città andalusa di Jerez de la Frontera.

Era nato in provincia di Siviglia, a Carmona, il 6 marzo 1546 ed i genitori l’avviarono al commercio delle stoffe, ma egli vi resistette solo un paio d’anni e preferì poi, appena diciottenne, ritirarsi a vita eremitica: furono due anni di raccoglimento e di riflessione, che gli fecero maturare la decisione di dedicarsi al servizio del prossimo nella popolosa città di Jerez, in cui si insediò nel 1565.

Cominciò con l’assistere i carcerati ma presto localizzò il suo impegno nel settore sanitario e gli venne affidata un’infermeria per i malati rifiutati dagli Ospedali: si trattava cioè di malati, per lo più sifilitici, che per regolamento non venivano accettati in quanto considerati incurabili; oppure di convalescenti, ancora non autosufficienti ma già dimessi per carenza di posti letto e per economizzare sulla gestione.

Ben presto gli si affiancarono dei discepoli e verso il 1574 egli decise di fondere il suo gruppo con quello sorto a Granada per iniziativa di San Giovanni di Dio.

Vestito l’abito dei Fatebenefratelli, egli continuò a prodigarsi a Jerez, dove nel 1589 ebbe anche l’incarico dalle autorità locali di riorganizzare l’intera rete ospedaliera della città.

Il ricordo delle sue capacità e della generosa dedizione ai bisogni di Jerez perdura vivo ancora oggi, tanto che quando nel 1980 Jerez venne eretta Diocesi, subito iniziarono le petizioni perché fra Giovanni Grande, che già dal 1853 era stato proclamato Beato, venisse riconosciuto Patrono della nuova Diocesi, il che fu infine concesso dal Papa nel 1986.

Nel 1996 Giovanni Paolo II lo proclamò Santo. La festa liturgica di San Giovanni Grande ricorre il 3 giugno, cioè nel giorno in cui fu stroncato dalla peste che egli aveva contratto nell’assistere le vittime di una spaventosa epidemia cittadina.

L’urna di San Giovanni Grande è attualmente venerata nella Chiesa del moderno Ospedale che i Fatebenefratelli hanno a Jerez; a motivo della sua Canonizzazione tale Chiesa è stata dichiarata Santuario Diocesano ed è meta di frequenti pellegrinaggi per venerarvi non solo l’urna del Santo, ma anche quella del Beato Emanuele Jiménez, uno dei nostri martiri del Noviziato di Calafell e che finora è l’unica persona nativa di Jerez che sia ascesa agli onori dell’altare.

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23. San Riccardo Pampuri

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MelogranoPiù vicina ai nostri tempi è la figura di San Riccardo Pampuri. Nacque il due agosto 1897 a Trivolzío, un paesino a 12 km da Pavia.

Laureatosi in Medicina nel 1921, lavorò per sei anni come medico condotto a Morimondo, che è in provincia di Milano e dista 8 chilometri da Abbiategrasso.

Nel 1927, desiderando consacrarsi ai malati in maniera più completa e totale, entrò a Brescia nel Noviziato dei Fatebenefratelli e vi emise la Professione Religiosa il 24 ottobre 1928.

Gli venne affidato il Gabinetto Dentistico e la gente accorreva da lui non solo per la competenza professionale, ma per il garbo e l’amore con cui avvicinava i pazienti.

La fama di questo frate dai modi così angelici si diffuse presto in tutta Brescia, tanto che le mamme gli portavano i fanciulli perché li benedicesse: lui, nella sua umiltà, se ne angustiava, giudicando che quel gesto spettasse ai sacerdoti, finché un giorno il p. Provinciale non lo cavò d’impaccio, suggerendogli amabilmente: “Anziché benedirli, puoi invocare su di loro la Vergine oppure il nostro Fondatore San Giovanni di Dio, pregandoli d’intercedere secondo l’intenzione della mamma”.

Purtroppo nella primavera del 1929 la sua salute cominciò a vacillare, minata da una malattia allora inguaribile: la tubercolosi. Dopo un susseguirsi di miglioramenti e di ricadute, il 18 aprile 1930 fu trasferito nell’Ospedale che i Fatebenefratelli hanno a Milano.

Vi morì la sera del primo maggio ed è questo appunto il giorno che ne celebriamo la festa liturgica da quando fu proclamato Beato nel 1981.

La sua salma fu riportata al paese natio ed è venerata nella Chiesa parrocchiale di Trivolzio, la stessa dove era stato battezzato.

Giovanni Paolo II lo proclamò Santo nel 1989. Come ben ebbe a sottolineare il Papa, “la vita breve, ma intensa, di fra Riccardo Pampuri è uno sprone per tutto il popolo di Dio, ma specialmente per i medici. Ai suoi colleghi egli rivolge l’appello che svolgano con impegno la loro delicata arte, animandola con gli ideali cristiani, umani, professionali, perché sia un’autentica missione di servizio sociale, di carità fraterna, di vera promozione umana”.

Fu la sua una vita così breve, che davvero non ci fu tempo né occasione di compiere grandi imprese. Ma fu una vita intensa di significato, giacché egli nel prepararsi alla Professione dei Voti s’era riproposto di “fare anche le cose piccole, minime, con amore grande”.

E fu proprio la tenace quotidiana fedeltà verso questo suo proposito a condurlo alle vette della santità, trasformando la sua ordinaria attività professionale in autentica missione di carità.

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24. I martiri in Spagna

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MelogranoSe San Riccardo Pampuri fu chiamato alla santità attraverso la quotidianità, un discreto numero di Fatebenefratelli si è invece trovato ad affrontare la prova suprema del martirio prima d’entrare nella gloria dei Cieli. Nell’albo d’oro dell’Ordine sono elencati martiri della Fede in Belgio, Polonia, Colombia, Cile, Brasile, Filippine, ma soprattutto in Spagna, dove durante la Guerra Civile del 1936 ben novantotto Confratelli furono uccisi in odio alla Fede.

Il Processo di Beatificazione è stato iniziato solo per quelli martirizzati in Spagna, nella cui folta schiera sono stati selezionati due gruppi: uno, per il quale il Processo è ancora in corso, comprende ventiquattro martiri tra cui fra Giacomo Oscar Valdés, che era cubano e che potrebbe essere il primo della sua nazione ad ascendere agli onori degli altari; l’altro gruppo comprende settantuno martiri, il cui Processo si è già felicemente concluso, per cui Giovanni Paolo II li ha iscritti tra i Beati il 25 ottobre 1992.

Tra codesti settantuno Beati figurano sette giovani nativi della Colombia, che si trovavano in Spagna per seguire dei corsi di preparazione professionale e che vennero proditoriamente fucilati a Barcellona il 9 agosto 1936, nonostante come stranieri avessero ricevuto un salvacondotto dal Governo. Nella Storia della Chiesa, essi sono stati i primi della loro terra a meritare la gloria degli altari.

Tra questi settantuno Beati ci sono anche i dieci Martiri del Noviziato di Calafell, appartenente alla Provincia Aragonese, e dei quali sono venerate alcune reliquie nel nostro Noviziato di Amadeo, nelle Filippine: esse vi furono consegnate personalmente dal Superiore Generale dei Fatebenefratelli, fra Brian O’Donnel, al vescovo della Diocesi, mons. Emanuele Sobreviñas, quando nell’aprile 1994 costui le collocò sotto l’altare della nostra Cappella al momento di solennemente consacrarlo. Con quel gesto simbolico il Noviziato delle Filippine venne posto sotto la speciale protezione degli eroici Novizi di Calafell e del loro Padre Maestro, fra Braulio Maria Corres. La scena della loro fucilazione, eseguita il pomeriggio del 30 luglio 1936 in una cava di mattoni poco fuori Calafell, è rievocata in un grande quadro collocato a lato dell’altare.

Appunto il 30 luglio è la data scelta dal Papa per la ricorrenza liturgica di tutti i 71 Beati, anche se la maggior parte di loro, appartenendo ad altre sette Comunità della Zona Rossa, incontrarono il martirio in date differenti.

Non potendo qui citarli tutti, ci limitiamo a ricordarne solo ancora un altro, che visse per un decennio nella Provincia Romana, dove ricopri gli incarichi dapprima di maestro dei Novizi e poi di Priore di Frascati: fra Guglielmo Llop.

Fra Guglielmo nacque in Spagna nel 1880 ed a 18 anni prese l’abito dei Fatebenefratelli. Restò nella Provincia Romana dal 1912 al 1922, distinguendosi particolarmente nell’assistenza ai feriti della prima Guerra Mondiale.

Nel 1922 andò con altri Confratelli a far rifiorire l’Ordine in Cile. Nel 1928 tornò in Spagna ed allo scoppio della Guerra Civile era Priore dell’Istituto Psichiatrico di Ciempozuelos: nonostante l’aperta persecuzione contro frati e preti, volle restare con tutta la Comunità ad assistere i degenti fino al giorno che vennero ad arrestare lui e tutti i Confratelli.

Rinchiusi il 9 agosto nel carcere di Madrid, vi attesero a lungo la corona del martirio. Fra Guglielmo si sovvenne che due anni prima, mentre era in Italia per il Capitolo Generale, aveva avuto modo di incontrarsi con San Pio da Pietralcina, che gli aveva predetto il martirio, per cui il ricordo di quella profezia lo spinse a preparare se stesso ed i Confratelli ad affrontare degnamente e serenamente quei mesi di drammatica attesa di una probabile esecuzione. Fu in effetti fucilato il 28 novembre 1936 e le sue ultime parole furono di perdono per i suoi uccisori.

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25. San Benedetto Menni

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MelogranoFin dal suo primo inquadramento canonico l’Ordine dei Fatebenefratelli per meglio garantire le finalità ospedaliere ha avuto sempre una fisionomia laica, ma con possibilità di avere in ogni Comunità anche l’eccezione di un Confratello prete che provvedesse, in mancanza di cappellani esterni, al ministero sacerdotale per i malati e per tutta la famiglia ospedaliera.

San Benedetto Menni – nato l’11 marzo 1841 a Milano, dove prese l’abito dei Fatebenefratelli nel 1860 – fu appunto prescelto per questo ruolo sacerdotale e venne ordinato prete a Roma il 14 ottobre 1866.

In quegli anni il ramo spagnolo dei Fatebenefratelli si era andato estinguendo in conseguenza della legislazione massonica emanata nel 1834 in Portogallo e nel 1835 in Spagna: occorreva farlo nuovamente rifiorire e ne fu incaricato Menni, che a tale scopo prese alloggio a Barcellona il 6 aprile 1867.

Dopo lunghe vicissitudini, spesso drammatiche, egli non solo riuscì a reclutare nuove vocazioni, quasi un migliaio fra il 1867 e il 1903, ma fondò tra Spagna, Portogallo e Messico ben 22 Ospedali per ogni specie di infermi, soprattutto però dementi e fanciulli storpi, che erano le categorie allora più trascurate dall’assistenza pubblica.

Accanto alla ricostituita Provincia Spagnola dei Fatebenefratelli, il Santo fece nascere anche un ramo femminile, le Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù, presenti oggi in 26 nazioni con un totale di 118 Comunità, tra cui otto in Italia: due a Roma e le altre a Viterbo, Nettuno, Ascoli Piceno, Albese, Grottaferrata e Roccella Ionica.

La Casa Madre delle sue Suore è a Ciempozuelos, in Spagna, ed è lì che venne nel 1914 trasportata la sua salma dopo la morte avvenuta a Dinan il 24 aprile, giorno scelto come sua festa liturgica da quando fu proclamato Beato nel 1985.

Giovanni Paolo II lo ha proclamato Santo il 21 novembre 1999. In quell’occasione il card. Carlo M. Martini, vescovo dell’arcidiocesi in cui nacque Menni, nella sua prefazione alla biografia ufficiale di questo straordinario cittadino milanese, mise in rilievo un particolare aspetto della poliedrica personalità del Santo, ricavandone uno specifico auspicio: “se il volontariato non ha ancora un patrono, forse si potrebbe trovarlo in san Benedetto Menni”.

Le ragioni fornite dal card. Martini per tale proposta erano sia “l’esperienza di volontariato accanto ai feriti della battaglia di Magenta…che ne portò a maturazione la vocazione religiosa”, sia soprattutto l’esperienza dei tre anni trascorsi sui campi di battaglia della Spagna, inquadrato ufficialmente come volontario della Croce Rossa, tanto che “la dimensione del volontariato diventò la chiave di volta della sua strategia restauratrice e fondatrice”.

Raccogliendo in qualche modo tali motivazioni, lo stesso Papa nel ricevere nell’Aula Paolo VI le migliaia di pellegrini convenuti a Roma per la canonizzazione, non solo sottolineò l’esperienza di Menni come volontario, ma rivolgendosi ai molti volontari presenti, lodò il loro impegno di solidarietà, li incoraggiò a proseguire nella loro generosa e gratuita dedizione ai malati ed ai minorati, ed espressamente li invitò a riconoscere nel nuovo Santo il modello cui ispirarsi, lasciandosi “illuminare dall’esempio di Padre Menni, imitandolo e seguendolo lungo il cammino della misericordia che egli percorse”.

Confidiamo dunque che presto San Benedetto Menni, in qualche luogo già ufficialmente proclamato Patrono Diocesano del Volontariato, lo divenga anche a livello di Chiesa Universale, in risposta alle numerose petizioni che continuano a giungere da tutto il mondo.

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26. I Fatebenefratelli nelle Filippine

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MelogranoSan Benedetto Menni arrivò a veder realizzati quasi tutti i suoi progetti, ma non quello di far rifiorire l’Ordine anche nelle Filippine.

Già nel 1611 due fatebenefratelli spagnoli avevano raggiunto quel lontano Arcipelago, fondando un piccolo Convalescenziario fuori le mura di Manila, nella zona di Bagumbayan, ma si ritirarono nel 1621. Più felice fu un secondo tentativo nel 1641, quando altri due confratelli spagnoli cominciarono ad assistere i malati nel porto militare di Cavite, affacciantesi nella medesima baia di Manila. Nel 1644 riaprirono anche il Convalescenziario di Bagumbayan.

Nel 1656 assunsero la gestione dell’Ospedale della Misericordia, che divenne la sede del Vicario Provinciale delle Filippine e che era sito dentro le mura di Manila, giusto di fronte alla Porta del Parian. L’edificio fu distrutto dal terremoto del 1674 ma i Fatebenefratelli, dopo aver acquistato un contiguo lotto per ampliare l’area, lo riedificarono col nuovo nome di “San Giovanni di Dio”.

Fin dal 1649 il Consigliere Comunale don Pietro Cañete, riconoscente per l’assistenza ricevuta nel Convalescenziario di Bagumbayan, aveva donato loro una sua tenuta a nord di Manila, chiamata “Hacienda Buenavista”. Con l’aiuto di altri benefattori i Confratelli riuscirono ad acquistare vari lotti confinanti, per cui la tenuta raggiunse la dimensione di quasi 40.000 ettari, praticamente l’intera estensione dell’attuale territorio comunale di San Rafael de Bulacan. Grazie ai raccolti ed alle mandrie che vi pascolavano, si riusciva a sostenere sia la gestione dei due Ospedali di Manila, che di quello che venne poi aperto in loco.

Nel Settecento vennero aperti per brevi periodi anche altri due Ospedali nelle città di Cebu e Zamboanga. In tutto nelle Filippine i Fatebenefratelli arrivarono ad avere un massimo di sei Ospedali, ma era tanta la carità che dimostravano che la gente con affettuosa gratitudine prese a chiamarli Juaninos, ossia “Giovannini”, invece della denominazione ufficiale di “Frati Ospedalieri di San Giovanni di Dio”. Ed in sintonia con tale stima popolare, il 24 febbraio 1703 l’arcivescovo di Manila, mons. Diego Camacho y Avila, decretò che in tutta la Diocesi la ricorrenza di San Giovanni di Dio andasse considerata giorno di precetto. L’obbligo perdurò per tutto il tempo spagnolo: ce lo conferma la “Guida per i Forestieri” stampata a Manila nel 1854, nella quale viene ricordato a spagnoli ed europei che l’8 marzo sia nella capitale Manila sia nel porto di Cavite, pur essendo giornata lavorativa, vige per loro l’obbligo di recarsi ad ascoltare la Santa Messa come di domenica.

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27. Vittime cruente

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MelogranoNon tutto ovviamente fu sempre roseo. Nella tenuta di San Rafael de Bulacan le incursioni di alcune tribù negroidi delle montagne provocarono due vittime tra i Confratelli: il primo fu fra Antonio de Santiago, trafitto da frecce il 14 aprile 1665, durante una razzia di bestiame; il secondo fu fra Giannantonio Guemez, ucciso a colpi di lancia il 13 maggio 1731, durante una nuova razzia.

Particolare eco ebbe il martirio affrontato dal Venerabile Lorenzo Gomez il 7 gennaio 1702, trucidato da una tribù di Tinguianes mentre dalla Comunità di Manila, profittando della stagione asciutta, s’era recato nel nord dell’isola per una missione medica di sei mesi tra la popolazione ilocana di Tagudin e Balaoan. In entrambe le Parrocchie di tali due cittadine una lapide ricorda il generoso olocausto di questo confratello, cui è anche intitolato l’Ambulatorio gratuito aperto nel Palazzo Arcivescovile di Vigan dall’attuale presule, mons. Edmondo M. Abaya.

Ancor più nota è la tragica fine di fra Apollinario de la Cruz, annoverato nelle Filippine tra i martiri della libertà. Egli aveva fondato per i suoi conterranei di stirpe Tagalog una pia Confraternita in onore di San Giuseppe, del quale i Fatebenefratelli di Manila erano particolarmente devoti ed usavano dedicargli solenni celebrazioni liturgiche, specie nel mese di ottobre. Ma nel 1841 il Governatore spagnolo, sospettoso di ogni iniziativa sia pur lontanamente nazionalistica, ordinò la soppressione della Confraternita e chiese ai Fatebenefratelli di dimettere fra Apollinario dalla loro Comunità, dove era stato accolto come oblato fin dal 1830. Fra Apollinario riuscì a fuggirsene e radunò sulle pendici del monte Banahaw oltre tremila aderenti alla Confraternita, decisi a difendere pacificamente, ma ad oltranza, la loro libertà di culto.

Con pugno di ferro, il Governatore mandò un’armata a disperderli. La notte del 31 ottobre 1841 i soldati attaccarono l’accampamento, macchiandosi di un’atroce strage, con centinaia di vittime, praticamente inermi, come è dimostrato dal fatto che le truppe spagnole ebbero appena undici feriti e nessun morto. Fra Apollinario riuscì a sfuggire, ma venne catturato il 4 novembre e, con giudizio sommario, immediatamente giustiziato nella piazza centrale di Sariaya, venendogli concesso giusto il tempo di ricevere l’assoluzione dal parroco di Atimonan.

Oggi fra Apollinario è giustamente ricordato come eroe della Patria e gli sono stati innalzati monumenti sia nel parco di Luneta a Manila, sia altrove ed in particolare nella frazione di Lucban dove nacque.

Nel giro di alcuni anni la situazione andò facendosi difficile per tutti i Confratelli delle Filippine, che per secoli erano canonicamente dipesi da un Superiore Provinciale residente a Città del Messico e da un Superiore Generale residente a Madrid. Ma da un lato le frequenti prassi eversive adottate dai Governanti del Messico dopo il conseguimento dell’autonomia nazionale nel 1821 e dall’altro lato le leggi eversive emanate dal Governo Spagnolo nel 1835 e 1836 per il territorio metropolitano della Spagna, comportarono per le Comunità delle Filippine la scomparsa dei Superiori Maggiori che esse avevano in tali due nazioni e la conseguente disattivazione del Noviziato di Manila, dato che giuridicamente i Superiori Locali non hanno la facoltà di accettare nuovi candidati.

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28. L’estinzione

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MelogranoNel 1861 il Papa Pio IX suggerì di risolvere il problema ponendo i Fatebenefratelli delle Filippine sotto la giurisdizione del Superiore Generale residente a Roma, ma per motivi politici ciò non fu possibile e ne conseguì la lenta estinzione della Comunità, mancando il ricambio di nuove leve locali di Religiosi a motivo della chiusura del Noviziato.

Ormai ridotti a poche unità, i Fatebenefratelli furono costretti nel 1866 a lasciare sia l’Ospedale di Manila, sia il Convalescenziario, che già da un secolo era stato trasferito da Bagumbayan alla vicina isoletta di Sant’Andrea nel fiume Pasig, e che oggi è conosciuto come Hospicio de San Jose.

Quando San Benedetto Menni restaurò l’Ordine Ospedaliero in Spagna, cercò di farlo rifiorire anche nelle Filippine, dove viveva ancora un ultimo confratello superstite, fra Emanuele Peña, che risiedeva nell’Ospedale San Giovanni di Dio di Cavite col titolo, ormai solo onorifico a motivo della veneranda età, di Priore.

Il Santo ebbe vari contatti epistolari sia con lui che con le Autorità del posto, tanto che il Governatore di Manila offrì un edificio dove i Fatebenefratelli potessero aprire un Istituto Psichiatrico. Purtroppo tale progetto venne nel 1887 bocciato dal Governo Centrale di Madrid: il vento di ribellione che spirava ormai anche in quest’ultimo lembo coloniale induceva infatti il Governo Spagnolo ad opporsi a qualsiasi nuovo insediamento nelle Filippine, specie nell’area di Manila, e pertanto risultarono vani a Madrid i successivi vari tentativi di Menni per ottenere un ripensamento dal Ministero d’Oltremare.

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29. Invitati dal Cardinal Sin

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MelogranoMorto verso il 1888 fra Emanuele Peña, l’arcidiocesi ha continuato a gestire fino ad oggi sia l’Ospedale San Giovanni di Dio che l’Ospizio San Jose, ma nel settembre 1985 il cardinal Sin, quale arcivescovo di Manila, inviò richiesta scritta alla Curia Generalizia dei Fatebenefratelli affinché ritornassero nelle Filippine.

Nel 1987 il cardinale si incontrò dapprima in marzo a Manila e poi in ottobre a Roma col Superiore della Provincia Romana dei Fatebenefratelli, che infine accettò l’offerta di insediare a partire dal marzo 1988 una piccola Comunità in un edificio di Quiapo, che è uno dei rioni più poveri del centro storico di Manila.

In tale edificio, concesso dall’arcidiocesi in uso gratuito per vent’anni, i Fatebenefratelli aprirono nel settembre 1988 il Centro Socio-Sanitario San Juan de Dios, nato come Dispensario Antitubercolare, finché l’acquisto di un’area contigua e la costruzione in essa di un’apposita palazzina permisero di trasformarlo in Ambulatorio Polispecialistico, riservando il vecchio edificio ai servizi generali ed alla formazione iniziale dei candidati

Nella nuova palazzina prese inoltre il via nel luglio 1996 la Granada Special School, ossia un Centro per Audiolesi che offre sia Corsi di Scuola per l’Infanzia, dove utilizzando il metodo audio-verbale i bambini sordi vengono messi in grado di comunicare con tutti, in modo da poter poi proseguire gli studi in normali Scuole Elementari; sia corsi di formazione professionale per tecnico di computer, che permettono agli adolescenti sordi di trovare lavoro qualificato.

Nel giugno 1990 i Fatebenefratelli poterono finalmente riaprire per le Filippine un Noviziato ad Amadeo, sulle colline fuori Manila, ed a lato vi fecero sorgere nell’ottobre 1996 il Centro Pedagogico Residenziale Bahay San Rafael, nel quale offrono ai bambini cerebrolesi un programma di riabilitazione introdotto per la prima volta nelle Filippine, che è ispirato alla “Conductive Education” ideata dal medico ungherese Andrea Peto e che permette a molti di loro di apprendere a camminare o quanto meno di acquisire maggiore autonomia fisica e di migliorare la capacità comunicativa.

Sia il Centro di Manila che quello di Amadeo sono giuridicamente inquadrati come Istituti di Beneficenza ed hanno ottenuto entrambi dal Ministero degli Affari Sociali l’accreditamento, ossia il riconoscimento ufficiale della impeccabile qualità dei servizi prestati e della funzionalità dell’organizzazione. Anche la Presidenza della Repubblica ha voluto far giungere nel settembre 2003 una lettera d’encomio per l’alto livello delle prestazioni offerte alle classi meno abbienti.

San Benedetto Menni, che tanto ebbe a cuore le Filippine, certamente dal Cielo ha gioito nel vedervi infine tornare all’opera i Fatebenefratelli ed ha interceduto dal Signore il fiorire di vocazioni locali. A lui è stato intitolato lo Scolasticato di Manila, ossia il Centro Studi San Benedetto Menni, dove i giovani che hanno concluso il Noviziato e sono stati ammessi alla Professione Religiosa, vengono ad intraprendervi gli studi professionali e spirituali di cui necessitano per lo specifico apostolato ospedaliero nel mondo della sofferenza e dell’emarginazione.

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30. I Fatebenefratelli in Italia

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MelogranoAbbiamo accennato alla crisi del ramo spagnolo dei Fatebenefratelli agli inizi del Novecento, ma anche in Italia, pochi decenni dopo, ci furono momenti non meno difficili.

In Italia il primo Ospedale dei Fatebenefratelli era sorto a Napoli nel 1574; quando nel 1587 fu eletto il primo Superiore Generale e le Comunità vennero ripartite in due Province, una spagnola e l’altra italiana, quest’ultima contava già 5 Ospedali.

Il moltiplicarsi delle fondazioni anche in altre nazioni e le difficoltà create dalle frontiere politiche portarono a scindere le due iniziali Province in numerose altre, a volte di vita effimera. Per quanto riguarda l’Italia, dall’iniziale Provincia unica, che a partire dal 1596 venne chiamata Romana, furono ben presto distaccati quasi tutti gli Ospedali sorti nei domini spagnoli delle Due Sicilie e del Milanese: nacquero così da essa nel 1589 la Provincia Siciliana, nel 1596 la Provincia Napoletana e nel 1608 la Provincia Milanese; dalla Provincia Napoletana andarono enucleandosi lungo il Seicento anche la Provincia Barese, la Provincia Sarda e la Provincia della Calabria-Basilicata.

Nella già citata statistica del 1685 troviamo elencati per l’Italia 66 Ospedali. Un secolo dopo, come rileviamo dagli Atti del Capitolo Generale del 1778, erano saliti a 71, ma di lì a poco la bufera napoleonica pose in crisi tutte le Istituzioni Religiose ed anche i Fatebenefratelli dovettero abbandonare vari Ospedali. Però il colpo più duro venne dopo l’unità d’Italia, quando la legislazione eversiva del 1866, estesa nel 1873 anche nell’antico Stato Pontificio, negò la personalità giuridica a tutti gli Istituti Religiosi e ne confiscò ogni bene.

Fu così che gran parte delle restanti 46 Comunità italiane dei Fatebenefratelli dovettero disperdersi e solo in alcune città ottennero dalle Autorità Municipali, cui era stata trasferita la gestione degli Ospedali confiscati, di potervi restare a lavorare come pubblici dipendenti: questa, ancor oggi, è la situazione dei Fatebenefratelli di Perugia.

Solo con il Concordato del 1929 fu restituita ai Religiosi la personalità giuridica, che nel caso dei Fatebenefratelli fu potuta ottenere dalla Curia Generalizia e dalle uniche due superstiti Province italiane: la Romana, che abbraccia l’Italia centromeridionale e insulare, e la Lombardo-Veneta, che comprende l’Italia settentrionale. Inoltre in terra di Missione la Provincia Romana ha due Comunità, formanti la Delegazione Provinciale delle Filippine, intitolata alla Madonna del Patrocinio; e la Provincia Lombardo-Veneta ne ha una in Terrasanta a Nazareth, intitolata alla Sacra Famiglia.

Il riconoscimento giuridico ha facilitato in Italia la ripresa dell’Ordine Ospedaliero dei Fatebenefratelli, come appare dal seguente prospetto degli attuali Centri nazionali ed esteri dipendenti dai tre citati Enti canonici riconosciuti dal Governo Italiano:

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melograno fioreCuria Generalizia

ROMA: Ospedale San Giovanni Calibita

Isola Tiberina, 39 Cap. 00186 – Tf 06/68.371

Sede della Fondazione Internazionale Fatebenefratelli

ROMA: Centro Internazionale Fatebenefratelli

Via della Nocetta, 263 – Cap. 00164 – Tf 06/660.49.81

Sede della Curia Generalizia dei Fatebenefratelli

ROMA: Farmacia Vaticana

Città del Vaticano – Cap. 00120 – Tf 06/69.88.53.61

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melograno fioreProvincia Romana

ROMA: Ospedale San Pietro

Via Cassia, 600 – Cap. 00189 – Tf 06/33.581

Sede della Curia Provincializia Romana

e del Centro Studi San Giovanni di Dio

PERUGIA: Ospedale San Niccolò

Via Fatebenefratelli, 4 – Cap. 06121 – Tf 075/57.35.483

BENEVENTO: Ospedale Sacro Cuore di Gesù

V.le Principe di Napoli, 14/a – Cap. 82100 – Tf 0824/77.1111

NAPOLI: Ospedale Buon Consiglio

Via A. Manzoni, 220 – Cap. 80123 – Tf 081/598.11.11

GENZANO DI ROMA: Istituto San Giovanni di Dio

Via Fatebenefratelli, 2 – Cap. 00045 – Tf 06/93.73.81

Sede del Noviziato Interprovinciale Italiano

e del Postulantato della Provincia Romana.

PALERMO: Ospedale Buccheri – La Ferla

Via M. Marine, 197 – Cap. 90123 – Tf 091/47.91.11

ALGHERO: Soggiorno San Raffaele

Via Asfodelo, 55/b – Cap. 07041

MANILA (Filippine): San Juan de Dios Center

1126 R. Hidalgo St., Quiapo, 1001 Manila – Tf 00632/736.29.35

Sede dello Scolasticato

AMADEO (Filippine): San Ricardo Pampuri Center

26 Bo. Salaban, Amadeo, 4119 Cavite – Tf 006346/413.17.37

Sede del Postulantato e del Noviziato

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melograno fioreProvincia Lombardo-Veneta

BRESCIA: Ospedale Sant’Orsola

Via V. Emanuele II, 27 – Cap. 25122 – Tf 030/29.711

Sede dello Scolasticato

BRESCIA: Ist. Scient. di Ric. e Cura San Giovanni di Dio

Via Pilastroni, 4 – Cap. 25125 – Tf 030/35.33.511

CERNUSCO sul NAVIGLIO (MI): Istituto Sant’Ambrogio

Via Cavour, 2 – Cap. 20063 – Tf 02/92.761

Sede della Curia Provincializia Lombardo-Veneta

e del Centro Studi e Formazione

ERBA: Ospedale Sacra Famiglia

Via Fatebenefratelli, 20 – Cap. 22036 – Tf 031/638.111

GORIZIA: Casa di Riposo Villa San Giusto

Corso Italia, 244 – Cap. 34170 – Tf 0481/59.69.11

MILANO: Ospedale San Giuseppe

Via San Vittore, 12 – Cap. 20123 – Tf 02/85.991

MONGUZZO (CO): Centro Studi Fatebenefratelli

Cap. 22040 – Tf 031/650.118

ROMANO d’EZZELINO (VI): Casa di Riposo San Pio X

Via Ca’ Cornaro, 5 – Cap. 36060 – Tf 0424/33.705

S. COLOMBANO al LAMBRO (MI): Ist. S. Cuore di Gesù

V.le San Giovanni di Dio, 54 – Cap. 20078 – Tf 0371/20.71

S. MAURIZIO CAN. (TO): Pr. Osp. Riab. B. V. Consolata

Via Fatebenefratelli, 70 – Cap. 10077 – Tf 011/92.63.811

SOLBIATE COMASCO (CO): Res. Sanit. Ass. S. Carlo B.

Via Como, 2 – Cap. 22070 – Tf 031/80.22.11

Sede del Postulantato

TRIVOLZIO (PV): Casa di Riposo San Riccardo Pampuri

Via Sesia, 23 – Cap. 27020 – Tf 0382/93.671

VARAZZE (SV): Casa Rel. di Ospitalità B. V. d. Guardia

Largo Fatebenefratelli – Cap. 17019 – Tf 019/93.511

VENEZIA: Ospedale San Raffaele Arcangelo

Madonna dell’Orto, 3458 – Cap. 30121 – Tf 041/72.01.88

VILLA DALEGNO (BS): Soggiorno Mad. del B. Consiglio

Via Monte Coleazzo, 7 – Cap. 25050 – Tf 0364/911.33

NAZARETH (Israele)): Holy Family Hospital

P.O. Box 8 – Cap. 16100 – Tf 009724/650.89.00

  

melograno fioreChi vuol unirsi ai Fatebenefratelli italiani nel loro apostolato ospedaliero e missionario, può chiedere notizie ai seguenti Centri di Formazione:

-          in nord Italia:                  pastvocfbf@virgilio.it

 

Via Como, 2 – 22070 - Solbiate Comasco CO

-          in centro e sud Italia:     vocazioni@fbfgz.it

 

Via Fatebenefratelli, 2 - 00045 Genzano di Roma RM

-          nelle Filippine:               ohmanila@ph.inter.net

 

1126 R. Hidalgo st., Quiapo, 1001 Manila San Raffaele Arcangelo

 

 

PER SAPERNE DI PIU’ SU SAN GIOVANNI DI DIO

Le seguenti indicazioni bibliografiche intendono essere d’aiuto sia nel conoscere meglio il Santo, sia nel comprendere i motivi per i quali la presente biografia si discosta in vari punti da quelle tradizionali

 

Per le fonti:

Manuel GOMEZ-MORENO, Primicias históricas de San Juan de Dios, Orden Hospitalaria, Madrid 1950.

Gabriele RUSSOTTO, San Giovanni di Dio e il suo Ordine Ospedaliero, Ed. Fatebenefratelli, Roma 1969.

Giuseppe MAGLIOZZI, Impatto e validità della “Vita di Giovanni di Dio” scritta dal Castro e tradotta dal Bordini, in “Ospedali Fatebenefratelli”, 2: 290-296, 1987.

Francisco de CASTRO, Storia della vita e sante opere di Giovanni di Dio, Ed. Fatebenefratelli, Milano 1989.

Giuseppe MAGLIOZZI, La seconda biografia di San Giovanni di Dio, in “Vita Ospedaliera”, 5: 6-7, 1993.

Giuseppe MAGLIOZZI, San Giovanni di Dio narrato dal Celi, Ed. Centro Studi “San Giovanni di Dio“, Roma 1993.

Giuseppe MAGLIOZZI, Un amico a Malaga, Ed. BIOS, Roma 1995.

José SANCHEZ MARTINEZ, “Kenosis-Diakonia” en el itinerario espiritual de San Juan de Dios, Fund. Juan Ciudad, Jerez 1995.

Jorge FONSECA, Montemor-o-Novo na Epoca da Expansão Marítima, Setúbal 1996.

Antonio GOUVEIA, Vida e morte de S. João de Deus, seguida das Cartas e Iconografia do Santo, Lisboa 1996.

José Luis MARTINEZ GIL San Juan de Dios Fundador de la Fraternidad Hospitalaria, Ed. B.A.C., n. 71 della collana Maior, Madrid 2002.

Giuseppe MAGLIOZZI, Cinque petizioni a Sua Maestà, in “Vita Ospedaliera”, 3: 11-14, 2003.

Per la spiritualità:

Gabriele RUSSOTTO, Spiritualità Ospedaliera, Marietti, Torino 1958.

Carlo SALVADERI, Incontri con San Giovanni di Dio, Marietti, Torino 1959.

Igino GIORDANI, Il Santo della carità ospedaliera, Ed. Fatebenefratelli, Milano 1965.

Giuseppe MAGLIOZZI, Francescanesimo di San Giovanni di Dio, Centro Studi “San Giovanni di Dio”, Roma 1976.

Giuseppe MAGLIOZZI, Il Maestro di Giovanni. L’influsso dell’Apostolo dell’Andalusia sulla spiritualità di San Giovanni di Dio, Centro Studi “San Giovanni di Dio”, Roma 1978.

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Giuseppe MAGLIOZZI, L’identikit spirituale di San Giovanni di Dio, in “Vita Ospedaliera”, 10: 12-13, 1995.

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Giuseppe MAGLIOZZI, I tre nemici, in “Vita Ospedaliera”, 5: 4, 2000.

Giuseppe MAGLIOZZI, Giovanni di Dio, usuraio col Signore, in “Vita Ospedaliera”, 3: 3, 2001.

Giuseppe MAGLIOZZI, Felice come una Pasqua!, in “Vita Ospedaliera”, 3: 3, 2002.

Valentín A. RIESCO, San Juan de Dios, Profeta del Dios de la Misericordia. Aproximación al Santo en nueve tiempos, Granada 2003.

Giuseppe MAGLIOZZI, Fosse anche la vita!, in “Vita Ospedaliera”, 2: 10, 2003.

Per la stirpe:

Giuseppe MAGLIOZZI, Quale sangue scorreva nelle vene di San Giovanni di Dio?, in “Vita Ospedaliera”, 3: 6-7, 1992.

Giuseppe MAGLIOZZI, La volta che cadde da cavallo Giovanni si fratturò lo zigomo, in “Vita Ospedaliera”, 7-8: 4, 1995.

Jose Maria JAVIERRE, Juan de Dios loco en Granada, Ed. Sigueme, Salamanca 1996.

Giuseppe MAGLIOZZI, Montemor alla fine del Quattrocento, in “Vita Ospedaliera”, 10: 4-5, 1999.

Per la sigla e la firma:

Giuseppe MAGLIOZZI, ”Lo firmo con queste mie tre lettere”, Ed. BIOS, Roma 1996.

José SANCHEZ MARTINEZ, ¿Fue esta la firma de San Juan de Dios en 1542?, in “Juan Ciudad”, 415: 33-35, 1996.

Giuseppe MAGLIOZZI, En torno a una nueva firma de San Juan de Dios, in “Juan Ciudad”, 418: 35-26, 1996.

Giuseppe MAGLIOZZI, Scovata una firma di San Giovanni di Dio, in “Vita Ospedaliera”, 10: 6-7, 1996.

Giuseppe MAGLIOZZI, San Giovanni di Dio e le Carceri di Granada, in “Vita Ospedaliera”, 7-8: 10, 1998.

Per la cronologia:

Giuseppe MAGLIOZZI, Per paura di Barbarossa, in “Vita Ospedaliera”, 4: 63, 1987.

Giuseppe MAGLIOZZI, Dove nacque San Giovanni di Dio?, in “Vita Ospedaliera”, 1: 6-7, 1992.

Giuseppe MAGLIOZZI, Necessidade de novos esquemas na vida de S. João de Deus, in “Hospitalidade”, 230: 9-10, 1995.

Giuseppe MAGLIOZZI, L’ora in cui morì San Giovanni di Dio, in “Vita Ospedaliera”, 4: 6-7, 1992.

Giuseppe MAGLIOZZI, San Giovanni di Dio si convertì d’agosto, in “Vita Ospedaliera”, 7-8: 6-7, 1992.

Giuseppe MAGLIOZZI, Gli anni bui di San Giovanni di Dio, in “Vita Ospedaliera”, 10: 13-14, 1992.

Giuseppe MAGLIOZZI, Quando nacque San Giovanni di Dio, in “Vita Ospedaliera”, 7-8: 6-7, 1994 e 9: 4-5, 1994.

Giuseppe MAGLIOZZI, La zona di calle Lucena a Granada nei tempi di San Giovanni di Dio, in “Vita Ospedaliera”, 6: 9-12, 1995.

José SANCHEZ MARTINEZ, En torno a la construcción del Hospital San Juan de Dios de Granada, estratto da “Monjes y Monasterios Españoles”, Actas del Simposium en San Lorenzo del Escorial 1/5-IX-1995.

Giuseppe MAGLIOZZI, L’Ospedale Reale di Granada, in “Vita Ospedaliera”, 6: 7-10, 1996.

Giuseppe MAGLIOZZI, Ubicazione del primo ospedale di San Giovanni di Dio, in “Vita Ospedaliera”, 5: 6-7, 1997.

Giuseppe MAGLIOZZI, Vertice granadino, in “Vita Ospedaliera”, 6: 4, 1997.

Giuseppe MAGLIOZZI, Le camminate di Giovanni, in “Vita Ospedaliera”, 12: 18-19, 1997.

Giuseppe MAGLIOZZI, Le tappe del riconoscimento canonico, in “Vita Ospedaliera”, 1: 19; 2: 13, 1998

Giuseppe MAGLIOZZI, A che età in guerra?, in “Vita Ospedaliera”, 10: 10, 2000.

Cecilio ESEVERRI CHAVERRI, Juan de Dios el de Granada, Ed. La Vela, Granada 2001.

Giuseppe MAGLIOZZI, Un ignoto discepolo di Giovanni di Dio, in “Vita Ospedaliera”, 4: 15, 2002.

Giuseppe MAGLIOZZI, La testimonianza di donna Leonora, (in corso di stampa, ma nel frattempo consultabile in rete: http://www.ptovinciaromanafbf.it/pubblicazioni).

Per l’iconografia:

Gabriele RUSSOTTO, Lineamenti d’una iconografia, in AA. VV. “Per il IV Centenario della morte di San Giovanni di Dio”, Roma 1950. pp. 16-52.

Clelia ALBERICI, L‘iconografia di San Giovanni di Dio appartenente alla Civica raccolta delle Stampe e dei Disegni Achille Bertarelli di Milano, in “Fatebenefratelli”, 11-12: 505-513, 1966.

Luis ORTEGA LAZARO, Para la Historia de la Orden Hospitalaria de San Juan de Dios en Hispanoamerica y Filipinas, Madrid 1992.

Giuseppe MAGLIOZZI, Pagine Juandediane, Ed. Centro Studi “San Giovanni di Dio”, Roma 1992 (vd. lista a p. 554 nella voce “Dipinti”).

Giuseppe MAGLIOZZI, Pierino in braccio al Santo, in “Vita Ospedaliera”, 10: 13-14, 1993.

Giuseppe MAGLIOZZI, Il vero ritratto di San Giovanni di Dio, in “Vita Ospedaliera”, 12: 13-14, 1993.

AA. VV., Imágenes de San Juan de Dios, Granada 1995.

Raquel JARDIM de CASTRO, São João de Deus, un herói português do século XVI, Ed. Rei dos Livros, Lisboa 1995.

Alfonso MARCO e Francesco GUTIERREZ, San Juan de Dios. Iconografia, Tip. Madero, Mexico 1997.

Giuseppe MAGLIOZZI, Il ciclo pittorico di Atlixco, in “Vita Ospedaliera”, 3: 20-21, 1998.

Giuseppe MAGLIOZZI, Quattro secoli a Napoli, in “Vita Ospedaliera”, 5: 20-21, 1998

Giuseppe MAGLIOZZI, Uno lo prendo io!, in “Vita Ospedaliera”, 3: 11, 1999.

Giuseppe MAGLIOZZI, Il Credo con San Giovanni di Dio, in “Vita Ospedaliera”, 4: 12-13, 1999.

Giuseppe MAGLIOZZI, I Santi del nostro Ordine visti da un pittore filippino, in “Il Melograno”, 1: 2-5, 1999.

Giuseppe MAGLIOZZI, Regina dell’ospitalità, in “Vita Ospedaliera”, 10: 23, 2001.

Ambrogio CHIARI, Cenni di iconografia su San Giovanni di Dio, in “Fatebenefratelli”, 1: 39-43 e 2: 39-42, 2003.

 

INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI

 

In copertina:

San Giovanni di Dio in un dettaglio del ciclo pittorico della sua vita dipinto nel sec. XVIII per l’Ospedale messicano di Atlixco, allora appartenente ai Fatebenefratelli.

 

A pag. 2:

San Giovanni di Dio in una stampa del sec. XVII con la stessa scena del quadro in copertina, cioè con un malato che si trasfigura in Cristo e dice al Santo: “Giovanni, quando lavi i piedi agli infermi, è a Me che li lavi”.

 

A pag. 8:

Incisione di Hubert Vincent (francese, ma operante a Roma tra il 1680 e il 1730) su disegno di G. Battista Lenardi (1650-1704), ispirato al dipinto centrale della nostra Chiesa dell’Isola Tiberina come appariva prima di venir ritoccato ed ampliato da Corrado Giaquinto. Raffigura la visione che San Giovanni di Dio avrebbe avuto nel Santuario Mariano di Guadalupe, quando la Madonna, porgendogli il Bambinello, l’incoraggiò a prendersene cura con la stessa premura che avrebbe dovuto usare in seguito con i malati.

 

A pag. 60:

L’attività ospedaliera dei Fatebenefratelli nelle Filippine venne nel 1694 posta sotto la particolare protezione dell’Arcangelo San Raffaele, tradizionalmente raffigurato con lo scapolare e mentre reca pane ai malati. Incisione di Joseph Andrade dal libro “Religiosa Hospitalidad…en su Provincia de S. Raphael de las Islas Filipinas” (Granada 1742) scritto da fra Juan Manuel Maldonado, che era Maestro dei Novizi a Manila.

 

A pag. 68:

Sigillo della Provincia Romana dei Fatebenefratelli, posta sotto la protezione di San Pietro Apostolo.

 

Un ultima di copertina:

L’emblema dei Fatebenefratelli in un disegno a penna di un registro del 1794, da loro utilizzato a Perugia per le prescrizioni mediche quando ebbero in gestione l’Ospedale di Santa Maria della Misericordia.

 

 

INDICE

Introduzione: Con Maria alla scoperta di Cristo             Date fondamentali della vita di San Giovanni di Dio                            7

1)         Il fascino dell’avventura                                                            9

2)         Pastore e soldato                                                                        10

3)         Un bel gesto                                                                                13

4)         A Granada                                                                                  14

5)         Sconvolto da una predica                                                          15

6)         L’impatto col mondo ospedaliero                                             17

7)         L’antica cantilena                                                                     20

8)         In ogni uomo, un fratello da aiutare                                       22

9)         La terza via di Giovanni                                                           24

10)      Alla sera della vita                                                                    25

11)      Difensore della donna                                                              27

12)      Fate bene, fratelli!                                                                    28

13)      Dall’odio all’amore                                                                   29

14)      Abito e nome da Religioso                                                        31

15)      Nonostante la pioggia                                                               32

16)      La fisionomia spirituale                                                           34

17)      Una nuova Famiglia Religiosa                                                 36

18)      Vittima di carità                                                                        37

19)      Nella casa dei Pisa                                                                    39

20)      Tra il venerdì e il sabato                                                          40

21)      Cittadini del mondo                                                                  43

22)      Nel calendario dei Santi                                                          44

23)      San Riccardo Pampuri                                                              46

24)      I martiri in Spagna                                                                   47

25)      San Benedetto Menni                                                               49

26)      I Fatebenefratelli nelle Filippine                                           51

27)      Vittime cruente                                                                         53

28)      L’estinzione                                                                               54

29)      Invitati dal cardinal Sin                                                           55

30)      I Fatebenefratelli in Italia                                                       57

31)      Curia Generalizia                                                                     58

32)      Provincia Romana                                                                     59

33)      Provincia Lombardo-Veneta                                                     60

Indicazioni bibliografiche:              Fonti                                              62

                                                        Spiritualità                                     63

                                                        Stirpe                                             64

                                                        Sigla e firma                                  64

                                                        Cronologia                                    64

                                                        Iconografia                                    65

Indice                                                                                                     67

 

  

Finito di stampare nell’anno 2003

Tipografia - Roma

02 – SAN GIOVANNI DI DIO:”Haced bien, hermanos, para vosotros mismos” – Angelo Nocent

 ContinuaFATEBENEFRATELLI

“Chi fa bene per se stesso, fratelli?”
 
 
“Haced bien, hermanos, para vosotros mismos”

 

Parlare di lui, Giovanni di Dio, è parlare di loro, i Fatebenefratelli.
  
Il termine “Fatebenefratelli” in Italia sta a indicare i religiosi ospedalieri che nel mondo hanno denominazioni diverse (vedi in fondo). Esso ha un origine che va subito spiegata.
 
Non so quanti hanno fatto caso che il richiamo è biblico:  il “Fate del bene a voi stessi, fratelli, per amore di Dio”, gridato dal Santo  per le vie di Granada, ha un riscontro proprio nella lettera dell’ Apostolo Paolo ai Filippesi. Egli infatti, a proposito della carità ricevuta, scriveva: “16 Anche a Tessalonica mi mandaste, più di una volta, il necessario di cui avevo bisogno. È chiaro però che non cerco regali: cerco piuttosto frutti che tornino a vostro vantaggio” (Fil 4, 16).
 
La carità al prossimo è un farsi del bene per il cielo ma che ha una ricaduta anche sul benessere psicofisico. Il dare ci allegerisce e ci fa sentir meglio, perfino gioire . E’ il richiamo dell’Apostolo che si legge anche in Atti: ” Io non ho desiderato né argento né oro, né i vestiti di nessuno. Voi sapete bene che alle necessità mie e di quelli che erano con me ho provveduto con il lavoro di queste mie mani. 35Vi ho sempre mostrato che è necessario lavorare per soccorrere i deboli, ricordandoci di quello che disse il Signore Gesù: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere” .(Act. 20, 33-35).  
  
Ma in quel grido di derivazione biblica, espresso molto chiaramente in Siracide, 14, come si può vedere più avanti, si cela anche una furba sottigliezza dello scaltro Portoghese, acquisita con l’esperienza di venditore ambulante di libri e immagini sacre.
 

IL BANDO D’INVESTIMENTO

E L’AFFARE A PORTATA DI MANO

Chiudi

Giovanni Cidade è uomo che ha bisogno di freno ai suoi impulsi, ha bisogno di orientamento, data la sua scarsa formazione e data la sua bontà senza liniti verso il prossimo. A questo ci pensa San Giovanni d’Avila. Ma il Portoghese è intelligente ed intraprendente. Egli escogita il modo per superare le resistenze di chi, intorno a lui, non vuole vedere né sentire. 

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Come sfamare tante bocche senza risorse? Semplice: la gente è sensibile quando fiuta l’affare. E lui propone affari, occasioni da prendere al volo, da non lasciarsi scappare. Ogni sera ci prova: quando chiede denaro, aiuti per i suoi poveri, sempre ricorda che l’elemosina darà frutto, porterà interessi: “L’elemosina che mi avete fatto gli angeli la tengono già registrata nel libro dellavita”, cioè nel libro di Dio. E la gente ci crede. Ma non è un ciarlatano. A poco a poco s’accorgono tutti del bene che va facendo ed è sempre più difficile resistere all’amorevole violenza verbale del disturbatore della quiete.

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Il bando ha una precisa intenzione perché chiede di fare il bene per gli altri, ma con la persuasiva idea che farlo per il prossimo è, in fin dei conti, farlo a se stesso. Questa sottigliezza per l’esortazione alla carità la userà poi questo intelligente pastore di Oropesa, senza alcuna cultura, nelle lettere ai suoi nobili protettori, ai quali sempre presenterà la carità come una “occasione” favorevole. Una sorta di buon investimento del denaro.

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Il bando è una novità per chiedere l’elemosina. E la gente, di notte, talvolta sotto la pioggia, raccolta nelle case, si affaccia alla finestra, alle porte. E vedono Giovanni Cidade, poveramente vestito “magro e maltrattato” come dice Castro, [n.d.r. primo biografo] “con una grande sporta appesa alle spalle e fra le mani due grosse pentole legate con spaghi”. E gli danno pane o avanzi di cibo o denaro” (José Cruset in “Un avventuriero illuminato”).

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L’elemosina, per Giovanni di Dio, è sempre un buon investimento di denaro: “Voglio che vi guadagnate questa elemosina”. Ai benefattori bisogna parlare delle conseguenze, dei vantaggi dell’investimento del denaro: “…oh felice guadagno e usura!”. La parola usura, qui, acquista lo straordinario valore della sproporzione. Il Signore è un mercante e garantisce interessi fuori del comune. “Chi non darà quel che possiede a questo benedetto mercante, che stipula con noi un un così buon affare…?”.

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E ancora: “Questa elemosina sta dinanzia Gesù Cristo a pregare per voi” Lo afferma con la sicurezza che gli conferisce la fede nella realtà del premio. Tutto il resto, i guadagni apparenti della terra, conclude è caduco e trascurabile. Quel che è definitivo è l’affare della carità: “…tutto perisce eccetto le buone opere”.

 

 

san-giovanni-di-dio-ritratto-particolareL’attualità di San Giovanni di Dio sta nella perenne giovinezza del Vangelo.
  
E’ la lezione di Matteo, cap. 6:
  
19 Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano;
  
20 accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano.
  
21 Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore.
  
  
25 Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito?
  
26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro?
  
27 E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita?
  
28 E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano.
  
29 Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro.
  
30 Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede?
  
31 Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?
  
32 Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno.
  
33 Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta.
  
34 Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena.”  


 Proprio il  Capitolo 14 del Siracide che nel suo contesto è un appello all’elemosina, si potrebbe titolare:

IMPIEGA BENE I TUOI SOLDI

 
SIRACIDE, 14 
 
Fili, si habes, bene fac tecum“ 
 

Figlio mio, se puoi trattati bene  e presenta al Signore i doni che gli devi.

Ricorda che la morte non si può rimandare, e la data fissata ti è sconosciuta.

Prima di morire, fa’ del bene al tuo amico, sii generoso e dagli tutto quello che puoi.  

Non perdere un’occasione propizia, e non rinunziare a un desiderio legittimo. Perché lasci a un altro i frutti del tuo lavoro? Perché gli eredi dovrebbero spartirsi il frutto delle tue fatiche?

  

 Regala e accetta regali, goditi la vita, perché, una volta morto, non avrai altre soddisfazioni. L’uomo è fragile e invecchia come un vestito; questo è il destino di ognuno: “Tu morirai”.

  

 Guarda le foglie su un albero frondoso:  cadono e ne spuntano altre. Lo stesso succede alle generazioni umane: una muore e l’altra nasce; ogni opera umana si logora e perisce,  e chi l’ha fatta avrà lo stesso destino.

 

LA “PERPETUA ANDADURA” 
  
(il moto perpetuo)
.
 
 
La definizione è di un  biografo del nostro tempo, Enriquez de Cabo. Mi preme evidenziare che quest’ uomo, sempre in movimento che non può “avere respiro per lo spazio di un credo“, che, camminatore instancabile, sempre tutto preso dall’azione, ciò che chiedeva agl’ altri lo faceva per primo perché aveva l’attitudine innata del dare. Due esempi:
  
  • Quando faceva il venditore di libri metteva in atto un’ astuzia particolare. Accortosi che il costo elevato di un buon libro frenava il desiderio dell’acquirente, si affrettava a cederlo sotto costo, non esitando, osserva il Castro, a collocare il guadagno spirituale dell’altro al di sopra del proprio tornaconto economico. Ma con questo sistema, stranamente non finiva in perdita bensì accresceva il suo stock di volumi, al punto di possederne molti e di pregio. Di qui la decisione di mettr su bottega alla porta Elvira, per non girovagare con quel peso enorme che gli procurava una dispendiosa fatica.
  • Per non restare inoperoso, rimase sempre fedele alla seguente abitudine: quando giungeva in una località per prendere cibo o fermarvisi, portava sulle spalle un fascio di legna ed andava all’ospedale, se ce n’era uno, a lasciarvelo per i poveri; dopo chiedeva quanto gli bastava per nutrirsi in modo austero.  

 

  Continua  “Loco! Loco!” 

                        (Al pazzo! Al pazzo!)

Lanciarsi e senza mezzi: è ancora possibile? Quale sarà il segreto?

San Giovanni di Dio e il Crocifisso ovaleLUI ERA UN GRAN SIGNORE

Questa del primo biografo è bella:

“Camminava sempre a piedi, senza mai servirsi di alcuna cavalcatura, anche nei viaggi, per quanto stanco fosse e malconci avesse i piedi.

Né, per quanto imperversassero intemperie di pioggia o neve, si coprì la testa dal giorno in cui cominciò a servire nostro Signore fino a quando lo chiamò a sé.

Eppure, sentiva compassio-ne delle più lievi sofferenze dei suoi simili e procurava di aiutarli, come se egli vivesse in molta agiatezza.” (Francisco de Castro) 

 

 


 

 

 Il giorno del giudizio

 

Giudizio Universale

(clicca sull’immagine  per ingrandire)

 

“Quando il Figlio dell’uomo verrà nel suo splendore, insieme con gli angeli, si siederà sul suo trono glorioso. Tutti i popoli della terra saranno riuniti di fronte a lui ed egli li separerà in due gruppi, come fa il pastore quando separa le pecore dalle capre: metterà i giusti da una parte e i malvagi dall’altra.


“Allora il re dirà ai giusti:
- Venite, voi che siete i benedetti dal Padre mio; entrate nel regno che è stato preparato per voi fin dalla creazione del mondo. Perché, io ho avuto fame e voi mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato nella vostra casa; ero nudo e mi avete dato i vestiti; ero malato e siete venuti a curarmi; ero in prigione e siete venuti a trovarmi.
“E i giusti diranno:
- Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo incontrato forestiero e ti abbiamo ospitato nella nostra casa, o nudo e ti abbiamo dato i vestiti? Quando ti abbiamo visto malato o in prigione e siamo venuti a trovarti?
“Il re risponderà:
- In verità, vi dico: tutte le volte che avete fatto ciò a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo avete fatto a me! 

 

 IL SANTO DELLA COM-PASSIONE AUDACE    

 

 

01 – SAN GIOVANNI DI DIO: IL PUNTO VERO DA DIFENDERE – Angelo Nocent

 
San Giovanni di Dio statuaCR%20-%20Vallmitjana

 

 

 

IL

PUNTO VERO

 

 

DA

DIFENDERE 

  

 

Questo blog nasce solo ora ma il sogno di far conoscere al vasto pubblico uno dei più grandi campioni della carità quale è San Giovanni di Dio, il santo di Granada  che in Spagna è equiparabile per fama al nostro San Francesco d’Assisi, il sogno – dico – rimasto nel cassetto  dodici anni, potrebbe realizzarsi ora.

Benedetto XVI nella sua prima enciclica DEUS CARITAS EST cita espressamente alcune figure somme della carità cristiana: Francesco d´Assisi, Ignazio di Loyola, Giovanni di Dio, Camillo de Lellis, Vincenzo de´ Paoli, Luisa di Marillac, Giuseppe B. Cottolengo, Giovanni Bosco, Luigi Orione, Teresa di Calcutta.

Il Papa ne è convito: i santi «Rimangono modelli insigni di carità sociale per tutti gli uomini di buona volontà. I santi sono i veri portatori di luce all´interno della storia, perché sono uomini e donne di fede, di speranza e di amore» (40). Naturalmente, tra essi eccelle Maria, la donna che ama, serve, accoglie i discepoli di Gesù come suoi figli e continua dal cielo la sua opera di intercessione materna. 

 

 MELOGRANA e chicchiNel v° centenario della nascita

 

 

 

  

Scritti nel 1995, per tale ricorrenza, credo che i seguenti appunti mantengano ancora intatta la la loro attualità.

Cinque secoli fa, l’otto Marzo 1495, nasceva a Montemor o Novo, in Portogallo, Giovanni Cidade, l’attuale San Giovanni di Dio.

Qual è il modo possibile di lettura di una vita così insignificante, (se si esclude l’ultimo decennio) quale appare quella del Santo, e lo straordinario messaggio che si tramanda nei suoi figli spirituali?

Tralasciando [qui] la biografia, [Nei fratelli vedeva Gesù] resta, comunque, la straordinaria figura di un uomo qualsiasi, che ha fatto di tutto nella vita e che, improvvisamente, a quarantacinque anni, rompe i confini della nostra visione terrena e conquista di colpo un’altra dimensione. Tutte le volte che si scandagliano gli atteggiamenti di questo innamorato pazzo di Dio e dei suoi simili, si registra un primo atto di profonda umiltà, un atto che davvero lo prostrava fisicamente ai piedi della croce del Salvatore.

 D’altra parte, l’efficacia di questo suo atteggiamento è confermata dal fatto che in nessun momento veniva sfiorato il pericolo di mettersi come esempio, di proporsi, di fare scuola. Al contrario, si deve aggiungere che, più andava avanti in quest’opera di totale dedizione a Dio e al prossimo, più si allargava e si arricchiva il suo spirito di umiltà. Prova ne sia che non si è mai sognato di fondare un ordine religioso, bensì di sopperire con tutti i mezzi alle necessità di coloro che incontrava sul suo cammino. (*) Bisogna ammettere che di strada ne ha fatta tanta e tutta a piedi, nel vero senso della parola.

 Rileggere trent’anni dopo – come sto facendo – le lettere di chi ha affascinato la mia giovinezza, è come scoprire un tesoro dimenticato in un vecchio baule riposto in solaio. Tali, infatti, mi appaiono i suoi scritti, i pochi rimasti. [lettere di san giovanni di dio] Devo riconoscere che allora, pur attratto dal Santo, le sue lettere mi apparivano prolisse, datate, non più di tanto rivelatrici del suo animo. Erano i tempi avvincenti del Concilio Vaticano II e del vino nuovo in fermento nelle nostre coscienze.

Dei vecchi libri di spiritualità si faceva volentieri senza e, nel tentativo di eliminare la bigiotteria poteva succedere di scartare involontariamente anche pietre preziose. Oggi, proprio grazie al Concilio, tralasciando le considerazioni stilistiche sulla prosa che risente inevitabilmente del tempo, esse mi appaiono rivelatrici di una spiritualità essenziale, robusta, capace di resistere ai mutamenti delle variabili storiche.

L’itinerario spirituale di uno dei più curiosi scherzi della Grazia manifestatisi nel XIV secolo e tutt’ora palese negli eredi spirituali, i Fatebenefratelli, è attuale perché la sua risposta alla chiamata assomiglia a quella di Abramo, nostro padre nella fede. Ma anche a quella di Paolo di Tarso. Ed è un peccato che nessuno abbia tentato una lettura della sua vita alla luce delle Scritture.

Il nostro Patriarca è un vero discepolo del Signore Gesù la cui esperienza umana andrebbe riletta non soltanto accostandola alla parabola del Buon Samaritano, come s’è fatto fin’ora. Tale è certamente il motivo dominante della sua conversione ma il suo poema sinfonico di carità è costellato di passaggi meno sottolineati ma altrettanto interessanti.

La sua è un’esistenza tempestata di divine chiamate fin dalla fanciullezza che, apparentemente, sfociano in vicoli ciechi. La conversione si manifesta in forme che il senso comune definisce follia, cioè malattia mentale. Quest’uomo fatto a suo modo, quasi inimitabile, frequenta case principesche e tuguri, l’arcivescovado ma anche il carcere, il manicomio e le case di prostituzione. E’ un persistente indebitato per Dio fin sul letto di morte, sempre in affanno per onorare gli impegni e farsi aprire nuovo credito, ogni volta con l’acqua alla gola e col rischio di insolvenza che puntualmente svanisce per mani caritatevoli di nobili soccorritori. Lascia debiti in eredità ai primi discepoli che resteranno contagiati nei secoli dalla stessa malattia. I primi discepoli? Nessuno può immaginarlo: si tratta di gente strappata alla galera, al facile guadagno, all’odio, alla vendetta e segnata, come lui, nel profondo, dal marchio indelebile della carità inarrestabile.

 E’ uomo di grandi intuizioni e animato dal senso pratico, ma segue umilmente anche la direzione spirituale ed i consigli del Santo Giovanni d’Avila e mantiene costanti legami con il suo Vescovo. Nel suo ospedale l’altare è al centro della corsia. Il Vangelo è il metro di valutazione e di giudizio degli avvenimenti. Preghiera e penitenza sono le quotidiane sue armi di difesa interiore ed esterna. L’ospitalità, l’accoglienza, la condivisione sono pane quotidiano. I doni dello Spirito, la sua unica ricchezza. 

Uno sforzo di lettura approfondita in tali direzioni, lo renderebbe ancor più attuale nel nostro contesto storico, per certi versi molto simile al suo. 

 Si pensi al terzo mondo che i paesi progrediti si ritrovano in casa, incapaci di risposte adeguate, un fiume in piena che nessuno riesce ad arginare. 

O alla pestifera droga, destinata chissà fino a quando a mietere giovani vite, avvilite esistenze.

O ancora agli ospedali che sembrano aver proprio dimenticato la lezione profetica del Santo e riducono il malato a caso clinico e la struttura a deficit amministrativo da colmare.

La nostra sanità ed assistenza sociale occidentale, perenne mediatrice di interessi contrapposti e alla ricerca di consenso, avrebbe davvero bisogno della fantastica incoscienza di un San Giovanni di Dio. Infatti, ciò che accade sotto i nostri occhi smarriti non è che l’inevitabile risultato derivante dalla limitata prospettiva ottica di cui dispone l’uomo psichico, ossia l’uomo laicizzato e secolarizzato, rispetto alla vastità di orizzonti che si aprono all’uomo pneumatico ( 1 Cor. 2,14-15).

La dimensione spirituale e divina della persona, gratuito dono di Dio, abbraccia tutto ciò che nell’uomo è iscritto e all’uomo appartiene a partire non dalla sua psiche ma dai desideri dello Spirito secondo i disegni di Dio (Rom. 8,26-27). Nessun progresso scientifico o tecnico può mai sperare di giungere a scoprire le profondità divine dell’uomo. La sapienza laica di questo mondo (1 Cor.2,6) può al massimo concepire di liberare l’uomo mediante la umanizzazione del mondo, della società, delle sue strutture, delle relazioni sociali e internazionali, “ ma quel che nasce da carne è carne, e quel che nasce dallo Spirito è Spirito “ (Gv. 3,6). I risultati sono sotto gl’ occhi di tutti.

Si dirà che ognuno è figlio del suo tempo e che San Giovanni di Dio è un caso irripetibile. Ma forse no: la sua lezione è ripetibilissima. A patto di restare con lo sguardo assorto, in attesa di una rivelazione che appartiene soltanto allo Spirito e al cuore.

L’uomo d’oggi, il vecchio piccolo dio di se stesso che consuma l’esistenza in tragiche contraddizioni, talvolta si pone una domanda fondamentale e importante: è possibile riscattare attraverso i nostri atti terreni la lezione di Cristo? E se sì, in che modo dobbiamo regolarci? La tendenza a spegnere il fuoco interiore per accontentarsi di una religione intesa soltanto come ragione ed esaltazione dell’uomo è sempre in agguato. Il segreto del cristianesimo è questo: i discepoli di Cristo devono diventare non divini come Dio ma umani come Dio.

Giovanni di Dio è l’uomo che non ha alcuna illusione e presunzione di imitare Cristo. Egli sa, per esperienza interiore, di essere in Cristo Gesù (Fil.2,1,5. Il quarantacinquenne sradicato, proveniente da un paese insignificante del Portogallo, accostabile a un altro paese un tempo irrilevante, Betlemme, ha potuto mettere in atto un’esplosione nucleare di carità i cui effetti perdurano, semplicemente perché si è lasciato trascinare nell’umanità di Dio. Ecco descritta la miopia umana di allora e di ogni tempo che vede nella sua conversione i sintomi della follia di un esaltato schizofrenico, invece di magnificare Colui “che innalza i miseri”. Di qui l’estrema attualità della sua proposta di “dare per darsi”, il fascino di questa storia d’amore tra un uomo e il suo Dio e, nello stesso tempo l’evidenza della nostra tragica cecità .

 

Il rischio dei Fatebenefratelli oggi è di lasciare in piedi lo scenario delle grandi strutture ospedaliere mentre il palcoscenico si svuota delle voci significative e creative indispensabili.

 Il punto vero da difendere è quello della sostanza e della continuità della fede. Sul resto permane un grande margine di confusione che può produrre rotture e devastazioni locali e storiche anche oggi come in passato. Giocare d’astuzia sui numeri del silenzio e delle troppo facili allusioni non paga. Sta in noi cercare il Vangelo. Epperò il confronto spirituale interiore tra il nuovo e la tradizione s’impone.

La misura dell’eterno, la conferma di una speranza che va ben oltre l’attualità e il contingente, sono ben presenti nel vecchio cristianesimo, quello di Giovanni di Dio, di cui si è tentati di cantare la morte e la sconfitta.

Nella sua tomba si conserva una luce di vita, un segno eterno di attesa che nessuna riforma umana, pur auspicabile, necessaria, urgente, riuscirà mai a sostituire. Giovanni si è presentato a Dio in tutta la sua fragilità di uomo ma anche in tutta la coscienza dell’ultima, della sola verità: Cristo, e Cristo crocifisso.

Strumenti essenziali d’ogni vera rivoluzione cristiana sono sempre due: carità e preghiera. Giovanni di Dio li ha usati per compiere il miracolo, per noi così ovvio, dell’ospedale moderno di cui, a buon diritto è ritenuto l’ideatore.

Ma di quale ospedale? Quello sotto i nostri occhi, più che un gioiello di famiglia, sembra un’eredità lapidata.

                                                                                     Angelo Nocent

(*) Il dottor Fra Giuseppe Magliozzi, o.h., studioso di San Giovanni di Dio e memoria storica dell’Ordine, mi ha fatto un appunto che merita di essere tenuto presente: Mi permetta una piccola osservazione alla sua affermazioneProva ne sia che non si è mai sognato di fondare un ordine religioso”. Si tratta di un’affermazione frequente in chi scrive sul Santo, ma in realtà, almeno negli ultimi tempi, egli divenne assolutamente cosciente d’aver fondato una nuova Famiglia Religiosa, tant’è vero che confidò, come annota il Castro, che “ci sarebbero stati fratelli del suo abito in tutto il mondo“…e noi nelle Filippine siamo l’ennesima conferma della sua profezia!” (Manila, 05.07.2007)

  

angelonocent-150x150Voi non ci crederete ma, dopo aver scritto questa riflessione, rimasta tra le carte, è successo un miracolo: con l’incarico affidatomi di portarle a destinazione, son cominciate a piovere numerose LETTERE DAL CIELO e ancora adesso ogni tanto ne arriva qualcuna. Da bravo postino, ho provato a recapitarle ma per carenza d’indirizzo o perché respinte, mi son tornate tutte indietro. Così ora mi son deciso per un fermo posta e chi vi è interessato non ha che da frugare nella colonna di destra. Le lettere sono state classificate con un numero, in sequenza non cronologica perché prive di data, seguìte dalla sigla ldc (lettere dal cielo)Col tempo si spera di poter semplificare ulteriormente. Ma, tanto per cominciare, ecco la prima:
 

 San Giovanni di Dio e i giovani discepoli di oggi

L’allora Priore Provinciale  della Provincia Lombardo-Veneta, Fra Raimondo Fabello (nella foto), sempre in concomitanza con il Quinto Centenario, ha presentato una biografia inedita sul Santo in questi termini: 

fra raimondo“Celebriamo quest’anno il Quinto Centenario della Nascita del nostro padre Fondatore ed è in questo anno giubilare che la presentazione di questo nuovo libro sulla vita di San Giovanni di Dio, scritto da Juan Félix Bellindo, scrittore giornalista spagnolo, tradotto da Giuseppe Pessa ed edito da Città Nuova, è per noi motivo di gioia e di sicuro arricchimento per l’Ordine e per tutta la Chiesa.

Il fatto che un giornalista, abituato ad interrogare la storia attraverso i suoi contemporanei, si sia interessato ad un uomo vissuto nel XVI secolo diventa anche motivo di riflessione e ci fa pensare che questo uomo non appartenga solo al passato ma sia di un’attualità straordinaria anche per gli uomini del nostro tempo e non solo per i religiosi.

Siamo riconoscenti all’autore che si è impegnato in una ricerca approfondita per ricostruire in modo nuovo e il più possibile fedele le esperienze del portoghese Giovanni Ciudad, poi Giovanni di Dio, da papa Alessandro VIII elevato alla gloria degli altari nel 1690.
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Siamo tutti chiamati, credenti e non credenti, a creare una società nella quale venga eliminata la violenza, l’emarginazione, la competitività, la manipolazione e sia instaurata la giustizia, la solidarietà, il rispetto e la dignità di tutti nell’amore. Assumere gli atteggiamenti di San Giovanni di Dio significa lanciarsi nella vita senza paura, con coraggio, con speranza. Questa nuova biografia è sicuramente uno strumento di conoscenza, di studio e di approfondimento degli atteggiamenti che hanno caratterizzato la vita di Giovanni diDio e ne hanno determinato l’impegno totale verso i più bisognosi nell’imitazione di Cristo” . San Giovanni di Dio continua a vivere nel tempo; lo dimostrano oltre all’interesse che continua a suscitare nel mondo della cultura, le opere di noi successori che, attraverso il carisma dell’Ospitalità, rinnoviamo quotidianamente nel mondo della sanità la missione del fondatore.

 San Giovanni di Dio ha iniziato la sua opera a Granada, praticamente sulla strada; senza mezzi è riuscito ad affascinare persone sensibili che con la loro generosità gli hanno permesso di aprire un luogo dove accogliere tutti i bisognosi.

Come i nostri predecessori, che seguirono le orme di Giovanni di Dio, noi Religiosi Fatebenefratelli, conosciuti dal 1571 nella Chiesa col nome di Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, siamo chiamati oggi sulla spinta della nuova evangelizzazione ad attin-gere alla ricchezza del nostro Carisma e a rispondere ai bisogni dell’uomo del nostro tempo per giungere preparati a vivere il Terzo Millennio con rinnovata vitalità”.

  

 Siate miei imitatori come anch’io lo sono di Cristo.1 Cor 11,1)

 

 

 

SAN GIOVANNI DI DIO – Antonio Sicari

Michelini - S.Giovanndi di Dio e San Raffaele arcangelo

 

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SAN GIOVANNI DI DIO

Nascere sul finire del secolo XV, appena tre anni dopo la scoperta del “nuovo mondo” voleva dire inevitabilmente assorbire fin dalla prima infanzia il gusto e l’ansia dell’avventura, che caratterizzeranno l’intero secolo XVI.Tanto più se si nasceva in Portogallo, terra dei grandi navigatori; di Bartolomeo Diaz che nel 1486 ha scoperto il “Capo delle Tempeste” poi “Capo di Buona Speranza”; di Vasco de Gama che un 1497 doppia il Capo e giunge fino a Calcutta; di Alvares Cabral che nel 1500 scopre il Brasile; di Magellano che nel 1520 giunge al Grande Stretto per Immettersi nell’oceano Pacifico e circumnavigare il globo.
Giovanni Cidade Duarte nacque dunque nel 1495 a Montemoro-novo (Montemaggiore Nuovo, un villaggio dalnome promettente).

Ma l’avventura è difficile quando il papà è soltanto un modesto bottegaio che vende frutta all’angolo della strada, anche se ha fama d’essere un sognatore che avrebbe voluto arruolarsi nelle spedizioni di Vasco de Gama: glielo ha impedito l’aver moglie e figlio.
Di Giovanni bambino non sappiamo quasi nulla, finché all’età di otto anni non gli accade di incontrare un pellegrino: un viandante entrato nella sua casa a chiedere alloggio e intrattenere gli ospiti col racconto dei suoi viaggi.

Che cosa sia poi avvenuto non è possibile dire, ma la mattina dopo i genitori s’accorgono che il pellegrino ha ripreso la strada e che il bambino è fuggito con lui: fuggito o forse rapito. Chissà!
Certo è che essi non riescono più a rintracciarlo, e la mamma, stroncata dall’angoscia, non sopravvive più di venti giorni a tanta sventura. Il papà, invece, finisce i suoi anni in un convento di francescani.

Il piccolo Giovanni compì così un lungo viaggio a piedi, fino a Madrid, assieme a mendicanti, saltimbanchi e giocolieri, imparandone la strana professione.

Giunti vicino a Toledo, il viandante abbandonò il fanciullo, probabilmente sfinito, nelle mani di un buon uomo del posto, Francisco Majoral, intendente delle greggi del Conte di Oropesa, un signore di cui si conoscono le virtù e la carità.
Per sei anni Giovanni viene educato come un figlio: poi, dai quattordici ai ventott’anni, vive come un pastore, nella solitudine dei monti e nella contemplazione della natura, seguendo le greggi.

Ma quando infine sembra che egli possa sistemarsi definitivamente sposando la figlia del Majoral, con la quale è vissuto fraternamente fin dall’infanzia, Giovanni fugge ancora.

Carlo V sta arruolando truppe contro la Francia che si è impadronita di Pamplona (dove è stato ferito l’eroico difensore Ignazio di Loyola e han combattuto, schierati dall’altra parte, i fratelli maggiori del piccolo Francesco Saverio).

Giovanni Cidade vuole libertà: “Quella libertà, scrive il suo biografo, che sogliono avere quelli che seguono la guerra, correndo a briglie sciolte la via ampia (seppur faticosa) dei vizi”.
Siamo nell’epoca in cui, dopo il cavaliere medievale, sta nascendo la figura del “soldato”.

Ma al nostro avventuriero la vita militare riserva solo disgrazie. Una volta il cavallo in corsa, imbizzarrito, lo disarciona gettandolo contro le rocce che fiancheggiano il sentiero, e Giovanni rimane a lungo privo di conoscenza, come morto.

Un’altra volta, messo a guardia di un bottino di guerra, si lascia imprudentemente derubare: viene degradato e condannato a morte; ma viene graziato per l’intervento pietoso d’un personaggio ragguardevole.

Ambedue furono esperienze fisiche di morte e di grazia, che si depositarono nel profondo della sua coscienza.
Tornò dal Majoral, suo antico padrone, dopo un interminabile viaggio a piedi di circa seicento chilometri, come un fallito, riprendendo a fare di malavoglia il pastore.

Passarono altri due anni. Nel 1527 sente dire che il sultano dei Turchi, Solimano Il, è entrato in Ungheria e ha posto l’assedio a Vienna. Gli rinasce il desiderio della lotta.

Nel 1532 Carlo V comincia a preparare una crociata contro i Turchi e recluta uomini dovunque sia possibile.

Giovanni si arruola e ricomincia a viaggiare: la sua compagnia è indirizzata a Barcellona, poi trasferita via mare a Genova, poi discende verso il lago di Garda dove ha luogo il concentramento di tutte le truppe imperiali. Da lì l’esercito si muove a tappe forzate verso Verona, Trento, Bressanone, Innsbruck. Infine, sui battelli che discendono l’Inn, giungono sul Danubio.Così le truppe di Carlo V poterono entrare a Vienna nel settembre del 1532.

Non fu combattuta nessuna vera guerra, ma il pericolo turco venne per il momento scongiurato.

Dopo alcuni mesi le truppe intrapresero il viaggio di ritorno, ripercorrendo la stessa strada, ma la compagnia di Giovanni Cidade ebbe invece l’ordine di attraversare la Germania, toccare le Fiandre e noleggiare una nave per la Spagna.

Sbarcarono al porto di La Coruna, non lontano da Santiago di Compostela, e tutti vi si recarono in pellegrinaggio. Poi la compagnia si sciolse.
Solo ora, imprevedibilmente, Giovanni pensa di tornare al paese natio che ha abbandonato da bambino: percorre a piedi i seicento aspri chilometri che lo separano da Montemoro-novo. Cerca la casa dei suoi genitori, sperando di trovarli ancora in vita.

Quando scopre quel che è loro accaduto, lo assale un dolore atroce e uno sconvolgente senso di colpa. Si sente responsabile della loro morte: “Sono tanto cattivo e colpevole, si dice, che devo occupare la mia vita, dono del Signore, a fare penitenza e a servirlo”.
Si reca allora a Siviglia dove commercia in bestiame: di fatto fa ancora il pastore per una ricca signora del luogo. Ma dura soltanto alcuni mesi. E’ inquieto. Si reca a Gibilterra e pensa di arruolarsi nella spedizione che Carlo V prepara contro Tunisi.

A Ceuta si mette a servizio di un nobile decaduto, ma finisce per prendersi cura della famiglia ridotta in miseria, mantenendola col suo lavoro. La carità gli allarga il cuore: cerca un padre spirituale che gli raccomanda la lettura del Vangelo e di libri spirituali.

Torna in Spagna e si immerge per ore intere nella lettura di testi di spiritualità: spende tutti i suoi risparmi per acquistare libri per sé e per gli altri e si mette a percorrere i villaggi vendendo libri ai dotti, e immagini agli incolti e ai fanciulli.

Ma, prima di venderli, legge tutto quel che può: poi mette i libri alla moda in bella mostra, ma quando i giovani si avvicinano per acquistarli, li sconsiglia e li convince a comprare quelli spirituali. Giunge addirittura a metter su una bottega di libri.

Che Giovanni abbia imparato, lui per primo, è evidente: ci restano di lui sei lunghe lettere che contengono numerosissime citazioni della Bibbia e dell’Imitazione di Cristo.A quarantatré anni egli può vivere dunque agiatamente nella sua botteguccia di Granada.

Ma Dio lo attende in quel gennaio del 1539, alla festa di San Sebastiano, quando giunse in città uno dei più celebri predicatori del tempo: Giovanni d’Avila, l’apostolo dell’Andalusia. Giovanni è tra gli ascoltatori e si sente dire che ognuno deve “ancorarsi nella volontà di soffrire e perfino di morire piuttosto che commettere il peccato, che è il flagello più pericoloso”.

Tutti comprendono il riferimento, perché la regione è devastata dal flagello della peste. A quel paragone, il nostro “venditore di libri” è colto da un moto irrefrenabile di pentimento: gli passano davanti agli occhi le immagini di tutta la sua vita disordinata, e i peccati commessi fin dagli anni della gioventù.

Di mezzo agli ascoltatori, egli si mette a gridare: “Misericordia, mio Dio, misericordia!”.

Sembra diventato pazzo: si getta a terra, batte la testa contro i muri, si strappa la barba. Corre verso la sua bottega inseguito da una folla di bambini che gli urlano dietro: “Pazzo! Pazzo!”.

Dà il suo denaro a chi lo vuole, distribuisce libri sacri e oggetti di pietà, strappa con le mani e con i denti le opere profane, si priva perfino delle sue vesti.

Corre da Giovanni d’Avila e fa una lunga confessione, poi si reca in piazza dove c’è un grande pantano e ci si rotola dentro e comincia a confessare pubblicamente i suoi peccati.

I ragazzi gli gettano addosso altro fango ed egli se ne va tutto felice, con una croce in mano, che dà da baciare a chiunque incontra.
Alcuni biografi spiegano che ha fatto tutto questo perché vuole sembrare pazzo “per amore di Cristo”.

Altri sostengono invece che si trattò di un vero e proprio attacco di follia: troppe esperienze, troppe tensioni, troppa tenebra e troppa luce, troppa durezza e troppa tenerezza, e soprattutto troppo bisogno d’amare e troppa mancanza d’oggetti reali degni d’amore.

Di fatto finì in un manicomio: uno di quelli di allora dove la cura consisteva nell’incatenare i malati più inquieti, per poi calmarli a furia di nerbate. Ma questo malato era strano, perfino nella sua pazzia.
Quando egli stesso veniva frustato, incitava gli “infermieri” a continuare “perché era giusto che pagasse quella carne con cui egli aveva peccato”. Ma se frustavano qualche altro poveretto, allora inveiva contro gli “infermieri”:

Traditori, perché trattate tanto male e con tanta crudeltà questi poveri infelici, miei fratelli, che si trovano in questa casa di Dio e in mia compagnia? Non sarebbe meglio aver compassione delle loro prove, tenerli puliti e dar loro da mangiare con maggiore carità e affetto di quanto fate?”.

 

E rinfacciava loro lo stipendio che ricevevano per curare i malati e non per maltrattarli.

Il risultato era che lui prendeva doppia razione di frustate. Ma Giovanni diceva: “Che Gesù Cristo mi accordi la grazia di possedere un giorno un ospedale dove io possa accogliere i poveri abbandonati e gli infelici privi di ragione, per servirli come desidero“.

Il grande poeta spagnolo Lope de Vega ha dedicato un poema a san Giovanni di Dio, nel quale così commenta l’episodio della sua follia e della sua umiliazione:

Essere Portoghese e umiliarsi fa spavento; poiché ricevere insolenti sferzate e soffrire tal disonore dai Castigliani, in un Portoghese è cosa che mai s’è udita; infatti i Portoghesi son tanto gentiluomini e valorosi che, se Dio non avesse preso su di sé quel disonore sul proprio onore, non so come si sarebbe potuto tollerare. E così il disonore venne diviso tra lui e Dio, giacché, se così non fosse stato, in quanto portoghese, Giovanni non l’avrebbe potuto sopportare“.

Dopo qualche giorno si presentò al direttore del manicomio e gli disse:
“Benedetto sia il Signore, io mi sento in buona salute e libero da ogni angoscia”. Per darne prova, chiese di poter servire gli altri malati e dimostrò una serenità e una carità stupefacenti.

Appena dimesso, subì un altro shock: davanti alla porta dell’ospedale passava il corteo funebre che accompagnava alla sepoltura nella cappella reale di Granada la bellissima imperatrice Isabella Augusta, sposa di Carlo V.

Come avvenne al duca Francesco Borgia che decise allora d’intraprendere la via della santità, quella visione lo convinse definitivamente, se ce n’era ancora bisogno, a dedicare la vita al servizio di Nostro Signore, prendendosi cura dei più poveri.
Aveva ormai quarantaquattro anni e gliene restavano da vivere soltanto undici. Ma in così breve tempo egli divenne “il Padre dei poveri”, il “patriarca della carità”, “la meraviglia di Granada”, “l’onore del suo secolo”: tutti titoli che gli furono attribuiti.
Cominciò a lavorare raccogliendo e rivendendo legna, finché poté acquistare una casupola davanti al mercato del pesce, nella quale raccolse i primi derelitti.

Al mercato si faceva regalare i pesci invenduti, dato che allora era impossibile conservarli, e li cucinava per i suoi malati, tanto che divenne esperto nel preparare un’ottima zuppa di pesce.
Ogni sera poi percorreva i quartieri alti recando una gerla sul dorso e due marmitte ai lati sospese a una corda passata sulle spalle e percorreva così le strade gridando:
“Qualcuno vuol fare del bene a se stesso? Fratelli miei, per amor di Dio, fate bene a voi stessi!”.

È questo il significato originario del motto che oggi dà il nome al suo Ordine religioso: “Fatebenefratelli!”. L’espressione non voleva dire in primo luogo che bisogna prendersi cura dei fratelli più poveri, ma che bisogna “farsi del bene”, facendo del bene al prossimo.
Non si riesce ad amare veramente i poveri se prima non si scopre la propria incredibile povertà, il dovere di arricchire la propria misera vita, facendo del bene a se stessi col fare il bene agli altri.
I santi che hanno amato la povertà e i poveri hanno intravisto in tale amore una ricchezza che veniva a colmare la loro esistenza più di ogni altro tesoro.

Il movimento della carità non va mai da un ricco a un povero, ma da un povero a un povero: da uno che ha scoperto d’essere povero nonostante le sue ricchezze, e che queste gli son date “per acquistare un tesoro in cielo” facendo del bene sulla terra.

Cominciarono le prime donazioni e la casa poté ingrandirsi. Giovanni prese a ricoverare i suoi malati selezionandoli e distribuendoli secondo la malattia: una stanza per i febbricitanti, una per i feriti, una per gli invalidi; il pianterreno era invece riservato ai viandanti e ai mendicanti che non trovavano un tetto dove ripararsi.
Tutto questo in un tempo in cui negli ospedali i malati venivano ammucchiati senza distinzioni, mettendo più infermi nello stesso letto.

Il nostro Lombroso, non certo tenero con la Chiesa, definì Giovanni Cidade “il creatore dell’ospedale moderno”.
Si curava personalmente di tutto: accoglieva i bisognosi, li lavava, procurava il cibo, lo cucinava, rigovernava, spazzava i pavimenti, lavava la biancheria, andava per acqua e per legna. E i visitatori restavano impressionati dell’ordine e della pulizia.

Se all’inizio dell’opera ancora lo consideravano pazzo, ora lo chiamavano: “il Santo”.

Aumentano le offerte, i crediti; alcuni si dicono disposti ad aiutarlo e a condividere la sua fatica; gli stessi poveri più validi diventano infermieri.
Un alto prelato di Granada si diede a proteggerlo; un giorno, però, gli impose di abbandonare le sue vesti cenciose e di indossare una tunica sobria ma pulita. Poi gli diede un nome: “Ti chiamerai Giovanni di Dio”, gli disse. “Oh sì, rispose Giovanni, se piace a Dio!”.
Il suo biografo racconta: “Aveva pietà delle più lievi sofferenze del suo prossimo, come se vivesse egli stesso con grande larghezza e mezzi”.
Ma il suo scopo era sempre chiarissimo. Diceva: “Attraverso i corpi, alle anime!”.

Per questo chiamava al suo ospedale i più zelanti sacerdoti a collaborare con lui.
Quando doveva spiegare la sua carità, poiché egli non teneva conto di nulla, nemmeno di essere derubato o ingannato, usava una espressione strana e bellissima: “Derubato? Ma no! io mi do a Dio!”.
L’immagine più nota che resta di lui è quella immortalata da Murillo e che si rifà a un celebre episodio.

Una sera d’inverno rientrava tenendo con una mano la cesta piena di viveri, appoggiandosi con l’altra a un bastone e portando sulla schiena un povero ammalato trovato sulla pubblica via.
La strada saliva faticosamente, e veniva giù un terribile acquazzone.
Giovanni scivolò e cadde. Alle grida del malato qualcuno s’affacciò alla finestra e vide Giovanni che si picchiava col bastone sulle spalle gridando a se stesso:

Signor asino, stupido, fiacco, pigro, non hai forse mangiato oggi? Allora perché non lavori? I poveri ti attendono e guarda che cosa hai combinato a questo moribondo!”.

 

Poi si riaccomodò il malato sulle spalle e afferrò nuovamente la cesta, trascinandosi fino all’ospedale.
Il suo primo collaboratore stabile fu Antonio Martin: gli avevano assassinato il fratello per motivi d’onore ed egli aveva a sua volta dedicato l’intera vita a preparare la vendetta.
Nulla avrebbe potuto fermano, dato ch’era per lui un impegno d’onore e di sangue.

Eppure Antonio era buono e generoso con i poveri. E Giovanni di Dio volle ottenere “la conversione di questo battezzato”.
Passò un intera notte a pregare, flagellandosi; al mattino si recò da Antonio, gli si gettò davanti in ginocchio e gli mostrò il Crocifisso:

Ecco, fratello Antonio, gli disse, ecco Colui che vi perdonerà se voi perdonate, ma se voi vendicate il sangue di vostro fratello, il Signore vendicherà su di voi il proprio sangue che versate ogni giorno con i vostri peccati!”.

La risposta che ne ebbe fu detta fra le lacrime: “Fratello Giovanni, non soltanto lo perdono, ma per amore di Dio mi do a voi e ai vostri poveri”. Divenne così suo amico e successore. Sarà lui a fondare l’ospedale di Madrid intitolandolo: “Nostra Signora dell’Amore di Dio”.

Altro suo collaboratore divenne l’assassino Pietro Velasco.
Una attenzione particolare Giovanni aveva per quelle peccatrici che più attiravano la sua misericordiosa tenerezza: le prostitute.
Ogni venerdì, in memoria della passione del Signore, si recava in un postribolo, sceglieva la donna più perduta e le diceva: “Figlia mia, tutto ciò che ti darebbe un altro, te lo darò… e anche di più. Ti prego soltanto di ascoltare due parole, qui nella tua stanza”. Mentre quella se ne stava a guardarlo, lui si gettava in ginocchio davanti al suo Crocifisso e cominciava a piangere e ad accusarsi dei suoi molti peccati, poi diceva: “Considera, sorella mia, quanto sei costata a Nostro Signore!…”.

Qualcuna si pentiva; ma la situazione restava a volte irrisolvibile, legate com’erano da debiti e minacce.
Allora egli se ne andava da qualche nobile dama a chiedere denaro: “Sorella mia, c’è una prigioniera del demonio, aiutatemi, per l’amore di Dio, a liberarla e strappiamola a quella miserabile schiavitù”.
Se non ci riusciva, si impegnava a pagare tutti i debiti che quelle poverette avevano contratto.
Quel che doveva subire, dedicandosi a un apostolato del genere, va al di là di ogni immaginazione, ma Giovanni lo riteneva particolarmente necessario.

Quando le accuse e le calunnie nei suoi confronti diventavano intollerabili, egli rispondeva a chi l’offendeva: “Presto o tardi bisogna che ti perdoni, perciò ti perdono subito!”.
Gli toccava anche questuare per i suoi poveri e, a tal scopo, dovette recarsi fino alla Corte di Valladolid.
Ma le sue questue erano sempre un fallimento: chiedeva soldi per il suo ospedale di Granada, ma poi li spendeva immancabilmente per tutti i poveri che trovava nella città dove s’era recato a questuare.
La cosa divenne ridicola al punto che il celebre Conte di Tendilla pensò di risolverla dandogli delle lettere di credito che potevano essere pagate solo a Granada.

Era letteralmente bruciato dal fuoco della carità.
Quando a Granada il grande ospedale regio fu distrutto da un incendio, Giovanni si gettò nel fuoco per salvare i malati.
L’antico Breviario, nel giorno della sua festa, commentava così l’episodio: “Insegnando la carità, mostrò che il fuoco esterno aveva su di lui minor forza del fuoco che lo bruciava interiormente”.
E fu questa la scena che venne raffigurata nella Gloria del Bernini il giorno della canonizzazione.

Intanto il suo ospedale cresceva.
Scrive Giovanni in una lettera:
“Sono tanti i poveri che qui giungono, che io stesso, molte volte non so come si possano alimentare, ma Gesù Cristo provvede a tutto e dà loro da mangiare, perché solo per la legna occorrono sette o otto reali ogni giorno; perché essendo la città grande e molto fredda, specialmente adesso d’inverno, son molti i poveri che giungono a questa casa di Dio; perché tra tutti, infermi e sani e gente di servizio e pellegrini ce ne sono più di cento e dieci… Vi sono rattrappiti, mutilati, lebbrosi, muti, pazzi, paralitici, tignosi, e molti vecchi e molti bambini; e senza contar questi, molti altri pellegrini e viandanti che giungono e si dà loro fuoco e acqua e sale e recipienti per cucinare e mangiare, e per tutto questo non c è rendita; ma Gesù Cristo provvede a tutto…
E in questo modo sono indebitato e prigioniero solo per Gesù Cristo…”.
Diceva: “Non ho il tempo di un Credo di respiro!”.

All’inizio del 1550 si ammalò gravemente; una sua nobile benefattrice lo trovò febbricitante sul suo povero letto, fatto di una nuda tavola, mentre il cesto della questua gli serviva da cuscino.
Ottenne dall’Arcivescovo il permesso, un ordine per Giovanni, di portarlo nel suo palazzo nobiliare. Mentre lo conducevano via, i poveri gridavano e protestavano accerchiando la portantina e Giovanni era sconvolto. Li benediceva piangendo e diceva: “Dio lo sa, fratelli miei, se desidererei morire in mezzo a voi! Ma poiché Egli vuole che io muoia senza vedervi, sia fatta la sua volontà!”.

Nel letto troppo soffice Giovanni rivelò all’Arcivescovo che era angustiato da tre cose:
“La prima: aver servito così poco Nostro Signore, mentre ho ricevuto tanto.
La seconda: i bisognosi, le persone uscite dal peccato e i poveri ritrosi che ho preso a mio carico.
La terza: questi debiti che ho contratto per Gesù Cristo”. E, così dicendo, gli mise tra le mani il registro dei debiti che portava stretto sul cuore.

Non ebbe pace finché l’Arcivescovo non si impegnò personalmente a soddisfarli.
Alla prima alba dell’8 marzo, quando ancora non c’era nessuno attorno al suo letto, discese da quel giaciglio troppo comodo, si inginocchiò per terra stringendo al petto il suo Crocifisso e spirò all’età di cinquantacinque anni.

Lo trovarono così, già morto da tempo, ma ancora in ginocchio. Le esequie furono imponenti: la bara era portata da quattro gentiluomini della più alta nobiltà, ma al primo posto nel corteo venivano i poveri del suo ospedale.
Lope de Vega, nel poema che abbiamo già ricordato, scrisse:
“Amò tanto la povertà che, se avesse incontrato insieme un angelo e un povero, avrebbe lasciato l’angelo e abbracciato il povero”.
E ancora:

“A Betlemme ti amò Dio-bambino nella culla, e all’ospedale Dio-infermo nel letto”.
Una recente biografia invece sintetizza così, acutamente, la sua strana avventura: “Era un uomo che avrebbe avuto bisogno di incontrare un san Giovanni di Dio; e lo scoprì in se stesso”.

(Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book)

GIOVANNI DI DIO dall’angoscia alla santità – Di Jean Caradec Cousson o.h. – città nuova

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DALL’ ANGOSCIA ALLA SANTITA’

 

San Giovanni di Dio

 

 

Di  Jean Caradec Cousson o.h.

 

I. ORIGINE E INFANZIA DI SAN GIOVANNI DI DIO

 

  San Giovanni di Dio nacque nel 1495 a Montemor-o-Novo, nella diocesi di Evora, in Portogallo, sotto il regno di Giovanni II, “il principe perfetto”, , mentre i “re cattolici”, Ferdinandoi d’Aragona e Isabella di Castiglia, governavano la Spagna ed il Papa Alessandro VI occupava la cattedra di san Pietro a Roma. Tutti i suoi biografi sono d’accordo su questa data  fissata in base alla sua morte, avvenuta l’8 marzo 1550, all’età di cinquantacinque anni. Ma le loro opinioni sul giorno  ed il mese di questa nascita differiscono, Giovanni , ignorandoli forse lui stesso, non li ha fatti conoscere ai suoi compagni; d’altra parte, mancano i documenti che avrebbero permesso di fissarli in modo sicuro.

Nel 1623, infatti, su istanza del Padre Domenico de Mendoza, giudice nella causa di beatificazione di Giovanni di Dio, don José de Melo, arcivescovo di Evora, istruì il processo nella sua diocesi ed incaricò Giovanni-Battista Viegas, notaio ecclesiastico, di cer­care l’atto di battesimo del servo di Dio a Montemor­o-Novo. Dopo un’inchiesta condotta sui luoghi, il dele­gato constatò che i più antichi libri parrocchiali risali­vano al 1542.

Il documento ricercato era dunque scomparso e non c’era alcuna speranza di ritrovarlo.

Parimenti, non si sa quasi nulla di certo sulla prima parte della vita di Giovanni di Dio, fino alla sua miste­riosa venuta in Spagna, all’età di otto anni, nel 1503. Giovanni stesso non ha dovuto ritenere un gran che di questo periodo. Cosa ha potuto dirne a coloro che gli stavano intorno?

Il suo primo biografo, Francisco de Castro, si accontenta di scrivere nella sua opera, pubblicata nel 1585: Di nazionalità portoghese, nacque nella cittadina di Montemor-o-Novo, da genitori di media condizione, né poveri né ricchi, con i quali visse fino all’età di otto anni.

E’ troppo poco, ma i suoi biografi del XVII secolo non hanno tralasciato, secondo l’usanza dell’epoca, di colmare questo vuoto con leggende e racconti mera­vigliosi.

De Castro, il fatto va notato, non cita nemmeno il nome di famiglia di Giovanni. Perché? Il seguito della biografia sembra tuttavia confermare che esso era noto.

Checché ne sia, al processo di beatificazione di Gio­vanni di Dio, che ebbe luogo, a partire dal 1622, in Portogallo ed in Spagna, un testimone, Andrès Alvarez Cidade, tessitore a Montemor-o-Novo, fece la seguen­te deposizione: Molte volte, nella sua vita, ho udito mio padre, Andrès Lorenzo Cidade, affermare di essere cugino del padre di Giovanni di Dio, Andrès Cidade. Io stesso ho ben conosciuto Blas Cidade. Quell’uomo, ri­masto celibe, era il fratello del padre del santo. Andrès

Cidade viveva lavorando la sua proprietà e non eserci­tava alcun altro mestiere. Questa testimonianza som­maria sembra probabile.

La partenza di Giovanni Cidade all’età di otto anni pone un altro problema di difficile soluzione. All’insaputa dei suoi genitori, Giovanni fu allo­ra condotto da un giovane studioso a Oropesa, in Spagna.

A questo riguardo i biografi hanno formulato delle opinioni più o meno fantasiose.

 

Si trattava di un rapimento, come lo ritengono alcu­ni? La cosa sembra impossibile. Un ragazzo di otto anni non si lascia rapire senza difendersi e gridare; ciò fa supporre una connivenza fra il giovane ed il bambino.

Due ipotesi, verosimili, possono essere avanzate. Secondo la prima il giovane, buon parlatore, sarebbe riuscito a convincere il piccolo Giovanni ad accompa­gnarlo e lo avrebbe portato via. Una seconda ipotesi sembra più probabile. Affascinato dalle meravigliose storie narrate dal viaggiatore accanto al focolare, Gio­vanni avrebbe deciso di seguirlo a sua insaputa e senza avvisare i genitori. Si tratterebbe, di conseguenza, di una fuga simile a quella di Teresa de Ahumada, la futura santa Teresa d’Avila che, più tardi, all’età di sette anni, lasciò la famiglia insieme al fratello Rodri­go, alla ricerca del martirio tra i Mori. In questo caso, ad una svolta della strada, il giovane avrebbe scorto il figlio di coloro che caritatevolmente lo avevano ospi­tato e che lo seguiva senza aver attirato la sua atten­zione. Cosa avvenne allora tra il giovane ed il bambino? Perché, come più tardi lo zio di Teresa, non ricon­dusse subito il piccolo fuggiasco dai suoi genitori? Nessuna spiegazione naturale sembra imporsi. Occorre scorgervi una intenzione della Provvidenza? Essa guida talvolta attraverso vie straordinarie gli strumenti pri­vilegiati della sua opera in questo mondo.

Laggiù, a Montemor-o-Novo, i genitori angosciati cercano a lungo il piccolo Giovanni, ma ahimè! senza risultato. Non lo rivedranno più sulla terra. Sua madre è distrutta dalla prova e in capo a venti giorni muore di dolore. Suo padre, nel vedersi privato di tutto ciò che aveva di più caro al mondo, entra nel convento di S. Francesco di Enxobrigas, a Lisbona, per indos­sare l’abito religioso e terminare i propri giorni nel raccoglimento e nella preghiera.

Ecco quindi Giovanni Cidade, a otto anni, privato per sempre degli affetti e delle gioie della famiglia. Solo al mondo, egli avrà, fino a più di quaranta anni, un’esistenza assai tormentata, sia esteriormente che internamente. Le prove, di ogni genere, si moltipliche­ranno sotto i suoi passi. Ma a questa rude scuola, con la grazia di Dio, egli plasmerà un cuore misericordio­so e forte che gli permetterà di adempiere, più tardi, nonostante i molteplici ostacoli, la sua missione di carità verso i poveri, gli ammalati e gli abbandonati. 

 

Il. AVVENTURE GIOVANILI

 

Giovanni Cidade non rivedrà più, su questa terra, né suo padre né sua madre. Troppo giovane, per esa­minare persino la possibilità di una tale disgrazia, egli crede confusamente, senza dirselo può darsi, che tor­nerà a Montemor-o-Novo per abbracciare i genitori. Tutt’al più ha dolorosamente sentito, durante i primi giorni del viaggio, la mancanza delle tenerezze e delle cure materne.

La strada è dura per i suoi piedi di bimbo. Ha un’idea della distanza che lo separa da Madrid, prima meta del viaggio? I nostri pellegrini raggiungono dap­prima Evora, poi Elvas e attraverso Badajoz arrivano in Spagna. Si dirigono quindi verso Merida, passando attraverso oliveti e campi arati. Tosto, lungo strade flancheggiate da olmi, attraverso lecceti, pascoli e lan­de, essi salgono le falde della Sierra de Maranica, volta a sud, attraversano l’Escurial, Zorita ed arrivano a Nostra Signora di Guadalupe, uno dei più famosi pel­legrinaggi spagnoli, che essi non potevano mancare di visitare. Per quanto brevi siano state le tappe, il pic­colo Giovanni era molto indebolito. Egli ha ancora il coraggio di attraversare il colle di San Vincenzo, di discendere il versante nord della Sierra e di attraversare il Tago al ponte dell’Arcivescovo; ma, ad Oropesa, è esausto e non può andare oltre. Costretto a separarsi dal piccolo Giovanni, il giovane lo abbandonò o lo affidò a qualcuno? Lo ignoriamo.

In ogni caso fu raccolto da Francesco, detto Majo­ral, intendente delle mandrie del conte di Oropesa, don Fernando di Toledo. Quell’uomo dabbene si occupò dell’educazione del bambino. Dotato di una natura do­cile e di una intelligenza sveglia, Giovanni imparò a leggere, a scrivere ed acquisì come i ragazzi della sua età, una istruzione religiosa elementare. Poi fu inca­ricato di portare le provviste ai pastori di Francesco il Majoral. Aveva quasi quindici anni quando il padro­ne gli affidò la custodia di un gregge nei pascoli irri­gati dal Tago, nei dintorni di Oropesa.

La solitudine ed il silenzio della campagna favori­scono la riflessione. Giovanni ha raggiunto l’età in cui si comincia a prendere coscienza della propria perso­nalità, in cui non ci si contenta più delle idee e delle direttive di coloro che ci stanno accanto, in cui si cer­ca persino di eludere la loro influenza, talvolta troppo invadente. Egli avverte il bisogno, come ogni giovane, di ritornare al suo passato per rispondere ai suoi que­siti spontanei, di pensare seriamente al suo avvenire allo scopo di preparano meglio. I suoi sogni di bam­bino, a cosa hanno approdato? Perché ha seguito quel giovane di cui non ha più udito parlare? Francesco il Majoral si è mostrato buono con lui, ma non era suo

padre. Da un giorno all’altro può esserne separato e sarà solo allora, straniero in quella terra di Spagna. Non dovrebbe, ora che è grande e forte, ritornare al più presto in patria, accanto ai suoi genitori, a Mon­temor-o-Novo? Molti quesiti si pongono al suo spirito inquieto. Normalmente, sembra, Giovanni avrebbe dovu­to, pur mostrandosi riconoscente a Francesco il Majoral, fargli ammettere che era suo dovere ritornare in Por­togallo. Rimase tuttavia ad Oropesa. Senza dubbio sfuggiva così alla pesante prova che sarebbe stata per lui, alla sua età, la scoperta del focolare distrutto in­volontariamente dal suo errore?

Egli svolgeva d’altronde nel miglior modo il suo lavoro.

Tali erano la sua attività e la sua precisione in tutte le cose, che egli era amato dal suo padrone e benvoluto da tutti.

Divenuto uomo, Giovanni abbandona i greggi per entrare al servizio diretto del conte di Oropesa in qua­lità di palafreniere. A questo proposito egli confiderà più tardi ai suoi compagni il seguente importante ricordo:

Quando ero al servizio del conte di Oropesa mi capitava di provare un vivo dolore nel vede­re i cavalli delle sue scuderie, grassi e lucenti, ornati di ricchi finimenti, ed i poveri magri, co­perti di stracci e privi di cure. Mi dicevo: Ve­diamo, Giovanni, non sarebbe meglio che ti preoccupassi di curare e nutrire i poveri di Gesù Cristo che queste bestie dei campi? E

aggiungeva sospirando: Che Dio mi conceda, un giorno, di realizzare questo desiderio!

Prime aspirazioni « verso la sua futura opera ».

Si può dire che Giovanni Cidade fosse già pronto a seguire l’eccezionale vocazione a cui Dio lo aveva predestinato? Non proprio! Un difetto, del quale indub­biamente non aveva coscienza, il suo difetto domi­nante, l’amor proprio, lo rendeva allora del tutto in­capace.

Avevano lodato troppo, a quanto sembra, sia a Mon­temor-o-Novo che ad Oropesa, la sua viva intelligenza, le sue attitudini e la sua precoce virtù; Giovanni gra­diva quegli elogi. Non era persino desideroso di otte­nerne? Il fatto è che, per guarirlo, Dio permise che quell’invadente amor proprio fosse per lui il principio di gravi tentazioni.

Dopo il trattato di Noyon, 13 agosto 1516, la Francia e la Spagna vivevano in pace, nonostante pro­fonde cause di dissenso; ma in seguito all’elezione all’impero germanico – 28 giugno 1519 – di Carlo Quinto, preferito al suo rivale Francesco I, le relazioni tra i due monarchi si deteriorarono e presto le ostilità si scantenarono su tre fronti, nelle Fiandre, nel Mila­nese ed in Navarra. A noi, qui, interessano soltanto le operazioni concernenti il nord della Spagna, giacché permettono di fissare con precisione l’arruolamento vo­lontario di Giovanni Cidade in una compagnia spagno­la, datandolo ad un periodo posteriore a quello rite­nuto dai suoi primi biografi e, dopo di loro, dai suoi biografi francesi.

Poiché Carlo Quinto era impegnato a calmare la Germania, allora agitata da violenti fermenti a causa delle dottrine che Lutero iniziava a predicare, e delle gravi insurrezioni di « comuneros » si erano avute in Castiglia e a Valenza, nei primi del 1521, Francesco I ne profittò per prendere l’offensiva. Dietro suo ordine Francesco di Foix valica i Pirenei e si impe­dronisce di Pamplona, nonostante l’eroica difesa del capitano Inigo de Loyola, il futuro sant’Ignazio, ferito nel combattimento; ma il 30 giugno 1521 è sconfitto a Noain. Per compensare questa sconfitta l’ammiraglio francese Guglielmo Gouffier di Bonnivet si impadro­nisce di Behobia e della fortezza di Fontarabia, il 16 ottobre 1521.

Sul momento, Carlo Quinto, alle prese con enormi difficoltà in Germania e in Spagna, non poté reagire. Superatele, concluse un’alleanza con Enrico VIII d’In­ghilterra e decise di riconquistare Fontarabia. Per questa impresa egli convocò le Cortes a Palencia, nel gennaio 1523, ed ottenne un primo sussidio di 400.000 ducati d’oro. Poi fece delle leve di soldati in tutta la Spagna. Giovanni Cidade fu uno di quelli che s’arruo­larono sotto la bandiera dell’imperatore.

Divenuto uomo, Giovanni decise, a 22 anni, di andare in guerra. Si arruolò in una compa­gnia di fanteria, agli ordini del capitano Gio­vanni Ferrus. Quest’ultimo era stato inviato dal conte d’Oropesa, al servizio dell’imperatore, per soccorrere Fontarabia.

In realtà, nato nel 1495, Giovanni aveva allora 28 anni. Si tratta probabilmente di un errore; ma può anche darsi che de Castro ringiovanisca il suo eroe per giustificare questo arruolamento piuttosto inoppor­tuno giacché, egli dice,

Giovanni prese questa decisione poiché desi­derava vedere il mondo e godere la libertà.

Giovanni fa buon viso allo scaltro assoldatore; è un uomo troppo bello, gli assicurano, per restare palafre­niere: La sua alta statura, il suo vigore, lo rendono molto pia atto a fare il soldato (Govea).

L’imprudente cede così ad un motivo di vanagloria ed anche a quel desiderio di avventura dei giovani di tutti i tempi, ben più sentito in quell’epoca di prod­i cavalieri e di arditi « conquistadores » e abbraccia vo­lontariamente la carriera delle armi. E’ lontana Oropesa da Fontarabia, non meno di seicentoquaranta chilometri. Ma cos’è ciò, insiste Govea, per Giovanni Cidade, l’ar­dente giovane avido di gloria e di libertà che, ingannato indubbiamente dal demonio, ha abbandonato tanto vo­lentieri la vita tranquilla dei campi per la carriera peri­colosa delle armi?

Fante nella compagnia del capitano Giovanni Fer­rus, il nuovo arruolato attraversa con essa tutta la vec­chia Castiglia, probabilmente lungo le cattive strade che congiungevano allora le antiche città di Avila, di Segovia e di Burgos. Marce penose, certamente, su quegli altipiani aridi, dal clima estremo; a fianco di alcune contrade fertili si incontrano delle immense di­stese deserte, incolte, coperte di eriche e di ginestre, solcate da magri e rari fiumi, interrotte da forre pro­fonde – secche il più delle volte – ma dove talvolta scendono impetuosi torrenti devastatori.

Infine, dopo le difficili tappe, la compagnia di Gio­vanni Ferrus oltrepassa l’Ebro e giunge in territorio basco. Qui si ha il concentramento dell’armata che deve tentare di riprendere Fontarabia, una delle chiavi del regno, alle truppe francesi solidamente trincerate nella celebre fortezza, dopo la sconfitta di Navarra.

La lotta fu aspra, fin dagli inizi; la guarnigione resi­steva a tutti gli attacchi condotti dalle truppe della regione; e gli Spagnoli, giunti in aiuto, dovettero rinun­ciare ad impadronirsene altrimenti che per fame. La resa ebbe luogo il 25 marzo 1524.

Che ne era di Giovanni Cidade tra quei rozzi mer­cenari che, secondo de Castro, avidi di godersi della libertà, si lanciavano a briglia sciolta lungo il cammino molto largo ma spinoso dei vizi? Dio solo lo sa.

De Castro avanza discretamente che egli vi sopportò molte prove e cadde in molti pericoli.

In un ambiente in cui si mescolavano, secondo il costume dell’epoca, mercenari, predatori, vagabondi e prostitute, cosa non poteva accadergli?

In questa situazione scabrosa, il Signore permise che una duplice disgrazia colpisse l’imprudente « arruo­lato » per ricondurlo a sé.

Mentre Giovanni si trovava, dice de Castro, di fronte alla città assediata, le provviste ven­nero a mancare, sia a lui che ai suoi compagni. Allora, da uomo deciso, egli si offrì di andare a cercare dei viveri nelle vicine fattorie. Per re­carvisi e tornare più in fretta, inforcò una ca­valla presa ai Francesi. Ora, quando la bestia fu a circa due leghe dall’accampamento dal quale proveniva, riconoscendo il terreno che era so­lita calpestare, si imbizzarrì e si lanciò verso la sua scuderia, nonostante gli sforzi di Giovanni, sprovvisto di briglia, che la guidava con una semplice cavezza. Essa scendeva così in fretta il pendio della montagna che Giovanni fu su­bito gettato sulle rocce, dove rimase privo di parola, di conoscenza, come morto, perdendo sangue dalla bocca e dal naso; e in quel grande pericolo, nessuno era lì per vederlo e soccor­rerlo.

Ritornato in sé, tormentato dal dolore della caduta, si accorge del non minore pericolo che corre di essere fatto prigioniero. Allora si alza da terra come può, si getta in ginocchio e, con gli occhi volti al cielo, si mette ad invocare la Vergine Maria, suo abituale rifugio: « Madre di Dio, assistetemi, aiutatemi, e pregate il vostro divin figlio di liberarmi dal pericolo di cadere nelle mani dei miei nemici ». Dopo la preghiera raccoglie tutte le sue forze, prende un bastone da terra ed appoggiandosi ad esso si trascina pian piano verso il luogo in cui l’attendevano i compagni. Essi, vedendolo arrivare in uno stato tanto pietoso, pensano ad uno scontro con il nemico e l’interrogano in merito. Giovanni rac­conta loro l’avventura capitatagli con la cavalla. Lo fanno coricare in un letto, lo coprono per farlo sudare e, in capo a qualche giorno, egli èguarito e in forma.

Dopo quest’incidente, lo sfortunato soldato non mancò di riflettere seriamente sulla sua vita. Tuttavia, una prova ancora più crudele stava per piombare su di lui.

Il capitano gli aveva affidato da custodire alcuni armamenti sottratti ai soldati francesi: ora, per negligenza, Giovanni si dimenticò di prendere le precauzioni necessarie e glieli rubarono. Messo al corrente del furto, il capitano provò un tale sdegno che, senza ascoltare le suppliche di molti soldati in favore del loro compagno, ordinò di impiccano subito ad un albero. Per fortuna passò di lì una persona ragguardevole e molto rispettata dal capitano. Dopo aver udito ciò che era accaduto, egli pregò l’ufficiale di rinunciare all’esecuzione, ma di allontanare il colpevole dall’esercito.

Nella sua condanna a morte, Giovanni Cidade ave­va voluto vedere una manifestazione della giustizia di­vina nei suoi riguardi. Egli attribuì del pari alla infinita bontà di Dio la grazia insperata di cui fu oggetto e, subito fuori del campo, prostrato ai piedi di una croce, si mise ad implorare il perdono dei suoi peccati e della sua ingratitudine, giacché aveva riconosciuto le proprie miserie e debolezze.

In questo momento, dice Saglier, inizia per Gio­vanni una vita di espiazione e di tormenti interiori, che non durerà meno di dieci anni. Riuscirà di solito a non lasciar trapelare le lacerazioni del suo cuore e le angosce della sua coscienza; ma, talvolta, il dolore sarà cosi violento da traboccare e portarlo ad eccessi tali di penitenza, nei quali si potrà scorgere della buia. Questa ansietà persistente spiega anche quell’inquieto bisogno di cambiamento che lo perseguita nelle sue occupazioni successive anche quando vi prodiga tesori di carità e di abnegazione.

Allora, Giovanni Cidade si trovava presso Fonta­rabia, assolutamente privo di tutto e non sapendo cosa fare. De Castro riferisce:

Dopo aver riflettuto sui rischi della vita mili­tare e sul misero salario offerto dal mondo a chi lo scorta nel modo più servile, Giovanni si de­cise a ritornare dal suo padrone Francesco il Majoral, ad Oropesa.

Ci si fa un’idea della dura realtà che nascondono queste parole, veramente troppo distaccate? I seicento-quaranta chilometri percorsi con la sua compagnia, in sicurezza e ben fornito, il pover’uomo doveva ora rifarli da solo, senza denaro, lungo quelle cattive strade di Castiglia, abissi di fango in inverno, afferma, forse con un po’ di esagerazione, un cronista del XVI secolo; e dove, in estate, le bulere di polvere che solle­vano i viaggiatori e la più piccola brezza sono cosi dense che accecano gli occhi e nascondono persino il sole (Robert Gaguin, 1425-1502).

E’ a brandelli, esausto e moralmente distrutto che Giovanni arrivò ad Oropesa. Che umiliazione per lui presentarsi in quello stato dinanzi al suo benefattore e antico padrone, al quale dovette confessare le proprie spiacevoli disavventure! Egli è disorientato e pur co­sciente del proprio fallimento su tutta la linea.

Malgrado tutto, Francesco il Majoral lo accolse con comprensione, e Giovanni Cidade riprese le proprie occupazioni assolvendole come meglio poteva; ma il cuore non c’era più. Il rimorso, il turbamento e persino il desiderio di riparare non gli concedevano più riposo. Talvolta gli accadeva di pensare ancora che sarebbe stato meglio curare e nutrire i poveri che ingras­sare le bestie. In realtà, non si decide a niente. La sua decisione è in sospeso. Essa attende l’occasione. Questo uomo generoso è un impulsivo. Ora, degli avvenimenti esterni di estrema gravità stanno presentandosi: essi lo getteranno di nuovo nell’avventura.

Giovanni Cidade era tornato ad Oropesa da due anni, quando nel 1527 si apprese che Solimano Il il Magnifico, sultano dei Turchi, era penetrato in Unghe­ria. Dopo aver sconfitto Luigi Il lagellone a Mohàcs, nell’agosto 1526, si era impadronito di Buda. Più tardi, aveva posto l’assedio a Vienna. Per fortuna, la milizia della città, aiutata soltanto da quattro compagnie di veterani spagnoli di stanza sul posto, resistette vitto­riosamente ai venti assalti consecutivi delle truppe di Solimano, che dovette infine togliere l’assedio (1529).

Nonostante questa sconfitta, Solimano restava una minaccia per l’Europa cristiana, e non tardò a riunire nuovi eserciti e una flotta, con lo scopo di attaccare per terra e per mare. Per affrontare i Turchi e conte­nere la loro prossima offensiva, Carlo Quinto iniziò, nel gennaio 1532, a preparare una crociata. A tal fine, egli concluse una tregua con i protestanti tedeschi ed otten­ne il loro aiuto contro il comune nemico; si procacciò anche il concorso dei Polacchi, dei Moravi, dei Cechi e degli Stati italiani; soprattutto imparti degli ordini in Spagna, al fine di reclutare uomini in tutto il paese. La causa era bella, il cuore cavalleresco di Giovanni Cidade si infiamma per quella nuova crociata; gli sembra che Dio ve lo chiami. Senza dubbio, a giudizio di de Castro e di Govea, persone mature, egli dimenti­ca un po’ troppo le sue sventure di Fontarabia; ma è poi vero? Non vi è piuttosto nell’animo inquieto del vecchio soldato, mescolato a slanci generosi mai assopiti ed ai rimpianti lancinanti dei propri errori, il desiderio più o meno cosciente di vedersi riabilitato dall’ingiusta degradazione di cui era stato vittima? Adesso, era un uomo di trentasette anni, ben consolidato nella virtù; poteva legittimamente aver fiducia di comportarsi ormai da buon soldato.

Arruolato agli ordini del capitano don Fernando di Toledo e destinato al suo servizio personale, il nostro crociato si dirige con la compagnia verso Barcellona. La truppa è trasportata per mare a Genova, poi si avvia verso il lago di Garda, dove arriva nell’agosto 1532. E’ qui che tutta la fanteria imperiale si concen­tra, per raggiungere in successive tappe Verona, Rove­reto, Trento, Bolzano, Bressanone e da ultimo Inns­bruck, il 17 agosto. Essa discende l’Inn con battelli, passa per Braunau e sbarca a Linz sul Danubio, in settembre.

Da parte sua, venuto da Adrianopoli con un potente esercito, Solimano Il passa per Belgrado ed entra in luglio a Buda, da dove avanza lentamente fino a Meige, ad una dozzina di leghe da Vienna.

I due eserciti entrano in contatto e si hanno alcuni combattimenti; ma gli Imperiali per paura della caval­leria turca e i Turchi, per paura dell’artiglieria imperia­le e soprattutto della fanteria spagnola, nessuno prese impegni decisivi. Tuttavia, non potendo prendere in considerazione una campagna in inverno, Solimano ripiegò su Belgrado e Carlo Quinto, rimasto padrone del terreno, entrò a Vienna il 24 settembre 1532. Il giorno successivo l’imperatore, passò in rivista tutte le truppe presso le mura della città e Giovanni Cidade poté scor­gere Carlo Quinto mentre sfilava a cavallo dinanzi al­l’esercito schierato a battaglia.

In combattimento Giovanni si era fatto notare per l’audacia ed il valore; si era conquistato la stima dei suoi capi.

Nessun dubbio che in quell’occasione egli assaporò una delle rare gioie umane della sua vita. Egli aveva sfruttato il suo bisogno di prodigarsi fino all’estremo limite, ma anche fino al successo, e per quale causa! L’infamia che intaccava la sua reputazione, da quei tristi giorni di Fontarabia, era stata ben lavata; e, in mezzo all’entusiasmo generale, felice per aver com­battuto in maniera utile per Dio e la cristianità, come non avrebbe sentito allontanarsi, almeno per un certo tempo, il peso del rimorso che lo opprimeva?

L’esercito spagnolo dell’imperatore trascorse l’in­verno del 1532 in Italia e si imbarcò a Genova, nel­l’aprile 1533, sulle galere di Andrea Doria, per pren­dere terra verso il 28 d’aprile nel porto di Palamos, vicino a Barcellona.

Tuttavia, don Fernando Alvarez di Toledo, insie­me alla compagnia di cui faceva parte Giovanni Cidade, non si servì della stessa strada per il ritorno. Incaricato verosimilmente di consegnare un messaggio a Maria d’Austria, sorella dell’imperatore e reggente dei Paesi Bassi, il conte raggiunse le Fiandre attraverso la Ger­mania e, compiuta la missione, noleggiò una nave per la Spagna e sbarcò, dice de Castro, nel porto di La Coruna. Come spesso accade, il biografo non indica la data dell’avvenimento; ma secondo i calcoli del padre Raphaèl Saucedo esso avvenne verso la metà del 1533.

San Giacomo di Compostella è lì vicino. Secondo Govea, della cui testimonianza non si ha qui alcuna ragione di sospettare, la compagnia di don Alvarez di Toledo vi si recò in pellegrinaggio, poi si sciolse.

Allora Giovanni Cidade, libero da ogni obbligo mi­litare, crede di dover realizzare finalmente il desiderio che nutriva da tanto tempo di rivedere i genitori ed il paese natio.

A Montemor-o-Novo, la croce lo attende ancora in uno dei suoi aspetti più penosi, ma essa lo staccherà completamente dal mondo e lo farà consacrare per sempre al servizio di Dio.

 

III. SULLA VIA DEL DISTACCO

Al ritorno dalla sua campagna d’Austria, Giovanni Cidade ha trentotto anni. Più di un quarto di secolo è trascorso dalla sua partenza dal focolare paterno. Dei suoi, non ha mai ricevuto nemmeno la più piccola noti­zia e sembra che neppure lui abbia dato, durante que­sto lungo periodo, alcun segno di vita ai suoi genitori.

Negligenza colpevole – gli stessi suoi primi bio­grafi lo ammettono – certamente meno grave di quan­to non sarebbe ai giorni nostri in cui è cosf facile spo­starsi e inviare corrispondenze, mentre nel XVI seco­lo i viaggi erano difficili e la posta inesistente. Occor­reva essere ricco per permettersi dei corrieri privati. Quanto ai messaggeri occasionali, soprattutto tra le piccole città straniere, essi erano rari e molto incerti.

In gioventù, quando era pastore ad Oropesa, Gio­vanni aveva d’altronde pensato di ritornare a Montemor­o-Novo, suo paese natio, ma non trovò mai occasioni favorevoli per un simile viaggio. Più tardi, dopo le umilianti avventure di Fontarabia, come avrebbe osato presentarsi dinanzi ai genitori? La crociata contro i Turchi gli aveva restituito l’onore. Quali che fossero stati i suoi torti, egli poteva dunque sperare al suo arri­vo in paese, in un generoso perdono e in un accoglien­za favorevole.

Così supera, fiducioso e con passo sostenuto, i seicento chilometri che separano San Giacomo di Compo­stella da Montemor-o-Novo. Attraverso la Galizia rag­giunge la frontiera portoghese, attraversa le province di Minho, del Duero, di Beira, senza dubbio lungo la strada litoranea che unisce le antiche città di Tuy, Por­to e Coimbra alle rive del Tago e alle pianure dell’Alem­tejo. Infine, il viaggiatore raggiunge Montemor-o-Novo. Impaziente, egli affretta allora il passo e, guidato dai ricordi indelebili di gioventù, si dirige senza esitare verso la casa paterna. Era sempre la stessa. E men­tre con mano nervosa bussa alla porta di casa, il suo cuore si gonfia per l’emozione e batte a ritmo accelerato nel suo petto di figlio fuggitivo, malgrado tutto inquieto. Di botto aprono. Quale sorpresa! Il volto che gli si presenta gli è estraneo. Non sa che pensarne.

Nessuno lo riconosce, nessuno può dargli delle in­formazioni, poiché lui non conosce nemmeno il nome dei suoi parenti.

Passando di casa in casa, egli incontra finalmen­te un vecchio dignitoso, è suo zio. Dopo aver parlato al nuovo venuto, dopo aver ascoltato i ricordi conservati dei suoi genitori e dopo aver esaminato i lineamenti del suo volto, il pa­triarca lo riconosce e l’interroga su quanto gli era occorso dopo la partenza dal paese. Gio­vanni gli narra tutte le sue avventure; ma pone anche delle domande. Figlio mio, gli risponde lo zio, vostra madre, debbo confessarvelo, è morta pochi giorni dopo che vi rapirono al suo affetto. La vostra assenza le procurò un dolore ed una pena tanto più intensi in quanto igno­rava chi vi aveva tratto seco, dove eravate stato portato, voi cosi giovane, e in che modo. Così, ne siamo persuasi, il dispiacere ha abbreviato prematuramente i suoi giorni ed è stato la causa principale della sua morte. Quanto a vo­stro padre, rimasto vedovo e senza figli, entrò poco dopo in un monastero di Lisbona, dove ri­cevette l’abito di san Francesco e finì santamen­te i suoi giorni. Di conseguenza, figlio mio, se volete riposare in questo paese e rimanere a casa mia, io vi accolgo molto volentieri. Sarete per me come un figlio fin tanto che vivrete in mia compagnia. Giovanni provò un vivo dolore per la morte dei genitori, principalmente perché a suo avviso egli era stato la causa delle loro sventure. Lo manifestò col pianto e con il ram­manco, al punto da provocare le lacrime dello zio che egli ringraziò della gentilezza e dei bene­fici. Poi, vedendosi orfano e solo, sconosciuto dai suoi congiunti a causa della prolungata as­senza, esclamò: Caro zio, poiché è piaciuto a Dio di chiamare a sé i miei genitori, è mio pro­posito non rimanere in queste zone, ma cercare dove servire Nostro Signore lontano dal mio paese, secondo l’affascinante esempio di mio padre. Per di più, sono stato tanto cattivo e col­pevole che debbo occupare la mia vita, dono del Signore, a fare penitenza e a servirlo. Ho fidu­cia che il mio Signore Gesù mi accorderà la gra­zia di realizzare Irancamente questo desiderio.

Accordatemi dunque la vostra benedizione e chiedete con insistenza al buon Dio di con­durmi per mano. Che il Signore vi ricompensi per la benevolenza usatami e per la buona ac­coglienza nella vostra casa! Lo zio gli diede allora la sua benedizione. Si abbracciarono ver­sando copiose lacrime ed il buon vecchio, con gli occhi al cielo, aggiunse: Giovanni, partite in pace. Nostro Signore, lo spero, vi concederà la grazia di realizzare completamente i vostri ec­cellenti desideri e le preghiere dei vostri geni­tori vi aiuteranno molto per andare più tardi a tener loro compagnia.

E’ sembrato utile ripresentare qui per intero il testo di de Castro, che è indubbiamente una trascri­zione letterale delle confidenze fatte da Giovanni ai suoi compagni. Esso ci pone di fronte alla realtà dei fatti, delle idee e delle reazioni degli uomini del XVI secolo.

Se ne può concludere: alla rivelazione dolorosa quanto inattesa della morte dei genitori, lo sfortunato Giovanni ha provato un intenso shock emotivo. Il suo passato gli è apparso nelle tinte più cupe e la sua coscienza tormentata gli rimprovera adesso di essere un parricida. Perché non è morto, si dice, sul patibolo di Fontarabia e sotto le scimitarre dei Turchi! Sul punto di cadere nella disperazione, Giovanni si volge per fortuna verso il cielo, e il Signore si serve di que­sta nuova prova per distaccano completamente dal mondo.

Appena riposato dalle lunghe peregrinazioni, Gio­vanni riprende perciò la strada. Lasciando l’Alemtejo, attraversa la provincia dell’Algrave, oltrepassa la fron­tiera spagnola, entra in Andalusia e procede fino alla regione di Siviglia. Qui, divenuto temporaneamente più calmo, si occupa come pastore per guadagnarsi la vita e avere il tempo per riflettere, presso donna Eleo­nora di Zuniga, proprietaria di un gregge nella cam­pagna sivigliana. Una tappa molto breve, osserva de Castro:

Poiché Giovanni ignorava ancora per quale stra­da Dio doveva condurlo al suo servizio (benché gli avesse accordato la volontà di seguirlo), ri­maneva triste, senza tranquillità né riposo, non avendo più voglia di sorvegliare le pecore. Dopo aver trascorso alcuni giorni al servizio di quella dama, rifletteva dunque sul modo di abbandona­re il mondo. D’un tratto, fu preso da un vivo desiderio di raggiungere le coste africane, di vedere quel paese e di soggiornarvi. Per porre in atto senza indugio il proprio progetto, si con­gedò dalla sua padrona e si diresse verso Gi­bilterra.

Nella vita di Giovanni Cidade le situazioni diven­tano sempre meno stabili, l’inquietudine si accentua. Egli non sa bene ciò che lo orienta verso l’ignoto ma vi corre. E’ stato influenzato dai preparativi allora effet­tuati in Spagna per la spedizione d’Africa? E’ possibile. Il 30 maggio 1535, Carlo Quinto parte da Bercellona alla testa di questa spedizione, impadronendosi di Tunisi il 2 luglio dello stesso anno. E’ precisamente il periodo in cui Giovanni Cidade si reca a Ceuta.

A questo fine aveva raggiunto Gibilterra. Un pic­colo veliero della marina portoghese stava salpando.

Per salire a bordo Giovanni non esita ad offrire i pro­pri servigi ad un condannato politico, il conte d’Almei­da che viene condotto in esilio a Ceuta con la moglie e le quattro figlie per ordine del re Giovanni III. Costui, dice de Castro, prometteva di trattarlo bene e di pagar­lo lautamente.

Dopo un’ottima traversata, i proscritti, aiutati dal loro servitore, si stabiliscono come possono nella for­tezza portoghese; ma ben presto, minati dal dispiacere, dalle privazioni e dal clima, il conte, sua moglie e le figlie si ammalano. Rimasto l’unico sano, Giovanni si prodiga verso di loro e, grazie alle sue cure, tutti guariscono; ma i medici ed i farmaci hanno esaurito le risorse del gentiluomo.

Egli si vede nella peggiore miseria, al punto da essere costretto ad implorare l’aiuto di Giovanni; magro aiuto, ma tuttavia il migliore che gli si offriva in simili circostanze.

Così il conte, durante un colloquio segreto, si deci­de a svelargli tutta la sua miseria, tanto più dolorosa in quanto doveva provvedere ai bisogni delle giovani e delicate figlie, allevate nell’abbondanza. Di conseguen­za supplicava Giovanni, in mancanza di altri aiuti, di prestare la sua opera nei lavori di fortifica­zione, eseguiti allora a Ceuta per ordine del re. Con il salario che avrebbe percepito, tutti avrebbero cosi mangiato.

Dopo aver ascoltato queste ragioni, tanto commo­venti in sé stesse, ma soprattutto per un cuore già dispo­sto ad intraprendere qualsiasi cosa per servire Nostro Signore, Giovanni vi acconsentì volentieri. Non scorgeva aperta dinanzi a sé una carriera conforme ai propri desideri? Così, per tutto il tempo che rimase presso il gentiluomo, Giovanni Cidade lavorò alle fortificazioni, dando ogni sera di buon grado il salario guadagnato per assicurare il sostentamento di quelle ragazze e dei loro genitori.

Se accadeva che Giovanni, perché impedito, non andasse al lavoro, o che pur avendo lavorato non gli avessero dato il salario, quel giorno non si mangiava e si sopportava questa privazione con pazienza, senza dire niente a nessuno. Que­sta opera era così bella e gradita al Signore che lo stesso Giovanni più tardi confessava: Nostro Signore, nella sua grande misericordia, mi ha dato l’occasione di adempierla per qualche tem­po al fine di aiutarmi a meritare le grazie di cui poi mi ha colmato.

Questa citazione di de Castro, eco veritiera delle confidenze di Giovanni ai suoi compagni, ci mostra tutto ciò che vi era di nobile e generoso nella sua per­sonalità tanto complessa. Nonostante i penosi lavori e le sicure privazioni che la sua vita di abnegazione gli procurava, Giovanni provava una gioia intensa; era come un balsamo sulle sue ferite nascoste. Mai si era dedicato prima ad un’opera tanto conforme ai suoi gusti.

Il coraggioso sterratore si dedicava da molti mesi alle sue attività tanto faticose quanto confortanti, quan­do un nuovo pericolo lo assalì.

Incaricato nel 1536 di costruire delle nuove fortifi­cazioni a Ceuta, il governatore della piazza, don Nuno Alvarez Norena, non cessava di sollecitare i lavori al fine di poter resistere agli imminenti attacchi del pirata Khaìr-Ed-Din, detto Barbarossa. Per ottenere i rendi­menti richiesti, i capisquadra cominciarono a maltrattare a parole e in vie di fatto i lavoratori addetti alle fortificazioni, come se si trattasse di schiavi. Questi non potevano, essendo in zona di frontiera, servirsi della pro­pria libertà e rifugiarsi in territorio cristiano; ma alcuni di essi, non potendo sopportare più tali sevizie e peraltro predisposti, come si può supporre, si decisero a passare dalla parte dei Mori della vicina città di Tetuan e a farsi mu­sulmani.

Tra essi vi era un compagno di lavoro di Giovanni Cidade, suo compatriota ed amico. Giovanni ne provò un vivo dolore e, secondo de Castro:

non faceva altro che piangere e gemere: Oh po­vero me, gridava, quale conto renderò per que­sto fratello! Egli ha preferito allontanarsi dal grembo della nostra Santa Madre Chiesa piutto­sto che accettare un po’ di sofferenza!

Questo avvenimento riaccese le angosce del povero Giovanni. A sentirlo, solo i suoi peccati e le sue infe­deltà avevano attirato quella disgrazia. In tal modo egli era ancora una volta sulla china della disperazione e pronto a cadere nell’apostasia come il suo amico.

Per fortuna, tra i suoi terrori, non aveva cessato di invocare il Signore e, senza indugiare troppo, aprì

la sua anima ad un padre francescano. Quel sacerdote illuminato e prudente comprende il suo stato, lo con­sola facendo del suo meglio e, ritenendo troppo peri­coloso il di lui soggiorno in Marocco, gli ordina di ri­tornare al più presto in Spagna, dopo averlo rassicu­rato che avrebbe vegliato sui suoi protetti.

Per obbedire al rappresentante di Dio, Giovanni Cidade si congedò a malincuore dal conte e dai suoi, non senza aver loro promesso di offrire al cielo in loro favore il suo penoso sacrificio e preghiere ancora più insistenti.

Desolati per aver perso un tale benefattore, i proscritti non mancarono di attribuire al suo credito pres­so Dio il perdono del re Giovanni III. Sua Maestà li richiamò dall’esilio anzi tempo e li reintegrò nei loro beni.

 

IV. IL VENDITORE AMBULANTE DI LIBRI E DI IMMAGINI

Per mettersi al sicuro dalle tentazioni di apostasia, Giovanni Cidade lascia dunque il Marocco, dove ha appena compiuto nei confronti del conte d’Almeida uno dei più commoventi atti di carità di tutta la sua vita.

Quando raggiunge Gibilterra, verso la fine del 1537 e dopo aver affrontato nella traversata dello stretto una tempesta nella quale aveva rischiato di naufragare, Gio­vanni ha quarantadue anni.

Così, il suo primo pensiero allo sbarco è di recarsi in chiesa e qui, secondo de Castro, ringrazia Dio per averlo liberato dalla tentazione di apostasia e dal peri­colo corso in mare. Non sono forse i miei peccati e la mia infedeltà alla grazia le cause di tutte queste disgra­zie?, egli pensa. E dal profondo del suo cuore ferito sgorga, umile e supplichevole, questa preghiera che egli da allora non cesserà più di ripetere: Signore, concedi la pace alla mia anima e fammi conoscere la – strada che debbo seguire per giungere a te.

Come è tormentata la vita di quest’uomo! Quanti paesi ha percorso dalla sua giovinezza! Su quale stato cadrà alla fine la sua scelta? La morte lo ha sfiorato più volte. La sua coscienza inquieta oscilla tra la filiale fiducia in Dio e la nera disperazione; agli atti di eroi­smo si avvicendano in lui inaspettate debolezze.

Natura ricca, cuore sensibile e pieno di generosità, ma accessibile all’amor proprio ed un po’ presuntuoso talvolta, Giovanni Cidade aveva indubbiamente biso­gno, per diventare malleabile sotto la mano di Dio e capace di adempiere la sua missione, di essere pro­fondamente lavorato dalle umiliazioni, dall’inquietudine e dalla sofferenza, nostre grandi maestre quaggiù.

Già assiduo nella preghiera, Giovanni Cidade forse non aveva che una fede assai poco illuminata e nozio­ni assai vaghe sulle condizioni e i doveri del cristiano? In quel tipo di vita errante e sempre occupata, quali po­tevano essere stati i suoi progressi al riguardo?

Tale sembra essere stato, d’altra parte, il sentimento del suo direttore francescano di Ceuta. Egli non si ac­contentò, in effetti, di farlo uscire da una situazione per lui troppo pericolosa, ma gli raccomandò la let­tura del Vangelo e dei libri spirituali allo scopo di illu­minare la sua intelligenza, di infiammare il suo cuore e armarlo per la lotta.

Con la solita foga, Giovanni si affretta a seguire quell’ottimo consiglio. Ogni giorno si reca al lavoro là dove ne trova e, siccome si accontenta di poco cibo, fa delle economie sul salario per procurarsi delle opere di spiritualità. Si immerge nella loro lettura per ore intere ed impara cosi ad apprezzare questi amici sinceri, benefici, che offrono allo spirito ed al cuore tutto l’ali­mento di cui essi hanno bisogno.

La sua anima così docile e ben preparata deriva da quella nuova occupazione un tale profitto che, stimolata dalla sua generosità, brucia per il desiderio di condividerlo con il prossimo. Come spiegare diversamente, in un uomo apparentemente poco portato ad una simile attività, il suo desiderio, appena giunto in Spagna, di dedicarsi all’apostolato tramite il buon libro?

Nel suo entusiasmo, egli crede di avere finalmente scoperto la propria vera vocazione, il mezzo tanto desi­derato per lavorare al servizio di Dio e per la salvezza dei fratelli. Con i suoi risparmi acquista delle Bib­bie, La Vita di Cristo di Ludolfo di Sassonia, L’imita­zione di Cristo, la Legenda aurea di Giacomo da Varazze, abecedari e immagini di carta, per rivenderli agli uni ed agli altri, mentre percorre i villaggi vicini.

Ai bambini soprattutto e agli ignoranti, distribuisce delle belle immagini: predica viva, concreta, semplice e tanto alla loro portata. « Suvvia, gridava, che nes­suno si privi di un simile aiuto! Le immagini! Basta guar­darle pér ravvivare incessantemente la devozione; esse risvegliano l’attenzione, fissano i ricordi. E, nel vendere gli abecedari, incitava i genitori ad insegnare la dottrina cristiana ai loro figli » (de Castro).

In poco tempo, il piccolo commercio prospera. L’im­provvisato venditore ambulante ci sa fare nel racco­mandare la sua merce. Tutti i libri che pone in vendita, li legge; prima di tutto per accertarsi che siano buoni, e poi per poterne rendere conto all’acquirente. Non si scorge il vantaggio che ne trae egli stesso, con il suo spirito avido di sapere e l’anima assetata di perfe­zione?

Il cardinale Ximenes de Cisneros (1436-1517) aveva fatto tradurre in spagnolo, fin dagli inizi del XVI secolo, la Bibbia, la Vita di Cristo di Ludolfo di Sassonia, la Legenda aurea di Giacomo da Varazze, l’Imitazione di Cristo, le Lettere di san Girolamo e di santa Caterina da Siena, ecc.

« Di proposito egli acquista alcuni romanzi caval­lereschi (le opere del marchese di Mantova, i poemi di Garciloso de la Vega, ecc.) che pone bene in vista sul banco per attirare i giovani. E quando qualcuno si av­vicina per acquistarne uno, egli coglie l’occasione per sconsigliare un simile acquisto e proporre in sua vece qualche libro utile ed edificante » (de Castro).

Se riesce a farsi ascoltare, il suo zelo lo spinge a spiegare il modo di leggere con profitto e se si accorge che « il costo elevato di un buon libro frena il desi­derio dell’acquirente, si affretta a cederlo sotto costo) non esitando, osserva de Castro, a collocare il guadagno spirituale dell’altro al di sopra del proprio guadagno temporale ». I suoi modi sono così avvincenti, umani ed affabili verso tutti, che molti acquistano volentieri delle opere poco attraenti in sé stesse, ma presentate con grazia ed amicizia.

« Cosi, in poco tempo, Giovanni poté aumentare il proprio guadagno spirituale e temporale; poiché oltre alla buona azione compiuta col piegare molte persone alla lettura di buoni libri – è noto che ne risulta un gran bene – egli accresceva il suo stock di volumi, al punto da possederne molti e di pregio. Era una gran fatica, gli sembrò allora, muoversi da un punto all’altro con quel fardello sulle spalle; così, riferisce de Castro, decise di andare a Granata e di stabitirvisi: prese domi­cilio e mise su bottega alla porta di Elvira ».

Senza saperlo, l’umile Giovanni favoriva l’opera ini­ziata dal suo contemporaneo Luigi da Granata. Dal 1534, infatti, l’illustre domenicano, dai pulpiti della città, dinanzi a giovani uditori guadagnati con l’elo­quenza, non cessava di levarsi contro le letture romanzesche e di denunziare l’ignoranza comune in materia re­ligiosa. Egli proponeva, come principale rimedio a questo male, la lettura dei Vangeli, di piccoli trattati semplici di dottrina e di pietà. Lui stesso, abbandonan­do il latino contro l’uso del tempo,, ne aveva tradotti o composti alcuni in spagnolo e si sforzava di dif~onderli tra la popolazione.

Un’uguale comprensione dei bisogni del suo tempo non è riscontrabile in Giovanni Cidade, che non posse­deva né il genio né la scienza di Luigi da Granata? In­dubbiamente il Signore lo stava chiamando alla sua vocazione di carità; ma il suo apostolato « tramite il buon libro » ne è stato la preparazione. Nel santificare, infatti, una professione che lo ha fatto onorare per molto tempo, in Italia e in Spagna, come patrono dei librai, Giovanni di Dio, convinto dell’importanza delle sane e pie letture nella formazione dell’uomo e del cristiano, non cessò si servirsi lui stesso di questo gran­de mezzo di perfezione e lavorò con tutte le sue forze per propagarlo attorno a se.

Acquisi cosi un capitale solido di conoscenze varie dal quale più tardi, quando tutto il suo tempo sarà preso dall’esercizio della carità, saprà trarre profitto non solo per sé, ma anche per l’istruzione dei suoi fra­telli, dei suoi malati, dei suoi amici e per il buon anda­mento delle sue opere. Le sei lettere di Giovanni di Dio a noi pervenute, il cui valore reale fa rimpiangere la perdita di tante altre, ne sono la testimonianza.

 

V. LA DRAMMATICA RINUNZIA

Verso la fine del 1538, Giovanni Cidade, allora quarantatreenne, si era dunque stabilito a Granata e aveva impiantato una modesta libreria accanto alla porta di Elvira. La sua ingegnosità, il suo abile richiamo e la sua bonomia sorridente, uniti alle largi­zioni sempre più ampie in favore dei bambini e dei poveri, gli attirarono ben presto, come a Gibilterra, una vasta clientela che lui orientava con zelo e suc­cesso verso le buone e sane letture. Tutto sembrava sorridere al nuovo venuto. Una onesta agiatezza pro­metteva di unirsi, in lui, ad una vita di apostolato ricca di avvenire e di merito. Era la prospettiva della felicità.

Se un tale sentimento sfiorò per qualche tempo il cuore di Giovanni, fu come un lembo di cielo sereno tra le apprensioni che, da più di dieci anni, tormenta­vano la sua coscienza quasi senza tregua. Infatti, l’in­quietudine non tardò a risvegliarsi nel profondo del suo essere, strappandogli nuovamente il grido di ango­scia: Signore, dona la pace alla mia anima e fammi conoscere la strada che debbo percorrere per arrivare a te. Il Signore alla fine lo esaudirà, e in che modo!

Da grande peccatore l’aveva già fatto giusto! Lo farà grande penitente e provveditore dei suoi poveri.

Il 20 gennaio 1539, giorno della festa di san Seba­stiano, grandi solennità si svolgono nell’eremo « de los Martires », innalzato in cima alla città, di fronte all’Alhambra. Tutta Granata è qui per celebrare la gloria del soldato martire e implorare il « liberatore della peste » perché preservi la città dal terribile fla­gello che infierisce nel paese.

Di fronte a questo uditorio entusiasta ed aperto a gravi pensieri, l’oratore della festa, Giovanni d’Avila, l’apostolo dell’Andalusia, esalta il perfetto imitatore di Gesù in vita ed in morte; egli insegna che ciascuno deve ancorarsi nella volontà di soffrire e persino di morire piuttosto che commettere il peccato, che è il flagello più pericoloso. Nell’uditorio, l’emozione è al culmine. Il lavoro della grazia si manifesta. Molti piangono gli errori commessi e si percuotono il petto. Giovanni Cidade, qui giunto come gli altri, non può contenersi; i suoi peccati, tante volte deplorati, gli si presentano in un compendio impressionante. Sotto la violenza del pentimento e della netta convinzione della sua inde­gnità di fronte a Dio, egli prorompe in singhiozzi e grida con tutte le forze: Misericordia, mio Dio, mise­ricordia!

Questa improvvisa esplosione dei suoi tormenti di coscienza attira su lui tutti gli sguardi.

Come fuori di sé, Giovanni esce di chiesa, im­plorando sempre la misericordia divina. Disprez­zando se stesso, si getta a terra, batte la testa contro i muri, si strappa la barba e le soprac­ciglia. Tutti ritengono che ha perso la ragio­ne. Lo additano, gli inveiscono contro, i bam­bini lo trattano da pazzo; lui, senza sembrare che vi badi, scende di corsa verso la città e giunge alla sua bottega, seguito dai ragazzini e dai curiosi, attratti dal grido sinistro, lanciato ora da ogni parte: Loco! Loco! (Al pazzo! Al pazzo!).

E’ per Giovanni l’ora della grande rinunzia. Il poco denaro che possiede lo dà a chiunque viene, sen­za riservare per sé neppure un soldo. Immagini, libri ed oggetti di pietà sono distribuiti in un momento. Quanto alle opere profane, la principale attrattiva del suo commercio, colto da non so quale rimorso, le strap­pa con le mani e perfino coi denti, le calpesta e la gente se ne disputa i pezzi. Come san Francesco d’As­sisi, si privò anche dell’abito dandolo ad un mendicante.

Egli dà tutto, trattiene solo una camicia ed un paio di pantaloni, per coprire la propria nudità. Cosi spogliato, a piedi nudi e a capo scoperto, se ne va per le vie principali di Granata, gri­dando: Nudo, voglio seguire Gesa Cristo nudo, e rendermi completamente povero in suo onore.

Si trattava qui, senza dubbio, di uno shock nervo­so che accompagnava e raddoppiava, come per un risvolto patologico, la straordinaria manifestazione del­la contrizione di Giovanni di Dio. Luigi da Granata, il Bossuet della Spagna del XVI secolo, sembra ammet­terlo lui stesso quando, rivolgendosi ai detrattori di Giovanni di Dio, dichiara che essi ignorano quanto intensa sia talvolta la risonanza corporea degli shock dell’anima e non considerano quale sia, in certe circo­stanze, la forza del pentimento (Granat. oper., tomo III).

Per fortuna, chiamato o venuto da solo, Giovanni d’Avila si fa vedere in quel momento nei pressi della cattedrale. Appena lo vede, Giovanni Cidade lo rag­giunge e, gettandosi ai suoi piedi, gli fa con i segni della più viva contrizione la confessione dei propri errori ed il racconto di tutta la sua vita. Cosa accadde di poi tra il sacerdote ed il suo penitente? E’ il segreto di Dio. Si può pensare, tuttavia, che quel saggio diret­tore lo ascoltò con pazienza e simpatia, che gli accor­dò il perdono in nome del Signore e gli fece udire delle parole di conforto e di pace. Cosa poteva fare di più in quella circostanza?

Calmato momentaneamente, ma sempre turbato, Gio­vanni non tarda a seguire la sua idea di espiazione, legata al suo bisogno incoercibile di movimento. De Castro lo afferma:

Appena lasciato il Padre d’Avila, Giovanni si reca in piazza di Bibarrambla, dove c’era un pantano. Egli vi si immerge, vi si rotola e con la bocca coperta di fango comincia a confessare, a voce alta, tutti i suoi peccati: Sono stato, gri­da, un grandissimo peccatore dinanzi a Dio! L’ho offeso in questo… e in quello…

Cosa merita il traditore che ha agito cosi? Che tutti lo picchino, lo maltrattino, lo considerino

E’ chiaro che Giovanni fece allora una enumerazione pre­cisa dei suoi peccati, che de Castro non poteva ripetere.

come l’uomo piu’ vile del mondo, ed infine lo gettino nel fango, nella fogna dei rifiuti! Nel vedere quella scena gli spettatori sono persuasi che ha perso la ragione; ma lui, tutto infiamma­to di amore di Dio, desideroso di morire per Lui, di essere schernito, disprezzato, appena uscito dal pantano e tutto coperto di fango, co­mincia a percorrere le vie della città saltellan­do e gesticolando come un insensato. I ragazzi­ni ed il popolino gli corrono dietro canzonan­dolo e gettandogli addosso terra e fango. Con molta pazienza e persino con gioia, come se avesse assistito ad una festa, Giovanni soppor­ta tutto, senza far male ad alcuno, felice di ap­pagare il suo desiderio di soffrire qualcosa per Colui che egli ama tanto. Tra le mani porta una croce di legno che offre a tutti da baciare, e se qualcuno gli dice: « Giovanni, bacia la ter­ra per amor di Dio », tosto egli obbedisce, an­che se c’è molto fango e l’ordine proviene da un bambino.

Questa descrizione tanto precisa in tutti i dettagli si ispira, è certo, alle testimonianze oculari, ma l’in­terpretazione dei fatti reca il segno di un sacerdote del XVI secolo. Per il biografo, infatti, Giovanni, molto cosciente, agisce con decisione, simulando la follia. Ora, la cosa non è del tutto semplice. Che l’uomo con­servi la propria lucidità, che acconsenta anche a degli impulsi morbosi che appagano i suoi profondi desideri di espiazione, non c’è dubbio; ma sono degli impulsi che lo trascinano e, sul momento, egli è incapace di resistervi: ecco il segno dell’affezione nervosa. De Castro continua:

Egli si abbandona con ardore tale a quegli ecces­si, che cade spesso a terra sfinito, disfatto dalla stanchezza, dagli spintoni e dalle botte… Appe­na lo videro in quello stato, due notabili di Granata, mossi a compassione lo presero per mano, lo strapparono a quell’assembramento chiassoso e lo condussero all’ospedale regio, dove venivano raccolti e curati i pazzi della cit­tà. Questi notabili pregarono il direttore di accettare Giovanni, per farlo curare. Mettetelo, gli dicono, in una camera dove non possa vede­re alcuno, perché si riposi; in tal modo forse guarirà dalla follia che ha contratto.

Richiesta molto prudente da parte di queste per­sone di buon senso. Ma Giovanni Cidade era ormai consegnato ai professionisti dell’epoca, che avevano i loro metodi di trattamento. Ed ecco il quadro presen­tatoci da de Castro:

Il direttore aveva visto Giovanni mentre circo­lava per la città ed era al corrente del suo com­portamento. Lo ricevette dunque subito ed ordi­nò ad un infermiere di portarlo dentro. Nei suoi abiti a brandelli, lo sventurato, coperto di feri­te ed ecchimosi prodotte dalle botte e dalle pietre, si trovava in uno stato così pietoso che si presero cura di lui senza indugiare. Dappri­ma gli diedero un buon vitto per rimetterlo e ristorarlo; ma vennero presto al trattamento principale, offerto in quel luogo alle persone della sua specie: frustate, messa ai ferri e altri simili procedimenti dolorosi e punitivi, destinati a far perdere loro la furia e a favorire il loro ritorno al buon senso. Fu così che gli infermieri legarono Giovanni per i piedi e le mani, lo denudarono e, con una buona corda piegata in due, gli somministrarono una scarica di colpi. Ma la sua malattia consisteva nell’essere ferito d’amore per Gesù Cristo. Cosi, per incitare gli infermieri ad assestargli più colpi, a trattarlo più brutalmente e permettergli di testimoniare un maggiore amore a Nostro Signore, Giovanni li incoraggia dicendo: Fratelli miei, colpite que­sta carne traditrice nemica del bene; è stata lei la causa di tutto il mio male; poiché le ho obbe­dito è giusto che paghiamo tutti e due, giacché tutti e due abbiamo peccato!

Al contrario, quando vedeva flagellare gli altri ma­lati mentali, suoi compagni, apostrofava gli infermieri in questi termini:

O traditori, nemici della virtù! Perché trattate tanto male e con tanta crudeltà questi poveri in­felici, miei fratelli, che si trovano in questa casa di Dio in mia compagnia? Non sarebbe meglio aver compassione delle loro prove, tenerli puliti e dar loro da mangiare con maggior ca­rità ed affetto di quanto fate? I « re cattolici » hanno assegnato, infatti, per assolvere questo compito, il vitalizio necessario.

Quando gli infermieri udirono queste parole,. credettero di trovarsi in presenza di un pazzo

aggravato da malignità. Di conseguenza, deside­rosi di guarirlo da ambo i mali, gli somministra­rono colpi più crudeli e numerosi di quelli che erano soliti infliggere alle persone giudicate sem­plicemente pazze…

Appena seppe che Giovanni Cidade si trovava all’ospedale regio, il d’Avila, che conosceva la causa del suo disordine mentale, mandò subito uno dei suoi discepoli a fargli visita. Giovanni ritenne come un gran favore ed un potente conforto l’iniziativa di Giovanni d’Avila; lo faceva visitare, si ricordava di lui, dimenticato da tutti in quella prigione. Il solo che, dopo Dio, lo ricordava e lo consolava nelle sue prove. Il povero afflitto ne piangeva di gioia, giacché era cosciente della grazia che il Signore gli accor­dava.

Nel frattempo gli infermieri dell’ospedale ave­vano gran cura del loro paziente e quando lo vedevano turbato non mancavano di sommini­strargli la flagellazione come agli altri, eviden­temente nell’intento di guarirlo, e sempre Gio­vanni la accoglieva con allegria. Di fronte ad un analogo trattamento inflitto ai suoi simili, gridava: Che Gesù Cristo mi accordi la grazia di possedere un giorno un ospedale dove io possa accogliere i poveri abbandonati e gli infelici privi di ragione, per servirli come desidero!

La sua dolorosa prova, del resto, andrà a termine rapidamente; riferisce difatti de Castro:

Dopo alcuni giorni trascorsi nell’ospedale, Gio­vanni cominciò a mostrarsi tranquillo, quieto, e a dichiarare: Benedetto sia il Signore, io mi sento in buona salute e libero da ogni angoscia. Il direttore e tutta l’amministrazione provarono una grande soddisfazione nel vederlo più cal­mo e nel sentirlo affermare che stava meglio. Subito gli tolsero i ferri e gli permisero di circolare liberamente per la casa. Ed egli senza attendere che ve lo invitassero, si mise a servire i malati con dedizione, strofinando, scopando e pulendo le stanze.

Se è vero che, per meglio comprendere quelli che soffrono e circondarli di una più calda simpatia, come pure di cure più sollecite, nulla sostituisce un’esperienza personale, non si può dubitare che Giovanni Cidade abbia ricevuto in quell’ospedale la migliore preparazio­ne alle sue future attività.

Ed ecco la conclusione che dà de Castro a questa parte della vita di Giovanni di Dio. Essa è, per noi, del maggiore interesse.

Giovanni si dedicava ancora alle sue occupazio­ni quando un giorno, seduto sulla soglia del-

l’ospedale, vide passare davanti all’edificio un corteo di cavalieri, di religiosi ed un folto clero, che conducevano ed accompagnavano il corpo dell’imperatrice, sposa di Carlo Quinto deceduta in quei giorni, nella cappella reale di Granata, per dargli sepoltura. Quello spettacolo impres­sionò vivamente Giovanni e consolidò in sé la ferma risoluzione di uscire senza indugio dal­l’ospedale, per realizzare i suoi buoni desideri:

servire Nostro Signore nei suoi poveri mendi­cando per il loro mantenimento, raccogliere gli abbandonati e i viandanti; quell’anno, infatti, la terra aveva dato poco e non c’erano ancora nella città degli ospizi che accogliessero i biso­gnosi. Avendo preso tale decisione, Giovanni si reca dal direttore e gli dice: Fratello mio, che Nostro Signore vi ricompensi per la beneficen­za e la carità che mi avete testimoniato in que­sta casa di Dio, per tutto il tempo che sono stato malato! Ora, che il Signore ne sia benedetto, mi sento bene e in grado di lavorare! Per amor di Dio e se è conforme alla sua volontà, lasciatemi dunque uscire! – Avrei voluto, rispose il diret­tore, vedervi rimanere ancora qualche giorno in questa casa, per completare la vostra convale­scenza e farvi riprendere le forze, giacché siete ancora debole a causa delle passate sofferenze. Ma poiché desiderate assolutamente andarvene, ritiratevi con la benedizione di Dio. Portate però con voi questo mw scritto, al fine di potervi re­care liberamente dove volete ed anche perché le persone che vi incontreranno non vi riconduca­no qui, ritenendo che non. siate guarito dalla vostra passata malattia. Giovanni ricevette il biglietto in tutta umiltà, contento di essere con­fermato nell’opinione che tutti l’avevano ritenu­to un vero pazzo.

Una volta di più, come ben si nota, pur riferendo fedelmente i fatti, de Castro li interpreta a modo suo. Per lui, è evidente, Giovanni Cidade ha recitato la parte del folle. Ora, contro questa opinione illogica, si leva la descrizione cosi viva dello stesso de Castro, che descrive Giovanni Cidade impegnato in atteggia­menti e attività esplosive, incoercibili e non dirette e calcolate come lo sarebbero necessariamente degli at­ti simulati; inoltre, conviene prendere alla lettera le parole di Giovanni che non mentiva: « Fratello mio, che Nostro Signore vi ricompensi per la carità che mi avete testimoniato in questa casa di Dio, per tutto il tempo che sono stato malato. Ora, mi sento bene e in grado di lavorare; per amor di Dio, lasciatemi dunque uscire! ».

In breve, la Vita di Giovanni di Dio secondo il suo contemporaneo de Castro, letta attentamente ed inter­pretata secondo i criteri scientifici moderni, come an­che le testimonianze concordi dei notabili di Granata, del direttore dell’ospedale regio e del paziente stesso, ci permettono di dedurre molto verosimilmente: No, Giovanni di Dio non ha simulato la follia. Egli è stato malato come lo esprime lui stesso in termini moder­ni e dignitosi: « He estado enfermo ».

 

VI. BAEZA E NOSTRA SIGNORA DI GUADALUPE

Poco prima di essere dimesso dall’ospedale, Gio­vanni aveva ricevuto la visita di un discepolo di Gio­vanni d’Avila. Quella visita lo aveva grandemente ri­confortato, come nota de Castro. Essa dimostra anche che Giovanni d’Avila continuava a seguire da lontano quell’eccezionale penitente che la Provvidenza gli ave­va affidato. Ora, lo stesso evento che aveva spinto Giovanni Cidade a chiedere la dimissione dall’ospedale fu anche l’occasione per un nuovo incontro con il suo Padre spi­rituale. Infatti, nonostante il silenzio di de Castro su questo punto, sappiamo da un manoscritto inedito della biblioteca del duca di Gore, a Granata, pubblicato da Manuel Gomez Moreno nel 1950, che il lunedì suc­cessivo ai funerali dell’imperatrice Isabella, si celebrò ancora in Granata una messa solenne per la defunta, presieduta dall’arcivescovo del luogo, durante la quale il Padre d’Avila prese la parola.

Giovanni Cidade, libero da due giorni, si trovava certamente nell’uditono e dopo la cerimonia si intrattenne con il suo Padre spirituale. Quest’ultimo si accor­se con soddisfazione che il suo penitente, finalmente tranquillizzato, restava sempre animato dai medesimi sentimenti di contrizione. Inoltre, Giovanni gli mani­festò il suo desiderio di servire i poveri e gli amma­lati per amor di Gesù Cristo.

Fin lì, il ruolo del Padre d’Avila, dopo aver con­fermato Giovanni nella sua conversione a Dio, tendeva piuttosto a moderare gli ardori e l’impetuosità dei suoi sentimenti di pentimento, attendendo che il tempo ve­nisse a ristabilire progressivamente il suo equilibrio nervoso un po’ scosso.

Raggiunto questo primo scopo, bisognava assicu­rare a Giovanni Cidade un riposo occupato e corrobo­rante, poi un tempo di riflessione, di formazione e di preghiera. Questo pensò il prudente direttore, che in­vitò il suo penitente ad accompagnarlo a Baeza, dove l’organizzatore dei funerali imperiali non tardò a farli accompagnare.

Piccola città della provincia di Jaén, ad una qua­rantina di chilometri a Nord-Est di Granata, Baeza è situata al confine dell’Andalusia e della Mancia. Di aspetto tipicamente castigliano, ricca di monumenti d’arte, essa è appollaiata su una collinetta che domina la vallata del Guadalquivir.

Giovanni d’Avila vi risiedeva in modo abituale dal 1538, e vi diresse per alcuni anni il collegio dei ragaz­zi della SS. Trinità, presso la chiesa dello Spirito San­to. In quella istituzione egli poté affidare alcune occu­pazioni materiali al suo protetto, riservandogli un tem­po sufficiente per la lettura della Sacra Scrittura, di libri spirituali e per numerosi incontri, nel corso dei quali lo fortificava nell’amor di Dio, nelle credenze della nostra fede, nella pratica dell’orazione e delle virtù.

A questo riguardo, un testimone verace al processo di beatificazione di Giovanni di Dio, Luca Coronado, scrittore ecclesiastico sessantenne della vicina città di Ubeda, ha riferito di aver sentito dire da Antonio de Vega, libraio a Baeza, che Giovanni Cidade aveva sog­giornato per qualche tempo al collegio della SS. Trinità, in compagnia di Giovanni d’Avila.

Lo stesso Antonio de Vega, allora insegnante di let­teratura ai ragazzi, era in contatto quotidiano con Gio­vanni ed aveva notato che il nuovo venuto non si coricava nel suo letto ed accendeva la lanterna due o tre volte nel corso della notte per pregare. Antonio de Vega aveva anche ammirato la grande pazienza di Giovanni ed il suo amore per la sofferenza. Egli trovava la sua felicità – annota ancora de Vega – nei biasimi, nelle offese e nelle prove. Era felice quando i giovani alunni lo schernivano e lo disapprovavano con fischi. Se riceveva una scarpata, un colpo sulla nuca, si affret­tava a parlarne al Padre d’Avila come di un guadagno inaspettato.

In breve, i quattro o cinque mesi che Giovanni tra­scorse presso il suo direttore furono cosi ben impiegati che quest’ultimo lo giudicò atto a realizzare finalmente il suo grande desiderio di servire i poveri e gli amma­lati per amore di Gesù Cristo. Prima di intraprendere quest’opera Giovanni volle, tuttavia, d’accordo con il suo direttore, compiere un pellegrinaggio a Nostra

Signora di Guadalupe per chiederle soccorso ed assi­stenza.

Da Baeza a Guadalupe ci sono all’incirca trecento-sessanta chilometri, una distanza moderata per il nostro uomo, buon camminatore. Uno dei suoi ultimi biografi spagnoli non ha intitolato la sua opera La Perpetua Andadura, « La marcia perpetua », proprio per sotto­lineare uno degli aspetti più salienti di quella vita?.

Sembra che Giovanni abbia intrapreso il viaggio verso la metà di ottobre 1539. Gli furono sufficienti una ventina di giorni per raggiungere Guadalupe. Il pellegrinaggio lo fece con un gran freddo, secondo de Castro, senza denaro e costretto a mendicare il nutri­mento. Tuttavia, aggiunge il biografo,

 

per non restare inoperoso, rimase sempre fedele alla seguente abitudine: quando giungeva in una località per prender cibo o fermarvisi, portava sulle spalle un fascio di legna e andava all’ospe­dale, se ce n’era uno, a lasciarvelo per i pove­ri; dopo chiedeva quanto gli bastava per nu­trirsi in modo austero.

Fin dalla giovinezza, Giovani conosceva Nostra Si­gnora di Guadalupe, la regina della montagna di Villuercas. L’aveva visitata prima del suo arrivo ad Oropesa, non lontana di lì. Può darsi che ci sia ritor­nato dopo? In ogni caso, ne aveva sentito parlare mol­to. Questo santuario, situato ai confini dell’Estrema-dura e della Castiglia, accanto ad un monastero eretto verso il 1369 ed appartenente ai Fratelli di san Girola­mo, è uno dei luoghi più celebri della Spagna.

Qui, alcuni anni prima, degli esploratori e dei « con­quistadores » famosi erano venuti a confidare i loro sogni e i loro progetti avventurosi alla Vergine di Gua­dalupe, prima di introdurre il suo nome e la sua devo­zione nelle terre del Nuovo Mondo, da loro conqui­state per la corona di Spagna. Oggi, un umile pelle­grino entra in chiesa in ginocchio, venera la Vergine miracolosa e, per suo tramite, espone i propri bisogni a Nostro Signore e lo ringrazia di tutti i suoi benefici.

Pieno di fiducia, prega Nostra Signora di benedire i suoi progetti di dedizione ai poveri, ai malati a tutti gli uomini per amore di Dio.

Il pellegrino rimase a Guadalupe alcuni giorni, vi si confessò e comunicò. Egli risiedeva nell’ospedale ret­to dai Fratelli di san Girolamo nelle dipendenze del monastero e prendeva parte ai lavori e alle cure nelle sale. Seguendo i consigli del previdente maestro d’Avila, si informò anche sull’organizzazione e sul funziona­mento dei diversi servizi, per prepararsi alla sua opera futura.

Giunse il momento del suo ritorno. Giovanni rag­giunse direttamente Baeza per rendere conto al suo direttore delle peripezie del pellegrinaggio. Il maestro d’Avila lo ricevette con gioia e gli diede, secondo de Castro, le seguenti istruzioni:

Fratello Giovanni, è necessario che ritorniate a Granata, dove siete chiamato da Dio; e Lui, che conosce le vostre intenzioni ed i vostri desi­deri, vi indicherà il modo in cui dovrete ser­virlo. Abbiatelo sempre presente, in tutte le vostre azioni; considerate che vi guarda e lavo­rate come in presenza di un si grande Signore. Arnvando a Granata prendete subito un confes­sore, come già vi avevo detto. Che egli sia il vostro Padre spirituale. Non fate nulla di im­portante senza il suo parere. Quando si presen­terà qualcosa per la quale riterrete di aver biso­gno dei miei consigli, scrivetemi là dove mi trovo. Mi comporterò verso di voi, in ogni cosa, come vi sono obbligato dalla carità, con l’aiuto di Nostro Signore.

Il lettore avrà notato quanto siano ferme e precise le direttive impartite da Giovanni d’Avila al suo diret­to. L’ascetismo dell’apostolo dell’Andalusia è impron­tato ad una nota aspra e severa, che gli ispira delle formule sorprendenti: Sottoponete il vostro corpo al dolore e fatelo vivere sulla croce! E ancora: Non desi­dero consolazioni per i miei figli, ma pene e frustate.

Queste osservazioni, suggerite dall’introduzione fatta da Jacques Cherprenet alla traduzione dell’opera Audi Filia del beato Giovanni d’Avila, ci permetteranno di interpretare con cautela le tre lettere, piuttosto severe, del maestro d’Avila a Giovanni di Dio, allorché saranno citate nelle loro parti essenziali nel corso del racconto.

Allora, munito delle istruzioni del suo direttore e dopo essersi congedato da lui, Giovanni Cidade si pose in viaggio alla volta di Granata.

 

VII.       A GRANATA AL SERVIZIO DEI POVERI

Giovanni Cidade arrivò a Granata verso la fine di novembre 1539. Aveva quarantaquattro anni. Il suo primo soggiorno in questa città, benché breve, aveva avuto su di lui un’importante ripercussione. Può rias­sumersi così: una dozzina di settimane, al massimo, nella bottega presso la porta d’Elvira; alcune ore dram­matiche di una sconvolgente conversione; un breve e mortificante periodo di malattia all’ospedale regio segui­to da tre mesi di convalescenza consacrati al servizio dei malati mentali che si trovavano nell’ospedale. Era la fine della sua lunga e mortificante vita privata, assai poco nota all’intorno. D’ora innanzi egli entrava nella vita pubblica, che durò appena undici anni, ma fu suffi­ciente a questo sconosciuto per diventare una delle glorie della Spagna del secolo d’oro, il « Padre dei poveri ».

Situata ai piedi della Sierra Nevada che raggiunge i 3.478 metri, Granata gode di un clima privilegiato, tro­vandosi a 700 metri d’altitudine. Gaia, ridente ed ani­mata, si stende nel cuore della fertile « Vega de Grana­da » (il frutteto di Granata), alla confluenza del Genil e del Darro., che diffondono la fecondità ed offrono le loro acque cristalline alle numerose fontane e canali della città. Per sette secoli Granata fu sotto il domi­nio musulmano. Con esso aveva acquisito una grande prosperità nell’agricoltura, nell’industria, nelle seterie e si era arricchita di magnifici monumenti: l’Alhambra, il Generalife, le mura d’Albaicin, ecc. Riconquistata nel 1492 dai « re cattolici », Ferdinando ed Isabella, quarantotto anni soltanto prima dell’arrivo di Giovan­ni Cidade, si trovava ancora in un periodo di transi­zione e di decadenza. L’islamismo vi era sempre pre­sente, ma soprattutto sotto l’aspetto di convertiti più o meno volontari, soprannominati moriscos. D’altra parte, cristiani, ebrei, moriscos e avventurieri vivevano fianco a fianco in mezzo a molte miserie.

Per portarvi rimedio, Giovanni si prodigherà senza misura. Gli inizi, secondo de Castro, non furono bril­lanti. Fin dal primo giorno di presenza, Giovanni, dopo aver ascoltato la messa, si diresse verso la montagna per raccogliere un fascio di legna. Ritornando con quel fascio, provò un vivo senso di vergogna ad entrare cosi in Granata. Vinto da essa, non osò oltrepassare la porta di « Los Molinos », molto distante dal mercato della città, e diede la legna ad una povera vedova in cam­bio di un po’ di cibo. Vergognandosi della propria vil­tà, il giorno successivo, dopo aver ascoltato la messa, durante la quale implorò con insistenza l’aiuto del Signore contro il rinascente amor proprio, Giovanni si recò a raccogliere un altro fascio di legna sulla monta­gna. Ora, nel ritornare in città con il carico, cominciò a provare la stessa vergogna della vigilia. Questa volta, con l’aiuto della grazia divina, passò oltre e per stimolarsi si mise ad inveire contro il proprio corpo: Cosi,signor asino, per dignità, per puntiglio d’onore, ti rifiu­ti di entrare a Granata carico di legna. Subito porterai questa legna fino alla piazza principale. Si, abbasso questa alterigia, abbasso quest’orgoglio! Di fatto, vi si reca. Subito è riconosciuto. I curiosi lo attorniano. I burloni esclamano: Come, Giovanni, eccoti ora un boscaiuolo! A cosa ti è servito il soggiorno in ospedale? E’ incredibile! Non la smetti di cambiar mestiere! Per nulla sconcertato, Giovanni sopporta tutto con gioia e con il sorriso: Ma si, continua lui; è come al gioco di « birlimbao », con la sua nave e le tre galere: più ci si lambicca il cervello, meno lo si comprende. E i giochi di parole si succedevano da ambo le parti. In breve, pieno di allegria, egli rispondeva a tutti con spi­rito; finalmente uno spettatore acquistò il fascio a buon prezzo. Col denaro ricevuto, Giovanni si procurò alcuni viveri che poi divise con i poveri che si trovavano sulla piazza.

In realtà, molte persone erano persuase che vi erano ancora in Giovanni tracce della sua vecchia malat­tia. Ma lui, senza curarsi di questi giudizi e delle beffe, continuò ogni giorno a raccogliere un carico di legna, che poi vendeva sulla piazza di Bibarrambla. Qui egli trovava sempre l’acquirente, giacché il freddo infieriva. Del denaro cosi guadagnato, riservava solo una piccola parte per i suoi bisogni ed il resto lo di­stribuiva ai poveri che erano lungo le strade, sulle piaz­ze e, di sera, sotto le logge dei palazzi, sotto i portici delle case borghesi. Egli stesso si stabiliva in mezzo a loro durante le poche ore concesse al sonno ogni not­te. Infatti, se Giovanni dedicava molte ore del giorno ai suoi poveri, una parte della notte pregava e si ab­bandonava all’orazione. Si alzava di buon mattino e non tralasciava mai la messa. Più volte, nel corso della giornata, visitava a lungo il Signore presente nel taber­nacolo delle chiese. In Giovanni Cidade era avvenuta una vera trasformazione. La grazia lo aveva rinno­vato e, appoggiato su una solida umiltà, vi corrispon­deva del suo meglio. Il crescente amore per Cristo lo spingeva, sempre più, a dedicarsi agli infermi ed ai bisognosi.

Senza dubbio, dividere il frutto del proprio lavoro con i poveri aveva il suo valore. Ma alla vista di tante miserie e sofferenze, Giovanni capiva bene che la sua generosità non era proporzionata ai bisogni. Ne aveva il « cuore infranto ». Cosi rifletteva davanti al Signore sui mezzi per apportare un aiuto più efficace a tutti quegl’infelici.

D’altra parte, la regolarità, la costanza con cui con­tinuava a confortare i poveri, il suo spirito di pietà, la sua pazienza, attirarono la benevolenza delle persone e le raccomandazioni del maestro d’Avila gli portaro­no dei nuovi benefattori. Questi ultimi, con il con­corso del Padre Portillo, che Giovanni aveva scelto come direttore spirituale, gli offrirono il denaro per acquistare un locale dove avrebbe riunito i poveri e li avrebbe cosi curati più facilmente ed in modo più assiduo. La sua fede nella Provvidenza cresceva sempre più; cosi, conformemente alla certezza datagli da Gio­vanni d’Avila, il Signore gli aprì le vie. Attraversando un giorno il mercato del pesce, vicino alla cattedrale dove si recava a pregare, scorse di fronte al mercato, sulla via Lucena, una casa disabitata. Vi entra, la visita e l’affitta subito. Per arredare le stanze dell’unico piano, egli acquista alcune stuoie, dei cuscini e delle vecchie coperte dove i suoi protetti, poveri ed infermi che egli radunava per l’addietro at­torno alla piazza di Bibarrambla, avrebbero po­tuto riposare in modo più confortevole, giac­ché non poteva ancora far meglio, né aveva altro rimedio da portar loro.

La stanza di sotto, più spaziosa, era riservata ai viandanti poveri, che vi trascorrevano la notte su dei banchi, attorno ad un grande camino dove si ac­cendeva un bel fuoco quando faceva freddo.

Più tardi, un sacerdote della cappella reale gli do­nò trecento reali. Giovanni ne approfittò per acquistare quarantasei letti modesti, composti ciascuno di una stuoia, due coperte ed un capezzale sormontato dalla croce. Impiegò il rimanente denaro per l’acquisto di una parte dei mobili e degli utensili necessari ad un piccolo ospizio e asilo notturno. Poté cosi realizzare una migliore ripartizione dei suoi protetti ed una clas­sificazione sommaria. Da notare che, contrariamente all’uso corrente, egli non ammetteva che un solo oc­cupante per letto.

Per assicurare la sussistenza ai suoi assistiti, Gio­vanni non mancava, un po’ prima della chiusura del vicino mercato, di andare a sollecitare i pescivendoli, che gli cedevano volentieri per i suoi poveri i pesci invenduti che non potevano essere conservati. Giovan­ni ne faceva delle buone zuppe e, talvolta, quando il ricavato della questua era abbondante, delle succulente « pietanze alla marinara » tanto apprezzate dagli abi­tanti delle coste. Ben presto trovò anche altri bene­fattori tra i rivenditori di generi alimentari della piazza di Bibarrambla.

Evidentemente queste collette non potevano bastare:

così Giovanni percorreva ogni sera, uno dopo l’altro fino all’una di notte, alcuni quartieri della città. Egli camminava, con una gerla sulla schiena, due grosse marmitte ai lati, sorrette da una corda passata sulle spalle, e mendicava gridando: Qualcuno vuole fare del bene a se stesso? Fratelli miei, per amor di Dio, fate del bene a voi stessi!. Questo nuovo modo di chiedere l’elemosina suscitava la sorpresa e la curiosità e gli procurò subito delle grandi risorse, tanto la sua carità era comunicativa. « La sua voce commovente, dotata dal Signore di una virtù speciale, arrivava al cuore di tutti » (De Castro). Alcuni davano denaro, altri il pane, la carne, o i legumi. Quando era carico di provviste rientrava, preparava i pasti, aiutato all’ini­zio soltanto dai più validi tra i suoi assistiti; poi distri­buiva a ciascuno il necessario, chiedendo a tutti di pregare per i loro benefattori.

L’opera di Giovanni non tardò a farsi conoscere, i poveri si presentavano da sé. Egli avrebbe desiderato non rifiutarne alcuno, ma, oltre al fatto che la casa non poteva ospitare più di un certo numero, alcuni poveri viziosi abusarono dei suoi benefici. Si udirono dei reclami. D’altra parte, delle persone prudenti non vedevano senza timore la presenza di donne e ragazze povere ospitate anch’esse da Giovanni. Sorsero delle critiche e delle lamentele, tanto che il Padre Portillo credette di dover porre delle riserve riguardo all’ac­cettazione dei soggetti scandalosi e delle donne. Da parte sua, Giovanni si allarmava per una severità ritenuta eccessiva e contraria al precetto divino della carità. Nella sua perplessità, ricorse ai consigli del Padre d’Avila, esponendogli in una lettera, in tutta semplicità, le proprie difficoltà ed i propri dubbi.

Fratello mio, gli rispose il maestro d’Avila, mi avete dato una grande consolazione eseguendo esatta­mente ciò che avevamo deciso insieme riguardo all’ob­bedienza che dovete al Padre Portillo circa la direzio­ne dei poveri. Se agite sempre cosi vi troveremo, tutti e due, un grande conforto. Al contrario, temo molto che il diavolo vi inganni, se vi comportate secondo le vostre proprie idee. In fatti, quando egli non può otte­nere che qualcuno faccia il male, si sforza di fargli fare il bene in modo disordinato; ora, senza ordine, nulla può sussistere… Così, fratello mio, abbiate cura di sotto-mettervi al parere altrui, ed il diavolo non vi inganne­rà… Passando ai consigli pratici, ecco ciò che aggiunge il Padre d’Avila: State attento che le donne che vi sforzate di attirare al servizio di Dio non vi causino dei grandi imbarazzi e delle gravi spese. Sarebbe me­glio non tenerle, ma maritarle appena possibile, o met­terle al servizio di qualche dama, altrimenti rischiereb­bero di perdersi. Non accettate pia nel vostro ospedale soggetti litigiosi, lo diffamerebbero; benché vi sembri che sia una mancanza contro la carità scacciare qual­cuno per questa ragione. Infatti, spesso il timore di far torto a qualcuno è la causa della perdita di molti. Quando una parte del corpo è in cancrena la si asporta per salvare il resto del corpo. E sarebbe crudeltà, non compassione, agire diversamente… Se voleste compor­tarvi seguendo il vostro parere, cadreste nell’errore e Dio vi punirebbe. Dio non vi ha chiamato per diri­gere, ma per essere diretto; non potete servirlo che obbedendo. E in questo caso, non avete nulla da temere, poiché Dio non vi chiederà conto di ciò che avrete fatto dietro consiglio altrui. Il maestro termina con questo augurio: Se dunque mi amate e volete obbedirmi, obbe­dite al Padre Portillo, che vi do per Padre in vece mia. Ascoltate tutto ciò che vi dirà, come se ve lo dicessi io stesso… finché Dio voglia che ci rivediamo.

Una risposta cosi piena dello spirito di Dio e così ricca di esperienza portò i suoi frutti. Giovanni rin­graziò Dio di avergli dato un tale maestro. Egli capì meglio il modo di vedere del Padre Portillo e si ripro­mise di essergli sempre più docile; in particolare, mo­strò una maggiore fermezza nei confronti dei perturba­tori e si contentò di soccorrere i poveri ed i malati che l’ospizio poteva ospitare. In breve, la sua carità, sem­pre molto attiva, divenne più prudente e sottomessa. Assiduo nel lavoro, aveva tuttavia il volto abitualmen­te allegro e la sua conversazione era tanto dolce quanto seria. I benefattori che visitavano la casa la trovavano in tanto buon ordine ed i poveri vi erano cosf ben curati, che essi si meravigliavano di un simile risultato otte­nuto da un uomo solo.

Tra i suoi primi protettori vi fu don Sebastiano Ramirez de Fuenleal, vescovo di Tuy e presidente della cancelleria di Granata dal 1538 al 1540. Quest’uomo di grande virtù apprezzava molto la dedizione ed il savoir-faire di Giovanni. Gli offrì generose elemosine e lo invito più volte alla sua tavola. Sebbene gli avesse dato anche degli abiti convenevoli, Giovanni, che li scambiava subito – secondo l’abitudine – con quelli del primo povero incontrato, si presentava da don Rami­rez in stracci. Il prelato non osava rimproverargli la grande carità, ma pensava tuttavia che il suo abito troppo dimesso potesse essere un ostacolo per l’adem­pimento dell’opera a cui Dio lo destinava. Servendosi della propria autorità e della fiducia ispiratagli, don Se­bastiano riusci a convincerlo ad abbandonare per sempre gli abiti cenciosi. Li sostitui con una tunica, dei calzoni di tela ed un cappotto di sargia color cenere, abito che, senza essere religioso, lo avrebbe distinto dal resto degli uomini. Parimenti, sapendo che si chia­mava Giovanni, il prelato gli disse che d’ora innanzi si sarebbe chiamato « Giovanni di Dio ». – « Oh si, rispose lui, se piace a Dio! ».

Questa specie di presa di abito, della quale non si può con esattezza fissare l’epoca, ebbe tuttavia luogo prima del 28 gennaio 1540, data della promozione di don Sebastiano Ramirez alla sede arcivescovile di Leon.

Né il prelato, né il servo dei poveri avevano inten­zione di istituire una nuova congregazione religiosa; così, don Ramirez non impose delle regole per coloro che volevano inserirsi nel servizio dell’ospedale. Da parte sua, Giovanni di Dio non lasciò altro fondamento alla sua opera che l’esempio della propria carità e pe­nitenza. Tuttavia, non appena videro Giovanni di Dio rivestito del nuovo abito, molte persone caritatevoli, senza abbandonare il proprio stato, vennero nei mo­menti liberi ad aiutarlo nelle cure mediche; altre si occupavano dei vestiti e della biancheria, mentre i po­veri più validi lo aiutavano nei lavori domestici. In realtà, in base agli studi cronologici del Padre Saucedo, fu solo verso la fine del 1545 che Giovanni di Dio attirò con il proprio esempio i suoi primi due discepoli permanenti.

Il lavoro abituale compiuto da Giovanni di Dio per raccogliere le elemosine, mantenere la casa e curare i poveri, costituiva una penitenza ed una mortificazione appena tollerabili, con le sole forze naturali, da un uomo robusto. Nondimeno, secondo de Castro, non si contentava di tutto quel lavoro faticoso ma, con numerosi atti di austerità, mortificava la propria carne. Mangiando poco e di una sola pietanza, egli consumava dei cibi grossolani. I giorni di precetto osservava il di­giuno prendendo un magro cibo a mezzogiorno e pri­vandosi dello spuntino la sera. I venerdf stava a pane ed acqua e si dava tremende discipline…

Coperto con un pezzo di vecchia coperta, dor­miva su una stuoia poggiata per terra con una pietra per cuscino o, altre volte, nella carretta di un paralitico deceduto, messa in uno stretto bugigattolo sotto una scala. Camminava scalzo e a capo scoperto con ogni tempo. Tuttavia, ave­va pietà delle più lievi sofferenze del suo pros­simo, come se vivesse egli stesso con grande larghezza di mezzi.

 

VIII. SVILUPPO DELL’OSPEDALE

All’inizio, la casa di carità impiantata nel dicem­bre 1539 in via Lucena, di fronte al mercato del pesce, si presentava piuttosto come un asilo notturno o un pic­colo ospizio. Giovanni di Dio, badando a ciò che gli sembrava più urgente, assicurava un ricovero ai poveri, validi o infermi leggeri, venuti da sé o raccolti nei pressi della piazza di Bibarrambla. Nella primavera suc­cessiva, un buon numero di essi si sparpagliò nelle cam­pagne granatesi; Giovanni di Dio ne approfittò per sostituire progressivamente le stuoie con dei veri letti con materassi, lenzuola e coperte, nelle stanze del pri­mo piano. Egli poté così, come negli altri due ospedali della città, ospitare i malati e gli invalidi che giacevano abbandonati sulle piazze e lungo le strade. Li portava per mano o appoggiati al suo braccio, e non esitava a prendere i più deboli sulle spalle.

A tal proposito de Castro riporta un aneddoto che possiamo cosi riassumere: una sera d’inverno, buia e tempestosa, Giovanni di Dio rientrava sul tardi al­l’ospedale, avendo in mano un cesto pieno di viveri e sulla schiena un povero trovato gemebondo sulla « Plaza Nueva ». Saliva con fatica il pendio di « los Gomeles ». All’improvviso si abbatte un acquazzone spaventoso, il rivolo si trasforma in un torrente impe­tuoso ed atterra Giovanni di Dio con il suo carico. Al rumore della caduta in acqua e alle grida del povero, un avvocato si affaccia alla finestra del suo pian ter­reno. Egli vede e sente Giovanni di Dio mentre si picchia col bastone e si castiga: Cosi, signor asino, stupido, fiacco, pigro, inetto, non hai forse mangiato oggi? Allora perché non lavori? I poveri ti attendono e questo moribondo, in che stato l’hai messo? A queste parole egli si rialza e, con un vivo sforzo, si ricarica il malato, afferra il cesto e, con l’aiuto del bastone e l’acqua a mezza gamba, si trascina fino all’ospedale do­ve giunse sfinito. Il giorno dopo l’avvocato, testimone e relatore dell’accaduto, interrogò Giovanni di Dio sulla caduta; costui rispose come se non si ricordasse di nulla.

Agiva sempre così per evitare la sufficienza.

Altri malati venivano da soli o introdotti da persone caritatevoli che si occupavano di loro.

Il primo pensiero di Giovanni di Dio, nel rice­verli, era di lavare loro i piedi e persino tutto il corpo all’occorrenza.

Poi dava loro della biancheria pulita e li metteva a letto, mettendo in una stanza i febbricitanti, i feriti nella seconda, gli invalidi nella terza. La grande sala del pian terreno rimaneva sempre a disposizione dei viandanti e dei poveri ambulanti.

Ogni giorno, su invito di Giovanni di Dio, alcuni medici visitavano i malati gratuitamente. Per l’assisten­za spirituale, alla quale rivolgeva un’attenzione par­ticolare, Giovanni aveva fatto ricorso a degli zelanti sacerdoti. Egli intendeva curare le anime mentre cura­va i corpi. E quando curava i corpi, era anche per salvare le anime. Attraverso i corpi, alle anime!, ripe­teva spesso.

Restava da distribuire le medicine ai malati e da medicare le piaghe dei feriti; Giovanni di Dio se ne incaricava per una buona parte; ma è credibile che, fino all’arrivo dei compagni di vita, egli facesse ricorso per un aiuto non soltanto a delle persone di buona volontà, ma anche ad ausiliari retribuiti. In tal modo, i compiti di Giovanni di Dio non cessavano di aumen­tare. Le solite questue di porta in porta non potevano più bastare. Fu allora che egli si preoccupò di ottenere dei soccorsi più importanti, necessari per il buon an­damento della casa di carità, rivolgendosi alle persone ragguardevoli di Granata, che lo avevano finalmente notato e capito, tanto apparivano evidenti la sua perse­veranza, l’ordine delle sue imprese ed i loro costanti progressi. Fece, inoltre, appello a dei nobili ricchi del­l’Andalusia e delle province circostanti, quasi tutti figli spirituali del maestro d’Avila, in occasione dei loro pas­saggi o soggiorni a Granata.

Fu così, particolarmente, che approfittò della pre­ senza in città del marchese di Tarifa, don Pedro Enri­quez, per chiedergli l’elemosina. Quando Giovanni di Dio si presentò alla sua residenza, il     marchese stava giocando con degli altri si­gnori, e gli consegnarono venticinque ducati.

Per il questuante era veramente un guadagno ina­spettato e, nel ringraziare Dio, pensava a come avreb­be potuto impiegare questa forte somma. Ora, continua de Castro, mentre Giovanni di Dio camminava con questi pensieri, il marchese di Tarifa, che aveva sentito parlare tanto della sua grande carità, volle – per scher­zo – metterlo alla prova. Dopo essersi rapida­mente travestito, con passo rapido raggiunse Gio­vanni e, fermandoglisi dinanzi, gridò: Fratello Giovanni, io sono un cavaliere di alto grado, straniero e povero, qui in causa; provo immense difficoltà a mantenere il mio onore. In formato della vostra carità, vi prego di aiutarmi, affinché non offenda Dio. Avendo considerato il suo atteggiamento, Giovanni gli rispose: Io mi do a Dio, tutto ciò che ho è vostro. E portando la mano alla borsa, consegna, senza esitazione, i venticinque ducati in questione. Il marchese li prende, ringrazia e, tutto meravigliato, va a rag­giungere gli altri signori per raccontare loro il fatto. E tutti, ammirando una simile carità, cele­brarono l’avvenimento come meritava. Allorché c’erano tanti poveri da soccorrere, egli si mostra­va così prodigo verso uno solo! Che fiducia nella Provvidenza! Questa fiducia non fu delusa. Il marchese, infatti commosso da tale prodigio, mandò a dire a Giovanni, il mattino seguente, di non assentarsi poiché voleva recarsi a visitare l’ospedale.

Appena giunto, il marchese comincia a scher­zare con il sant’uomo e a dirgli: Eh dunque, fratello Giovanni! mi hanno detto che vi hanno derubato ieri sera. – Io mi do a Dio, ma no! Non mi hanno derubato! Poi, dopo uno scambio di parole amabili e divertenti, il marchese ripren­de: Ora, fratello mio, perché non possiate negare il furto, Dio mi ha permesso di ritrovare la som­ma derubata: eccoli, i vostri venticinque ducati e, inoltre, centocin quanta scudi d’oro che vi do come elemosina. Un’altra volta, state attento a ciò che fate! Infine, ordinò di portargli cen­tocinquanta pani, quattro montoni e otto polla­stri e di fornirgli ogni giorno lo stesso quanti­tativo, per tutto il tempo che sarebbe rimasto a Granata.

Talvolta, le sue migliori collette avvenivano in mo­do sorprendente. Un giorno, di buon’ora, racconta in sostanza de Castro, allo scopo di cercare da mangiare per i suoi poveri, Giovanni scendeva lungo la strada de « los Gomeles », mentre un cavaliere la risaliva. Senza volere, il questuante urta col suo cesto la cappa del cavaliere e gliela fa cadere dalle spalle. Questi, molto irritato, si volta e grida: Ah! Furfante, briccone! Non potreste guardare dove camminate? – Scusatemi, fratello mio, rispose Giovanni con molta pazienza, non sono stato attento. Il marchese, nel sentire quel « voi », quel « fratello », diventò ancora più furioso e, voltandosi, gli dà uno schiaffo sul viso. – Ho sbagliato, l’ho ben meritato, datemene un altro!, replica Giovan­ni. Ma siccome gli parla ancora in seconda persona, il cavaliere grida ai suoi domestici: Correggete questo vil­lano maleducato! Essi eseguivano l’ordine davanti alle persone che si raggruppavano, quando uscì un vici­no, Giovanni della Torre. Cosa accade, fratello Gio­vanni di Dio?, egli grida. A questo appello l’aggressore, prostrato, si getta ai piedi della sua vittima ed afferma che non si rialzerà prima di averglieli baciati. Giovan­ni di Dio si affretta a rialzarlo e, tutto commosso, si abbracciano l’un l’altro. In compenso, il questuante ri­cevette cinquanta ducati d’oro per i suoi poveri.

In un’altra circostanza, sempre secondo de Ca­stro, Giovanni di Dio andava al palazzo della vecchia Inquisizione per chiedere l’elemosina; ora, mentre cam­minava lungo una vasca piena d’acqua, un arzillo pag­gio gli si avvicinò e’ con un colpo secco, lo fece cadere nell’acqua. Senza il minimo lamento usci dall’acqua e, tutto allegro, ringraziò il giovane bricconcello. Numero­si in quel momento, i testimoni che, pieni di ammirazio­ne, gli distribuirono grandi offerte e furono poi anno­verati fra i benefattori della sua opera.

Cosi trascorsero gli anni in cui Giovanni non ave­va ancora dei compagni che lo seguissero. Nel frat­tempo, oppresso com’era dai lavori e dai pensieri, attra­versò un periodo di difficoltà non solo di carattere mate­riale, ma anche morale, e si decise a consultare il mae­stro d’Avila.

Ho ricevuto la vostra lettera, gli risponde il suo direttore, e non desidero che mi diciate di non meritare che vi riconosca come figlio, perché siete cattivo, poiché per la stessa ragione io non meriterei d’essere vostro Padre, in quanto sono pia cattivo di voi e quindi pia degno d’essere disprezzato. Pure, il Signore ci tiene per suoi, benché siamo tanto deboli; ecco perché dob­biamo imparare ad essere misericordiosi gli uni verso gli altri ed a sopportarci con carità, come egli fa con noi. Fratello mio, ci tengo molto: rendete un conto esatto a Nostro Signore di tutto ciò che vi ha dato, poiché il servo buono e leale deve guadagnare cinque talenti con gli altri cinque che gli sono stati consegnati… Fate ciò che vi ordineranno, senza dimenticare voi stesso. Vi servirebbe poco l’aver tratto tutti gli altri dal fango, se ci rimaneste voi stesso. E’ per questo che vi esorto di nuovo a riservarvi un po’ di tempo per pre­gare il Signore, per ascoltare tutti i giorni la messa e, la domenica, la predica; in ogni caso astenetevi dal trat­tare molto con le donne: sapete bene che esse servono al diavolo come trappola per far cadere i servi di Dio. Voi sapete come David peccò per averne guardata una. Suo figlio Salomone peccò per amore di molte e perse talmente il buon senso che collocò degli idoli nel tem­pio del Signore. E poiché noi siamo molto pia deboli di loro, guardiamoci dal cadere. Profittiamo della lezio­ne. Non dobbiamo ingannarci, dicendo che desideria­mo loro essere utili, poiché, sotto i buoni desideri, si trovano i pericoli quando manchiamo di prudenza, e Dio non vuole che io procuri il bene altrui a spese della mia anima.

A proposito delle necessità di cui mi parlate, ve l’ho già scritto: ce ne sono ovunque, e quando ci mettiamo a chiedere ci viene risposto: « E’ già un grave compito provvedere alle necessità del vicinato ».

Pensavo che il duca di Sesa vi avesse mandato un regalo, giacché dicevano che l’avevate pregato. Se non vi ha mandato niente, chiedeteglielo nuovamente e ve lo mander& giacché vi ama molto a causa della vostra dedizione ai poveri… Mi rallegro della carità che avete trovato nella casa di cui mi parlate… Abbiate sempre una ferma fiducia in Gesa Cristo, affinché Egli vi col­mi delle sue grazie, e vigilate per non concedere al de­monio la gioia di farvi cadere nel peccato e che Dio, vedendo la vostra penitenza per il passato ed il desi­derio di comportarvi sempre meglio per il futuro, vi conduca per mezzo del suo Spirito Santo! Amen.

Questa lettera è stimolante sotto molti aspetti; ma non si può far a meno di constatare la sua fermezza ed insistenza. A giudizio del’ maestro d’Avila, Giovanni di Dio, nonostante tutte le sue virtù, aveva indubbia­mente bisogno di queste rigorose raccomandazioni. Qua­le lezione per noi, che non possediamo né la viva cari­tà di Giovanni di Dio, né il suo coraggio, né la sua generosità.

 

IX.        I PRIMI COMPAGNI DI GIOVANNI DI DIO

Verso la fine del 1545, Giovanni di Dio annoverava tra i benefattori della sua opera un certo Antonio Martin. Nato il 25 marzo 1500 a Mira, presso Cuenca, nella Nuova Castiglia, da coltivatori agiati, Antonio ed il suo giovane fratello Pedro ricevettero un’educazione cristiana. Ma la madre, rimasta vedova ancor giovane, li allevò con una indulgenza e una debolezza eccessive, poi si risposò. Ciò non piacque ai giovani che, chiesta la loro parte di eredità, abbandonarono la casa paterna. Antonio, dallo spirito altero e audace, divenne guarda­coste, poi doganiere a Valenza. Suo fratello Pedro, più equilibrato ma anche più ostinato, si mise al servizio di ricchi proprietari a Guadafortuna, nella provincia di Granata. Col suo savoir-faire si guadagnò la stima dei padroni che, nel giro di alcuni anni, ritennero di col­mario di favori proponendogli la loro figlia in matri­monio. Ora, con loro profonda delusione, egli, che nutriva altri progetti, rifiutò l’offerta con disprezzo. Tale comportamento, in quel paese e a quell’epoca, era reputato come un affronto che doveva essere lavato con il sangue. L’unico figlio della famiglia, Pietro Velasco, incaricato di salvare l’onore, assassinò freddamente Pedro Martin.

Messo al corrente dell’accaduto, Antonio Martin, pieno di collera ed assetato di vendetta, si dimette dall’incarico di doganiere e, con i suoi risparmi, acquista senza scrupoli la gerenza di una casa di prostituzione a Granata, allo scopo di perseguire più facilmente l’omicida. Ottiene dapprima la sua incarcerazione, poi raddoppia gli sforzi per strappare al giudice la con­danna a morte di Pietro Velasco. Il fatto faceva scal­pore a Granata. Giovanni di Dio seguiva con dolore le peripezie del processo, tanto più che Antonio Martin continuava a mostrarsi generoso verso i poveri. Una sola via d’uscita a questo dramma, egli si diceva: la conversione di questo battezzato. Egli si ripromette di pagarne il prezzo. Ogni volta che sollecitava un dono da Antonio, non mancava di aggiungere, con insistenza, che era per amor di Dio e che in cambio avrebbe pregato e fatto pregare i suoi poveri per il loro benefattore. Antonio Martin accettava volentieri; Giovan­ni ne concludeva con ragione che le sue elemosine costituivano degli atti di misericordia aventi il valore di preghiere. Accompagnate da quelle dei poveri avreb­bero ottenuto dal Signore delle grazie di conversione.

Con fiducia quindi Giovanni di Dio, dopo aver tra­scorso una parte della notte in suppliche, unite a cruente flagellazioni, se ne va il mattino seguente alla ricerca di Antonio Martin. Lo trova in via Colcha. Im­mantinente si getta in ginocchio ai. suoi piedi e, tiran­do dalla veste il crocefisso che portava sempre con sé: Ecco, fratello Antonio, gli dice, Colui che vi perdonerà, se voi perdonate; ma se voi vendicate il sangue di vostro fratello su colui che lo ha versato, il Signore ven­dicherà su voi il proprio sangue che versate ogni giorno con i vostri peccati. Penetrato da una grazia straordina­ria, mentre ascoltava il patetico appello di Giovanni di Dio, Antonio Martin cade a sua volta in ginocchio e grida: Fratello Giovanni, non soltanto io perdono, ma per amor di Dio mi do a voi ed ai vostri poveri.

Rimaneva da passare ai fatti. Senza indugiare An­tonio Martin, accompagnato da Giovanni di Dio, si reca alla prigione dove era detenuto Pietro Velasco e, non appena si trova in, sua presenza, gli si butta al collo, lo assicura del suo perdono e i due mortali nemici si abbracciano benedicendo la bontà del Signo­re. Poi, volgendosi verso Giovanni di Dio, si impegnano tutti e due a servire i poveri in sua compagnia per amore di Gesù Cristo.

Il cancelliere, chiamato appositamente, prende nota della riconciliazione e il giorno dopo il tribunale resti­tui la libertà a Pietro Velasco che, dalla prigione, passò subito alla casa di carità di via Lucena. Giovanni di Dio si affrettò a far confezionare un abito simile al suo per i suoi nuovi compagni e, fin dal giorno dopo, li condusse con sé a raccogliere i doni in natura e le elemosine per i poveri.

La consacrazione di questi due uomini a Dio ed al servizio dei poveri fu totale e definitiva. Antonio Mar­tin successe a Giovanni di Dio, fondò a Madrid l’ospe­dale di « Nostra Signora dell’amore di Dio » e morì venerato da tutti in quella città, all’età di cinquantatré anni. Da parte sua; Pietro Velasco morì santamente, dopo ventidue anni di vita ospedaliera.

Giovanni di Dio ricevette inoltre tra i suoi compa­gni: Simone d’Avila, un borghese di Granata per molto tempo suo detrattore, e Domenico Piola, un banchiere avaro, entrambi suoi convertiti. Infine Juan Garcia, un uomo serio e senza storia, offrì spontanea­mente i propri servigi all’ospedale. Tutti rimasero fer­venti e fedeli.

Si presentarono altri postulanti? E’ possibile; ma Giovanni di Dio poneva delle condizioni severe per l’ammissione dei nuovi compagni. Ne abbiamo, quale prova, una lettera indirizzata a Luigi Battista, un gio­vane che aveva una qualche intenzione di andare a vivere con lui nell’ospedale. Eccola nelle sue parti es­senziali.

In nome di Nostro Signore Gesu Cristo e di Nostra Signora la Vergine Maria sempre pura. Dio prima e sopra ogni cosa che è al mondo! Dio vi guardi, fratel­lo mio in Gesù Cristo e figlio amatissimo, Luigi Batti­sta. Ho ricevuto la vostra lettera inviata da Jaen; essa mi ha procurato una grande gioia… Tuttavia, i vostri mal di denti mi hanno molto afflitto, poiché ogni vo­stro dolore mi rattrista ed il vostro benessere, al con­trario, mi rallegra… Cosa rispondervi in questa lettera scritta alla sprovvista?… Non lo so. Tale è la mia fretta che non ho quasi il tempo di pregare Dio di illuminarmi su questa questione. Sarebbe necessario raccomandarla molto a Nostro Signore Gesù Cristo… Nel vedervi spesso tanto debole, in particolare per ciò che riguarda la castità, non so cosa dirvi… Se fossi sicuro che la vostra presenza in questa casa gioverebbe alla vostra anima ed al bene del prossimo, vi ordinerei di venire subito; ma temo che sia altrimenti. Sareb­be meglio per voi trascorrere ancora un po’ di tempo nella prova, finché siate ben disposto, avvezzo a sof­frire ed a fare del bene, nonostante le contrarietà dei giorni più cattivi… Voi errate qua e là come una barca senza remi; spesso, da parte mia, sono soggetto al dub­bio, come un uomo senza giudizio. Siamo quindi in due a non sapere che fare, ma Dio, che conosce ogni cosa, può venire in nostro aiuto. Che ci faccia la grazia di illuminarci tutti e due! Voi mi sembrate essere anco­ra come la pietra che rotola. Sarebbe bene, invece, che iniziaste a mortificare la vostra carne, a sopportare le miserie della vita: fame, sete, disonori, obbrobri, di­spiaceri, pene, noie, il tutto per Dio poiché se veniste qui dovreste sopportare tutto ciò per suo amore.

Per tutto ciò che vi accade, in bene o in male, dovete rendere grazie a Dio. Ricordatevi di Nostro Si­gnore Gesù Cristo e della sua santa Passione. Egli ha reso il bene per il male… Venendo qui, dovreste obbe­dire e lavorare molto più di quanto abbiate fatto; dedicarvi tutto alle cose di Dio, prodigarvi senza sosta per il servizio dei poveri… Deciso a venire qui, dovre­ste lavorare con profitto per Dio e, per ciò, spendere bene la vostra « pelle » e le vostre forze. Rammentate san Bartolomeo: scorticato vivo, portò la sua pelle stille spalle. Non venite dunque qui con l’intenzione di con­durre una vita tranquilla, ma per lavorare: i lavori più penosi sono il retaggio del figliolo più amato. Venite se pensate che è qui ciò che avete di meglio da fare e se Dio ve lo ispira. Se, al contrario, vi sembra vantag­gioso vagabondare ancora per il mondo e cercare qual­che situazione in cui possiate servir Dio, fate in tutto come vi piacerà sull’esempio di coloro che vanno nelle Indie a cercar fortuna…

Ogni giorno della vostra vita, abbiate lo sguardo rivolto a Dio ed ascoltate la messa sempre per intero. Con fessatevi spesso; e se è possibile, non vi addormen­tate mai la sera nella coscienza del peccato mortale. Amate Nostro Signore Gesù Cristo sopra tutto ciò che è al mondo, poiché qualunque sia il vostro amore per lui, Egli vi ama di più. Abbiate sempre la carità: dove non c’è carità non c’è Dio, benché egli sia in ogni luo­go… Non ho più nulla da dirvi, tranne che augurarvi che Dio vi guardi, vi salvi e vi ponga come tutti, sulla via del suo santo servizio. Termino, ma non cesso di pregare per voi e per tutti gli uomini. Il rosario, posso affermarvelo, mi ha sempre fatto un gran bene. Spero che Dio mi accorderà la grazia di recitarlo più spesso che potrò e ch’Egli desidera.

Fratello Giovanni di Dio, il più piccolo di tutti, pronto a morire se Dio lo vuole, ma che attende in si­lenzio, spera in Dio e desidera servire Nostro Signore Gesù Cristo, di cui è lo schiavo. Amen Gesù! Uno schiavo meno bravo degli altri uomini, sono molte volte furfante e traditore. Me ne pento indubbiamente mol­to, ma dovrei pentirmene di più. Che Dio abbia la bontà di perdonarmi e di salvare tutti!

Si vede da questa lettera che, pur lasciando quel­l’indeciso perfettamente libero della sua scelta, Giovan­ni di Dio, alternativamente affettuoso e leggermente ironico, si sforza tramite consigli pieni di saggezza di istradarlo sulla retta via e lo ragguaglia in modo chiaro sui suoi compiti presenti e persino futuri, nel caso succedesse di raggiungerlo; e qui, in verità, le esigenze sono molto pesanti! Contemporaneamente, leggendolo, ci si può render conto delle sue solide virtù e del suo co­stante pensiero di salvezza di tutti gli uomini. Fatto curioso e che si riscontra in tutte le sue lettere: quando desidera dare un consiglio che riguardi una devozio­ne utile ma non obbligatoria, preferisce darlo in modo indiretto. come qui: Il rosario mi ha fatto un gran bene…

Con l’arrivo di nuovi compagni, la casa di carità di via Lucena prosperò sempre più; le elemosine au­mentarono e permisero di procurarsi tutti i mobili e le comodità desiderabili. Disgraziatamente, l’inverno del 1545-1546 danneggiò gravemente il tetto e l’edi­ficio dell’ospedale. Ne abbiamo un’eco nella lettera scritta da Giovanni di Dio alla duchessa di Sesa, ver­so la fine del 1546.

Sorella mia in Gesù Cristo, le dice, ho delle grosse preoccupazioni. Occupato a rimettere a nuovo tutta la casa rovinata ed aperta alla pioggia, mi mancano i mezzi per pagare questi lavori; cosi mi sono deciso a scrivere al conte di Feria e al duca d’Arcos, a Zafra. Il maestro d’Avila si trova li attualmente; sarà per me un buon mediatore presso di loro e spero che quei signori mi invieranno dei soccorsi per liberarmi dei debiti… Questa lettera menzionava un viaggio circolare effettuato, verso la primavera dello stesso anno, nella bassa Andalusia. Così, egli scrive, virtuosa du­chessa, non appena vi ho lasciata (a Cabra) mi sono recato ad Alcaudeta a far visita a donna Francesca; da lì ho raggiunto Alcala dove, per quattro giorni, sono stato molto stanco. Mi sono anche indebitato di tre ducati per venire in aiuto di alcuni poveri molto indigenti. Tutte le persone ragguardevoli della città erano in rivolta contro il corregidor (primo magistrato); ri­messomi sono dunque partito per Granata, senza fare la questua ad Alcala. Dio sa in che miseria i poveri mi attendevano!

Sorella mia in Gesù Cristo, buona duchessa di Sesa, l’elemosina che mi avete fatto gli angeli l’hanno già registrata in cielo, nel libro della vita. L’anello è stato così ben impiegato che con il denaro ricevuto ho fatto vestire due poveri coperti di piaghe ed ho acquistato una coperta. Si, quell’elemosina è alla presenza di Dio ed intercede per voi. Quanto al camice ed ai candelie­ri, li ho posti subito sull’altare a nome vostro. Sarete quindi ricordata in tutte le messe e preghiere che qui si diranno. Nostro Signore abbia la bontà di ricom­pensarvi in cielo di tutti questi benefici!

In sostanza, se si eccettuano i doni in natura, que­sto primo viaggio gli aveva fruttato ben poco per i suoi poveri di Granata. Nella stessa lettera Giovanni di Dio fa allusione ad un viaggio più recente. L’altro giorno, di passaggio per Cordova, ho trovato, nel per­correre la città, una casa in cui regnava la più pro­fonda miseria. Vi erano qui due ragazze i cui genitori, paralitici da dieci anni e malati, dovevano stare a letto.

A vederli cosi poveri e mal curati, mi si è spezzato il cuore: mal vestiti e pieni di insetti, avevano per letto alcuni fastelli di paglia. Li ho soccorsi come ho potuto, ma non secondo il mio desiderio, poiché avevo fretta di andare a trovare il maestro d’Avila per affari. Egli mi ordinò allora di partire subito e di tornare a Gra­nata.

Nella fretta, raccomandai quegli infelici ad alcune persone; ma esse li hanno dimenticati, o non hanno voluto o potuto aiutarli. I miei protetti mi hanno scrit­to una lettera ed ho il cuore infranto per quanto mi dicono… Cosi, buona duchessa, il mio desiderio, se piace a Dio, è di vedervi approfittare di questa occa­sione per fare l’elemosina, che quelle persone hanno persa. Occorrerebbero quattro ducati: tre per quelle poverette, allo scopo di permettere loro l’acquisto di due coperte e due gonne. Un’anima, infatti, vale più di tutti i tesori del mondo; e non è necessario che quel­le ragazze pecchino per cosi poco. L’altro ducato ser­virebbe ad Angulo, il mio compagno, per il suo viag­gio di andata e ritorno a Zafra. Mi aspetto che ritorni con qualche soccorso.

L’intralcio di tutte queste pratiche, viaggi e suc­cessive domande ci svela un uomo che si prodiga sen­za misura, che ottiene molto, ma è sempre tentato di distribuire sul posto, a dei nuovi bisognosi, le somme primitivamente destinate alla casa di carità di Granata.

Si comprende meglio, allora, perché il Padre d’Avi­la, al corrente delle sue generosità incoercibili, gli ordinava di ritornare a Granata al più presto.

 

X. L’OSPEDALE DI VIA DE « LOS GOMELES »

Giovanni di Dio si dedicava da sei anni al servizio dei poveri allorché don Pedro Guerrero fu promosso alla sede arcivescovile di Granata, il 23 novembre 1546. Amico intimo del Padre Giovanni d’Avila, que­sto prelato, grande teologo ed abile controversista, si fece notare nel concilio di Trento. A Granata si mostrò pastore zelante e pio: riformò l’università della città, fece prosperare le istituzioni religiose e, dopo trenta anni di un vescovato pieno di buone opere, morì come un santo, il 2 aprile 1576.

Poco dopo la sua entrata in carica, don Pedro Guer­rero sentì parlare dell’ospedale di Giovanni di Dio e del bene che procurava alla città. Così, appena si pre­sentò un ‘occasione favorevole, vi si recò per una visita approfondita. Non si limitò a considerare lo stato ma­teriale dell’edificio e l’ordine interno del suo funzio­namento; ma volle intrattenersi a lungo con il suo fon­datore. Già informato sul suo spirito e sulla sua condotta, si rese conto da sé che si trattava di un uomo straordinario animato dallo spirito di Dio ed infiamma­to d’amore per i malati e per i poveri. Gli assicurò la sua protezione e, non contento di lodare la sua opera, gli rimise una forte elemosina per il mantenimento ed il miglioramento dell’ospedale.

La visita e l’approvazione del nuovo arcivescovo accrebbero ancora la reputazione della casa di carità di via Lucena. Vi portavano malati da ogni parte. Era un favore esservi ammessi; disgraziatamente, il nume­ro dei posti disponibili era troppo ridotto. I benefat­tori di Giovanni di Dio lo incoraggiavano a procu­rarsi un locale più ampio. Ora che un maggior nume­ro di compagni lo aiutava nei compiti ospedalieri, il progetto diventava realizzabile, ed egli si mise alla ricerca di una casa più ampia.

Ora, verso la fine del 1546, i Carmelitani lasciarono il loro convento situato ai margini di una foresta presso l’Alhambra e all’inizio de « los Gomeles » che scende verso la città, per stabilirsi nelle vicinanze del santua­rio di Nostra Signora de la Cabeza. Giovanni di Dio venne ad esaminare questo convento sconsacrato, in compagnia di Antonio Martin, e lo trovò adatto per l’uso che voleva farne; così iniziò le pratiche neces­sarie per acquistano. Secondo il Padre Saucedo, l’ac­quisto ebbe luogo nei primi giorni del 1547. Giovanni poté realizzarlo grazie al concorso dei suoi benefattori ed in particolare di don Pedro Guerrero, che gli accordò in quell’occasione la somma di 1.500 ducati.

In possesso del nuovo immobile, Giovanni di Dio vi fece effettuare le riparazioni più urgenti ed i lavori necessari per adattare i locali alla loro nuova destina­zione. Al piano terra collocò un’ampia stanza riserva­ta ai viaggiatori ed ai mendicanti, che potevano trascorrervi la notte. Essa aveva nel mezzo un focolare per riscaldarli e, tutt’intorno, dei grandi banchi dispo­sti in modo tale che vi si potessero coricare e dormire. V’erano anche delle stuoie per i meno validi. Al primo piano molte sale furono disposte, destinate ciascuna ad un genere di malati. Senza dubbio Giovanni di Dio fa allusione a questa organizzazione nella sua seconda lettera alla duchessa di Sesa: Del lavoro che ho inizia­to, non posso venire a capo, poiché occupato a rimettere a nuovo tutta la casa, ho ancora molti poveri. Grandi sono le spese che si fanno qui e bisogna provvedere a tutto senza proventi, ma Gesù Cristo vi provvede ed io, io non faccio niente. Vorrei – andare a Zafra ed a Siviglia, ma non posso prima della fine di questo lavo­ro, per paura che venga fatto male…

Disponendo presso la sua corrispondente di un depo­sito di grano ricevuto in elemosina, egli l’avvisa circa l’invio di Angulo, per vendere il grano, poiché, egli dice: ho grande bisogno di denaro per il lavoro in corso e per pagare alcuni debiti che mi cavano gli occhi. Poi, ricordandosi delle nuove elargizioni otte­nute dalla duchessa, in seguito alla sua lettera prece­dente, aggiunge: Sorella mia in Gesù Cristo, che Nostro Signore vi renda in cielo l’elemosina dei quattro duca­ti che avete rimesso ad Angulo, per quelle poverette e le spese del viaggio…

Mia amatissima sorella, buona duchessa di Sesa, inviatemi un altro anello o qualche altra cosa che io pos­sa impegnare. Il primo anello è stato cosi bene impie­gato che voi lo possedete già in cielo. Se l’umilissima governante e tutte le signore e signorine della vostra casa hanno qualche piccolo oggetto d’oro o d’argento, che me li mandino. Io mi ricorderò di loro. Buona duchessa, mi rammento spesso dei regali che mi avete fatto a Cabra e di quei buoni panini senza crosta che mi davate da distribuire. Che Dio vi accordi il cielo e vi faccia partecipe di tutti i suoi beni! Amen Gesù.

Quando i lavori di restauro e di adattamento nel nuovo ospedale di via de « los Gomeles » furono ter­minati, i malati della casa di carità di via Lucena vi furono condotti o trasportati. Molti testimoni al proces­so di beatificazione di Giovanni di Dio, specialmente Alonso Lopez Pocasangre, falegname ottantenne, at­testarono che Giovanni di Dio, Antonio Martin e Pie­tro Velasco vi trasportarono sulle spalle i poveri malati invalidi, fino ai letti preparati in precedenza. Vi tra­sportarono anche, allo stesso modo, i letti, i materassi, i mobili, gli utensili e gli efletti.

Essendo aumentato il numero dei posti, arrivò un maggior numero di malati e di poveri. Cosi Giovanni di Dio può scrivere alla duchessa di Sesa: Più pesanti da un giorno all’altro sono i miei debiti e più numero­si i miei poveri, dei quali molti si presentano mal vesti­ti, mal calzati, coperti di piaghe e di pidocchi. Ho bisogno di uno o due uomini, soltanto per scottare questi insetti in un catino d’acqua bollente. E questo lavoro durerà tutto l’inverno, fino al mese di maggio. Voi lo vedete, sorella mia in Gesù Cristo, le mie diffi­coltà aumentano ogni giorno e sempre più.

Ecco come Giovanni di Dio descrive il suo nuovo ospedale in una lettera indirizzata, un po’ più tardi, a Gutierre Lasso de la Vega:

La città è grande e, siccome fa molto freddo in questi periodi invernali, i poveri affluiscono in questa casa di Dio. Tra malati, sani, persone di servizio e viaggiatori, vi sono più di centodieci persone. E’ un ospedale generale; cosi, vi si riceve di solito ogni spe­cie di malati e di persone. Vi sono paralitici, monchi, eczematosi, muti, alienati, tignosi, vecchi e molti bam­bini, senza parlare dei molti viaggiatori e passanti che qui si fermano ed ai quali si dà il fuoco, l’acqua, il sale e gli ùtensili necessari per preparare il cibo. E per tutto questo non vi sono entrate, ma Gesù Cristo prov­vede a tutto. Ogni giorno occorrono quattro ducati e mezzo e talvolta cinque, per fornire la casa di pane, carne, pollame e legna, senza contare le spese extra per medicine ed abiti. Quando le elemosine non sono suffi­cienti per provvedere a tutte queste necessità, io pren­do a credito. Talvolta, ci capita anche di digiunare.

Ecco come mi trovo qui indebitato e prigioniero per Gesù Cristo solo. Devo più di duecento ducati per camicie, mantelli, scarpe, lenzuola, coperte e molte altre cose necessarie in questa casa di Dio, e per il cibo dei bambini che vi vengono abbandonati.

Così, mio carissimo ed amatissimo fratello in Gesù Cristo, al pensiero dei miei pesantissimi debiti, mi capta spesso di non osare di uscire dalla casa. Ed alla vista delle sofferenze di tanti poveri, miei fratelli e miei simi­li, ai cosi grandi bisogni corporali e spirituali, mi sento tanto triste di non poterli soccorrere. Però ripon­go la mia fiducia in Gesù Cristo soltanto; egli mi libererà dai debiti, poiché conosce il mio cuore… Cono­sco il vostro grande amore per Nostro Signore e la vostra pietà per i suoi figli poveri, il che mi spinge ad esporvi i loro ed i miei bisogni…

E dopo alcune considerazioni personali di caratte­re religioso, espone in questi termini il servizio che attende da don Gutierre Lasso:

Fratello mio in Gesù Cristo, io mando per portar­vi questa lettera questo giovane messaggero. Ecco il perché: un giovane nativo di Malaga è deceduto in questo ospedale e gli ha lasciato in eredità alcuni beni, presi da un’eredità consistente in vigneti ed in rendite… Desidero che questi beni vengano venduti, poiché ho bisogno di denaro ed il reddito annuo è minimo. Per amore di Nostro Signore, se conoscete qualcuno che voglia acquistarli, vendeteli subito, a patto che nes­suno vi perda, né l’acquirente né i poveri, e che tutto avvenga rapidamente. Il latore della presente se ne tornerebbe subito con il denaro. E’ un uomo che gode della mia fiducia. Egli ha con sé la mia procura ed i documenti riportati da quel paese… Per amore di nostro Signore, vi raccomando quest’affare.

Con il denaro chc esso renderà, dobbiamo acqui­stare degli abiti per i poveri, che pregheranno Dio per l’anima del loro bene fattore. Dovrò, inoltre, pagare la carne e l’olio; i fornitori non intendono più farmi cre­dito, poiché devo loro molto. Io li faccio pazientare dicendo che quanto prima mi porteranno un po’ di denaro da Malaga… Scusatemi se vi causo tante fatiche; esse, un giorno, saranno la vostra gloria in cielo.

 

XI. LE OPERE SOCIALI DI GIOVANNI DI DIO

Nostro Signore aveva dotato il suo servo di un’abbondante ed intensa carità, da cui scaturi­vano delle opere meravigliose, tanto che alcuni spiriti superficiali lo consideravano come un prodigo ed un dissipatore. Essi non capivano che Il Signore l’aveva introdotto nella cella del vino. Qui, lo aveva colmato di carità e l’ave­va inebriato del suo amore tanto da non poter rifiutare nulla à chi gli chiedeva in nome di questo amore, ritenendosi come debitore di ben altro.

Così viveva nella tensione, propria dei santi, di donarsi in mille modi, per amore di Colui che si era mostrato tanto magnanimQ e largo nei suoi confronti. Gli esseri spirituali sono cosi’ fatti: arricchiti dei beni del cielo, si ritengono tanto fortunati e ricchi che, se­condo loro, sono sempre obbligati a dare a tutti, illu­strando cosf il detto della Scrittura: V’è più gioia nel dare che nel ricevere (Atti, ’20, 35).

Dopo aver accordato alcune ore al sonno, Giovan­ni di Dio iniziava la sua giornata con la preghiera e l’assistenza alla prima messa del mattino.

 

Poi, allo spuntar del giorno, da un angolo dal quale tutti quelli dell’ospedale potessero sentir­lo, gridava: Fratelli miei, rendiamo grazie a Nostro Signore! Anche gli uccellini lo fanno, e recitava le quattro preghiere prescritte da no­stra Santa Madre Chiesa (il Credo, il Pater, l’Ave Maria e la Salve Regina). Subito dopo, il cappellano si avvicinava ad una finestra, in modo che tutti potessero udirlo, ed esponeva i principi della dottrina cristiana, poi poneva del­le domande. Vi rispondeva chi poteva. Nella sala comune del piano terra, un altro sacerdote faceva la stessa cosa, rivolgendosi ai viandanti. Giovanni di Dio veniva poi a salutarli, prima della loro partenza. A coloro che erano inai vestiti, egli distribuiva degli abiti. Alle persone giovani, in buona salute, egli diceva: Corag­gio, fratelli miei! Andiamo a servire i poveri di Gesù Cristo! Con loro si recava nella vicina foresta, lungo il Darro, a raccogliere della legna; e ciascuno ritornava con un fascio per i poveri. Per molto tempo egli ebbe cosi’ dei giovani che, con entusiasmo e buona volontà, portavano ogni giorno della legna.

Ritornando dalla foresta, Giovanni trovava molte persone ad attenderlo. Seduto in mezzo a loro, ascol­tava ognuno con pazienza mentre esponevano le pro­prie necessità e non mandava via nessuno senza averlo confortato con un dono o una parola. Egli faceva l’ele­mosina a chiunque lo implorasse in nome di Gesù Cri­sto. Talvolta, alcuni gli dicevano: Fate attenzione, co­stui chiede senza necessità. – Egli non m’inganna, ri­spondeva, la cosa riguarda lui; io gli do per amor di Dio.

Tutti i poveri e i bisognosi venivano da lui, ed egli li soccorreva tutti: vedove, orfani, liti­ganti, soldati licenziati, poveri contadini. Nes­suno veniva a lui senza che il Signore gli ac­cordasse poco o molto, per rimediare a quella nuova necessità. Quando non gli rimaneva più nulla, scriveva dei biglietti di raccomandazione ai benefattori dei quali conosceva la generosità.

Non contento di essere il buon Samaritano per co­loro che gli si presentavano spontaneamente, Giovanni di Dio cercava i poveri nascosti e ritrosi, le ragazze poste negli orfanotrofi, le donne sposate che soffrivano in segreto, le religiose e le « beate » povere e, con molta attenzione e carità, procurava loro il necessario.

In favore di queste ultime, intercedeva presso le signore ricche ed influenti. Egli stesso acqui­stava loro le derrate indispensabili, per evitar loro di uscire e permettere di conservare il rac­coglimento nella solitudine. Dopo aver dato loro il necessario, si sforzava di sottrarle all’ozio, cercando presso i negozianti, per le une della seta da lavorare, per le altre della lana, del lino, della stoffa da filare. Assicuravano cosf il loro mantenimento. Sedendosi poi un poco, le inco­raggiava al lavoro e rivolgeva loro una breve esortazione spirituale per persuaderle ad amare Dio e la virtù, adducendo in merito delle ragio ni tanto convincenti, quanto semplici, che vivo­no ancor oggi nel ricordo di coloro che le han­no sentite. Inculcava loro anche la speranza che agendo così, non soltanto avrebbero ottenuto la grazia del Signore, ma il necessario non sarebbe mancato loro mai, tanta era la fede che aveva in questo detto del Vangelo: « Cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto vi sarà dato in soprappiù » (Mt. 6, 33).

Beninteso, contro queste iniziative non mancarono i critici.

Alcuni di essi « urlavano » e « mormoravano »:

tutto questo è un briciolo di follia che gli è rimasto dal tempo in cui percorreva le strade come demente. Senza indugio, queste opere ca­dranno: esse non possiedono delle basi! Nello stesso tempo essi lo tenevano d’occhio, lo spiavano nelle case in cui entrava, si informavano circa le sue parole ed i suoi atti. Essi lo osser­vavano anche di nascosto. Ma considerando la sua condotta esemplare, le sue conversazioni edi­ficanti e le sue azioni lodevoli, essi rimanevano sorpresi, confusi e condannati al silenzio. Alcu­ni si dimenticavano del loro progetto, lo glori­ficavano e gli offrivano l’elemosina. Inoltre, uno di essi, Simone d’Avila, divenne ‘suo degno disce­polo, come è già stato detto.

Nella sua attività sociale, come in quella ospedalie­ra, Giovanni di Dio aveva quale scopo principale la gloria e l’onore di Nostro Signore.

Mai procurò un bene temporale a qualcuno senza fornirgli allo stesso tempo un rimedio per l’anima, servendosi – per questo – di sante e calde raccomandazioni. Egli avviava, d’altion­de, tutti sulla via della salvezza, insegnando più con l’esempio che con le parole il dovere di prendere la propria croce e di seguire Gesù Cristo.

E a questo proposito, il biografo riporta un aned­doto riferitogli da una persona degna di fede. Eccolo, riassunto in poche parole.

Una giovane signora, molto bella, era venuta a Gra­nata per un processo di famiglia, che minacciava di toglierle ogni bene. Giovanni di Dio la incontrò pres­so un avvocato, in occasione di una consultazione. Dopo aver considerato il suo atteggiamento e il suo comportamento, gli sembrò che fosse in grande peri­colo di offendere Dio. Prendendola in disparte, la in­terrogò. Costei lo mise al corrente della propria situa­zione e miseria. Giovanni di Dio le propose una solu­zione vantaggiosa sotto tutti i punti di vista. Vi farò ammettere, le disse, in una casa dove vi sono molte signore; vivrete in loro compagnia, pur avendo un ap­partamento a parte, dove vi installerete a vostro gusto e secondo la vostra condizione. Io mi incarico di assi­curare il vostro mantenimento e di seguire il vostro processo con sollecitudine. Vi chiedo soltanto di aver cura del vostro onore e di non offendere Dio. La signora acconsentf di buon grado. Giovanni di Dio mantenne le sue promesse. Di tanto in tanto andava a trovarla per tenerla al corrente delle sue cose. Ora, una sera, un po’ tardi, mentre girava nei dintorni per la questua, entrò nell’appartamento della signora. Qua­le non fu la sua sorpresa vedendola vestita con una ri­cercatezza insolita! Senza nutrire alcun sospetto, ap­profittò dell’occasione per parlarle dei pericoli del mon­do e del conto da rendere al giudizio divino. La sua parola fu tanto avvincente e persuasiva, che strappò le lacrime a quella forestiera. Dopo la partenza di Giovanni di Dio, un giovane gentiluomo – che si era nascosto al suo arrivo ed aveva udito tutto -chiese perdono alla signora per l’appuntamento propo­stole. Da quel giorno il gentiluomo cambiò completa­mente condotta e divenne un modello di onestà per tutta la città. E’ da lui indubbiamente – o da uno dei suoi congiunti – che de Castro apprese questa con­versione, dovuta all’influenza di Giovanni di Dio.

Giovanni dedicava i suoi pomeriggi a diverse opere di carità e di misericordia e, la sera, quando ritornava molto tardi in ospedale con il ricavato della questua, per quanto grande fosse la sua stanchezza, non andava mai a coricarsi senza aver visitato tutti i malati – ia­scuno in particolare. Egli chiedeva loro come avevano trascorso la giornata, come stavano, di che cosa ave­vano bisogno. Li consolava e testimoniava a tutti il più vivo interesse. In breve, i suoi modi affabili sol­levavano i corpi e al tempo stesso ricreavano gli spi­riti. Per terminare, faceva un giro nelle vicinanze della casa e nei dintorni e prodigava soccorso e conforto ai poveri timidi che l’attendevano nell’ombra.

 

XII. UN APOSTOLATO DIFFICILE MA FRUTTUOSO

Chiamato particolarmente da Dio a praticare le opere di Marta (occupazione tipica della maggior parte del suo tempo), Giovanni di Dio non di­menticava quelle di Maria. Tutto il tempo che gli restava, lo dedicava all’orazione ed alla me­ditazione… chiedendo a Nostro Signore il per­dono e la capacità di rimediare ai bisogni che scorgeva… Egli sapeva che l’orazione è il fonda­mento, l’ancora di ogni vita spirituale, il mezzo per condurre a buon fine tutti i nostri affari con Dio e senza il quale tutto il resto apporta poco appoggio.

Giovanni di Dio era, in particolare, molto devoto alla passione di Gesù Cristo, fonte della nostra reden­zione. Egli voleva che ciò che aveva recato profitto a lui, recasse profitto anche al suo prossimo. Ecco perché il venerdì, giorno in cui concedeva al suo corpo soltanto un po’ di pane ed acqua, al punto da esserne estenuato, aveva l’abitudine di recarsi alla casa pub­blica delle donne per cercare di strapparne qualcuna agli artigli del demonio.

Entrando, egli seguiva la donna che gli sembrava la più perduta, la meno ben disposta ad uscire da lì, e le diceva: Figlia mia, tutto ciò che ti darebbe un altro, te lo darò io ed ancor più. Ti prego soltanto di ascoltare due parole, qui nel tuo appartamento. Entrandovi con lei, le ordi­nava di sedersi, mentre egli si gettava in ginoc­chio per terra davanti al suo crocifisso. Comin­ciava allora ad accusarsi dei suoi peccati e pian­gendo amaramente, ne implorava il perdono di Nostro Signore con tali accenti che provocava di solito anche in lei contrizione e dolore dei propri peccati. La disponeva in tal modo all’at­tenzione. Iniziava allora, per commuoverla, a recitare la Passione di Gesù Cristo, poi le diceva:

Considera, sorella mia, quanto sei costata a No­stro Signore ed osserva ciò ch’egli ha sofferto per te. Non vorrai essere la causa della tua persona­le perdizione. Considera che vi è una ricompensa eterna per i buoni ed un castigo eterno per co­loro che vivono nel peccato come te… Non pro­vocare più il Signore per timore che Egli ti abbandoni completamente come lo meritano i tuoi peccati, e ti lasci cadere come una pietra dura e pesante nel più profondo dell’inferno. Il Signore gli ispirava tali parole ed altre ancora. Sebbene alcune, ostinate nei loro vizi, non lo prendevano in alcuna considerazione, altre, con l’aiuto di Dio, si pentivano, si piegavano alla penitenza e gli dicevano: Fratello mio, Dio sa che uscirei volentieri da qui per servire i poveri nell’ospedale, ma sono indebitata e non mi lasceranno uscire. Giovanni rispondeva con gio­vialità: Figlia mia, abbi fiducia nel Signore. Egli che ha illuminato la tua anima, ti darà il rime­dio per il corpo. Coni prendi bene che dovrai servirlo e non più offenderlo e formula un fer­mo proposito di morire piuttosto che tornare al peccato. Attendimi qui, giacché tornerò senza indugio.

Subito, si affrettava ad andare alla ricerca di signore di alto ceto, sulle quali sapeva di poter contare, e diceva loro: Sorelle mie in Gesù Cri­sto, sappiatelo: c’è una prigioniera del demonio, aiutatemi, per l’amore di Dio, a redimerla e strappiamola a quella miserabile schiavitù. Mes­se al corrente di queste miserie, quelle persone erano così caritatevoli, che raramente egli se ne andava senza aver ottenuto da loro la som­ma necessaria. Quando, però, non la trovava o vi era urgenza, si impegnava per iscritto a pa­gare il debito della donna nei confronti del me­diatore…

Egli conduceva subito queste donne all’ospedale dove venivano curate le altre persone, abban­onatesi in precedenza allo stesso traffico, e mostrava loro le conseguenze infelici della loro perseveranza in quel vile mestiere… Poi, si sfor­zava di conoscere le loro intenzioni. Alcune, più illuminate dal Signore sul valore della vita, volevano riflettere e far penitenza. Egli le con­duceva al monastero delle « pentite » e dava loro il necessario. Per altre, meno decise a « raddrizzare il timone » e piuttosto inclini al matrimonio, cercava la dote e le maritava. Ne maritò molte. Così, soltanto con le elemosine riportate allora dal suo viaggio a Corte, fece celebrare le nozze di sedici convertite alla fede, come lo testimoniano oggi alcune di esse ancora in vita, rimaste vedove ed oneste.

Esercitando questa delicata opera di carità, Giovan­ni di Dio subì molte mortificazioni e dolori e mani­festò l’eroica pazienza che Nostro Signore gli aveva ac­cordato. Così, secondo la testimonianza di de Castro, quando Giovanni strappava una donna a quell’am­biente, le ostinate, le indurite protestavano, lo diffa­mavano, l’ingiuriavano, l’accusavano di agire con cat­tive intenzioni. Egli non rispondeva, e sopportava tut­to con pazienza. Inoltre, se qualcuno riprendeva que­ste donne, rimproverava loro la cattiveria, la scortesia, Giovanni replicava: « Lasciatele stare, non dite loro niente; esse mi conoscono, sanno chi sono e mi trat­tano come merito ».

Un aneddoto molto curioso, per altro più da am­mirare che da imitare, raccontato prolissamente da de Castro e qui compendiato, ci mostra il suo zelo ardente per la salvezza di queste anime riscattate, egli lo sapeva, ad un prezzo inestimabile.

Un venerdì, egli era entrato in una casa pubblica. Subito quattro donne, che si erano messe d’accordo, gli si avvicinarono spontaneamente per farlo partecipe della loro decisione di correggersi in questi termini:

Siamo di Toledo. Se ci conducete là potremo sistemare le nostre cose, e vi promettiamo di abbandonare allora la nostra vita cattiva. Giovanni di Dio accettò subito, preparò la cavalcatura per queste persone e tutto ciò che era necessario al viaggio poi, insieme a loro, si pose in cammino, andando a piedi, accompagnato da Angulo, un servo dell’ospedale, uomo saggio e di buo­na condotta, morto da poco, commenta de Castro, e dal quale aveva avuto questo racconto.

Ora, mentre camminavano, le persone ed i vian­danti, alla vista di quei due uomini in simile compagnia, li schernivano, li fischiavano… Di fronte a tali insulti, Giovanni di Dio taceva e soffriva con molta pazienza. Angulo, al contrario, si irritava e diceva a Giovanni:

A che pro questo viaggio in simile compagnia, causa di tanti oltraggi? Ma quando, passando da Almagro, una di esse fugge ed arrivando a Toledo altre due scappano, il servo, con maggior veemenza, comincia ad interrogarlo con asprezza: Che follia, questo viaggio! Non ve l’avevo detto? Non ci si può fidare di questa razza depravata. Il santo uomo rispondeva con dol­cezza: Fratello Angulo, tu non rifletti. Vediamo. Se vai a Motril a cercare quattro panieri di pesce e per via tre si guastano, tu li gétti indubbiamente, ma getti for­se quello buono? Siccome delle quattro donne ce ne rimane una che persevera nelle sue buone intenzioni, abbi pazienza e torniamo con lei a Granata. La mia speranza è in Dio; se costei rimane, non avremo fatto un viaggio inutile ed il nostro guadagno non sarà me­schino. E fu così; grazie a Giovanni di Dio quella donna sposò un uomo dabbene e visse in modo esemplare.

Se normalmente le donne così strappate alla casa pubblica e sposate, testimoniavano la loro riconoscenza a Giovanni di Dio, una di loro si mostrava molto indi­screta ed esigente. Non appena aveva bisogno di qual­cosa, veniva a chiederla e, per appagare il suo deside­rio, Giovanni di Dio si sforzava di darle soddisfazione. Il fatto si ripeteva spesso. Ora, una volta che lei chie­deva ancora, egli dovette confessare la propria comple­ta miseria, pregandola di ritornare un altro giorno. Ma lei, impaziente, si irrita e comincia ad insultarlo dicen­do: Uomo cattivo! Santo ipocrita! – Avrai due reali se vai in piazza a divulgare ciò ad alta voce – si affrettò lui a risponderle. E siccome quella continuava con alte grida a diffamano, egli disse: Presto o tardi bisogna che ti perdoni; perciò ti perdono subito.

Questa pazienza produsse un buon frutto, per­ché la stessa donna, il giorno dei funerali del santo, camminava in mezzo alle altre che egli aveva strappato alla cattiva vita, e alzando la voce lungo le strade, si lamentava, confessava i propri grandi torti ed errori, ed esaltava gli immensi favori di Giovanni di Dio.

Infine, questo apostolo della carità era cosi umile che amava confessare e raccontare i pro­pri errori e non parlava mai delle buone azioni e delle lodi ricevute. Egli si serviva anche del­l’astuzia per volgere le conversazioni a propria confusione. Ne risultava una grande edificazione per il prossimo; ma fuggiva ogni vanagloria, come tigna avvelenata della vita spirituale.

 

XIII. LA OUESTUA ALLA CORTE DI SPAGNA

Le spese richieste per tutte le opere intraprese da Giovanni di Dio erano considerevoli e, non bastandovi più le elemosine raccolte in città, egli aveva fatto ri­corso ai signori dell’Andalusia. Costoro lo aiutarono facendo del loro meglio. Fin da giovane, il duca di Sesa si occupò dei poveri del suo ospedale e a più ri­prese rimborsò tutti i suoi debiti. Inoltre, in occasione di tutte le grandi feste nel corso dell’anno, gli faceva pervenire camicie, abiti e scarpe per vestire e calzare i bisognosi. La duchessa sua moglie agiva allo stesso modo, come abbiamo notato nelle lettere citate. Il ca­valiere Guttierre Lasso, Rodrigo Diaz de Vivar, il duca di Cabra e molti altri si mostravano altrettanto generosi nei suoi confronti. Nondimeno, tutti questi soccorsi si rivelarono inferiori ai bisogni sempre cre­scenti.

Ora, secondo de Castro, Giovanni di Dio viveva nell’angoscia, da un lato per non poter venire in aiuto ai postulanti, ai poveri, e dall’altro, per essere incapace di pagare i suoi debiti. A suo avviso, lo stato di tor­mento e di imbarazzo sembrava fosse inerente alla sua amministrazione. Da qui a dedurre l’incapacità a con­tinuare la sua opera e la necessità di rinunziarvi, ci correva poco. Questa tentazione insinuante sembra peraltro sia stata favorita da uno strano individuo che gli aveva proposto di assumersi il peso del suo ospe­dale e di soddisfare i suoi creditori, per permettergli di impegnarsi in un’altra impresa, più alla sua portata. E’ anche vero che dei benefattori competenti, e in par­ticolare l’arcivescovo don Pedro Guerrero, molto con­vinti del valore e del saper fare di Giovanni di Dio, gli consigliavano un viaggio a Corte, per ottenere l’ap­poggio del principe Filippo, reggente di Spagna in as­senza del padre Carlo Quinto, ed avere dai grandi che gli erano accanto importanti elargizioni.

Di fronte a questa alternativa, non sapendo che decisione prendere, ricorse ancora una volta al maestro Giovanni d’Avila, esponendogli in modo dettagliato le sue preoccupazioni. La sua lettera, come le precedenti, ci è nota solo in base alla risposta di Giovanni d’Avila.

Eccola:

Ho ricevuto la vostra lettera. Non crediate che la sua lunghezza mi irriti; per chi ama molto, nessuna let­tera può sembrare lunga. Rendetevi intanto tale che io sia soddisfatto delle vostre notizie e se volete non affliggermi, sforzatevi di operare bene. E’ con gli atti e non con le parole che si testimonia l’affetto. Consi­derate, fratello mio, quanto sono costate a Nostro Signore le grazie che vi ha accordato e quale cura do­vete avere di una gemma acquistata a prezzo del suo sangue. Cosa sarebbe dunque se lasciaste calpestare dai porci questa perla che Lui vi ha dato per ren­dervi simile agli angeli? Cosa sarebbe se perdeste questa bellezza di cui ha ornato la vostra anima per renderla più piacevole e più bella del sole stesso? Piut­tosto morire che essere sleale verso Nostro Signore! Ma per restare fedele, bisogna mostrarsi prudente, co­me ha detto Nostro Signore perché, per mancanza di prudenza, l’uomo commette mille infrazioni che di­spiacciono a Nostro Signore e Lo obbligano a casti­garlo. Cosi, un solo errore deve servire da lezione per la vita. Un cane bastonato non ci ritorna due volte, né un uccello nella gabbia da cui è scappato. I saggi traggono vantaggio dagli errori degli altri e gli stolti dai propri. Che diremo di coloro che non si correggono dopo averne commessi molti? Essi meritano l’abbandono del Signore e la propria perdizione. Chi ha ricevuto dei doni da Dio è tenuto a stare attento ed a lavo­rare per la Sua gloria, perché Egli l’ha strappato all’in­ferno e gli ha dato la sicurezza del cielo. Più andiamo avanti nella vita e più dobbiamo sforzarci di diventare migliori; perché poco ci servirebbe aver bene iniziato, se finiamo male. Che serve ad un cacciatore l’aver preso un uccello con molta fatica, se poi lo lascia fuggire per ‘non più rivederlo?

Nostro Signore è più offeso nel vedere che un’ani­ma, acquistata e purificata da Lui, lo abbandona per darsi al demonio, che degli errori di tante altre, che non gli appartengono. Del pari, il demonio si rallegra maggiormente di guadagnare delle anime ferventi, che di dominare sulle cattive di sempre. Così, fratello mio, dobbiamo avere gli occhi volti verso lo stendardo del­la Croce, per non dare questo dispiacere a Nostro Si­gnore e questo piacere al demonio di abbandonare la strada che abbiamo cominciato a seguire e della quale ci resta tanto poco da percorrere.

Implorate di tutto cuore Nostro Signore, non dimen­ticate di pregare e di ascoltare la messa; ve ne troverete bene. Osservate dove mettete i piedi per assistere gli altri senza danneggiarvi. Che la vostra anima non ces­si di nutrirsi, perché se camminate affamato, scorag­giato e malato, a che vi servirà tutto il bene prodigato agli altri? Nostro Signore ci ha detto infatti: « Che serve all’uomo guadagnare l’universo se perde la sua anima?)? (Mt. 16, 26). Non piacerete mai tanto a Dio quanto conservando la vostra anima pura in sua pre­senza, e la più grande opera di misericordia da com­piere è di conservare la vostra anima benaccetta a sua Maestà. Così, vegliate e pregate secondo la parola di Gesù Cristo, per eludere le sorprese del demonio: egli ci tende mille tranelli per farci cadere.

Il progetto di recarvi a Corte per chiedere l’elemosi­na ai signori di Castiglia, allo scopo di non indebitarvi qui, mi sembra eccellente. Ma state attento, là e al­trove, a servire Nostro Signore al fine di possedere un giorno la gloria, per la quale vi ha creato. Che Egli sia sempre il vostro sostegno e la vostra forza! Amen.

Quel personaggio disposto a pagare i vostri debiti ed a rendervi cosi libero per un altro compito, doveva essere il demonio sotto forma umana. Cercava di in­gannarvi e di persuadervi che potevate, senza offendere Dio, abbandonare la strada per la quale egli vi ha chia­mato. Non per nulla san Paolo ha detto: « Che cia­scuno resti fedele alla chiamata che ha ricevuto da Dio! » (Ef. 4, 1). Se Dio vuole che lo serva come ca­meriere, il voler guardare i maiali sarebbe un peccare contro di lui. Dovrei renderGli conto di tutto ciò che avrei potuto guadagnare in quell’altra occupazione. Cosi, fratello mio, se un essere risplendente, che si defi­nisce angelo di Dio, vi apparisse ed ordinasse di rinun­ciare alla vostra abituale occupazione, ritorcetegli che è un demonio e che non volete per nessun conto abban­donare la strada su cui Dio vi ha posto, poiché il Van­gelo ce lo insegna: « Chi persevererà fino alla fine sarà salvo » (Mt. 24, 13). Leggete e rileggete questo versetto e che Dio vi guardi da ogni male. Amen.

Per il momento non ho abiti da inviarvi, ma dirò delle messe per voi: esse vi copriranno meglio.

A prima vista, ci si potrebbe meravigliare che il maestro Giovanni d’Avila si dilunghi tanto sulle esi­genze di una vita spirituale vera e sulle precauzioni da prendere per preservarla da ogni insidia, mentre risponde assai brevemente a due angosciosi quesiti di Giovanni di Dio. Non vuole egli, una volta di più, rammentargli in cosa consiste l’essenziale della vita cristiana, la condizione assolutamente necessaria di tut­te le altre attività, fossero pure molto importanti? La fiducia e la fedeltà date da Giovanni di Dio al suo caro maestro erano degne di questo schietto linguaggio. Egli non aveva esposto i propri dubbi e le proprie ten­tazioni per essere adulato, ma per conoscere la volon­tà di Dio e camminare nell’obbedienza. Fornito di di­rettive tanto nette e tanto chiare, Giovanni di Dio senti un nuovo vigore e decise di dedicarsi al servizio dei po­veri con la più viva determinazione fino alla morte.

Un fatto, ad un tempo doloroso e confortante, ven­ne a rinforzare l’impressione prodotta da questa lettera su Giovanni di Dio: la morte del suo confessore del­l’epoca, il Padre Domenico de Alvarado, dell’Ordine di N.S. della Mercede (Mercedari), amico ed emulo di Giovanni d’Avila. Seguendo le sue esequie, il 6 aprile 1548, Giovanni di Dio esclamava testimoniando le sue buone opere: Padre Domenico, voi godete già della visione di Dio, in possesso della ricompensa alle vostre fatiche. Queste sono terminate, ma la vostra gloria non avrà fine. Come siete felice per aver si bene impiegato la vostra vita! Ricordatevi di questo poveretto che vi deve tanto.

Subito dopo questo 6 aprile 1548, Giovanni di Dio prese i provvedimenti per questo lungo viaggio a Corte, che allora era a Valladolid. De Castro precisa:

Lasciò nell’ospedale il suo amico e compagno Antonio Martin, per vegliare sui poveri fino al suo ritorno.

Poi si mise in viaggio a piedi, come di consueto, a capo nudo e scalzo.

In linea d’aria, 500 Km. separano Granata da Val­ladolid; ma l’itinerario scelto da Giovanni di Dio dove­va, secondo José Cruset, superare i 700 Km.

De Castro non ci dice nulla circa il viaggio d’andata. Sappiamo però che Giovanni di Dio passò per Toledo e vi si fermò alcuni giorni. Durante questo periodo sa­rebbe stato ospite di donna Leonor de Mendoza, paren­te prossima della sua benefattrice, la duchessa di Sesa. Questa dama gli fece grandi elemosine che, uni­te al frutto delle sue questue, gli permisero di fon­dare un piccolo asilo notturno di cui ci parla il p. Gabriele Russotto nell’opera L’Ordine ospedaliero di Giovanni di Dio, Roma, p. 18 3. Da Toledo, anziché raggiungere Valladolid passan­do per Madrid, che è la strada più breve, Giovanni di Dio si dirige verso Salamanca, dove la sua presenza si protrae per alcuni giorni. Infatti, al processo di beati­ficazione di Giovanni di Dio, un testimone, Pedro Her­nandez di Salamanca, afferma di averlo conosciuto in quella città, 70 anni or sono: Egli percorreva le strade e chiedeva l’elemosina dicendo: « Fate del bene a voi stessi! ». Ciò che raccoglieva lo dava ai poveri dell’ospe­dale San Bernardo. Vi si recava lui stesso per curare i malati, per pulirli e carezzarli, col volto sorridente ed allegro. Molte persone ed il testimone stesso accorreva­no all’ospedale, soltanto per vedere l’affetto con ciii Giovanni curava i sofferenti. Altri due testimoni della città, Jeronimo Hernandez Franco e Juan de Prado for­nirono delle testimonianze analoghe, e quest’ultimo ag­giunge che alla partenza di Giovanni di Dio per Valla­dolid, molti ne soffrirono, ed i poveri gli assegnarono il nome di « Padre dei Poveri ».

Da Salamanca a Valladolid ci sono poco più di 100 Km. De Castro non ci dice nulla su questa terza parte del viaggio; ma si può affermare con verosimiglianza che Giovanni arrivò a Corte verso la fine di maggio, o i primi di giugno 1548. A quell’epoca, Carlo Quinto si trovava in Germania, e continuava le trattative con i principi protestanti, sforzandosi di riconciliarli con la Chiesa cattolica e di consolidare l’impero. Restavano a Corte il principe, presunto erede e reggente di Spa­gna, di 21 anni, sua sorella, l’infante Maria, promessa all’arciduca Massimiliano d’Austria, e la più giovane, l’infante Giovanna, futura sposa del principe reale del Portogallo.

Avvisata da sua figlia, la duchessa di Sesa, benefat­trice e corrispondente di Giovanni di Dio, dell’arrivo di quest’ultimo a Valladolid, donna Maria de Mendoza considerò come un grande favore l’alloggiano in casa sua e provvedere ai suoi bisogni. Questa dama, vedo­va del grande commendatore Francisco de los Cobos, godeva di una grossa fortuna, ma si faceva notare per le sue virtù e la sua carità verso i bisognosi. Ella fon­dò ospedali, dotò conventi bisognosi e distribuì, nel corso di tutta la sua vita, elemosine quotidiane propor­zionate alla propria ricchezza. Giovanni di Dio rice­vette delle elargizioni, tanto da questa signora che da altre persone della città, e si mise subito a soccorrere i poveri del posto. Immediatamente, si trovò tanto occu­pato come a Granata.

Da parte sua, il conte di Tendilla, don Luis Hurtado de Mendoza, figlio di donna Maria de Mendoza, giova­ne signore intelligente e virtuoso, in grazia a Corte, si affrettò a introdurre Giovanni di Dio a palazzo e a presentarlo al principe reggente Filippo. Il postulante, rivolgendosi al principe con tutta semplicità, gli disse -       secondo de Castro:

Signore, ho l’abitudine di chiamare tutti gli uomini « fratelli miei in Gesù Cristo », ma voi siete mio re e mio signore ed io sono tenuto ad obbedirvi. Come volete che vi chiami? – « Co­me vorrete! » – Vi chiamerò dunque « buon principe ». Dio voglia accordarvi un regno pro­spero, la gràzia di vivere e di morire bene, af­finché possiate – un giorno – godere della vita eterna!

Queste parole, sgorgate dal fondo del cuore, furo­no tanto gradite al principe che si abbassò per rialzar­lo, lo prese per mano e l’introdusse nel suo studio. Gio­vanni espose allora in modo semplice lo scopo del suo viaggio e lo stato del suo ospedale. Molto interessato, il principe Filippo gli pose diversi quesiti e, soddisfatto delle risposte, gli fece rimettere un’offerta degna del suo nome.

Giovanni di Dio visitò, quasi ogni giorno, anche le infanti, sorelle del principe reggente, e ricevette da loro e dalle loro dame d’onore molti doni e gioielli. Ora, tutte queste elemosine egli le distribuiva ai biso­gnosi di Valladolid, con sorpresa di coloro che erano al corrente dello scopo del suo viaggio. Perciò gli dice­vano: Fratello Giovanni di Dio, perché non conservate il denaro per i vostri poveri di Granata? – Fratelli miei, rispondeva lui, dare qui o dare a Granata, è sempre fare del bene per Dio, che si trova in ogni luogo.

Per fortuna, donna Maria de Mendoza, il conte di Tendilla e gli altri suoi benefattori, persuasi che non vi erano altri mezzi per impedirgli di distribuire sul posto le elemosine ricevute e tornare a Granata a mani vuote, decisero di comune accordo di offrirgli, a titolo di dono, delle lettere di cambio pagabili soltanto a Granata. Queste lettere gli avrebbero permesso di soddisfare i creditori e di assistere i poveri del suo ospedale.

Giovanni di Dio trascorse cosi alcuni mesi a Valla­dolid, fino al periodo in cui si iniziarono a preparare i festeggiamenti a Corte ed in tutta la città, in occasio­ne delle prossime nozze dell’infanta Maria con l’arci­duca Massimiliano d’Austria.

Si rimise quindi in viaggio ai primi di settembre del 1548. Durante il viaggio di ritorno, più diretto e di circa 500 Km., de Castro riferisce che Giovanni di Dio sopportò grandi sofferenze. Camminando infatti scalzo, lungo strade piene di sassi ed accidentate, aveva i piedi screpolati ed aperti in più parti in seguito alle cadute. Pro­vava anche una forte sensazione di scottature su tutto il corpo, poiché non portava la camicia ed i suoi abiti ruvidi e spessi erano placcati su di lui come pece. Inoltre, aveva la pelle del vol­to, del capo e del collo spellata dal sole, soffer­to a capo scoperto.

Pur in questo stato, camminava con passo svelto, animato dal desiderio di rivedere al più presto i suoi malati ed i suoi poveri e di portare sollievo ai loro affanni. Spossato dalle fatiche e dalle sofferenze, arri­vò finalmente, con gioia degli abitanti di Granata e della contrada, con allegrezza soprattutto dei suoi assi­stiti, che attendevano con impazienza il loro padre e consolatore.

Giovanni di Dio si affrettò a riscuotere i mandati, pagò una parte dei suoi debiti e provvide ai nuovi bisogni, specialmente in favore delle sedici donne da lui convertite, alle quali diede le doti attese.

Infine, rimase ancora debitore di più di 400 ducati e, per soddisfare i propri impegni, rinnovò i prestiti.

Il suo cuore non sopportava di veder soffrire i poveri senza soccorrerli e provava fino all’angoscia il vivo desiderio di pagare i debiti. Conciliare questi due desideri sembrava impossibile, poiché egli dava senza esi­tare ogni suo avere, quando gli si presentava qualche indigenza.

 

XIV. L’INCENDIO ALL’OSPEDALE REGIO

C’era a Granata un grande ospedale, fondato 50 anni prima dai « re cattolici » Ferdinando ed Isabella, dopo la conquista della città, fino allora in possesso degli Arabi. Vi si curava ogni genere di malati pove­ri, compresi quelli mentali, « i più poveri tra i pove­ri ». Costruito con magnificenza in una vasta pianura chiamata « el campo », esso esiste ancor oggi. Si nota, al primo piano, nella parte rimasta intatta, una came­retta con al centro una finestra di un metro quadrato, munita all’esterno di sbarre verticali che non nascon­dono né il sole né il panorama. Qui alloggiò Giovan­ni di Dio durante il suo breve shock nervoso. Appena guarito, egli aveva esercitato nell’ospedale, per un perio­do di tre mesi, un lavoro come aiuto infermiere. Ne conosceva dunque le sale, le scale e tutti i passaggi.

Ora, il 3 luglio 1549, alle il del mattino, in piena estate, mentre il sole inondava di luce e di calore la città in festa, un incendio scoppiò in questo ospedale – ed ecco in quale circostanza. Un certo Rojas, am­ministratore principale dell’ospedale, offriva quel gior­no uno splendido banchetto in onore di donna Magda­iena, figlia di don Pedro de Bobadilla.

Per arrostire allo spiedo un’intera giovenca farcita di porcellini, pernici, fagiani e diverse spezie, i cuo­chi allestirono un enorme fuoco nel camino più gran­de. Disgraziatamente, una scintilla accese una trave co­stituita da un intero pino, facilmente combustibile, ed il fuoco si propagò. Subito vengono suonate le campane a martello, ci dice Anton Rodriguez, e si fa richiamo ai muratori, ai falegnami ed ai carpentieri, in partico­lare a Giovanni de Ratia, che accompagno come appren­dista sui luoghi del sinistro.

Da parte sua, Giovanni di Dio arriva al più presto.

Il suo zelo, stimolato dalla grandezza del peri­colo intravisto, si mostra cosi efficace che, quasi da solo, salva portandoli sulle spalle gli amma­lati che non sono potuti fuggire con i propri mezzi. Poi getta dalle finestre, con un’agilità so­vrumana, tutti i letti e gli abiti che può afferra­re. Infine, dopo aver posto tutti i malati al sicu­ro, raggiunge, con una scure, la sommità dell’e­dificio, lì dove il pericolo è maggiore, per aiu­tare a tagliare l’armatura in legno del tetto ed impedire cosi al fuoco di propagarsi. Vi si trova, quando un’enorme fiamma uscita da un lato ed una seconda dall’altro lo prendono in mezzo. Nello stesso tempo gli spettatori vedono alzarsi un denso fumo. Tutti pensano, senza pos­sibile dubbio, che le fiamme hanno incendiato e consumato il salvatore. « E subito la voce della sua morte eroica corre tra la folla con la stes­sa rapidità con cui il vento ravviva le fiamme. Da ogni parte si levano lamenti e grida ». Ora, nel momento in cui uno meno se lo aspetta, lo si vede venir fuori dalle fiamme, scendere rapi­damente una scala rimasta intatta ed uscire sano e salvo, senza alcuna lesione. Però le sue sopracciglia e ciglia erano state bruciacchate dalle fiamme, segno evidente del miracolo ope­rato in suo favore da Nostro Signore.

Presenti all’incendio dell’ospedale, il marchese di Mondejar, capitano generale, il marchese di Ceraldo « corregidor » della città, il consiglio dei ventiquattro e molte altre autorità, hanno reso testimonianza di que­gli avvenimenti tragici e prodigiosi.

Anton ‘Rodriguez, l’apprendista citato più sopra, conferma i fatti con semplicità ingenua:

Arrivato di corsa, ho visto Giovanni di Dio che en­trava ed usciva in mezzo alle fiamme, portando sulle spalle i malati impotenti, poi gettare dei letti dalle fine­stre. Faceva delle cose prodigiose e volevo raggiungerlo per aiutarlo, ma la paura di diventare preda delle fiamme mi inchiodava sul posto. Mentre Giovanni di Dio circolava cosi nell’interno, si alzarono – tutt’ad un tratto – delle fiamme cosi vive, che lo circondarono da tutte le parti. Tutti credemmo, con grande dolore, che era stato bruciato. Ma subito Giovanni di Dio usci di tra le fiamme, indenne e senza ferite. Eravamo tutti contenti. Il fuoco, persa la sua forza, fini con lo spe­gnersi.

Donna Luisa de Ribera, 47° testimone, dà una versione analoga, ma aggiunge: nel momento in cui Giovanni di Dio era scomparso agli sguardi, il marche­se di Ceraldo aveva alzato la voce, chiedendo di cer­care il benedetto padre Giovanni di Dio, poiché la sua persona e la sua salute erano più importanti di dieci ospedali. Ma il fuoco era cosi intenso che nessuno osava avventurarvisi. In capo ad una mezz’ora, quando tutti lo credevano ridotto in cenere, Giovanni di Dio usci indenne, con l’abito intatto e senza bruciature; soltanto le sopracciglia e le ciglia erano bruciac­chiate.

Questo fatto prodigioso, attestato da molti testi­moni, da specialisti del fuoco e da autorità di altissimo rango, può essere considerato come un vero miracolo. E’ a giusto titolo che la Chiesa perpetua il ricordo di questa azione eroica nell’ufficio divino della festa di san Giovanni di Dio. Dapprima, nella lettura del secon­do notturno: Giovanni di Dio si gettò nel fuoco, per salvare i malati, rimase in mezzo alle fiamme divenute gigantesche e ne uscì finalmente indenne per la prote­zione divina e con ammirazione di tutti gli abitanti… insegnando la carità, mostrò cosi che il fuoco esterno aveva minor forza su di lui del fuoco che lo bruciava internamente. Poi, nell’orazione del giorno: Signore Dio nostro, a Giovanni che bruciava del tuo amore, tu permettesti di passare senza danno attraverso le fiam­me e con lui facesti nascere nella tua Chiesa una nuova famiglia religiosa; per la stia preghiera e per suoi meriti, brucia i nostri vizi col fuoco della tua cari­tà e degnati per sempre di guarirci…

Sotto il baldacchino del Bernini, una grandiosa tela raffigurante questo prodigio ornava l’altare principale di San Pietro in Roma, in occasipne della cànonizza­zione di Giovanni di Dio, il 19 ottobre 1690.

 

XV. GLI ULTIMI ANNI DI GIOVANNI DI DIO

La dedizione instancabile di Giovanni di Dio verso i poveri e i sofferenti, le sue virtù palesi a tutti, la sua condotta eroica in occasione dell’incendio dell’Ospe­dale Regio, produssero una viva impressione sui suoi contemporanei. Nonostante le sue proteste, ormai tutti lo chiamavano « il santo ».

Molte persone non si contentavano più di ammi­rare, esse volevano imitare. Accorrevano all’ospedale per prendere parte ai lavori di Giovanni di Dio e dei suoi compagni, esercitaavano con essi la carità e la misericordia. Da parte loro, religiosi ed ecclesiastici cooperavano con zelo alla sua opera ospedaliera, por­tando ogni giorno ai poveri ed ai malati i soccorsi e le consolazioni del loro ministero. Parimenti, i laici rag­guardevoli e le grandi dame della città non attendeva­no più le visite del questuante; andavano loro stessi in ospedale a portare le elemosine e a prestare aiuto in qualche modo.

In questo periodo, la nascente compagnia dei Gesui­ti si diffondeva rapidamente in Spagna. Chiamati dal maestro d’Avila e dall’arcivescovo don Pedro Guer­rero, molti di essi si stabilirono a Granata, dove fu loro affidato il primo collegio dell’Università e la cura degli esercizi spirituali. Secondo il Padre Antonio Astrain, s.j., questi religiosi si stabilirono nella città solo dopo il 1551. Al contrario, se ci riferiamo al Padre Orlandini s.j., alcuni di essi vi soggiornarono già dal 1548, se non altro temporaneamente. Nella sua storia della Compagnia, questo Padre scrive:

Vi era allora a Granata, tra gli altri, un celebre ospedale diretto da uno chiamato Giovanni di Dio, uomo pio e devoto; dei membri della nostra compagnia si premurarono di recarvisi per offrire la loro assisten­za spirituale ai malati, ma anche per prestare loro delle cure corporali, La loro carità, egli prosegue, non rifiutava alcun gene­re di servizio, per quanto sudicio e ripugnante sem­brasse. Seguendo il loro esempio, dei nobili e dei bor­ghesi si misero a servire i poveri. Qui si vedevano, sia il governatore della città, i membri del consiglio dei ventiquattro, i nobili cavalieri di san Giacomo o del Toson d’oro con i loro brillanti costumi, sia i canoni­ci ed i maggiori prelati ed altre importanti personalità del clero; talvolta dei celebri dottori in teologia o in diritto canonico e civile, e molti altri cittadini di alto ceto. Essi si avvicinavano ai letti ed ai giacigli; e, a capo scoperto, servivano i malati. Molti si inginocchia­vano e baciavano il bordo del piatto che porgevano, altri mettevano con affetto materno il cibo in bocca ai più sofferenti, altri sventolavano un fazzoletto al capezzale dei malati per allontanare le mosche… Spazzavano il pavimento, vuotavano i vasi da notte, scavavano le fosse per i morti, trasportavano i cadaveri e li depo­nevano in terra. Niente costava loro troppo: in questi lavori di carità trovavano la loro gioia e la loro felicità…

I Padri gesuiti non tralasciavano alcuna occasione per incoraggiare questo movimento di carità con le loro esortazioni ed i loro esempi. Il Padre Giovanni Battista Sancio, in particolare, amava raggruppare i visitatori nel cortile dell’ospedale e, negli eloquenti sermoni di carità, era tanto più persuasivo in quanto l’esempio era li davanti agli occhi e l’occasione a por­tata di mano. Un giorno, nella festa di san Martino, dopo aver rilevato il merito delle opere di misericordia, esaltò la carità di questo santo taumaturgo. Non aveva egli, nel cuore dell’inverno, tagliato una parte del suo mantello per rivestirne un povero incontrato sul suo cammino? Poi, facendo un quadro toccante dei bisogni dell’ospedale, esclamò: «Poco tempo fa, in questo luo­go in cui vi parlo, spiegavo la miseria e le privazioni dei poveri malati; tutt’ad un tratto uno slancio di carità colse l’assemblea! Tutti offrirono a gara non soltanto il denaro e l’oro, ma anche gli abiti, di cui si spogliavano per darli. Una carità tanto generosa e sol­lecita è dunque impossibile al giorno d’oggi, e non potrò trovare qui un cuore abbastanza cristiano da imi­tare un si nobile esempio, per insegnare a tutti che, a Granata e nel nostro tempo, la carità è abbastanza viva ed eroica, da presentare un altro san Martino? ». A queste parole, un sacerdote si porta in mezzo all’as­semblea e depone ai piedi del predicatore un bellissi­mo mantello; costituiva tutta la sua ricchezza, poiché valeva più di tutto il resto del suo abbigliamento. Que­sto gesto fu il segnale di una gara straordinaria: i doni si accumularono, li gettavano da vicino, da lontano; li facevano passare di mano in mano, si pigiavano in­torno al predicatore. In poco tempo si ammucchiarono davanti a lui: monete d’oro e d’argento, anelli preziosi, mantelli, mantiglie di ogni genere di stoffa, giacche e casacche ornate di galloni o di trine, budrieri e monili pieni d’oro, abiti di ogni genere, di cui ciascuno si spo­gliava con una sollecitudine sorprendente. Non cessa­vano di dare. L’oratore, vedendo aumentare a dismisura la quantità di oggetti offerti, pensò bene di por fine alla riunione.

In occasione del Natale, la sua parola non ebbe minor effetto. Quell’uomo apostolico vi faceva ammi­rare la bontà di Dio che, per amore degli uomini, ave­va voluto nascere sulla terra e mostrarsi a noi. Da qui colse l’occasione per chiedere ai suoi uditori se, nel vedere il bimbo Gesù che si offriva a loro, non pen­sassero che fosse giusto dargli anche qualche cosa in cambio. Ebbene!, aggiunse, si vedrebbe quale è il vostro cuore verso Gesù che nasce se, avendoLo sotto gli occhi nella mangiatoia, lo lasciaste con indifferen­za nudo, tremante per il freddo, o se, toccati da quanto egli soffre, vi affrettaste a coprirlo e riscaldarlo. E come! egli prosegui, il luogo in cui siamo, nel cuore dell’in­verno, è diverso dalla stalla in cui Gesù, nei suoi poveri, non ha nulla per coprirsi, né per riscaldarsi? Non lo sentite mentre grida ad ognuno di noi: « In verità vi dico che quanto avete fatto a uno dei più piccoli tra questi miei fratelli, l’avete fatto a me » (Mt. 25, 40)?

Questi sentimenti, sviluppati in modo grave e toc­cante, infiammarono i numerosi uditori. Sacrificavano senza difficoltà gli oggetti più preziosi. Nessuno volle andarsene senza aver dato abbondantemente. Inoltre, le verità udite fecero un’impressione profonda nell’ani­mo di molti. Essi vollero da quel momento riconoscere ed onorare pubblicamente Gesù Cristo nella persona dei poveri. Si videro alcuni di questi cristiani pieni di fede che, dopo aver fatto l’elemosina a qualche men­dicante incontrato per strada, si mettevano in ginocchio a baciargli i piedi in mezzo alle strade ed alle piazze più frequentate.

Questo illustre Padre Sancio, nota ancora il Padre Orlandini, predicando un’altra volta nello stesso ospe­dale, segnalò tra parentesi, e senza troppo insistere, la mancanza di lenzuola per seppellire i morti. Subito alcuni buoni cittadini abbandonarono il luogo senza far rumore, corsero a casa a raccogliere un grosso carico di lenzuola, per poi deporli ai piedi del Padre pre­dicatore.

I Padri gesuiti apportarono dunque un prezioso aiu­to a Giovanni di Dio, ed egli ne fu loro molto ricono­scente. C’era, anche qui, una testimonianza della stima della sua opera caritatevole ed una giusta ricompensa del suo zelo ospedaliero, ora da tutti apprezzato.

Tuttavia, i suoi lavori eccessivi e senza posa, pur avendo prematuramente rovinato le sue forze, non potevano fermarlo. Egli ebbe ancora il coraggio, agli inizi del 1550, di fare una questua nella regione di Malaga, a 100 Km. da Granata, come dimostra l’ulti­ma lettera da lui scritta al cavaliere Guttierre Lasso.

La presente è per informarvi del mio arrivo qui in perfetta salute, grazie a Dio, con più di 50 ducati. Ag­giunti a quelli che voi avete laggia, ammontano, io credo, quasi a cento. Dopo il mio ritorno, mi sono indebitato di 50 ducati o più. Né questa somma che ho portato, né quella che ho presso di voi basteranno, poiché ho pia di 150 persone da mantenere e, ogni gior­no, Dio provvede a tutto. Se quindi ai 25 ducati che avete laggia, poteste aggiungere qualche cosa in pia, il tutto sarebbe necessario… Questi 25 ducati, fatemeli pervenire subito, poiché ce li ho di debito e ben più: perciò resto in attesa. Come sapete ve li ho rimessi una sera nel vostro giardino degli aranci, in un sacchetto di tela, mentre passeggiavamo tutt’e due. Verrà un giorno, lo spero nel Signore, in cui passeggerete nel giar­dino celeste! Il mulattiere ha molta fretta, non posso quindi scrivervi a lungo; d’altra parte ho tanto lavo­ro qui, che non ho il tempo di un « Credo » di respiro.

Inviatemi subito quel denaro, per carità; ne ho ur­gente bisogno. Per amore di Nostro Signore, raccoman­datemi alla tanto nobile, virtuosa e generosa schiava di Òesa Cristo, vostra sposa… Saluterete anche da parte mia il vostro figlio l’arcidiacono, che è stato con me a chiedere la santa elemosina… Porgete i miei salu­ti alle vostre figlie e figli ed a tutti quelli che vorrete… A Malaga, raccomandatemi al vescovo e presentategli i miei omaggi, come pure a tutti quelli che vorrete e vedrete, obbligato come sono di pregare per tutti…

Questo viaggio a Malaga fu l’ultimo che egli fece all’esterno. Ma a dispetto della propria magrezza e debolezza, egli andava sempre, la sera, ad implorare l’de­osina in città e si sforzava di essere tutto a tutti durante il giorno.

Per soprappiù, ci rivela de Castro, in seguito ad un grosso sforzo, contrasse una grave ernia. Questa infer­mità troppo trascurata gli causava dei dolori fortissi­mi. Egli peraltro faceva di tutto per dissimularli, per evitare un dolore ai suoi poveri.

Ora accadde, in quel periodo, che il Genil si ingrossasse moltissimo in seguito a piogge tor­renziali. Dissero a Giovanni di Dio che il fiu­me in piena trascinava molta legna e tronchi d’albero. Immediatamente decise di andare a raccoglierli insieme ai validi dell’ospedale, per permettere ai poveri di accendere il fuoco e riscaldarsi, poiché l’inverno era molto rigido: nevicava e gelava. Tra gli indigenti venuti a prendere della legna, c’era un ragazzo. Questi si avventurò con impru­denza nel fiume, fu trasportato dalla corrente e annegò nonostante gli sforzi di Giovanni di Dio per soccorrerlo: portato molto lontano dai flutti, egli non poté afferrano. Il buon Padre ne provò un grande dolore; prese freddo, cadde ammalato e dovette mettersi a letto.

Ora, in quel frattempo, alcune persone dallo zelo indiscreto, poco illuminate e sottovalutando il modo elevato di agire di Giovanni di Dio, si recarono dal­l’arcivescovo don Pedro Guerrero e lo informarono che all’ospedale si trovavano persone di ogni sorta. Alcune, capaci di lavorare, potrebbero certamente lavorare per guadagnarsi da vivere, se non fossero ospitate. Parimenti, vi si scorgevano delle donne sconvenienti: esse disonoravano Giovanni di Dio e si mostravano prive di riguardo per il bene che prodigava loro. Queste per­sone pregarono dunque l’arcivesco di porre rimedio a quei disordini, dal momento che ne aveva il potere.

Dopo aver ascoltato le loro lagnanze, l’arcivescovo, da buon pastore, fece chiamare Giovanni di Dio, di cui ignorava la malattia, per chiedergli spiegazioni.

Non appena ricevuto l’ordine, il malato si alza e si reca come può, ed al più presto, dal suo superiore.

Giunto davanti all ‘arcivescovo, gli bacia la mano, riceve la sua benedizione e dice: « Cosa ordi­na mio buon Padre, mio Prelato? » – « Fratello Giovanni, gli notifica l’arcivesco, ho appreso che nel vostro ospedale si trovano uomini e donne che danno il cattivo esempio, perniciosi: essi vi causano molto dolore per via della loro cat­tiva educazione. Cacciateli quindi subito e ripu­lite l’ospedale da simili persone affinché i po­veri dimorino in pace e tranquillità e voi stes­so non siate afflitto e maltrattato da quelle persone ».

Dopo aver ascoltato attentamente le parole del suo arcivescovo, Giovanni di Dio gli risponde con umiltà e dolcezza: Padre mio e buon Prelato, io solo sono cat­tivo, incorreggibile, inutile; merito di essere buttato fuo­ri dalla casa di Dio. Quanto ai poveri dell’ospedale, essi sono tutti buoni e non conosco vizi in alcuno di loro. Dio non sopporta d’altra parte i buoni e i cattivi? Non fa risplendere il suo sole su tutti, ogni giorno? Non c’è quindi motivo di allontanare dalla sua casa gli abban­donati e gli afflitti.

La risposta di Giovanni di Dio piacque molto all’ar­civescovo. Egli constatava l’amore paterno e tenero che Giovanni nutriva per i suoi poveri. Per difenderli non rigettava su di sé gli errori che venivano loro imputa­ti? Di conseguenza don Pedro Guerrero, nella sua sag­gezza, giudicò che si poteva – senza timore – aver fiducia in quell’uomo dabbene. Lo benedisse e, nel con­gedarlo, aggiunse: Fratello Giovanni, andate in pace, benedetto da Dio e comportatevi nell’ospedale come a casa vostra; ve lo permetto.

Confortato da queste parole, Giovanni di Dio tornò all’ospedale; ma di giorno in giorno il suo male si aggravò. A brevi intervalli sentiva i brividi e la feb­bre. Capì che la sua vita era in pericolo.

Con l’aiuto di Nostro Signore, Giovanni di D’io compi un ultimo sforzo. Prendendo con sé un segretario, un registro in bianco e l’occorrente per scrivere, si recò in città, e andando da colo­ro ai quali doveva qualcosa, fece registrare la somma dovuta ed il nominativo del creditore. Poi, al ritorno, fece copiare il tutto sopra un secondo registro. Uno se lo pose sul petto, e or­dinò che l’altro fosse custodito nell’ospedale. Se Dio lo chiamava a sé, in caso di perdita del pri­mo registro, il secondo sarebbe sempre rimasto in deposito. Si potrebbero pagare i debiti, noti cosf chiaramente.

Terminato questo lavoro, Giovanni di Dio ritornò nella sua cella e si coricò molto stanco. A partire da quel momento, incapace di uscire, egli si sforzava di portar soccorso ai poveri che facevano ricorso a lui, in­viando biglietti di raccomandazioni. E’ in questo perio­do, febbraio 1550, che egli scrisse o dettò la sua ulti­ma e lunga lettera alla duchessa di Sesa. Citata qui in parte, essa costituisce una specie di testamento partico­lare, che ben rivela le idee ed i sentimenti del santo.

Che questa lettera sia rimessa all’umile e generosa donna Maria de los Cobos y Mendoza, sposa del nobile e virtuoso signore don Gonzalo Fernandez di Cordova, duca di Sesa, mio fratello in Nostro Signore Gesù Cri­sto. In nome di Nostro Signore Gesù Cristo e di Nostra Signora la Vergine Maria sempre pura. Dio prima di tutto e al di sopra di tutto ciò che è al mondo! Amen Gesù!

Il mio grande e costante afletto per voi ed il vo­stro umile marito, il buon duca, fa si che non posso dimenticarvi; ancor pia che vi sono obbligato, vostro debitore. Non mi avete sempre aiutato e soccorso nelle mie difficoltà e necessità? La vostra carità, le vostre elemosine benedette, hanno nutrito e vestito i poveri di questa casa di Dio e molti altri all’esterno. Voi avete sempre bene agito come buoni mandatari e cavalieri di Gesù Cristo. E’ ciò che mi spinge a scrivervi questa lettera, poiché non so se vi rivedrò e parlerò ancora. Che Gesù Cristo vi visiti e vi parli!

Il grande dolore che accuso mi impedisce di pro­nunziare la minima parola, e non so se potrò terminare questa mia lettera. Vorrei tanto vedervi; pregate dun­que Nostro Signore di concedermi la salute, se è suo volere. Egli sa che ne ho bisogno per salvarmi e fare penitenza dei miei peccati. Se vuole accordarmi que­sta grazia, appena rimesso verrò a trovarvi…

Mia cara sorella in Gesa Cristo, pensavo di farvi una visita, durante le feste natalizie, ma il Signore ha disposto molto meglio di ciò che meritavo. O buona duchessa, Gesù Cristo vi ricompensi in cielo delle ele­mosine che mi avete fatto e della carità che mi avete sempre testimoniato! Possa egli ricondurvi sano e salvo il buon duca, vostro generosissimo ed umilissimo spo­so, e concedervi dei figli di benedizione; spero in Gesù Cristo che sarà cosi.

Ricordatevi bene di ciò che vi ho detto un giorno a Cabra. Riponete la vostra fiducia in Gesa Cristo solo e da Lui sarete consolata, benché ora sopportiate gran­di dolori; perché alla fine avrete maggior felicità e gloria, se li sopportate per amor suo.

O buon duca, o buona duchessa, siate benedetti da Dio, voi e tutti i vostri posteri! Poiché non posso ve­dervi, vi mando da qui la mia benedizione, indegno peccatore come sono. Dio, che vi ha creati, vi accordi anche la grazia della salvezza! Amen Gesa! La bene­dizione di Dio Padre, l’amore del Figlio e la grazia dello Spirito Santo siano sempre in voi, in tutti gli uomini ed anche in me! Amen Gesù!

Gesù Cristo vi consoli e vi assista! Poiché per amor suo, voi mi avete aiutato e soccorso, sorella mia in Gesù Cristo, buona ed umile duchessa! Se piace a Nostro Signqre di togliermi dalla vita presente, ho la­sciato qui. degli ordini perché al suo ritorno da Corte, dove è andato, il mio compagno Angulo (io ve lo rac­comando, giacché lui e sua moglie sono molto poveri) vi rimetta le mie armi: sono tre lettere in filo d’oro su raso rosso. Le conservo dacché sono entrato in lotta con il mondo; custoditele bene unitamente a questa croce, per darle al buon duca, quando Dio ve lo ricon­durrà sano e salvo.

Esse sono su raso rosso, per rammentarvi sempre il sangue prezioso che Nostro Signore ha sparso in favo­re di tutto il genere umano e la sua santissima Pas­sione. In fatti, non v’è contemplazione più sublime di quella della Passione di Gesù Cristo; e chiunque è fede­le a questa devozione non si perderà, con l’aiuto divino.

Le lettere sono tre, poiché ci sono tre virta che ci conducono al cielo. La prima è la fede: per essa, noi crediamo in ciò che crede e stima la nostra santa Madre Chiesa, osserviamo i suoi comandamenti e li mettia­mo in pratica. La seconda è la carità: carità nei riguardi della nostra anima anzitutto, puri ficandola con la con­fessione e la penitenza; poi carità verso i nostri simili, volendo per loro tutto ciò che desideriamo per noi stes­si. La terza è la speranza in Gesù Cristo solo, perché per le difficoltà e le infermità sopportate in questa vita per amor suo, ci conceda la gloria eterna, considerando i meriti della sua santa Passione e la sua grande mise­ricordia.

Le lettere sono in oro: l’oro, questo metallo cosi prezioso da risplendere ed aver il colore che lo rende pregiato, viene dapprima separato dalla terra e dalla ganga d’origine, poi immerso nel fuoco, dove finisce di decantarsi e purificarsi. Cosi conviene che l’anima, gio­iello di grandissimo valore, si distacchi dalle gioie e dai piaceri carnali della terra, non si attacchi che a Gesù Cristo, riceva la sua ultima purificazione nel fuoco della carità, in mezzo alle tribolazioni, ai digiuni, alle auste­re penitenze, per diventare preziosa agli occhi di No­stro Signore e risplendere davanti, alla maestà divina.

Questa stoffa ha quattro angoli, simboli di altre quattro virta, compagne fedeli delle tre precedenti e che sono: la prudenza, la giustizia, la temperanza e la fortezza. La prudenza ci spinge a pensare ed operare in tutto con circospezione, saggezza e secondo i consi­gli delle persone pia anziane e con maggior esperienza. Con la giustizia ci regoliamo secondo l’equità e diamo a ciascuno ciò che gli appartiene: a Dio ciò che è di Dio, al mondo ciò che è del mondo. La temperanza ci insegna ad essere moderati nel mangiare, nel bere, nel vestire e in tutto ciò che è necessario per il sosten­tamento del nostro corpo. In fine, sotto il dominio della fortezza, siamo fermi e felici nel servizio di Dio, mo­striamo un volto giovale nelle difficoltà, nelle fatiche, nelle malattie, come nella prosperità e nelle consola­zioni, e rendiamo grazie a Gesù Cristo in ambo i casi.

Sulla parte posteriore di questa stoffa, una croce a forma di X rammenta che chiunque desidera salvarsi deve portare la sua croce secondo la volontà divina e la grazia ricevuta. Tutti, infatti, mirano allo stesso scopo, ma ciascuno procede per la strada su cui il Si­gnore lo conduce.

Tutto questo, buona duchessa, voi lo sapete meglio di me e nondimeno provo piacere a parlarne con qual­cuno che mi comprende…

Cara sorella in Gesù Cristo, il male mi fa soffrire molto e non mi permette pia di scrivere; desidero ripo­sarmi un po’, per potervi scrivere in seguito pia a lun­go, perché non so se ci rivedremo ancora. Gesù Cristo sia con voi e la vostra famiglia…

Questa frase, rimasta incompiuta, è probabilmen­te l’ultima scritta da Giovanni di Dio, poco prima di morire.

 

XVI. MORTE DI GIOVANNI DI DIO

Gli abitanti di Granata non vedevano più Giovanni di Dio percorrere le strade per la questua. Meravigliati, essi si informarono e quando seppero che era malato al punto di non poter lasciare il letto, si affrettarono a procurargli il necessario e a dare ai poveri ed agli ammalati i loro doni abituali. Da parte loro, le persone ipiù ragguardevoli della città gli testimoniarono il più vivo interesse, gli prodigarono dei soccorsi e si preoc­icuparono a buon diritto della continuità della sua ope­ra. Essi impegnarono in particolare il fratello Martin, primo compagno del santo, ad assicurargli la tranquil­lità ed il riposo richiesti dalla malattia ed a sostituirlo provvisoriamente nella direzione dell’ospedale.

Messa al corrente della malattia di Giovanni di Dio, donna Ossorio, sposa di Garcia de Pisa, membro del gran consiglio dei ventiquattro, venne anche a visitarlo. Questa cristiana tanto esemplare, benefattrice abituale dell’ospedale, constatò la gravità del suo stato e lo scarso sollievo che egli riceveva in quel luogo. Circon­i Questo capitolo si ispira al racconto di de Castro, sem­plificandolo. Sono testuali soltanto la frasi in corsivo. dato da poveri, ai quali non sapeva rifiutare nulla, egli non poteva riposarsi. Ella lo pregò dunque caldamente di accettare il trasferimento nella sua casa; lo avrebbe curato, sarebbe rimasto a letto in una camera riscaldata e silenziosa. Fino allora dormiva sulle tavole, col suo cesto come cuscino, e si era in febbraio.

Egli ebbe un bello scusarsi, supplicare che non lo separassero dai suoi poveri,, in mezzo ai quali voleva morire ed essere sepolto. Infine, tuttavia, donna Ana Ossorio, munita di un ordine preciso dell’arcivescovo, riuscì a convincerlo dicendo: « Avete predicato a tutti l’obbedienza, dovete obbedire ora che vi si chiede di farvi curare per delle serie ragioni e per amore di Gesù Cristo ».

Donna Ana Ossorio fece dunque venire una portan­tina, per condurlo via. Ve lo misero, ma i poveri, sen­tendo che volevano portar via il loro Padre, la circon­darono per opporvisi, tanto lo amavano. Di fronte alla sventura, queste povere persone brandivano le loro uniche armi: gemiti e singhiozzi cosi strazianti che nessun cuore avrebbe potuto rimanervi insensibile. Scon­volto, Giovanni di Dio esclama: « Dio lo sa, fratelli miei, io desideravo morire in mezzo a voi; ma poiché egli vuole che io muoia senza vedervi, che sia fatta la sua volontà! ». Ed impartendo a tutti la sua benedizio­ne, aggiunge:«Fratelli miei, rimanete in pace e, se non ci rivedremo più, pregate per me Nostro Signore».

A queste parole, le grida di desolazione aumentano e provocano in Giovanni di Dio un’emozione così vio­lenta che egli sviene sulla portantina.

Ritornato in sé, lo portano subito dalla dama, per non causargli ulteriore dolore. La casa dei « Pisas »

si trova al numero 22 (oggi 16) di via « Convalecen­cia », sotto la « Torre de la Vela ». I vicini assistono all’arrivo del povero uomo allo stremo delle forze. Mol­to in fretta, dunque, la notizia si diffonde a Granata.

Donna Ana Ossorio lo riceve personalmente. E’ un onore per lei averlo nella sua casa. I suoi domestici si affrettano attorno a Giovanni di Dio che è sfinito. Lo trasportano con precauzione in una camera spaziosa del primo piano. Il copriletto di seta verde è stato tolto, il letto è pronto per accogliere il malato. Delicatamente gli tolgono l’abito ruvido e povero e gli fanno indossa­re un’ampia camicia da notte, nella quale le sue mem­bra indolenzite saranno a loro agio. Per la prima volta indubbiamente, da oltre dieci anni, egli può riposare e dormire tranquillo, troppo debole d’altronde per pro­vare il minimo affanno. I medici verranno; essi som­ministreranno i loro farmaci più o meno efficaci. A nulla servirà questo riposo; esso procurerà solo una tregua. Infatti la malattia è molto grave, e a quell’epo­ca – a quanto sembra – senza rimedio. Tutta l’élite di Granata si preoccupa per la salute di quest’uomo senza titoli, senza dignità, senza pretese, ma la cui carità eroica ha conquistato il cuore di tutti. Alla cat­tedrale, nelle chiese, ma soprattutto nei monasteri e nei conventi, incessanti preghiere si alzano al cielo in favore di questo oscuro straniero, dal cuore magnani­mo, inviato da Dio per galvanizzare la cristianità anda­lusa e castigliana e, quanto prima, per edificare tutta la Chiesa.

Riposatosi un po’, molte persone importanti venne­ro a visitarlo, riempiendolo di leccornie, in una gara di cortesia. Egli non le assaggiava, ma ringraziava ed apprezzava la carità che li spingeva a fargli del bene. Contemporaneamente, del resto, gli impedivano di ve­dere i poveri; c’era là un portiere che proibiva loro di entrare poiché, nel vederli, egli piangeva e soffriva. Egli otteneva, se non altro, di far distribuire loro le lec­cornie ricevute.

Nonostante tutte le cure, il male si aggravava di giorno in giorno. Quando l’arcivescovo apprese che Gio­vanni di Dio si avvicinava alla fine venne a visitarlo, a consolarlo con sante parole ed incoraggiarlo per il grande viaggio. Prima di lasciarlo, gli disse queste paro­le: « Se c’è qualcosa che vi addolora, fatemene parte­cipe; se posso vi porterò rimedio ». – « Padre mio e buon pastore, rispose lui, tre cose mi danno pensiero. La prima: aver servito così poco Nostro Signore, men­tre ho ricevuto tanto. La seconda: i bisognosi, le per­sone uscite dal peccato, dalla via cattiva ed i poveri ritrosi che ho preso a mio carico. L’ultima: questi debi­ti che ho contratto per Gesù Cristo ». E gli rimette il registro sul quale erano annotati. Il prelato riprese:

« Fratello mio, mi dite che non avete servito Nostro Signore. Ebbene! abbiate fiducia nella sua misericordia. Egli supplirà con i meriti della sua Passione a ciò che vi è mancato. Per quanto concerne i poveri, io li rice­vo e prendo a carico mio, com e mio dovere. Quanto ai vostri debiti, fin d’ora li assumo e vi prometto di pa­garli, come avreste fatto voi. Di conseguenza, rimanete in pace e non vi preoccupate di nulla. Pensate soltan­to alla vostra salvezza e raccomandatevi a Nostro Signore ». Giovanni di Dio trasse un grande conforto dalla visita e dalle promesse del suo prelato. Gli baciò la mano di nuovo e ricevette la benedizione. Poi, dopo aver rivolto al malato qualche parola di consolazione, l’arcivescovo se ne andò e, strada facendo, si recò a visitare l’ospedale.

Molto indebolito, Giovanni di Dio, nel corso della serata di venerdì 7 marzo, ricevette in piena conoscen­za il sacramento della penitenza (cosa che faceva d’al­tronde molto spesso), e gli fu portato Nostro Signore che lui adorò, poiché il suo stato non gli permetteva pia di comunicarsi. Chiamando allora il suo compagno, Antonio Martin, gli affidò i malati, i bisognosi ed i pove­ri ritrosi e gli comunicò le sue ultime raccomandazioni, poi chiese di rimanere solo per dormire un po’: il suo ultimo riposo su questa terra!

Il sabato 8 marzo, infatti, una mezz’ora dopo il mat­tutino, arrivato alla fine e rattristato di morire così in quel letto, a suo parere troppo confortevole, Giovanni di Dio, stimolato dalla sua ardente carità, concentra le rimanenti energie, si alza, si trascina come può e sor­reggendosi al tavolino rettangolare, si inginocchia per terra. Stringe il crocifisso al petto ansante e; dopo un piccolo momento di silenzio, pronuncia con voce chiara e intelligibile: « Gesù, Gesù, mi rimetto nelle vostre mani! » e rende l’anima al suo Creatore, all’età di 55 anni, l’8 marzo 1550, dopo aver servito i poveri per undici anni nel suo ospedale.

Accadde allora, continua de Castro, una cosa degna d’ammirazione, non riferita di alcun altro santo, tranne di san Paolo, primo eremita: dopo la morte il suo corpo restò fermamente in ginocchio, senza cadere, per la durata di un quarto d’ora. E sarebbe rimasto in quel­la posizione fino ad ora, se non fosse stato per la sem­plicità dei presenti. Vedendolo così, essi pensarono che era disdicevole che il corpo si irrigidisse in ginocchio. Per seppellirlo gli fecero perdere quella forma, non senza difficoltà. Molte dame di alto rango e quattro sa­cerdoti assistettero alla sua morte e tutti rimasero am­mirati, rendendo grazie a Nostro Signore per aver concesso al suo servo un genere di morte in completa armonia con la vita.

Secondo una persona che gli fu molto devota, rife­risce ancora de Castro, Giovanni di Dio diceva talvolta che sarebbe morto tra il venerdi ed il sabato. Fu così: morì una mezz’ora dopo la mezzanotte. Egli diceva an­che che molti avrebbero portato il suo abito a servizio dei poveri, attraverso il mondo intero, e ciò sta per aver inizio, conclude de Castro.

Nella nostra epoca, quella predizione si è piena­mente realizzata, giacché san Giovanni di Dio è il pa­triarca dei figli e delle figlie che continuano la sua opera nelle cinque parti del mondo.

 

XVII. LE ESEOUIE DI GIOVANNI DI DIO

Fin dal sabato mattina, 8 marzo, donna Ana Ossorio si premurò di annunciare all’arcivescovo, don Pedro Guerrero, la morte di Giovanni di Dio e di consul­tarlo riguardo le disposizioni da prendere per le ese­quie.

Questa nobile dama, convinta di avere sotto il pro­prio tetto il corpo di un santo, volle onorarlo, dopo la sua morte, con sollecitudine maggiore di quella pro­digatagli durante la malattia. Ella fece esporre il cor­po sopra un letto meraviglioso, ornato con quanto ave­va di più sontuoso, in una grande sala. Furono alle­stiti tre altari, dove sacerdoti secolari e regolari, venu­ti spontaneamente da tutti i punti della città, celebraro­no la messa, senza interruzione, dal sabato mattina fino al mattino di lunedì dieci, giorno fissato per le esequie. Da parte loro, dei fedeli pregavano, senza posa, dinanzi al corpo.

Alla morte di Giovanni di Dio si compì con esat­tezza ciò che Cristo nostro Redentore ha detto nel suo Vangelo: « Chiunque si abbasserà sarà innalzato » (Mt. 23, 12).

Per tutto il tempo che servì Nostro Signore, egli si sforzò di umiliarsi, di disprezzarsi, di tenersi all’ultimo posto con tutti i mezzi possibili. Da parte sua, Nostro Signore, realizzando pienamente la sua parola, innalzò ed onorò Giovanni di Dio in vita ed in morte: Infatti fecero al suo corpo il pia sontuoso seppellimento che sia mai stato fatto per quello di un principe, di un impe­ratore o di un monarca di questo mondo.

Se alle esequie di certi principi hanno assistito tan­te persone altrettanto ragguardevoli e persino di più, i sentimenti che animavano gli uni e gli altri differivano molto. Ora, sono i sentimenti quelli che misurano il vero onore reso. Coloro che assistono alle esequie dei principi lo fanno spesso per adulare i loro successori e piacer loro o anche, talvolta, perché vi sono costretti (i complimenti del mondo non sono di solito di questo tipo?). Per le esequie di Giovanni di Dio fu tutt’altra cosa. Egli era così povero, così’ umile! Non possedeva niente sulla terra. Le persone accorse per onorarlo non potevano dunque essere sospettate di nessuna di quel­le tre concupiscenze che, secondo san Giovanni, sedu­cono gli uomini del mondo.

Nondimeno, il giorno in cui si apprese della morte e delle esequie di Giovanni di Dio, una folla di per­sone di ogni condizione venne in fretta, senza esservi convocata.

Di primo mattino, il lunedì, le strade e le piazze vicine alla casa mortuaria potevano a stento contenere la folla in continuo aumento. La partenza ha luogo alle nove. Si depone la bara aperta sopra una barella ric­camente ornata. Quattro gentiluomini della più alta no­biltà: don Enriquez de Ribera, marchese di Tarifa, don Rodrigue Pacheco, marchese di Ceraldo, don Pedro Bobadilla e don Juan de Guevara, la mettono in spalla e si portano fino alla strada. Qui sorse una contestazione per sapere chi doveva allora prenderlo in carico. Il venerabile Padre Carcamo, dei frati mino­ri, ed altri Padri del suo Ordine, si presentano subito:

è a noi, essi dicono, che spetta di portare questo corpo giacché, da vivo, egli ha imitato completamente il nostro Padre san Francesco in povertà, penitenza e ri­nunzia. Viene quindi lasciato loro per un buon tragit­to poi, di quando in quando, gli altri religiosi di tutti gli Ordini si danno il cambio in quel servizio, fino all’arrivo a Nostra Signora della Vittoria.

A causa della moltitudine che si accalca lungo il passaggio, il Corregidor e le guardie civili sono costret­ti a fare largo ed a canalizzare la folla.

Ecco l’ordine del corteo. In testa, i poveri dell’ospe­dale di Giovanni di Dio, le donne da lui maritate, le ragazze povere e le vedpve, sue protette: tutti con una candela in mano. « Essi piangono e gridano i bene­fici e le elemosine da lui ricevuti ». Vengono poi le nu­merosissime confraternite della città, secondo il loro Ordine, con le loro fiaccole, le loro croci e i loro sten­dardi. Poi, mescolati insieme e portando dei ceri, i chierici ed i religiosi di tutti gli Ordini. Seguono la croce della parrocchia ed il suo clero, il capitolo dei canonici e i dignitari della Chiesa con la loro croce; infine l’arcivescovo ed i cappellani della cappella reale. Viene poi il corpo e appresso, il Corregidor, il gran consiglio dei ventiquattro i giurati della città, i cava­lieri ed i signori, tutti gli ufficiali ed avvocati della cancelleria reale ed un’infinità di persone: esse espri­mono il loro dolore. Non solo i vecchi cristiani, ma anche i moriscos piangono, narrano nella loro lingua araba il bene, le elemosine ed il buon esempio di Gio­vanni di Dio e, con grandi grida, ripetono mille bene­dizioni.

Le campane della Chiesa maggiore, di tutte le par­rocchie e di tutti i monasteri della città suonano a morto. Esse sembrano, quasi fossero dotate di ragione voler esprimere un sentimento diverso da quello solito.

Quando il corteo raggiunge la piazzetta davanti all’entrata di Nostra Signora della Vittoria, la bara vie­ne fermata. Vi è ressa, infatti, per entrare’ in chiesa e la folla spinge; non si può più avanzare; si rimane fermi per molto tempo… Allora la massa, nella sua ardente devozione verso Giovanni di Dio, che essa non rive­drà mai più, si sforza di guardare, di toccare il corpo, di prenderne qualche reliquia: alcuni fanno toccare i grani del rosario, altri dei libri di preghiere e diversi oggetti per loro consolazione. Quegli appassionati si serrano tanto fitti attorno al corpo, i loro pianti e le loro grida sono così veementi, che non li si può allon­tanare in alcun modo, né con la preghiera né con la forza. Se Dio non avesse badato a farli allontanare, avrebbero ridotto a pezzi anche la bara, per prenderli come ricordi.

Finalmente, i portatori possono introdurre il corpo in chiesa; i religiosi Minimi rimasti in convento con a capo il loro superiore generale, allora a Granata, lo ricevono, io portano e io pongono ‘sopra un ricco catafal­co innalzato nel coro.  Questo Padre generale presiede All’ospedale dei compagni di Giovanni di Dio, non vi era chiesa in cui poteva essere sepolto; costoro ac­cettarono dunque l’offerta della famiglia Pisa: si inumò Giovanni di Dio nella tomba di quella famiglia, situata in una cappella laterale della chiesa di Nostra Signora della Vittoria.

Nei due giorni successivi si cantò ancora la messa con la stessa solennità; vi fu la predica alla presenza di una grande folla e si celebrarono molte altre messe. A Granata non si predicò per pia di un anno senza fare allusione a Giovanni di Dio ed alla sua vita, sia per addurre una prova alla tesi avanzata, sia per for­nire un esempio al popolo.

Venti anni dopo quel giorno, scrive de Castro, alcu­ni cavalieri, desiderosi di vedere il corpo di Giovanni di Dio, entrarono nella tomba e lo trovarono intatto. Senza traccia di corruzione, tranne sull’estremità del naso. Ne rimasero meravigliati, poiché non ci si era preoccupati di imbalsamarlo.

Su quella tomba appena chiusa, i numerosi amici di Giovanni di Dio, certi della sua autorità presso il Signore, vennero ad implorare la sua intercessione ed a sollecitare delle grazie spirituali e temporali. Ben presto, vi furono molti miracoli e la reputazione di santità del defunto si diffuse sempre più.

Questi eventi portarono i discepoli diretti di Gio­vanni di Dio a tendere verso due obiettivi: ottenere che il corpo del servo di Dio fosse loro restituito ed iniziare le pratiche per ottenere la sua beatificazione.

Qui ci interessa solo il primo obiettivo. Esso fu rag­giunto gradualmente. Il 6 settembre 1625, il nunzio apostolico ordinò di estrarre il corpo di Giovanni di Dio dalla tomba della famiglia Pisa-Ossorio e di collo­carlo da solo sotto l’altare della stessa cappella.

Poi, dopo molte pratiche presso i superiori generali dei Minimi ed un intervento della Santa Sede, il padre Ferdinando d’Estrella, priore generale dei fratelli ospe­dalieri di Spagna, il 28 novembre 1664, ottenne la traslazione del corpo di Giovanni di Dio nella modesta chiesa ad una sola navata, acquistata da Antonio Martin nel 1552, annessa al nuovo ospedale che si intitola a Giovanni di Dio.

Un secolo più tardi, essendo stato ingrandito l’ospe­dale di Giovanni di Dio, il padre Alfonso di Gesù Ortega, priore generale dei fratelli ospedalieri di Spa­gna, iniziò la costruzione di una nuova e magnifica chiesa di stile corinzio. Iniziata nel 1735, essa fu ulti­mata nel 1741. Un « camarin », situato dietro e al di sopra dell’altare principale, ospita un’urna in argen­to massiccio contenente i resti di Giovanni di Dio.

Il 20 dicembre 1920, il papa Benedetto XV con­cesse a questa chiesa il titolo di basilica minore.

 

XVIII.        L’UOMO – IL SANTO

All’epoca in cui de Castro iniziò la biografia di Giovanni di Dio, verso il 1580, trent’anni dopo la mor­te del suo eroe, v’erano ancora a Granata molte perso­ne che l’avevano conosciuto. L’autore avrebbe quindi potuto darcene un autentico ritratto fisico. Egli non ne sentì il bisogno. Leggendolo si apprende, senz’altro, che Giovanni di Dio, all’inizio della sua opera ospeda­liera e sociale, era un uomo solido e vigoroso.

Al contrario, verso il 1620, quando Govea, suo se­condo biografo, abbozzò la sua opera, i testimoni diret­ti della vita di Giovanni di Dio erano diventati molto rari ed anziani. Tuttavia Govea, più sensibile di de Castro all’aspetto esteriore del santo ospedaliero, si sforzò di descriverlo facendo del suo meglio: Era, egli dice, un uomo grande, dalla barba e dai capelli neri, dalla corporatura atletica e atto a diventare un soldato.

Checché ne sia dell’esattezza di questa descrizione, essa ha ispirato, è un dato incontestabile, tutti gli scul­tori e pittori del XVII secolo incaricati di raffigurare Giovanni di Dio. Gli scultori: Augustin Ruiz, Diego de Mora, Pedro de Mena (1620-1693) e José Risueno (1665-1732), come i pittori dello stesso periodo: Her­rera el Viejo (1576-1656), José de Ribera (1588-1656), Francisco Zurbaran (1598-1662), Murillo (1617-1682) pongono dinnanzi ai nostri occhi un Giovanni di Dio molto grande, reso ancor più alto da un abito religioso che gli arriva fino ai piedi. Ora, Giovanni di Dio non portò mai un simile abito. Esso fu dato ai suoi disce­poli dal papa san Pio V il 1° gennaio 1572, 22 anni dopo la morte del santo. Tuttavia, Govea non poteva ignorare la deposizione di Antonio Rodriguez, 17° te­stimone al processo di beatificazione di Giovanni di Dio, nel 1622, tre anni prima della pubblicazione della sua opera. Ora, cosa dichiara Antonio Rodriguez, un tempo portinaio presso l’arcivescovado di Granata, abi­tuato quindi a causa delle sue mansioni a squadrare le persone? « Antonio Martin era un uomo grande, ave­va in capo un berretto rosso, e Giovanni di Dio un uomo pia piccolo, vigoroso, magro e minuto di volto. Egli andava scalzo, portava soltanto calzoni di tela ed un mantello di stoffa grossolana, stretto da una cintura e che arrivava sopra il ginocchio. Aveva la barba e i capelli corti e camminava a capo scoperto. Entrambi soccorrevano i poveri con grande carità ».

Questa descrizione è del tutto conforme ad una scul­tura in legno anteriore al 1579. In base a questa opera, Giovanni di Dio in ginocchio appare di una statura appena sopra la media e indossa un abito corto un po’ speciale ma non religioso, che gli era stato imposto da don Sebastiano Ramirez di Fuenleal, prima del 20 gennaio 1540.

Ecco perché anche il busto di Giovanni di Dio (ec­cezion fatta dell’abito) attribuito a Pedro Raxis (1580-1616), e soprattutto la testa di Giovanni di Dio scolpita policroma da Alonso Cano (1601-1667), ci sembrano avvicinarsi maggiormente alla realtà.

Sintetizzando i dati precedenti, si può, a quanto pare, figurarsi così Giovanni di Dio all’inizio della sua vita ospedaliera: di statura leggermente superiore alla media, egli è agile, ben fatto, il volto magro e bruno, la barba e i capelli bruno scuri, la fronte ampia e libera, gli occhi neri e penetranti; l’insieme del volto, dal­l’aspetto meditativo, riflette una certa tristezza com­passionevole e, a tratti, un’angoscia difficilmente con­tenuta.

Del resto, i diversi episodi della vita di Giovanni di Dio ci hanno già permesso di cogliere da vicino molti aspetti del suo temperamento, del suo carattere, della sua vita psicologica e morale. Uno studio sistema­tico, fatto con obiettività dal Padre Vincente Parra Sanchez s.j., secondo il metodo rigoroso di Sheldon, arricchisce ulteriormente la nostra documentazione

Tenendo conto di tutti questi dati, Giovanni Cida­de, in gioventù, sembra dotato di un temperamento emotivo, estroso, talvolta persino impulsivo. Di una viva sensibilità, egli è naturalmente affabile con tutti. Pronto nel decidersi, egli ama il rischio, l’avventura, la vita libera e fugge la costrizione. E’ accessibile all’amor proprio, alla vanagloria, che lo portano ad iniziative rischiose e persino ad eccessi sanciti da gravi prove fisiche e morali. Queste prove, considerate sempre più da Giovanni come conseguenze dei suoi errori, deter­mineranno in lui dei rimorsi cocenti, mantenendolo a lungo in uno stato di contrizione e di pentimento gra­datamente accentuato. Una tale disposizione porterà, lo si è constatato, ad un passeggero crollo nervoso, ma emergerà a più riprese sotto forma di angosce, più o meno vive, nel corso della sua vita ospedaliera.

Giovanni Cidade prenderà così peraltro coscienza della propria debolezza e miseria. Con la grazia del Signore, esse lo porteranno verso un’umiltà profonda, radicale, che gli permette ben presto di sopportare tutte le vessazioni, senza strappargli il minimo lamento, il più piccolo gesto di impazienza. Ancor più, essa gli farà ricercare e persino comprare gli insulti: Se dici ciò in piazza, avrai due reali! (p. 116).

Questa umiltà gli diverrà connaturale; essa consu­merà le tracce del suo amor proprio, della sua vanaglo­ria di gioventù, la sorgente di tutte le sue disgrazie di altri tempi. Di qui anche quel bisogno costante di rivol­gersi ad una direzione spirituale fissa, quella ricerca perseverante del meglio, nell’unione con Dio, la pre­ghiera, il sacrificio, la penitenza, il digiuno e, in partico lare, con quel grido ripetuto senza posa: Signore, con­cedi la pace alla mia anima e fammi conoscere la strada che devo seguire per arrivare a te.

In fondo, egli realizza in anticipo quanto scriveva più tardi alla duchessa di Sesa. L’oro, questo metallo tanto prezioso, da risplendere ed avere lo splendore che lo fa ammirare, viene dapprima separato dalla terra e dalla ganga originale, poi immerso nel fuoco, dove termina di decantarsi, di purificarsi. Così conviene che l’anima, gioiello di grandissimo valore, si distacchi dalle gioie e dai piaceri carnali della terra, si attacchi a Gesù Cristo solo, riceva la propria purificazione nel fuoco della carità, tra le tribolazioni, i digiuni, le auste­re penitenze, per diventare preziosa agli occhi di No­stro Signore e risplendente dinnanzi alla maestà divina.

D’ora in poi, basterà che la grazia lo inviti a segui­re una strada perché egli vi si inoltri con ardore. Nulla lo ferma. Rimarrà sempre libero in tutte le sue opere ma, spontaneamente, porrà la propria libertà sotto il dominio della grazia. Gli atti realizzati avranno la duplice caratteristica di essere soprannaturali ed umani, di dipendere da Dio e dalla libera volontà dell’uomo.

Questa vita di unione con Dio si manifesterà con orazioni mentali sempre più prolungate e giaculatorie sempre più frequenti. Il Padre Parra Sanchez osserva che, nelle sue sei lettere, Giovanni di Dio cita il nome di Gesù o del Signore 175 volte!

Così ravvivato, il suo amore per Dio si proietterà naturalmente sul suo prossimo e, in particolare, sui poveri ed i sofferenti. Fedele discepolo ed imitatore di Gesù Cristo, egli bruciava dall’unico desiderio di amar­lo sopra ogni cosa e di servirlo nella persona di tutti gli uomini, senza eccezione. In breve, è stato detto di Giovanni di Dio in una formula spagnola molto espres­siva: Egli aveva un cuore di pietra per se stesso, un cuore quasi materno per il prossimo ed un cuore di fuoco vivo per Dio.

Non si tratta qui di sviluppare la sua concezione della spiritualità. Questo lavoro è già stato fatto in

modo notevole. Sembra tuttavia interessante citare alcuni estratti delle sue lettere, in cui espone ai suoi corrispondenti, in tutta semplicità, ciò che ritiene ne­cessario per ogni cristiano. Queste citazioni avranno inoltre il vantaggio di rivelarci i punti principali delle sue preoccupazioni e del suo apostolato diretto.

Noi abbiamo tre doveri verso Dio, egli scrive alla duchessa di Sesa. Amarlo, servirlo, adorarlo. Amarlo sopra ogni cosa che è al mondo, poiché egli è il nostro Padre celeste; servirlo, egli è Nostro Signore, non per desiderio di gloria con la quale deve gratificare i suoi fedeli, ma per la sua sola bontà; infine adorarlo, perché è il nostro creatore e dobbiamo avere sulle labbra il suo santo nome solo per rendergli grazie e benedirlo.

Buona duchessa, tre occupazioni devono riempire le vostre giornate: la preghiera, il lavoro e le cure da prodigare al vostro corpo.

La preghiera. – Rendete grazie a Gesù Cristo appena vi alzate, al mattino, per i suoi continui favori e bene­fici nei vostri confronti. Egli vi ha creato a sua imma­gine e somiglianza. Ci ha fatto la grazia di essere cristia­ni. Implorate anche la sua misericordia, il suo perdono e pregate Dio per tutti.

Il lavoro. Dobbiamo dedicarci a qualche occupazio­ne corporale onesta per meritare il pane che mangiamo ed anche per imitare Gesa Cristo, che ha lavorato fino alla morte. Niente, del resto, genera pia peccati del­l’ozio.

Le cure del corpo. – Come il mulattiere cura e man­tiene la propria bestia per servirsene, così conviene che diamo al nostro corpo ciò che è necessario, affinché non ci vengano meno le forze per servire Nostro Si­gnore.

Mia amatissima e carissima sorella, vi prego per amor di Gesù Cristo, abbiate sempre dinnanzi allo Spi­rito queste tre verità: l’ora della morte, a cui nessuno può sfuggire, le pene dell’inferno, la gloria e l’infinita felicità del paradiso.

La morte, infatti, pensateci bene, distrugge tutto, ci spoglia di tutto ciò che ci ha dato questo miserabile mondo, ci lascia portar solo un pezzo di tela usata e mal cucita. Se moriamo in stato di peccato, i piaceri di breve durata, i divertimenti tanto passeggeri, dovran­no essere espiati nel fuoco dell’inferno. La gloria e la felicità, al contrario, Nostro Signore li riserva ai propri servitori. Sono felicità che l’occhio non ha mai visto, che l’orecchio non ha mai udito e che il cuore dell’uomo non ha mai provato.

Rivolgendosi a persone sposate, Giovanni di Dio non dimentica di rammentare loro la dignità del loro stato, e prodiga eccellenti consigli.

Noi tutti tendiamo allo stesso scopo, ciascuno, èvero, seguendo la strada scelta da Dio… Alcuni sono religiosi, altri chierici, altri eremiti, ed altri infine sono sposati. Così, in ogni stato, ci si può salvare se lo si vuole… è una ragione per incoraggiare gli uni e gli altri… Ciascuno deve abbracciare lo stato in cui Dio lo chiama.

Quanto ai padri e alle madri, essi non devono preoccuparsi e tormentarsi troppo a questo proposito, ma pregare Dio di concedere a tutti i loro figliuoli lo stato di grazia. Quando Dio vorrà, uno si sposerà e l’altro canterà messa, e di tutto questo io non so nulla, Dio sa tutto… E’ Lui che conosce meglio ciò che occorre fare dei vostri figli e figlie e, qualunque cosa Egli decida, voi dovete ritenerla per fatta e ben fatta.

Non può tuttavia tacere con loro’ ciò che gli stava maggiormente a cuore e, in modo indiretto, termina con una lezione di fede e di carità fraterna: « Che il Signore mi faccia la grazia di professare e di credere tutto ciò che crede la nostra santa Madre Chiesa) io lo professo e credo fermamente. Come lei lo professa e crede, così io lo professo e credo: da ciò non voglio allontanarmi, vi ho posto il mio sigillo, lo chiudo con La mia chiave… Se considerassimo la grandezza della misericordia divina, mai cesseremmo di fare il bene quando lo possiamo; poiché, dando ai poveri per amor suo ciò che egli stesso ci ha dato, è il centuplo ciò che egli ci promette nella sua beata eternità. O beato be­neficio, o beati interessi! Chi non darebbe tutto ciò che possiede a questo benedetto creditore che, con noi, fa un così buon affare e ci prega a braccia aperte di convertirci, di piangere i nostri peccati, di fare la carità alle nostre anime e poi ai nostri simili; poiché come l’acqua estingue il fuoco, cosE la carità soffoca il pec­cato ».

Non si può dare una conclusione più sicura a que­sto esposto di queste righe di Pio XII indirizzate al

Padre Ephrem Blandeau, allora priore generale dell’Ordine di san Giovanni di Dio, in occasione del IV centenario della morte del santo. « Voi conoscete per­fettamente i grandi ostacoli e le molteplici difficoltà che egli ha dovuto superare nella sua natura per giungerè alla pratica delle virta cristiane. Egli le acquistava solo al prezzo di uno sforzo quotidiano e di una lotta senza pietà. Guidato e sostenuto in questa via dalla grazia, sotto l’impulso di una volontà che non ammetteva cedi­menti, egli sali sempre con passo pia rapido fino alla vetta della pia alta santità. Egli si è trasformato a! punto da suscitare l’ammirazione generale e diventare l’angelo tutelare dei malati e dei poveri. Voi sapete anche con quale soavità si sforzò di porre rimedio con tutti i mezzi ad ogni sorta di miserie, di infermità e di ango­sce. Stimolato dall’amore divino, non si accontentava di guarire le malattie del corpo, di dare, in base ai suoi mezzi, il pane agli affamati, gli abiti ai poveri in stracci, un ospedale ai vecchi ed agli abbandonati; ma dispensava anche alle loro anime la luce celeste ed i divini conforti, per innalzarli alla speranzà della beati­tudine eterna. Ecco la sacra eredità che egli vi ha lasciato ».

 

XIX. GLORIFICAZIONE DI GIOVANNI DI DIO

La morte di Giovanni di Dio ebbe una risonanza straordinaria in Spagna e in Portogallo. All’unanimità fu lodata la sua azione. Il popolo lo chiamò « Padre dei poveri », i grandi di Spagna la « meraviglia di Gra­ta » e l’opinione pubblica « l’onore del suo tempo ».

Sulla sua tomba e in diverse regioni si moltiplica­rono i miracoli dovuti alla sua intercessione. Il proces­so di beatificazione, iniziato fin dal 1622, fu attivamen­te seguito, poi esaminato e discusso dai membri della Congregazione dei Riti, su domanda del relatore, il cardinale Pietro Maria Borghese, proponente la causa. Costoro decisero all’unanimità, il 28 giugno 1630, che si poteva con tutta certezza, col consenso di Sua San­tità, concedergli il titolo di beato.

Messi al corrente di questa importante decisione, Ferdinando Il, imperatore di Germania, Filippo IV, re di Spagna, Isabella di Francia, sua sposa, la regina madre Maria dei Medici, che aveva introdotto in Fran­cia i fratelli di Giovanni di Dio (1601), numerosi altri principi ed i superiori dei religiosi ospedalieri, si affret­tarono a pregare il pontefice di procedere alla beatifi­cazione.

Consentendo a tutte queste domande, Urbano VIII, con lettera apostolica del 21 settembre 1630, dichiarò beato l’umile fratello Giovanni di Dio.

La beatificazione fu celebrata tanto a Roma e in Italia che a Granata, a Montemor-o-Novo e in tutta la penisola iberica con grande magnificenza. In nessun luogo, tuttavia, queste feste furono tanto brillanti come a Parigi. Messer Giovanni di Loyac, sacerdote, pro­tonotario della Santa Sede, consigliere, elemosiniere e predicatore ordinario del Re e abate di Nostra Signora di Gondon, nella sua opera « Il trionfo della Carità nella vita del Beato Giovanni di Dio », apparso a Parigi, presso Antonio Chrétien, nel 1661, ce le riporta con dovizia di dettagli, con compiacenza e candore deli­ziosi. Li riassumiamo qui; tuttavia i testi più significativi saranno riportati senza alcuna modifica.

La bolla di beatificazione di Giovanni di Dio fu pubblicata a Parigi nel gennaio 1631, ma la solennità fu differita all’8 marzo successivo.

Maria dei Medici, reggente e madre del re Luigi XIII, prima di partire per la Piccardia, incaricò l’abate di Loyac e il Padre Priore della Charité de Paris di pre­parare le solennità per quel giorno.

Le decorazioni della chiesa della Carità, scrive l’aba­te di Loyac, furono cosi ricche e belle che non si sapeva ciò che si doveva maggiormente ammirare, se i preziosi addobbi che l’ornavano, o la loro inge­gnosa disposizione. Tutte le pareti erano ricoperte da tappezzerie d’oro e di seta. In mezzo alla navata, un candeliere alto dodici piedi (3 m. e 90) e una circon­ferenza di trenta quattro (11 m. e 20) serviva da base all’immagine del beato, cosi naturale da farlo sembrare pia un uomo vivo che non il suo ritratto. Questo deliere era pieno di cosi tante candele, che la loro luce offuscava la luce del giorno. Esso era sorretto dalle sette opere di misericordia corporale, raffigurate in atteg­giamenti cosi devoti e magnifici che non vi era niente da desiderare. Una balaustrata di colonne di marmo, di diaspro, d’oro, di lapislazzoli divideva la navata dal­l’altare principale e sosteneva un’arcata in cui erano raffigurate le principali azioni del santo uomo…

Questa augusta pompa iniziò il venerdi, 7 marzo, con l’esposizione del SS. Sacramento, fatta dal vescovo di Mende, assistito dai vescovi di Betlemme e di Dardania…

Diversi cori cantarono i vespri e l’abate Berthier, divenuto dopo vescovo di Montauban, fece un’eloquen­te omelia. Il sabato, giorno della festa, la « celebrità »ricominciò con un melodioso concerto di campane…

La chiesa era piena fin dall’alba. Il Padre Bernardo, detto il sacerdote povero, celebrò la messa del mattino e comunicò tutti i religiosi ed i poveri che dovevano assistere alla processione…

I cento svizzeri del Re erano venuti per impedire la confusione, il disordine in chiesa, nell’ospedale e lungo le vie per le quali doveva passare la processione… La processione usci di chiesa verso le nove e percorse tutte le strade principali di questo grande sobborgo òcittà di Saint-Germain-des-Prés, in questo ordine.

Un ufficiale delle Guardie e dodici svizzeri del re precedevano la croce, portata da un religioso che in­dossava un camice, con due accoliti a lato che porta­vano le candele. Veniva poi l’abate di Rostaing, figlio del marchese di Rostaing, che indossava un rocchetto e portava uno stendardo sul quale erano scritte, a carat­teri d’oro, le seguenti parole « Domine salvum fac regem ». Venti poveri vestiti a nuovo, in grigio, ed aventi ciascuno ‘una candela nella mano sinistra ed un rosario nella destra, seguivano lo stendardo con molta modestia. Dietro a loro c’erano sei bambini di bell’aspetto, vestiti da angeli, che portavano delle can­dele accese, con emblemi composti in onore del beato.

Avanzavano poi con un accompagnamento identico, che Giovanni di Loyac non si stanca di enumerare al punto da suscitare l’ilarità, altri otto stendardi…. Poi, per ultimo, lo stendardo del beato Giovanni di Dio portato dall’abate Bernardo, il sacerdote povero, cir­condato dai religiosi.

Venivano poi cinquanta cantori, divisi in diversi cori, che riempivano l’aria di una melodia così piace­vole e devota, che si restava ugualmente sorpresi del fascino delle loro voci e della loro modestia. Ottanta ecclesiastici, tutti con ricchi piviali, seguivano a due a due, poi quattordici diaconi con tuniche ed infine il vescovo di Mende, assistito dai vescovi di Betlemme e di Dardania…, seguito da una folla innumerevole.

Dopo questa processione, il pio prelato celebrò pontificalmente la Messa cantata. Il pomeriggio furono cantati i vespri alla presenza della regina Anna d’Au­stria e delle principesse della Corte. Verso sera, si fece una processione nelle infermerie…

Il giorno dopo, domenica, il re Luigi XIII venne di buon mattino ad ascoltare la messa, adorò a lungo il SS. Sacramento, con la solita devozione, e tornò attra­verso le infermerie… Il vescovo di Mende celebrò pontificalmente la Messa cantata verso le dieci…

Alle tredici, i cardinali di Richelieu e de la Valette, accompagnati dal nunzio del Papa, dagli arcivescovi di Parigi, di Bordeaux, di Rouen e da circa altri qua­ranta prelati, vennero ad ascoltare i vespri e la nostra predica – la predica di Loyac, abate di Gondon -, che ebbe tanto successo per bontà divina che dopo due giorni il re ci onorò dell’incarico di suo predica­tore ordinario… Sua Eminenza de Richelieu, protettore ed insigne benefattore di questo Ordine, condusse, do­po la predica, la sua compagnia nelle infermerie e si occupò a lungo a consolare ed esortare i malati, offren­do a tutti i prelati del suo seguito l’esempio di una singolare pietà..2.

La sera ci furono i fuochi artificiali nel cortile dell’ospedale. Erano cosi belli che i parigini dicevano di non averne mai visti di tanto ingegnosi.

Queste solennità della beatificazione di Giovanni di Dio ebbero in Francia un prolungamento storico

troppo poco conosciuto. In occasione della pace dei Pirenei, firmata dal Cardinale Mazarino, ministro di Luigi XIV, e da don Luigi de Haro, ministro di Filip­po IV, il 7 novembre 1659, nell’isola dei Fagiani sulla Bidassoa, Filippo IV, quale pegno prezioso di quella pace appena giurata e conclusa, offri’ ad Anna d’Au­stria, la regina madre, sua sorella, una preziosa reli­quia del beato Giovanni di Dio.

La nostra piissima regina, scrive l’abate di Loyac, la trovò racchiusa in un magnifico reliquiario d’argento dorato e cesellato… Non appena Sua Maestà ebbe rice­vuto la cassa che conteneva il prezioso pegno della conclusione e della stabilità della pace, andò nel suo oratorio per renderne grazie a Dio, e mandò a dire ai superiori della « Carità di Parigi » di venire a tro­varla al castello del Louvre. Quando il fratello Dauphin Ville, vicario generale e provinciale di Francia, accom­pagnato dal fratello Angelo Papillon, priore del « con­vento-ospedale della Carità » furono arrivati, Sua Mae­stà volle aprire la cassa in lòro presenza… Mentre apri­vano quella cassa, a forma di piramide e chiusa a chia­ve, il re (Luigi XIV) entrò nella stanza, accompagnato dal fratello, dal principe duca d’Enghien e dal conte d’Harcourt. La regina disse al vescovo di Amiens di prendere il reliquiario racchiuso in un ricco astuccio di marocchino rosso cremisi, tutto tempestato di chio­dini d’oro. Quel degno vescovo, avendolo aperto, vi trovò una reliquia tratta dal braccio destro del beato Giovanni di Dio e che è l’osso che i medici ed i chirurghi chiamano radio. Avendola presa con riverenza, le loro Maestà si prostrarono e la venerarono profondamente. Poi la regina consegna ai suddetti fratelli Dauphin Ville ed Angelo Papillon la dichiarazione autentica che il re cattolico, suo fratello, aveva allegato al suo di­spaccio, perché la facessero tradurre dallo spagnolo in francese: il che facemmo (de Loyac). Quando questi buoni religiosi riportarono l’originale spagnolo a Sua Maestà, ella donò loro il reliquiario e la reliquia… l’incomparabile regina desiderava che i religiosi e i poveri di quest’ospedale avessero la consolazione e il vantaggio di conservare nella loro chiesa il prezioso pegno della conferma pubblica della stabilità della pace.

Dopo la beatificazione di Giovanni di Dio, la de­vozione del popolo nei suoi confronti, lungi dal dimi­nuire, aumentò di giorno in giorno e il Signore operò nuovi miracoli per intercessione del suo servo. E’ per questo che lo studio della sua causa fu ripreso nel 1667, sotto il pontificato di Clemente IX. Nel mese di ottobre di quell’anno, il papa in persona presiedette la Sacra Congregazione dei Riti, dove udì la relazione di molti miracoli attribuiti all’intercessione del beato. Questi fatti, in seguito esaminati più da vicino, furono tutti riconosciuti e dichiarati autentici. Tuttavia, sotto il pontificato successivo, il relatore della causa, il cardi­nale Gaspare Carpini, ne ammise soltanto due. Uno era avvenuto a Napoli e riguardava la pronta guarigione di Giovanni Marino, paralizzato alle cosce ed alle gambe da sette anni… Il secondo era accaduto a Roma e concerneva Isabella Arcelli, guarita istantaneamente da « pustole maligne e da tumori pestilenziali sulle spalle », senza alcuna traccia di cicatrici. Dopo aver sentito il rapporto del cardinale Gaspare Carpini, sui due processi verbali redatti a Napoli e a Roma, e dopo aver ascoltato le osservazioni dei consultori ed il parere dei cardinali preposti alla Sacra Congregazione dei Ri­ti, il papa Innocenzo XI, il 13 giugno 1679, dichiarò, che si poteva – con tutta certezza – procedere alla canonizzazione del beato Giovanni di Dio, secondo l’ordine della santa romana Chiesa e la disposizione dei sacri canoni. Innocenzo XI morì prima di aver cele­brato tale canonizzazione. Essa subi di conseguenza un certo ritardo.

Il nuovo papa Alessandro VIII si trovò di fronte ad una causa istruita e pienamente giustificata e, do­po aver sentito il parere dei cardinali, cedette alle solle­citazioni di Leopoldo I, imperatore di Germania, di Carlo Il, re di Spagna, di Pietro Il, re del Portogallo, di Giovanni Sobieski, re di Polonia e dell’intero Ordine dei fratelli del beato Giovanni di Dio.

Circondato da cardinali, patriarchi, arcivescovi e vescovi presenti in san Pietro, dalla Corte romana e da un popolo entusiasta, il Papa procedette, il 16 ot­tobre 1690, alla canonizzazione di Giovanni di Dio, cantò il Te Deum, celebrò solennemente la messa e benedisse i presenti.

In quello stesso giorno furono canonizzati i beati Lorenzo Giustiniani, Giovanni da Capestrano, Giovan­ni di San Facondo e Pasquale Baylon.

Alessandro VIII mori il 1° ebbraio 1691, dopo aver preparato la bolla di canonizzazione di Giovanni di Dio, ma senza averla spedita. Il suo successore Innocen­zo XII la pubblicò il 15 luglio 1691, quarto giorno dalla sua elezione al supremo pontificato.

In base a questa bolla, il questuante di Granata fu iscritto nel catalogo dei santi e menzionato nel marti­rologio romano nei seguenti termini: Granata, in Spa­gna, san Giovanni di Dio, fondatore dell’Ordine dei fratelli ospedalieri che servono i malati; egli si è distinto per la compassione verso i poveri e il disprezzo di se stesso.

In occasione della canonizzazione di Giovanni di Dio, grandi solennità furono celebrate in tutte le case dell’Ordine. Alla « Carità di Parigi », esse ebbero luo­go il 16 agosto 1691: L’illustrissimo signor Carlo Le­goux de la Berchère, vescovo di Lavaur e nominato arcivescovo d’Albi, vestito dei suoi paramenti ponti­ficali ed assistito dai suoi ufficiali, iniziò con la let­tura della bolla d’Innocenzo XII e del permesso del­l’arcivescovo di Parigi. Poi benedisse lo stendardo del santo, i cui quattro lati erano sorretti dai Reverendi Padri Mathias Godé, provinciale e vicario generale, Blaise Chappus, priore della « Carità di Parigi », Bar­nabé Lancelot, priore della « Carità di Senlis » e La­zare Richer, priore della « Carità di Charenton ». Infine furono cantati i vespri e la benedizione ed il prelato officiò pontificalmente. Questa solennità si protrasse per otto giorni e si concluse con la benedizione, dopo di che si innalzò lo stendardo sulla volta della chiesa.

Leone XIII, col breve « Dives in misericordia » del 22 giugno 1886, dichiarò san Giovanni di Dio e san Camillo de Lellis patroni dei malati e degli ospedali.

Infine, il 28 agosto 1930, il papa Pio XI, con il breve « Expedit piane », nominò solennemente san Gio­vanni di Dio e san Camillo de Lellis celesti patroni delle associazioni cattoliche degli infermieri, come an­che degli infermieri ed infermiere di tutti i tempi e di tutti i luoghi.

Così termina questa biografia compilata in base a documenti irrefutabili, tuttavia scarsi ed insufficien­temente utilizzati per far rivivere, come converrebbe, la personalità cosi ricca ed interessante di san Giovanni di Dio.

 

Ci resta solo da esprimere una preghiera ed un augurio.

Una preghiera: quella che la Chiesa pone sulle nostre labbra nel giorno onomastico del santo.

 

Signore, Dio nostro, a san Giovanni di Dio che ardeva del tuo amore, hai permesso di attraversare senza danno le fiamme e, da lui hai fatto nascere nella tua Chiesa una nuova famiglia religiosa; per la sua preghiera e per i suoi meriti, brucia i nostri vizi col fuoco della tua carità e degnati per sempre di guarirci, per Gesù Cristo tuo Figlio…

 

Un augurio: quello del nostro Ordine, delle con­gregazioni e confraternite ospedaliere, delle associa­zioni di infermieri ed infermiere. Che seguendo l’esem­pio di san Giovanni di Dio, molti giovani continuino a mettersi al servizio di Dio nella persona dei malati e dei poveri!

 

 

 

 

 

 

 

“LA FEDE E’ UN FUOCO” – A cura di Angelo Nocent

 

LA FEDE E’ UN FUOCO”

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La carità

 

 è come l’incendio

 

  che si alimenta

 

 propagandosi”

 

Giordani IginoSono Parole sue, di Igino Giordani, chiamato “Foco“.

Nessuno ormai ricorda che il suo cuore infuocato ha radici lontane, nessuno sospetta che ad infuocarlo abbia contribuito non solo l’invocato Spirito Santo ma anche il suo inviato speciale San Giovanni di Dio.

Sì, a buon diritto si può sostenere che Igino Giordani, confondatore insieme alla stessa Chiara Lubich, a don Pasquale Foresi ed al vescovo tedesco Klaus Hemmerle del Movimento del Focolare,  è un figlio di San Giovanni di Dio e che ai Focolarini come ai Fatebenefratelli – un’unica sua famiglia – abbia trasmesso istintivamente il carisma del Padre, l’apostolo di Granada, lo attestano le suggestive pagine che ha  dedicato al Patriarca dell’ hospitalitas.  

(Igino Giordani    -   FOTO da: http://focolare.org/It/igiordani.html)

 

Giordani - La sporta di San Giovanni di Dio pisa-capachaLa sporta delle elemosine  di San Giovanni di Dio

 

Che di tanto padre il Servo di Dio ne sia stato degno erede ed appassionato imitatore, quasi non bastasse la sua vita esemplare, attualmente al settaccio della Congregazione per le Cause dei Santi,  lo attesta l’agiografia edita  nel 1947 dalla Casa Editrice Salani di Firenze, con il seguente titolo: ”GIOVANNI DI DIO SANTO DEL POPOLO”, scittta proprio da lui, il prof. Igino Giordani.

Giordani - Il bastone di San Giovanni di Dio- pisa-baston

Il bastone di San Giovanni di Dio

Santo del popolo: epìteto più veritiero non poteva esserci. E che sia stato un popolano, a sua volta, a sollecitarne l’attenzione, a provocarne l’anima, uno di famiglia, lo attesta lui stesso nella premessa all’agiografia:

Giordani- Duomo di Tivoli smallDuomo2“Questa biografia di San Giovanni di Dio, si aggiunge per ultima alla serie da me apprestata per i “Vittoriosi”: Paolo, Ignazio, Maria di Nazareth…; ma la vita di questo “vittorioso” fu la prima, tra le agiografie da me avvicinate.

La lessi, ragazzo di prima e seconda ginnasiale, durante la Messa cantata domenicale, quando, non disponendo d’un libro liturgico, mi leggevo e rileggevo, su un volumetto illustrato, che era un dono dei Fatebenefratelli a mio padre, le avventure di questo ragazzo avventuroso, la cui indole eroica attraeva come quella d’un personaggio di poemi cavallereschi. E così la santità mi venne incontro, per la prima volta, come una fuga di ragazzo, messosi per le strade del mondo, a ricercar Dio e arrivato a scoprire la Maestà dell’Eterno sotto gli stracci del povero.

Giordani - San LorenzoDalle pareti affrescate della Cattedrale s’affacciano, tra schiere di seviziatori seminudi e al cospetto dei giudici carnosi, le figure assorte dei martiri e delle martiri tiburtine; e a me pareva che si trattasse di un’unica epopea di sacrifici e di sangue, di lotte e di vittorie, intrecciata alle porte di un’unica casa, dal portoghese del secolo XVI con i tiburtini del secolo III, attorno a Gesù di Nazareth.

Giordani - Santa Sinforosa smallPareteAbsidale2All’Ospedale di Tivoli serviva una comunità di Fatebenefratelli, e nella città e nel circondario era tra essi famoso un fra’ Sebastiano: noto per la sua grinta severa che spauriva, per il suo cuore di fanciullo che  innamorava e per la sua scienza d’infermiere che guariva.

Aveva un fare brusco che metteva in fuga gli oziosi, rassicurava i sofferenti.

Giordani smallParticolareAffrescoCappellaSLorenzoE calavano dai paesi, giorno per giorno, mucchi di povera gente, vestiti nei costumi, spesso pittoreschi e più spesso sporchi, delle loro montagne solitarie, d’Abruzzo e dei Prenestini, e si accoccolavano sui gradini dell’ospedale, a decifrare, i più bravi, l’indecifrabile monito iscritto sul travertino: Non te pigeat visitare infirmos, che qualcuno più saputo spiegava: – Non t’impicciare di visitare gl’infermi; – e così attendevano di essere visitati da fra’ Sebastiano per pigliarne rabbuffi e pillole e farsi strappare denti cariati dalle gengive e peccati imbarbariti dalle coscienze: il tutto gratis et amore Dei.

Giordani - San Generoso smallPareteAbsidaleRagion per cui quando salì al potere comunale l’amministrazione massonica, per fare qualche cosa, nel 1923, mandò via i frati dall’ospedale, nel quale erano stati chiamati nel 1729 dal vescovo Placido Pezzangheri, e, quintuplicando le spese, ottenne la riduzione ad un quinto dei servizi, e troncò quel flusso di soprannaturale, che impedisce all’infermiere di divenire un burocrate e all’infermo di sentirsi un tronco cionco.

Giordani - San Cleto diacono smallSLa gente seguitò a cercare fra’ Sebastiano a Roma e quando lo seppe morto lo pianse come un padre: il quale aveva tanto servito senza stancarsi e aveva tanto brontolato per non piangere di fronte alle miserie senza numero che gli sfilavano quotidianamente davanti.

(Il suo cognome era Bonomi; ammalatosi fu mandato prima a Nettuno poi a Benevento dove morì il 13 gennaio 1910 a sessantadue anni.)

Giordani - San Getulio smallSE questa è la caratteristica della santità e della fondazione di Giovanni di Dio: questa specie di compenetrazione della carità e della scienza con la miseria e l’umiltà della gente povera..

E così tornando, dopo tanti anni e tanta guerra, al santo dell’infanzia, mi pare di aver un po’ ripercorso il ciclo che egli poercorse, quando, dopo anni di vita errabonda, come pastore e come soldato, tornò, mutato e irriconoscibile, al paese dei suoi genitori da cui era fuggito bambino. Un ritorno: ché all’ospedale  dei Fatebenefratelli son legate le memorie dei miei genitori e di tante persone care portate là dentro dalla malattia e dalla religione: tante sofferenze lenite, tante lacrime asciugate. Là è morto mio padre: ma non c’erano più i frati; e nella camera mortuaria dove lo rividi danzavano, dentro il buio fitto, i topi.

Blandeau-Ephren Priore Generale o.h. 1939-1953Nel dare alle stampe questo che in certo qual modo è un tributo di riconoscenza ai benefattori silenziosi e discreti della mia gente, devo ringraziare chi più mi ha incoraggiato e sorretto nella fatica, durata in mezzo a difficoltà e occupazioni esorbitanti:

al Rev.mo P.Generale Efrem Blandeau, che ha messo a mia disposizione l’archivio della Casa Generalizia;

al Padre Provinciale fra Giovanni Berxhmans Merendi, che ha messo a disposizione la sorridente generosità della sua anima di discepolo di San Giovanni di Dio; al P: Gabriele Russotto che, come storico paziente, più era in gradi di aiutarmi nelle ricerche e come sacerdote aveva più risorse per esortarmi; e last but not least a P. Mondrone che per primo mi ha invogliato a trattare questo soggetto.

Giordani smallParticolareAffrescoCappellaS Lorenzo Cristo MortoNon dimentichiamo Mario Salani che subito ha preso fuoco – fuoco d’entusiasmo – al nome di Giovanni di Dio.

Il quale nome, nell’epoca nostra che prende all’insegna il sociale, ci richiama alla socialità cristiana primordiale, più genuina: quella che nutrisce senza far soffrire, che compagina le anime con lo scambio delle ricchezze e il servizio della fraternità.

Per essa, san Giovanni di Dio è il santo proletario che oggi ci abbisogna”. 

Urna contenente le reliquie di San Giovanni diDio - Granada

Giordani Igino

Urna di San Giovanni di Dio

All’ardore di Igino Giordani, il Padre Gabriele Russotto, fra l’altro, Postulatore delle Cause di Beatificazione di San Riccardo Pampuri e San Benedetto Menni, nonché dei Santi Martiri Spagnoli, ha risposto con altrettanto calore spirituale, quasi uno scambio di doni per alimentare il FOCOLARE DELLA CARITA’ sempre acceso nella santa Chiesa di Dio:

 GIOVANNI DI DIO

 VIVO E PALPITANTE

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Tra un numero e l’altro del suo giornale, il carissimo Giordani ha trovato il tempo di scrivere une altro libro; e questa volta, non un libro polemico di questioni sociali o politico-religiose, ma di agiografia , che è anche sociale ed apologetico: la vita di san Giovanni di Dio.

Presentare agli uomini dei nostri giorni, così terribilmente agitati e disorientati, i grandi santi della Chiesa, specialmente quelli che spesero tutte le loro inesauribili ricchezze  di mente e di cuore, in odo più tangibile al bene dell’umanità e a sollievo delle tante sue sofferenze  non è davvero un lavoro inutile, ma un contributo reale alla ricostruzione materiaale e morale della grande famiglia  umana, divisa e dilaniata dalla cieca furia di una guerra senza precedenti.

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L’attuale crisi, che travaglia penosamente la famiglia umana, è crisi di carità. Nei cuori di molti non arde più la carità che Cristo portò sulla terra; ed è questo il danno più grande che ci poteva capitare.

Molti hanno rigettato l’amore di Cristo e perciò sono caduti nella barbarie, sono tornati ad essere lupi gli uni con gli altri, sbranandosi a vicenda con diabolico furore: tremenda vendetta dell’amore rigettato!

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Il ritorno tra noi delle grandi figure della carità cristiana perciò non può non fare del bene a tante anime, smarrite tra i pensamenti di un razionalismo arido e gli accorgimenti di un materialismo infecondo.

Benvenute dunque in mezzo a noi queste care figure della santità e della carità cristiana.

San Giovanni di Dio è un santo della carità, ma di una santità e di una carità tutta sua.

Nella scuola della santità Giovanni di Dio si può dire un autodidatta. Non appartiene a una corrente di spiritualità, non crea una scuola speculativa con un suo orientamento personale: si forma da sè, attingendo direttamente alle fonti tradizionali dell’ascetica cristiana, guidato soltanto, o quasi, dalle ispirazioni della grazia che lentamente ma decisamente lo spinge alla santità, in lui tanto austera e pur tanto dolce.

La santità di Giovanni riflette, e non poteva essere altrimenti, il carattere cavalleresco e avventuriero del suo secolo. Ma le sue avventure furono le avventure della carità.

FUOCO Large_bonfireLa carità lo avvolse interamente nel raggio del suo calore e della sua luce, lo spinse irresistibilmente nel fortunato solco dell’amore di Dio e del Prossimo, e lo condusse nei bassifondi della sua città di adozione per portarvi cibo e indumenti, cure e medicine, luce e redenzione.

La carità divenne la pasione di questo umile figlio del Portogallo, vivente in terra di Spagna, che portava profondamente scolpiti nella sua grande anima l’ardore e la fantasia della penisola Iberica.

In questa biografia Giordani è riuscito felicemente, come c’era da attendersi, a presentarci quella peculiarità della vita di Giovanni di Dio.

Il suo Giovanni di Dio è il “santo proletario”, come egli stesso dice, “che oggi ci abbisogna”; il santo che “aveva sentito come non pochi, la solidarietà col popolo: con tutto il popolo, ricchi e poveri, ma soprattutto con i poveri, perché più tribolati, e aveva vissuto la loro vita come la propria vita. Aveva gettato la sua anima per loro e l’aveva ritrovata tra loro”.

Qui mi pare che stia tutto giovanni di Dio.

Giordani ci ha dato un Giovanni di Dio vivo e palpitante, con tutta la sua ardente ed amabile umanità, libero da quella cornice di leggende, formatesi intorno a lui, le quali più che ingrandirlo lo diminuivano e lo allontanavano tanto da noi.

Nel santo, in qualunque santo, noi vogliamo vedere l’uomo che brucia delle nostre passioni, che combatte e vince le nostre stesse battaglie.

Le biografie precedenti invece ci hanno presentato Giovanni di Dio circonfuso di prodigi e di miracoli, in modo da metterlo tanto ma tanto al di sopra della nostra povera natura umana.

In questa biografia Giordani non distrugge il santo, ma ci dà la vera statura del santo e ci dice qual’è il suo eroismo..

“In lui” scrive il carissimo autore “l’eroismo non deve ricercarsi con indagine psicologica: balza a ogni passo: è il suo stato d’ogni giorno e d’ogni notte.”

Queste mie parole non vogliono essere una presentazione del libro, si capisce: i libri di Giordani si presentano da sè; ma un vivo ringraziamento, mio personale e di tutti i miei confratelli.

Giordani ha fatto un lavoro utile e prezioso anche atutto l’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio.

                                                         P. Gabriele Russotto FBF

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La collaborazione con i Fatebenefratelli non si è conclusa con questa biografia. Il Giordani sull’omonima Rivista della Provincia Lombardo-Veneta  ha continuato a scrivere per anni. In questa citazione, trovata casualmente in internet, ancora si parla della carità in termini di fuoco, il suo chiodo fisso:

Giordani smallParticolareAffrescoCappellaSLorenzoIgino Giordani, Il Santo della Carità ospedaliera, Fatebenefratelli, 1965:

“Tra la fine del Quattrocento e il principio del Cinquecento, i lettori d’Italia, scoperto, come un mondo nuovo, il mondo classico, veleggiavano nei mari della cultura umanistica come nelle acque d’un arcipelago magnifico. Alcuni poi volavano tra i fantasmi della cavalleria come toccassero i margini d’un firmamento malioso. Evadevono gli uni e gli altri dalla realtà d’una politica mediocre e d’una economia che languiva.

Contemporaneamente i navigatori portoghesi, spagnoli e inglesi, con l’aiuto degli ultimi pionieri di Genova, scoprirono terre nuove, veleggiando in mari ignoti alla ricerca di ricchezze spettacolose, smaniosi di evadere dalla povertà

  • *Chi assiste i poveri assiste [Cristo]: e non tanto fa [bene] ad essi quanto fa bene a se stesso: chè il Giudice eterno ci giudica in base alle prestazioni a favore dei bisognosi. (p. 126)

  • *La carità è come l’incendio che si alimenta propagandosi [...]. (p. 134)

NB: Le immagini religiose disseminate qua e là sono affreschi del Duomo di Tivoli, le stesse di cui ci parla nella presentazione; santi e gloriosi martiri che nella sua fantasia facevano un tutt’uno con San Giovanni di Dio.

Fatebenefratelli  

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L’incendio dell’ OSPEDALE REGIO di Granada (di Igino Giordani)

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“…Un  giorno che Giovanni attendeva  alle sue mille e una occupazione per portare avanti la complicata azienda della miseria, un accorrere di gente urlante, spaventata, gli portò la notizia  che l’ospedale regio ardeva.

Si trattava del grande edificio che avevano fatto costruire i re cattolici Ferdinando e isabella: L’edificio dove Giovanni aveva sofferto e goduto del suo soffrire e dove centinaia di fratelli erano ricoverati.

Al pensiero di quelle creature in pericolo, di quelle membra sofferenti esposte alle fiamme, Giovanni non ci vide più; Balzò in piedi e, lasciato a mezzo il suo lavoro, corse, portato a volo dall’amore; e quando sboccò nella spianata, tra la calca che gemeva e urlava, gli si parò innanzi l’edificio avvolto di fumo.

Le Fiamme stavano investendo la più gran parte dello stabile e tra gli urli dei ricoverati lassù, e le strida della folla giù, si sentivano crollare i primi tetti. Giovanni vide solo nel suo pensiero quelle creature che dalla corsia invocavano soccorsi, e immaginò gli invalidi nei giacigli, i dementi nei ceppi…; e fattosi largo tra la ressa avanzò arditamente verso il portone, donde fuggivano inservienti e ricoverati che potevano muoversi.

La gente lo riconobbe:

- Giovanni di Dio! Giovanni di Dio! -

E il grido sonò tanto implorazione quanto meraviglia.

Giordani - LNell’andito invaso di fumo Giovanni, che conosceva bene lo stabile, avanzò ardito e salì le scale. Era solo: e solo un pazzo poteva avventurarsi in quella bolgia. Non sentendo nè l’arsura nè la stanchezza, cominciò a entrare e uscire per i dormitori, invasi di fumo, entro cui saettavano laceranti le invocazioni selvagge o fioche degli immobilizzati: e dai giacigli ne sollevò uno e lo portò verso l’uscio; e poi un altro; e poi un terzo…; e così di seguito, senza stramazzare sotto il peso.

Da solo salvò quanti malati, uomini e donne, erano restati; dopo di che, sapendo quel che la masserizia valesse per i poveri infermi, si mise con una rapidità e una forza prodigiosa, a radunar e gittar dalla finestra letti, mobilia, e coperte, quanto potè.

elfundador Giovanni di DioCiò fatto accorse a dare una mano ai volenterosi che s’erano accinti a spegnere l’incendio, ma a un certo punto una lingua di fuoco eruppe alle sue spalle, sbarrandogli la ritirata, mentre l’incendio ardeva urlando in faccia a lui. Una nuvola di fumo, tra il croscio delle travi, lo avviluppò, sì che la gente da basso, avendo osservato la scena, emise un urlo di terrore, convinta che egli fosse stato travolto nel vortice delle vampe.

La voce della sua eroica morte, con la rapidità del vento che alimentava la fiamma, si sparse tra la folla; e un clamore di lamenti si levò d’ogni parte. Ma a un tratto se lo videro balzar fuori dal groviglio, e discesa rapidamente la scala, vennir via ratto e illeso. Solo le ciglia erano arse. E allora la gente non potè reprimere l’impressione che egli fosse stato salvato con un miracolo, essendo passato visibilmente tra le fiamme; e un miracolo verosimile fu, il quale conferisce un colorito di fiamma alla carità di quest’uomo, offertosi intero agli altri, sì che la liturgia ricorda l’episodio nell’orazione della sua Messa festiva, pregando Dio che per i meriti del suo Giovanni, i vizi nostri siano medicati dal fuoco della carità divina.

Giordani-San Giovanni di Dio del Murillo John_of_god_murilloMa di consimili episodi, – narra il fido Francesco Castro – se ne potrebbero narrare molti.

Il gesto appare più eroico quando, investigando le cause dell’incendio, si comprese che esso era esploso a motivo dei troppi fornelli accesi in cucina per preparare un banchetto pantagruelico, a base di polli, pernici, e altri volatili d’eccezione per ordine e uso dell’amministratore che era un personaggio titolato, e quando faceva le cose le faceva con opulenza sardanapalesca, con i fondi dei poveri.

A noi che abbiamo seguìto dall’età di otto anni le vicende avventurose di Giovanni di Dio, il suo sprezzo del pericolo non desta sorpresa; e così non ci sorprendono i suoi atti di coraggio di prima e di poi.”  (Pag. 179-182)

Quindi andò a dissetarsi. Nel tornare verso l’albero, il bambino gli porse un melograno: un bel melograno aperto da cui sporgeva una croce; e gli disse:  - Giovanni di Dio, la tua croce sarà a Granata. – Ciò detto, scomparve.

Miracolo o leggenda, di lì è venuto alla famiglia di Giovanni di Dio il simbolo: un melograno aperto con una croce a sommo…”.

San Giovanni di Dio - Granada sarà la tua croce

 (Igino Giordani, “San Giovanni di Dio – UN SANTO DEL POPOLO”)

Giordani - San Severino smallAltareCappellaCrocefisso

NOTE BIOGRAFICHE

Primo dei sei figli di Mariano e Orsola Antonelli, nel 1900 iniziò le scuole elementari e già da ragazzino, nei giorni liberi e nelle vacanze estive, iniziò a praticare l’attività di muratore, sulle orme del padre.

Giordani - San Quirino smallAltareCappellaSSDopo aver frequentato il Seminario diocesano a Tivoli, alla vigilia della Prima guerra mondiale conseguì la licenza liceale e iniziò a frequentare la facoltà di lettere e filosofia all’università di Roma.

Partecipò al conflitto 1915 come sottotenente, e nel 1916 fu seriamente ferito e ricoverato in ospedale da dove fu dimesso solo dopo la vittoria.

Laureatosi in Lettere, iniziò a insegnare e nello stesso tempo avviò le prime collaborazioni a riviste e giornali.

Il 2 febbraio 1920 sposò a Tivoli Mya Salvati e si trasferirono a Roma. Dalla moglie ebbe quattro figli: Mario, Sergio, Brando e Bonizza. In autunno conobbe Luigi Sturzo e aderì al Partito Popolare. In ottobre scrisse i primi articoli politici per Il Popolo Nuovo, settimanale del PPI del quale fu il direttore nel 1924.

Giordani - San SimplicioDopo un corso di specializzazione in Bibliografia e Biblioteconomia seguito negli Stati Uniti, dal 1928 fu assunto come Bibliotecario della Biblioteca Apostolica Vaticana. A lui si deve la redazione di uno dei primi manuali organici di Catalogazione delle opere a stampa e manoscritte. In quello stesso anno si preoccupò di far assumere Alcide De Gasperi che da poco era uscito dal carcere e doveva subire le persecuzioni di parte fascista.

Il 2 giugno 1946 venne eletto deputato alla Assemblea Costituente per la circoscrizione di Roma, il 1º agosto succedette a Guido Gonella nella direzione de Il Popolo (1946-1947). A novembre dello stesso anno venne eletto consigliere comunale a Roma.

Il 17 settembre 1948 a Montecitorio incontrò Chiara Lubich e da quel momento condivise gli ideali dell’allora nascente Movimento dei Focolari. Fu il primo laico sposato a consacrarsi a Dio facendo parte di un focolare, l’unità basica del Movimento. Per l’apertura verso il mondo laico che seppe dare al movimento ne viene considerato un co-fondatore, insieme alla stessa Chiara Lubich, a don Pasquale Foresi ed al vescovo tedesco Klaus Hemmerle.

Fu uno degli autori del primo disegno di legge sull’obiezione di coscienza, nel 1949. Poi, nel 1953 uscito dalla vita politica, fu collaboratore dell’”Osservatore Romano” e de “Il Popolo“. Fu intensa la sua attività culturale in questo periodo.

Continuò a svolgere un lavoro importante nel movimento dei focolari:

 

  • Nel 1959 fu nominato direttore della rivista Città Nuova.

  • Nel 1961 venne posto alla guida del Centro Uno, organismo del Movimento che si occupa dell’ecumenismo.

  • Nel 1965 fu nominato presidente dell’istituto internazionale Mystici corporis a Loppiano.

 

Dopo la morte della moglie e col consenso dei figli, visse gli ultimi sette anni della sua vita in un “focolare”.

La sua opera ed i suoi ideali vengono perpetuati da numerose associazioni che ne portano il nome.

Attualmente, promossa dalla diocesi di Frascati, è in corso la sua causa di beatificazione.

Giordani Iscrizione casa

 

“La crisi del nostro tempo
si deve a tanti motivi,
che si riassumono in uno:
penuria d’amore.”

Igino Giordani, confondatore con Chiara Lubic del Movimento dei FocolariEntrato nel nuovo secolo e nelle elementari, precisamente nel 1901, mio padre mi assunse al lavoro, come garzone muratore, nei giorni liberi e nelle vacanze estive. Guadagnavo, mi ricordo, cinque soldi la settimana; pari a  una lira  ogni quattro settimane. Il mestiere mi piaceva, e ardevo di diventare autonomo. Ci vedevo un lato etico e uno eroico”

Così Igino Giordani (17.9.1894 – 18.4.1980) si racconta all’inizio di un’avventura che visse con intensità di pensiero e ardore d’ideali (sarà  chiamato “Foco“). Ebbe un suo personalissimo timbro nel battersi per grandi traguardi umani: libertà, giustizia sociale, pace (al servizio del “bisogno d’amore fra le genti”, scriveva nel 1919). Per essi affrontò precisi impegni culturali e politici nella crisi del vecchio Stato liberale, nel travaglio sotto il regime totalitario, e poi nella rinascente democrazia italiana. Testimoniò con la vita e proclamò con la penna realtà ecclesiali con cui precorreva alcuni contenuti del Concilio Vaticano II.
Grazie all’intervento di un benefattore aveva potuto continuare gli studi. Chiamato alle armi nel 1915, non sparò contro altre persone (“non nemici io ci vidi”), ma operò contro una fortificazione avversaria con impresa rischiosa, che gli guadagnò la medaglia d’argento e gli procurò una invalidità permanente.

 Laureato in lettere esercitò diverse attività professionali: fuori dall’insegnamento per le restrizioni politiche, andò in USA per studi da bibliotecario, e come tale si impiegò alla Vaticana. Per sostenere la famiglia – ebbe quattro figli -, ma anche in forza di una incomprimibile vocazione alla penna, fu scrittore e giornalista fecondissimo: migliaia di articoli, qualche centinaio di opuscoli e saggi, oltre cento volumi. Scrisse di patristica, apologetica, ascetica, agiografia, ecclesiologia, politica ed anche narrativa.

La notorietà da lui raggiunta in Italia e all’estero ci viene indicata dalla fortuna di alcuni suoi libri, che ebbero più edizioni e furono tradotti in Belgio, Francia, Stati Uniti, Argentina, Brasile, Spagna, Cecoslovacchia, Serbia, Portogallo, India, Giappone e Cina. Tuttora suoi volumi vengono tradotti, qualcuno anche in arabo.
Conosceva diverse lingue e pubblicò anche versioni dal greco e dal latino e da alcune lingue moderne.

Fu articolista in giornali e riviste italiane ed estere – come il “Commonweal” di New York e il “Novidades” di Lisbona.Tenne la direzione di quotidiani (“Il Quotidiano” 1944-1946, “Il Popolo” 1946-1947) e di periodici (“Il Popolo Nuovo” 1924, “Parte Guelfa” 1925, “Fides” 1930-1962, “La Via” 1949-1953, “Il Campo” 1946, “Città Nuova” 1959-1980).

E’ uno dei casi esemplari di cultura non accademica, ma di ampia incidenza: oggi viene proposto all’attenzione dei docenti da giovani che in università italiane ed estere svolgono tesi di laurea sull’uno o l’altro aspetto della sua multiforme testimonianza di vita e di pensiero.
Come politico visse una prima esperienza negli anni ’20 con don Sturzo, del quale si guadagnò la stima, ricevendo incarichi nel settore della stampa; riprese poi con De Gasperi e dal 1946 al 1953 fu prima tra i costituenti e poi “deputato di pace” (così amò definirsi).

Nel settembre del 1948 incontrava Chiara Lubich. Colpito dalla forte spiritualità del Movimento dei Focolari, vi aderì subito, collaborando a metterne in luce alcuni aspetti sia interiori che di socialità, tanto da essere considerato un confondatore.

“In me era entrato il fuoco”, confesserà. Il suo agire politico saliva di tono: da polemista sferzante, come era stato nel 1924-25, diveniva sostenitore del dialogo, proponeva intese inter-partitiche per la pace, e una politica in cui anche l’avversario sia amato. Insieme con un socialdemocratico, presentò la prima proposta di legge per l’obiezione di coscienza.


Come cristiano potè dichiarare: “prima avevo cercato, ora ho trovato”. Lo diceva specialmente in merito al totale essere Chiesa del fedele laico; e come focolarino apriva vie concrete per una ecclesiologia di comunione col proporre il pieno inserimento dei coniugati nel focolare, in unità di vita con celibi e sacerdoti.
Negli ultimi anni si dedicò in particolare all’attività ecumenica come direttore del Centro “Uno”.

Da http://www.flars.net/iginogiordani/italiano.htm
Foto: Igino Giordani (a dx) con Tommaso Sorgi suo biografo, ritratti a Teramo, 1960 ca. (da wikipedia)

 

Scrittore assai noto, politico, giornalista, patrologo, autore di opere sociali, Igino Giordani conobbe il Movimento a Roma nel 1948.

tabL’incontro fu per lui determinante.
tabScriverà lui stesso: “Possedevo in qualche modo tutti i settori della cultura religiosa: l’apologetica, l’ascetica, la mistica, la dogmatica, la morale… ma li possedevo culturalmente”. Non li vivevo interiormente”.

   Quando l’incontro avvenne, “alle prime parole avvertii una cosa nuova: il timbro di una convinzione profonda e sicura che nasceva da un sentimento soprannaturale.

Era la voce che, senza rendermene conto, avevo atteso. Essa metteva la santità alla portata di tutti; toglieva via i cancelli che separavano il mondo laicale dalla vita mistica.

 Avvicinava Dio: lo faceva sentire padre, fratello, amico, presente all’umanità…

Una cosa avvenne in me: l’idea di Dio aveva ceduto il posto all’amore di Dio, l’immagine ideale al Dio vivo.

Tutti i miei studi, i miei ideali, le vicende stesse della mia vita mi parevano diretti a questa mèta.
Nulla di nuovo, eppure tutto nuovo: gli elementi della mia formazione culturale e spirituale venivano a disporsi secondo il disegno di Dio…”

tabQuando nel 53, un gruppo di focolarine e focolarini si consacrava completamente a Dio durante la messa, Giordani era presente. In quanto sposato, non avrebbe potuto seguire questa strada, ma, colpito dalla grazia lodava il Signore per ciò che stava operando.

    E fu in quell’occasione che Chiara capì che anche gli sposati che avevano messo Dio sopra ogni cosa, potevano essere consacrati a Lui, se avessero impostato ogni cosa nell’amore; ed essere con ciò puri, obbedienti, poveri.
tabGiordani fu dunque il primo “ad essere percosso – come scrisse poi – da questa vocazione, al contatto con i primi focolarini.
tabE chi dirigeva ed animava il Movimento, vedendo un coniugato tra i focolarini, lo ammise a vivere secondo il loro stesso statuto, in quanto la condizione di coniugato, padre di famiglia, lavoratore, glielo consentiva”.

    Da quel momento, Giordani non è rimasto solo; altri sposati lo hanno seguito, impegnandosi a vivere tutta la vita nell’amore.
“Egli – afferma Chiara – è stato per noi sempre un simbolo dell’umanità, colui che ci teneva l’anima spalancata su tutta l’umanità, che impediva ogni reclusione, ogni limitazione. Egli, incarnando il “tipo” del laico post-conciliare, è stato si può dire, la ragione dello sviluppo del Movimento, in molti suoi aspetti.
Per esempio la riunificazione delle Chiese, per la quale sin da giovane si era battuto.
Ma soprattutto Giordani è stato come il seme di tutta la parte laica del Movimento dei focolari. Fu per lui che il Movimento sentì la particolare vocazione a permeare le realtà umane dello spirito di Dio”.

tabDopo la morte della moglie, e col consenso dei figli, visse in focolare gli ultimi sette anni di vita.

 

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SULLE ROTTE DELL’ HOSPITALITAS – Angelo Nocent

In costruzione

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SULLE ROTTE

DELL’ HOSPITALITAS

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con il navigatore solitario di Granada

 

Cristoforo Colombo, la scopera dell'America

Mentre Cristoforo Colombo scopriva l’America

 

Giovanni Ciudad scopriva l’ Uomo

In questo contesto, accanto a chi importava ricchezze dal nuovo mondo, c’era chi esporta l’amore fraterno e la carità operosa. Napoli è stata una delle prime città raggiunte dai discepoli delmendigo de Granada“.

Scrive il Magliozzi: “La generosa epopea vissuta per una dozzina di anni a Granada da San Giovanni di Dio, non si concluse però con la sua morte, dato che il suo messaggio, come aveva egli stesso profetizzato, si espanse e perpetuò nei secoli tramite la Famiglia Religiosa da lui fondata.

Già durante la sua vita Giovanni di Dio aveva avviato una seconda fondazione ospedaliera a Toledo, affidandola al suo discepolo Fernando. Nel 1552, a brevissima distanza dalla sua morte, il suo successore Antonio Martín apriva un Ospedale a Madrid ed altri ne seguirono in breve, per cui il primo gennaio 1572 venne presentata una richiesta al Papa San Pio V per ottenere l’inquadramento della nuova Famiglia Religiosa nell’ambito del diritto pontificio.

Il Papa aderì alla richiesta e con la Bolla “Licet ex debito” la approvò come Istituto Religioso Regolare, sottoposto alla Regola di Sant’Agostino, per cui i Confratelli cominciarono ad emettere la Professione Religiosa nelle mani del Vescovo locale.

Il 1572 segnò così la nascita canonica dei Frati di San Giovanni di Dio, che presero a diffondersi anche in Italia, dove ebbero il soprannome di Fatebenefratelli perché nel questuare ripetevano lo stesso ritornello del Fondatore, come ci ricordano queste ingenue terzine di una “villanella”,  ossia una canzonetta, in voga a Roma nel 1584:

 

         Vanno per Roma con le sporte in collo

         certi gridando: Fate Ben Fratelli,

         per medicar gl’infermi poverelli.

                     A questi non v’è donna tanto avara

                     che non faccia limosina e non sia

                     verso di loro liberale e pia.

 

Inizi del ‘500: la Spagna è dominatrice

 

Roberto Procaccini

 

“Prima dei successivi approfondimenti sulla storia di Napoli è opportuno analizzare qual era lo scenario mondiale all’inizio del Cinquecento.

 

Nei primi decenni del 1500 la Spagna, come si è visto negli ultimi articoli, è stata una delle grandi protagoniste della scena europea. La lunga stagione delle guerre con la Francia, l’ascesa di Carlo V, la questione dell’ ideologia imperiale e della difesa del Cattolicesimo: questi eventi non riguardano solo l’Europa occidentale, ma per le conseguenze che hanno avuto appartengono alla storia dell’umanità.

E, in questo contesto, va ricordata l’annessione al Regno di Spagna di quello di Napoli che, premesso dal cinquantennio dei re aragonesi, ha legato il Mezzogiorno d’Italia alla penisola iberica per più di duecento anni. Negli stessi anni, parallelamente al fronte europeo, la Spagna era impegnata in un’altra impresa dalla grandissima portata: la conquista dell’America.

 

Nel 1492, com’è noto, l’ammiraglio genovese Cristoforo Colombo, attraversando per primo l’Atlantico sulla rotta per l’India, approdò ai Caraibi. Sebbene il valore della scoperta non fu immediatamente inteso (Colombo credeva di essere giunto in una delle estreme propaggini orientali dell’Asia), il primo carico d’oro con il quale l’ammiraglio si presentò alla corte spagnola bastò affinchè gli venisse finanziata una nuova spedizione composta da 17 navi e 1500 uomini d’equipaggiamento (a fronte delle appena tre caravelle del primo viaggio).

 

Anche le altre potenze europee furono sollecitate dalla prospettiva di arricchimento che veniva dall’esplorazione delle nuove terre transatlantiche e, già dai primi anni del XVI secolo, Francia ed Inghilterra avviarono la perlustrazione delle coste del nord America.

 

Ma, in quel frangente, solo il Portogallo poteva fare una seria concorrenza alla Spagna: il regno lusitano, d’altronde, aveva forti interessi mercantili sull’Atlantico, avendo avviato l’esplorazione delle coste africane già dalla prima metà del XV secolo. Ai suoi ingegneri, inoltre, si doveva l’invenzione della caravella che, potendo affrontare lunghi viaggi (necessitando pochi uomini per essere manovrata e potendo incamerare numerose provviste), si rivelò fondamentale in questa stagione di scoperte.

 

Ed infatti nel 1500 il Portogallo fondava quella che, col senno di poi, si sarebbe rivelata la sua colonia più grande: il Brasile. Nel primo ventennio del XVI secolo la Spagna, invece, si limitò a governare le isole di Cuba, Giamaica e Portorico, dai cui porti gestiva i traffici commerciali verso la madrepatria. Queste tre postazioni bastarono perchè il regno iberico divenisse il principale importatore di oro e metalli preziosi in Europa.

 

La situazione cambiò a partire dal 1519, anno in cui Hernàn Cortès, perlustrando le coste dello Yucatan, comprese di essere entrato in contatto con una civiltà ben diversa da tutte quelle con le quali gli spagnoli si erano precedentemente confrontati. Cortès, infatti, aveva incontrato sulla sua strada l’Impero Azteco, una federazione di città-stato guidata dalla capitale Tenochtitlàn (una metropoli da 250.000 abitanti) la cui popolazione era impregna ta di una fiera cultura militarista. Sebbene fosse partito con appena 508 soldati, a Cortès bastarono due anni per annientare l’Impero Azteco e dare il via alla conquista del continente americano.

 

Nel 1527, invece, Francisco de Montejo guidò l’annessione dell’altra grande civiltà indigena del centro America, ovvero quella dei Maya. Anche in questo caso la conquista fu semplice, ma la popolazione oppose una disperata resistenza per la quale ci vollero altri vent’anni prima che la regione potesse essere definita dagli spagnoli “pacificata”.

 

Nel 1529 vi fu l’ultima grande impresa di un conquistador spagnolo: Francisco Pizarro partì alla volta del Perù per sottomettere l’Impero Inca, l’unico stato americano basato sulla continuità territoriale, caratterizzato da un’ingegneria civile sviluppatissima e da una rigida organizzazione della società.

 

La conquista dell’America continentale è stato un momento importante non solo perchè costituì l’atto di nascita del colonialismo europeo, ma anche perchè rappresentò la prima vera occasione di confronto tra la nostra civiltà e “l’altro”, sia inteso come “ignoto” sia come “selvaggio”.

I motivi del rapido e incontrastato successo delle truppe spagnole contro gli eserciti indigeni sono stati oggetto di grandissimo studio. Solitamente si pone in evidenza la schiacciante superiorità tecnologica degli iberici ed il fatto che gli amerindi non conoscessero la guerra a cavallo (per essere più precisi non conoscevano neanche il cavallo), cosa che ha permesso agli spagnoli di non soffrire la minorità numerica. E a questo dato si aggiunge che gli europei portarono con loro diverse malattie sconosciute in America per le quali gli indigeni non avevano difese immunitarie e che alla lunga fecero più vittime della polvere da sparo.

Probabilmente il fattore più rivelante fu la paralisi cognitiva (come viene definita in ambito storiografico) che colse gli amerindi di fronte gli spagnoli: per quanto gli europei fossero sorpresi dal conoscere popolazioni di cui non si sapeva nulla, la stagione delle esplorazioni li aveva predisposti alla scoperta. Gli indigeni, invece, furono battuti innanzitutto dallo stupore del doversi confrontare con uomini così diversi, comparsi dal nulla, ma decisi ad annientarli.” 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fra Pascal - CIMG4275

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  I gioielli di famiglia

 

 

 


 

Apri il video: L’ospedale della foresta (Rai Tre)

 

 

 

Giovanni Ciudad, detto di Dio

 

UN AVVENTURIERO

 

ILLUMINATO

 

Questa è la storia per immagini di un avventuriero illuminato che avrebbe avuto bisogno di incontrare un San Giovanni di Dio e lo trovò in se stesso…

 

 

 

San Giovanni di Dio lascia Montemor o Novo a otto anni con uno sconosciuto…

 

 

L’esperienza militare di san Giovanni di Dio nell’esercito di Filippo II . Liberato ed espuslo, dopo una sentenza di morte…

 

 

San Giovanni di Dio soldato, soccorso dalla Vergine…

  

San Giovanni di Dio, il viandante senza meta e senza fissa dimora…

 

 

San Giovanni di Dio fa lo spacca pietre a Ceuta per mantenere una una nobile famiglia in miseria… 

 

San Giovanni di Dio venditore di libri a Gibilterra e poi a Granada…

 

 

” Giovanni, a Granada sarà  la tua croce…”

 

 

La conversione di Giovanni di Dio per la predicazione del santo Giovanni d’Avila nella festa di San Sebastiano a Granada…Sarà la sua guida spirituale nella grande avventura…

 

 

San Giovanni di Dio, dopo la conversione, confessa pubblicamente la sua miseria, invocando la pietà di Dio. Il suo comportamento è considerato pazzesco. Schernito e deriso dalla piazza, alla fine viene compassionevolmente internato…

 

 

San Giovanni di Dio internato nell’ospedale Regio di Granada…

 

 

San Giovanni di Dio nel suo primo ospedale in locali presi in affitto…

 

 

Per San Giovanni di Dio la sofferenza non è soltanto fisica. La sua carità non conosce limiti: farsi tutto a tutti.

Gli appartiene anche il mondo della prostituzione che affronta con la Passione di Cristo nel cuore…

 

 

San Giovanni di Dio in nosocomio come pazzo tra i malati mentali…

 

 

San Giovanni di Dio un uomo nella prova e nella tentazione…

 

 

“Ogni volta che…l’avete fatto a me”. “Mio Signore e mio Dio!”

 

 

San Giovanni di Dio porta la croce. Sulla sua schiena il dolore del mondo… “Non sono più io che vivo, Cristo vive in me”.

 

 

Per le vie di Granada lancia il suo messaggio che raggiungerà i confini della terra:

 ”Fatevi del bene, fratelli, per amore di Dio…!”

 

Anche i sovrani, i nobili, i ricchi…sono oggetto della sua carità: “Non scordatevi della beneficenza e della comunione dei beni, perchè il Signore si compiace di tali sacrifici”.

 

 

Anche i Bambini sono oggetto della sua attenzione…

 

 

Ricevuto il Santo Viatico, San Giovanni di Dio viene lasciato solo. Lui scende dal letto ed abbraccia il Crocifisso. Lo troveranno morto in ginocchio, come una statua davanti all’Eterno…

Il suo primo discepolo sarà Anton Martin, un uomo in preda al delirio di vendetta, convertito dalle sue parole e dall’esempio…

 

Il povero di Granada apre la via a una discendenza che si tramanda il suo carisma riconosciuto dalla Chiesa come hospitalitas

I suoi fratelli in Italia saranno chiamati dalla gente : “Fatebenefratelli”.   


 

La Compagnia dei GLOBULI ROSSI ne è l’ espressione laicale: donne e uomini nella linea della continuità. 


  

San Benedetto Menni, il milanese impiegato di banca che nel volontariato, durante la battaglia di Magenta, trasporta feriti all’Ospedale Fatebenefratelli dove scoprirà la sua vocazione di frate e sacerdote.

A 26 anni Pio IX lo invia in Spagna a restaurare l’Ordine, dopo le soppressioni degli ordini religiosi. Fonderà le Suore del Sacro Cuore.

L’ultimo santo della lunga catena è il giovane medico chirurgo Riccardo Pampuri. Le sue spoglie si trovano nella nativa Chiesa Parrocchiale di Trivolzio. Oggi è meta di pellegrinaggi, luogo di guarigioni e conversioni… 

Qualsiasi cosa avrete fatto a uno di questi…l’avete fatto a me”.

Il Risorto, il Vivente…a partire da Emmaus: “Lo riconobbero allo spezzar del pane”. Lo si può riconoscere con-dividendo 

 

LE ICONE:

La sporta e il bastone…

Un albero rigoglioso  di melograni…

 

Carità antica, mezzi moderni…

  

Un poco de historia  

 

  


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 VAI A         FATEBENEFRATELLI 

 

 Frate oggi 

 

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frate…?

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frate…?

 

 

 

 

 

 

 

 

     

Gesù

 

è la mia

 

gioia !

  

  

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Hemos visto al Padre Roquero en la playa, y ahora…   

  

 


  

 INDICE ARGOMENTI                

 

  • SAN RICCARDO PAMPURI Biografie  - SAN RICCARDO INTERCESSORE  
  • PIERLUIGI MICHELI Biografia  –  PIERLUIGI MICHELI COME LO VEDO IO  -  CONVIVIUM
  • S A L M O T E R A P I A 
  • SAMARITANI O ALBERGATORI ?
  • FRATRES O.H.  -   FATEBENEFRATELLI 
  • IL MELOGRANO   -    ISOLA TIBERINA
  • UTA onlus    -  NOTIZIARIO U.T.A.   -  PARLIAMOCI: il sito per con-dividere    
  • Free Hugs = ABBRACCIO GRATIS

     

    Hambre de lucha [imagesCAFI30SY.jpg] 

     

      

  • Video de voluntariado – pásalo   

       

    escrito por The Bro’ @  


    Beato Guillermo Llop e i  70 compañeros mártires 

     

     

     

     

     

     

     

    sgdd-beato-guglielmo-lopp-246x300 

     

      CENNI STORICI 

     

    IL PRIMO OSPEDALE in Calle Lucena, 34

     

     

    Vai  a: Il primo ospedale  

     

    EL CID CAMPEADOR 

     

    LA RICONQUISTA SPAGNOLA

    La vittoria riportata a Calatrava da Alfonso V, re di León, al principio dell’XI sec., aveva dato modo ai cristiani di occupare buona parte della Spagna. La conseguenza fu che il califfato di Cordoba prese a spezzettarsi, intorno al 1031, in piccoli emirati indipendenti, mentre le Asturie, il León e la Galizia formarono un unico regno di Galizia.Viceversa, da parte cristiana si assisteva a una progressiva centralizzazione dei poteri, propagandata come necessaria per poter sconfiggere il nemico islamico e, in cambio dell’impegno militare, si prometteva terra ai contadini e affari per commercianti e artigiani.

    I più importanti emirati arabi, spesso in lotta tra loro, divennero quelli di Siviglia, Malaga, Granada, Saragozza e Toledo. Si stava assistendo allo scontro di due realtà feudali, di cui quella arabo-berbera era in fase di declino, in quanto al decentramento dei poteri politici non aveva fatto seguito, a livello locale, una democratizzazione delle condizioni socioeconomiche dei lavoratori. I vari emirati volevano soltanto avere gli stessi poteri del califfato, senza dovergli dipendere.

    Sotto il re del León, Alfonso VI (1065-1109), la Castiglia si unì col León e la Galizia. Toledo, quando fu strappata al califfato (1085), divenne subito capitale della Castiglia.

    La caduta di Toledo provocò l’intervento del sultano almoravide del Marocco, Yusuf (1086), che impose la sua superiorità militare, sorretta dal fanatismo religioso, su diversi “re” ispano-musulmani, da Siviglia a Valencia, eliminando l’aristocrazia arabo-andalusa, spegnendo quasi del tutto il rigoglio artistico-culturale e rendendo la vita difficile ai sudditi cristiani ed ebrei, molti dei quali si rifugiarono presso i principi cristiani (fatto di rilievo in sede culturale).

    Gli Almoravidi erano un movimento fondamentalista islamico, sorto in Africa settentrionale, tra i nomadi e contadini berberi, che mal sopportavano l’oppressione dei feudatari arabi locali. Essi, dopo aver conquistato quasi tutto il Maghreb, portarono la capitale del nuovo Stato in Marocco, a Marrakesh.

    Poiché gli emirati in Spagna non erano più in grado di fronteggiare l’avanzata cristiana, si decise di chiedere l’appoggio delle truppe almoravide, le quali, nella battaglia di Zalhaca, nel 1086, infersero una grave sconfitta alle milizie cristiane di Alfonso VI, che fu di nuovo battuto nel 1108 a Uclés.

    Tuttavia, siccome i berberi han sempre visto gli arabi come conquistatori, appena ottenuta la vittoria sui cristiani, invece di tornarsene in Marocco, rivolsero le armi contro gli emiri di Spagna, conquistando i loro principati uno dopo l’altro.

    La politica interna degli Almoravidi fu molto oppressiva, prevalentemente fiscale e militare, senza che si risparmiassero persecuzioni contro le culture cristiane, ebraiche e laiche.

    Questa politica provocò forti risentimenti e ribellioni in Spagna, e anche in Africa si formò un nuovo movimento berbero (gli Almohadi), non meno reazionario dell’altro, che se da un lato riuscì a sconfiggere gli Almoravidi nel 1145, dall’altro non migliorò affatto la situazione in Spagna, anzi qui la riconquista trovò numerosi sostenitori tra i crociati europei, soprattutto francesi, tanto che nel 1212, nella battaglia di Las Navas de Tolosa, si riuscì a conseguire una vittoria molto importante, che fece progredire rapidamente la marcia verso sud. La coalizione spagnola era capeggiata da Alfonso VIII di Castiglia, la cui opera fu continuata dal figlio Ferdinando III e da Giacomo I d’Aragona.

    Contro gli Almoravidi combatté il famoso hidalgo castigliano Rodrigo Diaz de Bivar, detto il Cid Campeador, idealizzato in seguito nell’epos popolare spagnolo (1). Le sue truppe riuscirono ad occupare Valencia (1094) e il territorio circostante, anche se dopo la sua morte, avvenuta cinque anni dopo, fu nuovamente rioccupata dai berberi.

    Anche i contadini si ribellarono a più riprese (1110, 1117) contro gli Almoravidi, unendosi alla lotta delle truppe castigliane e aragonesi (quest’ultimi, con Alfonso I d’Aragona, presero Saragozza nel 1118, facendone la capitale del secondo regno peninsulare, reso poi più potente dall’unione con la mediterranea Catalogna).

    Catalogna e Aragona si unirono nel 1137, suscitando preoccupazioni e rivalità da parte degli altri Stati cattolici, al punto che non si riuscì mai a realizzare una strategia d’intervento comune contro l’invasore musulmano. Infatti l’unione di León e Castiglia, sotto il re Ferdinando III (1217 – 1252), riuscì soltanto nel 1236 a prendere Cordova e Siviglia nel 1248.

    Successivamente, nel corso del sec. XIII, il regno d’Aragona conquistò le isole Baleari, Valencia (1238) e Murcia (1266), che in seguito andò alla Castiglia.

    Nel 1282, invece di concentrarsi sulla definitiva riunificazione della penisola iberica, gli aragonesi, che volevano sostituire gli arabi nel dominio del Mediterraneo occidentale, occuparono la Sicilia. Viceversa, i castigliani si spingevano fino all’estremo sud del paese, prendendo Jerez e Cadice.

    Intanto nella parte occidentale della penisola si formò il regno indipendente del Portogallo (1143), sotto la protezione della chiesa di Roma.

    Terminata con la conquista di Cadice (1262) la fase “aurea” della Reconquista, questa entrò in una lunga stasi, dovuta a un complesso di cause. Anzitutto non era affatto escluso il pericolo di un’ennesima invasione musulmana e la Castiglia, priva di una marina propria, dovette tenere sotto controllo lo stretto di Gibilterra, servendosi soprattutto della flotta genovese (né mancarono gli scontri armati, specie all’epoca di Alfonso XI, che respinse l’ultimo tentativo marocchino nella battaglia del Salado, 1340, e quattro anni dopo conquistò Algeciras con l’aiuto navale di Aragonesi e Genovesi).

    In secondo luogo, le ambizioni “imperialistiche”, nate dalle vittorie sui Mori, dovevano mettere la Castiglia in urto con gli altri due più importanti regni peninsulari: l’Aragona (forte e ricca per le conquiste e la politica di Giacomo I nel Mediterraneo e l’attività commerciale della marina catalana) e il Portogallo, tenacissimo nel rifiutare la supremazia castigliana e vincitore ad Aljubarrota (1385).

    Ma più grave fu la crisi interna: distribuendo le fertili terre meridionali tolte ai Mori fra gli ordini militari (Calatrava, Alcantara, Santiago) e i cavalieri castigliani collaboratori della conquista, i re di Castiglia crearono potenti e indocili feudatari, incapaci d’altra parte di far produrre i loro latifondi, spesso in lotta con i contadini moreschi e facili debitori di denaro nei confronti dei banchieri ebrei (a cui, del resto, gli stessi re ricorrevano continuamente, mancando del tutto di idee in materia finanziaria).

    Ne derivarono la decadenza dell’agricoltura andalusa delle comunità contadine e la conseguente potenza della Mesta (cartello dei feudatari produttori di lana, che arrivò a essere un vero Stato entro lo Stato), e infine carestie, sommosse e odio antiebreo. Di qui alle guerre civili non c’era che un passo e infatti, incominciate all’epoca di Alfonso X, continuarono a lungo con momenti ed episodi di vera tragedia, come al tempo di Pietro I il Crudele (1350-1369), assassinato dal fratello bastardo Enrico di Trastamara.

    Si aggiungano infine le calamità naturali, come la terribile peste nera del 1348 (con successive ondate nel 1362, 1371, 1375), che devastarono il paese più ancora delle guerre civili. Enrico di Trastamara, il fratricida, e i suoi successori, sempre più deboli e incerti, regnarono per un secolo su un paese sconvolto dalla fame, dai pogrom antiebraici (feroce quello di Siviglia nel 1391), dalle rivolte dei contadini, dei borghesi, dei grandi signori, invano contrastate da qualche raro politico illuminato, come don Álvaro de Luna, finito sul patibolo nel 1453.

    L’ultimo dei Trastamara, Enrico IV (1454-1474), tentò di difendere i conversos (ebrei convertiti al cattolicesimo) e di por fine all’insubordinazione della grande nobiltà, ma fu deposto da quest’ultima, che lo sostituì con la sorella di lui, Isabella, maritata nel 1469 al re d’Aragona, Ferdinando.

    Tuttavia, nonostante il caos in cui era caduta la Castiglia, già nella seconda metà del XIII sec. quasi tutta la Spagna era in mano ai regni di Castiglia e di Aragona. Agli arabi non restava che un piccolo territorio attorno a Granada, nel regno di Andalusia, in una situazione di vassallaggio, fino al 1492, nei confronti dell’ormai dominante Castiglia.

     

     


     

    I REGNI DI SPAGNA

     

    Mappa

    Regno di León e Castiglia

    Nella prima metà dell’XII sec. le rivolte contadine contro i feudatari laici ed ecclesiastici furono molto forti soprattutto in Galizia. Nel 1117 e nel 1136 i contadini dell’arcivescovado di Compostela si unirono agli strati più poveri della popolazione di Santiago, creando un’alleanza di resistenza, detta hermandad (fratellanza).

    Spesso i movimenti contadini si diffondevano su territori molto vasti, come quello p.es. del León. Anche in quelli tolti agli arabi essi dovettero condurre una dura lotta contro i signori feudali. P.es. alla fine del XII sec. riuscirono a impedire in Castiglia la vendita dei servi insieme alla terra e a ottenere che i matrimoni tra servi non avessero bisogno del permesso del signore locale.

    Le città castigliane, che facevano di tutto per rendersi autonome dai signori feudali, avevano grandi reparti militari e, se si esclude la parte meridionale, una scarsa produzione artigianale e commerciale. Nella seconda metà del sec. XI ottennero il diritto all’autoamministrazione e quello di istituire propri tribunali.

    Alla fine del sec. XII si fusero in un’alleanza la cui potenza era tale che gli statuti proibivano a chiunque, incluso il re, il minimo attentato alle libertà cittadine.

    Durante le varie fasi della riconquista i feudatari laici ed ecclesiastici, che praticavano soprattutto l’allevamento ovino, raggiunsero una grande potenza politica ed economica: essi p.es. fruivano di ampie immunità giudiziarie e tributarie. Una grande estensione di terre apparteneva anche agli ordini religioso-cavallereschi, i quali non dipendevano dal papato, ma dall’autorità laica.

    Le immense greggi di pecore merinos venivano trasferite in inverno in Estremadura e i loro proprietari, avendo pieno diritto di pascolo su terre statali e collettive, mandavano facilmente in rovina le aziende dei piccoli contadini. D’altra parte tutte le comunità contadine liberi, esistenti in Castiglia, durante la riconquista, dovettero progressivamente accettare, dopo l’unificazione, la loro feudalizzazione. E’ vero che il contadino mantenne sempre il diritto di trasferirsi in un’altra località, ma in tal caso era obbligato a lasciare la terra al feudatario. E la rendita che il contadino doveva versargli era sempre in denaro e in corvées.

    La condizione peggiore dei contadini era proprio quella dei regni di Castiglia e di Aragona. Borghi e villaggi andavano in rovina e si spopolavano. I nobili si opponevano strenuamente all’abolizione del servaggio, cosa che invece trovava favorevole la corona. Sotto i regni di Giovanni II (1406-54) e di Enrico IV (1454-74) i grandi feudatari erano così ostili alla corona che devastavano interi villaggi, come mai i mori avevano fatto.

    L’ordinamento sociale della Castiglia si esprimeva nell’assemblea rappresentativa (Cortes) degli ordini (o stati) del regno, con funzione meramente consultiva. Questo parlamento sorse in pratica dalle assemblee dei nobili e del clero, che venivano convocate dai re del León già nei secoli X-XI. Alla fine del sec. XII vi partecipavano anche i rappresentanti delle città, sia del León che della Castiglia. Tra la borghesia vi erano anche gli esponenti delle comunità contadine libere. E tutti i parlamentari si riunivano accompagnati dai rispettivi reparti armati.

    Nel XIII sec. le Cortes si attribuirono il diritto di petizione da presentare al sovrano e quello di accordare al re la riscossione di nuove imposte. Esse avevano una certa importanza anche per questioni di guerra e pace e per la successione al trono.

    Regno d’Aragona-Catalogna

    L’Aragona invece era una delle regioni più arretrate della Spagna, mentre la Catalogna, con cui formava un unico regno, era una delle più avanzate, a motivo dei commerci mediterranei. Però nell’ambito del regno unito la prevalenza politica spettava proprio all’Aragona, data la grande potenza dei feudatari latifondisti, i quali dovevano sì partecipare alle spedizioni militari del re, ma potevano anche entrare in rapporto con sovrani esteri se il re non rispettava le loro libertà.

    L’alta nobilità aragonese controllava il potere reale attraverso il giudice supremo, che pur era designato dallo stesso re. Egli poteva persino impedire il mandato d’arresto emesso dal tribunale reale.

    Il clero, che aveva privilegi non meno illimitati, s’era particolarmente rafforzato, sul piano politico, durante la lotta contro gli Albigesi. (1)

    Le continue rivolte contadine in Aragona, a differenza di quelle castigliane, non determinarono sensibili miglioramenti nelle condizioni di vita rurali, anche perché i cintadini aragonesi non disponevano dell’organizzazione e della forza militare di quelli castigliani, mentre i nobili aragonesi-catalani erano più potenti e più uniti di quelli castigliani. Le stesse città aragonesi avevano molta meno importanza di quelle castigliane.

    Nelle Cortes del regno unito aragonese gli ordini non erano tre ma quattro, poiché, accanto al clero e alla borghesia urbana, vi erano da un lato l’alta nobiltà e dall’altro quella media e piccola, che non a caso si trovava spesso alleata alle città e alla corona contro i grandi nobili, laici o ecclesiastici che fossero. Da notare che nelle Cortes bastava il veto di un solo deputato per bloccare una proposta di legge.

    La Catalogna invece aveva città, come Barcellona, Valencia ecc., che nel XII sec. avevano un notevole sviluppo artigianale e commerciale, che aumentò ancora di più dopo la conquista delle isole Baleari e della Sicilia.

    Particolarmente sviluppate erano la metallurgia e la cantieristica navale. Sarà proprio la Catalogna che farà diventare l’Aragona una potenza mediterranea e poi atlantica.

    I signori feudali catalani avevano il diritto di tenere per sé la proprietà di un contadino che non avesse figli, e di tenerne una buona parte anche quando esistevano gli eredi. Inoltre percepivano numerose imposte, anche quando una contadina si sposava, e riscuotevano ammende in caso d’incendio delle loro proprietà…

    I contadini non avevano libertà di movimento, e potevano essere scambiati, regalati, impegnati e venduti, con o senza terra. Quando fu permesso loro di riscattarsi, il prezzo era talmente alto che non erano mai in grado di pagarlo.

    Nel 1462 in Catalogna vi fu una rivolta contadina guidata dal piccolo nobile Verntallat, che si estese anche alla Francia meridionale. Durò dieci anni, finché nel 1472 il re dovette alleggerire gli obblighi più gravosi. Tuttavia nel 1474 tutte le concessioni furono annullate dai feudatari ecclesiastici. La lotta riprese nel 1484, capeggiata questa volta dal contadino Pedro Juan Sala, ma i nobili ebbero la meglio e Sala fu giustiziato. Le proteste continuarono, finché i contadini riuscirono ad ottenere la libertà personale, che però non servì affatto a migliorare la loro situazione, in quanto tutti i tributi vennero mantenuti.

    Un’altra famosa rivolta fu quella di Fuente Ovejuna, presso Cordoba, scoppiata nel 1476. Viene descritta dal drammaturgo Lope de Vega.

    Ruolo della chiesa spagnola

    Alla formazione di una nazione iberica divisa in regni indipendenti, in cui i latifondisti fossero i signori assoluti, giocò un ruolo di primo piano la chiesa cattolica spagnola, che per aumentare il proprio potere fece scatenare, per mezzo degli ordini religiosi (2), continue crociate anti-islamiche.

    Attraverso la chiesa s’impose l’uso del latino come lingua scritta, mentre le parlate erano dei dialetti (lingue romanze). Il castigliano prese a diffondersi alla fine dell’XI sec., influenzato dalla lingua dei visigoti e, attraverso i mozarabi, anche dalla lingua araba, che le diede tantissimi vocaboli e calchi espressivi da renderla più chiara e dinamica delle altre lingue, nobili e arcaiche. Nel XII sec. furono redatte in questo dialetto varie opere letterarie (3) e nel sec. XIII fu tradotta dal latino la raccolta delle leggi del León e della Castiglia. Il castigliano divenne lingua predominante proprio per il ruolo decisivo svolto da questo regno ai fini della liberazione nazionale.

    Avendo voluto condurre la riconquista secondo i crismi delle crociate medievali, la chiesa pretese nel 1480 l’uso dell’Inquisizione, allo scopo di eliminare arabi, ebrei ed eretici. La stessa opposizione politica al re cominciò ad un certo punto ad essere considerata come una forma di eresia religiosa.

    Durante il periodo in cui il domenicano Torquemada era capo del tribunale inquisitorio, più di 8.000 “infedeli” furono mandati al rogo. Inquisitori e delatori ricevevano 1/3 dei beni dei condannati, il resto andava alla corona.

    Regno del Portogallo

    Parlando di “regni iberici” occorre necessariamente dire qualcosa anche del Portogallo, la cui autonomia dai regni di León e Castiglia ebbe inizio con la vittoria sugli arabi presso Ourique nel 1139, dopodiché il conte Alfonso Enriquez fu proclamato re del Portogallo.

    Egli in pratica era un vassallo del papa, con l’obbligo di pagargli annualmente una determinata somma di denaro. Il re del León accettò questa soluzione pontificia solo nel 1143. Inutile dire che ciò contribuì allo straordinario rafforzamento del clero e degli ordini religioso-cavallereschi della penisola lusitana.

    Le lotte dei re portoghesi contro le pretese papali, che spesso si servivano di interdetti e scomuniche, durò circa tre secoli (XII-XIV). Dionigi I (1279-1325) riuscì a limitare i poteri giurisdizionali del clero e proibì alla chiesa l’acquisto di nuove terre, finché, all’inizio del XV sec., re Giovanni I (1385-1433) sottomise di fatto il clero all’autorità reale.

    Nelle regioni settentrionali del Portogallo, riconquistate agli arabi da molto tempo, i contadini erano completamente asserviti dai feudatari laici ed ecclesiastici. Al sud invece esistevano ancora comunità contadine libere, che gli arabi avevano rispettato, o comunque esistevano contadini che, in cambio di un impegno militare contro i mori, potevano rivendicare condizioni più vantaggiose.

    Appena conclusa la riconquista molti piccoli cavalieri, che consideravano inammissibile per il proprio onore qualsiasi altra occupazione che non fosse il servizio militare, decisero di attaccare arabi e berberi anche sulle coste africane. Molti però si trasformarono in navigatori e si dedicarono al commercio o a cercare nuove rotte per l’India. Sicché il Portogallo, da paese prevalentemente agricolo, cominciò a diventare anche molto commerciale, specie sulla costa atlantica, dove le città ricevevano ogni forma di privilegio reale, tanto che verso la metà del XIII sec. i loro rappresentanti comparivano nelle riunione delle Cortes.

    Nel 1415 il Portogallo occupò la fortezza africana di Ceuta, punto di partenza fondamentale per la conquista della costa occidentale africana.

                             Isabella di Castiglia            Ferdinando d'Aragona

        

    L’unione politica della Spagna

    L’unione politica della Spagna si compì nel 1479, quando Ferdinando, sposatosi in precedenza con Isabella di Castiglia, divenne re di Aragona. Ciò fu reso possibile anche dal fatto che sul trono di Aragona sedeva, dal “compromesso” dinastico di Caspe (1412), una dinastia di origine castigliana. (4)

    Tuttavia, l’unione fu più geografica-territoriale che politico-istituzionale; infatti il matrimonio dei futuri re cattolici (così titolati dal papa dopo la conquista di Granada, 1492) non portò alla fusione dei rispettivi Stati. Al contrario, questi conservarono frontiere, assemblee (Cortes) e governi distinti, anche quando, dopo la morte del genero Filippo di Asburgo, Ferdinando fu reggente del regno di Castiglia (1506-16).

    Con l’appoggio dei piccoli nobili e della borghesia si cominciò la lotta contro i grandi feudatari, favorevoli al frazionamento del paese. Essi persero il diritto di battere moneta e di condurre guerre autonome.

    Non potendo abolire gli ordini religioso-cavallereschi, re Ferdinando pretese di diventarne “gran maestro”, in tal modo ne ebbe a disposizione gli averi.

    Una volta limitato il potere dei grandi feudatari, cominciò gradatamente a ridimensionare i diritti delle città all’autoamministrazione, mirando a controllarle tramite propri funzionari.

    Lo spirito di Isabella sarà avvertibile soprattutto nelle vicende interne della Castiglia: ristabilimento forzoso dell’ordine; avvio a una riforma religiosa integralistica; nascita dello “spirito di crociata”, che portò alla conquista dell’ultima roccaforte araba: il regno di Granada, in undici anni di guerra (1481-92), all’introduzione dell’Inquisizione e all’espulsione degli ebrei.

    Isabella ridimensionò le pretese della riottosa aristocrazia, ma non le tolse la sua privilegiata posizione politica e territoriale (latifondi, maggioraschi, ecc.) e rispettò anche tutti i privilegi della Mesta (cartello degli allevatori), per cui, in definitiva, la crisi dell’agricoltura castigliana non fece che aumentare.

    Senza contare il crollo dei commerci e delle industrie (nonostante provvedimenti protezionistici) e il caos finanziario dopo l’espulsione degli ebrei (1492). E quando la sorte elargì alla Castiglia di Isabella il dono inaspettato dell’America, con la favolosa quantità dei suoi metalli preziosi, questi non risolveranno affatto la crisi economica, ma anzi, paradossalmente, l’aggraveranno.

    Spetta invece al “politico” Ferdinando il tentativo di voler fare della Spagna una potenza europea di rango internazionale, con la conquista dell’Italia meridionale e della Navarra, le spedizioni d’Africa (1509-11) e le alleanze con la casa di Borgogna e la casa d’Austria, che, rovesciando la politica filofrancese della Castiglia medievale, avranno gravi ripercussioni sul destino di un paese che non riuscirà mai a scrollarsi di dosso i retaggi di un passato cattolico-feudale.


    (1) Seguaci del movimento ereticale sviluppatosi tra XII e XIII secolo nel Mezzogiorno occitanico della Francia (Linguadoca), soprattutto a Tolosa e ad Albi, con addentellati in Spagna. (torna su)

    (2) Il più importante degli ordini religiosi fu quello domenicano, nato proprio in Spagna, che ebbe un ruolo centrale nella gestione dell’Inquisizione. I domenicani erano i propagatori militanti della teologia cattolica più reazionaria. Altri ordini erano quelli dei Templari, dei Giovanniti, di S. Giacomo di Compostela, di Alcantara, di Calatrava ecc. (torna su)

    (3) La più importante di tutte fu quella del Cid Campeador del 1140, composto probabilmente da un giullare di Medinaceli pochi anni dopo la morte del Cid. La leggenda ce l’ha tramandato come un eroe senza macchia e senza paura, un mito della Riconquista anti-islamica. In realtà Rodrigo Diaz de Bivar era un feudatario senza scrupoli, che non disdegnava alcun mezzo per raggiungere i suoi scopi e che si alleò persino coi mori pur di combattere dei feudatari rivali. Altri testi che meritano d’essere letti sono Il libro del buon amore di Juan Ruiz (1283-1350) e Celestina, di Fernando de Rojas. (torna su)

    (4) L’accordo siglato nel piccolo centro di Caspe (Aragona) dai pretendenti al trono dell’Aragona dopo la morte di Martino l’Umano (1410), riconobbe re Ferdinando, infante di Castiglia (28 giugno 1412). I moderni storici giudicano negativamente il compromesso di Caspe che sacrificò il candidato catalano Jaime de Urgel a quello castigliano, impostosi più con la forza che col diritto.

     


     

    LA DOMINAZIONE ARABA

     

    Moschea di Cordova

    Dopo la caduta del regno visigoto, la Spagna fu incorporata nel califfato arabo di Damasco e se gli arabi non fossero stati fermati da Carlo Martello a Poitiers nel 732, lo sarebbe stata anche la Gallia.

    Qualcosa però gli arabi non riuscirono a conquistare e forse fu l’errore più grave della loro storia di conquista, poiché proprio da qui scattò il movimento di resistenza ispanico dei contadini e montanari della Cordigliera Cantabrica e dei Pirenei, che porterà poi alla riscossa nazionale.

    Si tratta del piccolo regno ispano-visigoto presso i monti delle Asturie, guidato dal semi-leggendario Pelagio I (718-737), con capitale Oviedo (inizi sec. IX). Un forte appoggio venne dai Franchi, preoccupati del pericolo musulmano sulla loro frontiera meridionale; per questo Carlo Magno realizzò una spedizione nel 778 che non poté conquistare Saragozza, ma rafforzò un secondo staterello, quello di Pamplona, e portò poi alla creazione della Marca Ispanica, forte caposaldo militare, con una “contea” indigena, quella di Barcellona, a partire da Wifredo il Velloso (874-898).

    Altre piccole contee pirenaiche, a cominciare da quella d’Aragona, nacquero per l’appoggio dei Franchi, salvo poi rendersene indipendenti di fatto.

    La Spagna non fu conquistata solo dagli arabi e dai siriani, ma anche e soprattutto dai berberi. Gli arabi dovettero sostenere dure lotte contro quest’ultimi in Marocco e alla fine riuscirono a sottometterli proprio promettendo loro la conquista della penisola iberica (che poi, alla resa dei conti, ai berberi spettarono le conquiste meno significative).

    Quando entrarono in Spagna i conquistatori arabi e berberi offrirono condizioni migliori ai contadini, tanto che i baschi si allearono coi berberi pur di non avere i franchi nel loro territorio. Gli arabi non pensarono neppure di sottomettere gli indomiti pastori-banditi delle montagne cantabriche e in molti casi vennero a patti con i caudillos locali, limitandosi a riscuoterne tributi e tasse, senza modificare, l’antico “cantonalismo” spagnolo. Col passare del tempo, tuttavia, tornò in auge l’esigenza d’imporre rapporti servili e persino schiavili, che gli iberici già conoscevano dai tempi dei romani e dei visigoti.

    Non solo, ma i nobili arabi e berberi, una volta trasformatisi da guerrieri a feudatari, cominciarono a mostrare segni di insofferenza nei confronti del califfato di Damasco, da cui dipendevano specie per le questioni fiscali. E i primi a ribellarsi esplicitamente furono proprio i berberi nel 743.

    Nell’ambito del califfato di Damasco la dinastia degli Omayyadi governò il mondo arabo dal 661 al 750. Tale dinastia considerava le questioni politiche non meno importanti di quelle religiose, sicché riuscì a trasformare lo Stato islamico da aggregato di tribù in un efficiente organismo supernazionale, facendogli raggiungere la massima espansione geografica. L’arte e la cultura di questo periodo, sotto i califfi di Cordova, fu di altissimo livello.

    Gli scontri religiosi tra sunniti, sciiti e kharigiti e la volontà di riscatto da parte delle popolazioni vinte che, una volta islamizzatesi, non accettavano più di piegarsi ai voleri dell’etnia araba, finirono per produrre, già nell’VIII secolo, la crisi della dinastia, sostituita nel 750 da quella degli Abbasidi, che trasferirono la loro capitale a Baghdad, dove regnarono fino al 1258.

    Anche questa dinastia, che pur segnò un primo ridimensionamento dello strapotere arabo a favore dell’elemento persiano, volle realizzare una politica di centralizzazione, ma fece l’errore di sostituire le tribù che fino ad allora erano state il nucleo della compagine amministrativa e militare dell’islam, con milizie regolari nelle quali l’elemento straniero (p.es. turco) finì con l’avere il sopravvento, proprio come strumento del potere personale del sovrano. Le aree provinciali cercarono di rendersi sempre più indipendenti, indebolendo le difese dell’impero, la cui capitale Baghdad fu incendiata dai tatari nel 1258. Da allora la dinastia sopravvisse in una serie di pseudo-califfi fino al 1517, in Egitto, ma ormai era sopraggiunto il momento per l’espansione della potenza turca, che assunse il potere reale dei califfi abbasidi.

    In Spagna, dopo il crollo della dinastia Omayyadi, giunse un principe omayyade, scampato alla strage della sua famiglia a Damasco. Egli riuscì a convincere i principi arabi e berberi a formare un emirato indipendente dal centralismo dei califfi di Baghdad. Questo nuovo Stato ibero-islamico sarebbe durato due secoli e mezzo, prima come emirato (756-928), poi come califfato di Cordova (929-1031).

    La dominazione ebbe anche degli aspetti positivi, poiché avendo gli arabi molti rapporti coi paesi evoluti dell’Asia anteriore, seppero portare in Spagna nuove colture: riso, palma da datteri, melograno, canna da zucchero; nuove tecniche agricole: irrigazione, sericoltura, viticoltura e diffusero ampiamente l’allevamento degli ovini. Migliorarono di molto anche la lavorazione dei metalli e la tessitura.

    Città come Siviglia, Cordova, Valencia, Granada, Toledo si svilupparono enormemente, proprio perché nel mondo arabo erano forti anche i commerci e l’artigianato. La sola Cordova, nel X sec., aveva circa mezzo milione di abitanti ed era forse, in questo periodo, la più colta e fiorente città europea.

    La composizione etnica della penisola era diventata assai eterogenea: ispano-romani, visigoti, arabi, berberi, ebrei. Tra le popolazioni autoctone si formarono due gruppi distinti: i muvalladi, che accettarono l’islam conservando la lingua latina, e i mozarabi, che assimilarono la lingua araba conservando il cristianesimo.

    La cultura araba non aveva nulla da invidiare a quella latina dello stesso periodo. Nelle scuole superiori di Cordova s’insegnavano non solo teologia e diritto, ma anche filosofia, matematica, astronomia (1), fisica, medicina e vi si recavano a studiare allievi provenienti da molte parti d’Europa e d’Asia. Nella biblioteca del califfo Hakam II (961-976) si traducevano anche opere scientifiche dal greco antico, e nell’XI sec. queste stesse opere furono ritradotte dall’arabo al latino.

    Una prima ribellione contro la politica dell’emirato vi fu a Toledo nell’853, ma quella più significativa fu condotta dai contadini, che sotto il segno della libertà di religione, organizzarono una rivolta sulle montagne di Ronda (899-917), guidati da un nobile di origine visigota. Riuscirono a conquistare un notevole territorio, governandolo per 30 anni come Stato indipendente. Altri contadini del centro-sud della penisola tendevano a fuggire al nord, verso le aree dominante dai cristiani.

    Nonostante questo, l’emirato di Cordova, che nel 929 era stato proclamato califfato, era in grado di controllare buona parte della penisola, centralizzandone l’amministrazione, anche se non riuscì mai a unificare sotto la bandiera dell’Islam la penisola. La flotta di questo califfato dominava nettamente l’area occidentale del Mediterraneo (nell’846 attaccò Civitavecchia e Roma).

    Verso la seconda metà del  X sec. si aprì una forte contesa tra i feudatari arabi legati all’apparato statale e quelli delle province, che volevano maggiori poteri, minacciando, in caso contrario, di non fornire più alcuna milizia.

    I califfi di Cordova, per non dipendere da questi feudatari locali, si crearono una loro guardia permanente, composta da schiavi (mamelucchi), provenienti dalle tribù dell’Europa orientale e condotti in Spagna dai mercanti di schiavi.

    Questo tuttavia non poté impedire l’acutizzarsi delle spinte centrifughe e delle guerre intestine feudali (ivi incluse quelle tra arabi e berberi, mai sopite): il califfato in sostanza finì col suddividersi in decine di emirati e principati, detti “regni di taife” (dall’arabo taifa, banda, fazione o partito), ciascuno con dinastia e vicende proprie (1031-1492).

    I piccoli Stati cristiani (il regno delle Asturie e l’ex-marca spagnola) cercarono di approfittare della situazione. Nel sec. X il regno asturiano si era potuto estendere, pressoché indisturbato, verso ovest (Galizia) e a sud-est (con nuova capitale a León, 914), raggiungendo la valle del Duero: in pratica il regno delle Asturie, unendosi con la Galizia e con una parte della futura Castiglia (“regione dei castelli”), assunse il nome di León, anche se all’inizio dell’XI sec. la Castiglia si separò diventando un regno indipendente (fino al fiume Duero).

    Oltre a questi regni s’andavano formando quelli di Navarra, di Aragona e di Catalogna, separatisi dalla vecchia marca spagnola.

    Alla riconquista partecipavano tutte le classi sociali, con grande maggioranza dei contadini, i quali, man mano che penetravano nel sud della penisola riuscivano a liberarsi di molti obblighi feudali. Nelle città si eleggevano i membri del consiglio cittadino, i funzionari amministrativi e i giudici. La classe dominante restava sempre quella aristocratica latifondistica, sia laica che ecclesiastica, con pari doveri di tipo militare. L’alta aristocrazia poteva condurre guerre anche in maniera autonoma rispetto alla volontà del re, non pagava le tasse e possedeva diritti di immunità.

    La prima fase della riconquista terminò con la presa della città di Toledo, sotto il re Alfonso VI di Castiglia, aiutato da “crociati” franchi (uno dei quali fu poi suo genero e primo “conte di Portogallo”). Intorno al 1085 il León e la Castiglia, uniti sotto il dominio di un unico sovrano, ingrandirono di molto il loro territorio.

    * * *

    Quali sono state le influenze della civiltà araba su quella europea? Come noto la contrapposizione tra mondo islamico e occidente era più tra imperi o Stati che non tra popoli e quando diventava anche tra popoli era a causa di una propaganda faziosa e integralista, strumentale a interessi di potere.

    Molte delle nostre abitudini consolidate da generazioni (i colori che prediligiamo per gli abiti in estate o in inverno, le pratiche igieniche e di bellezza come, ad esempio, il taglio corto dei capelli per l’uomo, la depilazione per la donna), dei cibi, delle discipline che studiamo (la chimica, la matematica, l’algebra, la filosofia greca, la medicina, la botanica, l’agronomia, l’astronomia, e così via), sono giunte fino a noi dal Medioevo attraverso la civiltà arabo-islamica.

    Le abitudini quotidiane dell’Europa dall’VIII secolo in poi, p. es., furono completamente rivoluzionate da un eclettico artista iracheno trasferitosi nella Spagna musulmana: Ziryab. Egli infatti introdusse l’uso della forchetta, l’ordine delle portate a tavola, creò mode nell’abbigliamento che si diffusero rapidamente divenendo patrimonio di tanti paesi.

    Anche gli studi filosofici hanno beneficiato dell’apporto islamico: i commentari in lingua araba di Averroè (Ibn Rushd) alle opere di Aristotele furono tradotti in latino e in ebraico ed esercitarono una grande influsso sul pensiero cristiano nell’Europa medioevale.

    Le “influenze arabe” nella Divina Commedia di Dante Alighieri – la traduzione in latino del Libro della Scala di Maometto, cioè il racconto del viaggio ultraterreno del Profeta dell’islam – sono oggi ampiamente riconosciute. L’introduzione delle cifre arabe (notazione posizionale) e la risoluzione delle equazioni di 3° grado, si devono ai viaggi che Leonardo Fibonacci da Pisa, vissuto nel XII secolo, fece nel mondo arabo.

    Dalla Spagna islamica, inoltre, arrivarono importanti innovazioni in materia urbanistica, come la creazione del sistema fognario, dei bagni pubblici o la costruzione di vie di comunicazione verso le grandi rotte commerciali; l’introduzione della “noria” in agricoltura, che facilitò l’irrigazione dei campi e la coltivazione di piante fino ad allora sconosciute, come la melanzana, il carciofo, l’asparago, il riso, la canna da zucchero, e così via.

    La stessa lingua araba, nel Medioevo, era considerata lo strumento della comunicazione scientifica internazionale e veniva utilizzata sia dai musulmani sia dai cristiani e dagli ebrei che vivevano nei paesi sotto dominio islamico.

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    Nell’analizzare la storia dell’unificazione nazionale spagnola spesso si incontrano degli storici, anche di sinistra, che fanno questo curioso ragionamento: posto che la centralizzazione dei poteri è da preferirsi al decentramento feudale, in quanto tutta la storia dell’Europa moderna, cioè della nascita delle “nazioni”, sarebbe stata impossibile senza gli Stati assolutistici; posto anche che la democrazia in sé non dipende dal centralismo di uno Stato né dalla presenza di un forte decentramento regionale, per cui, dovendo scegliere, è meglio optare per quella soluzione che offre maggiore sicurezza di successo politico, quale conclusione se ne trae riguardo alla realtà musulmana presente in Spagna? Semplicemente si preferisce guardare assai benevolmente al decentramento operato da questa realtà, rispetto alla madre patria di Damasco e di Baghdad, perché proprio in virtù di questa scelta politica i regni cattolici, col loro centralismo, poterono alla fine avere la meglio.

     


     

    IL REGNO DI GRANADA

    L’ultimo stato musulmano dell’Europa occidentale, costituito intorno alla sua capitale, Granada, misurava circa 30.000 kmq (grande come l’odierna Armenia o il Guatemala) e corrispondeva grosso modo alle tre attuali province di Malaga, Granada e Almeria.

    La dinastia che lo governò fino al 1492 fu quella Nasride, il cui fondatore, Yusuf ibn Nasr, riuscì a rendersi autonomo dal califfato degli Almohadi, originario del Maghreb.

    Quando Ferdinando III (1217-52), re di Castiglia, fu in procinto di conquistare l’ultimo baluardo islamico, Yusuf propose di pagargli un ingente tributo annuale, come fosse un suo vassallo, e Ferdinando, accettando, assicurò la pace per altri 20 anni.

    Moschea di Cordova

     

    Quella di Yusuf non fu ovviamente una manifestazione di lealtà dettata da motivi ideali. E’ vero che quando si trattò di prendere Siviglia nel 1248 Yusuf aiutò Ferdinando, rinnovando altresì il giuramento di vassallaggio anche nei confronti di Alfonso X il Saggio (1252-84), successore di Ferdinando, ma è pur vero che ciò non impedì a Yusuf di allacciare stretti legami coi sovrani che detenevano il potere nel mondo musulmano. P.es. nel 1239 si proclamò vassallo anche del sovrano Almohade di Marrakech e contemporaneamente nei confronti del principe Hafside di Tunisi.

    Yusuf in sostanza era abilissimo nel costruire reti di alleanze e protezioni e, nella fattispecie, non faceva che sfruttare le divisioni interne al mondo cristiano spagnolo. D’altra parte il suo regno, essendo multietnico, plurilingue e interconfessionale, costituiva una vera scuola di diplomazia politica e di tolleranza socioculturale.

    La popolazione era tanto più numerosa quanto più i sovrani cattolici sbaragliavano le forze islamiche nelle altre regioni iberiche. Il regno di Granada non ha mai chiuso le frontiere ai profughi economici e politici, anche perché aveva continuamente bisogno di manovalanza da impiegare nell’esercito: tutte le città del regno erano cinte di possenti muraglie.

    Inoltre i musulmani ivi residenti, gli arabi-siriani e yemeniti, i berberi, i cristiani mozarabi, gli ebrei… erano molto industriosi. Le zone montagnose p.es. erano famose per la sapiente arboricoltura che vi si praticava. I granadini erano grandi esperti di idraulica, di irrigazioni, di terrazzamenti. I raccolti di cereali, di canna da zucchero, di frutta… erano ottimi ed esportati in tutta Europa.

    Il gelso, presente ovunque, permetteva una fiorente industria della seta, principale prodotto per i costosi mercati d’Italia e di Fiandre.

    Risorse di tutto rilievo erano gli allevamenti di bovini, ovini e l’apicoltura. Non a caso il regno attirava molti mercanti catalani, valenciani, veneziani, ebrei, toscani e soprattutto genovesi, che fruivano di un regime di favore e che nel XV secolo ottennero il monopolio commerciale della frutta.

    Da notare che gli arabi avevano anche il monopolio della fabbricazione e del commercio della carta, in quanto grandi estimatori della cultura scritta.

    Ciò che non funzionava nel regno (ma questo era un problema di tutti i territori islamici in Spagna e persino di tutti i territori iberici sotto l’insegna cristiana) era la rivalità interna, soprattutto tra le famiglie aristocratiche, dinastiche, nonché tra queste famiglie, nel loro complesso, e la corona, che cercava in qualche modo di controllarle. Erano i conflitti tipici di un’organizzazione feudale divisa in classi, in cui i ceti proprietari volevano fruire di privilegi assoluti. L’unità politica, temporanea, era determinata dall’esigenza di combattere nemici comuni e sempre in relazione a un interesse da tutelare.

    Yussuf ebbe a che fare con famiglie che si alleavano persino coi sovrani castigliani, pur di non veder compromessa la loro autonomia nei rapporti col governo centrale. In tutto il mondo arabo hanno sempre prevalso tipologie di Stato in cui le componenti claniche o tribali costituivano l’aspetto saliente, assolutamente irrinunciabile.

    La tendenza a tutelare privilegi acquisiti, se non addirittura ad aumentarli, la si ritrova anche nei rapporti tra i grandi signori feudali di Castiglia e di Aragona, rivali nei loro rispettivi territori e nel rapporto tra le due regioni cattoliche.

    Vi sono stati dei momenti in cui alcuni signori feudali castigliani si rifugiarono proprio a Granada per sfuggire al controllo dei loro sovrani. Ma lo fecero anche molti ebrei perseguitati e persino alcuni francescani in odore di eresia. Furono ospitati in tutta tranquillità, perché nel mondo islamico cristiani ed ebrei, pagando uno specifico tributo, venivano tollerati, benché fosse loro interdetta ogni forma di proselitismo.

    Tutta la storia dei rapporti politici tra cattolici e islamici, nella Spagna feudale, può essere letta come lo scontro di due civiltà medievali, in cui l’elemento dell’autonomia locale vuole circoscrivere in limiti sempre più ristretti la tendenza centralizzatrice della corona. Sotto questo aspetto le civiltà che si confrontano sono equivalenti. E la vittoria finale sarà appannaggio dei cristiani solo perché in un lasso di tempo sufficientemente ampio il governo centrale riuscì ad avere la meglio sulle tendenze autonomistiche dei propri vassalli.

    La guerra d’assedio contro Granada, durata 11 anni, fu vinta dai cristiani non tanto per la superiorità dell’artiglieria, quanto perché i dissidi interni al regno islamico e la mancata soluzione delle contraddizioni feudali non permettevano più alcuna valida difesa.

    Se guardiamo il livello di produttività economica del regno di Granada (ma anche degli altri territori islamici che i cristiani avevano già conquistato), dobbiamo dire ch’esso era di molto superiore a quello dei regni cattolici. Pur non avendo mai posto le basi di uno sviluppo sociale in senso capitalistico, la civiltà islamica in Spagna fu sicuramente molto più mercantile di quella ispanica.

    Le maggiori ricchezze di questi territori hanno sempre costituito per le forze cattoliche di governo, incapaci anch’esse di risolvere i conflitti causati al loro interno dai rapporti feudali, un oggetto di possibile conquista, nell’illusione di poter risolvere proprio quei conflitti (p.es. si concedevano parte delle terre conquistate ai contadini che avevano collaborato come militari, ma poi i rapporti feudali riportavano gli stessi contadini alla miseria).

    Detto altrimenti, l’unificazione nazionale spagnola non avviene come quella italiana di 300 anni dopo, in cui le forze borghesi avevano necessità di costituire un unico mercato nazionale, ma, al contrario, avviene in nome di interessi feudali coi quali eliminare dal paese ogni traccia di cultura borghese, che pur si esprimeva entro i ristretti limiti di due religioni conservatrici: quella islamica e quella ebraica.

    La cultura spagnola dei poteri dominanti non si integra mai con le culture “altre”, soprattutto se queste culture rappresentano una forma di diversità dai rapporti feudali tradizionali, quale appunto era lo sviluppo dei commerci (che nella Spagna cattolico-feudale erano presenti solo nelle coste catalane). Nel solo anno 1510 furono bruciati almeno 80.000 libri di inestimabile valore solo perché erano scritti in arabo. La stessa cosa stavano facendo i coloni spagnoli nelle terre americane, coi documenti delle civiltà andine.

    Si è in questo senso perduta una grande occasione di incontro e di scambio culturale, che avrebbe potuto essere proficua per tutte le civiltà iberiche.

    Pensiamo soprattutto al fatto che a Cordova si formò il cosiddetto “momento andaluso” della filosofia araba, rappresentato dai due grandi pensatori, Averroè (1126-1198) e Maimonide (1135-1204), quest’ultimo autore ebraico della famosa Guida dei perplessi. Prima di loro c’era stato Avicenna (980-1037), altro grande filosofo arabo. Costoro posero le condizioni per la diffusione in Occidente del sapere aristotelico, pressoché dimenticato nel Medioevo latino.

    Si può anzi dire che proprio in virtù dei loro commenti e delle loro traduzioni, la riscoperta dell’aristotelismo, nelle università europee, porterà al rinnovamento in senso umanistico della teologia cattolico-romana, che si trasformerà da agostiniana a tomista, e che segnerà un punto di non ritorno verso la trasformazione progressiva della teologia in filosofia.

    Forse non tutti sanno che fino al Seicento avere un precettore arabo era cosa scontata per i figli delle famiglie più abbienti (come nel mondo latino classico averne uno di cultura greca). Papa Silvestro (999-1003) studiò da giovane presso diversi maestri arabi a Toledo. E persino il Cid Campeador, eroe anti-islamico, dovette la sua educazione a un maestro arabo di Granada.

    Purtroppo – a testimonianza di quanti strappi vadano ricuciti – ancora oggi è raro trovare dei manuali di letteratura italiana che evidenzino il contributo decisivo della poetica araba andalusa su quella trobadorica romanza. Proprio i poeti andalusi idearono la poesia strofica, dove spesso dominava il tema esistenziale della “nostalgia”.

    E che dire dei componimenti descrittivi di palazzi e giardini? Qui si raggiunse un vertice ineguagliato nella letteratura occidentale. Gli edifici vengono descritti con metafore riprese dal mondo vegetale, che armonizzano l’opera umana con la forma paradisiaca per eccellenza, quella appunto del giardino.

    A Granada addirittura le stesse fontane, le arcate, le alcove vennero materialmente impreziosite da versi poetici, scolpiti in uno stile calligrafico a motivi floreali, che parlano di ciò che decorano: infatti tutto è bello da vedere e da leggere insieme, in un rimando costante al piacere dell’occhio e a quello della poesia, che trasforma con la scrittura la parola in un fiore e il palazzo in un giardino.

     


     

     LA QUESTIONE EBRAICA

    Ebrei di Spagna

    Le persecuzioni antiebraiche ebbero inizio in Spagna durante l’interregno del 1391, allorché 4.000 ebrei furono massacrati dai cattolici a Siviglia.

    Il motivo di questa persecuzione è presto detto. Anzitutto bisogna dire che nel rapporto arabi-ebrei le persecuzioni antisemite durarono solo fino al regno di Omar, il califfato elettivo (632-661), che caratterizzò il periodo del grande espansionismo arabo. Quando gli arabi o i berberi perseguitavano gli ebrei non lo facevano perché questi erano “ebrei” ma perché erano “avversari politici”, non meno dei cattolici.

     Quando l’invasione in Spagna dei fanatici berberi Almohadi, nel 1146, aveva posto fine alla pace assicurata dai califfi di Cordova, gli ebrei erano semplicemente emigrati nella parte già dominata dai principi cristiani, i quali li avevano accolti favorevolmente, proteggendoli e allo stesso tempo sfruttandoli come fonte di reddito. Essendo loro proibita la proprietà terriera, vivevano solo nelle città, dove esercitavano i commerci e il prestito (agli ebrei p.es. era consentito di tenere aperte le botteghe in occasione delle festività religiose, ma anche di effettuare prestiti a interesse, in un’epoca in cui il denaro non veniva ancora considerato un mezzo per ottenere ricchezza).

     


     

    L’ASSOLUTISMO DI CARLO V

    Alla fine del XV sec. la Spagna era un paese unito e sotto i sovrani cattolici erano state poste anche le isole Baleari, la Sicilia, la Sardegna e nel 1504 il regno di Napoli.

    La popolazione era compresa tra i 7,5 e i 10 milioni di abitanti. Nonostante il fiorire di talune città, il paese restava prevalentemente agricolo e tecnicamente arretrato, se si esclude la zona di Granada e di Valenza, dove i moriscos (discendenti degli arabi e dei berberi divenuti cristiani) praticavano vaste irrigazioni, la coltivazione dell’uva, delle olive, della canna da zucchero e dove avevano piantato palme da datteri, gelsi e agrumeti.

    I grandi allevatori, che avevano dato una netta prevalenza agli ovini, si erano associati in una sorta di “cartello monopolistico”, chiamato Mesta, e spadroneggiavano per tutta la penisola, impedendo ai contadini di recintare le loro terre per salvarle dalle rovina del passaggio di milioni di capi.

    Carlo V

     

    La Mesta smerciava tantissima lana là dove era fiorente l’industria tessile: Fiandre, Francia, alcune città italiane e hanseatiche. La monarchia appoggiava il cartello perché ne ricavava forti entrate erariali, tanto che già nel 1489 le aveva concesso il diritto di utilizzare i pascoli delle comunità, anzi, addirittura di impadronirsene se i proprietari non protestavano.

    Gravati dal peso delle imposte, dal giogo degli usurai e impotenti di fronte a questi allevatori, i contadini, nella prima metà del XVI sec., erano alle corde. La produzione agricola non bastava neppure per le esigenze locali. Tutta la Spagna settentrionale doveva fare ricorso al grano d’importazione.

    Nell’Aragona, in particolare, s’era conservato un pesante retaggio feudale. Praticamente i giuristi di questa provincia equiparavano i contadini agli schiavi romani e permettevano ai signori di disporre totalmente della loro vita.

    In Castiglia la loro situazione era migliore solo sul piano giuridico ma non su quello socioeconomico, per cui anche qui fuggivano in massa dai loro paesi, oppure si trasformavano in mendicanti, vagabondi, peones (braccianti senza terra) e spesso le leggi del paese li obbligavano a ritrasformarsi in operai con salari da fame. Nel 1585 vi fu una grande rivolta, duramente repressa, nella contea di Ribagorza, sul versante meridionale dei Pirenei.

    Le poche tracce di protocapitalismo, nella forma della manifattura sparsa o accentrata, focalizzata sulla produzione di panni, seta, porcellane, sapone…, si trovavano soprattutto nella zona di Siviglia, che fruiva del diritto esclusivo di commercio con le colonie americane. Ma anche Toledo non era da meno, con la sua produzione di armi e pelli, mentre nelle Asturie e in Biscaglia le imprese si specializzavano nella cantieristica navale.

    E così altre città: Segovia, Granada, Burgos…, che fornivano viveri, vestiario, armi agli hidalgos (piccola nobiltà) conquistatori del Nuovo Mondo appena scoperto, i quali pagavano in oro e argento.

    Naturalmente qui si ha a che fare con una produzione mercantile di molto inferiore a quella coeva di paesi come Fiandre, Inghilterra, Francia e Italia, ma la Spagna aveva i presupposti materiali per recuperare molte posizioni.

    Le ragioni per cui il paese restasse prevalentemente agricolo e non riuscisse a decollare in modo capitalistico sono molte e complesse.

    Anzitutto bisogna dire che il passaggio dal feudalesimo al capitalismo avrebbe potuto non essere considerato necessario se solo si fosse riusciti a trasformare l’economia agraria in un qualcosa di democratico per tutti i contadini. Di fatto, nessuna rivolta contadina è mai riuscita a spezzare l’egemonia del latifondo, il servaggio, il monopolio degli allevatori… Le rivendicazioni al massimo si sono fermate sul terreno giuridico relativo alla libertà personale.

    In secondo luogo va detto che con la cacciata degli arabi e degli ebrei la formazione di una mentalità mercantile ha come una battuta d’arresto, che sarà poi irreversibile quando si cacceranno i moriscos nel 1610 e i gesuiti nel 1767.

    Persino quando si disponeva di un immenso territorio coloniale, da gestire in tutta tranquillità, l’aspirazione principale restava quella di vivere di rendita, sfruttando il lavoro degli indios nelle miniere, non quello di impiantare attività produttive di trasformazione delle materie prime. P.es. nel campo tessile le città esportavano soprattutto le materie prime e dovevano importare il prodotto finito perché il loro era di bassa qualità.

    Nella prima metà del XVI sec. – che è il periodo della massima floridezza economica della Spagna – le importazioni hanno sempre avuto un peso preponderante nella bilancia commerciale, proprio perché le merci capitalistiche iberiche non riuscivano in alcun modo a conquistare i mercati europei.

    In terzo luogo va detto che il continuo afflusso di metalli preziosi provenienti dalle colonie, aveva provocato una terribile inflazione in tutto il paese. In Europa si ebbe una vera e propria “rivoluzione dei prezzi”, ma solo in Spagna essi quadruplicarono nel corso del XVI secolo.

    Va inoltre detto che le province spagnole, soprattutto le due che avevano contribuito di più all’unificazione nazionale, continuavano a fruire di privilegi ingiustificati per uno Stato “moderno”: p.es. ancora funzionavano i dazi e le dogane interne e non esisteva un parlamento nazionale.

    Le città sostenevano il potere regio nella sua politica centralista antinobiliare, ma non si riuscì mai ad aver ragione delle resistenze autonomistiche dei feudatari.

    La Spagna aveva realizzato l’unificazione non a favore ma contro i valori borghesi e, nonostante questo, si voleva fruire dei vantaggi economici che la rivoluzione manifatturiera stava portando negli altri paesi europei. L’impero coloniale sembrava essere fatto apposta per alimentare questa convinzione. Vivere come borghesi senza esserlo – ecco l’obiettivo primario degli hidalgos.

    Quando poi a queste premesse materiali si aggiunsero improvvisamente anche quelle politiche, la convinzione di poter vivere di rendita per un tempo indeterminato sembrava essere divenuta una realtà incontrovertibile.

    Infatti l’elezione al trono imperiale di Carlo V (1516 – 1556) fu determinata da una serie di eventi fortuiti. Nel 1516 era morto il sovrano spagnolo Ferdinando il Cattolico, lasciando in eredità i suoi vasti domini (Spagna, Italia meridionale con Sicilia e Sardegna, Colonie americane) al nipote Carlo d’Asburgo (1500-58), nato a Gand dal matrimonio dell’unica sua figlia, Giovanna la Pazza con Filippo il Bello d’Austria (morto nel 1506): cosa che unirà strettamente gli interessi delle due Case d’Austria e di Spagna.

    Contemporaneamente moriva, nel 1519, l’imperatore Massimiliano (del Sacro Romano Impero), lasciando in eredità allo stesso nipote Carlo d’Asburgo tutti i suoi domini (Austria, Boemia, Ungheria, Fiandre, Artois, Franca Contea).

    Gli aristocratici tedeschi, che mal sopportavano l’avanzata della borghesia (che presto troverà nella Riforma protestante un valido baluardo ideologico) e la minaccia di guerre contadine (che proprio in Germania scoppieranno furibonde nel XVI secolo), pensarono bene, convinti di non trovare in questa decisione alcun ostacolo da parte dell’aristocrazia spagnola, di affidare le sorti dell’impero, nel 1519, proprio a Carlo d’Asburgo, permettendogli così di possedere un impero vastissimo, quale non s’era mai visto dai tempi di Carlo Magno.

    Lo scontro con la Francia di Francesco I, che rivendicava il titolo della corona imperiale e che si sentiva accerchiata, fu inevitabile. Il periodo delle grandi guerre europee, iniziato nel 1521, proseguì praticamente fino alla pace di Cateau-Cambrésis del 1559, che sancì l’egemonia spagnola in Europa (in Italia la Spagna prese anche il Ducato di Milano), almeno fino a quando la borghesia non seppe trovare nella Riforma protestante nuove motivazioni ideali con cui poter affossare definitivamente (soprattutto negli Stati Uniti) l’obsoleta idea dell’universalismo cattolico-romano-germanico, sotto l’egida degli Asburgo e con l’appoggio incondizionato del papato.

    Carlo V quindi proveniva dai Paesi Bassi, era stato educato in ambiente borgognone-fiammingo e quando prese il trono spagnolo si circondò di consiglieri fiamminghi che volevano soltanto spadroneggiare nel paese, dimostrando che il sovrano altro non voleva che realizzare una monarchia assolutistica, vincendo le resistenze autonomistiche degli aristocratici. Fatto questo, il sovrano preferì trasferirsi in Germania, lasciando in Spagna un suo luogotenente, il cardinale Adriano di Utrecht.

    A livello europeo sembrava tornata in auge una vecchia idea medievale, quella di poter restaurare il dominio assoluto, politico ed economico, dell’aristocrazia fondiaria, rappresentata dall’imperatore, proprio mentre nei paesi più avanzati d’Europa: Olanda (Fiandre), Inghilterra, Francia e Italia centro-settentrionale lo sviluppo della borghesia, appoggiato dalle monarchie nazionali (in Italia dalle Signorie) ne aveva ridimensionato di molto i privilegi economici e le prerogative politiche.

    Ora, al rinnovato impero feudale non restavano che due cose da fare, per potersi reggere in piedi con sicurezza: 1. imporre esose tasse a chiunque non fosse nobile; 2. minacciare immediate ritorsioni di tipo militare a chi non volesse piegarsi. Nell’Europa orientale una dittatura analoga si stava formando in Turchia.

    In Spagna la politica centralista di Carlo V ebbe la meglio sulle tendenze separatiste nobiliari solo grazie all’appoggio delle città, ma quando l’imperatore cominciò a ridurre l’autonomia alle stesse città, che sopportavano l’onere finanziario maggiore della sua politica imperiale, scoppiò nel 1520 la cosiddetta rivolta dei “comuneros” (città castigliane), appoggiata dall’aristocrazia.

    La rivolta, dilagata ben presto in tutta la Castiglia, si trasformò in una “Lega santa” contro Carlo V, arrivando persino a deporre il suo luogotente-cardinale.

    Ma poi, nel momento cruciale, emersero gli interessi contrapposti che dividevano le forze della Lega. La borghesia infatti chiedeva nel suo programma non solo che l’imperatore risiedesse nel paese e che le alte cariche statali (da non porre in vendita) fossero assegnate solo a funzionari spagnoli e che le Cortes venissero convocate ogni triennio e che i deputati eletti fossero indipendenti dal potere regio, e che si vietasse l’export di oro e argento, ma chiedeva anche che le terre regie alienate e usurpate dall’aristocrazia dopo la morte della regina Isabella tornassero all’erario, che si abolisse inoltre l’esenzione dei nobili dal pagamento delle imposte e si vietasse a quest’ultimi di occupare d’ufficio le cariche amministrative nelle città.

    I nobili più reazionari cominciarono ad allontanarsi dal movimento (che peraltro non fu capace di uscire dai confini della Castiglia) e ad accordarsi con la corona.

    Viceversa, gli elementi più radicali delle città volevano prepararsi a uno scontro armato decisivo. Non ebbero però l’appoggio degli strati urbani più ricchi e la mancanza di organizzazione generale ne determinò la sconfitta a Villalar nel 1521. Anche le rivolte di Valenza e dell’isola di Maiorca subirono lo stesso risultato.

    Il potere di Carlo V crebbe enormemente e con esso le estorsioni finanziarie sul paese. I grandi proprietari fondiari tuttavia ebbero la peggio sul piano politico, poiché la corona attribuì agli hidalgos il diritto di amministrare le città. E siccome i grandi nobili continuavano a non voler pagare le tasse, il sovrano smise di convocarli nelle sedute parlamentari.

    A dir il vero il potere di Carlo V, se aumentò in Spagna, diminuì nettamente in Germania, dove fu sconfitto nella lotta contro i principi protestanti tedeschi, che lo indussero a dividere il suo impero tra il fratello Ferdinando e il figlio Filippo II (1556-98), che ereditò Spagna, Franca Contea, Paesi Bassi, Italia e Colonie americane.

    E anche in Italia il suo nome fu assai poco amato, specie dopo l’invio delle truppe lanzichenecche che giunsero fino a saccheggiare Roma nel 1527. (1)

    Ritiratosi a vita privata nel monastero di Yuste, in Estremadura, dove visse per circa due anni, Carlo V sino alla fine consigliò il figlio sulla condotta politica che doveva tenere.

    Juana (1479 – 1555) y Felipe (1478 -1506)

    Juana la Loca, painted by Francisco  Pradilla Ortiz         Felipe el Hermoso, painted by Francisco Pradilla Ortiz

    Después de la muerte de Isabel en 1504, su hija Juana, que padeció esquizofrenia, junto con su marido Felipe, Archiduque de Austria, ascendieron al trono. La pareja había estado viviendo en Bruselas pero después se mudaron a Burgos, una ciudad en el norte de España, en la primavera de 1506.

    Felipe se conocía como Felipe el Hermoso y fue famoso por sus

    BENEDETTO MENNI IL SANTO DELLA CROCE ROSSA – Giuseppe Magliozzi o.h.

    Da 10 anni la CROCE ROSSA

     vanta tra i suoi un Santo

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    Fra Giuseppe Magliozzi o.h.Giuseppe Magliozzi o.h

     

     

    Ricorre quest’oggi il decimo anniversario della Canonizzazione del nostro confratello San Benedetto Menni, (1841-1914) che fu tra i pionieri della Croce Rossa e finora l’unico tra i suoi membri attivi che sia asceso agli onori degli altari.

      Nell’articolo che gli dedicai lo scorso giugno1 già diedi un cenno molto rapido al suo triennio come volontario della Croce Rossa in Spagna durante la III Guerra Carlista2, ma merita ora tornare con maggior dettaglio su questa luminosa e poco nota pagina della sua vita, alla quale furono dedicati solo succinti cenni in alcune antiche pubblicazioni spagnole3, che tra l’altro non offrono neppure una lista corretta e completa del nutrito manipolo di Confratelli stranieri e spagnoli che accompagnarono Menni come volontari della Croce Rossa nella suddetta guerra; lista comunque non ricavabile neanche dall’ampia documentazione esistente su Menni nei nostri archivi spagnoli, interamente trascritta a suo tempo da fra Juan Ciudad Gómez in copia ufficiale per il Processo di Canonizzazione e quindi consultabile anche a Roma.

      Per comprendere come mai i nostri archivi spagnoli siano così poveri di dati su questo specifico argomento, va considerato che anche se Menni, grazie all’esperienza del periodo trascorso a Roma come segretario particolare del Superiore Generale, seppe distinguersi per zelo nel conservare documentazione dei suoi atti ufficiali, tuttavia egli poté cominciare ad organizzare l’Archivio della nascente Provincia Spagnola solo a partire dal 1876, vale a dire dopo la conclusione della sua permanenza sui campi di battaglia, dove c’erano ben altre ovvie priorità che l’assillavano.

      Va inoltre detto che, anche a guerra finita, mai a Menni venne voglia di raccogliere dati sugli anni trascorsi al fronte, anzi al contrario preferì mettervi una pietra sopra, tant’è vero che se controlliamo nei quattro successivi decenni il suo abbondantissimo epistolario, rarissimamente vi affiora qualche vago accenno4, probabilmente per un atteggiamento di prudenza al cospetto della diffusa animosità5 non solo contro gli autentici carlisti, ma anche contro chiunque in qualsiasi modo aveva avuto rapporti con loro e quindi anche chi, come lui, ne aveva assistito i feriti, non importa se sotto la bandiera limpidamente neutrale della Croce Rossa.

      Per trovare qualche piccolo dato in più non ho avuto altra strada che cercare qualche casuale riferimento nella stampa spagnola del tempo e negli archivi di altre Province dell’Ordine ed in quello della Congregazione da lui fondata delle Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù.

      Spero proprio che questo mio tentativo stimoli altrui più estese ricerche, poiché ritengo che se, ben a ragione, lo stimolo rappresentato dall’avvenuta Canonizzazione, ufficialmente additante a modello dei fedeli la figura morale di Menni, abbia in questi dieci anni spinto a studiare soprattutto la sua fisionomia spirituale ed il suo carisma di Fondatore di nuove Case ed Istituti e di Riformatore del nostro Ordine, sia però ormai venuto il tempo di mettere a fuoco anche altri aspetti della sua poliedrica personalità, come ad esempio il suo apporto professionale in campo sanitario, che finora è stato discretamente studiato nell’ambito della riforma psichiatrica6, molto meno in quello della lotta alle epidemie7 e quasi per nulla in quello dell’assistenza ai feriti di guerra8.

    San Benedetto Menni -  Stampa coeva di don Carlos in visita ai feriti dell’Ospedale di Irache, scortato da Menni e da una suora vincenziana.

      L’impegno di Menni nell’assistenza ai feriti di guerra non fu casuale anzi, come abbiamo visto nel precedente articolo, si ricollega al primo germogliare della sua vocazione ospedaliera, che egli avvertì al prodigarsi per i feriti della Battaglia di Magenta. Non per nulla i Superiori, quando l’ammisero in Noviziato, notando lo zelo con cui prima d’entrare in Convento s’era acquistato come corredo una borsetta di ferri chirurgici, vollero dargli da religioso il nome di fra Benedetto, in omaggio al loro maggior chirurgo di quei tempi, fra Benedetto Nappi. Anche se non arrivò alle vette professionali di quel modello, Menni però acquisì presto, specie mentr’era di Comunità nell’Ospedale di Lodi, una notevole perizia negli interventi di piccola chirurgia9.

      Fu proprio questa sua padronanza professionale, oltre ovviamente al grandissimo desiderio di poter rimettere piede in Spagna, che lo spinse ad offrirsi come volontario della Croce Rossa quando a Marsiglia nella primavera del 1873 ebbe modo d’incontrarsi con il dr. Nicasio Landa10, un medico militare che era stato il pioniere della Croce Rossa in Spagna, aprendovi il 5 luglio 1864 la prima Sezione nella sua città nativa di Pamplona11. Quando nel 1870 era scoppiata la guerra franco-prussiana, la Croce Rossa Spagnola aveva inviato un suo contingente e Landa personalmente era andato ad assistere i prigionieri francesi nell’ospedale di Karlsruhe, meritandovi la Croce di bronzo di soccorso ai feriti di Francia. Probabilmente fu allora che Landa conobbe i Fatebenefratelli, tenuto conto che su entrambi i fronti di guerra si prodigarono, sia in prima linea raccogliendo i feriti, sia assistendoli poi negli ospedali, vari nostri confratelli, appartenenti rispettivamente alla Provincia Bavarese12 ed alla Provincia Francese13. Quando nel 1872 iniziò in Spagna la guerra civile carlista, Landa era Capo di Sanità dell’esercito nazionale e grazie a lui, immediatamente prodigatosi nel maggio 1872 con i feriti carlisti della battaglia di Oroquieta, la Croce Rossa, che era stata creata per intervenire nelle guerre internazionali, venne da allora estesa anche ai conflitti civili14.

      Riguardo alle ragioni del momentaneo esilio di Menni in Francia, va ricordato che a Barcellona, dopo la proclamazione della Repubblica nel febbraio 1873, c’erano stati vari tumulti contro i cattolici, accusati di parteggiare per i carlisti, e Menni, che pur non s’immischiava di politica, rischiò ripetutamente d’essere linciato per il solo fatto d’esser prete15 e gli venne in ultimo intimato dalle Autorità Civili di abbandonare il suolo spagnolo. Egli fu così costretto ad imbarcarsi assieme a quattro suoi Confratelli spagnoli16 per Marsiglia, dove giunse il 6 aprile 1873, accoltovi fraternamente dai Confratelli del nostro Ospedale di San Bartolomeo. Ma il suo cuore era in Spagna ed appena incontrò Landa fu ben felice di cogliere l’occasione che questi gli offrì di potervi rimettere piede come volontario della Croce Rossa ed ancor più felice di poter ripetere al fronte l’indimenticabile esperienza del 1859 a Milano con i feriti della battaglia di Magenta.

      Fra Luciano del Pozo nel riferire l’incontro a Marsiglia di Menni con Landa, annota17 che questi, “non potendo essi partire assieme per Pamplona, dov’era diretto, gli dette disposizione di rimanere a Marsiglia fin quando avesse ricevuto l’opportuno salvacondotto”. L’impossibilità di Menni a partire seduta stante con Landa dipese non solo dal fatto che egli necessitava consultare previamente il suo Superiore Generale, fra Giovanni Maria Alfieri, ma anche dalle obiettive difficoltà, in quanto sacerdote, di inserirsi nelle unità della Croce Rossa che Landa coordinava nell’ambito dell’esercito nazionale del nord.

      Non si trattava di difficoltà normative. Infatti, secondo il Regolamento Nazionale approvato il 21 novembre 1870, la Croce Rossa Spagnola ogni volta che occorreva affrontare specifiche emergenze, poteva liberamente accettare soci attivi, che venivano arruolati sia a titolo di volontariato e pertanto denominati “Fratelli nella carità”, sia a titolo rimunerativo e pertanto denominati “Fratelli nell’ufficio”. E v’è di più: per l’arruolamento dei “Fratelli nella carità” venivano preferiti i religiosi ospedalieri, tra i quali l’art. 88 del Regolamento citava esplicitamente i Fatebenefratelli.

      Le difficoltà nascevano invece sia dall’acceso clima anticlericale che considerava ogni prete come un sostenitore ed una spia dei carlisti, sia dalla scarsa possibilità di validamente contrapporvi la neutralità della Croce Rossa, concetto che faceva fatica ad essere accettato in ogni luogo18. Non volendo creare situazioni di conflitto intorno alla persona di Menni, Landa esitò a lungo su dove poterlo concretamente inviare, anche se appena tornato a Pamplona gli spedì in data 20 giugno 1873, nella sua veste di Ispettore Generale della Croce Rossa Spagnola, la seguente credenziale ufficiale19 per lui e per altri suoi Confratelli che avessero voluto seguirlo:

      CERTIFICO: che in considerazione della caritatevole offerta di arruolarsi nel Soccorso volontario ai Feriti che ha voluto presentarmi il Reverendo Padre Fra Benedetto Menni, Direttore dell’Ospizio dell’Ordine di San Giovanni di Dio per Orfani scrofolosi20 sito fuori della città di Barcellona21, ed in virtù dell’art. 88 del Regolamento della Croce Rossa, che riconosce come Fratelli nella Carità i Padri di San Giovanni di Dio, resta autorizzato il suddetto Signore e tutti i suoi Coadiutori del medesimo Ordine religioso e ospedaliero, ad usare sul proprio abito le insegne della Croce Rossa e ad inalberare la bandiera della medesima nell’edificio in cui insediassero ospedale per feriti di guerra o infermi della medesima provenienza.

      Menni ne scrisse ad Alfieri e decise di tornare segretamente a Barcellona sia per portare soccorso ed incoraggiamento ai Confratelli che v’erano rimasti, sia per verificare se la credenziale della Croce Rossa poteva davvero permettergli di prendere qualche iniziativa per le vittime della guerra. Purtroppo il clima si rilevò non ancora propizio, anzi la notte del 12 luglio vi fu un’irruzione notturna di miliziani nel suo Ospizio di Barcellona e Menni, dopo aver ferventemente invocato l’aiuto di Nostra Signora del Sacro Cuore di Gesù, riuscì per puro miracolo ad ammansire i facinorosi venuti a trascinarselo via come spia carlista22. Ma obbedendo a giusta prudenza, se ne tornò a Marsiglia, da dove informò Alfieri dello scampato pericolo e gli prospettò due nuovi progetti, assai meno rischiosi.

      Il primo era di prendere in affidamento un Ospedaletto a Tangeri, sulla costa marocchina, ben collegato con la vicina Andalusia e con buone possibilità d’essere riconosciuti come missionari dal Governo Spagnolo23; il secondo era di verificare col vescovo di Gibilterra la possibilità di aprire un Ospedale in questa roccaforte, che è geograficamente spagnola, ma sotto dominio inglese.

      Ottenuto il consenso di Alfieri per un viaggio esplorativo, Menni s’imbarcò a Marsiglia, giungendo a Tangeri ai primi di settembre e sperimentandovi ancora una volta l’odio anticlericale: mentre i passeggeri percorrevano una passerella per passare dalla nave ad una lancia che doveva accompagnarli al molo, un esagitato mangiapreti spagnolo con uno spintone lo fece cadere in acqua, sperando che v’affogasse. Ma Menni era un buon nuotatore24 e riuscì, nonostante l’impaccio dell’abito talare, a raggiungere nuotando il molo, dove magnanimamente rifiutò di denunciare l’energumeno.

      Il progetto di Tangeri gli parve davvero attraente e da Gibilterra, dove si recò subito dopo, ne scrisse entusiasta ad Alfieri, sperando d’ottenerne il consenso. Il 12 settembre scrisse anche a Landa, ragguagliandolo dei terribili momenti vissuti in luglio a Barcellona. Alfieri con lettera del 9 settembre 1873 manifestò invece perplessità su quei progetti fuori dei confini territoriali spagnoli e pertanto ordinò a Menni di tornare in Francia. Questi s’imbarcò il 26 da Gibilterra ed il 29 era già di nuovo a Marsiglia.

      Landa nel frattempo gli scrisse all’indirizzo di Gibilterra una lettera25 in data 23 settembre 1873 nella quale si scusava del ritardo nel rispondergli, avendo per via dell’assedio della città ricevuto la lettera da Gibilterra solo la sera prima, e gli esprimeva il proprio dispiacere “che il livore delle passioni politiche non avesse rispettato in lui l’uomo benefico che aveva fondato un ospizio per un gruppo di esseri tra i più invalidi, mirando a convertire in robusti lavoratori i fanciulli con rachitismo e scrofolosi che senza tale aiuto sarebbero inadatti a qualsiasi lavoro. Dio lo ha protetto e di ciò rendo grazie e mi felicito con lei”.

      Alla lettera Landa accluse la seguente nuova credenziale26, datata 23 settembre 1873 e nella quale non si faceva più riferimento all’attività in Barcellona, il che avrebbe facilitato l’inserimento in unità della Croce Rossa operanti nell’ambito dell’esercito carlista, notoriamente più che ben disposto con i sacerdoti:

      CERTIFICO: che accettando la generosa e spontanea offerta che ha voluto presentarmi il Reverendo Padre Fra Benedetto Menni, Sacerdote dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, di arruolarsi nel Soccorso dei Feriti senza distinzione della loro provenienza, ed usando le facoltà concessemi dalla Veneranda Assemblea, ho autorizzato il detto Reverendo Padre affinché possa usare ed usi le insegne dell’Associazione (bracciale bianco con Croce Rossa27, pettorale bianco con Croce Rossa e similmente la bandiera) che gli conferiscono tutti i diritti e gli impongono tutti i doveri della Neutralità, fiducioso che egli si avvarrà sempre della propria limpida Carità a pro’ dei Feriti e ad onore della Croce Rossa.

      La lettera, inviata all’indirizzo di Gibilterra, ci mise ovviamente molto tempo prima d’essergli recapitata a Marsiglia, da cui Menni poté perciò rispondervi solo in data 11 novembre 1873, ipotizzando un inserimento ospedaliero non solo in Reparti per feriti, ma eventualmente anche in Reparti di Medicina Generale o di Psichiatria28:

      Ho ricevuto qui, con grandissimo ritardo per esser stato di viaggio, la pregiata sua del 23 settembre che mi inviò a Gibilterra, con allegatavi la credenziale della Croce Rossa, del che tengo ad esprimerle il mio più vivo ringraziamento.

      Attualmente mi trovo qui dove abbiamo un Istituto che accoglie oltre 400 anziani poveri. Sono con me sei confratelli spagnoli29, poiché abbiamo ridotto quanto più possibile il servizio nell’Ospizio per scrofolosi in Gracia30. Pertanto, nell’eventualità che potessimo riuscir utili in qualche ospedale chirurgico o medico o psichiatrico, lei me lo potrebbe comunicare ed io ne informerei il nostro Superiore Generale poiché, premesso che i Religiosi non corrano rischi, mi sembra che sarebbe un piacere contribuire ad alleviare le disgrazie di questa guerra o qualsiasi altra disgrazia.

      Anche se non n’abbiamo traccia scritta, il suggerimento finale di Landa presumiamo fu di offrirsi unicamente per l’assistenza ai feriti, della quale si avvertiva maggiormente il bisogno, aggregandosi a qualche unità della Croce Rossa operante nel versante carlista del fronte. Questo è, infatti, quanto si può dedurre dalla seguente patente ufficiale31, inviata da Alfieri a Menni in data 25 gennaio 1874, nella quale non si fa alcun accenno ai malati mentali o di medicina generale, ma si fa menzione unicamente di soccorso ai feriti del fronte e si precisa che ne è stato informato anche il Papa Pio IX, che benedice l’iniziativa:

      Al nostro Dilettissimo e Molto Reverendo Padre Benito Menni, Delegato Generale nella Spagna.

    Pio IXColla presente vi ordiniamo di prestarvi sia coi Religiosi da voi dipendenti, sia con ogni altra sorta di soccorsi che aver possiate, in sollievo dei Feriti di codesta povera Spagna, confortando, curando, assistendo quanti vi si presentino senza distinzione di partito pel solo amore di Nostro Signore Gesù Cristo: da cui solo avrete o cari Religiosi il compenso, come l’avranno quelli che coll’opera e coi soccorsi vi aiuteranno in quest’opera di carità. Colla benedizione del nostro Santo Padre Pio IX per obbedienza assunta32.

      L’immediato assenso di Alfieri al progetto di far partire i Confratelli spagnoli per il fronte lo si comprende ricordando le memorande esperienze di assistenza ai feriti di guerra che egli aveva ripetutamente avuto durante le guerre risorgimentali italiane, a cominciare da quella del 1848, quando aveva guidato un gruppo di Confratelli in prima linea, prodigandosi negli Ospedali da campo di Valeggio, Volta Mantovana e Castiglione33; e poi nel 1859, quando nel nostro Ospedale di Verona, di cui era Priore, s’era talmente distinto nell’assistere i militari feriti che l’imperatore austriaco Francesco Giuseppe, venuto il pomeriggio del 4 luglio a visitarli, gli assicurò di non aver mai visto Ospedale migliore per i suoi soldati e all’indomani gli fece consegnare dal suo Aiutante il principe Hohenlohe la decorazione di Cavaliere, che Alfieri accettò con riconoscenza ma a condizione di non essere mai tenuto a portarla34; e di nuovo a Roma nel 1870 era stato lieto d’organizzare nel nostro Ospedale dell’Isola Tiberina l’assistenza ai feriti di Porta Pia35.

      Ed a parte i ricordi personali, Alfieri da tempo riteneva che l’assistenza negli Ospedali militari fosse particolarmente congeniale al carisma dei Fatebenefratelli, tanto che il 22 settembre 1866, durante un suo viaggio a Madrid, aveva tenuto una relazione dinanzi ai componenti della Direzione degli Ospedali Militari di Spagna per lanciare l’idea di una utilizzazione istituzionale dei nostri Religiosi in tali Ospedali. L’idea fu ben accolta e fu perfino inviata nel maggio 1867 all’esame del Parlamento36, anche se poi risultò inattuabile37 per il disastroso evolversi della situazione politica nel settembre 1868, quando Isabella II perse il trono.

    San Benedetto Menni - Bracciale Croce Rossa

      In obbedienza alla patente inviatagli e con il pieno incoraggiamento di Alfieri, Menni lasciò Marsiglia il 31 gennaio 1874 e si recò in Navarra ad Estella, dove fu inquadrato nella Sanità Militare dei Carlisti quale aggregato della Croce Rossa insieme al seguente primo gruppo di Confratelli spagnoli: fra Narciso Doménech38, che morì ad Irache il 5 settembre 187439; fra Nonito Blanch, che l’anno dopo, fiaccato dalla tubercolosi, fu costretto ad abbandonare il fronte e morì il 15 marzo 1875 nella Comunità di Barcellona40; fra Sebastiano Martí41; fra Giacomo Rovira42. Essi furono utilizzati sia negli Ospedali da Campo, sia nelle unità mobili di Ambulanza che seguivano i combattimenti in prima linea. Fra Luciano del Pozo, che in gioventù fu presente sul fronte carlista43, così sintetizza le prestazioni dei Confratelli44:

      “I nostri Frati nei campi di battaglia si prodigavano come barellieri ed aiutavano i chirurghi nel prestare i primi soccorsi, occupandosi poi di trasportare i feriti negli Ospedali. Ricevevano il rancio ed un piccolo contributo per gli indumenti ed altre necessità personali, condividendo nelle marce di trasferimento i comuni disagi, considerato che le effettuavano a piedi e con la borsa di soccorso in spalla”.

      Secondo quanto attesta45 fra Gerolamo Tataret46, che dal Registro risulta partito da Marsiglia per il fronte spagnolo l’8 dicembre 1874, Menni ed i suoi Confratelli furono destinati inizialmente a Leiza e successivamente nell’Ospedale di Portugalete. Qui ed in quello di Santurce restarono fino all’11 aprile 1874, poi accompagnarono da Portugalete un convoglio di feriti, trasferendosi con essi ad Irache, che era un’antica abbazia trasformata in Ospedale dalla Croce Rossa47. L’abbazia era poco fuori Estella, la città della Navarra scelta come residenza dal pretendente don Carlos. Per le sue incombenze in Ospedale Menni aveva spesso necessità di recarsi a Estella, dove conobbe il Rettore del Santuario Mariano del Puy, don Giuseppe Maria Arrastia, che divenne suo amico entusiasta e che per i suoi restanti vent’anni di vita fu uno dei più zelanti nell’indirizzare candidati sia al nostro Ordine, sia alle Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù, fondate da Menni nel 188148.

      Menni raccolse varie vocazioni anche tra le file dell’esercito carlista ed il primo fu il giovane Angelo Anacabe che il 21 marzo 1874 ottenne l’autorizzazione militare49 a lasciare il Corpo degli Alpini per “entrare come novizio nell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, dedicato oggi al servizio dei feriti e dei malati del Regio Esercito”. Menni l’accettò come postulante l’11 maggio 1874, gli impose l’abito religioso il 5 agosto, assegnandogli il nome di fra Raffaele ed inviandolo al Noviziato di Marsiglia, dove entrò il 17 agosto 1874 assieme ad altre due giovani candidati spagnoli: tutti e tre furono ammessi ai Voti il 28 agosto 187550. Il Necrologio delle Province Spagnole segnala che fra Raffaele51 morì nella nostra Comunità di Barcellona l’8 gennaio 1883.

      I due compagni di Noviziato di fra Raffaele furono Gabriele Goñi, originario della Navarra e che da frate assunse il nome di fra Luigi Gonzaga52, santamente perseverando finché lo colse la morte nella nostra Comunità di Siviglia il 12 marzo 1890; e Valentino de San Segundo, accettato sul campo di battaglia da Menni come Postulante il 24 maggio 1874 e che da frate assunse il nome di fra Giovanni della Croce53, divenendo uno dei più validi collaboratori di Menni come Priore, Maestro dei Novizi e Consigliere Provinciale, finché rese l’anima a Dio nella Comunità di Ciempozuelos il 9 febbraio 193054.

      Per incoraggiare l’afflusso di altri giovani, Menni da Irache il 15 aprile 1874 diffuse un appello vocazionale tra i giovani55 e, due giorni dopo, provò a mandarne per conoscenza una copia anche ad Alfieri: non era facile inviare posta a Roma, ma vi riuscì attraverso la Francia e così brevemente riassunse nella sua lettera al Superiore Generale quei suoi primi mesi al fronte56:

      “Non permettendoci le occupazioni di esporre il tutto, mi limito col fare sapere che ci hanno fatto passare dagli Ospitali in Santurce e Portugalete a questo di Irache vicino Estella in Navarra. Tutti quattro godiamo buona salute a Dio grazie, e sebbene siamo stati vari giorni sotto il bombardamento repubblicano in Santurce e che abbiamo visto molte bombe scoppiare al nostro lato, passare sulla Casa, nessun’altra disgrazia abbiamo avuta se non che il padre José57 fu lievemente contuso da pezzi di un muro rotto da una bomba che scoppiò quasi sulla sua testa, ed a poca distanza di me. Io passai col Santissimo Sacramento alla mano in cima delle ruine della nostra cappella, perché temendo che una palla entrasse nel Tabernacolo, andiedi correndo a ritirare di colà il Santissimo Sacramento. Gli altri pure con noi furono riempiti di terra e calce di un muro rotto da altre bombe cadute a qualche passo da noi: in fine la Vergine Santissima ci salvò tutti. Il giorno 25 marzo fu il più terribile. Qui si sta assai più sicuri e tranquilli. Quest’edificio era una antica abbazia benedettina. Abbiamo oltre 300 fra feriti ed infermi e se ne possono collocare altrettanti più se il locale si raccomodasse”.

      Nell’Ospedale di Irache la notte del primo luglio 1874 Menni ebbe la sorpresa di vedersi presentare il pioniere della Croce Rossa in Spagna, l’amico Nicasio Landa, venuto con un convoglio di carri ambulanza a prelevare alcune centinaia di feriti repubblicani ricoverati dopo la battaglia di Abárzuza ed il cui trasferimento nell’Ospedale repubblicano di Logroño era stato autorizzato dal generale carlista Dorregaray, che nel giugno 1875 patteggerà la resa segreta degli ufficiali, preludio al chiudersi della guerra.

      Landa descrisse il trasloco dei feriti in una dettagliata relazione pubblicata da un periodico del tempo58 e nella quale ci tenne a sottolineare lo zelo con cui vide assistiti i feriti nell’Ospedale di Irache dal personale religioso, rimarcando tra l’altro che quando all’alba del 2 luglio iniziarono il lungo lavoro di sistemare nei 50 appositi carri, trainati da muli, i 180 feriti in grado di affrontare il trasferimento (per altri 40 risultò sconsigliabile), “Le Suore della Carità non consentirono che alcun ferito partisse prima d’aver terminata la colazione; ed i padri ospedalieri di San Giovanni di Dio, che costì dirige il mio amico e delegato generale dell’Ordine, Padre Menni, vollero prima rinnovare a tutti le medicazioni”

      Appena la lettera di Menni da Irache giunse ad Alfieri, questi sollecitò le Province dell’Ordine ad inviare Confratelli in Spagna. In effetti ne vennero alcuni e Juan Ciudad Gómez cita59 in concreto “due medici inviati dalla provincia di Stiria, fra Alfredo Calò, Dottore in Medicina, e fra Edoardo Benedric, Chirurgo e il padre Efrem Bernard, francese”.

      Riguardo al francese fra Efrem Maria Besnard, va precisato che in un primo momento era stato mandato in aiuto della nuova fondazione di Barcellona, di cui nell’ottobre 1872 era stato nominato infermiere maggiore e Vicario-Priore, restando alla guida della Comunità fino al marzo 1873, mese in cui probabilmente partì per il fronte60.

      Riguardo ai due confratelli medici, dalla corrispondenza che si conserva nel nostro Archivio Generalizio61 risulta che la Comunità di Graz, dalla quale germoglierà nel 1878 la Provincia di Stiria, rispose con entusiasmo all’appello di Alfieri ed il Priore gli scrisse il 23 aprile 1874: “vi manderò il nostro buon triestino fra Alfredo pel campo di Don Carlos”. Alfieri acconsentì e fra Alfredo Calò62, cui mancavano due anni per laurearsi in Medicina63, raggiunse in giugno Marsiglia e poco dopo Irache, da dove riuscì a far pervenire una lettera al Priore di Graz, che ne riferì l’11 agosto ad Alfieri, dicendosi sorpreso del coraggio operatorio dimostrato da fra Alfredo sul fronte spagnolo.

      Da Graz era stato proposto anche il croato fra Edoardo Benedičič64, che aveva maggior pratica professionale e parlava discretamente l’italiano65, ma mancandogli appena due mesi per laurearsi in Medicina e Chirurgia, Alfieri dispose che finisse gli studi66.

      A Graz, ospite delle Clarisse, viveva Maria Beatrice d’Este, madre del pretendente don Carlos; informata che fra Edoardo partiva volontario per un ospedale carlista in Navarra, gli finanziò il viaggio con un’offerta di 100 fiorini; inoltre il Priore di Graz donò a fra Edoardo vaccini da utilizzare al fronte per un valore di 200 franchi. Fra Edoardo partì in novembre ed il 27 era già a Milano; dopo un avventuroso viaggio, ostacolato da neve e maltempo, arrivò ad Irache all’antivigilia di Natale67. Da una lettera inviata il 17 gennaio 1875 da fra Alfredo sappiamo della sua presenza nella battaglia di Los Arcos, dove eseguì con successo un’amputazione: in quel frangente fece 14 interventi, fra Edoardo 20 ed un medico civile 6.

      Frattanto fu affidato a Menni un Ospedale istituito in una stazione di posta a Gomilaz, poco fuori Ochandiano, come sappiamo da due lettere del 3 aprile e del 25 maggio 1875 che scrisse al Priore di Marsiglia, cui confida68:

      “Dovete perdonarmi il mio lungo silenzio, perché sono sempre sovraccarico di lavoro: l’unico frate che mi poteva aiutare nella direzione di questo ospedale, è gravemente ammalato, cioè fra Paolo Maria69. Così sono obbligato a tenere i registri, a fare i conti, gli acquisti e tutto, oltre la direzione. Ringraziamone il buon Dio. Egli sa di che cosa abbiamo bisogno. Sia baciata la sua santa mano”

      A Gomilaz il 15 giugno 1875 si unì a Menni fra Lucio López70, che in un promemoria stilato il 6 aprile 1911, rievocante la sua partecipazione alla guerra civile carlista71, accennò ai frati esteri venuti a dar man forte e citò non solo i due medici di lingua tedesca, di cui gli era rimasta impressa la notevole statura, ma anche il francese fra Efrem Maria Besnard, nonché un polacco di cui non ricorda il nome, ma che è da presumersi fosse fra Adalberto Stanislao Motyczynski, nativo di Cracovia ed in Francia dal 1873, e perfino un turco, che gli sembrava si chiamasse fra Giovanni, però l’unico con tale nome di cui resta traccia era fra Giovanni de Cordoba, che risulta presente a Gomilaz e ad Alava72, ma che era spagnolo, sicché dobbiamo pensare che alluda invece a fra Antonio Maria Tergiman73, nativo di Cipro, e che era partito da Marsiglia per la Spagna il 22 settembre 1874.

      Fra Lucio descrive anche i tragici momenti quando un attacco costrinse ad evacuare l’ospedale di Gomilaz: Menni “si comportò da eroe, accudendo i feriti e preparando lasciapassare per gli officiali e soldati da trasferire a Santa Agueda, nonostante il nemico fosse ormai vicino e così intenso il fuoco di fucileria e d’artiglieria da doversi tener riparati, però Menni non si tirò indietro davanti al dovere, ma restò fermo fino alla fine, ponendo in salvo tutti i feriti”.

      A Santa Agueda i feriti furono sistemati nel locale Stabilimento Termale e si conserva nell’archivio delle Suore Ospedaliere una lettera inviata da Menni il 24 settembre 1875 alla famiglia di un soldato ventiquattrenne deceduto, nella quale si firma con la qualifica di Cappellano Castrense dell’Ospedale di Guerra di Santa Agueda.

      Tra i compiti dei volontari era anche dare sepoltura ai caduti ed a tal proposito fra Luciano ci ha descritto con viva plasticità74 l’esperto volteggiare di Menni in groppa ad un agile destriero per gli aspri dirupi di Lumbier alla ricerca di salme insepolte, agitando il vessillo della Croce Rossa per indicarle ai compagni e per allontanare i corvi, già volteggianti impietosi su di esse.

      In un esposto di fine dicembre 1875 al Comandante Generale di Vizcaya75, Menni così sintetizza gli avvenimenti, citando sei differenti Ospedali da Campo per i quali era già successivamente passato: “La nostra Corporazione religiosa ospedaliera in questi due anni è andata prestando i suoi servizi ospedalieri ai soldati di Sua Maestà in Santurce, Portugalete, Irache, Abárzuza, Lacar, Lumbier ed in tutti i combattimenti attorno a tali zone in varie occasioni degli ultimi tempi; in tutto questo tempo abbiamo perduto vari dei nostri confratelli. Uno fu ferito, due morirono ed altri ammalarono di modo da non esser più utili pel servizio”.

      La guerra carlista volgeva ormai al suo epilogo. Da una lettera inviata ad Alfieri il primo gennaio 1876 dal Priore di Graz risulta che fra Alfredo era ancora ad Irache e fra Edoardo nella zona di Lumbier con un’ambulanza che poi però, come egli informò l’8 marzo, fu catturata il 25 febbraio, per cui si rifugiò a Marsiglia76.

       Poco prima che si concludesse la guerra, Menni iniziò a far piani per restare in terra basca, dove avevano apprezzato la dedizione e la competenza dei Fatebenefratelli impegnati al fronte; egli il 23 novembre 1875, dopo averne ottenuto permesso dalle Autorità di Guipúzcoa, aprì ad Escoriaza un Istituto Psichiatrico77, nel quale raccolse soprattutto quanti per i frangenti di guerra, non risultando possibile ricoverarli nei manicomi di Valladolid e Saragozza, erano stati addirittura messi in carcere.

      Purtroppo a guerra ultimata la nuova dirigenza politica mostrò ostilità  a tale iniziativa e Menni il 15 aprile 1876 si vide costretto a notificare la chiusura dell’Istituto ed a trasferirsi a Madrid78. Egli però non rinunciò al sogno e, allorché giunse il momento propizio, acquistò in Provincia di Guipúzcoa l’Istituto Termale di Santa Agueda, lo stesso dove egli aveva assistito i feriti della guerra carlista, ed il primo giugno 1898 vi inaugurò un Istituto Psichiatrico79, del quale affidò alle sue Suore Ospedaliere la sezione femminile, oggi autonoma e chiamata in basco Aita Menni, ossia “Padre Menni”, mentre la sezione maschile, gestita dai frati, è intitolata al Sacro Cuore di Gesù.

    Fra Giuseppe Magliozzi o.h.

     

     

     


    [1] Cf. Giuseppe Magliozzi, San Benedetto Menni da volontario a santo, in «Vita Ospedaliera», LXIV, n. 6, giugno 2009, pp. 11-14. Per l’edizione annotata cf. Giuseppe Magliozzi, San Benedetto Menni, da volontario a santo, in «Il Melograno», XI, n. 19, 21 giugno 2009, pp. 1-6.

    [2] La guerra carlista, che durò dal 1872 al 1876, fu puramente interna e limitata al nord della Spagna, dove arrivò a costituirsi un effimero stato carlista, estendentesi nella Navarra e nelle Province di Alava, Guipúzcoa e Vizcaya. La guerra nacque dal tentativo di Carlo VII di Borbone (fu dal 1868 al 1909 il quarto pretendente carlista al trono di Spagna) di porsi alla guida della nazione con un programma politico, sintetizzato nel motto “Dio, Patria e Re”, diametralmente opposto all’orientamento liberale e spesso ferocemente anticlericale, in auge in Spagna ormai da decenni. Agli inizi del 1872 era re di Spagna Amadeo I di Savoia, ma l’11 febbraio 1872 il Parlamento ne accettò l’abdicazione e proclamò la Repubblica, che ebbe però breve durata; seguì un regime militare, finché nel dicembre 1874 venne restaurata la monarchia e chiamato al trono Alfonso XII di Borbone, di tendenze liberali, che sbarcò a Barcellona il 10 gennaio 1875 e riuscì l’anno seguente a finalmente riunificare la Spagna sotto un solo scettro.

    [3] Mi riferisco alle seguenti: Luciano del Pozo, Caridad y Patriotismo, Barcelona, Luis Gili, 1917; Manuel Martín, El Rvmo. P. Fr. Benito Menni, Madrid, Imp. del Asilo de Huérfanos del S. C. de Jesús, 1919; Juan Ciudad Gómez Historia de la Orden Hospitalaria de San Juan de Dios, Granada, Archivo Interprovincial, 1963; Juan Ciudad Gómez, El resurgir de una obra, Granada, Archivo Interprovincial, 1968.

    [4] Uno dei pochi accenni è in un promemoria inviato nel 1902 al vescovo di Madrid, in cui scrive: “Ricevetti ordine dal nostro Superiore Generale di passare nella Spagna del Nord guidando alcuni nostri religiosi nell’assistenza ai feriti della guerra civile, soffrendo travagli e affrontando i relativi pericoli fino al termine di essa” (cf. F. Lizaso, op. cit., lettera 336, p. 455).

    [5] Fu a motivo di tale animosità che, come vedremo, Menni nel 1876 si vide costretto a chiudere l’Ospedale fondato ad Escoriaza. Cf. L. del Pozo, op. cit., pp. 142-144.

    [6] Mi limito qui a ricordare la lapidaria conclusione della rassegna storica d’uno psichiatra spagnolo: Senza Menni la Storia dell’Assistenza Psichiatrica in Spagna sarebbe stata differente”. Cf. Manuel Martin Carrasco, Benito Menni y la Asistencia Psiquiátrica en España en el siglo XIX, Pamplona, Coleccion «HSC», 1994, p. 301.

    [7] Per l’efficace suo impegno contro l’epidemia di colera del 1885, cf. Giuseppe Magliozzi, Menni buon Samaritano, in «Vita Ospedaliera», LVI, n. 5, maggio 2001, p. 15; Giuseppe Magliozzi, Volontariato con Maria, in «Vita Ospedaliera», LVI, n. 9, settembre 2001, pp. 8-9.

    [8] Anche dopo la guerra carlista ci furono altre occasioni in cui Menni s’impegnò in questo specifico campo d’assistenza. Cf. Giuseppe Magliozzi, A servizio dei feriti di guerra, in «Vita Ospedaliera», LVI, n. 11, novembre 2001, p. 16.

    [9] Di tale perizia poté testimoniare per esperienza diretta L. del Pozo, op. cit., p. 121. Lo stesso Menni, in una lettera ad Alfieri del 2 febbraio 1869, descrisse la prontezza con cui a Barcellona era riuscito a salvare, in una situazione d’emergenza, la vita di fra Materno Seregni e ne trasse spunto per chiedere al Padre Generale di fargli avere il permesso del Santo Padre di poter esercitare la chirurgia nonostante l’ordinazione sacerdotale (cf. Celestino Mapelli – Giovanna della Croce Brockhusen, Padre Giovanni Maria Alfieri. Priore Generale dei Fatebenefratelli, Milano, Ed. Fatebenefratelli, 1994, vol. III, pp. 750-752).

    [10] Per un suo completo profilo biografico cf. José Javier Viñes, El doctor Nicasio Landa: médico y escritor, Pamplona 1830-1891, Pamplona, Institución Príncipe de Viana, 2001.

    [11] Cf. Jose Antonio Marcellan, Pamplona. El 125 aniversario de la Cruz Roja Española, in «Ecclesia», n. 4.234, 29 luglio 1989, p. 8.

    [12] Cf. C. Mapelli – G. Brockhusen, op. cit., vol. III, p. 256.

    [13] Cf. Gabriele Russotto, San Giovanni di Dio e il suo Ordine Ospedaliero, Roma, Ed. Ufficio Formazione e Studi dei Fatebenefratelli, 1969, vol. II, p. 304. Sia la traduzione francese di questo trattato (Parigi, 1982, vol. II, p. 320), sia quella inglese (Stillorgan, 1992, vol. II, p. 302) riproducono un dipinto conservato nella Curia della nostra Provincia Francese e che ha per soggetto due Confratelli francesi, col nostro abito ed il bracciale della Croce Rossa, mentre raccolgono i feriti durante una battaglia della suddetta guerra del 1870; per una foto di tale dipinto cf. anche Giuseppe Magliozzi, A servizio…cit., p. 16.

    [14] A motivo di ciò, la seziona spagnola della Croce Rossa, che nella testata della propria rivista e nella documentazione ufficiale usava definirsi “Asociación para Socorro a Heridos en Campaña”, completò da allora in poi tale definizione aggiungendovi “y Luchas Civiles”, ossia: Associazione di Soccorso ai feriti di Guerra e di Lotte Civili.

    [15] In una lettera del 30 marzo 1898 così Menni rievoca i terribili frangenti in cui si ritrovò il Giovedì Santo del 1873: “Domani si compiranno 25 anni dal giorno in cui, per tre volte, furono sul punto di uccidermi. Ebbi la fortuna di trascorrere in carcere, per amore del mio amatissimo Gesù, la notte tra il 31 marzo ed il primo aprile, dopo essere stato, come Lui, esposto là, su due balconi, ad attendere la condanna a morte o l’assoluzione: tutto questo davanti ad un popolo furibondo”. Cf. Lettere di P. Benedetto Menni alle Suore Ospedaliere del S. Cuore di Gesù (1883-1913), Morlupo, Provincia Italiana delle Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù, 1994, p. 464.

    [16] Erano i Professi fra Narciso Domenech e fra Paolo Maria González; ed i Novizi fra Giacomo Rovira e fra Gerolamo Tataret. Questi sono i nomi ricavabili dal Registro della nostra Comunità di Marsiglia, gentilmente consultatomi dall’archivista della Provincia Francese, sig.a Marie Rablat, e va pertanto ritenuto una svista il fatto che J. C. Gómez (cf. El resurgir…cit., p. 114) al posto di fra Narciso Domenech elenchi fra Nonito Blanch. Per inciso, dal suddetto Registro di Marsiglia risulta che tra l’aprile del 1873 ed il novembre del 1874 giunsero in Comunità ben undici confratelli spagnoli, tra cui due novizi e due postulanti, ma al momento del loro rientro in Spagna non viene precisato nel Registro chi di loro si diresse a Barcellona e chi invece al fronte; per Menni è segnalata la definitiva partenza da Marsiglia il 31 gennaio 1874.

    [17] Cf. L. del Pozo, op. cit., pp. 134-135.

    [18] Nel clima particolarmente arroventato della guerra civile non fu sempre facile far accettare la neutralità della Croce Rossa. Quando, ad esempio, alcuni rappresentanti della Croce Rossa di Barcellona, saputo di uno scontro con i carlisti avvenuto a Tarrasa, vi si recarono per organizzare il soccorso ai feriti, furono aggrediti e svillaneggiati come spie carliste e solo a stento il Promotore Fiscale riuscì a sottrarli al linciaggio. Cf. la protesta della Sezione della Croce Rossa di Barcellona pubblicata in «La Caridad en la Guerra. Boletín Oficial de la Cruz Roja. Asociación para Socorro a Heridos en Campaña y Luchas Civiles. Asamblea Española », (Madrid), III, 30, settembre 1872, p. 3. Analoghi incidenti sul fronte carlista appaiono segnalati in una lettera di Landa del 4 luglio 1874 (cf. Nicasio Landa, Cartas de la Cruz Roja, in «La Epoca» del 9 luglio 1874).

    [19] Per una foto di questa credenziale, conservata nell’Archivio Generalizio delle Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù, cf. Giuseppe Magliozzi, Da 10 anni la Croce Rossa vanta tra i suoi un Santo, in «Vita Ospedaliera», LXIV, n. 11, novembre 2009, p. 12.

    [20] V’erano accolti orfanelli sia con scrofolosi, sia con rachitismo, che a quei tempi erano due diagnosi molto frequenti, ma dai confini incerti e racchiudenti quadri patologici disparati. L’Istituto di Ricovero fondato a Barcellona da Menni non solo fu il primo Ospedale Pediatrico della Spagna (fino allora i fanciulli venivano ricoverati nei reparti femminili se sotto i 12 anni d’età; e in quelli maschili dopo tale età), ma con la sua ampia casistica e grazie al valido corpo sanitario contribuì notevolmente a distinguere nell’ambito della scrofolosi i quadri patologici autenticamente tubercolari da quelli di altra natura, il più spesso sifilitici; e nell’ambito del rachitismo i quadri da carenza vitaminica da quelli in realtà di differente eziologia, per lo più tubercolare o eredoluetica. Altro grosso merito scientifico dell’Ospedale “San Juan de Dios” di Barcellona fu di avere, grazie al rigoroso impegno professionale dei Fatebenefratelli nell’osservanza dell’asepsi, consentito lo sviluppo della chirurgia ortopedica riparativa, altrove quasi mai applicata per il fondato timore di complicazioni infettive, non disponendosi allora di antibiotici per dominarle (cf. José Alvarez Sierra, Influencia de San Juan de Dios y su Orden en el progreso de la Medicina y la Cirugía, pp. 63-76 e pp. 109-119).

    [21] Sorgeva nell’allora suburbio di Gracia, all’angolo tra la calle Rosellón e la calle Muntaner, nell’area oggi occupata dal Collegio “San Miguel”. Cf. Manuel Rodríguez García, Colegio «San Miguel»: Historia de un centenario (1898-1998), in «Madre y Maestra» (Madrid), CXXVIII, 385, marzo 1999, pp. 85-96.

    [22] Cf. Giuseppe Magliozzi, San Benedetto Menni, in «Annali di Nostra Signora del S. Cuore» (Roma), CXXVII, 11, novembre 1999, pp. 4-6.

    [23] Cf. C. Mapelli – G. Brockhusen, op. cit., vol. III, pp. 760-762. Menni sembra ignorare che il Concordato del 1851 tra Spagna e Santa Sede non elencava i Fatebenefratelli tra gli Istituti missionari riconosciuti dal Governo o forse egli confidava di far valere la parziale eccezione concessa ai Fatebenefratelli dalla legislazione eversiva del 1836.

    [24] Anni dopo, rievocando quel drammatico episodio con le sue Suore, quando gli chiesero che cosa avesse provato trovandosi in acqua, rispose sorridendo: “Per prima cosa ringraziai Iddio che sa tirar fuori bene dal male, poiché mi ricordai delle molte volte che, disobbedendo a mia madre, marinai la scuola per andare a nuotare con i compagni” (cf. M. Martín, op. cit., vol. I, p. 60).

    [25] Cf. J. Ciudad Gómez, El resurgir…cit., p. 120.

    [26] Cf. G. Magliozzi, Da volontario della Croce Rossa a Santo della carità ospedaliera, in «Il Melograno», I, 5, 24 ottobre 1999, p. 28.

    [27] Per la foto di uno di tali bracciali, usato da Menni e custodito nella Curia Generalizia delle sue Suore, cf. Giuseppe Magliozzi, San Benedetto Menni e l’Anno Internazionale del Volontariato, in «Vita Ospedaliera», LVI, 1, gennaio 2001, p. 17. Per la foto di un dipinto raffigurante Menni ed i suoi confratelli in azione sul fronte di guerra, recando bracciali e bandiera, cf. Giuseppe Magliozzi, San Benedetto Menni, Volontario della Croce Rossa, in «Vita Ospedaliera», LVI, 4, aprile 2001, p. 10.

    [28] Cf. Processo Apostolico Suppletivo di San Benedetto Menni, vol. V, doc. n. 36, pp. 215-216. Cf. anche Documenti relativi ai rapporti del P. Benedetto Menni con la Croce Rossa (1873-1876), in «Hospitalarias» (Madrid), 237, aprile-maggio 2001, p. 23.

    [29] Oltre ai quattro che abbiamo visto erano partiti con lui per Marsiglia in aprile, risulta dal citato Registro di Comunità che l’aveva raggiunto il 13 ottobre anche fra Giuseppe Maria Elias; il sesto potrebbe essere fra Sebastiano Martí, segnalato da J. Ciudad Gómez, El resurgir…cit., p. 121.

    [30] Intende quello che aveva aperto a Barcellona nel suburbio di Gracia. In esso al momento erano restati nove Confratelli, di cui sei spagnoli. Cf. J. Ciudad Gómez, El resurgir…cit., p. 118.

    [31] L’ho ricopilata da una fotocopia del documento originale italiano consegnatami dalle Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù. La versione spagnola figura dattiloscritta nel Proc. Ap. Suppl., vol. V, doc. n. 37, p. 217 e fu pubblicata da M. Martin Carrasco, op. cit., p. 331.

    [32] Si ricordi che era stato proprio il Beato Pio IX a disporre l’invio di Menni in Spagna ed è ovvio che ora ne benedica la nuova iniziativa. Cf. Giuseppe Magliozzi, Pio IX e San Benedetto Menni, in «Il Melograno», II, 12, 3 settembre 2000, pp. 1 e 3.

    [33] Lo rievoca lo stesso Alfieri in un memoriale consegnato in Madrid il 18 settembre 1866 al Marchese di Siviglia. Cf. Avelino Ruiz, En seis capitulos: Historia de la Restauración de la Orden en España, in «La Caridad», 210, luglio-agosto 1967, p. 286.

    [34] Cf. C. Mapelli – G. Brockhusen, op. cit., vol. I, p. 247.

    [35] Cf. Giuseppe Magliozzi, L’assistenza prestata dai Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina agli Ufficiali feriti nei combattimenti del 20 settembre 1870, in «Vita Ospedaliera», XXVI, 11, novembre 1971, pp. 264-272.

    [36] Cf. A. Ruiz, art. cit, pp. 289-292 e 311.

    [37] L’idea fu felicemente ripresa nel 1920 quando fu firmato un accordo col Ministero dell’Esercito, che istituì un Padiglione Militare all’interno del nostro Ospedale di Ciempozuelos, nel quale i Confratelli potevano espletare il loro servizio di leva (cf. José Daniel Fernández, Nueva Frontera Hospitalaria, Madrid, Hermanos de San Juan de Dios, 1969, p. 534).

    [38] Fra Narciso Domenech Homs, nato a Madremaria (Gerona) il 30 novembre 1847, entrò nell’Ordine il 21 marzo 1870, Professo semplice il 30 maggio 1872. Trasferito a Marsiglia, partì per il fronte il 24 giugno 1874.

    [39] Ai funerali di fra Narciso accorse spontaneamente gran parte delle popolazione di Irache e Ayegui, nonché il clero e le Autorità Municipali; vennero molti anche da Estella ed il clero delle sue tre Parrocchie. Cf. L. del Pozo, op. cit., p. 137.

    [40] Fra Nonito Blanch y Rull, nato a La Riera (Tarragona) il 6 agosto 1839, primo postulante in Barcellona il 2 gennaio 1868, iniziò il Noviziato il 9 giugno 1868, Professo semplice il 31 luglio 1869 e Solenne il 25 marzo 1873. Arrivato a Marsiglia il 17 ottobre 1874, partì l’8 dicembre 1874 per il fronte, dove si prodigò negli ospedali di Ochandiano, Santurce e Irache.

    [41] Fra Sebastiano Martí Oller, nato ad Abrera (Barcelona) il 12 aprile 1840, entrò nell’Ordine il 20 maggio 1869, Professo semplice il 10 settembre 1871 e Solenne il 29 settembre 1875, morì il 14 luglio 1880 a Ciempozuelos.

    [42] Fra Giacomo Rovira Voltá, nato ad Corbera (Barcelona) il 15 marzo 1852, entrò nell’Ordine il 5 marzo 1872, Professo semplice il 16 novembre 1873 e Solenne il 2 febbraio 1877, morì il 16 dicembre 1889 a Santa Agueda. Arrivato a Marsiglia il 6 aprile 1873, partì per il fronte il 31 gennaio 1874.

    [43] Il Necrologio delle Province Spagnole ricorda la morte di fra Luciano del Pozo Zalamea il 31 dicembre 1920 a Ciempozuelos.

    [44] Cf. L. del Pozo, op. cit., p. 136.

    [45] Cf. M. Martín, op. cit., vol. I, p. 63.

    [46] Fra Gerolamo Tataret Serra, nato a Sarriá (Barcelona) il 6 aprile 1839, entrò nell’Ordine il 15 agosto 1872, Professo semplice il 16 agosto 1874 e Solenne l’8 settembre 1877, morì in Santa Agueda il 9 aprile 1907 dopo essere stato Priore di Barcellona e Siviglia.

    [47] Martín, idem, riporta per intero sia l’ordine di trasferimento all’Ospedale di Irache per Menni ed i tre Confratelli a lui sottoposti, firmato nell’Ospedale di Santurce dal Direttore del Personale delle Ambulanze il 6 aprile, sia un’attestazione del soccorso che ricevettero l’11 aprile quando passarono per Alsasua col convoglio dei feriti che erano stati incaricati di trasferire dall’Ospedale di Portugalete a quello di Irache.

    [48] Cf. Vicente Cárcel Ortí, Historia de la Congregación de Hermanas Hospitalaria del Sagrado Corazón de Jesús, Città del Vaticano, Tipografia Vaticana, 1988, pp. 136-147.

    [49] Cf. il decreto della Deputazione Generale di Vizcaya riprodotto integralmente da M. Martín, op. cit., vol. I, pp. 64-65.

    [50] Cf. J. C. Gómez, El resurgir…cit., p. 124.

    [51] Fra Raffaele Anacabe Larriátegui, nato a Lequetio (Vizcaya) il 13 agosto 1856, emise i Voti Solenni il 15 ottobre 1878.

    [52] Fra Luigi Gonzaga Goñi Osinaga, nato a Rieru (Navarra) l’8 marzo 1847, emise i Voti Solenni il 28 dicembre 1878.

    [53] Fra Giovanni della Croce San Segundo Nieto, sacerdote, nato ad Avila il 16 dicembre 1854, emise i Voti Solenni il 1° settembre 1878.

    [54] Cf. J. C. Gómez, El resurgir…cit., p. 124. Ma per la data di morte dei tre Novizi abbiamo optato per quelle indicate dal Necrologio delle Province Spagnole edito nel 1965 a Granada dallo stesso Juan Ciudad Gómez.

    [55] Cf. Felix Lizaso Berruete, Perfil Juandediano del Beato Benito Menni (463 cartas), Granada, Archivo Interprovincial, 1985, lettera 351, p. 476-478.

    [56] Cf. C. Mapelli – G. Brockhusen, op. cit., vol. III, pp. 763-764.

    [57] Potrebbe essere fra Giuseppe Oriol, che J. C. Gómez cita a Barcellona fin dal 1869 come vicesuperiore senza voce canonica (cf, El resurgir…cit., pp. 101-104) e poi tra i primi a raggiungere il fronte (cf. Historia…cit., p. 467). In tal caso, secondo i dati d’archivio della Provincia Francese segnalatimi da fra Marco Masson, si tratterebbe di Antonio Margarit, un catalano nato il 19 gennaio 1830 a Santa Eulalia de Provençana, entrato nell’Ordine l’8 marzo 1856, ammesso in Noviziato col nome di fra Oriol il 7 marzo 1857 ed ai Voti il 29 marzo 1858; partito per Barcellona il 15 marzo 1869 ed ivi incardinato il 30 settembre 1869.

    [58] Cf. N. Landa, art. cit., in «La Epoca» del 9 luglio 1874.

    [59] Cf. J. Ciudad Gómez, Historia…cit., p. 467.

    [60] Dopo la guerra carlista ritroviamo fra Efrem nel giugno 1876 a Milano, come risulta da una lettera del 26 giugno 1876 inviata da Alfieri a Menni (cf. Gabriele Russotto, Il Padre Giovanni Maria Alfieri e il Venerabile Benedetto Menni nella restaurazione dei Fatebenefratelli in Spagna”, Roma 1982, estratto da «Sprazzi di luce» (Viterbo), n. 3, ottobre 1982). Nel luglio 1877 è Sottopriore a Frascati, come risulta da una lettera del 24 luglio 1877 inviata da Alfieri al Provinciale di Francia (cf. C. Mapelli – G. Brockhusen, op. cit., vol. III, p. 73). Poi nell’estate del 1878 va pioniere nella prima Comunità aperta in Irlanda dalla Provincia Francese: ma ammalatosi, fu costretto a tornarsene in Francia agli inizi del 1880 (cf. Mary Purcel, A Time for Sowing. The History of St. John of God Brothers in Ireland 1879-1979, Dublin, Hospitaller Order of St. John of God, 1979, pp. 14, 17 e 21). Dal Necrologio della Provincia Milanese risulta che morì nel 1904 a Varese, Priore in attività e Consigliere Provinciale, in età di anni 78 e 56 di professione religiosa.

    [61] Alcune di queste lettere furono pubblicate nel 1994 da fra Celestino Mapelli e le citerò da lui, mentre altre me le fotocopiò il prof. Luisandro Canestrini.

    [62] Secondo le informazioni inviatemi da fra Luca Lanzerstorfer, segretario della Provincia Austriaca, fra Alfredo de Calò, al secolo Alessandro, era nato a Trieste il 13 Giugno 1845. Entrò nell’Ordine il 4 febbraio 1872, fu ammesso nel Noviziato di Graz il 19 maggio 1872 ed emise la Professione Semplice il 22 maggio 1873. Tornato dalla Spagna, fu ammesso alla Professione Solenne il 9 luglio 1876 e morì il 22 ottobre 1899.

    [63] La conclusione del corso fu rinviata al suo ritorno dalla guerra ed, in effetti, una lettera scritta ad Alfieri dal Priore di Graz nell’ottobre 1877 menziona la ripresa degli studi di fra Alfredo. Cf. C. Mapelli – G. Brockhusen, op. cit., vol. III, p. 673.

    [64] Secondo le informazioni inviatemi da fra Luca Lanzerstorfer, fra Edoardo Benedičič, al secolo Giovanni, era un croato nato il 25 aprile 1852 a Eisenerz/Grain, in Provincia di Lubiana. Fu ammesso nel Noviziato di Graz il 26 aprile 1870 ed emise la Professione Semplice il primo maggio 1871. Tornato dalla Spagna, fu ammesso alla Professione Solenne il 9 giugno 1876 e morì l’8 marzo 1897.

    [65] Cf. il messaggio spedito da Graz l’11 agosto 1874.

    [66] Certamente li completò, poiché in un prospetto della Comunità di Graz stilato il 4 novembre 1874 troviamo già annotato accanto al suo nome: “Medico e chirurgo approvato (cf. prospetto allegato alla lettera inviata il 4 novembre 1874 dal Priore di Graz ad Alfieri per annunciargli che fra Edoardo è pronto per recarsi a Marsiglia e ricevervi istruzioni da Menni su come raggiungere il fronte).

    [67] Cf. lettera inviata da Graz il 15 gennaio 1875. Il 2 marzo 1875 il Provinciale di Stiria riferisce ad Alfieri di aver consegnato a donna Beatrice la foto dei frati al fronte.

    [68] Cf. C. Mapelli – G. Brockhusen, op. cit., vol. III, nota 78, p. 60.

    [69] Fra Paolo Maria González Sarmiento, nato a Calatayud (Saragozza) il 25 gennaio 1839, entrò nell’Ordine il 7 aprile 1868, Professo semplice il 18 ottobre 1869, nel 1872 era il Caposala dei nostri orfanelli di Barcellona e impartiva loro anche lezioni di musica. Arrivato a Marsiglia il 6 aprile 1873, partì per il fronte il 16 luglio 1874. Morì a Palencia il 4 ottobre 1896.

    [70] Fra Lucio López de Gama Yñiguez de H., nato a Dallo (Alava) il 7 luglio 1851, entrò nell’Ordine il 12 marzo 1876, Professo semplice il 3 settembre 1878, Solenne il 16 luglio 1882, morì in Santa Agueda il 13 novembre 1917.

    [71] Cf. Proc. Ap. Suppl., vol. V, doc. n. 43, p. 225-228.

    [72] Cf. C. Mapelli – G. Brockhusen, op. cit., vol. III, p. 772.

    [73] Fra Antonio Maria Tergiman., nato a Larnaca nell’isola di Cipro, entrato canonicamente nell’Ordine il 17 febbraio 1877, Professo semplice il 2 febbraio 1879 ed uscito il 4 agosto 1879.

    [74] Cf. L. del Pozo, op. cit., p. 136.

    [75] Cf. F. Lizaso, op. cit., lettera 351, p. 484.

    [76] Dopo la guerra fra Edoardo tornò a Graz, da cui poi il 4 ottobre 1877 fu trasferito a Brescia (cf C. Mapelli – G. Brockhusen, op. cit., vol. III, p. 671). Col titolo di Priore onorario di Ancona arrivò il 27 settembre a Nazareth e ne divenne Priore il 4 giugno 1890. Per malattia dovette tornarsene a Graz il 1° marzo 1892 (Idem, p. 772).

    [77] Cf. L. del Pozo, op. cit., pp. 138-142.

    [78] Cf. L. del Pozo, op. cit., pp. 142-144.

    [79] Cf. L. del Pozo, op. cit., pp. 275-276.

    SAN GIOVANNI DI DIO: EPISTOLARIO – RIFERIMENTI BIBLICI

    San Giovanni di Dio Brescia

     

    san-giovanni-di-dio-firma-breve

    firma breve di  San  Giovanni di Dio 

      

    Lettera a Luigi Battista  

      

    1                    Nel nome di nostro Signore Gesù Cristo e di nostra Signora la Vergine Maria sempre intatta; Dio prima di tutto e sopra tutte le cose del mondo. Dio vi salvi, fratel­lo mio in Gesù Cristo e figlio mio amatissimo, Luigi Bat­tista.

    2                    Ho ricevuto una vostra lettera inviatami da Jaén, che mi recò molta gioia e (dalla quale ebbi) molta soddisfa­zione, sebbene mi sia spiaciuto molto che abbiate avuto mal di denti, perché mi fa soffrire tutto il vostro male e mi fa gioire il vostro bene.

    3                    Mi avete fatto sapere di non aver trovato costì nessu­na soluzione per quello che siete andato a cercare; d’al­tro canto mi dite che volete andare a Valencia, o non so dove, non so che dirvi.

    4                    Scrivo questa lettera in fretta per spedirla subito, e ho tanta premura che quasi non ho tempo di raccomandare la cosa a Dio; ed è necessario raccomandarla molto a no­stro Signore Gesù Cristo e con più tempo di quanto io ne abbia.

    5                    E vedendo che molte volte siete tanto debole, specie con le donne, non so se farvi venire qui, perché Pedro non se n’è andato, né so quando partirà; lui dice che vuole partire, ma io non so di sicuro quando avverrà la sua par­tenza.

    6                    Se sapessi con certezza che qui trarreste vantaggio per la vostra anima e per quella di tutti, vi ordinerei subito di venire, ma ho paura che succeda il contrario; mi par­rebbe meglio perciò (lasciarvi) trascorrere adesso qualche giorno in mezzo ai guai, fino a che siate molto ben assue­fatto alle fatiche e all’alternarsi di giornate assai nere o molto buone; e d’altro canto mi pare che se doveste finire col perdervi, sarebbe molto meglio tornarvene, comun­que di tutto questo Dio sa qual è il meglio e il vero.

    7                    Per questo mi pare meglio che prima di partire da co­desta città, raccomandiate molto l’affare a nostro Signo­re Gesù Cristo, e che io pure di qui faccia lo stesso, e per questo mi scriviate molto spesso; vi informerete di lì dai pellegrini che transitano in ogni senso: essi vi di­ranno qual è la situazione di codesta terra di Valencia; se andrete a Valencia vedrete il corpo santo di San Vin­cenzo Ferrer.

    8                    Mi sembra che andiate come una barca senza remo: in­fatti, molte volte mi sorge il dubbio che anch’io sia un uomo senza un indirizzo fisso, cosicché siamo in due a non sapere che fare, né voi né io.         
         Ma Dio è quello che sa e rimedia, dia Lui rimedio e consiglio a tutti noi.

    9                    Poiché mi sembra che procediate come una pietra va­gante, sarà bene che andiate un po’ a macerare le vostre carni e a soffrire vita dura, fame e sete e ignominie e stan­chezze, e angustie e affanni e contrarietà; tutto ciò si de­ve patire per Dio, perché se venite qui, dovete soffrire tutto questo per amore di Dio. 
         Di tutto dovete rendere molte grazie a Dio per il bene e per il male (¹).

    10               Ricordatevi di nostro Signore Gesù Cristo e della sua benedetta Passione, che restituì, per il male che gli face­vano, il bene: così dovete fare voi, figlio mio Battista, che quando verrete alla casa di Dio, sappiate conoscere il male e il bene; ma se con certezza sapeste che con que­sto viaggio doveste perdervi, meglio sarebbe tornare qui o a Siviglia, dove nostro Signore Gesù Cristo meglio vi guidasse.

    11               Ma se venite qui, dovete obbedire molto e lavorare mol­to più di quanto abbiate lavorato, e tutto (assorto) nelle cose di Dio e perdere il sonno nella cura dei poveri. 
         La casa è aperta per voi: vorrei vedervi camminare di bene in meglio, come figlio e fratello.

    12               Da questa lettera non potrete comprendere tutta la mia situazione perché ho molta fretta e non vi posso scrivere a lungo, perché non so se il Signore vorrà che torniate tanto presto in questa casa, oppure che soffriate costì; ma ricordate che, se venite, dovete venire sul serio e do­vete guardarvi molto dalle donne, come dal diavolo (²).

    13               Già sta avvicinandosi per voi il tempo di scegliere una strada: se dovete venire qui, dovete dare qualche frutto a Dio, e dovete lasciare la pelle e il resto.   
         Ricordatevi di San Bartolomeo: lo scorticarono e por­tò in spalla la propria pelle: se venite qui, non è che per lavorare, non per poltrire, perché al figlio più amato si affidano le maggiori fatiche.

    14               Circa il venire qui, fate quello che vi sembra meglio e Dio vi farà capire; se vi par meglio correre adesso per il mondo in cerca di qualche impresa nella quale Dio me­glio sia servito, fate tutto come a Lui piacerà, come quel­li che vanno alle Indie alla ventura; ma fate in modo di scrivermi sempre, dovunque vi troverete.

    15               Tutti i giorni della vostra vita guardate a Dio (³), assiste­te sempre all’intera Messa, confessatevi frequentemen­te, se sarà possibile: non dormite in peccato mortale nep­pure una notte, amate nostro Signore Gesù Cristo sopra tutte le cose del mondo (4), ché per molto che lo amiate, mol­to più Lui ama voi.    
         Abbiate sempre carità (5), perché dove non c’è carità, non c’è Dio, anche se Dio è in ogni luogo.

    16               Potendo, andrò a presentare i vostri saluti a Lebrija; la vostra lettera l’ho data a Battista in carcere: ne è stato molto contento, e gli ho detto che scrivesse subito, per poter spedire la lettera; adesso vado a vedere se ha scrit­to, per inviarla; a tutti i miei saluti.   
         A tutti ho portato i vostri saluti, ai grandi e ai piccoli, e all’Ortiza e a Miguel; e Pedro dice che, se venite, sta­rete con lui fino alla sua partenza, e ugualmente, se tor­nasse.

    17               Non ho altro da dirvi, se non che Dio vi salvi e vi cu­stodisca, e vi incammini nel suo santo servizio, voi e tutti (6).     
         Smetto, ma non di pregare Dio per voi e per tutti; de­vo dirvi che mi è andata molto bene con il Rosario, e spero in Dio, di recitarlo tutte le volte che potrò e Dio vorrà.

    18               Già vi ho detto che, se credete di perdervi in questo viaggio, facciate come meglio vi parrà.
         Prima di partire da codesta città, fate dire alcune Messe allo Spirito Santo e ai Re Magi, se ne avrete i mezzi, e se no, basterà la buona volontà; e se questa non fosse suf­ficiente, supplisca la grazia di Dio (7).

    19               Il fratello minore di tutti, Giovanni di Dio, se Dio vuole morendo, ma però tacendo e in Dio sperando, schiavo di nostro Signore Gesù Cristo, desideroso di servirlo. Amen Gesù.   
         Sebbene non sia un così buono schiavo come altri, poi­ché molte volte lo servo male e molte volte lo tradisco, e quantunque me ne dispiaccia assai e molto più dovreb­be dispiacermene, Dio voglia perdonare me e voglia sal­vare tutti.

    20               Scrivetemi tutto quello che vi succede costì; vi invio qui acclusa una lettera che mi hanno mandata perché ve la facessi avere; non ho voluto aprirla per esservi leale, né so se è indirizzata a voi, o a Battista, quello del carce­re; se fosse destinata a quello del carcere, leggetela e man­datemela, perché gliela consegni, e se Battista avrà scrit­to la sua lettera, partirà con queste due.      
         Ora restate con Dio e andate con Dio (8).

     1 Sir 11,14; Tes 5,18

    ² 1Cor 7,1

    ³Deut 6,5 ; 11,1 ; Tob 4,5

    4 1Cor 16,22

    5 Col 3,14; 1Gv 4,16

    6 1Tim 2, 1-4

    7 2Cor 12,9

    8 Gen 17,1; Imit L26,3

     Altare Maggiore Basilica di San Giovanni di Dio in Granada

    I – Lettera a  Gutierre di Lasso  

     

    1.                  Nel nome di nostro Signore Gesù Cristo e di nostra Signora la Vergine Maria sempre intatta.  

         Dio prima di tutto e sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù. Dio vi salvi, fratello mio in Gesù Cristo, Gutierre Lasso, voi e tutta la vostra compagnia, e quanti Dio vorrà e comanderà. Amen Gesù.

    2.                  La presente è per farvi sapere che, grazie a Dio, sono arrivato in buona salute e portando anche più di cinquanta ducati; con quello che avete di là e ciò che io ho portato, penso faranno cento ducati. Dopo il mio arrivo, mi sono indebitato per trenta ducati o più, ma non bastano né que­sti né quelli, perché ho da mantenere più di 150 persone, e Dio provvede ogni giorno ai loro bisogni.

         Se dunque a questi venticinque ducati che avete, po­tete aggiungere qualche cosa di più, c’è bisogno di tutto.

         Mandatemi tutti i poveri piagati che si trovano costì, e se non fosse possibile, non prendetevi pena né lavoro.

    3.                  Mandatemi subito i venticinque ducati, perché tanti e molti di più ne devo pagare, e li stanno aspettando, voi ricorderete che ve li avevo consegnati in un sacchetto di tela, una sera nel vostro aranceto, mentre assieme pas­seggiavamo; spero in nostro Signore Gesù Cristo che, un giorno, passeggerete nel giardino Celeste.

    4.                  Avendo il mulattiere molta fretta, non ho potuto scri­vere a lungo; inoltre è stato tanto il lavoro, da non re­starmi lo spazio di un Credo; per amore di nostro Signo­re Gesù Cristo, mandatemi subito questi soldi, perché mi fanno molta premura.

    5.                  Per amore di nostro Signore Gesù Cristo, raccoman­datemi alla molto nobile virtuosa e generosa schiava di nostro Signore Gesù Cristo, vostra moglie, che tanto desidera servire e piacere a nostro Signore Gesù Cristo e a nostra Signora la Vergine Maria sempre intatta, e per amore di Dio, obbedire e servire suo marito Gutierre Las­so, schiavo di nostro Signore Gesù Cristo, desideroso di servirlo. Amen Gesù.

    6.                  Portate i miei saluti anche a vostro figlio l’arcidiacono che mi accompagnò a chiedere l’elemosina benedetta, lui che è il minimo schiavo degli schiavi di nostro Signore Gesù Cristo e di nostra Signora la Vergine Maria sempre intatta, lui che desidera sempre servire e piacere a no­stro Signore Gesù Cristo e alla sua benedetta Madre, no­stra Signora la Vergine Maria.  
         Ditegli di scrivermi subito con l’aiuto di Dio.

     

    7.             Anche voi, buon cavaliere e buon fratello in Gesù Cri­sto, Gutierre Lasso, scrivetemi e salutatemi tutti i vostri figli e figlie, e tutti quanti vorrete. A Malaga, voi parle­rete per me e porterete i miei ossequi al Vescovo e a tutti gli altri che vorrete e vedrete, poiché sono obbligato a pregare per tutti.

    8.                  Quanto al buon cavaliere vostro figlio, che mi sembra essere il primogenito, sarà come Dio vorrà; nostro Signore Gesù Cristo sia con lui in tutte le sue cose, opere e azio­ni; mi sembra, se Dio lo vuole, che sarebbe meglio spo­sarlo al più presto possibile, se lui stesso dichiara di vo­lerlo, e sebbene vi dica al più presto, non dovete ammaz­zarvi per questo, poiché la vostra grande preoccupazione dev’essere quella di pregare Dio che gli dia una buona moglie, perché mi sembra che sia ancora molto giovane; piaccia a nostro Signore Gesù Cristo, che sia maturo di senno.

    9.                  Ognuno deve abbracciare lo stato che Dio gli destina; i padri e le madri non devono per questo adesso prender­si tante preoccupazioni e pene, ma pregare Dio che con­ceda lo stato di grazia a tutti e a tutte. 

         Quando Dio vorrà, l’uno si sposerà e l’altro canterà Messa, e di tutto quanto io dico qui, non so niente, per­ché Dio sa tutto; piaccia a nostro Signore Gesù Cristo disporre dei vostri figli come voi desiderate in modo che nostro Signore Gesù Cristo sia meglio servito.

    10.             Nostro Signore sa meglio di voi quello che deve fare dei vostri figli e delle vostre figlie, e tutto quello che no­stro Signore Gesù Cristo farà, voi lo dovete accettare e ritenerlo per buono.

    11.             I peccati che io farò, voglio confessarli e farne peni­tenza, perché le buone opere che gli uomini fanno, non sono loro, ma di Dio: a Dio onore, gloria e lode, perché tutto è di Dio. Amen Gesù.

    12.             Il vostro fratello minore Giovanni di Dio, se Dio vuo­le morendo, ma però tacendo e in Dio sperando, (lui) che desidera la salvezza di tutti come la sua stessa. Amen Gesù.

         Piaccia a nostro Signore Gesù Cristo che, quanto fare­te voi e i vostri figli e figlie, sia tutto per il servizio di nostro Signore Gesù Cristo e di nostra Signora la Vergi­ne Maria; che nostro Signore Gesù Cristo non permetta che voi facciate alcuna cosa che a Lui non sia gradita. Amen Gesù.[2]

    Urna reliquie di San Giovanni di Dio Basilica di Granada

    II – Lettera a Gutierre di Lasso 

    1.                  Questa lettera sia consegnata al molto nobile, virtuo­so e generoso cavaliere di nostro Signore Gesù Cristo, Gutierre Lasso, schiavo di nostro Signore Gesù Cristo, desideroso di servirlo. Amen Gesù.   
         Sia consegnata nelle sue proprie mani a Malaga o do­vunque si trovi. Amen Gesù.

    2.                  Nel nome di nostro Signore Gesù Cristo e di nostra Signora la Vergine Maria sempre intatta.

              Dio prima di tutto e sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù.

              Dio vi salvi fratello mio in Gesù Cristo, amatissimo e stimatissimo in Gesù Cristo.

    3.                  La presente sarà per farvi sapere, che io sono molto afflitto e in grandissima necessità, di tutto però rendo gra­zie a nostro Signore Gesù Cristo perché dovete sapere, fratello mio amatissimo e carissimo in Gesù Cristo, che sono così tanti i poveri che qui affluiscono che, molto spes­so, io stesso sono spaventato per come si possa sostentar­li; ma Gesù Cristo provvede a tutto e dà loro da mangiare.

    4.                  Ogni giorno, solo per la legna, occorrono sette o otto reali, perché la città è grande e molto fredda, particolar­mente in questo tempo d’inverno, e sono molti i poveri che giungono a questa casa di Dio, perché fra tutti ­infermi, sani, gente di servizio e pellegrini – sono più di centodieci.

    5.                  Essendo questa una casa per tutti, vi si ricevono indi­stintamente (persone affette) da ogni malattia e gente d’ogni tipo, sicché vi sono degli storpi, dei monchi, dei leb­brosi, dei muti, dei matti, dei paralitici, dei tignosi e al­tri molto vecchi e molti bambini; senza poi contare molti altri pellegrini e viandanti che vengono qui e ai quali si danno il fuoco, l’acqua, il sale e i recipienti per cucinare il cibo da mangiare.

    6.                  Per tutto questo non vi è rendita alcuna, ma Gesù Cri­sto provvede a tutto, perché non vi è giorno in cui per le provviste della casa non ci vogliano quattro scudi e mez­zo, e qualche volta cinque: per il pane, per la carne, per le galline, per la legna, senza contare le medicine e i ve­stiti, che è un’altra spesa distinta.

    7.                  Il giorno in cui le elemosine non bastano per provve­dere a quello che ho detto, io prendo a credito, altre vol­te si digiuna.

              E così mi trovo indebitato e prigioniero solo per Gesù Cristo; devo più di duecento ducati per le camicie, le zi­marre, le scarpe, le lenzuola, le coperte e per molte altre cose che occorrono in questa casa di Dio, come pure per il mantenimento dei bambini che qui abbandonano.

    8.                  Così dunque, fratello mio amatissimo e stimatissimo in Gesù Cristo, vedendomi tanto indebitato, molte. volte non esco di casa a motivo dei debiti che ho e, vedendo soffrire tanti poveri miei fratelli e mio prossimo, che si trovano in così grandi necessità sia per il corpo che per l’anima, non potendoli soccorrere, sono molto triste; con tutto ciò, confido solo in Gesù Cristo che mi sdebiterà, poiché Lui conosce il mio cuore.

    9.                  Perciò dico: maledetto l’uomo che confida negli uomi­ni e non solamente in Gesù Cristo, perché, voglia o non voglia, dagli uomini sarai separato, mentre Gesù Cristo è fedele e duraturo; e poiché Gesù Cristo provvede a tut­to, a Lui siano rese grazie per sempre. Amen Gesù.

    10.             Fratello mio amatissimo e stimatissimo in Gesù Cri­sto, ho voluto ragguagliarvi delle mie preoccupazioni per­ché so che ne soffrirete come io soffrirei per le vostre, e perché so che volete bene a Gesù Cristo e che avete compassione dei suoi figli, i poveri; perciò vi informo delle loro necessità e delle mie.

    11.             Dato che tutti miriamo a un medesimo traguardo, benché ognuno cammini per la propria strada, e come Dio vuole viene incamminato, sarà bene che ci facciamo for­za gli uni gli altri.

              Pertanto, fratello mio amatissimo in Gesù Cristo, non lasciate di pregare Gesù Cristo per me, affinché mi dia la grazia e la forza di resistere e di vincere il mondo, il diavolo e la carne, e che mi dia umiltà, pazienza e carità verso il mio prossimo.

    12.             Mi faccia confessare con sincerità tutti i miei peccati e obbedire al mio confessore, disprezzare me stesso e ama­re solo Gesù Cristo; professare e credere tutto ciò che professa e crede la santa Madre Chiesa: così io lo profes­so e lo credo, bene e veramente; e come lo professa e lo crede la santa Madre Chiesa, così lo professo e lo credo io, e da qui non mi muovo e lo sigillo e lo chiudo con la mia chiave.

    13.             Fratello mio in Gesù Cristo, sento molto sollievo a scri­vervi, perché mi sembra di parlare con voi e di farvi par­tecipe dei miei affanni; so che voi li sentite come io l’ho visto dai fatti, perché le due volte che sono stato in co­desta città, mi avete fatto una così buona accoglienza e mi avete dimostrato tanta buona volontà; nostro Signo­re Gesù Cristo vi ricompensi in cielo della buona opera che avete fatto per Gesù Cristo, per i poveri e per me: Gesù Cristo ve la paghi. Amen Gesù.

    14.             Fratello mio in Gesù Cristo, saluterete da parte mia la vostra casa e i vostri figli amatissimi, particolarmente il maestro di scuola, mio amato fratello in Gesù Cristo, e il buon padre e mio fratello in Gesù Cristo, il Vescovo, e donna Caterina, mia ospitale sorella, amatissima in Gesù Cristo, e a tutti quanti Dio vorrà e comanderà. Amen Ge­sù.

    15.             Fratello mio in Gesù Cristo, vi mando questo giovane latore della presente, in cui si tratta di un giovane dece­duto in questo ospedale, originario della città di Malaga, che aveva lasciato alcuni beni a questa casa, consistenti nell’eredità di una vigna o censo, cosa che egli può rife­rirvi meglio, perché l’ha trattata fin dall’inizio.

    16.             Io voglio che si venda, perché ho molto bisogno di de­naro, e anche perché è scarsa la rendita, per andarla a prendere ogni anno; pertanto, per amore di nostro Signore Gesù Cristo, se conoscete qualcuno che la voglia compe­rare, vendetegliela subito, purché non ci perda colui che la comprerà, né i poveri, e che si faccia presto affinché il latore della presente torni subito con il denaro, perché è persona di mia fiducia e gli ho dato pieni poteri e le scritture che aveva portato.

    17.             Perdonatemi se vi do tanto fastidio, ma un giorno vi sarà ricompensato in cielo; per amore di nostro Signore Gesù Cristo, vi raccomando questo affare, perché con il denaro che mi porterà, dobbiamo comprare alcuni vesti­ti per i poveri, affinché preghino Dio per l’anima di co­lui che fece il lascito e dobbiamo pagare la carne e l’olio, perché non vogliono più farmi credito, dovendo molto, e trattengo i creditori dicendo che presto miporteranno del denaro da Malaga.

    18.             Non voglio chiedervi ora la strenna, perché so che an­che lì non mancano i poveri per fare loro il bene, sola­mente (chiedo) che nostro Signore vi dia la salvezza del­l’anima, perché, in questa vita infelice, il vivere bene è la chiave di colui che sa salvarsi: tutto il resto è niente.

    19.             Il vostro disobbediente fratello minore Giovanni di Dio, se Dio vuole morendo, ma però tacendo e in Dio sperando, (lui) che desidera la salvezza di tutti come la sua stessa. Amen Gesù.

    Da Granada, 8 gennaio 1550.[3] 

     

    San Giovanni di Dio - Lettera alla Duchessa di  Sessa 1

    I – Alla duchessa di Sessa 

    1.                  Questa lettera sia data alla molto nobile e virtuosa si­gnora, donna Maria di Mendoza, duchessa di Sessa, mo­glie del generoso signor duca di Sessa, don Gonzalo Fer­nandez di Cordova, virtuoso e buon cavaliere di nostro Signore Gesù Cristo, desiderosa di servirlo. Amen Gesù.

              Sia data nelle sue proprie mani a Cabra o dovunque si trovi. Amen Gesù.

    2.                  Nel nome di nostro Signore Gesù Cristo e di nostra Signora la Vergine Maria sempre intatta.

              Dio prima di tutto e sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù.

              Dio vi salvi, sorella noia amatissima in Gesù Cristo, buo­na duchessa di Sessa, voi e tutta la vostra compagnia e tutti quanti Dio vorrà e comanderà. Amen Gesù.

    3.                  La presente, virtuosa duchessa, sarà per farvi sapere come, subito dopo che fui partito da voi, andai ad Alcau­dete a vedere donna Francesca e di là mi recai ad Alcalà, dove fui molto malato per quattro giorni e mi indebitai per tre ducati a favore di alcuni poveri molto bisognosi; e poiché trovai tutti i maggiorenti di Alcalà in rivolta con­tro il Governatore, appena mi sentii meglio, me ne andai subito a Granada, senza chiedere l’elemosina in Alcalà; Dio sa in quale necessità mi aspettavano i poveri.

    4.                  Sorella mia in Gesù Cristo, buona duchessa, l’elemo­sina che mi deste, già gli Angeli l’hanno scritta nel libro della vita; l’anello è stato utilizzato così bene che, col de­naro ricavato, ho vestito due poveri piagati e ho compra­to anche una coperta; questa elemosina sta davanti a Ge­sù Cristo a intercedere per voi. Ho messo subito, a vo­stro nome, il camice e i candelieri sull’altare perché ab­biate parte a tutte le Messe e le orazioni che vi si diranno; piaccia a nostro Signore Gesù Cristo ricompensarvi di tutto ciò in cielo.

              Dio vi paghi per la buona accoglienza che mi avete fat­to, voi e tutti quelli della vostra casa: Dio riceva in cielo la vostra anima e le anime di tutti quelli che sono nella vostra casa.

    5.                  Sono molto obbligato a tutti i signori dell’Andalusia e della Castiglia, ma molto più al buon duca di Sessa e a tutte le sue proprietà: è molto, molto grande la ca­rità che ho ricevuto dalla sua casa e dalle sue pro­prietà; Dio lo paghi per tutte le volte che mi ha libe­rato dalla prigionia dei debiti, piaccia a nostro Signore Gesù Cristo di ricondurlo in salute e dargli figli di be­nedizione.

    6.                  Buona duchessa, quello che mi avete raccomandato, voi mi capite, l’ho avuto sempre in mente; Dio prima di tut­to e sopra tutte le cose del mondo, confidando solamen­te in Gesù Cristo, che è la perfetta certezza.

              Dico io, Giovanni di Dio, se Dio vorrà: il duca, con l’aiuto di Dio, verrà molto presto e in salute di anima e di corpo e, quando arriverà, se Dio vorrà, gli chiederete quanto vi ho detto e vedrete se è vero, con l’aiuto di Ge­sù Cristo.

              Confidate solo in Gesù Cristo: maledetto sia l’uomo che confida nell’uomo, perché dagli uomini sarà abban­donato, lo voglia o non lo voglia, ma non da Gesù Cri­sto che è fedele e duraturo: tutto perisce tranne le buo­ne opere.

    7.                  Buona duchessa, vegliate sempre e tenetevi sul piede di partenza poiché siamo, se ci pensiamo bene, in guerra continua con il mondo, il diavolo e la carne, e sempre è necessario che badiamo a noi stessi perché non sappiamo l’ora in cui busseranno alla porta della nostra anima, e come ci troveranno, così ci giudicheranno.

    8.                  Quando andate a letto, buona duchessa, segnatevi con il segno della Croce e confermatevi nella fede recitando il Credo, il Pater noster, l’Ave Maria e la Salve Regina, che sono le quattro preghiere che ordina di recitare la san­ta Madre Chiesa, e ordinate che le recitino le vostre da­migelle e le vostre domestiche, come credo che sempre comandiate che le recitino perché, quando sono stato da voi, le ho sentite recitare la dottrina cristiana.

    9.                  Sarete molto afflitta sorella mia, buona duchessa di Ses­sa, perché mi hanno detto che don Alvaro e don Bernar­dino sono già partiti; Gesù Cristo accompagni le loro ani­me e li guidi e li porti in salute dinanzi alla vostra vir­tuosa e umile madre, donna Maria di Mendoza.

              Non siate afflitta, consolatevi solo con Gesù Cristo, non desiderate consolazioni in questa vita ma in cielo e per tutto ciò che Dio vorrà darvi qui, rendetegli sempre grazie.

    10.             Quando vi troverete angustiata, ricorrete alla Passio­ne di Gesù Cristo nostro Signore e alle sue preziose Pia­ghe, e sentirete grande consolazione; considerate tutta la sua vita: che cosa è stata se non fatiche, per darci l’esem­pio?

              Di giorno predicava e di notte pregava; perché noi po­veri peccatori e vermiciattoli vogliamo cercare il riposo e le ricchezze se, anche nel caso fossimo i padroni di tut­to il mondo, non saremmo affatto migliori, e non ci ac­contenteremmo, se avessimo molto di più?

              È veramente contento solo colui che, disprezzando tut­te le cose, ama Gesù Cristo; dare il tutto per il tutto che è Gesù Cristo, come lo date e volete darlo voi buona du­chessa: voi dite che amate più Gesù Cristo che tutto il mondo, che confidate sempre in Lui e che per Lui amate tutti, affinché si salvino.

    11.             O buona Duchessa! voi vivete, come la casta tortorel­la, sola e ritirata in codesta villa, lontana dal contatto con la corte, attendendo il buon duca, vostro generoso e umile marito, sempre in preghiere e facendo delle elemosine, praticando sempre la carità perché ne sia partecipe il vo­stro generoso e umile marito, il buon duca di Sessa, e per­ché Cristo custodisca il suo corpo dal pericolo e la sua anima dal peccato.

              Piaccia a Dio di condurvelo presto dinnanzi ai vostri occhi e vi dia figli di benedizione, affinché possiate ser­virlo e amarlo sempre e offrirgli il frutto che Lui vi darà, perché se ne serva.

    12.             Molto vi deve il duca, perché sempre pregate per lui e avete tanta cura e tanto lavoro per governare codesta casa, dove vi esercitate nelle opere di misericordia, dan­do da mangiare e da vestire a tutti coloro che vi dimora­no. Alcuni sono vecchi e altri giovani; e quelle damigelle e governanti, e le altre orfane e vedove, dove andrebbe­ro senza di voi?

              Tutti sono obbligati a servirvi e a esservi fedeli, e voi a fare loro il bene, poiché Dio ama tutti.

    13.             Se considerassimo quanto è grande la misericordia di Dio, non cesseremmo mai di fare il bene mentre possia­mo farlo, poiché, mentre noi diamo per suo amore ai po­veri quello che Lui stesso ci dà, Egli ci promette il cento per uno nella beatitudine del cielo. O felice guadagno e usura!

              Chi non darà quello che possiede a questo mercante benedetto, dal momento che Lui fa con noi un affare così buono e ci prega con le braccia aperte di convertirci, di piangere i nostri peccati e di avere la carità prima ver­so le nostre anime, poi verso il prossimo?

              Perché, come l’acqua spegne il fuoco, così la carità can­cella il peccato.

    14.             Sorella mia in Gesù Cristo, dovete sapere che ho un gran da fare, come potrà dirvi il mio compagno Angulo, perché sto rinnovando tutta la casa che era rovinata dap­pertutto e vi pioveva dentro, e per questi lavori mi trovo in grande necessità; ho deciso perciò di scrivere a Zafra, al Conte di Feria e al Duca di Arcos, perché si trova là il maestro Avila e sarà un buon intermediario, affinché mi mandino qualche soccorso che mi libererà dai debiti; con l’aiuto di Gesù Cristo, io penso che lo faranno.

    15.             Sorella mia, vi causo sempre disturbo e molestia, ma spero in Dio che, un giorno, vi sarà riposo per la vostra anima.

              Dovete sapere che l’altro giorno, quando stavo a Cor­dova, andando per la città, ho trovato una casa nella più grande necessità, dove vi erano due ragazze che avevano il padre e la madre ammalati a letto e rattrappiti da dieci anni; li ho visti così poveri e così malconci, che mi spez­zarono il cuore: seminudi, pieni di pidocchi, avevano come letto dei fasci di paglia; li soccorsi come potevo, per­ché andavo di fretta per trattare con il maestro Avila, ma non diedi loro come avrei voluto.

    16.             Il maestro Avila mi ordinò di partire subito e di ritor­nare a Granada; nella fretta, ho raccomandato questi po­veri ad alcune persone che se ne sono scordate o non hanno voluto o potuto fare di più; mi hanno scritto una lettera che mi ha spezzato il cuore, per quanto mi man­davano a dire. Mi trovo in tanta necessità che, il giorno in cui devo pagare quelli che lavorano, alcuni poveri ri­mangono senza mangiare, e Dio lo sa e ve lo dichiari, che mi trovai con un solo reale che diedi ad Angulo per il viaggio.

    17.             Così, buona Duchessa, io desidero, se così piace a Dio, che guadagniate voi questa elemosina, che gli altri hanno perduta, e sono quattro ducati: tre per quelle poverette, perché si comperino due coperte e due gonne perché un’a­nima vale più di tutti i tesori del mondo e quelle ragazze non pecchino per così poca cosa; l’altro ducato sarà per Angulo, mio compagno, per il suo viaggio a Zafra e per il ritorno, perché sto aspettando che arrivi con qualche soccorso. Voi siete più obbligata verso i vostri domestici che verso gli estranei, ma dare qui o dare là, tutto è gua­dagno: tanti più Mori, tanti più guadagni (più voi date, più guadagnate); se non aveste la possibilità di farlo, tor­nerà Angulo a vendere due misure di grano ad Alcaude­te, se invece glieli darete, lui sa cosa farne e dove abita­no quelle poverette.

    18.             Sorella mia, porgerete i miei ringraziamenti e le mie raccomandazioni alla vostra governante di Valladolid e a tutte le donzelle, a quella che canta, a tutte quelle di casa e a don Giovanni.

              Nostro Signore Gesù Cristo vi custodisca, mia buona duchessa.

              Il vostro fratello minore e disobbediente Giovanni di Dio, se Dio vuole morendo, ma però tacendo e in Dio sperando, (lui) che desidera la salvezza di tutti come la sua stessa. Amen Gesù.

    19.             Se gli darete questa elemosina, buona duchessa, con­segnategli una lettera con due righe, affinché me la porti e sappia se l’avete fatta, e il grano sarà venduto a suo tem­po; spedite presto Angulo con quello che Dio vorrà e co­manderà e con quello che voi gli darete. Amen Gesù.[4]

    San Giovanni di Dio alla Duchessa di Sessa 2

    II – Alla duchessa di Sessa  

    1.                  Nel nome di nostro Signore Gesù Cristo e di nostra Signora la Vergine Maria sempre intatta.

              Dio prima di tutto e sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù.

              Dio vi salvi, sorella mia amatissima in Gesù Cristo, mol­to nobile e virtuosa e generosa e umile duchessa di Ses­sa; Gesù Cristo salvi e custodisca voi e tutta la vostra com­pagnia, e tutti quanti Dio vorrà e comanderà. Amen Gesù.

    2.                  Questa lettera è per farvi sapere come sto e per met­tervi al corrente di tutti i miei lavori, le mie necessità e le mie angustie, che ogni giorno aumentano e soprattut­to ora.

              Ogni giorno sempre più aumentano i debiti e i poveri, molti dei quali giungono nudi, scalzi, piagati e pieni di pidocchi, cosicché è necessario avere uno o due uomini impegnati solamente a distruggere i pidocchi in una cal­daia di acqua bollente, e questo lavoro durerà d’ora in avanti tutto l’inverno fino al prossimo mese di maggio; perciò, sorella mia in Gesù Cristo, le mie fatiche cresco­no ogni giorno di più.

    3.                  Nostro Signore Gesù Cristo ha voluto portarsi via una sua figlia che tanto amava e prediligeva, donna France­sca, figlia di don Bernardino, nipote del marchese di Mon­dejar; nostro Signore Gesù Cristo le diede tanta grazia che, mentre visse sulla terra, fece sempre molto bene ai poveri e a tutte le persone che, per amor di Dio, le chie­devano qualche cosa, non mancava mai di dare loro una benedetta elemosina, sicché nessuno se ne andava senza conforto dalla sua casa per le buone parole, il buon esem­pio e la buona dottrina che elargiva questa beata dami­gella.

    4.                  Sono tante le cose che faceva che, per scriverle, sa­rebbe necessario un grande libro; un giorno o l’altro scri­verò più a lungo su questa beata damigella – donna Francesca che nostro Signore Gesù Cristo ha voluto pren­dere con Sé, dove è viva e sana, e con molta felicità e riposo, come ci dice la nostra fede – e su quello che abbiamo visto, tutte noi persone che l’abbiamo cono­sciuta.

              Mediante la volontà di Dio e le buone opere che Ge­sù Cristo operava in lei e la grazia che le dava, faceva del bene a tutti, tanto con il consiglio quanto con l’ele­mosina: per tutto e per tutti Gesù Cristo le dava grazia. Pertanto, secondo la nostra fede e secondo quello che qui sulla terra l’abbiamo vista compiere, tutti noi che l’abbiamo conosciuta, non possiamo fare a meno di cre­dere che ora ella sia nel riposo eterno con nostro Si­gnore Gesù Cristo e con tutti gli Angeli della Corte ce­leste.

    5.                  Tutti quelli che la conoscevano, tanto i poveri come i ricchi, hanno sentito molto la sua morte, e con molta più ragione e assai di più dovrei sentirla io, più che nes­sun altro, per la consolazione e il buon consiglio che sem­pre mi dava: per quanto afflitto andassi a casa sua, mai ne uscivo senza consolazione e buon esempio, e poiché piacque a nostro Signore toglierci tanto bene, benedetto Egli sia per sempre, perché Lui sa meglio di noi quello che fa e a noi conviene, più di quanto noi possiamo pen­sare.

    6.                  Sorella mia molto amata in Gesù Cristo, ho voluto in­formarvi dei miei lavori, delle mie angustie e delle mie necessità, perché so che soffrite per me, come io farei per le vostre cose.

              Vi sono assai obbligato, buona duchessa, e mai dimen­ticherò il buon trattamento che mi avete usato, più di quanto meritassi; nostro Signore vi ricompensi in cielo e vi rimetta in salute il buon duca di Sessa, vostro molto umile marito, e vi dia figli di benedizione e così lo ser­viate e lo amiate sopra tutte le cose del mondo.

    7.                  Confidate solo (in Gesù Cristo) che possa tornare molto presto in salute di corpo e di anima, e non siate contristata né sconsolata perché, d’ora innanzi, vi sentirete più lieta di quanto non lo siate stata finora e saprete che era vero quello che io vi avevo detto, confidando solo in Ge­sù Cristo, Dio prima di tutto e sopra tutte le cose del mon­do; perché io non so niente, Gesù Cristo sa tutto e, col suo aiuto, sarete consolata molto presto nel vedere il vo­stro umile marito, che io tanto stimo e amo (sono di tan­to peso a lui e a tutti i suoi affari).

    8.                  Quante volte egli mi ha levato d’impiccio, liberato dai debiti e confortato con la sua benedetta elemosina che gli Angeli tengono registrata in cielo nel libro della vita, dove egli possiede già un grande tesoro per quando vi an­drete, buona duchessa, e là lo godrete per sempre insie­me al vostro umile marito, il buon duca di Sessa. Piaccia a nostro Signore Gesù Cristo condurvelo presto dinnan­zi ai vostri occhi e vi dia figli di benedizione, perché rin­graziate, come sempre fate, nostro Signore Gesù Cristo per tutto ciò che Egli fa e ci concede; se alcune volte ci dà fatiche e angustie, ciò è per il nostro bene e affinché meritiamo di più.

    9.                  Quando mi trovo afflitto, non trovo rimedio o conso­lazione migliore che guardare e contemplare Gesù Cristo Crocifisso e pensare alla sua santissima Passione, alle fa­tiche e alle angustie che patì in questa vita: tutto per noi peccatori, cattivi, ingrati e misconoscenti.

              Considerando che l’Agnello senza macchia soffia tanti travagli senza averli meritati, come possiamo noi cercare e volere riposo e piaceri in questa terra, dove tanti mali e tante pene inflissero a Gesù Cristo, che ci ha creati e redenti? Che cosa speriamo noi di avere?

    10.             A voler ben guardare, buona duchessa, questa vita non è altro che una continua guerra, finché vivremo in que­sto esilio e in questa valle di lacrime; sempre combattuti da tre nemici mortali che sono: il mondo, il diavolo e la carne.

    11.             Il mondo ci attira con i vizi e con le ricchezze, pro­mettendoci lunga vita, dicendo: va’ là che sei giovane, abbandonati ai piaceri che poi nella vecchiaia ti rav­vederai.

    12.             Il diavolo ci attira tendendoci sempre dei lacci e delle reti per farci inciampare e cadere e così impedirci di fare il bene e la carità, impegnandoci solo nella cura dei beni temporali, affinché non ci ricordiamo di Dio e della cura che dovremmo avere della nostra anima, mantenendola pura e rivestendola di buone opere; liberatici da un af­fanno, siamo presi da un altro, appena terminata una fac­cenda, diciamo: voglio cambiare la mia vita; così, dicen­do adesso e un’altra volta adesso, mai riusciamo a libe­rarci dagli inganni del demonio, fino a che viene l’ora della morte e allora risulta falso tutto ciò che il mondo e il dia­volo promettono; pertanto, siccome il Signore ci giudi­cherà quali ci troverà, sarà bene emendarci per tempo e non fare come quelli che dicono domani, domani, e non cominciano mai.

    13.             Vi è poi l’altro nemico, il maggiore, che come padrone di casa e come uno della famiglia, con belle parole e bei modi cerca di portarci alla perdizione: questi è la carne e il nostro corpo che non desidera altro che mangiare be­ne, bere bene, vestire bene, dormire, lavorare poco, dar­si ai piaceri della carne e vanagloriarsi.

    14.             Per vincere questi tre nemici, abbiamo bisogno della presenza, dell’aiuto e della grazia di Gesù Cristo; abbia­mo bisogno di disprezzare totalmente noi stessi per il tutto che è Gesù Cristo: confidando solamente in Lui, confes­sando la verità e tutti i peccati ai piedi del confessore, adempiendo la penitenza impostaci e promettendo di mai più peccare, solo per Gesù Cristo; e se ci accadesse di pec­care, confessiamoci frequentemente.

    15.             In questo modo ciascuno potrà vincere questi nemici di cui ho parlato. Non confidare in se stessi perché si ca­drà mille volte al giorno in peccato, ma confidare solo in Gesù Cristo e unicamente per il suo amore e per la sua bontà non peccare, né mormorare, né fare del male, né danno al prossimo, ma desiderare per il prossimo ciò che vorremmo facessero a noi; e desiderare che tutti si salvino; e amare e servire solo Gesù Cristo per quello che Lui è, e non per timore dell’inferno; e per quanto è pos­sibile, il confessore sia buono, e dotto, e di buona fama, e di buona vita. Tutto ciò voi lo sapete meglio di me, sorella mia in Gesù Cristo; quando vorrete inviarmi qual­che buon consiglio, io lo riceverò con molta buona vo­lontà, come da sorella mia in Gesù Cristo.

    16.             E adesso, sorella mia amatissima e carissima, fatemi sa­pere come state e come vi trovate dopo la partenza di don Alvaro e di don Bernardino, vostri molto nobili, virtuosi e umili zii e fratelli miei in Gesù Cristo, che io molto amo.

              Dio li ricompensi per la buona accoglienza che, dovun­que mi hanno incontrato, sempre mi hanno riservata; no­stro Signore Gesù Cristo riceva in cielo le loro anime e li guidi con ogni bene dinnanzi agli occhi della vostra mol­to umile madre, donna Maria di Mendoza, molto nobile, virtuosa e generosa, che sempre desidera di piacere e ser­vire a nostro Signore Gesù Cristo.

    17.             Fatemi sapere come sono arrivati e come si trovano, e nello stesso tempo datemi pure qualche bella notizia del buon duca, vostro molto umile marito, perché io mi ral­legrerò molto di ogni suo bene; come si trova, come sta e dove; piaccia a nostro Signore Gesù Cristo di condurlo presto in salute di corpo e di anima, lui e tutta la sua com­pagnia, e tutti quanti Dio vorrà e comanderà. Amen Gesù.

    18.             Sorella mia amatissima, buona e umile duchessa! Voi vi trovate sola e isolata in questo castello di Baena, cir­condata dalle vostre molto virtuose damigelle e dame mol­to onorate e oneste, lavorando e impegnandovi notte e giorno, per non stare oziosa, né per perdere il tempo in­vano; voi desiderate prendere esempio da nostra Signora la Vergine Maria sempre intatta che, essendo Madre di Dio, Regina degli Angeli e Signora del mondo, tesseva e lavorava tutto il giorno per il suo sostentamento; e nel­la solitudine pregava la notte e parte del giorno, per farci comprendere che, dopo il lavoro, dobbiamo rendere gra­zie a nostro Signore Gesù Cristo che usa con noi tanta misericordia dandoci da mangiare, da bere, da vestire e tutte le cose senza che le meritiamo; che se Lui non in­tervenisse, a che cosa gioverebbe il nostro lavoro, il no­stro acume e la nostra diligenza?

    19.             Cosicché voi state sempre lavorando e occupandovi in opere di misericordia; facendo recitare a tutti e a tutte la dottrina cristiana e le quattro preghiere comandate dalla santa Madre Chiesa e facendole imparare a quelli che non le sanno; e sempre pensate alla Passione di nostro Signo­re Gesù Cristo e alle sue Piaghe preziose; e dite che ama­te Lui solo più di tutte le cose del mondo; e che volete e amate ciò che Lui vuole e ama, e detestate ciò che Lui detesta; e per il suo amore e la sua bontà, e non per altro interesse, volete fare il bene e la carità ai poveri e alle persone indigenti.

    20.             Ora, sorella mia, perdonatemi di essere sempre prolisso nello scrivere, eppure non vi scrivo tutto quello che io de­sidererei, perché sono molto afflitto e ho male agli occhi e mi trovo in molte necessità, nostro Signore Gesù Cristo ve lo faccia comprendere; perché con quest’opera che ho iniziato non posso muovermi perché sto rinnovando tutto l’ospedale e sono molti i poveri e grandi sono le spese che qui si fanno, e tutto ciò (si fa) senza rendita; ma Gesù Cri­sto provvede a tutto, poiché io non faccio nulla.

    21.             Vorrei percorrere presto codesta Andalusia fino a Za­fra e a Siviglia, ma non posso finché non abbia termina­to quest’opera, perché non sia vanificata. Mi trovo così indebitato e in mezzo a tanta necessità, che non so che cosa fare, sicché, sorella mia amatissima in Gesù Cristo, mando costì Angulo perché venda il grano o lo porti qui, come meglio vi sembrerà; ma soprattutto ho grande bi­sogno di danaro per quest’opera e per pagare alcuni de­biti che mi cavano gli occhi, e anche perché non ho de­naro sufficiente per pagare quelli che vengono a portare il grano e la spesa è molta, perciò mi pare molto meglio venderlo; però vedete voi, sorella mia, quel che vi sem­brerà meglio fare.

    22.             Angulo porta la cedola del grano e la mia procura che io ho fatto fare dal mio scrivano.

              Per amore di nostro Signore Gesù Cristo, fate in mo­do che egli non torni senza qualche soccorso, in un modo o nell’altro; perché appena torna Angulo, noi partiremo per Siviglia e per Zafra, a vedere il conte di Feria e il duca di Arcos, adesso che vi si trova anche il Maestro d’Avila, che è andato a fare loro visita; può darsi che piac­cia a nostro Signore Gesù Cristo, che essi mi liberino da qualche debito.

              È meglio che ci vada io di persona e non che mandi delle lettere, perché loro hanno tante faccende e tanti po­veri ai quali fare l’elemosina che, se non ci si presenta di persona, passa loro di mente quello che gli si manda a dire; e non mi stupisco, perché i signori sono molto as­sediati dai poveri che danno loro molto disturbo.

              Il Maestro d’Avila mi manda a dire, per mezzo di Angulo, che io vada là.

    23.             Sorella mia in Gesù Cristo, il Signore vi ricompensi in cielo dell’elemosina che avete dato ad Angulo per quelle poverette e per il suo viaggio, che fu di quattro ducati; egli mi ha raccontato ogni cosa e come voi soffrivate per le mie difficoltà; perdonatelo per non aver potuto venire costì a motivo di alcune lettere.

              Ora sorella mia amatissima in Gesù Cristo, vi prego per amore di nostro Signore Gesù Cristo, di avere compassio­ne delle mie fatiche, delle mie angustie e delle mie necessi­tà, affinché Dio abbia misericordia di voi e di tutte le vo­stre cose e di quanto Dio vorrà e comanderà. Amen Gesù.

    24.             Sorella mia, buona duchessa, porterete i miei saluti al­la vostra molto virtuosa governante, che ella preghi Dio per me, come io farò per lei, come pure a tutte le dame e damigelle molto umili e virtuose della vostra nobile ca­sa, che tutte preghino Dio per me, perché mi trovo in grande guerra e battaglia.

              Così pure porterete i miei ossequi al mio amatissimo fratello don Giovanni, che mi scriva come sta e come si trova, e anche a tutti i cavalieri e servitori della vostra nobilissima casa.

    25.             Tutti preghino nostro Signore Gesù Cristo, affinché mi dia grazia e aiuto per vincere il mondo, il diavolo e la carne e per osservare i suoi santi comandamenti; mi faccia professare e credere tutto ciò che professa e crede la santa Madre Chiesa, e confessare con sincerità e con­trizione tutti i miei peccati, adempiere la penitenza che mi sarà imposta dal confessore, amare e servire solo Ge­sù Cristo; che altrettanto farò io per loro.

              Porgerete i miei omaggi a donna Isabella, musicista, dicendole che nostro Signore Gesù Cristo la faccia cre­scere di bene in meglio nelle virtù.

    26.             Viene da voi Giovanni d’Avila, che è il mio compa­gno. Benché sempre io lo chiami Angulo, il suo vero non è Giovanni d’Avila.

              Sorella mia amatissima, buona duchessa di Sessa man­datemi un altro anello o qualsiasi altra cosa di vostro, af­finché io abbia qualcosa da impegnare, perché l’altro è già stato utilizzato e già lo avete in cielo.

              Dite alla governante, molto umile, e a tutte le dame e damigelle che se hanno qualche cosetta d’oro o d’argento, me la mandino per i poveri e per inviarla al cielo; che me la mandino affinché mi ricordi di loro.

              Nostro Signore Gesù Cristo vi salvi e vi custodisca, buona duchessa, voi e tutta la vostra compagnia e quanti Dio vorrà e comanderà. Amen Gesù.

              E comunque sia, sono grandemente obbligato a prega­re per tutti e per tutte quelle della vostra nobile e acco­gliente casa.

    27.             Il vostro disobbediente fratello minore Giovanni di Dio, se Dio vuole morendo, ma però tacendo e in Dio sperando, (lui) che desidera la salvezza di tutti come la sua stessa. Amen Gesù.

         Buona duchessa, molto spesso mi ricordo dei regali che mi facevate a Cabra e in Baena e dei pezzetti di pane te­nero che mi davate; Dio vi dia il cielo e vi faccia parteci­pe dei suoi beni. Amen Gesù[5]

    La sporta di San Giovanni di Dio

    III – Alla duchessa di Sessa  

    1.                  Questa lettera sia data all’umile e generosa signora, don­na Maria de los Cobos e Mendoza, moglie del nobile e virtuoso signor don Gonzalo Fernandez de Cordova, du­ca di Sessa, miei fratelli in nostro Signore Gesù Cristo.

    2.                  Nel nome di nostro Signore Gesù Cristo e di nostra Signora la Vergine Maria sempre intatta.

              Dio prima di tutto e sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù.

              Dio vi salvi, sorella mia in Gesù Cristo, buona duchessa di Sessa, voi e tutta la vostra compagnia, e quanti Dio vorrà e comanderà. Amen Gesù.

    3.                  Il grande amore che ho sempre nutrito per voi e per il vostro umile marito, il buon duca, fa sì che non possa dimenticarvi per il molto che vi devo; e così la ricono­scenza per avermi sempre aiutato e soccorso nei miei im­pegni e nelle mie necessità, con la vostra benedetta ele­mosina e carità, per sostentare e vestire i poveri di que­sta santa casa di Dio e di molti altri fuori; l’avete sempre fatto molto bene, come buoni difensori e cavalieri di Ge­sù Cristo e ciò mi induce a scrivere questa lettera, buona duchessa, perché non so se più tornerò a vedervi e parlarvi: Gesù Cristo vi veda e vi parli per me.

    4.                  È così grande il dolore che mi causa il mio male, che non posso neppure proferire parola e non so neanche se potrò terminare di scrivervi questa lettera.

              Desidererei molto vedervi e pertanto pregate Gesù Cri­sto che, se a Lui piace, mi dia quella salute che sa essermi necessaria per salvarmi e perché faccia penitenza dei miei peccati.

              Se a Lui piacerà ridarmi la salute, appena mi sentirò meglio, verrò subito a trovarvi e vi porterò le bambine che mi avete domandato.

              Sorella mia in Gesù Cristo, avevo pensato di venire da voi per Natale, ma Gesù Cristo ha disposto molto me­glio di quanto meritassi.

    5.                  Oh buona duchessa! Gesù Cristo vi ricompensi in cie­lo dell’elemosina e della santa carità che sempre mi avete elargita e vi rimetta in salute il buon duca, vostro gene­rosissimo e umile marito e vi dia figli di benedizione; e spero in Gesù Cristo che ve li darà.

              E ricordatevi bene di ciò che vi dissi un giorno a Ca­bra: mettete la vostra speranza solo in Gesù Cristo, per­ché da Lui sarete consolata, anche se adesso vi trovate nelle difficoltà, perché tutto alla fine risulterà per mag­giore consolazione e gloria vostra, se lo soffrirete per Gesù Cristo.

    6.                  O buon duca, o buona duchessa, siate benedetti da Dio, voi e tutta la vostra generazione, e poiché non posso ve­dervi, anche se sono un indegno peccatore, da qui vi man­do la mia benedizione.

              Dio che vi fece e vi creò, vi conceda grazia con la qua­le possiate salvarvi. Amen Gesù.

              La benedizione di Dio Padre, l’amore del Figlio, e la grazia dello Spirito Santo, siano sempre con voi, con tut­ti e con me. Amen Gesù.

              Da Gesù Cristo siate consolati e soccorsi, poiché per amore di Gesù Cristo, mi avete aiutato e soccorso, sorel­la mia in Gesù Cristo, buona e umile duchessa.

    7.                  Se a Gesù Cristo piacerà togliermi da questa vita pre­sente, do con questa lettera autorizzazione affinché – quando verrà il mio compagno Angulo, che è andato a corte, e ve lo raccomando perché rimarrà molto povero, sia lui che sua moglie – vi porti il mio simbolo, che sono tre lettere di filo d’oro su raso rosso; le conservo da quan­do entrai in lotta col mondo, custoditele accuratamente con questa croce per darle al buon duca, quando Dio ve lo avrà ricondotto.

    8.                  Le lettere sono su raso rosso, perché sempre abbiate in mente il prezioso Sangue che nostro Signore Gesù Cri­sto sparse per tutto il genere umano e la sua sacratissima Passione, perché non vi è più alta contemplazione di quella della Passione di Gesù Cristo, e con l’aiuto di Gesù Cri­sto, chiunque ne sarà devoto, non si perderà.

    9.             Tre sono le lettere, perché tre sono le virtù che ci in­camminano verso il cielo: la prima è la fede, (che si prati­ca) credendo tutto quello che crede e professa la santa Madre Chiesa, osservando i suoi comandamenti e met­tendoli in pratica; la seconda è la carità: carità prima verso le nostre anime, purificandole con la confessione e la pe­nitenza, e poi carità con il nostro prossimo e con i nostri fratelli, desiderando per loro ciò che desideriamo per noi stessi; la terza è la speranza solo in Gesù Cristo che, in cambio delle fatiche e delle infermità che per suo amore sopporteremo in questa miserabile vita, ci darà la gloria eterna per i meriti della sua sacra Passione e per la sua grande misericordia.

    10.             Le lettere sono d’oro perché come l’oro, che è un me­tallo tanto pregiato, per risplendere e avere il colore che deve avere per essere pregiato, viene prima separato dal­la terra e dalle scorie che lo accompagnano e poi purgato col fuoco per rimanere pulito e purificato, così occorre che l’anima, che è un gioiello tanto pregiato, sia separata dai piaceri e dalle carnalità della terra e rimanga sola con Gesù Cristo, purificata poi nel fuoco della carità con le fatiche, i digiuni, le discipline e l’aspra penitenza perché possa essere apprezzata da Gesù Cristo e risplenda da­vanti alla presenza divina.

    11.             Questo panno ha quattro angoli, perché sono quattro le virtù che accompagnano le tre già menzionate, e que­ste sono: la prudenza, la giustizia, la temperanza e la for­tezza.

              La prudenza ci insegna ad agire prudentemente e sag­giamente in tutte le cose che dobbiamo fare e pensare, consigliandoci con i più vecchi, perché sanno più di noi.

              La giustizia vuol dire essere giusti e dare a ciascuno quello che è suo: tutto quello che è di Dio, darlo a Dio, quello che è del mondo, darlo al mondo.

              La temperanza ci insegna a prendere con moderazione e con sobrietà il mangiare, il bere, il vestire e tutte le al­tre cose che sono necessarie per la cura dei corpi umani.

              La fortezza ci dice di essere forti e costanti nel servi­zio a Dio, affrontando con volto sorridente gli affanni, le fatiche e le infermità, così come la prosperità e la gioia, e per gli uni e per le altre, rendendo grazie a Gesù Cristo.

    12.             Sull’altro lato di questo panno vi è una croce a forma di «X», che deve portare chiunque desideri salvarsi, cia­scuno come a Dio piace e gli dà la grazia.

              Sebbene tutti miriamo ad un medesimo traguardo, ognuno però va per la strada in cui Dio lo incammina: alcuni sono frati, altri chierici, altri eremiti e altri sono sposati, cosicché in qualsiasi stato, ognuno può salvarsi se vuole.

              Tutto ciò, buona duchessa, voi lo sapete molto meglio di me e per questo mi fa piacere parlare con chi mi capi­sce.

    13.             A Dio dobbiamo tre cose: amore, servizio e riverenza.

              Amore: che come Padre celeste lo amiamo sopra tutte le cose del mondo; servizio: che lo serviamo come Signo­re non per interesse della gloria che darà a quelli che lo avranno servito, ma unicamente per la sua bontà; rive­renza: come a Creatore, non pronunciando il suo santo Nome, se non per rendergli grazie e benedirlo.

    14.             In tre cose dovete occupare il tempo ogni giorno, buo­na duchessa: nell’orazione, nel lavoro e nella cura del corpo.

              Nell’orazione: ringraziando Gesù Cristo la mattina ap­pena alzata per i benefici e i favori che sempre vi fa nel­l’avervi creata a sua immagine e somiglianza, per la gra­zia che ci diede di essere cristiani; chiedendo misericor­dia a Gesù Cristo, affinché Egli ci perdoni e pregando Dio per tutto il mondo.

              Nel lavoro: perché dobbiamo lavorare fisicamente, oc­cupandoci in qualche esercizio che sia virtuoso, onde pos­siamo meritare quello che mangiamo, perché Gesù Cri­sto lavorò fino alla morte e perché non vi è cosa che ge­neri più peccati dell’ozio.

              Nella cura del corpo: perché come un mulattiere cura e mantiene l’animale per servirsene, così conviene dare al nostro corpo ciò che gli è necessario, affinché abbiamo le forze per servire Gesù Cristo.

    15.             Sorella mia amatissima e stimatissima, vi prego per amore di Gesù Cristo, che abbiate in mente tre cose, e sono queste: la prima l’ora della morte alla quale nessuno può sfuggire, le pene dell’inferno e la gloria e la beatitu­dine del Paradiso.

              Quanto alla prima: pensare come la morte consuma e distrugge tutto ciò che questo miserabile mondo ci dà e non ci consente di portare con noi se non un pezzo di tela stracciata e malcucita; quanto alla seconda: pensare come e per così brevi piaceri e passatempi che trascorro­no in un momento, dobbiamo andare a scontarli, se mo­riamo in peccato mortale, nel fuoco dell’inferno che du­ra sempre; quanto alla terza: considerare la gloria e la bea­titudine che Gesù Cristo ha riservato a quelli che Lo ser­vono, che nessun occhio vide, né orecchio udì, né cuore ha mai potuto immaginare.

    16.             Pertanto, sorella mia in Gesù Cristo, sforziamoci tut­ti, per amore di Gesù Cristo, e non lasciamoci vincere dai nostri nemici: il mondo, il diavolo e la carne; soprat­tutto, sorella mia, abbiate sempre carità, poiché questa è la madre di tutte le virtù.

    17.             Sorella mia in Gesù Cristo, questo dolore mi affligge molto e non mi lascia scrivere, perciò voglio riposarmi un poco, perché vi voglio scrivere a lungo, e non so se ci vedremo più.

                  Gesù Cristo sia con voi e con tutta la vostra compa­gnia, ecc.…[6] 

     Statua San Giovanni di Dio

    “Dio sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù.”

    NOTE

    [1] L’originale di questa lettera si trova nell’archivio dell’Ordine, presso la Curia Generalizia, all’Isola Tiberina.(Roma).

    [2] L’originale di questa lettera si trova nell’Archivio dell’Ordine presso la Curia Generalizia, all’Isola Tiberina (Roma).

    [3] L’originale di questa lettera si trova nell’Archivio dell’Ordine presso la Curia Generalizia, all’Isola Tiberina (Roma).

    [4] Non abbiamo l’originale di questa lettera; la copia, che servì per la beati­ficazione del santo, è invece conservata all’Isola Tiberina (Roma) nell’Archivio dell’Ordine, presso la Curia Generalizia.

    [5] L’originale di questa lettera si conserva a Granada, nel «camarìn» della Basilica di San Giovanni di Dio.

    [6] Non abbiamo l’originale di questa lettera, ma la copia che se ne fece per l’esame degli scritti di San Giovanni di Dio al tempo del processo per la beati­ficazione, è a Roma nell’Archivio dell’Ordine, presso la Curia Generalizia, al­l’Isola Tiberina. 

     

    HELDER CâMARA IL “FRANCESCO D’ASSISI DEL XX SECOLO”

    camara 6

    Helder Câmara

    IL “FRANCESCO D’ASSISI DEL XX SECOLO”

     

    Oliva Gianfrancodi Gianfranco Oliva

     

    Il testo dell’articolo ripropone la definizione data dall’Osservatore Romano a Dom Helder Câmara, in quel 27 Agosto 1999 quando il religioso morì all’età di novanta anni.

     

    E’ necessario riportarsi al lontano 1964, quando Paolo VI nomina Helder Câmara arcivescovo di Recife, grosso centro nel “nordeste” del Brasile, forse la più povera regione di quel paese.

     

    CASTELO RANCO brasile15Nello stesso anno, sempre in Brasile, il generale Castelo Branco, deposto il presidente Joao Goulart, instaura una dittatura militare.

    Fino a quell’anno, la biografia di Helder Câmara (redatta dal Centro Internazionale Helder Câmara) elenca tutta una serie di incarichi da lui ottenuti dalle autorità ecclesiastiche e civili che rappresentano un vero guinnes:

    • 1931 – Fonda la “G.O.C.” (Gioventù Operaia Cattolica) ed il “Movimento di Sindacalizzazione Operaia Cattolica Femminile”, che determina la prima reazione da parte degli ambienti più conservatori.

    • 1935 – Ministro della Pubblica Istruzione dello Stato del Cearà.

    • 1936 – Da parte del Dipartimento Nazionale dell’Educazione, a Rio de Janeiro è incaricato dell’Istituto di ricerche in Campo Educativo.

    • 1947 – Segretario Nazionale dell’Azione Cattolica.

    • 1952 – Consacrato vescovo ausiliare di Rio de Janeiro è nominato, all’unanimità Segretario Generale della Conferenza Episcopale Brasiliana (CNBB). Viene elevato al titolo di arcivescovo.

    • 1955 – Da inizio, a Rio de Janeiro, alla “Crociata di San Sebastiano”, per dare casa e dignità umana alle folle di baraccati della capitale.

    • 1958 – Il Presidente brasiliano, Jucelino Kubitschek, il costruttore di Brasilia, gli offre il Ministero Nazionale dell’Educazione e, in caso di rifiuto, la carica di sindaco della capitale, Rio de Janeiro. Dom Helder rifiuta entrambe.

    • 1962 – Padre Conciliare, partecipa alle quattro sessioni del Concilio Ecumenico Vaticano II.

       

    Sempre dalla suddetta biografia, a seguito della sua ferma opposizione al regime, dal 1964 “per l’arcivescovo di Recife iniziano gli anni di sofferenze e persecuzioni. E’ fatto oggetto di minacce di morte, di insulti, accuse e denigrazioni. Molti suoi collaboratori, sacerdoti e laici, accusati di attività sovversive vengono arrestati, torturati, deportati ed uccisi”.

     

    Gutierrez GustavoTutto ciò va inquadrato nella particolare realtà storica dell’America Latina di quel tempo, caratterizzata dall’avvento di regimi militari dall’Argentina ai paesi del centro America.

    Ed è proprio allora che un sacerdote peruviano, padre Gustavo Gutiérrez, pianta il seme di una nuova idea evangelica che prende il nome di Teologia della liberazione, di cui Helder Câmara ne ha rappresentato il simbolo.

     

    Dopo che negli anni ’60 si era trasferito in Brasile al fine di conoscere le realtà delle comunità di base, Gustavo Gutierrez pubblica il testo “La Teologia della Liberazione” dedicandolo al sacerdote brasiliano Niki, Antonio Pereira Neto, che svolgeva la sua attività fra i giovani e che finì assassinato dai militari.

     

    Nell’ambito della Chiesa sudamericana che fino ad allora aveva in buona o mala fede giustificato o addirittura appoggiato le lobby al potere, iniziano a svilupparsi concetti nuovi, tacciati come marxisti dalle forze più conservatrici e reazionarie:

    • “Sviluppo è il nuovo nome della pace”

    • “Non c’è pace senza giustizia”

    • “La prima violenza è la miseria in cui versano tante masse”

    • “Senza giustizia e amore, la pace sarà sempre la grande illusione”

    • “Non si può insegnare la parola di Gesù senza insegnare quali sono i diritti delle persone, quale coscienza si deve avere per essere cittadini, per avere diritti dei propri diritti”

       

    Frei BettoFrei Betto, domenicano, esponente di punta della Teologia della liberazione, incarcerato e torturato durante la dittatura militare, salvato per gli interventi tempestivi di Paolo VI e dell’allora arcivescovo di San Paolo Arns, racconta come molti credenti in quella realtà sociale trovarono naturale un impegno cristiano più militante : “La Teologia della liberazione fu il frutto di questa convivenza che vincolava, nelle comunità ecclesiali di base , la fede e la lotta per la giustizia. E queste comunità di base erano essenzialmente formate dagente povera”.

     

    Erano le realtà delle favelas cresciute a dismisura, dei meninos de rua, bambini provenienti da quei sobborghi, da quelle socialità disgregate e letteralmente gettati per le strada avendo come unica fonte di sostentamento, quando andava bene, il lavoro minorile, ovvero il furto, la prostituzione, il traffico di droga; a centinaia, in quel periodo, furono decimati con l’ipocrita giustificazione dell’ordine pubblico dagli squadroni della morte, una sorta di giustizieri molte volte finanziati dagli stessi negozianti vittime dei furti dei meninos; molteplici furono in Italia gli articoli e i servizi sugli squadroni; a riguardo di quest’ultimi, un dato allucinante estratto da un libro citato da Frei Betto “Rota 66, la storia della polizia che ammazza” del giornalista Caco Barcellos: “….dal 1° Gennaio al 30 Giugno del ’93, a Rio De Janeiro, polizia, vigilantes e guardie armate, quasi sempre impunite, avevano già ammazzato 321 minori….. e a San Paolo, la città più avanzata del Brasile, l’anno prima la polizia militare, che continuava a godere di impunità anche dopo l’avvento della democrazia, aveva ucciso 1370 persone, mentre quella civile solo 5”.

     

    Questo era l’habitat dell’azione militante di cui sopra e Dom Elder per la “controparte” diventa “il vescovo rosso” (applicando la consolidata abitudine di tinteggiare color porpora l’oppositore). A El Salvador rappresentante prestigioso del movimento è l’arcivescovo della Capitale, Oscar Romero, oppositore della giunta militare e dei latifondisti di quel paese.

     

    Oscar RomeroA seguito degli ormai quotidiani omicidi di contadini poveri e oppositori del regime politico, dei massacri compiuti da organizzazioni paramilitari di destra che culminano con l’assassinio del gesuita Rutilio Grande, Oscar Romero accusa pesantemente e con fermezza il regime e “una certa chiesa si impaurisce allontanandosi da Romero dipingendolo come un incitatore della lotta di classe e del socialismo”.

    Il 24 Marzo 1980, a San Salvador viene ucciso mentre celebrava messa.

     In Nicaragua, punto di riferimento per il cattolicesimo progressista latino americano e per i sostenitori della Teologia della liberazione è il sacerdote-poeta Ernesto Cardenal, fondatore della comunità religiosa di Solentiname in un’isola del Lago di Nicaragua.

     

    Cardenal Ernesto 02

     Partecipò alla ribellione contro il dittatore Somoza ed a seguito della caduta di quest’ultimo, fu nominato Ministro della Cultura del nuovo governo. 

     Tema costante dei suoi scritti il dramma storico degli indios Americani. Resta famoso l’ammonimento da lui subito da parte di Giovanni Paolo II all’aeroporto di Granada al momento dell’arrivo del Pontefice in Nicaragua. Gli atteggiamenti della Chiesa nei confronti dei componenti del movimento diventano sempre più critici, puntualizzando sulla deriva marxista e rivoluzionaria delle loro idee, ponendo in secondo piano lo straordinario impegno di questi religiosi nelle realtà sopra citate di povertà e di sfruttamento da parte dei pochi detentori del potere economico e politico rispetto alle moltitudine delle masse. 

    Boff Leonardo 3Nel 1984, padre Leonardo Boff, francescano, teologo di fama mondiale ed esponente di punta della Teologia della Liberazione per i suoi molteplici scritti a riguardo e non, a seguito della pubblicazione del suo libro “Chiesa carisma e potere”, è chiamato a Roma dall’allora Cardinale Ratzinger, e processato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede presieduta da quest’ultimo. Fu condannato in primis al silenzio ossequioso, ovvero al divieto di insegnare pubblicamente dottrine contrarie a quelle della Chiesa.

    Abbandonò il suo ordine, quello dei Francescani, nel 1992 dopo il sentore di probabili provvedimenti disciplinari da parte di Giovanni Paolo II.

     

    Coincide con questo evento l’inizio della dispersione, probabilmente irreversibile, della carica iniziale del movimento che sognava vivamente una “reformatio ac renovatio Ecclesiae” . Dom Helder Câmara continuò il percorso iniziato tanti anni prima, sempre dalla parte dei poveri, anzi, dei miserabili, con la sua croce pettorale di legno, stridente al cospetto di quelle tempestate di gemme.

     camara3

    Partecipò ad innumerevoli conferenze e convegni nel mondo. In un suo messaggio, è racchiusa la sintesi della sua grandezza: “Continuando le attivita’ che la nostra arcidiocesi compie, avremo cura dei poveri, rivolgendoci specialmente alla povertà vergognosa, per evitare che la povertà degeneri in miseria. E’ evidente che in modo speciale, sono presenti nel mio pensiero i mocambos (i quartieri poveri di Recife) e i bambini abbandonati. Però non vengo per ingannare nessuno, quasi che bastino un poco di generosità e di assistenza sociale.

     

    Non c’è dubbio: ci sono miserie spettacolari davanti alle quali non abbiamo diritto di rimanere indifferenti. Molte volte l’unica cosa da fare è prestare un aiuto immediato. Però non pensiamo che il problema si limiti ad alcune piccole riforme”.

     

    Sono trascorsi dieci anni dalla scomparsa di Dom Helder e nessuna iniziativa è stata intrapresa per ricordarlo, tanto da parte della stampa quanto da parte della televisione e, tanto meno, da parte della Chiesa che ha relegato nell’oblio le idee della Teologia della Liberazione.

     

    Non si ha la pretesa di esaurire con queste poche note le problematiche innescate da questo movimento intimamente legate a un così immenso continente come l’America Latina; quanto sopra vuole essere uno stimolo alla ricerca e all’approfondimento a mezzo degli innumerevoli siti a riguardo, ovvero delle innumerevoli opere pubblicate da parte di questi straordinari personaggi, senza però fermarsi alla sola America Latina, a maggior ragione oggi che le cronache riportano che più di un miliardo di persone nel mondo soffrono la fame e migliaia e migliaia trasmigrano per difendersi da essa. 

    camara 7 - egoismi

     

     

     

     

     

    “Al di là, molto al di là degli egoismi

    individuali, degli egoismi di classe,

    degli egoismi nazionali,

    è necessario abbracciare,

    sorridere, lavorare”

    Helder Camara

     

     

     

     

    E’ dell’ultima ora la notizia che il Senato brasiliano ha votato una legge di concordato con la Chiesa Cattolica. La Religione Cattolica, se detta legge sarà confermata dalla Camera, diventerebbe l’unica confessione di stato ed alla Chiesa di Roma sarebbe conferita, come in Italia, identità legale e sarebbero concessi vantaggi fiscali.

     

    Alcuni siti tematici

     

    http://www.heldercamara.it/camara/biograf.php3 

    http://it.peacereporter.net/articolo/3567/Dio+non+ha+religioni 

    http://www.fraternet.com/magazine/etr1805.htm 

    http://www.brianzapopolare.it/sezioni/societa/20050414_teologia_liberazione.htm 

    http://www.ratzinger.us/modules.php?name=News&file=article&sid=50

     

    Da www.faronotizie.it

    LA PAROLA AI SORRISI DI UN’AFRICA CHE SOFFRE – Paola Cerana

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    SORRISI DI UN’AFRICA CHE SOFFRE

    di Paola Cerana

    Routine

    L’abitudine è nemica del lavoro ben fatto. Occupati di ogni malato come fosse lui il primo, o il tuo miglior amico.”

    Cerena PaolaQuesto sta scritto sulla porta d’ingresso del reparto di  pediatria di un ospedale costruito in mezzo al nulla, a Tanguieta, nel Benin. E’ l’Hopitail Saint Jean de Dieu, inaugurato nel 1970 da Fra Tommaso Zamborlin.

    E’ la storia di una struttura che, come molte altre, per fortuna, porta aiuto e sollievo in un Paese che somiglia molto più all’inferno che non alla Terra, come noi la conosciamo. E’ la storia di uomini e donne che offrono il proprio coraggio, la propria solidarietà e professionalità a chi può dare in cambio “solo” un sorriso. 

    Il Benin, ex Repubblica del Dahomey durante il dominio francese, è uno degli stati più poveri dell’Africa. E’ affacciato sul golfo di Guinea, lac osiddetta costa degli schiavi e Tanguieta è, a sua volta, la zona più misera e più bisognosa di assistenza. La speranza di vita dalla nascita qui è di cinquantacinque anni e la mortalità infantile nel primo anno di vita è pari a 89 ogni 1000 nascite.

    Questa terra è un caleidoscopio di culture, tradizioni e contraddizioni a noi difficili da comprendere. Oltretutto tensioni etniche e disuguaglianze sociali tra le varie tribù non facilitano i rapporti, interni ed esterni. Qui si parlano decine di dialetti: dendi, fon, bariba, ewe, mossi, wama … E ad una maggioranza di popolazione animista, pari al 70%, si contrappone una minoranza di credenti feticisti, cristiani e musulmani.

    Ma le cifre, alla fine, dicono poco. Non parlano al cuore e vengono in fretta dimenticate. Per questo vorrei lasciare la parola alle immagini, a fotografie che mi sono state regalate da un giovane studente di medicina, futuro pediatra, che ha lavorato nell’ospedale, la scorsa estate, come volontario.

    Mi ha raccontato della sua esperienza come se avesse vissuto l’avventura più naturale e gratificante della sua vita, senza mai lamentarsene.

    Riascolto in silenzio le sue parole cariche di passione e di dignità, anziché di compatimento e desolazione. Immagino nella mia mente le scene tremende, che mi ha dipinto. Scene di violenza, povertà e sofferenza, che mi hanno scaraventato addosso un inevitabile senso di impotenza, di inadeguatezza e soprattutto di vergogna per la mia comoda abitudine all’indifferenza.

    Tanguieta - piccoli degenti

    Ma il suo racconto pieno di entusiasmo è talmente trascinante che la mia coscienza si scrolla di dosso l’amarezza e io mi catapulto laggiù, insieme a loro, ai bambini di Tanguieta. Sento i loro canti, le loro risa. Resto abbagliata da un arcobaleno di colori. Assorbo il calore impietoso del sole, lo respiro, assieme agli odori delle spezie che si mescolano nella mia testa e si trasformano in sapore. Manioca e zenzero, noce moscata e peperoncino, cannella e curcuma mi parlano delle loro abitudini.

    Tanguieta - piccoli degenti 02

    Riguardo queste fotografie e finalmente capisco che le immagini più fulminanti non sono affatto quelle di corpi e visi straziati su un lettino o in mezzo alla polvere della savana! Quello che mi disorienta sono, al contrario, le espressioni di gioia dei bambini, la loro quieta serenità, la silente gratitudine del loro sguardo.  Li trovo improvvisamente bellissimi! “Dai un piedistallo al bambino, quando crescerà sarà il bambino a dare a te un piedistallo ”, suona un proverbio del Burundi. Quanta saggezza nella semplicità dei proverbi africani!

    Tanguieta - piccoli degenti 03

    Mi commuove la limpidezza con cui mi osservano, la forza della loro nudità contro la sfrontatezza della nostra inutile apparenza, la profondità dei loro occhi davanti alla superficialità del nostro voltar le spalle per non vedere. I bambini sono la luna che splende”, dice un altro proverbio africano, un’altra piccola, semplice verità.Qualsiasi parola in più stonerebbe, quindi ricorro un attimo ancora alle cifre e concludo. 

    Oggi l’Hopitail di Tanguieta conta oltre 230 posti letto, anche se i malati sono spesso molto più numerosi. Ad occuparsi di loro uno staff di 12 medici e chirurghi, 125 dipendenti tra personale paramedico e circa 50 dipendenti addetti ai servizi amministrativi. 

    Tanguieta - piccoli degenti 05 

    Il reparto di pediatria è nato nel 1984, grazie alla volontà e ai contributi di un benefattore, a seguito della perdita improvvisa di un figlio. Come spesso accade, purtroppo, è la tragedia vissuta in prima persona a muovere verso le sofferenze altrui, anziché fuggirle. 

    Oggi il lavoro dei volontari è fondamentale, perché queste persone, questi bambini soprattutto, non hanno bisogno solo di cure, medicine, assistenza e nutrimento ma di tanta umanità, per poter continuare a sorridere. 

    Tanguieta - piccoli degenti 04 

    Come dice un altro proverbio africanonon è la mano che dona ma il cuore”. Affinché l’Africa non sia più solo un grosso problema da sanare ma una preziosa risorsa da riscattare, occorre puntare proprio sui suoi figli, sui bambini, scommettere sul loro futuro. E a chi questa sembra una sfida assurda, persa in partenza, regalo le parole di questo giovane dottore, ricordando che basta poco a volte per regalare un sorriso e che a poco a poco il “poco” diventa sempre di più! 

    Ascoltate le sue riflessioni e lasciatevi emozionare insieme a me: “Da tempo riflettevo sul fatto che un viaggio in Africa avrebbe potuto essere un’esperienza importante per il mio avvenire, di uomo e di (futuro) medico.

     

    Tanguieta - piccoli degenti 07 medico volontaqrio

    (…)  Sono partito da solo e questo all’inizio mi preoccupava non poco … in realtà ho poi apprezzato la relativa solitudine di quei giorni che ho sfruttato come ”ritiro”, come un’oasi in cui poter riflettere: ho potuto occuparmi solo dell’essenziale, ed è stato meraviglioso.

    Durante le visite ai piccoli pazienti, molte sensazioni contrastanti si susseguivano: dalla gioia davvero enorme nel vedere che un bambino visto steso a letto il giorno prima oggi riusciva a mangiare, alla tristezza e al senso di impotenza che provavo nel vedere una mamma accanto al corpo senza vita del proprio piccolo bambino nel corridoio, perché altro posto non c’era se non quello.

    Tanguieta - piccoli degenti 06 

    Allora dalla sensazione di essere stato utile per una persona, si passa a comprendere quanto si sia inadeguati … e questo avviene in pochi secondi: basta spostarsi da un letto a un altro, da un bambino a quello al suo fianco, dalla vita alla morte, passando per una sofferenza che a volte è davvero enorme.

     Solo tornato a casa ho potuto riflettere con calma su quello che ho trascorso, e riabituarmi al “nostro” mondo è stato meno facile di quanto credessi perché ho toccato con mano che ci sono persone, bambini, cui manca tutto. Eppure, non appena la malattia lascia spazio a un’iniziale (e a volte solo illusoria) guarigione, questi bambini sorridono: un loro sorriso ripaga anche della peggiore delle giornate. E fa riflettere sulla vita, sul valore di ciò che diamo per scontato e sul superfluo di cui spesso ci circondiamo e che spesso scambiamo per indispensabile. 

    Credevo di andare ad aiutare, a “dare”: in parte è stato così, ma quel che ho ricevuto trascorrendo là un po’ del mio tempo ha un valore inestimabile. Tengo la foto di un bimbetto che ride, nel portafoglio: e quando la guardo, sorrido sempre anche io.”

     Alzati e cammina

     

    Da www.faronotizie.it

     

    IL CHIRURGO FRA FIORENZO PRIULI O.H.

    Fra Fiorenzo Priuli o.h. in sala operatoria

    Il frate chirurgo che nel Benin è venerato come un dio

     

    Marcello Foa portrait_foadi Marcello Foa

     

    Migliaia di persone accorrono nel Benin da tutta l’Africa occidentale per farsi curare da fratel Fiorenzo, chiamato “l’uomo dalle mani d’oro”

     

    Dal nostro inviato a Tanguieta (Benin)

    Fra Fiorenzo - BENIN FOTO ZUCCOLI 02

    Fra Fiorenzo in visita dei degenti

    C’è un italiano di cui il nostro Paese dovrebbe essere orgoglioso e che invece non conosce. Si chiama Fiorenzo, fratel Fiorenzo, e vive a Tanguieta, nel nord del Benin, a 650 chilometri dalla costa.

     

    Africa profonda, Africa poverissima: un posto dove un occidentale mai si sognerebbe di andare a vivere. Le costruzioni in cemento sono pochissime e i 70mila abitanti di questa regione vivono in capanne o in casette costruite con mattoni di fango indurito.

     

    Nei mesi estivi la temperatura supera i 45 gradi e il caldo è così secco da spaccare le labbra. Eppure proprio qui Fiorenzo ha trovato il suo equilibrio, rinunciando a tutto, convinto che la felicità sia dare, sia aiutare, senza condizioni, senza pensare se il sofferente che ha davanti è un cristiano, un musulmano o un animista.

    Fra Fiorenzo - BENIN FOTO ZUCCOLI 01 

    Di cognome fa Priuli e non è un prete, sebbene 40 anni fa abbia pronunciato i voti di povertà, castità, obbedienza e ospitalità diventando un seguace di S. Giovanni di Dio, il fondatore dell’ordine Fatebenefratelli. Ma è un gigante del Bene e dell’Altruismo, degno di Madre Teresa di Calcutta.

     

    La Francia lo apprezza da tempo e nel 2002 Chirac gli ha attribuito la Legione d’Onore; nel Benin è venerato come una divinità, da Cotonou, la città principale, al più remoto villaggio agricolo. E oltre confine: vengono a farsi curare da lui pazienti dal Burkina Faso, dal Niger, dal Togo. Lo chiamano l’«uomo dalle mani d’oro».

    Bresciano della Val Camonica, è un chirurgo, ma col tempo è diventato anche un epatologo, un internista, un manager. Per l’ospedale di Tanguieta farebbe (e fa) di tutto. Perché questa è la sua creatura, il suo miracolo. Trentotto anni fa, quando fu inaugurato dai Fatebenefratelli, era composto da poche stanze; oggi è una struttura con 220 posti letto, un reparto di chirurgia, uno di medicina interna, un pronto soccorso, la pediatria, la maternità, un centro nutrizionale.

     

    Come faccia a funzionare è un autentico mistero della Provvidenza, dice Fiorenzo, che può contare su altri due chirurghi e su 7-8 preti, medici, più qualche suora e la mitica Rosanna, un’italiana laica che da vent’anni vive nel Benin ed è la grande organizzatrice.

     

    In qualunque altro Paese del mondo l’ospedale sarebbe chiuso da tempo; qui no. Anzi: continua a svilupparsi; grazie anche ai molti volontari che vengono a trascorrere qualche settimana all’anno. E che volontari: una squadra di oftalmologi spagnoli, un famoso primario francese, un grande urologo svizzero, diversi specialisti italiani e persino simpatizzanti che, pur non essendo medici, vengono a dare una mano a dipingere, riparare, tirar su muri. Farebbero di tutto pur di vivere l’atmosfera di Tanguieta.Perché Fiorenzo è un trascinatore che, con il suo dinamismo, diffonde armonia. Trascorre in sala operatoria almeno 12 ore al giorno, compiendo 20-25 operazioni. E non è mai stanco: ha sempre la luce negli occhi.

     

    Quando visita i reparti viene salutato come un Messia: i ragazzi con le gambe deformate dalla poliomielite, e che un giorno riusciranno a camminare grazie ai suoi interventi, si sbracciano felici non appena lo vedono; le madri sdraiate sulle stuoie con i neonati lo ringraziano con un sorriso da qui a lì. Lui scherza con tutti, sempre positivo.

     

    Fra Fiorenzo - un paziente AIDS 03

    La sua generosità è innata. E contagiosa.

     

    In teoria i pazienti dovrebbero pagare per le cure ricevute, una manciata di euro al giorno, ma la maggior parte è così povera da non poter offrire altro che una gallina o un cesto di frutta.

     

    Fiorenzo accoglie tutti e riesce a far quadrare i conti grazie alle donazioni che riceve da più parti, in Italia tramite le Onlus U.T.A. (Uniti per Tanguieta e Afagnan) e l’Associazione Amici di Tanguieta di Meda fondata da Carlo Giorgetti.

     

    Fra Fiorenzo Priuli o.h. il medico chirurgo per lAfrica

     Oggi Fiorenzo ha 62 anni, ha avuto la tubercolosi, l’epatite che dall’81 cura con una pianta miracolosa, il Combretum Micranthum, un ginocchio fuori uso, una placca nel femore, ma continua ad avere l’energia di un ragazzo.

     

    Non ho ancora capito quante ore dorma per notte. Quando sei con lui il telefono squilla in continuazione: in linea, dall’Italia, il suo grande amico e collaboratore fra Luca Beato, una coppia di malati di Aids che lo chiama solo per salutarlo, una paziente del Burkina Faso a cui deve fissare l’operazione. Il pranzo lo salta quasi sempre e spesso, non appena si siede nel refettorio a cena, viene richiamato in sala operatoria per un’emergenza. Lui si alza e va, senza mai lamentarsi.

     

    Riesci a parlargli per pochi minuti e ogni volta si schiude un mondo: racconta di come molti compagni di noviziato che nel ’68 abbandonarono la toga oggi lo invidiano e si rammaricano di non aver tenuto duro; narra la straordinaria amicizia epistolare con il Califfo musulmano del Niger; confessa la sua lotta per non cedere alle debolezze, a cominciare dalla più insidiosa, quella affettiva; ti spiega la sua concezione del cristianesimo, semplice e radiosa.

    Fra Fiorenzo al Capitolo Generale 

    Alle 23 si attacca al computer e segue i pazienti italiani a cui dà, gratis, la pianta che tiene a bada l’epatite C; risponde all’Organizzazione mondiale della Sanità di cui è uno degli esperti per le malattie tropicali; controlla i conti dell’ospedale.

    Fra Fiorenzo 11 internet 

     In piena notte studia nuove cure e interventi per malattie a noi sconosciute, come le fistole vescico-vaginali. Alle 6 del mattino è già in piedi. 

    Nel 1968 a Tanguieta il 50% dei bambini non arrivava ai 12 anni e gli adulti non superavano i quarant’anni. Oggi il tasso di mortalità è crollato e la vita media si è allungata di molto. Nonostante le epidemie e l’Aids e la malnutrizione. «Se dovessi rinascere non riuscirei a chiedere al Signore il 50% delle gioie che ho ricevuto finora», perché donare è la sua missione. «Ogni volta che riesco a salvare una vita sento una luce nel cuore». È Dio che gli parla; è Dio che, attraverso lui, ci parla.

    Da IL GIORNALE – n. 51 del 22 Dicembre 2008, pagina 15

    Marcello Foa

     

    Mi ero dimenticato di dare spazio a questo post di Marcello, molto bello e interessante.

    Ritengo possa essere interessante anche per chi non è credente, quando si parla di qualcuno che si impegna per glia altri penso che tutti si sia d’accordo

    Il Blog di Marcello Foa » Blog Archive » L’esempio di Fiorenzo e un grazie a tutti voi.

     

     

    http://blog.ilgiornale.it/foa/

     

    UTA Onlus
    10 min – 20 apr 2009
    www.youtube.com

     

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     · post scritto da Paola ·

    Marcello Foà - Il Giornale

    Marcello è un inviato che si occupa di politica internazionale per un quotidiano nazionale, viaggia in tutto il mondo, intervista gli uomini più interessanti del pianeta, ha un blog seguitissimo, una bella moglie e tre bambini. E’ quello che si può definire un uomo di successo, ma ciò nonostante sa mettersi in gioco, senza alcun tornaconto personale, per seguire un sogno. E così la settimana scorsa ha invitato i suoi amici a incontrare Fiorenzo Priuli.

    Se lo cercate con Google trovate quasi 4mila risultati, nonostante viva da quasi quarant’anni a Tanguieta, un villaggio a nord del Benin che dista 600 chilometri dalla capitale Cotonou, in una delle zone più povere dell’area sud-sahariana dove l’estrema povertà è aggravata dalla presenza di epidemie e morbi endemici, un luogo in cui la speranza di vita media è di soli 56 anni

    Ma nonostante ciò Fiorenzo, che è un chirurgo originario della Val Camonica e un missionario dell’Ordine ospedaliero di Fatebenefratelli  non si è perso d’animo e, grazie anche all’aiuto di molti medici volontari e del sostegno economico di numerosi benefattori, in quarant’anni ha creato un ospedale con oltre 200 posti letto, un reparto di chirurgia, uno di medicina interna, un pronto soccorso, la pediatria, la maternità e un centro nutrizionale.

     

    L’altra sera ci ha raccontato di una realtà che si fatica a immaginare, nonostante la globalizzazione dell’informazione, nonostante la televisione; perché tutti noi sappiamo delle condizioni di estrema povertà dell’Africa, ma non riusciamo a immaginarci i dettagli, la quotidianità, le conseguenze pratiche di tutto ciò.

    E così fra Fiorenzo ci ha parlato di spose-bambine che sopportano travagli di giorni e giorni senza assistenza medica, travagli che si concludono con la morte del piccolo e con delle lacerazioni che rendono le ragazze incontinenti sia dal punto di vista urinario che fecale.

    In un Paese dove la temperatura media supera i 40° e dove le condizioni igieniche lasciano molto a desiderare ciò significa essere ripudiate dal marito, isolate dalla comunità e colpevolizzate per la propria condizione. L’odore di urina che proviene dalla fistola è così forte che le ragazze sono piene di vergogna. Sono scansate, abbandonate, rimangono sole con le mosche e ciò, in questa parte di Africa, significa essere condannate a morte.

    Ci ha raccontato di come molti africani – affascinati dal consumismo occidentale – rinuncino alle loro tradizioni culturali e magari vendano il campo che gli dà da vivere per acquistare un’auto che in realtà non è che un ammasso di latta.

    Ciò nonostante, mentre lo ascoltavo parlare, mi sono sorpresa a pensare che era un uomo fortunato perché – nonostante quello che diceva – si percepiva chiaramente la sua serenità, la determinazione e l’entusiasmo che forse nasce anche dal fatto di essere riuscito a dare un senso profondo alla propria vita.

    Voglio raccontarvi un’ultima piccola cosa, che mi pare sia una bella metafora di come a volte abbia più senso cercare le soluzioni dei problemi dentro di sé, della propria tradizione e cultura, senza rinnegare quello che si è, magari nell’illusione di trovare scorciatoie

    Negli ultimi anni, l’Aids è piombato come una maledizione anche in queste zone e per questo fra Fiorenzo, con la collaborazione di medici infettivologi italiani e francesi, ha iniziato una sperimentazione, facendo tesoro delle conoscenze dei guaritori tradizionali che hanno grande esperienza dell’uso curativo delle erbe. Grazie alla fitoterapia, oggi riesce ad usare almeno una ventina di piante in alternativa a medicine costosissime. Tutte sono state testate in Italia, ed hanno un certificato di non tossicità.

    «In particolare – ha spiegato fra Fiorenzo – usiamo l’estratto di una pianta che qui chiamano kinkeliba, il Combretum Micranthum, che cresce in maniera spontanea e abbondante, e ha dato ottimi risultati. Sino al ‘91 si usava solo per l’epatite. Da qualche anno ho iniziato ad usarla anche per l’Aids. C’è un paziente in cura dal ‘91 e sta bene, nonostante abbia avuto per due volte il cancro».

     

    Fra Fiorenzo - aids18

    16/02/2007   
    Benin /

    La scommessa di fra’ Fiorenzo Priuli

    Kinkeliba contro l’Aids

     

    di Anna Pozzi 

    In un ospedale nella savana un missionario dei Fatebenefratelli sperimenta una cura rivoluzionaria. Sfruttando le proprietà di un’erba nota alla medicina tradizionale. 

    Una speranza per tanti malati di Aids, piaga che attanaglia l’Africa subsahariana più di qualsiasi altro posto al mondo, verrà forse dalla pazienza e dalla tenacia di un missionario che da giovane pensava di diventare meccanico o carrozziere.
    «I miei erano poveri e nessuno pensava che avrei studiato. L’Africa e la possibilità di diventare frate – butta lì scherzando – erano lontani mille miglia».

    Oggi fra’ Fiorenzo Priuli dirige un ospedale di quasi 300 posti letto, il Saint Jean de Dieu, assediato dai malati che fanno decine, a volte centinaia di chilometri per venire a farsi curare. Un ospedale di frontiera, in tutti i sensi, perso nella savana nel nord del Benin, a Tanguieta, al confine con Togo, Burkina e Niger, dove non mancano mai i problemi e le sfide. Prima fra tutte, quella contro l’Aids. Una sfida che fra’ Fiorenzo si trova ad affrontare, in un contesto in cui né la cultura tradizionale, né le autorità statali, né le grandi associazioni internazionali permettono di affrontarla con gli strumenti adeguati.

    Fra Fiorenzo - Kinkèliba Combretum micranthum 

    Negli ultimi anni, l’Aids è piombato come una maledizione anche in queste zone apparentemente remote, sconvolgendo la vita di popolazioni molto povere e semplici, che si sono trovate di fronte a qualcosa di troppo grande per loro. E non solo dal punto di vista sanitario. L’Aids si è insinuato nella vita di queste comunità, sconvolgendone le basi, mettendo in discussione le modalità relazionali, le attitudini psicologiche, i costumi e le tradizioni…

     

    Per questo, con la collaborazione di medici infettivologi italiani e francesi, fra’ Fiorenzo ha iniziato una sperimentazione, facendo tesoro delle conoscenze dei guaritori tradizionali che hanno grande esperienza dell’uso curativo delle erbe. Grazie alla fitoterapia, oggi riesce ad usare almeno una ventina di piante in alternativa a medicine costosissime. Tutte sono state testate in Italia, ed hanno un certificato di non tossicità.

    «In particolare – spiega fra’ Fiorenzo – usiamo l’estratto di una pianta che qui chiamano kinkèliba, il Combretum Micranthum, che cresce in maniera spontanea e abbondante, e ha dato ottimi risultati. Sino al ’91 si usava solo per l’epatite. Da qualche anno ho iniziato ad usarla anche per l’Aids. C’è un paziente in cura dal ’91 e sta bene, nonostante abbia avuto per due volte il cancro».

     

    Lo scorso gennaio, l’ospedale ha ricevuto la visita di una delegazione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che ha raccomandato alla sede africana dell’organizzazione di fare del Saint Jean de Dieu un ospedale-scuola per Togo, Benin, Niger e Burkina. Ha promesso borse per l’équipe sanitaria e una collaborazione anche per la fitoterapia.

     

    «Sono rimasti molto impressionati dagli studi fatti sull’Aids – dice soddisfatto fra’ Fiorenzo -. Ora dovremmo mettere a punto un protocollo di studio per associare 3 o 4 ospedali e compiere una ricerca più ampia, in modo da avere riscontri più scientifici».

     

    Si comincia  subito: un anno di studi su cento casi trattati con kinkeliba e forse un partenariato con una ong francese (Solthis), che già collabora con il governo locale nell’ambito di un programma contro l’Aids. Intanto, in Italia, continua la collaborazione con il Gruppo solidarietà Africa di Seregno, diretto dall’infettivologo Paolo Viganò, e si stanno compiendo ulteriori studi sulla pianta.

     

    Sul posto, invece, la gente comincia a cambiare atteggiamento. Sono mutamenti lenti, talvolta impercettibili, come sempre succede quando si tratta di cambiare mentalità, comportamenti, tradizioni. Non è impresa facile. Molti non accettano di sentirsi condannati a morte. C’è chi si deprime o si uccide, ma anche chi cerca di vendicare la rabbia e la frustrazione sugli altri. Fra’ Fiorenzo ricorda di un alto ufficiale dell’esercito, che ha contagiato decine di donne e ragazzine prima di morire, diffondendo in maniera spaventosa il virus.

     

    «Cerchiamo di far capire alla gente che è importante vivere bene anche i pochi mesi che restano, diamo loro un decalogo di comportamento, li sproniamo ad essere responsabili, modificando anche gli atteggiamenti sessuali, e soprattutto offriamo il nostro sostegno a tutti i livelli, facendo capire che siamo lì, pronti ad aiutarli, e che possono contare su di noi».

    La cosa sta funzionando se è vero che il tam tam personale ha raggiunto distanze inimmaginabili, e la gente viene da lontanissimo in cerca di una speranza. Eppure, dal punto di vista medico anche fra’ Fiorenzo riesce a fare quello che può. Anche perché può contare solo sui propri mezzi e sulla collaborazione di amici e sostenitori.

     

    Il governo del Benin ha iniziato solo negli scorsi mesi a distribuire farmaci anti-retrovirali a 600 pazienti. Un’inezia in confronto al problema… Per un ospedale privato e missionario come il Saint Jean de Dieu la triterapia costa ancora troppo ed è estremamente tossica, soprattutto per persone debilitate e spesso malnutrite.

     

    «E poi c’è la gente, che è povera e poco istruita – dice fra’ Fiorenzo -. Molti non credono neppure all’esistenza dell’Aids. C’est la maladie des blancs!, dicono, è la malattia dei bianchi, senza parlare delle leggende che circolano sui possibili metodi di guarigione…

     

    Ma anche quelli che ne sono consapevoli, spesso ne sono sconvolti, traumatizzati, alcuni addirittura arrivano a suicidarsi. Le famiglie faticano ad accettare la malattia e a reagire. La vivono come una maledizione e una vergogna e tendono ad emarginare i malati, a lasciarli morire.

     

    Ma oggi, grazie a una grande opera di sensibilizzazione, c’è anche chi comincia a parlarne e si sono formati gruppi dove si discute di questo problema e si cerca di lottare insieme. Chi ha speranza è il nostro miglior testimone. Ci aiuta a far capire che l’Aids può essere combattuto e che si può ancora vivere una vita quasi normale».

     

    A sentirlo raccontare, sembrerebbe tutto semplice. Forse perché fra’ Fiorenzo non perde mai il sorriso e il senso dell’umorismo. Anche quando racconta delle infinite sollecitazioni, sanitarie ma anche umane, e delle difficoltà finanziarie che spariscono quando si trova davanti a un paziente. Fra’ Fiorenzo ha un’attenzione per tutti, un sorriso, una carezza. Poi indossa camice, guanti e mascherina e sparisce in sala operatoria. Otto, dieci, anche quindici operazioni in un giorno…

     

    Qui, al Saint Jean de Dieu, gli straordinari fanno parte dell’ordinario. Anche perché l’ospedale è uno dei rari punti di riferimento per la gente di una regione molto estesa. Da quando c’è, anche questo grosso villaggio che è Tanguieta è cresciuto molto. I malati arrivano da molto lontano per farsi curare, anche dai Paesi limitrofi. La fama del Saint Jean de Dieu si è diffusa in un raggio molto vasto, valicando le frontiere formali di questi Stati, dove la gente è la stessa e ha gli stessi problemi.

     

    «Ma all’inizio non era così – rammenta fra’ Fiorenzo -. I malati non venivano all’ospedale, alcuni non sapevano nemmeno cosa fosse, altri erano diffidenti. Preferivano andare dal guaritore o dallo stregone. Molti, in verità, lo fanno ancora oggi, e vengono da noi solo quando non hanno più speranza e spesso è troppo tardi. Ma grazie alla presenza di personale locale preparato, siamo riusciti a superare la reticenza della gente, che si sente accolta da persone che hanno con loro una maggiore affinità culturale».

     

    Quello di Tanguieta è l’unico presidio sanitario della zona che accetta di curare tutti, a prescindere dalle condizioni economiche. La regione è poverissima e spesso la gente, prima di arrivare in ospedale, ha speso quel poco che aveva dal guaritore.

     

    «Noi cerchiamo di far pagare qualcosa soprattutto per responsabilizzare le persone; tre euro agli adulti e un euro e mezzo al giorno ai bambini. Si tratta innanzitutto di uno sforzo educativo, ma alcuni non riescono neppure a pagare queste cifre irrisorie cosicché per far funzionare l’ospedale le difficoltà economiche sono enormi». Anche perché si tratta di curare di tutto, facendo fronte anche a emergenze gravissime. Come l’epidemia di tifo o di morbillo, che è arrivata a uccidere fino a dieci bambini ogni notte. O quella di meningite. E sempre più la piaga dell’Aids.

    «Speriamo di poter avanzare significativamente nella sperimentazione e nella ricerca scientifica – dice fra’ Fiorenzo -.

     

    Sarebbe davvero una manna per questa gente che muore di Aids e non ha alcuna possibilità di curarsi con le medicina occidentali. Purtroppo attorno all’Aids ci sono oggi troppi business e speculazioni. E moltissimi progetti vivono di Aids mentre la gente continua a morire…».

    Fra Fiorenzo a Tanguieta 

    La storia
    E pensare che si immaginava meccanico 

    Nell’istituto dei Fatebenefratelli, fra’ Fiorenzo Priuli c’è finito a 12 anni, perché la famiglia, di povere origini, non poteva permettersi di farlo studiare. «All’epoca – ricorda – pensavo al massimo di diventare meccanico o carrozziere». È in quegli stessi anni che l’Ordine ospedaliero San Giovanni di Dio, conosciuto come Fatebenefratelli, iniziava a interessarsi all’Africa e ad aprire le prime missioni.

     

    Il giovane Fiorenzo ne è incuriosito e nel ’69 – cinque anni dopo aver preso i voti – si ritrova lui stesso in Africa. Nel frattempo aveva studiato missiologia a Roma.

     

    «In Africa – racconta – di fronte alle difficoltà e ai grandi patimenti della gente avrei voluto fare qualcosa. Ho pensato che come medico avrei potuto alleviare molte sofferenze e così ho convinto i miei superiori a farmi studiare medicina».

     

    Rientrato in Italia nel ’72, comincia l’università. Poi, dopo un anno e mezzo, torna in Togo, da dove prosegue gli studi, tornando a Brescia solo per sostenere gli esami. L’Africa lo aspetta, lo trattiene, ed è qui, prima in Togo e poi in Benin, che può finalmente mettere la sua professionalità al servizio della gente.

     

    I Fatebenefratelli hanno quattro comunità nei due Paesi, due ospedali, uno ad Afagnan in Togo e un altro a Tanguieta in Benin, un centro sanitario a Porga, sempre in Benin al confine col Burkina, una casa per studenti a Cotonou e un noviziato a Lomé.

     

    Fra’ Fiorenzo si lancia con passione nelle attività sanitarie, prima in Togo e dal ’92 a Tanguieta, cercando di offrire ai pazienti servizi di qualità, ma anche un’attenzione umana più vicina possibile alla loro sensibilità e cultura.

     

    «Quando sono arrivato a Tanguieta – ricorda – l’ospedale aveva sessanta posti letto. Oggi siamo a 290, ma i malati sono quasi sempre più di 300. E in un anno arriviamo a quasi diecimila. Un impegno non indifferente da tutti i punti di vista: finanziario, ma anche di personale. Non sono molte le persone qualificate che accettano di lavorare e vivere qui, in questo posto sperduto, lontano da tutto». (a.p.)

    Mondo e Missione, ottobre 2004

     

    L’altra sera ci ha raccontato di una realtà che si fatica a immaginare, nonostante la globalizzazione dell’informazione, nonostante la televisione; perché tutti noi sappiamo delle condizioni di estrema povertà dell’Africa, ma non riusciamo a immaginarci i dettagli, la quotidianità, le conseguenze pratiche di tutto ciò.

    E così fra Fiorenzo ci ha parlato di spose-bambine che sopportano travagli di giorni e giorni senza assistenza medica, travagli che si concludono con la morte del piccolo e con delle lacerazioni che rendono le ragazze incontinenti sia dal punto di vista urinario che fecale.

    In un Paese dove la temperatura media supera i 40° e dove le condizioni igieniche lasciano molto a desiderare ciò significa essere ripudiate dal marito, isolate dalla comunità e colpevolizzate per la propria condizione. L’odore di urina che proviene dalla fistola è così forte che le ragazze sono piene di vergogna. Sono scansate, abbandonate, rimangono sole con le mosche e ciò, in questa parte di Africa, significa essere condannate a morte.

    Ci ha raccontato di come molti africani – affascinati dal consumismo occidentale – rinuncino alle loro tradizioni culturali e magari vendano il campo che gli dà da vivere per acquistare un’auto che in realtà non è che un ammasso di latta.

    Ciò nonostante, mentre lo ascoltavo parlare, mi sono sorpresa a pensare che era un uomo fortunato perché – nonostante quello che diceva – si percepiva chiaramente la sua serenità, la determinazione e l’entusiasmo che forse nasce anche dal fatto di essere riuscito a dare un senso profondo alla propria vita.

    Voglio raccontarvi un’ultima piccola cosa, che mi pare sia una bella metafora di come a volte abbia più senso cercare le soluzioni dei problemi dentro di sé, della propria tradizione e cultura, senza rinnegare quello che si è, magari nell’illusione di trovare scorciatoie

    Negli ultimi anni, l’Aids è piombato come una maledizione anche in queste zone e per questo fra Fiorenzo, con la collaborazione di medici infettivologi italiani e francesi, ha iniziato una sperimentazione, facendo tesoro delle conoscenze dei guaritori tradizionali che hanno grande esperienza dell’uso curativo delle erbe. Grazie alla fitoterapia, oggi riesce ad usare almeno una ventina di piante in alternativa a medicine costosissime. Tutte sono state testate in Italia, ed hanno un certificato di non tossicità.

    «In particolare – ha spiegato fra Fiorenzo – usiamo l’estratto di una pianta che qui chiamano kinkeliba, il Combretum Micranthum, che cresce in maniera spontanea e abbondante, e ha dato ottimi risultati. Sino al ‘91 si usava solo per l’epatite. Da qualche anno ho iniziato ad usarla anche per l’Aids. C’è un paziente in cura dal ‘91 e sta bene, nonostante abbia avuto per due volte il cancro».

     

     

    Marcello Foa portrait_foaL’esempio di Fiorenzo e un grazie a tutti voi

    In uno dei miei post dal Benin avevo annunciato un articolo su Fiorenzo, il frate chirurgo che fa miracoli in una delle zone più povere dell’Africa. L’articolo è uscito ieri sul Giornale: Fiorenzo Priuli mi ha molto colpito per il suo entusiasmo, per la sua grazia innata, per il suo ottimismo. Ha  creato da zero un ospedale efficientissimo ed è venerato da tutti: autorità civili, musulmani, animisti, oltre ovviamente dai cristiani. Sapere che nel mondo esistono italiani di questa caratura fa bene all’anima e alla reputazione del nostro Paese.

    Con l’avvicinarsi delle Festività. colgo l’occasione per ringraziarvi per i mesi trascorsi insieme su questo blog, che è sempre più letto. “Il Cuore del mondo” si sta trasformando in una piccola comunità dove è possibile confrontarsi liberamente, con civiltà, arguzia, senza barriere politiche. Al blog partecipano lettori di destra, di sinistra, di centro, dall’Italia e dall’estero: che splendida esperienza!

    Dimenticavo: alcuni di voi mi hanno chiesto di segnalare qualche Onlus meritevole di attenzione. Chi volesse aiutare Fiorenzo può farlo tramite l’U.T.A (Uniti per Tanguieta e Afagnan) o gli amici di Tanguieta .

    Altre Onlus attive in Africa sono il GSA (Gruppo Solidarietà Africa), il LTM (gruppo Laici Terzo Mondo), il BND (Bambini nel deserto). Ce ne sono ovviamente tante altre meritevoli di stima e riconoscenza, ma di quelle che ho citato ho potuto verificare l’attendibilità. Ribadisco il mio suggerimento: se volete far del bene o beneficenza preferite Onlus o Ong che conoscete o dove operano amici o parenti: il piccolo gruppo, se le sue motivazioni sono autentiche, difficilmente sprecherà finanziamenti (vedi il post sull’Unicef) e certo non userà la fondazione per altri scopi (vedi i sospetti su quella di Clinton).

    Infine, ecco una foto di Fiorenzo nel suo ospedale a Tanguieta. L’ha scattata Emilio Zuccoli, l’amico che mi ha permesso di scoprire Fiorenzo e la sua magnifica realtà.

    Buon Natale a tutti voi!

     fiorenzo priuli

     

    http://www.aeronautica.difesa.it/SitoAM/Default.asp?idarg=149&idente=1398&idsez=5

    MISSION – GLOBULI ROSSI Company

     

     

    Mission

      

    O sole mio

      

    Luciano Pavarotti - 'O sole mio
     
     

     

      

     
     
    FATE BENE FRATELLI
     
    U.T.A onlus Associazione benefica
     
        
    ASSOCIAZIONE
      
        
      
     BENEFICA
        
      
      
    U.T.A.
      

     UTA Afgnan_ospedale2 

    Uniti per Tanguiéta e Afagnan
     
    nel
      
    decimo anniversario
      
     del riconoscimento come ”ONLUS”
     
     
     
     
    UTA Fra Luca Beato o.h. untitledFra Luca Beato o.h.
    Sacerdote dei Fatebenefratelli e vicepresidente dell’UTA Onlus
     
     
     

     

    INTRODUZIONE
     
     
    Cari lettori, questo dossier sulle missioni africane dei Fatebenefratelli della Provincia Lombardo-Veneta e sull’azione di supporto svolta dall’Associazione benefica “Uniti per Tanguiéta e Afagnan” in sigla UTA viene pubblicato sulla rivista Fatebenefratelli, grazie alla bontà del direttore fra Marco Fabello. L’occasione propizia è la ricorrenza del decimo anniversario del suo riconoscimento come Onlus (organismo non lucrativo di utilità sociale), ma il motivo di fondo è che l’UTA in dodici anni di vita è diventata l’associazione più importante tra quelle che sostengono gli ospedali africani dei Fatebenefratelli.
     
    Fra Marco Fabello o.h.Fra Marco ha sempre dimostrato una particolare sensibilità verso le nostre missioni: questa Rivista ne è una chiarissima testimonianza. Inoltre da quando è stato fatto direttore dei due ospedali di Brescia, il Sant’Orsola e il San Giovanni di Dio, è nata una più organica collaborazione con l’UTA. Tra l’altro egli ha preso a cuore la valorizzazione della figura carismatica del nostro confratello fra Fiorenzo Priuli, medico missionario di alto livello, consulente dell’O.M.S. (Organizzazione mondiale della sanità) per le malattie tropicali.
     
    Con la collaborazione dell’Ufficio stampa FBF di Roma è riuscito a portare più volte fra Fiorenzo con gli ospedali africani e l’Associazione UTA sul primo e secondo canale della RAI e su Telepace. A fra Marco, quindi, il nostro grazie profondo e sincero.
     
    Il presente dossier è una sintesi del libro “Africa nel cuore” edito nel decimo anniversario della fondazione dell’UTA.Devo, perciò, ricordare e ringraziare le persone che l’hanno scritto: Marisa Bonan Cucchini, Sara Brotto, Federica Carlesso, Silvia Rossi, fra Fiorenzo Priuli e Sergio Carlesso per tante foto.
     
    Il dossier narra la storia di un piccolo “miracolo” che è l’UTA, realizzato grazie all’impegno e alla volontà comune di persone, come me e come voi, che credono nella forza dell’amore e, proprio per questo, nella possibilità di creare un mondo migliore. La forza dell’UTA sono i benefattori grandi e piccoli quindi anche una buona parte di voi.
    A tutti e a ciascuno esprimiamo la nostra profonda riconoscenza insieme a quella dei nostri missionari e di tanti ammalati salvati dalla morte e/o curati e assistiti grazie al vostro sostegno economico. Il Signore ricompensi la vostra carità con il dono della vita immortale. Per questo noi religiosi Fatebenefratelli preghiamo tutti i giorni.
     
    UTA paesaggi_fioriQuest’anno ricorre il decimo anniversario del riconoscimento come “ONLUS” dell’associazione benefica “Uniti per Tanguiéta e Afagnan” in sigla = U.T.A. (31 gennaio 1998). Fin dall’origine (1996) essa aiuta in maniera sempre più consistente gli ospedali africani dei Fatebenefratelli di Afagnan nel Togo e di Tanguiéta nel Benin nella cura dei malati poveri dell’Africa, specialmente i bambini.
     
    Storia delle origini
     
    Ero ancora un giovane religioso, postulante-studente a Milano, ospedale San Giuseppe, quando ho visto partire nel 1955 i primi missionari Fatebenefratelli diretti in Somalia a Chisimaio, per gestire l’ospedale statale di quella città: fra Cesare Gnocchi, fra Tommaso Zamborlin e fra Carmelo Gaffo. Era Provinciale fra Natale Paolini.
    Fra Mosè Bonardi o.h. Priore GeneraleQualche tempo dopo, nel 1959, il Padre Generale dell’Ordine dei Fatebenefratelli fra Mosè Bonardi della Provincia religiosa Lombardo-Veneta, fece subentrare un gruppo di nostri confratelli, guidati da fra Eligio De Marchi, ai confratelli della Provincia Austriaca nella gestione dell’ospedale “Holy Family Hospital” di Nazaret in Israele.
     
    Il cambio si era reso necessario perché, dopo la shoah degli Ebrei, la lingua tedesca era diventata invisa alla popolazione. Gli italiani invece erano molto graditi e soprattutto fra Eligio perché all’ospedale Fatebenefratelli di Roma all’Isola Tiberina aveva salvato molti Ebrei dalla deportazione nei campi di concentramento in Germania. Ma nel 1960 per volontà dell’ONU anche le ultime Colonie acquistarono l’indipendenza.
     
    L’orgoglio nazionale all’indomani dell’indipendenza, determinò in Somalia l’esonero dei Fatebenefratelli dalla gestione dell’ospedale di Chisimaio.
    I nostri Superiori Maggiori pensarono allora di aprire una Missione in Africa. In vista del Concilio venivano in Italia tanti vescovi del mondo in via di sviluppo e andavano a chiedere aiuto ai nostri Superiori.
     
    Il più fortunato fu il vescovo di Lomé, capitale del Togo, mons. Roberto Casimir Dosseh. Partirono allora nel 1960 fra Pierluigi Marchesi e fra Onorio Tosini alla volta di Lomé per trattare con le autorità religiose e civili. L’anno seguente partirono i primi due missionari: fra Onorio Tosini e fra Aquilino Puppato e diedero inizio al primo lotto della costruzione dell’ospedale “Saint Jean de Dieu” di Afagnan, un villaggio fuori mano vicino al confine con il Dahomey (oggi: Benin) a 90 chilometri da Lomé e a 30 dalla costa oceanica.
     
    L’ospedale fu inaugurato nel 1964.
     
    Fra Mosè Bonardi o.h. Priore GeneraleIl Padre Provinciale fra Mosè Bonardi, con sguardo lungimirante, decise di fare un ospedale anche nel Benin e le autorità religiose e civili gli indicarono il Villaggio di Tanguiéta nel Nord del Paese, quasi al confine con l’Alto Volta (ora: Burkina Faso), a una giornata di macchina da Afagnan: una zona poverissima, dove la popolazione fa fatica a sopravvivere, dato che per influsso del Sahara, la siccità dura otto mesi all’anno e la terra anche nella corta stagione delle piogge è piuttosto avara.
    Il pioniere della costruzione di questo ospedale, dedicato a San Giovanni di Dio, fondatore dei Fatebenefratelli, è stato fra Tommaso Zamborlin. Egli partì da Afagnan nel 1967 dove si trovava già da qualche tempo e insieme al geometra Renato Canziani di Milano cominciò la costruzione dell’ospedale che fu inaugurato nel 1970 alla presenza di fra Cesare Gnocchi e di tante autorità religiose e civili.
    Di questi avvenimenti sono stato quasi unicamente un ammirato spettatore. Ma nel 1965, terminati gli studi di teologia a Roma, sono stato incaricato di dirigere lo Scolasticato a Milano, ospedale S. Giuseppe, che allora era gremito di giovani religiosi. Ritenni subito mio dovere educare i giovani religiosi allo spirito missionario. Tra gli allievi di allora c’era anche fra Fiorenzo Priuli che per le missioni era un vulcano di idee e di iniziative. Facemmo una mostra missionaria in uno stabile appena acquistato per l’ampliamento dell’ospedale S. Giuseppe, in corrispondenza dell’attuale Pronto soccorso. La mostra in prossimità del Natale, nel periodo della fiera degli “Oh bei! Oh bei!” presso la Chiesa di S.Ambrogio, ci ha portato una marea di gente e ci ha procurato un incasso ingente.
    Facemmo poi anche una lotteria con il sostegno di altre Case della Provincia, specialmente di Cernusco sul Naviglio dove si è dimostrato molto attivo il Padre Priore fra Pierluigi Marchesi.
    Insomma, ricordo che consegnammo al Padre Provinciale fra Mosè Bonardi la bella somma di lire 11,5 milioni, che sono stati sufficienti per la costruzione del padiglione della pediatria dell’ospedale di Afagnan.
     
    Diventato Consigliere provinciale, nel 1971 e 1972 ho visitato gli ospedali africani per rendermi conto “de visu” dei problemi che essi avevano per poter provvedere in modo mirato agli approvvigionamenti necessari per il buon funzionamento: medici, infermieri professionali, tecnici; medicinali, reagenti di laboratorio analisi, materiale sanitario, eccetera.
    Ho avuto modo di vedere all’opera nell’ospedale ancora incompleto di Afagnan, fra Onorio Tosini come Padre Priore, verso il quale la popolazione aveva una grande stima e venerazione per cui lo chiamavano amegan (= grande capo); in reparto fra Emanuele Zanaboni, in farmacia fra Giustino Mariconti e fra Fiorenzo che faceva un po’ di tutto: sala operatoria, laboratorio analisi e radiologia e aveva inoltre una trentina di bambini con flebo e sondino naso-gastrico in una piccola dépendance dell’ospedale degna di un pollaio, in attesa dell’apertura della pediatria.
    Quei bambini, mi spiegava, avevano come minimo tre o quattro qualità di parassiti intestinali. Bastava poco per tirali fuori dall’anemia in cui erano caduti. Ma doveva fare di nascosto anche quel poco, perché non si poteva aprire la pediatria, mancando i fondi per gestirla.
     
    A Tanguiéta ho visto il Padre Priore fra Tommaso Zamborlin, pieno di dinamismo: godeva la stima della popolazione per l’impegno straordinario dimostrato nella costruzione dell’ospedale, per cui aveva rischiato anche la vita, quando il camion carico di materiale edilizio aveva rotto i freni sulle colline dell’Atakora; inoltre era considerato un idolo dai ragazzi per le acrobazie che faceva con la moto. Non per nulla l’avevano battezzato: m’en foux la mort (=me n’infischio della morte).
    Fra Leonardo Laner, mio carissimo compagno di noviziato anche se più anziano di me, faceva il fac-totum dell’ospedale e fra Clemente Tempella, bravo infermiere professionale, gestiva il reparto. L’ospedale, piccolo e incompleto, non lavorava ancora abbastanza. La gente del posto, legata alla cultura e alla religione del feticismo aveva ancora una grande diffidenza dell’ospedale dei bianchi e si affidava più volentieri allo stregonemedicone.
     
    A dire di fra Fiorenzo, la fiducia della gente verso l’ospedale si è manifestata ampiamente dopo l’epidemia di morbillo del 1989, quando sono morti in tempi rapidissimi 5.000 bambini e di questi, solo un quarto di quelli che i missionari erano riusciti a portare all’ospedale, rimandando per questo anche la S. Messa di mezzanotte di Natale, si erano salvati. Prova ne sia il fatto che fra Fiorenzo cercò aiuti per costruire la pediatria molto capiente. La Provvidenza gli fece conoscere, tramite il Parroco di Meda, il signor Carlo Luigi Giorgetti, che attualmente è presidente dell’associazione “Amici di Tanguiéta”. Egli finanziò la costruzione della pediatria per onorare la memoria del figlio Paolo, di 18 anni, rapito e trovato morto bruciato.
     
    Ambiente dove agisce l’UTA
     
     
    UTA Afgnan_ospedale4Siamo tutti vulnerabili, ma abbiamo gli ospedali dove i medici ci curano. In Europa il problema non si pone: le strutture ospedaliere sono lì per noi. In altre parti del mondo, però, non è così: l’ospedale rappresenta la ricchezza, non la cura. Negli Stati Uniti se non sei assicurato, muori. In Africa se sei povero, muori. E questo per la nostra morale cristiana non è giusto; ci hanno insegnato ad amare il prossimo, il fratello, qualunque creatura vivente. È questo senso del dovere e dell’aiuto verso gli altri che ha piantato le basi da cui è nata l’UTA.
     
    A parte l’aspetto fisico, però, sono tante le differenze che ci distinguono dai popoli degli altri Continenti: prima tra tutte, la cultura; seconda (e in parte diretta conseguenza della prima) il diritto alla salute. In Europa prendere un raffreddore è una seccatura, operarsi di appendicite è solo un fastidio doloroso. Negli Stati Uniti invece se hai bisogno di un medico devi prima digitare il numero della tua carta di credito e dimostrare di essere coperto da assicurazione. In Asia e in Africa, il povero che non può pagare non entra in ospedale e per di più gli ospedali sono sovente così lontani che diventano per
    il malato una mera utopia.
     
    Gli aiuti internazionali hanno permesso ai Paesi in via di sviluppo la costruzione di un certo numero di ospedali nei Centri più grossi e anche di qualche Università di Medicina. Gli ospedali hanno attrezzature adatte, un organico di medici, infermieri e tecnici adeguato, pagato dallo Stato. Ma per poter accedere all’ospedale il malato deve pagare una serie di medicinali, di materiale di medicazione, eccetera secondo una lista che gli viene presentata. Al cibo ci devono pensare i parenti. Per poter accedere agli ospedali in genere i poveri ricorrono alla colletta tra parenti. Se si tratta di ricoveri brevi o di interventi leggeri la cosa si risolve facilmente, altrimenti bisogna rinunciare. Di fronte all’impossibile, scatta il meccanismo del fatalismo che toglie anche le lacrime da piangere.
     
    Anche gli ospedali dei Fatebenefratelli fanno pagare, però non si respinge nessun malato perché non ha soldi da pagare. La vita umana vale più del denaro. Diciamo questo solo per far capire che chi crede nell’UTA si sente prima di tutto fortunato, e non vuole dimenticare chi lo è meno di lui. L’UTA ha preso a cuore le condizioni dell’Africa, la carenza di cure per i malati africani poveri. Non poteva farlo da sola, certo, così si è appoggiata all’Ordine religioso dei Fatebenefratelli e ai suoi due ospedali a Tanguiéta nel Benin e ad Afagnan nel Togo. Le azioni di questi uomini volenterosi di aiutare chi è meno fortunato di loro hanno trovato fin da subito zone precise su cui operare e problemi concreti da affrontare.
    Non è facile lavorare in Africa: lì ogni zona ha le sue tradizioni, ogni popolo ha la sua religione, il sacro si mescola al profano e lo spirito si incarna nello stregone.
     
    Togo
     
     
    Prendiamo il Togo: un piccolo tratto di terra africana, colonia francese fino al 1960, che in quasi mezzo secolo non è riuscito ad uscire dall’arretratezza economica e sociale che caratterizza praticamente tutti gli Stati del Continente africano. Il regime “presidenziale” che ha portato avanti le cinque repubbliche che si sono succedute, non ha giovato a una crescita uniforme del Paese, anzi ha incentrato le ricchezze nelle mani dei pochi già ricchi e ha prostrato i poveri. Le conseguenze si vedono non solo in un’economia zoppicante, sprovvista di strutture di base che servirebbero per  sviluppo armonioso del paese, ma anche, e soprattutto, in settori sociali primari come l’educazione
    e la sanità. Il Togo è un paese carente di reti di comunicazione e di mezzi mediatici. L’informazione non arriva in migliaia di villaggi isolati, guidati ancora da stregoni e “preti wudu”. La pratica dell’infibulazione, che rovina per tutta la vita bambine e donne, è praticata sia dai musulmani (che comprendono il 25% della popolazione) sia tra gli animisti
    (il 52%). La media è di sei figli per ogni donna e il reddito medio per chi lavora è di $ 400,00.
     
    Benin
     
    Neanche il Benin se la passa bene: l’agricoltura occupa il 60% della popolazione attiva, ma rende assai poco, e il prodotto nazionale lordo si aggira sui 600 euro annui pro capite. Si potrebbero sfruttare a beneficio di più persone i giacimenti di petrolio scoperti nelle acque territoriali e l’importanza commerciale del porto di Cotonou, che serve anche gli stati confinanti. Ma questo non succede e il Benin resta un paese essenzialmente povero. Il 15% della popolazione è musulmana, il 15% cristiana, il resto pratica culti tradizionali, divisa in numerosi gruppi etnici, diversi tra loro sia culturalmente sia linguisticamente. Il 60% della popolazione è analfabeta, e le grandi distanze geografiche, unite alla debolezza fisica dovuta a un’insufficienza alimentare cronica (un bambino su quattro non mangia abbastanza tutti i giorni) fa sì che la maggior parte di loro faccia fatica ad avvalersi del servizio sanitario.
     
    Malattie più diffuse
     
    Le malattie epidemiche sono degli avvenimenti ciclici, che da sempre portano sofferenza e morte nelle regioni più povere. Togo e Benin sono un terreno perfetto di sviluppo di queste malattie. La più diffusa, e la più temibile, perché indebolisce il fisico lasciando la strada libera ad altre malattie, è la malaria. Di malaria non si parla mai, eppure (o forse proprio perché) si sovrappone a tutte le altre malattie che decimano ogni giorno il popolo africano. È una presenza fissa, costante, imbattuta. Le si affiancano periodicamente altri flagelli che danno il colpo di grazia a corpi già martoriati.
    Nei suoi quasi quarant’anni di esperienza in terra africana, fra Fiorenzo Priuli ci ha portato testimonianza di numerose epidemie, indelebili nella memoria.
     
    Nel 1970 si sviluppò in Togo una epidemia di rabbia che sopravvisse per un lungo periodo al vaccino messo gratuitamente a disposizione dal governo e alla caccia ai cani randagi portata avanti dall’esercito. La popolazione li nascondeva, e la rabbia continuava!
     
    Nel 1971 arrivò il colera: il governo del Togo e l’OMS inviarono camionate di fleboclisi e soluzioni reidratanti orali. I malati erano così numerosi che l’ospedale di Afagnan dovette utilizzare anche i locali della pediatria.
     
    Nel 1979-1980 fu la volta del morbillo, che in cinque mesi uccise più di 5.000 tra bambini e adolescenti. È la più grave epidemia che si ricordi nelle regioni di Tanguiéta;ovunque attorno ai villaggi si scavavano fosse, molte famiglie rimasero senza figli, i missionari portavano i malati all’ospedale e tornavano con i cadaveri, perfino la notte di Natale!
     
    Nel 1983 fu la meningite a mietere le sue vittime: la meningite appare tutti gli anni, ma in quel caso fu particolarmente violenta. Per lasciare posto agli ammalati furono occupate anche due case dei medici, e per appendere le fleboclisi si arrivò ad utilizzare i fili del telefono urbano!
     
    Nel 1985 toccò alla febbre gialla, male mortale nel 98% dei casi, ma evitabilissimo con la vaccinazione.
    Purtroppo da anni non si vaccinavano che i libretti sanitari dei pellegrini che andavano alla
    Mecca, e la malattia trovò un fecondo campo d’azione. Solo una grande campagna di vaccinazione riuscì ad arrestarla, dopo una scia incalcolabile di vittime.
     
    Nel 1988 si segnalarono a Tanguiéta i primi due casi di AIDS. Da allora questo male è diventato anche “cosa nostra”, sia perché si propaga a ritmo vertiginoso, sia perché troppo poco si fa per educare, sensibilizzare, prevenire, curare e aiutare.
     
    Nel 2003 l’epidemia fu di febbre tifoide. Anche in questo caso sottosviluppo, ignoranza, mancanza di acqua potabile hanno incrementato a dismisura il numero di vittime, per un male la cui cura precoce è efficace e poco costosa.
    Queste sono le epidemie che gli ospedali dei Fatebenefratelli, con l’aiuto di privati e associazioni come la nostra UTA, hanno fronteggiato negli anni. Ma non vanno dimenticati altri tipi di virus, come la tubercolosi, la lebbra, il morbo del Buruli.
     
    Ospedale “Saint Jean de Dieu” di Afagnan
     
    fra-onorio-tosini-un-votato-allospitalitaL’ospedale di Afagnan fu fondato nel 1964 da fra Onorio Tosini e fra Aquilino Puppato, mentre era Provinciale fra Mosè Bonardi. Essi erano partiti con una nave dal porto di Marsiglia il 13 marzo 1961 ed avevano iniziato subito la loro attività con un ambulatorio costruito dal governo in attesa della realizzazione del primo lotto di lavori dell’ospedale, costruito su progetto del prof. Ferdinando Michelini, con cortile centrale e padiglioni che si sviluppano in direzione Est-Ovest con muri maestri riparati dal sole per mezzo di una tettoia sporgente. L’inaugurazione del nuovo ospedale avvenne il 5 luglio 1964.
     
    Fra Fiorenzo - Afagnan reparti
     
    La scelta è ricaduta in una delle zone più povere del Togo e totalmente sguarnita di assistenza medica, che raccoglie una popolazione di oltre 100.000 abitanti. Ma i malati e i bisognosi che sono assistiti giornalmente nell’ospedale provengono anche dai Paesi limitrofi come Benin, Ghana, Nigeria e persino dal Burkina Faso. Inizialmente i posti letto a disposizione nella struttura erano 82.
     
    Fra Fiorenzo - Residenza medici Afagnan
     
    Man mano la capacità ricettiva si è progressivamente sviluppata. Nel 1969 fu costruita la pediatria con 34 letti. Nel 1986 venne realizzata la clinica e nel 1990 il reparto di isolamento. In tutto oggi si contano più di 270 posti letto, costantemente occupati da malati poveri e spesso in gravi condizioni. Ci sono i reparti di chirurgia, di medicina, di radiologia; c’è il laboratorio analisi, c’è la pediatria e c’è la maternità, tutti perfettamente funzionanti, ma tutti sempre affollati e bisognosi di interventi.
     
    Fra Fiorenzo - Cortile Afagnan
     
    L’ospedale lavora ad alto livello medico scientifico, per cui nel 2005 il Governo del Togo l’ha elevato al grado di ospedale universitario per una collaborazione stretta con l’Università di Lomé.
     
    Fra Fiorenzo - Pediatria Afagnan
     
    La pediatria è il reparto più vivace di tutto l’ospedale: i sorrisi si mescolano, a volte, alle lacrime per la gioia di vivere e ricominciare a correre e saltare. I posti letto sono 75 ed è presente all’interno una “piccola scuola” per l’insegnamento ai bambini ricoverati per lungo tempo (riabilitazione dopo la poliomielite, ulcera di Buruli, osteomielite, ecc.). È in questi settori che l’UTA è riuscita più volte a intervenire e a ridare la gioia di vivere a bambini e adulti.
     
    Fra Fiorenzo - La sala operatoria in piena attività
     
    Ospedale “Saint Jean de Dieu” di Tanguiéta
     
    A Tanguiéta, più ancora di Afagnan, il clima non è propizio per la salute dei poveri: la stagione secca dura otto mesi e mette a dura prova la resistenza fisica soprattutto dei bambini, che deperiscono progressivamente fino, certe volte, a morire di fame. Sì, perché se di fame nella vecchia, ricca Europa non si parla quasi più, anzi c’è il problema dell’obesità, in Africa è ancora una realtà che porta alla morte.
     
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    Le mamme di solito ricorrono all’ospedale quando i bambini sono moribondi, perché solo allora lo stregone lo permette. Dicono di provare se il feticcio dei bianchi ha dei poteri che i loro feticci non hanno. Ma i bianchi non usano la magia, e non sempre i loro rimedi arrivano in tempo.
     
    L’ospedale di Tanguiéta è stato fondato nel 1970 da fra Tommaso Zamborlin, su un’area che al tempo era stata indicata dal governo beninese come la più povera dello Stato.
    I lavori di costruzione, su progetto del prof. Ferdinando Michelini, analogo a quello di Afagnan, erano iniziati tre anni prima con la posa della prima pietra il 14 gennaio 1967. All’inaugurazione, avvenuta il 29 giugno 1970 esso aveva la capacità di 80 posti letto.
     
    Per un po’ di tempo l’ospedale ha lavorato a rilento perché la popolazione era abituata a rivolgersi allo stregone guaritore e aveva pregiudizi e diffidenza verso la novità portata dai bianchi. La cosa è cambiata radicalmente in seguito all’epidemia di morbillo del 1979/80. I pochissimi bambini che si erano salvati dovevano dir grazie all’ospedale.
    Gli 80 posti letto iniziali sono diventati insufficienti per una popolazione di oltre 70.000 abitanti. Si è costruita una grande pediatria e si è ingrandita la maternità. Oggi i letti sono più di 230, ma i malati sono sempre troppi. Nell’ultimo decennio l’ospedale è stato incaricato della medicina preventiva sul territorio con campagne di vaccinazioni contro il tetano, la poliomielite, il morbillo e la meningite. È diventato l’ospedale di riferimento dell’O.M.S. (Organizzazione mondiale della sanità) per quella zona dell’Africa. Nel 2005 è stata costruita una “piccola scuola” adiacente alla pediatria per i ragazzi lungodegenti.
     
    Centro sanitario di Porga
     
    Non possiamo dimenticare Porga: uno dei 17 dispensari che circondano l’ospedale di Tanguiéta, mentre nei 600 chilometri che dividono le due strutture ospedaliere di Tanguiéta e di Afagnan se ne contano 23. Porga non è un semplice dispensario, è un vero e proprio “centro sanitario”: la prima pietra è stata posta il 29 novembre 1999, alla presenza di mons. Pascal Nkoue, vescovo di Natitingou.
    Il terreno sul quale sorge il complesso è stato donato dalla popolazione di Porga, che si è dimostrata, fin dall’inizio, molto entusiasta dell’iniziativa e ha collaborato nell’estrazione di sabbia e sassi dal fiume Pendjari, grazie soprattutto all’intervento dell’anziano lebbroso capo del villaggio Kah Kiansi, morto nel 2000.
    Il progetto di quest’opera comprende: un dispensario (due sale da visita, una sala di prestazioni ambulatoriali e un locale per laboratorio analisi e uno di pronto soccorso) la farmacia, una maternità (una sala travaglio e due sale da otto letti per le madri), una pediatria di sedici letti ed infine 16 letti per i ricoveri di medicina generale per adulti sia uomini che donne. L’edificio ha la forma quadrata.
     
    L’UTA ha finanziato la costruzione di due padiglioni. A questo complesso si aggiungono gli alloggi della comunità dei religiosi che devono gestire il centro. Il centro sanitario con gli aiuti del Padre Generale, raccolti da tutte le case dell’Ordine, è terminato e funzionante.
     
    Centro di salute mentale di Lomé
     
    Nel 2005 il Padre Generale ha promosso una campagna per la raccolta di fondi al fine di costruire un centro di salute mentale presso la sede della Delegazione generale in periferia di Lomé, in località Agoé-Nyivé. Vi presterebbero servizio i Novizi e gli Scolastici. Per il Togo rappresenta una novità assoluta. Mi dicono che nel Togo c’è un unico medico psichiatra e nessuna struttura per i malati di mente.
    Nascita dell’associazione
    Quando sono andato a Romano d’Ezzelino nel settembre del 1987 non avevo in mente alcuna associazione benefica, ma portavo nel cuore tanto amore alle nostre Missioni, per le quali mi ero adoperato fin dal 1965 a Milano. Sono stati i laici di Romano, specialmente quelli esterni alla nostra casa, che hanno iniziato a frequentare la Messa domenicale a stimolarmi a fare tante cose.
    Dapprima l’animazione spirituale della nostra Casa di riposo “San Pio X” con particolare riguardo alla S. Messa nella cappella gentilizia della Villa Ca’ Cornaro, aperta al pubblico di domenica.
    Da questa siamo passati alle conferenze di cultura cattolica una volta al mese a livello del Vicariato di Crespano del Grappa. L’occasione è stata la Visita pastorale del Vescovo di Padova, che lamentava la mancanza di cultura religiosa nel Vicariato.
    All’inizio del 1995, alcuni amici mi hanno detto: “Fra Luca, van bene le prediche, van bene le conferenze di cultura, però sarebbe ora di fare qualcosa di concreto”. Provvidenzialmente c’era in vacanze in Italia, il compianto fra Piergiorgio Romanelli, medico missionario a Tanguiéta. Il Padre Priore fra Lucio Agostini, suo amico personale, l’ha invitato a Romano una sera a parlarci dei nostri ospedali africani e delle loro necessità. Egli ci parlò soprattutto dei bambini e dei ragazzi rimasti paralizzati alle gambe in seguito alla poliomielite. Anche se era arrivata la vaccinazione, c’era una quantità enorme di questi bambini (una stima sommaria parlava di 4 mila), che provenivano anche da mille chilometri di distanza con la speranza di venire operati all’ospedale dei frati.
     
    Ci siamo attivati immediatamente per raccogliere fondi per questi ragazzi poliomielitici e fra Piergiorgio ha fatto in tempo, prima di morire a Tanguiéta per un incidente stradale (21-12-1995), a mandarci una documentazione fotografica di un certo numero di questi bambini, rimessi in piedi con il nostro sostegno economico.
    In seguito è venuto in Italia fra Fiorenzo Priuli, il chirurgo dei poliomielitici. Essendo io, tra l’altro, insegnante di religione nella Scuola superiore New Cambridge Institute, gestita da Giovanni Zanon, che ha sede nella parte artistica di Ca’ Cornaro, sono riuscito a fargli tenere una conferenza con diapositive sulle patologie dei nostri ospedali africani. Per la prima volta nella mia vita di insegnante ho visto un’assemblea di 200 studenti restare ammutoliti per due ore di fronte alle immagini che passavano davanti ai loro occhi increduli e alle parole carismatiche di fra Fiorenzo. È stata un’esperienza veramente toccante e indimenticabile. Ricordo che nel giro di alcuni giorni, grazie soprattutto alla collaborazione dell’insegnante Marisa Bonan Cucchini, mi sono arrivati 15 milioni di lire. La cosa aveva dell’incredibile. L’anno dopo abbiamo ricevuto da fra Fiorenzo una relazione in cui si diceva che nei due ospedali con il nostro aiuto economico erano stati operati complessivamente 365 ragazzi, in media uno al giorno.
     
    A questo punto, i collaboratori laici su menzionati ed io, ci siamo posti la domanda: “Come si può fare per garantire un aiuto continuativo agli ospedali di Afagnan (Togo) e di Tanguiéta ( Benin ) per far camminare i bambini poliomielitici?
     
    Così per la prima volta ci è balenata l’idea di fondare un’Associazione benefica a favore di questi ospedali. A questa decisione ha contribuito il fatto che in Africa c’era un f ate nativo di Romano, fra Taddeo Carlesso. Il parroco, il consiglio pastorale, gli amici e le volontarie della Casa di riposo vedevano volentieri un’iniziativa che valorizzava la missione di un loro compaesano tra i poveri dell’Africa nera.
    Intanto, nella primavera del 1995 si era celebrato il Capitolo Provinciale ed il sottoscritto era stato nominato dal Padre Provinciale fra Raimondo Fabello, membro della Commissione di animazione della Provincia Lombardo-Veneta nella sezione delle missioni.
    Questo fatto, oltre a farmi fare per un anno delle esperienze nuove di animazione missionaria nelle altre Case insieme con Elvio Basile, mi aveva incoraggiato a lavorare con maggior impegno nella mia. Il Padre Provinciale, messo al corrente nella primavera del 1996 del nostro progetto di creare un’associazione per le missioni, fu largo di consigli e di incoraggiamenti.
    Dapprima ci suggerì di contattare l’associazione Amici di Tanguiéta di Milano, presieduta dal dottor Franco Poggio, per vedere se valeva la pena di fare una nuova associazione o era meglio diventare una sezione staccata di quella. Si decise che era meglio fare una nuova associazione autonoma Uniti per Tanguiéta e Afagnan e poi aggregarsi per realizzare meglio dei progetti comuni.
     
    Ho cercato allora di coinvolgere un vecchio amico di Milano, Giorgio Belloni, (purtroppo già deceduto nel 1998) che sapevo sensibile alle necessità dei poveri. Aveva fatto “miracoli” al tempo del terremoto del Friuli, andando personalmente sul posto con operai e volontari a ricostruire Flaipano, piccola frazione di Montenars. Egli aderì con entusiasmo alla nostra iniziativa e convinse a sua volta un amico, abile agente di Borsa, Eros Angelo Mercuriali, a fare altrettanto.
     
    Il 5 settembre 1996 siamo andati a Bassano del Grappa dal notaio Lafasciano in otto persone per firmare tutte insieme l’Atto costitutivo dell’Associazione benefica UNITI PER TANGUIETA E AFAGNAN = U.T.A. I soci fondatori sono: fra Luca Beato Pietro, Giuseppe Andriollo, Fulgenzio Bontorin, Giuseppe Carlesso, Giorgio Maffei, Giovanni Zanon, Giorgio Belloni ed Eros Angelo Mercuriali.
     
    Alla prima assemblea generale del 7 giugno 1997 eravamo in 15 soci ordinari e l’U.T.A. ne è uscita ben costituita con un consiglio di 11 persone: presidente: Eros Angelo Mercuriali, vicepresidente: fra Luca Beato, segretario: Fulgenzio Bontorin, Tesoriere: Remo Facchinello. Consiglieri: Giuseppe Andriollo, Salvatore Carlentini, Giuseppe Carlesso, Ferruccio Lunardon, Marzio Melandri, Fabio Volpato, Giovanni Zanon. Soci ordinari: Giorgio Belloni, Silverio Cerato, Ivano Cavallaro e Don Livio Basso.
     
    Statuto dell’U.T.A.
     
    In base allo Statuto l’U.T.A. è un’associazione benefica senza alcuno scopo di lucro, anche indiretto.
    Nessuno dei soci o aderenti ha diritto a compensi per quello che fa a suo favore. Ognuno deve sapere in anticipo che quello che fa lo deve fare per volontariato. L’U.T.A. è apolitica, interconfessionale e interclassista, laica e autonoma nelle decisioni, anche se si adopera di fatto a favore degli ospedali africani dei Fatebenefratelli.
     
    L’U.T.A. viene gestita con la massima chiarezza. Le offerte arrivano sul conto corrente postale o bancario, quindi sono registrate. Il movimento dei fondi raccolti verso gli ospedali africani, prima viene deciso dal consiglio e poi viene effettuato con doppia firma congiunta dal presidente (o vicepresidente) e dal tesoriere. La gestione viene fatta con la massima trasparenza. Il controllo può avvenire in qualsiasi momento da parte del consiglio e una volta l’anno dall’assemblea ordinaria dei soci. Lo studio commercialista del tesoriere Remo Facchinello tiene l’amministrazione dell’U.T.A. a termine di legge.
    Tutto questo garantisce all’U.T.A. la massima affidabilità per coloro che intendono aiutare i malati poveri degli ospedali di Afagnan e di Tanguiéta.
    A coronamento di ciò l’U.T.A. il 31 gennaio 1998 è andata dal notaio Fietta di Bassano del Grappa per diventare “onlus” cioè un organismo non lucrativo di utilità sociale ed è stata iscritta all’anagrafe delle Onlus (protocollo 42.980: 09-11-2004 ) dalla Direzione regionale delle entrate del Veneto.
     
    Obiettivi principali dell’UTA
     
    L’UTA è sorta per aiutare gli ospedali africani dei Fatebenefratelli a curare i malati poveri, specialmente bambini. In pratica però noi abbiamo chiesto ai nostri missionari quali erano i settori più deboli e bisognosi di aiuto, tenendo conto che le risorse economiche, specialmente all’inizio, erano piuttosto limitate. La prima richiesta che abbiamo ricevuto da fra Piergiorgio Romanelli (1995) è stata a favore dei poliomielitici. La seconda richiesta di aiuto è arrivata da Rosanna Merlo nel 1998 e riguarda i bambini denutriti a rischio di morire di fame. La terza richiesta è venuta pressante da parte di fra Fiorenzo Priuli nel 2004 e riguarda i malati di HIV e AIDS assegnati dall’O.M.S. all’ospedale di Tanguiéta.Contemporaneamente abbiamo realizzato anche altri progetti.
     
    Poliomielitici
     
    UTA Fra Fiorenzo Priuli Tanguieta51
    Negli ospedali africani di Afagnan e di Tanguiéta un frate medico-chirurgo specializzato, fra Fiorenzo Priuli, può fare il miracolo di “far saltare gli zoppi come cervi” (Isaia), cioè rimettere in piedi i poliomielitici che altrimenti sarebbero condannati a trascinarsi sulle ginocchia. Sono ragazzi rimasti paralizzati alle gambe in seguito alla poliomielite o malformazioni congenite o traumi. Adesso per fortuna questa malattia è quasi debellata, ma di ragazzi in quelle condizioni ce ne sono ancora tanti e arrivano anche da lontano, attratti dalla speranza di poter camminare di nuovo.
    Per rimettere in piedi un poliomielitico si richiedono numerosi interventi chirurgici sui tendini con gessi per 20 giorni e poi applicazione di tutori agli arti e ginnastica riabilitativa. Il ricovero in ospedale si prolunga in media per 6/7 mesi ed il costo diventa oneroso.
     
    La spesa media di una giornata di ricovero ospedaliero di un poliomielitico, tutto compreso (vitto, alloggio, medicinali, radiografie, analisi, interventi chirurgici, gessi, attrezzature ortopediche, eccetera), grazie anche allo spirito di intraprendenza dei religiosi, che hanno
    creato in loco un laboratorio ortopedico, viene contenuta nella modesta cifra di euro 15,00 al giorno. Rimettere in piedi un poliomielitico costa in media 2.500 euro. Le famiglie sono talmente povere che possono dare al massimo un piccolo contributo pari a 1,50 euro al giorno per la durata di 10-15 giorni e poi basta.
     
    Un ragazzo paralizzato alle gambe non ha i diritti dei coetanei sani: non può andare a scuola e, se diventa adulto, non può sposarsi e farsi una famiglia. La speranza di rimettersi in piedi è promessa di vita e di felicità. Non è raro il caso di ragazzotti rimessi in piedi che prima di lasciare l’ospedale chiedono al chirurgo “la dernière operation” l’ultima operazione, la circoncisione, che li inserisce nel mondo degli adulti e li abilita al matrimonio.
     
    Bambini denutriti
     
     
    La zona settentrionale del Benin ha un clima che risente l’influsso del Sahara. Mentre la zona del Sud, vicina al mare, gode di due stagioni di pioggia e quindi di due raccolti all’anno, la zona del Nord, dove c’è la cittadina di Tanguiéta, ha una sola stagione di piogge che dura quattro mesi e quindi i contadini portano a casa un solo raccolto. Per di più, se le piogge subiscono delle interruzioni, non tutti i tipi di raccolto arrivano a maturazione e allora comincia anche la carestia più o meno grave. Durante la stagione secca, che dura otto mesi, il caldo diventa torrido, gran parte dei pozzi si secca, tutti si ritrovano nella condizione di lottare per la sopravvivenza, ma quelli che soffrono di più sono i bambini, per diverse ragioni. Anche se il cibo per se non manca, il tipo di alimentazione basilare fatto di riso o mais o miglio con sopra un po’ di sauce è insufficiente a far crescere sano un bambino. I bambini denutriti sono di due tipi: c’è la denutrizione totale per cui il bambino diventa scheletrito e si chiama marasma; poi c’è la denutrizione dovuta a un solo tipo di alimentazione, quindi una malnutrizione, che ingrossa il bambino per trattenimento dei liquidi e si chiama kwashiorkor.
     
    La pediatria di Tanguiéta è stata costruita nel 1980. Essa ha la capacità di 80 letti, ma in Africa i letti non contano, basta una stuoia per terra. In realtà, nella pediatria e nel corridoio antistante ci sono sempre più di 100 mamme con i loro piccoli, sia malati che sani. Le mamme portano all’ospedale i bambini denutriti quando stanno per morire, perché solo allora lo stregone guaritore lo permette, dicendo di provare il fetiche dei bianchi. Questi bambini sono per lo più molto piccoli, uno o due anni. Si tratta di lattanti che le madri non riescono a nutrire a sufficienza perché sono già loro denutrite o perché è cominciata per loro una nuova gravidanza inattesa, che compromette il completamento dell’allattamento del bambino che portano al seno.
     
    Nella pediatria questi bambini vengono sottoposti a terapia intensiva con fleboclisi e nutrizione forzata con sondino naso-gastrico, trasfusioni di sangue, eccetera e si salvano quasi tutti. I costi delle cure in questi 10-15 giorni sono abbastanza alti, almeno 200 euro (15 al giorno). Superata la fase acuta, i bambini, se non hanno altre malattie, vengono trasferiti nel Centro nutrizionale per una lunga convalescenza e ricostituzione fisica.
    Il Centro nutrizionale di Tanguiéta si trova di fronte all’ospedale dall’altra parte della strada ed è costituito da quattro abitazioni più un campement che serve ai parenti dei malati per fare da mangiare per sé e per i loro bambini. Il punto di riferimento è sempre la mamma, perciò il Centro nutrizionale si trova nella necessità di provvedere non solo al bambino denutrito, ma anche alla mamma e agli altri bambini che porta con sé.
    Esso è anche una scuola di alimentazione. Con i prodotti del suolo locale, che costano poco, si insegna alle mamme a far delle pappe che contengano proteine, vitamine, sali minerali e carboidrati in misura adatta allo sviluppo regolare dei loro bambini. Il latte in polvere di importazione europea, molto costoso, l’ospedale lo riserva ai casi strettamente necessari, ad esempio bambini molto piccoli, rimasti orfani della loro mamma.
     
    Quando i bambini si sono completamente ristabiliti, la mamma riceve un sacco di viveri adatti a far le pappe in modo da favorire il loro reinserimento nel villaggio. La nostra associazione anni fa, su invito della volontaria Rosanna Merlo, ha lanciato l’idea delle adozioni a distanza per il nutrimento e la ricostituzione di questi bambini del Centro nutrizionale: si aderisce con 62 euro l’anno.
    Le nostre adozioni sono anonime e collettive, perché i soldi non vanno ai bambini o alle mamme, ma al Centro nutrizionale che garantisce questo tipo di servizio. Su richiesta di fra Fiorenzo, proponiamo le adozioni a distanza anonime e collettive per salvare dalla morte di fame un bambino, sostenendo le cure intensive della pediatria nella fase acuta: servono 200 euro.
    Lotta contro l’AIDS
     
    Nella giornata del malato, l’11 febbraio 2005, il Papa ha inviato un messaggio a tutta la cristianità invitandola a farsi carico del grave problema sanitario dell’Africa. “L’Africa è un continente in cui innumerevoli esseri umani – uomini e donne, bambini e giovani – sono distesi, in qualche modo, sul bordo della strada, malati, feriti, impotenti, emarginati e abbandonati. Essi hanno un bisogno estremo di buoni Samaritani che vengano loro in aiuto”. “Tante malattie devastano il Continente, e fra tutte in particolare il flagello dell’AIDS,
    che semina dolore e morte in numerose zone dell’Africa”.
     
    Oggi in Africa l’Aids uccide più di qualsiasi guerra. Su circa 40 milioni di malati nel mondo, più di 25 si trovano in Africa. Su 3 milioni di morti, 2,2 sono africani, così come il 75% dei nuovi contagiati. Cifre spaventose, una gravosa ipoteca sul futuro di interi Paesi. Ma qualcosa si può e si deve fare, insieme, per dare una speranza all’Africa.
     
    Il medico chirurgo fra Fiorenzo Priuli, 39 anni di Africa negli ospedali dei Fatebenefratelli, esperto dell’O.M.S. per le malattie tropicali, fin dal 1988 ha ingaggiato la lotta contro l’A.I.D.S. la nuova peste dell’ umanità. Quando gli Africani colpiti dall’AIDS potevano accedere alle cure delle ditte farmaceutiche solo a pagamento, cosa possibile unicamente ai ricchi, fra Fiorenzo ha avuto il merito di scoprire e mettere a disposizione dei malati poveri la kinkéliba (combretum micranthum), un arbusto dalle cui foglie si ricava un decotto, utile per i sieropositivi in quanto rafforza le difese
    dell’organismo rallentando il processo di sviluppo della malattia e ridando ai malati la voglia di vivere e di lavorare.
     
    Quando l’O.M.S. (Organizzazione Mondiale della Sanità) nel 2002 ha prospettato la somministrazione dei medicinali antiretrovirali agli Africani, fra Fiorenzo si è battuto perché gli ospedali incaricati venissero provvisti di apparecchiature e personale specializzato in modo da fare diagnosi certe e controlli sistematici dei malati, come si fa da noi. Questo per evitare sia la faciloneria nella distribuzione, trattandosi di medicinali molto tossici, sia la discontinuità del trattamento che rafforzerebbe il virus invece di combatterlo.
     
    In seguito a ciò, nel 2004, i delegati dell’O.M.S. agenti sul territorio del Togo, del Benin, del Burkina Faso e del Niger hanno individuato quattro ospedali, facenti capo a Tanguiéta e a fra Fiorenzo, forniti di apparecchiature e personale specializzato per stabilire diagnosi certe, gravità della malattia (il famoso T 4), tolleranza dell’organismo, interventi tempestivi nella cura delle malattie opportuniste. Anche questa è una vittoria di fra Fiorenzo, il quale, grazie al dottor Paolo Viganò, aveva da tempo dotato gli ospedali di Afagnan e di Tanguiéta delle attrezzature e del personale tecnico adatto per fare diagnosi certe e controlli periodici rigorosi.
     
    Alla scelta di questo pool di ospedali da parte dell’O.M.S. per la cura di 400 malati di AIDS, ha fatto seguito la decisione dell’associazione benefica Solthis di Parigi di fornire gratuitamente i medicinali antiretrovirali per tre anni. Fra Fiorenzo con l’ospedale St. Jean de Dieu di Tanguiéta si è impegnato a prendere in cura 150 di questi malati, inserendoli gradualmente un po’ al mese per arrivare in tre anni a questa cifra. I malati di AIDS, che presentano le difese dell’organismo inferiori a 200 T4, vengono sottoposti alla triterapia, mentre i malati di HIV, ossia i sieropositivi, si spera non arrivino mai a questa soglia limite, grazie alla kinkéliba il cui impiego è autorizzato dall’O.M.S. per la sua comprovata efficacia nel sostenere le difese dell’organismo.
    Ma in Africa i progetti fatti a tavolino vengono normalmente stravolti dalla realtà dei fatti. Appena si è diffusa la voce che a Tanguiéta si curavano i malati di AIDS, una marea di oltre cinquecento malati si è riversata improvvisamente sull’ospedale di Tanguiéta mandando in tilt i servizi ambulatoriali. Fra Fiorenzo ha lanciato un grido di aiuto alla nostra associazione, la quale ha inviato subito un po’ di fondi per affrontare l’emergenza. Così egli ha potuto assumere personale nuovo, organizzare il ciclo mensile delle cure e un sistema di recupero con auto dei malati ritardatari all’appuntamento mensile.
    Attualmente (2008) nell’Ospedale di Tanguiéta i malati di AIDS sottoposti ai medicinali antiretrovirali mensili sono quasi 500 e quelli trattati con la kinkéliba sono circa 1.000: complessivamente sono quasi 1.500, ben 10 volte più del previsto!
     
    L’UTA si è fatta promotrice di una raccolta di fondi apposita proponendo la modalità dell’adozione del posto letto, tenendo conto che il costo medio giornaliero è di 15 euro.
    • 10 gg = € 150,00;
    • 30 gg = € 450,00;
    • 180 gg = € 2.700,00;
    • 365 gg = € 5.475,00.
    • Altri interventi dell’UTA Costruire degli ospedali in Africa è un grosso impegno, mantenerli è un sacrificio ancora maggiore.
    Far funzionare nel tempo delle strutture sanitarie in paesi così poveri richiede continui miracoli e l’UTA in questi anni ha cercato di porre le basi perché si realizzino giorno dopo giorno.
    L’UTA ha sempre avuto come fine primario assicurare dei fondi agli ospedali dei Fatebenefratelli nel Togo e nel Benin per i ragazzi poliomielitici, per i bambini denutriti, per i malati poveri di AIDS.
    Questi tre obiettivi restano i punti principali di riferimento degli aiuti dell’UTA agli ospedali africani pur realizzando altri progetti.
     
    All’inizio della nostra attività ci è stato segnalato il problema del pozzo di Afagnan che dava acqua salata. Abbiamo avuto la fortuna di conoscere il geologo Angelo Bernardi di Castelfranco Veneto, che tanti anni fa per conto dell’ONU ha studiato le mappe sotterranee del Togo e del Benin. Egli ci fece il progetto di una perforazione di 400 metri
    nel terreno dell’ospedale di Afagnan, con l’accorgimento di impermeabilizzare le falde superiori che sono salate. Nell’autunno del 2001 la bella notizia: finalmente è sgorgata l’acqua dolce per l’ospedale e per i due villaggi di Afagnan-ga e di Afagnan-bletta.
     
    Nel 1997 l’UTA ha erogato 20 milioni di lire per la ristrutturazione del reparto di radiologia dell’ospedale di Tanguiéta e nel 1999 altri 30 per la ristrutturazione del reparto di radiologia dell’ospedale di Afagnan.
     
    Nel 1998 è stato elargito un contributo 15 milioni di lire per la ristrutturazione dell’ospedale di Lunsar (Sierra Leone) distrutto dai guerriglieri.
     
    Nel 2000 sono stati erogati 70 milioni di lire per costruire una casa per i medici a Tanguiéta.
     
    Nel 2001 l’associazione ha raccolto fondi per costruire la scuola elementare cattolica di Tanguietà, onde poter garantire un’istruzione primaria ai ragazzi, ai figli dei medici e degli infermieri africani che lavorano all’ospedale. Con l’aiuto del Comune di Romano d’Ezzelino abbiamo raccolto 80 milioni di lire per la costruzione di sei aule scolastiche più il bureau delle classi elementari. Da allora l’UTA ha elargito anche diverse Borse di studio.
     
    Nel 2002 abbiamo dato 90 milioni di lire più altri 30 ottenuti dall’Associazione Memorial Marilena di Brescia, per la costruzione di due piccoli padiglioni del Centro sanitario di Porga.
     
    Nel 2004 un altro intervento è stato il finanziamento di 20.000 euro per l’acquisto di un generatore elettrico per l’ospedale di Afagnan. Quello per Tanguiéta ci è stato donato da Andrea Campagnolo. L’intervento si era reso necessario in seguito alla crisi della diga di Akosombo (Ghana). Ciò ha permesso di dare continuità all’alimentazione elettrica delle strutture e quindi di operare nelle giuste condizioni.
     
    Nel 2005/6 sono stati erogati € 20.000 per un’aula di scuola per i ragazzi malati lungodegenti di Tanguiéta ed inoltre € 33.000 per la costruzione di un laboratorio per la lavorazione delle erbe medicinali africane a Tanguiéta.
     
    Nel 2006 è stata finanziata con € 20.000 la trivellazione di un pozzo d’acqua potabile a Porga.
     
    Nel 2007 sono stati elargiti € 20.000 per la ristrutturazione del Centro nutrizionale di Tanguiéta in memoria della dottoressa Giovanna Binda dell’ospedale dei Fatebenefratelli di Erba.
     
    Nel 2008 si sta per procedere ad un grosso finanziamento per il rinnovo dell’impianto elettrico di Tanguiéta e poi si continuerà con la ristrutturazione della pediatria dell’ospedale di Afagnan e con un nuovo pozzo per Tanguiéta.
     
    All’assemblea dei soci dell’UTA Onlus, tenutasi a Romano d’Ezzelino domenica 30 marzo 2008, i soci ordinari, compresi i consiglieri, erano 46 con un incremento di quattro nuovi soci rispetto al periodo precedente. I soci benemeriti erano 182 registrando un incremento di 30 nuovi soci rispetto all’anno precedente.
     
    Gruppi formali e informali che aiutano l’UTA
     
    A Erba (Como) presso l’ospedale dei Fatebenefratelli per iniziativa del primario di Chirurgia dr. Stefano Savio, socio benemerito dell’UTA Onlus, è sorto un gruppo di medici e industriali che raccoglie fondi per la ristrutturazione e l’ampliamento del Centro nutrizionale di Tanguiéta per onorare la memoria della defunta dr.ssa Giovanna Binda. Il progetto è già stato realizzato. Le sorelle della dottoressa Binda, Antonietta e Gioconda, continuano nella raccolta dei fondi per i bambini africani ammalati della pediatria e del Centro nutrizionale.
    Sempre a Erba il dottor Giuseppe Perone, che da una decina d’anni va in Africa da fra Fiorenzo per fare operazioni agli occhi di adulti e di bambini altrimenti condannati alla cecità, ha lanciato un’iniziativa per aiutare l’ospedale di Tanguiéta. L’Università di Pavia e i Lions di Milano e della Brianza hanno creato un’Associazione intitolata al cattedratico di Pavia morto di recente prof. Francantonio Bertè con lo scopo di raccogliere fondi in parte per la ricerca scientifica dell’Università di Pavia e in parte all’UTA per i bambini malati poveri di Tanguiéta. Già sono arrivati all’UTA Onlus diversi bonifici.
     
    A Brescia prosegue la sua azione il gruppo informale che da qualche buon frutto, specialmente con tante adozioni a distanza dagli operatori dell’ospedale Sant’Orsola con il Concerto annuale di Gospel e la Lotteria dell’UTA.
    Un nuovo gruppo è sorto a Pian di Borno (Brescia), per iniziativa del dottor Roberto Cazzaniga, che va spesso in Africa da fra Fiorenzo. Con il parroco don Giovanni Isonni e Marisa Priuli, sorella di fra Fiorenzo, hanno dato all’UTA ONLUS un buon contributo e intendono continuare.
    La Caritas bresciana ha dato nel 2007 un buon contributo grazie ai panificatori bresciani, capeggiati dal signor Dangolini, amico di fra Fiorenzo e questo è migliorato nell’anno in corso: per costruire la nuova cucina di Tanguiéta.
    Anche il gruppo di Cervia, guidato dalla signora Fiorella Placucci, ha fatto delle belle iniziative a favore dell’associazione.
    Da non dimenticare il gruppo di Fonzaso, stimolato dalla nostra socia Anna Carraro.
    Il cantante di Putignano (Bari), Andrea Giglio, con la vendita di un suo CD ha dato, insieme con i suoi amici, un bell’aiuto per fra Fiorenzo.
    Don Ilario Cappi, Cappellano dell’Ospedale di Modena, oltre ad avere dato soldi nel 2007 e inviato infermieri in Africa da fra Fiorenzo, con il suo Gruppo missionario di Merano ha dato un forte contributo all’UTA per l’ospedale di Tanguiéta a favore dei bambini della pediatria e per la costruzione di un ambiente murario dove troverà collocazione l’apparecchio che produce ozono, offerto dal dottor Galoforo dell’Associazione O 3 for Africa di Brescia.
     
    Novità
     
    La prima novità assoluta dell’UTA consiste nel fatto che fra Fiorenzo all’inizio del 2007 ha cominciato a indirizzare alla nostra Associazione gli aiuti economici di varie Associazione e Fondazioni nazionali ed internazionali, e precisamente:
    - GENEVA FOUNDATION, di Ginevra: aiuti per la sala operatoria;
    -  UNIDEA, Fondazione di Unicredito, Milano – Ambulanza;
    -  ASSOCIAZIONE PASSERELLES, Francia, per lavori di sala operatoria;
    - FONDAZIONE CHARLEMAGNE, sezione italiana, per laboratorio fitoterapico.
     
    La scelta di fra Fiorenzo è stata determinata dal fatto che per lui era difficile gestire i rapporti con questi Enti; avere sempre sotto mano la situazione per quanto riguarda: i versamenti/contributi ricevuti, l’avanzamento dei lavori, le somme spese.
    Da quest’anno l’UTA è in grado di fornire a questi Enti lo stato della situazione con grande precisione e trasparenza.
    La seconda novità è che la Provincia Lombardo-
    Veneta dei Fatebenefratelli ha scelto la nostra Associazione come unico ufficiale gestore dei pagamenti delle fatture di medicinali e materiale sanitario destinato agli ospedali africani.
    Dal 2007 sia la Provincia Lombardo-Veneta sia l’UTA Onlus non accreditano più i versamenti di danaro sulla Banca di Parigi, di Afagnan e di Tanguiéta.
    La Banca Popolare di Marostica con cui opera l’UTA Onlus è stata incaricata di pagare le fatture emesse in Italia per acquisto di medicinali, materiale sanitario, materiale edilizio, eccetera per gli ospedali africani. Il Padre Provinciale stesso versa, ogni tanto, dei soldi (offerte ricevute e/o pensioni dei Religiosi anziani) sul conto bancario dell’UTA Onlus per pagamenti da effettuare.
    Per il direttivo e i soci dell’UTA Onlus è motivo di grande onore e soddisfazione godere la stima e la fiducia del Padre Provinciale, fra Giampietro Luzzato.
     
    Iniziative dell’UTA ONLUS
     
    La direzione dell’UTA Onlus invia trimestralmente una lettera circolare a circa 1.400 persone selezionate. Questa iniziativa serve a tenere informate le persone a noi affezionate su tutte le nostre iniziative, sulla vita associativa, sulla raccolta e sulla erogazione dei fondi e sulle notizie che ci arrivano dall’Africa. Ad ogni offerente viene inviata una lettera personale di ringraziamento; a richiesta, la direzione rilascia una dichiarazione ai fini della deduzione dalla denuncia dei redditi.
     
    Il calendario delle iniziative stabilito dal consiglio UTA è il seguente:
    la cena del radicchio trevisano in febbraio, la cena dell’asparago bianco di Bassano in aprile,
    la cena del pesce con l’aiuto della pescheria Luca Bertoncello di Cassola in novembre,
    la serata del vino novello a novembre presso le Cantine Dal Bello in Fonte Alto,
    la festa dell’UTA alla fine di marzo con la sottoscrizione a premi e l’assemblea annuale dei soci.
     
    A Romano d’Ezzelino ha preso l’avvio con grande successo la “Marcia del sorriso” che coinvolge le scuole medie e si ripeterà ogni anno l’11 novembre.
    Anche l’iniziativa di Nicola Farronato & C. “Back 2 Africa”, viaggia di successo in successo convogliando alla festa 5.000 giovani e ci fa ben sperare nel futuro.
    Il direttivo dell’UTA è impegnato a promuovere iniziative per valorizzare la figura di fra Fiorenzo Priuli, medico-chirurgo, 39 anni di Africa, consulente dell’O.M.S. per le malattie tropicali e insignito (2002) della “Legion d’Onore” a Lomé dall’Ambasciatore francese per benemerenza del lavoro svolto in Togo e in Benin. Inoltre, gli è stato attribuito il premio
    “Cuore Amico” a Brescia nel 2004.
     
    Con lui testimonial si è riusciti a far conoscere e diffondere l’UTA onlus mediante la stampa e la televisione non solo locale ma anche nazionale. Ne parla Telepace; RAI-TV primo canale nella rubrica: Dieci minuti di… RAI-TV secondo canale nella rubrica: Sulla via di Damasco… Tutto questo grazie all’interessamento di fra Marco Fabello, Direttore Generale dei due ospedali Fatebenefratelli di Brescia e Direttore della Rivista Fatebenefratelli.
     
    Mediante le conferenze di fra Fiorenzo, organizzate dall’UTA, nel periodo che passa in Italia, abbiamo fatto conoscere i problemi degli ospedali africani e il sostegno economico
    che da loro la nostra Associazione benefica, non solo a Romano Ezzelino e zone limitrofe, ma anche nelle altre case della Provincia Lombardo-Veneta, all’ospedale di Melegnano,
    all’istituto del Pime (Milano) e perfino a Roma all’istituto Padre A. Gemelli e in Campidoglio.
    Nel decimo anniversario della sua fondazione l’UTA ha provveduto alla pubblicazione di un libro per far conoscere i bisogni della gente africana delle zone di influenza dei nostri due ospedali di Afagnan nel Togo e di Tanguiéta nel Benin ed anc he tutto quello c he ha f atto la nostr a Associazione benefica a favore dei malati di questi ospedali. Siccome 10 di noi nel 2001 sono andati nel cuore dell’Africa per rendersi conto della situazione e dell’opera che svolgono gli ospedali dei Fatebenefratelli e sono tornati sconvolti dalle miserie che hanno visto, ma anche decisi a darsi da fare sul serio per aiutare i malati poveri, specialmente bambini, di comune accordo l’abbiamo intitolato Africa nel cuore. Ne abbiamo fatto una prima presentazione a Romano nel 2006 con il giornalista Elio Cadelo, amico di fra Fiorenzo, che continua a parlare di noi su RAI radio uno nella rubrica “Pianeta
    dimenticato”. Con i LIONS della Pedemontana di Asolo siamo riusciti anche a farne una presentazione (2007) a Roma in Campidoglio di fronte al vicesindaco Maria Pia Garavaglia. Questo libro è per noi oggi un significativo biglietto da visita per trovare nuovi aderenti e benefattori.
     
    In conclusione, la nostra associazione è in continua crescita per l’arrivo di nuovi soci ordinari, di nuovi soci benemeriti e di un buon numero di nuovi offerenti.
    Nella raccolta e nell’erogazione dei fondi, ogni anno superiamo largamente la quota degli anni precedenti, fino al superamento della soglia dei € 500.000,00. Tutto questo grazie all’impegno dei soci per sostenere le iniziative tradizionali e per crearne sempre di nuove. Di questo ringraziamo il Signore, ma anche tutti coloro che in vario modo ci aiutano nel raggiungimento delle nostre finalità umanitarie.
     
    Ufficio Missioni
     
    La Provincia Lombardo-Veneta dei Fatebenefratelli, che ha fondato gli ospedali di Afagnan nel 1961 e di Tanguiéta nel 1970 ha sempre compiuto un rilevante sforzo per far funzionare questi ospedali e curare davvero i malati poveri. Per il tempo degli inizi posso dare la mia testimonianza diretta in quanto sono stato incaricato di provvedere a inviare medici, infermieri professionali, medicinali, materiale sanitario, eccetera. Ho fatto anche due viaggi e soggiorni in Africa per rendermi conto delle necessità (1971/72 ). Con l’invenzione dei containers la spedizione delle merci è diventata sicura e non si sono più avuti furti o rotture di casse.
     
    Negli anni ottanta la curia provinciale ha visto la necessità di creare un ufficio delle missioni e l’ha affidato al signor Elvio Basile, che aveva maturato precedenti esperienze con i Padri Comboniani.
    La Banca dell’UTA, per volere del Padre Provinciale, fra Giampietro Luzzato, paga tutte le fatture di medicinali e materiale sanitario, ma la preparazione dei containers e le pratiche giuridiche e burocratiche delle spedizioni le svolge l’ufficio missionario.
     
    Ospitalità a servizio dell’evangelizzazione
     
    Lo scopo primario dell’azione ospedaliera dei Fatebenefratelli è sempre e dappertutto l’annuncio del Regno di Dio: l’amore misericordioso del Padre che si manifesta nei “segni” di amore dell’ospitalità svolta dal nostro Ordine ospedaliero. Questa testimonianza di amore per i malati, i poveri e i bisognosi l’Ordine ospedaliero attualmente la svolge in circa 300 opere di tutto il mondo, di cui oltre 50 sono nei Paesi in via di sviluppo.
     
    I Fatebenefratelli hanno sempre davanti l’esempio di Gesù nel compimento della sua azione messianica a favore degli oppressi, dei poveri, dei malati, degli emarginati, nonché il carisma dell’ospitalità del loro fondatore San Giovanni di Dio (1495-1550), uomo ricco di umanità, vero discepolo di Gesù e lo propongono come modello da imitare ai loro collaboratori e a tutti i cristiani La cura dei malati è per il Cristianesimo come un biglietto da visita. Essa mostra con i fatti la bontà del Dio dei cristiani. I Fatebenefratelli in Africa curano i malati, specialmente quelli poveri. Questo fatto parla da solo e fa riflettere la gente: “Perché queste persone non lavorano per fare soldi, ma unicamente per fare del bene a gente che ne ha bisogno?”
    Il vescovo di Natitingou, mons. Pascal Nkoue, ha riconosciuto ufficialmente che la carità che si esercita nell’ospedale dei Fatebenefratelli di Tanguiéta è alla base di tante con versioni al cattolicesimo nella sua Diocesi.Visitando gli ospedali africani, abbiamo notato che durante le cerimonie religiose la chiesa è sempre gremita di gente. Non sono tutti cristiani, anzi la maggior parte non lo è affatto, ma si tratta di gente che vuole esprimere la propria ammirazione e riconoscenza verso la bontà del Dio dei cristiani.
     
    La scelta degli ultimi
     
    Quando nel 1960 i Fatebenefratelli hanno deciso di andare a curare i malati in Africa, hanno fatto delle scelte ben precise:
    - Hanno deciso di fare degli ospedali veri e propri, e non soltanto dei dispensari, perché solo così si possono salvare delle vite umane.
    - Hanno costruito gli ospedali nelle zone povere e sguarnite di assistenza, indicate dalle autorità locali e li hanno attrezzati a dovere.
    - Hanno deciso di andare a curare i malati poveri, seguendo l’esempio del loro Santo Fondatore Giovanni di Dio. I ricchi potevano farsi curare anche senza l’intervento dei Fatebenefratelli.
     
    La scelta dei Fatebenefratelli è stata coraggiosa ed impegnativa. Curare i malati poveri, infatti, comporta l’impegno a reperire fondi in continuazione, anno per anno per coprirne le spese. E vi assicuro che non è mai stato facile.
    Ci sono degli enti (istituti religiosi, fondazioni, ong, onlus, eccetera) che finanziano e/o realizzano progetti di ospedali, di dispensari, ma poi nessuno si prende cura di farli funzionare e così in breve tempo diventano regno delle scimmie e dei topi. Ma i Fatebenefratelli, curano davvero i malati poveri.
    Citiamo la testimonianza del nostro missionario fra Gilberto Ugolini, intervistato dalla TV di Bassano del Grappa nel mese di marzo 1998, poco dopo la sua liberazione dalle mani dei guerriglieri della Sierra Leone: “Dai nostri ospedali non è mai stato respinto nessuno perché non aveva soldi da pagare”. Ma qualcuno dirà: “A più di quarant’anni dall’indipendenza, non sono migliorate le condizione di vita della gente del Togo e del Benin?”
    Veramente si sono verificati tanti miglioramenti: ci sono religiosi africani in buon numero; ci sono medici e infermieri africani; è in atto una graduale emancipazione dell’Africa dalla Provincia–madre, mediante la creazione della Provincia Africana, guidata da fra Robert Chakana. Ma la situazione economica del Togo e del Benin dall’indipendenza ad oggi è sempre peggiorata. Basti dire che la moneta locale, legata al Franco francese, alla fine degli anni ottanta è stata svalutata del 50%. Questo significa che da un giorno all’altro la gente si è ritrovata il doppio più povera di prima.
    Anche attualmente si teme una svalutazione di grosse dimensioni. Fra Fiorenzo ci ha avvertito di non inviare soldi sui conti correnti bancari degli ospedali in Africa, ma di tenerli nella nostra Banca in Italia: ci invierà qui le fatture da pagare, a scanso di brutte sorprese.
     
    Solidarietà umana e carità cristiana
     
    La solidarietà trae le sue origini dal fatto che siamo tutti uguali, tutti della medesima natura con i medesimi diritti e doveri. Nella società civile si è sviluppata molto la filantropia, l’aiuto dei ricchi verso i poveri fatto spontaneamente. Tanti ospedali, orfanotrofi, case di r iposo per anziani de vono la lor o origine alle donazioni di uno o più benefattori. Grazie a questi grandi benefattori, tanti istituti religiosi, hanno potuto curare i malati, assistere i vecchi, gli orfani e dare un’istruzione ai poveri.
    L’UTA per statuto è aperta a tutti, basta che siano sensibili alle necessità dei poveri. Di fatto però è costituita per la stragrande maggioranza da gente laica cattolica e nel programma della festa annuale è sempre inserita la S. Messa. Con tutto il rispetto di chi non è praticante, o fa fatica a credere, o crede ma non si identifica tanto con questa Chiesa storica, ritengo opportuno anche dire che cosa aggiunge di significativo lo spirito cristiano nella pratica della solidarietà, qual è il suo valore aggiunto. Cristo ci ha rivelato il vero volto di Dio, che è Padre buono e misericordioso verso tutti gli uomini e chiama tutti a far parte della sua famiglia, a vivere nella fiducia e nella gioia dei figli di Dio. Dal dono della figliolanza divina pervenutaci attraverso la fede, il Battesimo e il dono dello Spirito deriva la fratellanza umana. Tutti i credenti in Dio e in Gesù Cristo costituiscono un solo corpo che è la Chiesa, di cui Cristo è il Capo (1Cor 12, 12 ss).
     
    Come dobbiamo amare i fratelli? Come li ama Dio! Quindi, quanto a estensione, dobbiamo amare tutti, anche quelli che noi definiamo nostri nemici, perché Dio non ha nemici, ma solo figli da salvare. Inoltre, quanto a intensità, dobbiamo amare i fratelli come fa Dio con noi. Dobbiamo, perciò, amare il prossimo con amore gratuito, che non si aspetta ricompensa: aiutare anche economicamente quelli che non hanno la possibilità di restituire, quindi i poveri, i malati, i bisognosi. Noi aspettiamo la nostra ricompensa da Dio,
    alla fine dei tempi, perché l’elemosina che facciamo, la facciamo a Cristo presente nei poveri e nei sofferenti (Mt 25, 34-36).
     
    La tradizione cristiana più genuina, per tutti i secoli passati, ha realizzato quello che sinteticamente ha indicato san Giovanni Crisostomo: “Vuoi onorare il Corpo di Cristo? Non trascurarlo quando si trova nudo. Non rendergli onore qui nel tempio con stoffe di seta per poi trascurarlo fuori, dove patisce freddo e nudità. Infatti colui che ha detto “questo è il mio corpo” è il medesimo che ha detto “voi mi avete visto affamato e mi avete nutrito”… “A che serve che la tavola eucaristica sia sovraccarica di calici d’oro, quando Lui muore di
    fame?”.
     
    Associazioni che aiutano i Fatebenefratelli
     
    A sostegno della Provincia Lombardo-Veneta ci sono quattro associazioni benefiche onlus che aiutano gli ospedali africani. Queste per loro natura e per statuto sono aperte a tutte le persone di buona volontà: quindi non sono politiche, non sono religiose, non hanno il minimo scopo di lucro; sono libere, autonome e si basano sul volontariato; la loro finalità
    principale è quella di raccogliere fondi per finanziare progetti di supporto e di aiuto agli ospedali africani di Afagnan e di Tanguiéta.
     
    AMICI DI TANGUIETA,Presidente Carloluigi Giorgetti, fondata il 9 ottobre 1984 con sede in Milano, Via San Vittore, 12. Si occupa principalmente della formazione del personale medico e infermieristico. Ha finanziato progetti significativi: pediatria di Tanguiéta, case per i medici, casa di accoglienza, eccetera.
     
    UNITI PER TANGUIETA E AFAGNAN = U.T.A. Presidente dr. Marzio Melandri, fondata a Bassano del Grappa (Vicenza) il 5 settembre 1996 con sede in Via Ca’ Cornaro, 5 a Romano d’Ezzelino. Si occupa principalmente del recupero dei bambini poliomielitici,
    dei bambini che rischiano di morire di fame e dei malati di A.I.D.S.
     
    GRUPPO VOLONTARI OSPEDALIERI PER L’AFRICA = G.V.O. Presidente Mauro Rosa, fondata nel 1997 con sede in Ponti sul Mincio (Mantova). Un gruppo di ortopedici che spesso vanno ad aiutare fra Fiorenzo Priuli specie per i poliomielitici.
     
    GRUPPO SOLIDARIETÀ AFRICA = G.S.O. Presidente dr. Paolo Viganò, costituita nel 1997, anche se operante da tempo, con sede a Seregno (Milano). Un gruppo di medici che ogni tanto va ad aiutare fra Fiorenzo Priuli. Come virologi hanno fatto ricerche sull’A.I.D.S. in Africa, fornito attrezzature di laboratorio analisi e formato personale tecnico.
    Queste quattro Associazioni benefiche, diventate poi onlus nel 1998, ossia organizzazioni non lucrative di utilità sociale, si sono federate tra di loro per finanziare progetti in comune a favore degli ospedali africani, perciò il 27 ottobre 1997 hanno costituito la FAMAF = Federazione Associazioni missioni africane Fatebenefratelli con sede a Milano,Via San Vittore, 12 con presidente il dr. Franco Poggio.
     
    Al convegno di Monguzzo (Como), 11-13 giugno 1999, ci siamo resi conto “de visu” che ci sono altri gruppi che aiutano gli ospedali africani: in Svizzera, in Francia e in Olanda. La Provvidenza è veramente grande!
     
    Storia del pozzo di Afagnan (Togo)
     
    La storia del pozzo di Afagnan assomiglia un po’ ai fioretti di San Francesco: una serie di vicissitudini, che aggravano sempre più la situazione, e finalmente un finale in gloria per l’intervento inaspettato e provvidenziale di un “deus ex machina” che risolve il problema quasi con la bacchetta magica. Mi riferisco unicamente alle mie conoscenze, altri magari potrebbero aggiungere tante altre cose. Quando sono andato in Africa la prima volta nel 1971 il Padre Priore di Afagnan, fra Onorio Tosini, mi ha portato a visitare il pozzo. Nella zona bassa del paese, verso il fiume Mono, era stata effettuata molti anni prima dai francesi una trivellazione di alcune centinaia di metri che faceva sgorgare acqua in abbondanza. Ho visto all’esterno del pozzo una grossa pozza dove molte mamme lavavano i loro bambini e tanti ragazzetti facevano il bagno. Mi fu detto che gli africani non usavano lavarsi ogni giorno solo la faccia come fanno tanti di noi, ma: o tutto o niente! E là, avendone la possibilità, si lavavano abbondantemente ed era una gioia vederli perché si divertivano come ad una festa.
     
    Per portare l’acqua all’ospedale c’era una pompa e una conduttura abbastanza lunga. L’ospedale comunque era ben rifornito. Veniva riempito il chateaux d’aux e tanti serbatoi sul tetto, per cui aveva anche una certa autonomia in caso di guasto alla pompa.
    Il pozzo dei francesi un triste giorno franò e di acqua non ne uscì più neanche una goccia.
    Le autorità civili si mossero e fecero fare un’altra perforazione, ma la malasorte volle che uscisse acqua salata. Diciamo malasorte, ma poi vedremo che fu ignoranza e presunzione di sapere le cose senza documentarsi.
     
    L’acqua salata creò problemi sanitari nei due villaggi di Afagnan-ga e Afagnan Bletta, primo fra tutti la pressione alta. L’acqua salata usata in ospedale per le pulizie del pavimento corrodeva i piedi dei letti dei malati. Sia l’ospedale che la popolazione dovevano andarsi a rifornire di acqua potabile più lontano con grave disagio. Presso l’ospedale trovarono facile mercato i venditori di acqua potabile. Tramite la Croce Rossa Italiana arrivò ad Afagnan un impianto di desalinizzazione che, alla prova dei fatti, si rivelò troppo sproporzionato per le esigenze idriche da soddisfare e così oneroso che ogni litro d’acqua costava come una bottiglia di champagne. Così, nel 1997 arrivò a Romano d’Ezzelino fra Fiorenzo Priuli e sottopose alla neonata UTA il progetto di un pozzo a 11 chilometri di distanza, più conduttura d’acqua e rete elettrica dal costo di un miliardo di lire.
     
    Dopo un primo impatto scioccante, ci siamo dati da fare.
    Tramite l’amico comune ing. Giuseppe Mozzi, riuscimmo a portare da noi a Romano il geologo Angelo Bernardi di Castefranco, che molti anni addietro aveva studiato le mappe sotterranee delle falde acquifere del Togo e del Benin. Appena gli abbiamo spiegato il problema, gli venne in mente di essere stato all’ospedale di Afagnan e di essere stato ben accolto da un frate, che gli aveva offerto perfino uno spuntino di pane e soppressa. Noi in quel frate così ospitale abbiamo ravvisato subito la figura del Priore, l’amegan fra Onorio Tosini.
    Poi ci disse, quasi meravigliato: “Perché volete andare a cercare l’acqua così lontano, quando ce n’è in sovrabbondanza proprio sotto l’ospedale?”.“Ma è salata!” – gli rispondemmo in coro.“No! – disse – è salata solo la falda superiore, ma se si va giù fino a tre-quattro cento metri, si trova l’acqua del mestriziano, l’acqua che scendendo dai monti verso il mare lungo la roccia sotterranea, si è accumulata sotto la sabbia ed ha una forte pressione per cui facendo una perforazione essa sale fino a 50 metri dal livello del terreno. Per cui le pompe basta  metterle poco più giù di quel livello. Il vero problema era quello di impermeabilizzare le falde superiori durante la perforazione in modo che non inquinassero l’acqua della falda inferiore. Se sgorgava acqua salata dalla perforazione in attività, era perché la ditta che aveva eseguito i lavori non aveva usato questo accorgimento.
     
    Nel parlare delle pompe fra Fiorenzo disse che ce ne volevano due per dare l’acqua non solo all’ospedale ma anche ai due villaggi. Sentendo questo Angelo si illuminò in volto e disse: “Voi sì che lavorate bene! Ho fatto tanti pozzi per i musulmani quand’ero in Africa, ma essi non hanno mai dato una goccia d’acqua a nessuno che non fosse dei loro. Perciò il progetto ve lo faccio gratis.
     
    Finalmente la “Cooperation Francese”, vedendo che il progetto riguardava non solo un ospedale privato, ma anche due villaggi del Togo, lo considerò un’opera sociale di sviluppo che rientrava nelle sue competenze. E fece tutto a sue spese.
    Così, finalmente, verso la fine del 2001, fra Fiorenzo ci comunica la bella notizia che il pozzo di oltre 300 metri di profondità, scavato nel terreno dell’ospedale, ha cominciato a sgorgare. La sua acqua dolce, senza traccia alcuna di sale, è migliore di quella minerale, se ne può pompare quanta se ne vuole, perché la sorgente è praticamente inesauribile.
     
    Scuola elementare di Tanguiéta (Benin)
     
    Negli anni ‘80 nel Benin le scuole cattoliche erano state chiuse perché lo Stato con gli aiuti della Russia aveva reso obbligatoria a tutti la scuola pubblica. Nel 1989 con la caduta del muro di Berlino, la Russia cessò di dare aiuti ai Paesi africani e le scuole morirono perché gli insegnanti non pagati smisero di insegnare.
    Fra Léopold Gnami ci ha fatto presente la richiesta del vescovo di Natitingou, mons. Pascal Nkoue, che oltre a rispondere a un’esigenza dei cattolici, soddisfaceva a un diritto fondamentale della popolazione e favoriva la continuità della presenza di medici e infermieri nell’ospedale di Tanguiéta perché offriva l’istruzione dell’obbligo ai loro bambini.
    Questo fatto ha convinto l’U.T.A. a realizzare il progetto della Scuola elementare di Tanguiéta con un finanziamento di £ 80 milioni.
    Il Comune di Romano d’Ezzelino, usufruendo della Legge dell’8 per mille riguardante gli Enti locali, ha finanziato la costruzione di un’aula (su sei) di detta scuola. Ma la cosa più bella e sorprendente l’hanno compiuta i ragazzi delle scuole elementari e medie di Romano. Sotto Natale hanno fatto le loro mostre-mercato ed hanno raccolto una considerevole somma per la scuola elementare.
    Da lì poi è sorta l’idea dei nostri ragazzi di continuare ad aiutare i loro coetanei africani con l’invio di materiale scolastico ed anche giocattoli. Da diversi anni, infatti, dietro indicazione di fra Fiorenzo, i ragazzi forniscono i soldi per pagare il maestro che coadiuva con suor Carmen all’insegnamento nella piccola scuola, finanziata dall’UTA e situata accanto alla pediatria dell’ospedale, a favore dei ragazzi malati lungodegenti.
    Padiglioni del Centro sanitario di Porga (Benin)
     
    Sulle ali dell’entusiasmo per il successo ottenuto con la scuola elementare, l’U.T.A. ha accolto la richiesta di fra Léopold Gnami di finanziare la costruzione di due piccoli padiglioni del centro sanitario di Porga per la somma di € 60.000 nell’arco di due anni. Porga è un villaggio che sorge a 65 chilometri a Nord-Ovest di Tanguiéta, al confine con il Burkina-Faso.
    Questo nuovo centro sanitario farà da filtro all’ospedale di Tanguiéta per i casi più leggeri di malati del Nord del Benin e del vicino Burkina Faso. Il progetto nasce dalla storia commovente dell’anziano Capo villaggio di Porga, di nome Kah Kiansi, un lebbroso curato e tenuto in vita a lungo da fra Fiorenzo. Questo capo villaggio ha concesso un grande appezzamento di terreno all’ospedale di Tanguiéta perché i Fatebenefratelli facessero un piccolo ospedale al suo paese. Siccome poi in quella zona si faceva il mercato, cosa importantissima per il villaggio, ma di grande disturbo per un ospedale, egli è riuscito a convincere la popolazione a spostare il mercato dalla parte opposta.
     
    Verso la fine del 2003 il suo sogno è stato realizzato. Peccato che non sia riuscito a vederlo con i suoi occhi essendo nel frattempo deceduto. Ma il suo merito rimane comunque. A Porga all’inizio funzionava un dispensario che lavorava principalmente per le mamme. Così abbiamo visto Porga nel mese di agosto 2001. Era in costruzione la maternità con un finanziamento dell’associazione svizzera “Frères des nos frères”.
    Con l’intervento dell’UTA, aiutata dall’associazione bresciana “Memorial Marilena” si è poi costruita la pediatria e il reparto di degenze per adulti.
     
    Volontariato gratuito o retribuito
     
    Gli Italiani sono molto sensibili e generosi, ma poi si chiede preoccupata: Questi soldi arriveranno a destinazione? E poi, quanti ne arriveranno davvero?
    La maggiore preoccupazione riguarda proprio la gestione di questi fondi. Infatti i nostri missionari ci riferiscono che i funzionari della FAO e dell’UNICEF ricevono stipendi da nababbi, viaggiano con macchine di lusso, alloggiano in alberghi di cinque stelle, hanno insomma un tenore di vita lussuoso che stride enormemente con la miseria delle popolazioni tra le quali vengono mandati. È uno scandalo che fa ricordare il ricco epulone e il povero Lazzaro del Vangelo!
     
    La conclusione è tremenda ed è documentata dai bilanci annuali di queste organizzazioni: l’UNICEF divora per l’apparato organizzativo il 60% delle risorse stanziate dall’O.N.U. e la FAO, peggio ancora, se ne mangia l’80%! L’anno scorso la FAO ha minacciato di dichiarare fallimento!
    In questi giorni è contestata dai poveri del terzo mondo, perché non fa nulla per loro (aprile 2008). I funzionari di queste grandi organizzazioni si godono la vita alle spalle della povera gente!
     
    Cari lettori, notate bene la differenza tra gli organismi basati sulla professionalità stipendiata e quelli basati sul volontariato, come la nostra associazione onlus U.T.A.
    La nostra associazione è giovane e piccola, ma i fondi che raccoglie li invia interamente alla destinazione prefissata. I bambini malati sono al centro della nostra attenzione, noi non teniamo niente per l’organizzazione, non abbiamo segretarie stipendiate, non ci sono gettoni di presenza per i Consiglieri, non ci sono premi di produzione per i Soci più attivi. Se qualcuno di noi va in Africa a visitare gli ospedali si paga il viaggio e si sdebita dell’ospitalità dei Frati lasciando in Africa anche il guardaroba leggero che si era comprato per l’occasione.
     
    Piccola scuola adiacente alla pediatria di Tanguiéta
     
    Terminata la scuola cattolica elementare di Tanguiéta, ci siamo resi conto che l’ospedale aveva esigenza di un’altra scuola per i ragazzi lungodegenti della pediatria dell’ospedale di Tanguiéta. Nel mese di giugno del 2003 sono passato da Tanguiéta con fra Luigi Galatà le Suore che gestiscono la scuola elementare, che è stata intitolata a un missionario importante della zona: Père Chazal ci hanno invitato a pranzo e ci hanno fatto una bella festa.
    Tornati all’ospedale abbiamo visto nella pediatria suor Carmen che, nelle prime ore del pomeriggio, insegnava a diversi gruppetti di ragazzi, in gran parte con le gambe ingessate: e tutti scrivevano su un foglio di carta, ma per terra. Abbiamo ammirato l’impegno con cui allievi e insegnante svolgevano il loro lavoro. Nessuno ci ha detto nulla, ma ci è apparsa evidente la necessità di un’aula scolastica per questi ragazzi.
     
    Nel frattempo a Riese Pio X (Treviso), un giovane diciassettenne mentre rincasava con la sua moto perde la vita in un incidente stradale, lasciando i genitori e la sorella nella costernazione. Dopo un po’ di tempo, passata la rabbia e la disperazione, i genitori pensano di fare qualcosa di buono per onorare la memoria del loro figliolo Stefano.
    I coniugi Trevellin si incontrano a Romano d’Ezzelino con fra Fiorenzo e, dietro suo suggerimento, decidono di finanziare con € 20.000 la costruzione di una grande aula scolastica adiacente alla pediatria di Tanguiéta, che è entrata in funzione nel 2006.
     
    Medicina tradizionale africana
     
    Qui conviene sentire la testimonianza diretta di fra Fiorenzo dr. Priuli. Malgrado le nuove possibilità di cure offerte dai nostri ospedali fin dalla loro apertura, più del 90% degli ammalati continuarono ed in parte continuano a ricorrere prima di tutto alle cure indigene più o meno enfatizzate da cerimonie animiste.
    I nostri primi approcci alla medicina praticata dai guaritori, risalgono all’inizio degli anni ‘80. In effetti, non ci volle molto per renderci conto che, malgrado molte cure fossero deleterie e pregiudicassero gravemente la nostre possibilità di curare, alcune erano a volte incredibilmente efficaci, quasi miracolose ed ottenevano risultati in malattie per noi praticamente incurabili.
    Alcune malattie erano ed in parte restano con l’etichetta “non da ospedale” e tra queste gli itteri (le epatiti) al punto che se un paziente contraeva un ittero durante il ricovero, la famiglia domandava di lasciarlo uscire per continuare le cure a casa… ed effettivamente nel giro di pochi giorni l’ittero spariva ed il paziente ritornava a stare bene!
     
    A poco a poco, l’amicizia con qualche guaritore ed i legami specialmente con le monache cistercensi del monastero de l’Etoile (Parakou) che già coltivavano certe piante, ci portarono a proporre ai malati sofferenti di malattie epatiche anche senza ittero prima la tisana del kinkueliba (o kinkéliba) e poi la famosa polvere gialla i cui nomi scientifici sono: combretum micranthum e cochlospermum tinctorium.
     
    Combretum micranthum (C.M.)
     
    Si tratta di un arbusto che cresce spontaneamente nella savana soprattutto dell’Africa occidentale. Nella stagione delle piogge dà foglie e frutti che diventano poi rossicci e seccano al sopraggiungere della stagione secca. Ma più sovente sono distrutte dai fuochi della savana che divampano spesso appena arriva l’Armatan.
    Benché anche le radici del combretum abbiamo proprietà terapeutiche, noi fin dell’inizio utilizziamo solo le foglie sia verdi e fresche che essiccate all’ombra o nella macchina di disidratazione in modo che non perdano nessuna delle proprietà terapeutiche.
    Il Combretum Micranthum è una pianta che è stata assai studiata dai farmacologi specialmente francesi che con vari metodi sono arrivati ad estrarre vari principi attivi interessanti. Inoltre non è stata messa in evidenza tossicità alcuna.
    Usato dai guaritori soprattutto per curare le crisi di malaria e per la cura dell’“ittero” in generale, nei nostri ospedali è stato per vari anni “la tisana per le malattie del fegato” e questo con molto successo fino ad oggi… comprovato da risultati biochimici che mostrano la quasi costante normalizzazione della bilirubinemia e della transaminasi (SGPT).
     
    Fin dal 1990 noi abbiamo associato l’uso della tisana di C.M. nelle terapie volte a curare gli ammalati di AIDS in ragione del fatto che l’infezione HIV è spesso associata è Epatiti B e/o C. Ma è grazie alle ricerche del dr. Pino Ferrea, infettivologo e ricercatore genovese, medico volontario a Tanguiéta con la moglie pediatra all’inizio degli anni ‘80, che avendo sperimentato nella propria famiglia (moglie e figlioletto) i benefici effetti della tisana di C.M. rientrato in Italia ha iniziato delle ricerche sulle proprietà terapeutiche della pianta.
    Nel corso di queste ricerche è stato scoperto e confermato che, in vitro, l’estratto delle foglie del C.M. è molto attivo contro i virus dell’epatite B, dell’erpes simplex ed infine del virus HIV.
    È dunque a partire da questa scoperta che il C.M sotto forma di tisana è utilizzato non solo per le epatiti ma anche nei pazienti sia semplicemente HIV positivi che per gli ammalati che non rientrano nei parametri che impongono l’introduzione degli antiretrovirali oppure di pazienti che per questioni diverse non possono avervi accesso. Grazie al dr. Paolo Viganò, collega ed amico del dr P. Ferrea, ed al G.S.A (Gruppo solidarietà Africa) cui fanno capo un gruppo di esperti, tecnici e volenterosi, in questi ultimi cinque anni un laboratorio ben attrezzato sta monitorando i risultati di questa terapia che sta suscitando interesse e speranza specie nei colpiti dall’infezione di HIV. Spesso possono loro stessi reperire la pianta poco lontano da casa. (Il rimedio di molte malattie è spesso vicino ai malati ma non è conosciuto).
     
    Cochlospermum tinctorium (C.T.) + cochlospermum planchoni (C.P.)
     
    Si tratta di due piante molto vicine per morfologia, per struttura e che hanno in comune un bellissimo fiore giallo. Sono delle piante della regione delle savane e del Sahel. Il Cochlospermum Tinctorium ha la caratteristica di dare un fiore o dei mazzetti di fiori a raso del suolo, proprio quando la savana è completamente disseccata e spesso dopo che è passato quello che chiamano “le feu de brousse”. Su una terra fissurata dalla siccità, questo fiore giallo continua a fiorire per circa due mesi e poi dà luogo ad un piccolissimo arbusto che non oltrepassa 30 centimetri, che poi viene a sua volta bruciato con l’arrivo della siccità.
    Il Cochlospermum Planchoni invece, è una pianta a morfologia molto simile, ma che nasce come piantina che cresce fino a quasi un metro di altezza all’inizio della stagione delle piogge e che all’inizio del mese di agosto fino all’arrivo della stagione secca, continua a dare un fiore molto simile a quello del Cochlospermum Tinctorium ma sulla cima di ogni stelo.
    Il principio medicinale che utilizziamo è tratto dalle radici di queste due piante, le cui radici sono alquanto profonde, spesso molto voluminose e praticamente costituiscono il serbatoio d’acqua che permette ai fiori di fiorire come proprio se fossero in un vaso di acqua quando nell’ambiente ci sono temperature di oltre 40 gradi e un tasso di umidità che a volte scende fino al 15%.
    Le radici, una volta estratte dalla terra, se sono tagliate hanno un colore bianco che immediatamente diventa color rosso d’uovo. Ripulite della corteccia, le radici sono messe a seccare all’ombra, poi sono triturate e la polvere che ne esce costituisce il medicinale che noi utilizziamo.
    La preparazione di questa polvere, viene realizzata con non poca fatica durante la stagione secca, in quanto il suolo è difficile da scavare per poter estrarre le radici. Però il clima secco favorisce una rapida essiccazione delle radici ed evita che, durante il periodo di essiccazione, delle muffe possano contaminarla. La polvere è poi conservata in contenitori ermetici e messa nei sacchetti o nei flaconcini quando vuole essere messa alla disposizione dei malati. Tanto il C.M. che il C.T. non hanno assolutamente bisogno di essere conservati in frigo o al fresco! Qui sono conservati a temperature che frequentemente superno i 40°. Evitare solo l’umidità! Sono ormai una ventina di anni che noi utilizziamo regolarmente la polvere di queste due piante per la cura delle epatiti, sia da sole che in associazione con la tisana del Combretum Micranthum.
     
    Degli studi sono stati condotti su questa sostanza e soprattutto nell’istituto di farmacologia di Milano sono state tirate delle conclusioni che praticamente lo danno come un’eccellente sostanza per curare gli effetti dell’epatite B e dell’epatite C in particolare. Sappiamo da ricerche fatte in internet su questa pianta, che ha anche un’azione molto importante nella cura della malaria e di malattie virali. Nei nostri ospedali Saint Jean de Dieu di Afagnan e di Tanguiéta, l’utilizzo di questa polvere, è stato più volte preceduto e seguito da controlli in modo particolare delle transaminasi e della bilirubinemia. I risultati sono stati costantemente buoni e questo anche dopo brevi cicli di terapia di 10-15 giorni. Numerosi pazienti anche europei hanno avuto lo stesso riscontro quando hanno utilizzato la polvere del Cochlospermum Tinctorium e/o del Cochlospermum Planchoni per la cura di epatiti che non rispondevano ad altre terapie.
    Oggi, negli ospedali di Saint Jean de Dieu di Tanguiéta e di Afagnan, praticamente le sole sostanze utilizzate per la cura delle epatiti, restano il Combretum Micranthum, il Cochlospermum Tinctorium e il Cochlospermum Planchoni ! ( Fra Fiorenzo dr. Priuli )
     
    Oltre a queste medicine per le epatiti, fra Fiorenzo ha messo a disposizione dei malati italiani anche: Platanus senegalensis per la cura dell’asma. Guiera senegalensis per la cura delle ulceri esterne ed interne.
     
     
     
    RIEPILOGO FONDI RACCOLTI –  RIEPILOGO FONDI EROGATI
     
    1996 31-12 £ 58.855.300 1996 £ 20.000.000
    1997 31-12 £ 136.401.845 1997 £ 143.000.000
    1998 31-12 £ 137.962.995 1998 £ 95.000.000
    1999 31-12 £ 165.820.234 1999 £ 185.000.000
    2000 31-12 £ 165.396.612 2000 £ 144.000.000
    2001 31-12 € 108.817,34 2001 € 76.435,63
    2002 31-12 € 197.572,73 2002 € 181.500,00
    2003 31-12 € 141.446,92 2003 € 124.000,00
    2004 31-12 € 242.105,20 2004 € 215.000,00
    2005 31-12 € 204.478,57 2005 € 240.000,00
    2006 31-12 € 378.011,54 2006 € 248.480,10
    2007 31-12 € 519.176,28 2007 € 444.454,15
     
    • Vuoi anche tu contribuire a far camminare un bambino poliomielitico africano povero per farlo sorridere alla vita? Fa’la tua offerta libera all’U.T.A. (€15,00 al giorno).
    • Vuoi fare da solo? Fa’un’ erogazione di €2.500,00
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    • Vuoi adottare un posto letto della Pediatria per un anno? Fa’un’ erogazione di €3.500,00.
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    Basta inserire questo numero nell’apposito spazio sul modulo della denuncia dei redditi da parte di chi compila la denuncia.
     
      
     
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